N. 8 – 2009 – Contributi
Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra
solidarietà e profitto *
Università di Sassari
Sommario: 1. Il problema del ribā’
nel sistema musulmano: le fonti. – 2. Le
tipologie di operazioni illecite. – 3. Il fondamento giustificativo del divieto di ribā’ e la modernizzazione dell’economia
nell’Islam. – 4. Integrazione cooperativa e liceità del profitto
negli strumenti contrattuali consentiti. – 5. Ribā’ e modello bancario musulmano. – 6. Una proposta di sintesi: il microcredito come strumento di
armonizzazione tra tradizione islamica e capitalismo occidentale.
La
dottrina dell’Islam pone, specie nelle sue versioni più radicali,
un penetrante limite al profitto ricavabile dalle operazioni di finanziamento.
Dall’esame dei principî in base ai quali il prestito ad interesse (ribā’)
viene riguardato secondo il diritto musulmano si possono ricavare, con
sufficiente chiarezza, le ragioni del divieto che lo colpisce ed il
perché esso sia ancora un rigido caposaldo, almeno sotto il profilo
declamatorio, del relativo sistema. Su queste basi, il presente studio è
finalizzato ad individuare il grado di compatibilità che talune proposte
finanziarie innovative, specie il c.d. microcredito solidale[1],
mostrano rispetto alle regole che governano le attività creditizie nel
mondo islamico.
Premessa
necessaria del discorso consiste nel sottolineare quanto l’etica
musulmana consideri strettamente interdipendenti l’attività
economica e la questione del lecito (halal)
e dell’illecito (haram),
valutandone il rapporto secondo parametri forniti dai valori morali e sociali
che l’individuo è obbligato a rispettare nelle sue differenti
sfere d’azione. Pur essendo favorito lo sviluppo produttivo[2],
se ne sottolinea la coerenza con l’ordine morale divino, che predica la
giustizia, l’equità e, conseguentemente, il perfetto equilibrio
delle prestazioni contrattuali[3].
In questo contesto si inserisce il divieto di ribā’[4], in quanto l’usura e
l’interesse che ne sono alla base costituiscono manifestazione di un
arricchimento ingiustificato produttivo di uno squilibrio tra le prestazioni[5].
Nonostante questa coerenza logica nei fondamenti
della proibizione dell’interesse, è dato riscontrare una
difficoltà di fondo a comprenderne appieno la ratio[6];
questa difficoltà deriverebbe proprio dalla mancata considerazione della
totalità dei valori che l’Islam esprime[7],
particolarmente la giustizia socio-economica e l’equa distribuzione della
ricchezza[8].
Di questi presupposti etici dovrà, pertanto, tenersi conto costantemente
nell’illustrazione delle linee essenziali del divieto di ribā’
[9].
In specie, tra i più rilevanti, e
caratterizzanti, insegnamenti del diritto islamico ai fini
dell’attuazione di un ideale di giustizia e dell’eliminazione dello
sfruttamento nelle transazioni economiche, vi è la proibizione di qualunque
forma di arricchimento ingiustificato (akl amwal alnas bi al-batil)[10]
e, particolarmente, di ricevere qualsivoglia vantaggio monetario in un rapporto
di scambio senza la corresponsione del giusto controvalore[11].
Atteso che da un punto di vista semantico, ribā’ letteralmente
assume il significato di incremento (ziyadat), addizione, sviluppo o
espansione[12],
si comprende allora perchè nella Shari’ah, il ribā’
tecnicamente fa riferimento al “premio” che deve essere corrisposto
al concedente da colui che ha ricevuto in prestito una somma di danaro, oltre
l’ammontare del capitale e come condizione per il prestito o per una
dilazione della scadenza per la restituzione[13].
A questo proposito, si discute se attribuire al
termine ribā’ il
significato di usura, dal che risulterebbero vietati esclusivamente i tassi di
inusuale ammontare, ovvero considerarlo nel senso di interesse; in tal modo si
amplierebbe l’ambito applicativo della proibizione fino a ricomprendervi
qualunque eccedenza rispetto al capitale prestato[14].
Da un punto di vista definitorio, il maggior consenso[15]
è dato alla nozione di ribā’ come un profitto o un
guadagno illecito[16]
derivante dalla non equivalenza nel controvalore di prestazioni reciproche,
relative allo scambio tra due beni della medesima specie o del medesimo genere
e rette dalla medesima giustificazione[17].
I
versetti del Corano sul tema, considerati secondo l’ordine della loro
rivelazione, mostrano una differenza di tono se si confrontano quelli
“meccani” e quelli “medinesi”, nei quali ultimi
è presente una netta proibizione del ribā’[18].
Dalla complessiva lettura delle fonti coraniche si evince sostanzialmente che
l’usura è, sotto il profilo teologico-giuridico, un peccato
capitale, anche se non è escluso il perdono per quanti fanno atto di
contrizione dopo averla praticata (seppure, in caso di recidiva, la punizione
non potrà che essere la morte terrena e la dannazione dell’anima)[19].
La regola assoluta consiste, perciò, nella totale trasparenza del bene
prestato e del bene reso, di quanto venduto e del prezzo per esso pagato[20].
Qualunque contratto, compravendita o altro schema economico, presenti un
guadagno illecito che sconfina nell’usura, è, conseguentemente,
dichiarato viziato (fasid), in quanto
viola il principio in base al quale le obbligazioni delle parti debbono
presentare un perfetto equilibrio di valori[21].
In particolare, vi è una netta preferenza dei giuristi islamici per gli
scambî in cui entrambe le prestazioni vengono adempiute istantaneamente o
contemporaneamente, specie in relazione ai contratti che dispongono su beni
soggetti a mutamento di qualità o valore nel corso del tempo[22];
in tal modo, difatti, si evita la speculazione illecita che consentirebbe ad
una delle parti di ottenere vantaggî iniqui e non proporzionali rispetto
all’attività svolta[23].
Sul divieto di ribā’ e sulla
necessità di temperarne il rigore[24]
in base ad un’esegesi delle relative fonti più coerente con
l’evoluzione dei rapporti socio-economici[25],
si riscontrano articolate opinioni delle quali in questa sede merita
sinteticamente dar conto[26].
Il concetto di ribā’ è
stato specificamente studiato in relazione alla compravendita, particolarmente
per quanto concerne l’oggetto della medesima, prima di essere esteso a
tutte le operazioni giuridiche implicanti uno scambio[27].
La compravendita costituisce, pertanto, un punto di osservazione privilegiato
per comprendere la portata del divieto in esame: difatti, nel Corano si
rinviene un’affermazione, che istituisce un chiaro nesso tra i due
istituti, secondo la quale “…Allah ha permesso il commercio e ha
proibito l’usura” (Sura II, versetto 275). In effetti, la compravendita è sempre
stata considerata il tipico contratto nel diritto islamico, tale da costituire
un modello per le altre operazioni negoziali; si comprende allora il
perché nel versetto citato il termine bay‘ venga tradotto
come commercio[28].
La distinzione tra usura e commercio (tiğāra) riemerge in
particolare nella diversa prospettiva che taluni giuristi islamici accolgono in
relazione alle forme di ribā’ alle quali si fa comunemente
riferimento, il c.d. ribā’ al-qarud, relativo all’usura
nei prestiti di denaro – menzionato anche come ribā’ al
nasi’ah – ed il c.d. ribā’ al-buyu, che si
riferisce all’usura nel commercio; quest’ultimo si articola a sua
volta nel ribā’ al-fadl, ossia lo scambio simultaneo di beni
dello stesso genere in qualità o quantità diseguali, e nel ribā’
al-nisa, definibile come scambio non simultaneo di beni dello stesso genere
in qualità o quantità eguali[29].
Alcuni autori[30]
articolano le transazioni usurarie nelle tre categorie del ribā’
al Jahiliyyah, ribā’
al nasi’ah e ribā’
al-fadl, evidenziando, in riferimento alla prima, la necessità di
dare risalto all’origine storica del divieto in discorso; inoltre, il ribā’
al Jahiliyyah viene posto in diretto collegamento con il Corano, mentre del
ribā’ al nasi’ah e del ribā’ al-fadl
si è sottolineata la derivazione dagli Ahàdìth del
Profeta[31].
Nella Shari’ah, il termine ribā’
viene però sostanzialmente utilizzato in due sensi, come ribā’
al nasi’ah e come ribā’
al-fadl[32].
Nel primo senso, per nasi’ah[33]
si intende la dilazione concessa al debitore per la restituzione del prestito
in cambio della corresponsione di un incremento rispetto all’ammontare
originario della somma prestata[34];
il riferimento è, perciò, all’interesse sul prestito, al
quale si riferisce l’affermazione coranica “Allah… ha
proibito l’usura”. La proibizione del ribā’ al
nasi’ah implica essenzialmente che la fissazione anticipata di una
controprestazione eccedente il capitale, come corrispettivo per la dilazione
concessa, non è permessa dalla Shari’ah. La natura della
proibizione è vista in senso assai rigido[35],
anche in base al fatto che non vi è possibilità, secondo
l’opinione dominante, per sostenere che il ribā’ si
riferisca all’usura e non all’interesse, in quanto il divieto
colpisce l’accordo volto a individuare come condizione del prestito anche
un piccolo dono, servizio o favore; in sintesi, qualunque incremento rispetto a
quanto originariamente concesso che sia richiesto in funzione del prestito deve
considerarsi illecito[36].
Per quanto concerne, invece, il c.d. ribā’
al-fadl, il dibattito si è concentrato sugli Ahàdìth
di Maometto[37]
nei quali si richiede che lo scambio di oro, argento, grano, orzo, datteri e
sale avvenga in modo equo e corretto, ossia per quantità corrispondenti[38].
Gli Ahàdìth in questione indicano, più
precisamente, le regole da applicarsi nei casi di vendita dei beni menzionati,
stabilendo che questi (definiti ribawi, o relativi al ribā’)
possano essere scambiati l’uno verso l’altro, purché lo
scambio avvenga immediatamente (“di mano in mano”), mentre lo
scambio di beni appartenenti al medesimo genere (ad esempio, oro contro oro)
è permesso unicamente per eguali quantità[39].
Le principali questioni sul tema concernono, anzitutto, la ragione del solo
riferimento ai sei beni sopra elencati e, successivamente, la giustificazione
della necessaria equità nello scambio. In ordine al primo quesito, si
è sostenuto che oro, argento, grano, orzo, datteri e sale fossero
utilizzati come moneta nei primordi dell’era islamica[40]
e che il significato attuale della menzione di questi sia l’estensione
del ribā’ al-fadl ad ogni scambio concernente un qualsivoglia
bene contro denaro o altri beni utilizzati come strumento monetario[41].
Più articolata risulta invece essere la discussione relativa al secondo
quesito, volta sostanzialmente ad individuare l’esatto significato
dell’espressione ribā’ al-fadl. Ciò che viene
richiesto nelle relative transazioni è, in primo luogo, la giustizia e
la correttezza; la giustizia è assicurata dalla possibilità di
accertare l’eguale valore dei beni scambiati, il che non risulta agevole
nel momento in cui essi vengono fatti oggetto di permuta con altri beni, in
quanto l’equivalenza risulterà approssimativa e, residuando la
possibilità di un eccesso di valore a favore dell’una o
dell’altra parte, lo scambio potrebbe rivelarsi ingiusto. Da questo punto
di vista il denaro assurge al ruolo di perequatore negli scambî, in
quanto idoneo a fornire un’esatta unità di misura del valore. La
proibizione del ribā’ al-fadl concerne, pertanto, ogni
conseguimento di un valore maggiore rispetto alla propria prestazione in uno
scambio, ponendosi così come precetto di chiusura per qualunque forma di
sfruttamento attraverso transazioni inique[42].
Il dovere di astensione da simili pratiche illecite è completato
dall’esortazione[43]
ad astenersi non solo dal ribā’ ma anche dal ribah[44].
Il secondo lemma, letteralmente significante “dubbio” o
“sospetto”, si riferisce a qualunque prestazione appaia simile al ribā’
o generi dubbi sulla propria liceità[45].
In tal modo, si precisa chiaramente il divieto di perseguire guadagni derivanti
dall’ingiustizia nei confronti di altri soggetti ovvero dal loro
sfruttamento[46].
In sintesi, l’apprezzamento del ribā’ al-fadl ad opera
dei giuristi musulmani non è univoco, in quanto, mentre taluni lo
ritengono categoricamente proibito in relazione agli insegnamenti islamici,
altri lo considerano lecito, pur se inopportuno[47],
poiché, sotto il profilo pratico, esso in taluni casi appare non
dissimile dal ribā’ al nasi’ah, senz’altro
illecito (ciò che legittima il suggerimento di astenersi dalle relative
pratiche)[48].
Un’articolata posizione dottrinale, peraltro, giustifica la non
automatica illiceità del ribā’ al-fadl in
considerazione del fatto che lo scambio tra quantità differenti, in cui
taluno consegua più di quanto abbia dato, può risultare
perfettamente lecito e ammissibile qualora si siano prestati beni che, seppur
di minor ammontare, siano qualitativamente superiori rispetto a quelli ricevuti[49].
Può dirsi comunque che, in base alla
distinzione cennata, sono comunemente considerati di natura usuraria: i)
qualsiasi eccedenza quantitativa o differenza qualitativa rispetto a quanto
concordato all’atto della conclusione del contratto; ii) i
servizî aggiuntivi prestati dal debitore in assenza di apposita
pattuizione; iii) qualunque ritardo nell’adempimento o modifica
delle relative modalità (ivi compreso il luogo in cui debba essere
eseguita la prestazione).
Quanto alla giustificazione razionale del divieto
di ribā’[50],
si sono evidenziati, in questo senso, a) l’esigenza di assicurare
un’equivalenza matematica tra le prestazioni[51];
b) la necessità di evitare lo sfruttamento economico[52];
c) la contrazione del commercio di valuta e di generi alimentari[53];
d) il collegamento tra liceità del guadagno e rischio produttivo[54];
e) l’utilizzo del denaro e dei mercati per allocare e moderare i rischi [55].
Specie nell’epoca odierna, peraltro, un
significativo numero di giureconsulti musulmani ha tentato di individuare gli
strumenti necessarî per poter consentire lo sviluppo delle
attività economico-commerciali nei paesi islamici, prendendo le mosse
dal fatto che la teoria del prestito ad interesse, come applicata ai tempi del
Profeta e all’epoca dello sviluppo del credo islamico, non sia più
coerente con le esigenze del mondo contemporaneo, il che richiede una nuova
classificazione del ribā’ conforme alle attuali dinamiche
finanziarie e produttive. Non mancano, perciò, le proposte volte a porre
il sistema bancario islamico in armonia con il divieto di ribā’ e,
allo stesso tempo, renderlo coerente con le esigenze di sviluppo[56].
Alcune di esse si caratterizzano per un’impostazione sostanzialmente
elusiva, seppur formalmente rispettosa, delle imposizioni sciaraitiche[57];
in particolare, si assiste ad una pluralità di veri e proprî
sotterfugî legali (hiyal), tra i quali, ad esempio, la vendita a
termine seguita dall’acquisto in contanti[58],
oppure schemi contrattuali che trovano, singolarmente, accoglienza e sviluppo
in ambienti tradizionali dove esprimono l’esigenza di attenuare le
difficoltà nella vita quotidiana dell’homo islamicus[59].
Più articolate sono le argomentazioni che limitano l’ambito di
applicazione del ribā’, come quella in base alla quale il
relativo divieto concernerebbe le sole persone fisiche, in quanto le persone
giuridiche non potrebbero commettere atti religiosamente riprovevoli e,
pertanto, non sarebbero censurabili sotto questo profilo[60].
Questa tendenza trova conferma anche nell’idea, costituente una
presunzione generale, che gli interessi si intendono non stipulati anche se sia
possibile quantificarli in virtù di previsioni legali o in base agli
usi, se le parti non ne abbiano espressamente fatto menzione[61],
ovvero nel richiamo, così da rendere cogente l’accordo tra le
parti, al principio coranico dell’obbligo di prestare fede alle
obbligazioni assunte (Sura V, versetto 1: “O voi che credete,
rispettate gli impegni.”), anche qualora il suddetto accordo preveda
un tasso di interesse superiore rispetto al limite massimo stabilito dalla
legge o dalla giurisprudenza[62].
In corrispondenza alla linea permissiva sono state
delineate le misure idonee a ridurre le ipotesi di sfruttamento, le quali
riguardano, oltre alla nazionalizzazione in taluni stati delle attività
bancarie[63],
anche la compartecipazione della banca e dei depositanti nei profitti e nelle
perdite, così da rimuovere le similitudini tra interesse e usura[64].
Le opinioni che supportano l’abbandono dell’interesse come perno
dell’attuale sistema bancario sottolineano la necessità di una
graduale costruzione di differenti schemi di sviluppo economico, alternativi
alla logica del profitto. La definizione dei suddetti schemi prende le mosse
dal presupposto che la proibizione islamica del ribā’ persegue
lo scopo di evitare che un soggetto, il quale non abbia profuso alcun tipo di
sforzo o impegno, riceva una ricompensa, come tipicamente avviene nel prestito
ad interesse, in cui il concedente non si impegna in alcun tipo di
attività per conseguire il guadagno che riceve[65].
A ciò deve aggiungersi la connessa notazione che “l’ozio
è fortemente disapprovato dall’Islam, e una società fatta
di ricchi e oziosi capitalisti che moltiplicano la loro ricchezza
esclusivamente con lo spartirsi i frutti del lavoro altrui non è una
società sana, e non è quella che sarebbe promossa in base agli
insegnamenti dell’Islam”[66].
Inoltre, si afferma, il prestito ad interesse non sembra ricevere
legittimazione nel momento in cui sia destinato a sostenere le attività
produttive di privati ovvero dello Stato tramite il ricorso al debito pubblico
in funzione strumentale alle esigenze dei cittadini – così che il
concedente predisponga il capitale necessario a consentirgli di fronteggiare
evenienze impreviste o che sia disponibile a seguito della cessazione delle
proprie attività di lavoro in tarda età – e non venga
invece concesso a fini di consumo individuale. La valutazione positiva che
taluni propongono della prima ipotesi è ricollegata alla mancata
considerazione del fatto che, in una società fondata sugli insegnamenti
islamici, non vi è bisogno di ricorrere al prestito con interesse per
soddisfare esigenze individuali, dato che sarà lo Stato a farsi carico
delle medesime[67]. L’abolizione dell’interesse
come cardine del sistema economico sarà possibile allora, nel pensiero
dei suoi sostenitori, solo nel momento in cui si osservino i precetti islamici
in modo assoluto e nella loro interezza[68];
la ragione del contrasto con le concezioni dei rapporti economici oggi
imperanti viene, in particolare, ravvisata nel fatto che questi sono basati su
una logica materialistica, mentre gli insegnamenti dell’Islam si fondano
precipuamente sulla soddisfazione spirituale[69].
Questo punto di partenza teologico-filosofico è condotto a conseguenze
operative coll’imputare allo Stato l’obbligo di individuare i mezzi
che assicurino il denaro necessario per progetti economici e sociali
alternativamente al prestito con interesse[70].
In tale prospettiva si comprende la funzione attribuita al sistema bancario
nello Stato islamico, la quale non si risolve esclusivamente nel concedere
mutui onerosi o assicurare il credito, bensì, soprattutto,
nell’agevolare i membri della comunità per i loro bisogni
finanziarî in cambio di corrispettivi da essi sostenibili[71].
Lo Stato agevola l’esercizio di questa funzione garantendo a colui che
concede il prestito un’adeguata compensazione, nel momento in cui il
debitore sia divenuto incapace di restituire la somma attribuitagli a causa di
eventi che si collocano al di fuori del proprio controllo.
Ulteriori misure di attuazione degli ideali
islamici in campo economico tramite l’azione dello Stato sono state
individuate: a) nella predisposizione di un piano che preveda in modo puntuale
le attività produttive da realizzare, specie nel settore industriale,
attingendo le risorse necessarie mediante il ricorso alla pubblica
contribuzione ovvero, in caso di insufficienza di quest’ultima, tramite
la sottoscrizione da parte dello Stato di obbligazioni per il valore nominale;
b) nell’introduzione di un sistema cooperativo, sia per
l’assistenza a progetti industriali di modesta entità sia come
schema organizzativo dell’attività bancaria, del quale si sono
avuti positivi riscontri in esperienze giuridiche non islamiche[72];
c) nell’attribuire allo Stato il compito di intervenire per la corretta
distribuzione ai membri della comunità delle necessità di vita,
con ciò non lasciando spazio alle attività di monopolisti e
speculatori senza scrupoli[73].
Ne consegue che la completa abolizione
dell’interesse può essere attuata, con apprezzabili
probabilità di successo, qualora lo Stato islamico doti delle necessarie
risorse finanziarie, in cambio della partecipazione ai relativi profitti,
organizzazioni di carattere cooperativo che perseguano molteplici scopi. Per
conseguire questo obbiettivo il sistema bancario dovrebbe essere completamente
riorganizzato[74],
collegando le banche commerciali con uno stretto controllo di importazioni ed
esportazioni da parte dello Stato[75];
inoltre, il credito per le attività industriali, agricole e commerciali
dovrebbe essere integralmente gestito da organizzazioni cooperative[76];
infine, sarebbe auspicabile che lo Stato assicuri crediti individuali senza
interessi per venire incontro a particolari casi di difficoltà personali[77].
Queste posizioni si caratterizzano per
l’adesione, più o meno ortodossa, alla prospettiva limitativa del ribā’
in senso ampio. Merita, peraltro, sviluppare una distinzione, prima solo
accennata, all’interno di prestiti ad interesse che subiscono restrizioni
differenti in quanto, in riferimento a taluni, si propende per un ambito di
applicazione più esteso. L’alternativa meritevole di attenzione si
articola nel ribā’ di produzione e nel ribā’
di consumo[78].
La proibizione si accentrerebbe con particolare vigore su quest’ultimo,
in quanto maggiormente suscettibile di favorire lo sfruttamento dei meno
abbienti da parte dei capitalisti. Quanto invece al ribā’ di
produzione, questo si innesterebbe nelle pratiche di finanziamento che i
piccoli risparmiatori sono soliti concedere alle grandi imprese: in tale
ipotesi muta radicalmente l’oggetto della tutela, poiché, se nel
prestito con interesse per scopi di consumo era il debitore a dover ricevere
protezione dall’ordinamento giuridico, nel finanziamento di
attività produttive sarà il creditore a necessitare di adeguate
garanzie nei confronti di colui al quale ha concesso il capitale. In questo
secondo caso, sarebbe opportuno consentire l’interesse in quanto esso
è lo strumento migliore per rendere fruttiferi i risparmi che chi ha
concesso il prestito ha accumulato con il proprio lavoro; più precisamente,
detto interesse costituirebbe il mezzo per la conservazione del potere di
acquisto del denaro[79],
così che esso dovrebbe considerarsi valido o libero (mubah) se
non oltrepassa la svalutazione della moneta in periodi di instabilità
finanziaria, in tal modo rispettando pienamente il precetto coranico che
richiede l’equilibrio di valore nelle transazioni economiche[80].
In tal senso milita l’opinione di chi ritiene che la proibizione
dell’interesse sul denaro prestato a un debitore economicamente forte ne
consolidi ulteriormente il predominio sul piccolo risparmiatore, il quale non
potrà dedicarsi ai doveri (zakat e sadaqat, ossia,
semplificandone la funzione, forme di elemosina nei confronti dei poveri, delle
quali la prima consiste in una tassa prelevata dai patrimoni più
consistenti dei musulmani[81],
il cui pagamento costituisce un dovere religioso, mentre la seconda è
sostanzialmente un’elemosina volontaria[82])
previsti dal Corano nei confronti dei confedeli[83].
La posizione dei moralisti, che paventano lo sfruttamento sistematico dei meno
abbienti tramite il ribā’, giustifica anche in questa ipotesi
la sanzione di nullità assoluta che colpisce il prestito
“usurario”; il contratto, dichiarato nullo (batil),
è, però, il risultato di una notevole limitazione della
libertà contrattuale suscettibile di contrarre lo sviluppo
dell’economia musulmana[84].
A
questo proposito, la predeterminazione di comportamenti economici rispettosi
dell’etica islamica, come si è fatto notare[85],
presenta un ulteriore profilo altamente problematico: difatti, molti tra gli
studiosi, nelle discussioni finalizzate alla costruzione dei relativi modelli,
ricorrono al libero ragionamento soggettivo (ra’y), senza prestare la dovuta attenzione alle specifiche
metodologie sviluppate originariamente dalla giurisprudenza islamica per la
deduzione di norme, principî e regole di condotta dalle radici del diritto musulmano (usùl al-fiqh)[86].
Inoltre, le osservazioni finora riportate mostrano che l’allocazione e
distribuzione delle risorse secondo i precetti sciaraitici funzionerebbe in un
mondo nel quale gli standards di
comportamento suggeriti fossero generalmente osservati, ciò che comporta
l’impossibilità di considerare la letteratura economico-giuridica
in questo settore come una descrizione fedele della realtà dei paesi
islamici[87].
In
particolare, per valutare la fondatezza della critica allo status quo economico nell’Islam[88],
merita considerare la pretesa inidoneità dei meccanismi sviluppati dal
diritto musulmano nel campo delle attività non umanitarie; il prestito (qard) nel diritto islamico è
stato considerato, difatti, unicamente come strumento di supporto nei confronti
di soggetti che versassero in particolare stato di bisogno[89].
Ne consegue che, non esistendo meccanismi adeguati per la concessione di
prestiti a fini diversi dagli scopi umanitari, coloro che ne necessitano
debbono ricorrere, si è detto, a sotterfugî legali per poterne
disporre[90].
Tale situazione deriva, secondo alcuni, dalla mancata promozione di un punto di
vista, che si fa risalire allo stesso Profeta Maometto, il quale ha
incoraggiato i proprî seguaci a saldare i loro debiti personali nel modo
migliore, anche con valori quantitativamente superiori rispetto
all’ammontare originario. Questa prospettiva non ha ricevuto uno sviluppo
coerente con l’agevolazione di prestiti non umanitarî o la
promozione di meccanismi che tendano a compensare il concedente per simili
scopi, apparentemente a causa della pervasiva influenza di una stretta
interpretazione del divieto di ribā’[91].
Per superare le difficoltà segnalate e
armonizzare le regole commerciali islamiche con le esigenze della moderna
economia[92]
sono stati proposti strumenti giuridici partecipativi, con i quali il
prestito con interesse viene sostituito dall’integrazione tra soggetti
economici in cui la condivisione dei profitti e delle perdite derivanti dalla
comune intrapresa giustifica la remunerazione del finanziamento concesso[93].
Tra le forme in cui la suddetta integrazione può aver luogo merita,
anzitutto, menzionare la Mudarabah[94],
ossia la messa a disposizione delle risorse manageriali, da parte di un
soggetto che richiede il capitale necessario per la realizzazione
dell’attività economica, a terzi con i quali questi divide gli
eventuali profitti in una proporzione predeterminata[95];
più precisamente, la parte alla quale spetta la gestione
dell’attività finanziata (mudarib)[96],
utilizza i fondi secondo le modalità concordate con il finanziatore (rabb al-mal), in modo da restituire a
quest’ultimo il capitale unitamente ad una quota di quanto ricavato nella
misura fissata dal contratto[97].
Le caratteristiche della Mudarabah possono,
allora, essere descritte nel seguente modo: i)
la divisione dei profitti tra le due parti deve necessariamente effettuarsi
secondo un criterio proporzionale, non essendo consentito concordare un importo
forfettario o una remunerazione senz’altro garantita a favore del
finanziatore; ii) quest’ultimo
non sopporta perdite che eccedano il capitale fornito; iii) il gestore dell’attività non partecipa alle
perdite, se non nella misura in cui il proprio tempo o gli sforzi profusi
nell’affare non ricevano una contropartita[98].
[99]
Una
seconda possibile forma lecita di finanziamento remunerato si ha con la Musharaka, mediante la quale due o
più soggetti contribuiscono sia alle risorse manageriali sia al
finanziamento dell’impresa in quote eguali o diseguali, i profitti sono
ripartiti in proporzione equa (seppur non necessariamente identica), mentre le
perdite debbono essere suddivise in rapporto al capitale attribuito[100].
In specie, l’imprenditore conferisce una parte del capitale ulteriore
rispetto agli importi erogati dal finanziatore, in tal modo esponendosi al
rischio di perdite finanziarie. Sotto questo profilo emerge netta la
distinzione con la Mudarabah[101],
anche tenuto conto del fatto che il contributo del gestore al capitale di
rischio gli consente di pretendere una percentuale dei profitti maggiore di
quanto avrebbe ottenuto mediante lo schema che contrappone la gestione di una
parte all’apporto di capitale dell’altra[102].
A
questi modelli si giustappone, pur con diversità di fini, la
realizzazione dell’attività economica in forma cooperativa, della
quale si evidenzia come essa sia funzionale ad imprese di grandi dimensioni ed
eviti contemporaneamente gli inconvenienti, sotto il profilo della giustizia
socio-economica, che le economie di larga scala sono suscettibili di produrre[103].
L’integrazione di Mudarabah, Musharaka e schemi cooperativi[104]
è proposta, pertanto, come alternativa alla penetrazione della logica
dell’interesse all’interno del mondo islamico[105],
in quanto in grado comunque di stimolare gli investimenti, remunerare le
abilità manageriali e accelerare lo sviluppo economico[106].
Sotto
il profilo strettamente inerente all’attività bancaria, gli
studiosi del diritto islamico hanno compiuto sforzi significativi al fine di
sottrarre la medesima al divieto di prestito ad interesse[107];
le principali argomentazioni addotte sotto questo profilo possono così
riassumersi: i) l’interesse
bancario non è configurabile come attuazione del ribā’ al
nasi’ah, non ricadendo nella
previsione coranica che stigmatizza l’usura col riferimento alla
duplicazione che essa produce del capitale prestato[108];
ii) può effettuarsi un’equiparazione tra interesse bancario
e ribā’ al-fadl nella sottoposizione di entrambi ad un vaglio
di liceità caso per caso, non potendo entrambi riguardarsi come
automaticamente illeciti; iii) da un punto di vista strutturale e funzionale,
il prestito ad interesse risulta essere una forma di Mudarabah, in quanto basato sulla
compartecipazione tra finanziatore ed esercente l’attività
economica, che si accordano al fine di ripartire equamente i profitti; iv) in un’ottica di opportunità,
il prestito ad interesse deve essere consentito in riferimento al Maslaha al-‘Amma, ossia al
benessere dei Musulmani; v) infine,
si è pragmaticamente osservato che l’interesse bancario, in quanto
coerente con le esigenze di sviluppo economico del mondo musulmano, ricadrebbe
sotto la massima in base alla quale le necessità rendono lecito
ciò che è illecito[109].
Queste argomentazioni, tuttavia, non sono state reputate convincenti da chi
ritiene che: a) non vi siano
sostanziali differenze tra l’interesse richiesto dalla banca e il ribā’
al nasi’ah, in quanto in
entrambi vi è un termine concesso in cambio di un’eccedenza
rispetto al capitale corrisposto; b) non possa parlarsi del prestito
bancario come di una forma di Mudarabah,
poiché, nel primo caso, se le attività economiche finanziate non
andassero a buon fine, il finanziatore non perderebbe la percentuale di
profitto dovutagli, mentre colui che ha concretamente effettuato
l’intrapresa dovrebbe rinvenire i mezzi necessarî per far fronte
alle perdite e alla remunerazione del prestito ottenuto, oltre ad affrontare la
mancata compensazione del lavoro svolto; c)
vi sia un’intima contraddizione nel ribadire, da un lato, la non
riconducibilità del prestito ad interesse bancario sotto il divieto di ribā’
e, successivamente, invocare, al
fine di legittimarlo, gli argomenti del benessere dei Musulmani e della massima
di necessità, la quale rende lecito ciò che è illecito (in
quanto, da un lato, se ne predica la liceità, dall’altro, si
afferma che, benché illecito, vi sono interessi superiori che ne
consigliano comunque l’adozione)[110].
Ad onta di ciò, peraltro, l’ortodossia
islamica si scontra sul punto con ulteriori profili di criticità
circa la tenuta dei principî sciaraitici relativi al settore finanziario;
difatti, questi poggiano, anzitutto, sull’assunto di fondo che il modello
partecipativo presenta, ossia che tutte le banche in uno stato aderiscano al
suddetto modello in tutte le transazioni poste in essere. Le banche islamiche,
invece, laddove operano in economie “miste”, competono con le
banche che presentano il prestito ad interesse come perno della propria
attività[111],
così che, nell’ambito del loro complessivo volume di affari, le
transazioni rispettose dell’etica musulmana risultano praticamente irrilevanti.
Inoltre, pur nei casi in cui l’intero sistema finanziario sia islamizzato
(come avviene ad esempio in Pakistan), gli operatori bancarî ricorrono
senz’altro a tecniche che assicurano loro un ricavo predeterminato senza
partecipazione ai rischî inerenti all’attività sovvenzionata[112].
Un altro significativo impedimento alla piena operatività del modello
partecipativo, sorto come succedaneo dell’interesse bancario, è
dato dalla difficoltà di standardizzare e rendere formali le procedure
di amministrazione e valutazione, specie in ordine all’accertamento delle
caratteristiche di finanziabilità dei progetti individuali, il che ha
comportato, unitamente a taluni risultati insoddisfacenti dei prestiti con
condivisione dei profitti e delle perdite, la restrizione nell’uso, o il
completo abbandono, dei contratti ispirati al suddetto modello da parte delle
banche islamiche[113].
Da quanto
esposto deriva la difficoltà di
inserire in un ambito socio-economico in cui l’interesse è
negativamente valutato sotto il profilo etico-giuridico, per la peculiare
conformazione anfibia del sistema islamico[114],
la previsione di una controprestazione, seppur minima, al fine di
responsabilizzare il sovvenuto e così fuoriuscire dalla logica della
mera erogazione. Questo scopo è, invece, conseguibile adottando il
modello del microfinanziamento (o microcredito), già operativo e collaudato,
come si è detto, in taluni sistemi di matrice islamica, in cui
l’assenza di garanzie e la quantificazione dell’interesse (esigua,
se non in valore assoluto, almeno sotto il profilo della possibilità di
accesso al credito[115])
potrebbero giustificarsi, oltre che per il particolare substrato
socio-economico e per le finalità che ci si prefigge di raggiungere, in
base all’influsso (consapevole o meno) dei principi della Sharī’a.
Peraltro, secondo un approccio rigorosamente conservatore, la pratica del
microcredito, valutata nella sua conformità ai precetti islamici,
è stata oggetto di severe critiche, le quali hanno posto in evidenza
che: i) qualsiasi forma di prestito remunerato con interesse è
inaccettabile in quanto ricadente nella proibizione del ribā’[116];
ii) la concessione dell’elemosina (come zakat, nel senso
riferito di imposta musulmana in favore dei meno abbienti), alla quale il
microcredito si contrapporrebbe, col richiedere una controprestazione per il
finanziamento concesso, costituisce un principio fondamentale dell’Islam,
che non può essere disatteso; iii) il ruolo giocato dalle donne
nelle istituzioni di microcredito è in contrasto con l’etica
musulmana[117].
Nonostante ciò, in ambienti caratterizzati da un’ortodossia
puntuale nell’applicazione dei principî islamici, il microcredito
è stato considerato un efficace modello di intervento ad opera dello
Stato per la perequazione di contesti economici fortemente squilibrati[118].
Ciò dimostra che, contro il diffuso scetticismo circa la
possibilità di armonizzare la legge sciaraitica con gli schemi
civilistici occidentali in ordine all’interesse bancario[119],
può impostarsi la ricerca delle basi per una sintesi tra le opposte
posizioni. In specie, merita attenzione il concetto di
“diffusione”, che fa leva sul trasferimento di elementi culturali
da una società ad un’altra, ciò che comporta,
necessariamente, un processo di reinterpretazione nonché di cambiamento
in taluni profili costitutivi. Proprio tramite l’utilizzo di questo
concetto, si afferma, le istituzioni e gli strumenti di circolazione e
allocazione delle risorse, sviluppati nella tradizione capitalistica
occidentale, possono essere “islamizzati” e, pertanto, integrati
anche nel mondo musulmano[120].
Su tale base, proporrei come ipotesi di indagine il
ricorso nel nostro sistema a questo metodo di assimilazione e sintesi, ma con
una finalità diversa: l’islamizzazione di istituti occidentali,
nella prospettiva che mi pare più proficua, dovrebbe tendere, anche e
soprattutto, a coniugare l’aspirazione al profitto e la ricerca di un
assetto dei rapporti economici coerente con il dovere di solidarietà, i
cui riflessi siano apprezzati in particolar modo nei sistemi capitalistici. In
più semplici parole, la contaminazione tra gli elementi solidali
derivanti dal diritto musulmano e i contratti di finanziamento della nostra
tradizione potrebbe essere una valida alternativa, socialmente più
desiderabile ed economicamente, forse, altrettanto efficiente, ai modelli di
prestito la cui crisi, specie nell’attuale congiuntura economica, si
palesa con particolare evidenza. La notevole diffusione nel sistema italiano
del ricorso al microcredito[121], il quale è maturato nell’ambiente
culturale finora descritto e che può riguardarsi, con ragionevole
fondamento, come uno tra i più rilevanti esiti della sintesi qui
auspicata, mi pare costituisca una compiuta dimostrazione di ciò[122].
*
Desidero ringraziare il Max-Planck-Institut
für ausländisches und internationales Privatrecht di Amburgo per
la cortese ospitalità offertami durante il soggiorno di ricerca relativo
al presente lavoro. Questo studio è destinato agli Scritti in memoria di Francesco Castro.
[1] Il
microcredito con funzioni lato sensu riconducibili
alla solidarietà sociale ha ulteriormente incrementato il suo sviluppo a
seguito dell’attribuzione, nel 2006, del Premio Nobel per la pace alla
Grameen Bank e al suo fondatore, Prof. Mohamed Yunus, i quali hanno congegnato
la microfinanza al fine di elevare le condizioni economiche della popolazione
del Bangladesh, paese a maggioranza musulmana. Per i necessari approfondimenti
su questa esperienza, di indubbia utilità per la collocazione del
microcredito nel contesto sociale di riferimento, il quale contribuisce a
chiarirne taluni profili disciplinarî di problematica accettazione nel
nostro sistema creditizio (vedi infra nel
testo), rinvio a M. Yunus, Il banchiere dei poveri, Torino, 1999, passim. Che nell’Islam sia stato
anticipato il dibattito sulla “banca etica”, dibattito ancora in
corso nel nostro ordinamento, viene rilevato da G. M. Piccinelli, Banche islamiche
in contesto non islamico. Materiali e strumenti giuridici, Istituto per
l’Oriente C. A. Nallino, Roma, 1996, pp. 12 s.
[2]
Questo favor è accompagnato
dal costante monito a non accumulare la ricchezza senza considerare al contempo
le esigenze di quanti versino in condizioni economiche e sociali svantaggiate,
poichè il comportamento contrario non condurrà alla salvezza nel
mondo terreno o nell’Aldilà, non assumendo un valore intrinseco
agli occhi di Dio (come risulta dal versetto 37 della Sura XXXIV del Corano);
si v. per ulteriori connotazioni A.
Saeed, Islamic Banking and
Interest. A Study of the Prohibition of Riba and its
Contemporary Interpretation,
Leiden-New York-Köln, 1996, pp. 18 s.
[3]
Difatti, una volta conseguita la ricchezza, quanto guadagnato dovrà
essere utilizzato in attività socialmente produttive, atteso che il
Corano considera positivamente l’attività commerciale quando
questa è realizzata in modo equo e onesto (si v. Sura VI, versetto 152
“Non avvicinatevi se non per il
meglio ai beni dell’orfano, finché non abbia raggiunto la maggiore
età, e riempite la misura e date il peso con giustizia…..”;
Sura XXVI, versetti 181 “Colmate la
misura, e non siate fraudolenti”, 182 “e pesate con giusta bilancia”, 183 “Non date agli uomini meno di quel che spetta
loro e non corrompete la terra portandovi disordine”).
La traduzione del Corano dalla quale sono tratte le
citazioni riportate in questo lavoro è curata da H. R. Piccardo, Roma, 2007.
[4]
Nell’indicare un primo approccio al tema rinvio alla voce omonima in A. J. Wensinck – J. H. Kramers (hrsg.),
Handwörterbuch des Islam,
Leiden, 1976, pp. 613-616. Per l’inquadramento del divieto, nella
prospettiva non solo dottrinale, ma anche giuspolitica e coerente alla prassi
della banca islamica, possono indicarsi, senza pretese di esaustività,
oltre al classico studio in lingua italiana di D. Santillana, Istituzioni
di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita,
vol. II, Roma, 1938, pp. 60 ss., anche i seguenti lavori: S. H. Homoud, Islamic banking. The adaptation of Banking Practice to confirm with
Islamic Law, London, 1985, pp. 47 ss.; V.
Nienhaus, Islamic economics,
finance and banking – theory and practice, in Buttherworths Editorial
Staff, Islamic Banking and Finance,
London, 1986, pp. 1 ss.; Id., Islamische Ökonomik in der Praxis:
Zinlose Banken und islamische Wirtschaftspolitik, in W. Ende - U. Steinbach, Der Islam in der Gegenwart,
München, 1996, pp. 164 ss., spec. pp. 167 ss., ove ampie informazioni sul
radicamento territoriale del modello bancario musulmano; N. A. Saleh, Unlawful gain and legitimate profit in Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking2, London-Dordrecht-Boston, 1992, spec. pp. 11
ss.; H. Shirazi (ed.), Islamic Banking,
London-Boston-Dublin-Edinburgh-Hato Rey-Kuala
Lumpur-Singapore-Sidney-Toronto-Wellington, 1990, spec. pp. 12 ss., nella
prospettiva del sistema bancario iraniano; H.
Algabid, Les banques islamiques,
Paris, 1990, pp. 32 ss.; M. U. Chapra, The Nature of Riba and its Treatment in the Qu’ran, Hadits and
Fiqh, in S. Ghazali Sheikh Abod-S. O. Syed Agil-A.
Hj. Ghazali, An introduction to
Islamic Finance, Kuala Lumpur, 1992, pp. 33 ss.; M. Muslehuddin, Banking
and Islamic Law, New Delhi, 1993, pp. 101 ss.; S.
Al-Harran, Partnership Financing:
Self-Help for the Poor, pp. 33 ss.; Id.,
Rural Islamic Investment Companies,
pp. 39 ss., entrambi in Id. (ed.),
Islamic Banking and Finance, Kuala
Lumpur, 1995; N. Comair-Obeid, Le contrats en droit musulman des affaires,
Paris, 1995, pp. 44 ss.; F. Al-Omar
– M. Abdel-Haq, Islamic
Banking. Theory, Practice & Challenges, Karachi, London & New
Jersey (Atlantic Highlands), 1996, pp. 21 ss.; A. Saeed, Islamic
Banking and Interest. A Study of the Prohibition of Riba and its Contemporary
Interpretation, cit., pp. 17 ss.; F..
E. Vogel, The Islamic Law of
Finance, in F.. E. Vogel-S. L. Hayes
III, Islamic Law and Finance.
Religion, Risk, and Return, The Hague – London – Boston, 1998,
pp. 19 ss.; Y. Dutton, The Origins
of Islamic Law, Richmond, 1999, pp. 149 ss.; M. K. Lewis – L. M. Algoud, Islamic Banking, Cheltenham-Northampton, 2001, pp. 34 ss., 185 ss.;
I. Karich, Le Système Financier Islamique. De
[5] Il
divieto di prestito ad interesse costituisce una costante anche nel pensiero
non islamico, a partire dall’Antico Testamento (Esodo, XXII, 25;
Levitico, XXV: 36, 37; Deuteronomio, XXIII: 19, 20), per proseguire con la
filosofia greca ed approdare, infine, al Nuovo Testamento (si v. il Vangelo di
Luca, VI: 34, 35).
In
particolare, l’argomento relativo alla sterilità del denaro, che i
giuristi islamici di stampo conservatore propongono in senso rafforzativo del
divieto di prestito ad interesse, trova significative corrispondenze nel
pensiero di Aristotele (si v. in particolare Etica Nicomachea, IV, 1, 37), il
quale si concentra sulle caratteristiche della moneta come oggetto fisico,
tangibile (essa si presenta realizzata in metallo, è trasportabile,
può essere facilmente afferrata, ha impresso il proprio valore) e,
perciò, in sostanza, concepita in senso esclusivamente numismatico.
Nella visione aristotelica è del tutto assente, allora, qualsivoglia
riferimento al denaro come concetto astratto, assenza che è
riscontrabile anche, e significativamente, presso gli antichi giuristi
musulmani (si v., in tal senso, A. Saeed,
Islamic Banking and Interest. A
Study of the Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation, cit., p. 122).
Un’ampia sintesi delle
correlazioni tra le idee ora menzionate e i principî islamici si rinviene
in P. S. Mills–J. R. Presley,
Islamic Finance, Theory and Practice,
London-New York, 1999, i quali, alle pp. 112 s., fanno notare come qualsivoglia
tentativo di importare nelle società occidentali il divieto di interesse
condurrebbe alla formazione di un mercato nero dei prestiti, essendo oramai
venuto meno il substrato etico-religioso della suddetta proibizione; si v.
inoltre, per ulteriori informazioni storiche,
N. A. Saleh, Unlawful gain and
legitimate profit in Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking, cit.,
pp. 11 s. Per un confronto con i principî cristiani in materia di divieto
di usura rinvio a M. K. Lewis – L.
M. Algoud, Islamic Banking,
cit., pp. 185 ss., e H. Algabid, Les banques islamiques, cit., spec. pp.
51 ss., il quale, in particolare, sottolinea come i paesi in cui si diffuse la
riforma protestante abbiano accettato più rapidamente la legalità
del prestito ad interesse rispetto a quanto verificatosi negli stati cattolici
(p. 52).
[6]
Anticipando quanto verrà trattato nei parr. 3 e seguenti, può
dirsi che questa difficoltà si risolve principalmente nella sottostima
dei problemi applicativi posti dalla finanza nel diritto islamico, la quale,
peraltro, costituisce il settore di maggiore innovazione dei relativi
principî, atteso che si tende a modernizzarne il significato e la portata
al fine di risolvere i suddetti problemi; si v., per le ragioni che
costituiscono ad oggi i principali ostacoli all’applicazione del diritto
islamico nel settore de quo F. E. Vogel, The Islamic Law of Finance, cit., p. 28 s.
[7] Nel
settore qui considerato, in particolare, si sottolinea con vigore
l’esigenza di una sistemazione assiologica dei principî
sciaraitici, in modo tale che gli operatori finanziarî musulmani siano in
grado di individuare ciò che è conforme al diritto islamico
distinguendolo da quanto se ne discosta, senza dover fare necessariamente
riferimento al legislatore in ordine a particolari aspetti di ciascun nuovo
schema economico che la prassi è in grado di offrire (lo sottolinea A. Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the Prohibition of Riba and
its Contemporary Interpretation,
cit., p. 140). Una proposta in questo senso che offre un criterio flessibile di
distinzione, è il riferimento all’ingiustizia come parametro
attraverso il quale si determina se una specifica operazione di prestito abbia
violato o meno il divieto di ribā’; difatti, l’incremento nella controprestazione che una delle
parti riceve in dipendenza di una transazione finanziaria non è per
ciò solo qualificabile come percezione di un interesse vietato, essendo
tale solo qualora comporti un esito concretamente ingiusto per l’altro
contraente. Allora, per accertare l’eventuale ingiustizia si propone di
considerare le circostanze particolari in cui la transazione si è
verificata, le parti che vi addivengono, il potere relativo che esse esprimono
reciprocamente, come anche il contesto socio-economico in cui
l’operazione ha luogo (cfr. op. ult. cit., p. 145 s., nonchè infra, nota 50).
[8] Cfr. M.
U. Chapra, The Nature of Riba and
its Treatment in the Qu’ran, Hadits and Fiqh, cit., p. 41, il quale
nota altresì come “any
attempt to treat the prohibition of riba
as an isolated religious injunction and not as an integrated part of the
Islamic economic order with is overall ethos, goals and values is bound to
create confusion”. Tale
ultima considerazione è riportata in modo pedissequo (peraltro, assai
curiosamente, senza citare la fonte) in F.
Al-Omar – M. Abdel-Haq,
Islamic Banking. Theory, Practice &
Challenges, cit, p. 9.
Tra le
conseguenze negative dell’attuazione di un ordine etico-religioso
ispirato a precetti sacri, che pur intende costituire una società
fondata sui principi di giustizia ed equità, sono indicate la
restrizione della libertà di contrarre degli individui nonché il
freno allo sviluppo dell’attività economico-commerciale nei paesi
musulmani; in tal senso N. Comair-Obeid, Le contrats en droit musulman des affaires, cit., p. 51, valutando
la posizione della scuola sciafiita sul divieto del ribā’ articolato nella Sunna.
[9] A
questo proposito, da parte della dottrina più avvertita si tende a
sottolineare l’erroneità di talune affermazioni con le quali
vengono solitamente sintetizzati i principî del sistema giuridico islamico
nel campo bancario e finanziario; ad esempio, si considera scorretta, in quanto
parziale, l’affermazione che le regole relative al ribā’ abbiano lo scopo di impedire lo sfruttamento
del contraente debole, ovvero che il guadagno sia lecito solo se accompagnato
da rischi sostanziali. Cfr. per questa notazione F. E. Vogel, The
Islamic Law of Finance, cit., p. 45.
Tuttavia,
la necessità di comprendere il significato del divieto in questione
secondo una prospettiva più ampia, che ne esalti il nesso con le
prescrizioni coraniche in tema di sottrazione di parte della ricchezza
all’abbiente (Sura LXX, versetti 24, 25), di protezione del debole e del
bisognoso (Sura II, versetto 177; Sura IV, versetto 127) e di correttezza e
onestà nel commercio (Sura XVII, versetto 35; Sura VI, versetto 152;
Sura XXVI, versetti 181, 182, 183) viene ribadita da N. A. Saleh, Unlawful
gain and legitimate profit in Islamic Law: riba, gharar andIslamic Banking,
cit., p. 15.
[10]
L’arricchimento ingiustificato costituisce, difatti, una forma di
acquisizione della proprietà
in modo scientemente ingiusto, quindi disonorevole (bi al batil), come risulta dalla Sura II, versetto 188 “Non divoratevi l’un l’altro i
vostri beni, e non datene ai giudici affinché vi permettano di
appropriarvi di una parte dei beni altrui, iniquamente e consapevolmente”;
per un sintetico commento a questo richiamo coranico, nella prospettiva del
divieto di ribā’, si
v. I. Karich, Le Système Financier Islamique. De
[11] Cfr. M.
U. Chapra, The Nature of Riba and
its Treatment in the Qu’ran, Hadits and Fiqh, cit., p. 33.
In
particolare, si è fatto notare come la comune nozione di interesse,
nella prospettiva islamica, sia viziata da un’intima contraddizione in
quanto, poiché il denaro non possiede un valore stabile nel tempo e
nello spazio, essendo questo fissato in base a dinamiche indipendenti dalla
volontà di chi lo impiega, stabilirne il prezzo ex ante ovvero tramite una percentuale fissa sulla somma concessa
non sarebbe corretto, dovendosi invece valutare il reale beneficio che il
mutuatario ha ritratto dal prestito per quantificare quanto dovuto al mutuante
(ciò che si palesa realizzabile nella compartecipazione del creditore ai
profitti e vantaggi del debitore, secondo modelli societarî); cfr. in tal
senso G. M. Piccinelli, Banche islamiche in contesto non islamico,
cit., p. 26 s., testo e note 13-14.
[12] M.
U. Chapra, The
Nature of Riba and its Treatment in the Qu’ran, Hadits and Fiqh,
cit., p. 34; M. Abu al-Saud, Islamic View of Riba (Usury and Interest),
in S. Ghazali Sheikh Abod-S. O. Syed Agil-A. Hj. Ghazali, An
introduction to Islamic Finance, cit., pp. 70 ss, spec. p. 78. Il
termine ribā’, come già indicato supra, nota 12, deriva, difatti, dal verbo raba, il quale ha il significato di “aumentare”; per
un’indicazione delle relative questioni linguistiche rinvio a I. Karich, Le Système Financier Islamique. De
[13]
L’unanimità degli autori e dei giureconsulti musulmani concordano
nel considerare il divieto di ribā’ menzionato nei versetti del Corano come riferibile all’usura o
al prestito ad interesse praticato nel periodo preislamico (Al-Jahiliyyah,
o epoca dell’ignoranza). Su questa prassi, consistente
nell’ampliare i termini di pagamento per il debitore in cambio di un
incremento del capitale prestato (operazione descritta da D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita, cit., p. 61, come
“novazione mediante un premio al creditore”), va registrata l’opinione di Ibn
Hanbal, fondatore della scuola Hanbalita, il quale affermò che la
moltiplicazione del capitale a seguito della dilazione concessa costituisce
l’unica forma di ribā’ la proibizione della quale
è indubitabile (lo sottolinea F.
E. Vogel, The Islamic Law of
Finance, cit., p. 73, nel valutare la portata delle prescrizioni coraniche
sul tema). Difatti, l’economia
della Penisola araba del settimo secolo era organizzata intorno a
città-stato che, a causa del loro isolamento, conoscevano frequentemente
fenomeni di usura ingenerati dall’assenza di liquidità, il che
comportava, per i debitori insolventi, non solo la perdita dei beni ma anche la
riduzione in schiavitù dei proprî familiari. Si v. I. Karich, Le Système
Financier Islamique. De la Religion à la Banque, cit., p. 37 s.,
nonchè N.
Comair-Obeid, Le contrats en droit
musulman des affaires, cit., p. 47, testo e nota 4, per i necessarî
riferimenti bibliografici.
[14] C.
Mallat, The Debate on Riba and Interest in
Twentieth Century Jurisprudence,
in Id. (ed.), Islamic Law and Finance, cit., pp. 69
ss., spec. p. 69.
[15]
Com’è noto, il divieto di ribā’ costituisce uno dei temi più
dibattuti nella scienza sciaraitica (dibattito che “assume sovente
connotazioni puramente ideologiche e ricalca ormai ripetuti adagi
accademici”, secondo l’opinione di G. M. Piccinelli, Banche islamiche in contesto non islamico, cit., p. 14); difatti, che questa si sia attestata su
un’interpretazione estensiva della suddetta proibizione non significa che
le scuole giuridiche islamiche condividano la medesima opinione sulla natura e
i limiti che essa presenta. Peraltro, per mutare l’ampia interpretazione
del divieto attualmente accettata in via generale sarebbe necessario un nuovo
consenso (ijma‘), il che spiegherebbe la riluttanza degli autori
musulmani ad esprimere una posizione personale sul ribā’ e la
ripetuta affermazione secondo la quale il relativo problema dovrebbe essere
oggetto di riflessione da parte di un consesso di studiosi accreditati retti
(ciò che suggerisce la necessità, non solo
l’opportunità, di un nuovo consenso). Per questa
notazione rinvio a N. A. Saleh, Unlawful gain and legitimate profit in
Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking, cit., p. 15 s.
[16] M. K. Lewis – L. M. Algoud, Islamic Banking, cit., p. 35, fanno
notare, peraltro, come ribā’ derivi dalla radice rab-a, che significa incremento o eccesso,
mentre rib.h sarebbe riconducibile alla radice rabi.ha, la quale
fa invece riferimento al profitto o al guadagno. Ne consegue, perciò,
che il profitto o guadagno non costituirebbero senz’altro forme di ribā’,
essendone lecito il perseguimento.
[17] In tal senso N. A. Saleh, Unlawful
gain and legitimate profit in Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking,
cit., p. 16. Cfr. inoltre Ch. Cordahi,
Le prêt à
intérêt et l’usure, in Revue internationale de droit comparé, 1955, pp. 499 s., il
quale sottolinea come il ribā’ consista nell’eccedenza del capitale prestato senza che questa
sia giustificata da un corrispondente vantaggio per il debitore; in specie,
ciò si verifica in ragione del differimento del termine di pagamento.
Questa impostazione deve essere resa coerente con l’esegesi coranica
(fondata in specie sulla fine del versetto 279 della Sura II – riportato infra
–, “Non fate torto e non subirete torto”) che vede
come oggetto del divieto di ribā’ non solo l’aumento,
ma anche la diminuzione di quello che si è dato, per quanto minimi
possano essere (ciò secondo la lettura data da Abu Ja’far e Ibn
‘Abbas, i c.d. esegeti del Corano; si v. per i relativi
riferimenti I. Karich, Le Système Financier Islamique. De
Viene
invece negato un uso del termine ribā’ nel significato di dono, in quanto non ne
risulta l’utilizzo in questo senso nel periodo pre o post-islamico;
così A. Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the
Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation, cit., p. 21, cui
rinvio per il dibattito sul punto.
[18] Il primo versetto rivelato al Profeta in
materia è il 39 della XXX Sura (Ar Roum) “Ciò che
concedete in usura, affinché aumenti a detrimento dei beni altrui, non
li aumenta affatto presso Allah. Quello che invece date in elemosina bramando
il volto di Allah, ecco quel che raddoppierà”; in esso non si
rinviene un esplicito divieto del ribā’, ma piuttosto un
ordine tacito di astenersi dalla relativa pratica. Nel versetto 161 della Sura
IV (An Nisa), rivelata a Medina, si propone l’esempio degli Ebrei,
ai quali fu vietato di praticare il prestito ad interesse, pur se essi
proseguirono nella relativa attività, con le seguenti parole: “perché
praticano l’usura – cosa che era loro vietata – e divorano i
beni altrui. A quelli di loro che sono miscredenti abbiamo preparato un castigo
atroce”. La proibizione del prestito ad interesse è
senz’altro più netta nel versetto 130 della Sura III (Ali Amran)
“O voi che credete non cibatevi dell’usura, che aumenta di
doppio in doppio. E temete Allah, affinché possiate prosperare”,
nonché nel già citato versetto 275 [“Coloro invece che
si nutrono di usura resusciteranno come chi sia stato toccato da Satana. E
questo perché dicono: Il commercio è come l’usura. Ma Allah
ha permesso il commercio e ha proibito l’usura”….”]
e nei successivi 276 [“Allah vanifica l’usura e fa decuplicare
l’elemosina….”], 278 [“O voi che credete, temete
Allah e rinunciate ai profitti dell’usura se siete credenti”],
279 [“Se non lo farete vi è dichiarata guerra da parte di Allah
e del Suo Messaggero; se vi pentirete, conserverete il vostro patrimonio. Non
fate torto e non subirete torto”], 280 [“Chi è nelle
difficoltà, abbia una dilazione fino a che si risollevi. Ma è
meglio per voi se rimetterete il debito, se solo lo sapeste!”] della
Sura II (Al Baqarah), i quali definiscono e interdiscono formalmente il ribā’.
Cfr. per una sintesi storica della Rivelazione relativa ai versetti citati I. Karich, Le Système Financier Islamique. De
[19] Per questa opinione si v. H. Algabid, Les banques islamiques, cit., pp. 39, 43, il quale sottolinea come
nel Corano non sia rinvenibile alcuna attenuazione di questa condanna (se non
nei limiti indicati nelle stesse Sure), né eccezioni o casi particolari
da riguardare in modo diverso: che si tratti di usura sul prezzo del denaro o
sugli scambi, la minuziosità dei divieti e degli obblighi, numerosi
specialmente nella Sunna, mostra come
l’accumulazione sia rigorosamente condannata in tutte le sue forme, anche
quelle il cui verificarsi risulti altamente improbabile.
[20]
L’insieme delle regole in tema di ribā’ costituisce,
perciò, come descritto da D. Santillana,
Istituzioni di diritto musulmano
malichita, cit., p. 62, un “programma etico-religioso, argine ben
fragile a proteggere le classi più bisognose contro gli abusi della
plutocrazia, ma che pure non è rimasto senza efficacia sull’etica
e la giurisprudenza musulmana”, come si dirà infra.
[21] Si
cfr. a questo proposito l’esemplificazione fornita da N. A. Saleh, Financial transactions
and the Islamic Theory of Obligations and Contracts, in C. Mallat (ed.), Islamic Law and Finance, London/Dordrecht/Boston, 1988, pp. 13 ss.,
spec. pp. 17 ss., in cui si afferma (p. 17) che anche il prestito di beni
fungibili (qard) non può
essere correlato ad alcun tipo di vantaggio o premio per il concedente, a meno
che questo vantaggio non gli sia volontariamente offerto, successivamente
all’accordo e non prima, e comunque non come condizione del prestito.
Inoltre, al concedente non è consentito accettare doni da chi ha
ricevuto il prestito, tranne nel caso in cui questa pratica sia conforme agli
usi ovvero si sia verificata dopo il prestito un’evenienza che
giustifichi la donazione (come un matrimonio). Il divieto, in sintesi, si
applica a qualsivoglia vantaggio o beneficio che il concedente può
ricavare dal prestito in discorso, come “cavalcare il mulo del debitore, mangiare alla sua tavola, bere il suo
caffè ovvero avvantaggiarsi dell’ombra delle sue mura”
(si veda anche, per un’ampia ricognizione delle diverse opinioni in tema
di qard, Id.,
Unlawful gain and legitimate profit in
Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking, cit., pp. 44 ss.).
[22]
Difatti, si fa notare (da D. Santillana,
Istituzioni di diritto musulmano
malichita, cit., p. 61) che “ribā’ indica non solo
la eccedenza sul capitale mutuato,
cioè i frutti o interessi, ma anche una differenza di qualità, se migliore o più ricercata di
quella dovuta, i servigi od opere
prestate dal debitore in più della prestazione cui è tenuto, il vantaggio sul tempo del pagamento,
quando il creditore è rimborsato sul suo credito prima della
scadenza” (corsivi dell’Autore).
[23]
Così G. M. Piccinelli, Banche islamiche in contesto non islamico,
cit., p. 22 s., il quale sottolinea, come ulteriore conseguenza discendente
dalla contrapposizione tra commercio (tiğāra)
ed usura (ribā’), l’elaborazione della distinzione tra
obbligazioni dayn, aventi natura
prevalentemente pecuniaria ed intrinsecamente suscettibili di nullità
per contrasto con il divieto in esame, e obbligazioni ‘ayn, a contenuto prevalentemente reale e, pertanto,
preferibili ai fini della giustificazione dell’arricchimento da esse
assicurato.
[24]
Rigore che assume una connotazione ancora più intensa se si osserva che
anche l’affermare la liceità del prestito ad interesse costituisce
un illecito, addirittura più grave in quanto qualificabile come
apostasia; cfr. per questa opinione H.
Algabid, Les banques islamiques,
cit., p. 32.
[25] Anche
tenendo conto del fatto che
[26] Il
conflitto tra il Corano e le tendenze evolutive in campo scientifico è
esemplarmente riassunto, partendo dalla prospettiva del credente, nella
riflessione di A. I. Qureshi, Islam and the Theory of Interest,
Ashraf, Lahore, 1974, pp. XX e 4, citato da N.
A. Saleh, Unlawful gain and
legitimate profit in Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking, cit.,
p. 13 (non vidi), il quale afferma che
“se le teorie coraniche configgono con le moderne teorie scientifiche,
non trovo ragione di porre in agitazione la mia coscienza. Io credo fermamente
che le scienze di oggi possano divenire la mitologia di domani, e ciò
che il Corano ha detto noi possiamo non comprenderlo oggi, ma è facile
che diventi abbastanza chiaro per noi domani”. Con particolare
riferimento al divieto di ribā’, ciò implica che il musulmano osservante non debba ricercare il
fondamento del medesimo, ma questa soluzione radicale è rifiutata, come
si vedrà oltre, in base al dichiarato intento di ricercare una sintesi
che componga il sopracitato conflitto.
[27] Lo rileva N.
Comair-Obeid, Le contrats en droit
musulman des affaires, cit., p. 45.
In tal
modo si palesa la valenza sistematica che il divieto di ribā’ assume nel sistema giuridico musulmano,
specie per quanto concerne l’intero diritto delle obbligazioni (cfr. ad vocem, in A. J. Wensinck
– J. H. Kramers (hrsg.), Handwörterbuch
des Islam, cit., p. 615).
[28] Così
N. A. Saleh, Unlawful gain and legitimate profit in
Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking, cit., p. 43.
[29] Ne
riferiscono M. K. Lewis – L. M. Algoud,
Islamic Banking, cit., p. 35 s., i
quali, peraltro, sottolineano come la proibizione del ribā’ sia completata, negli Ahàdìth
del Profeta Muhammad, dall’indicazione dei soggetti colpevoli: colui
che riceve il guadagno illecito, colui che lo paga, colui che redige il
relativo accordo nonché chi testimonia sulla conclusione del medesimo
(in tal senso riportano anche F.
Al-Omar – M. Abdel-Haq,
Islamic Banking. Theory, Practice &
Challenges, cit, p. 7 e p. 18, nota 5, per le fonti della regola nei suoi
profili soggettivi).
[30] Tra
essi può qui citarsi Ibn Qayyim
al Jawziyya, un discepolo
dell’illustre giurista Ibn
Taymiyya ed esponente riformista della scuola Hanbalita, tra le cui
opere è disponibile la traduzione italiana de Il buon governo
dell’Islàm, Bologna,
[31] In
particolare, il ruolo informativo della Sunna risulta essere esclusivo in
relazione al divieto di usura nelle vendite, come precisa S. H. Homoud, Islamic banking. The adaptation of Banking Practice to
confirm with Islamic Law,
cit., p. 83.
[32]
Sussistono ragioni storico-giuridiche a fondamento della citata distinzione, in
quanto nella Jahiliyyah il debitore
era tenuto a restituire al creditore il doppio della somma presa a prestito
alla scadenza del termine annuale di dilazione del pagamento. Qualora il
debitore avesse richiesto un’ulteriore dilazione di un anno per la
restituzione del prestito, sarebbe stato tenuto, alla nuova scadenza, a
restituire due volte l’importo già accresciuto in ragione del
precedente termine di adempimento. La pratica in discorso si rivelava
estremamente gravosa per il debitore, il quale, dopo taluni anni di rinvii del
pagamento, era obbligato a pagare un ammontare assai superiore rispetto alla
somma presa originariamente in prestito (cfr.
M. Abu al-Saud, Islamic View of
Riba (Usury and Interest), cit., p. 79). In virtù di un siffatto
modo di condurre le transazioni commerciali si giustificherebbe il già
citato precetto coranico contenuto nella Sura III, versetto 130, prima parte,
del Corano: “O voi che credete, non
cibatevi dell’usura che aumenta di doppio in doppio”. In
particolare, il primo prestito usurario che fu proibito dal Profeta, dopo il
quale vi fu l’abolizione completa di ogni forma di usura, fu contratto da
Al Abbas ben Al Muttalib (ne
dà conto S. H. Homoud, Islamic banking. The
adaptation of Banking Practice to confirm with Islamic Law, cit., p. 81).
Più
precisamente, i debitori non avevano la possibilità di un reddito
stabile cui fare riferimento per ripianare i propri debiti, così che
l’incertezza relativa alla disponibilità economica in un certo
momento nel futuro era la norma; in questa situazione di imprevedibilità
finanziaria, addivenire ad un contratto di prestito, per quanto esiguo potesse
esserne l’ammontare, costituiva un rischio elevatissimo per il soggetto
svantaggiato (su questa base è di notevole interesse la qualificazione
in termini di assicurazione sociale a favore dei più poveri che le norme
relative al divieto di usura, nel momento in cui apprestano una
disponibilità finanziaria ad interessi pari a zero, hanno ricevuto da E.
L. Glaeser & J. Scheinkman, Neither a
Borrower nor a Lender Be: An Economic Analysis of Interest Restrictions and
Usury Laws, in
41 Journal of Law Economics 1 (1998),
pp. 1-36, citati da M. El-Gamal, Contemporary Islamic Law and Finance: the
Tradeoff between Brand-Name Distinctiveness and Convergence, cit., p. 197).
Ciò ha presumibilmente indotto il Profeta a scoraggiare i Musulmani dal
ricorso a questo strumento, come si evince dal fatto che in molti detti e
preghiere Egli ha costantemente rammentato ai fedeli
l’indesiderabilità del prendere in prestito, se non in caso di
assoluta necessità. Ammonisce a non ignorare l’enorme differenza
intercorrente tra un moderno debitore e lo svantaggiato nel periodo
preislamico, nel momento in cui si aspira ad una discussione significativa sul
tema del ribā’, A.
Saeed, Islamic Banking and
Interest. A Study of the Prohibition of Riba and its
Contemporary Interpretation,
cit., p. 29.
Cfr. per i necessarî riferimenti sulla
complessa questione N. A. Saleh, Unlawful gain and legitimate profit in
Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking, cit., p. 17 e, sintetizzando
il pensiero di Ibn Qayyim, p. 35.
[33] Il
termine si fa derivare dal verbo
nasa’a, nel senso di posporre, rinviare o attendere (F. Al-Omar – M. Abdel-Haq, Islamic
Banking. Theory, Practice & Challenges, cit, p. 8).
[34] M.
Abu al-Saud, Islamic
View of Riba (Usury and Interest), cit., p.
[35] M.
U. Chapra, The
Nature of Riba and its Treatment in the Qu’ran, Hadits and Fiqh,
cit., p. 35, la considera “strict, absolute and unambiguous”.
Al
fine di chiarire le problematiche concrete cui la riferita rigidità ha
dato luogo, può portarsi il celebre esempio noto come Sunduq at-Tawfir Affair (1903-1904). Il
caso, verificatosi in Egitto, paese tradizionalmente incline ad operare in
taluni settori una sintesi tra i modelli capitalistici ed i precetti giuridico-religiosi
islamici, concerneva la costituzione, ad opera dell’Amministrazione
egiziana delle Poste, di una Cassa di Risparmio (Sunduq at-Tawfir), la quale assicurava ai depositanti/risparmiatori
una controprestazione nella forma di un interesse a tasso prefissato.
Poiché oltre tremila tra i risparmiatori si rifiutarono di percepire
l’interesse loro spettante, da parte dell’Autorità
governativa si richiese un parere informale al Gran Mufti al fine di
individuare uno strumento che autorizzasse legalmente i risparmiatori a
percepire il profitto derivante dalle somme depositate presso
[36] Da un
punto di vista storico, segnatamente nella
prospettiva delle origini del divieto di ribā’ in seguito
alle attività economiche praticate nel periodo pre-islamico, si
è sottolineata la differenza tra il ribā’ al nasi’ah
e il Bay’
Bi’l-Nasi’a, il quale consiste nella vendita a credito con un
termine prefissato di pagamento del prezzo convenuto. La comune considerazione
con il ribā’ al nasi’ah deriva dalla moltiplicazione
del debito che in esso si ritiene derivi dal differimento del prezzo, ma si
è messo in luce come in realtà, da un punto di vista pratico, non
li si possa assimilare in quanto nel Bay’ Bi’l-Nasi’a non
si riscontra uno specifico accordo relativo alla previsione di un incremento
del prezzo per il primo termine di differimento. Si cfr. Z. Ahmad, The Theory of Riba, in
S. Ghazali
Sheikh Abod-S.
O. Syed Agil-A. Hj. Ghazali,
An introduction to Islamic Finance,
cit., pp. 56 ss., spec. pp. 60 s.
[37] La
costruzione giuridica in materia di ribā’ è, difatti, principalmente basata
sugli Ahàdìth del Profeta, oltre che sulle disposizioni
coraniche sopra menzionate; un’articolata rassegna di sintesi può
rinvenirsi in N.
Comair-Obeid, Le contrats en droit
musulman des affaires, cit., p. 48 s.
[38]
“Scambiate oro per oro, argento per argento, grano per grano, orzo per
orzo, datteri per datteri, sale per sale, misura per misura e di mano in mano.
Se i beni sono di genere differente, allora scambiateli senza alcun limite,
purché ciò sia effettuato tramite una transazione di mano in
mano” (per un’analisi
altamente proiettata verso l’attualità rinvio a F. E. Vogel, The Islamic Law of Finance, cit., p. 73). Il ribā’
al-fadl, allora, si avrà
nel momento in cui lo scambio avvenga di mano in mano, ossia immediatamente, ma
per quantità non corrispondenti.
[39] In
relazione alle diverse opinioni delle scuole (Sciafiita e Malikita, da un lato,
Hanbalita e Hanafita dall’altro), anche i beni non ribawi possono essere soggetti al divieto di ribā’, se i generi cui appartengono sono i
medesimi, la vendita è accompagnata da un termine (nasi’a)
e si riscontra un’eccedenza (cfr. in tal senso F. E. Vogel, The Islamic Law of Finance, cit., p. 75).
In
sintesi, le regole generali che i giuristi hanno ricavato in relazione al
divieto di ribā’
nelle vendite sono così sintetizzabili: a) se il controvalore è
espresso in oro, argento, grano, orzo, datteri o sale, o altri beni che possono
con ragionevole grado di probabilità implicare un ribā’
secondo analogia (qiyàs), i due beni debbono essere scambiati sul
momento in eguale quantità, per cui qualunque squilibrio o rinvio
concernente la consegna di uno di essi equivarrebbe ad una violazione del divieto
di ribā’; b) se i
due beni differiscono nel genere (ad esempio, scambio di oro con argento o di
grano con orzo), essi debbono essere scambiati contestualmente, ma
l’eguaglianza quantitativa non è una caratteristica essenziale,
mentre se uno di essi è moneta, sia l’eguaglianza che la
contestualità possono essere disattese.
[40] A.
Saeed, Islamic
Banking and Interest. A
Study of the Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation,
cit., p. 32, specifica che oro e argento erano le due forme di moneta
utilizzate, mentre grano, orzo, datteri e sale erano gli alimenti principali da
cui dipendeva la sopravvivenza della comunità.
[41] Si v.
in tal senso M. U. Chapra, The Nature of Riba and its Treatment in the
Qu’ran, Hadits and Fiqh, cit., p. 36 e p. 42, nota 8, per i necessari
riferimenti bibliografici.
Per
quanto concerne l’individuazione dello strumento estensivo (‘illa, sul quale si v. infra nota 51), la caratteristica comune
tra oro ed argento, secondo gli Hanafiti, consiste nel fatto che entrambi sono
pesabili e misurabili, mentre per i Malikiti, Sciafiiti e Hanbaliti essa
è individuata nella loro funzione di valuta. Relativamente a grano,
orzo, datteri e sale, sono pesabili, misurabili e appartengono al medesimo
genere per gli Hanafiti; costituiscono alimenti conservabili per il genere
umano secondo i Malikiti; sono cibo per gli Sciafiiti; sono cibo misurabile o
pesabile secondo gli Hanbaliti (per questa sintesi si v. A. Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the Prohibition of Riba and
its Contemporary Interpretation,
cit., p. 34).
[42]
Tramite il metodo del qiyas, o
analogia (sul quale si cfr. in generale
F. Castro, Il modello islamico2, a cura di G. M.
Piccinelli, Torino, 2007, pp. 18 s.), i giureconsulti musulmani hanno
considerato l’oro e l’argento (risultando datato il riferimento
agli altri beni sopra menzionati) come uno strumento di scambio generale,
inclusivo delle valute contemporanee. In tal senso si è espresso il
Consiglio della Giurisprudenza islamica dell’OIC (Organizzazione della
Conferenza islamica) che, nella sua terza sessione (Decisione n. 9,
[43]
Esortazione che si fa risalire al
Califfo Umar Ibn al-Katthab, il
quale ha, inoltre, sottolineato il divieto del concedente un prestito di
ricevere doni dai beneficiari, assimilando, così, il dono ricevuto ad
una forma di interesse, come riporta I.
Karich, Le Système
Financier Islamique. De
[44]L’affermazione
di Umar è integralmente riportata da F.
E. Vogel, The Islamic Law of
Finance, cit., p. 63.
[45] La
nozione di ribā’,
difatti, risulta alquanto oscura (Umar ricorda
che il Profeta non ha chiarito il significato assunto dal termine nel Corano,
come sottolinea A. Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the
Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation, cit., p. 30), pur se è stato precisato che la
suddetta oscurità non può essere invocata al fine di restringere
i confini del relativo divieto (così che si spiega la riferita menzione
delle pratiche per le quali si sospetta che possano costituire ribā’,
ed il perché esse debbano accuratamente evitarsi). Sul punto merita
sottolineare l’osservazione del giurista Muhammad Abu Zahra, il quale fa notare che il Califfo Umar aveva ben presente come il divieto in
discorso colpisse con certezza il c.d. Jahili ribā’,
che risulta corrispondere esattamente all’odierno prestito ad interesse
(per questa equiparazione si v. anche I.
Karich, Le Système
Financier Islamique. De
A rendere ancor più complesso il quadro
delle diverse opinioni, vi è stato chi (I. Zaki al-Badawi, The Theory of Forbidden Riba, 1939
– si tratta dell’approccio restrittivo di Badawi al tema del
divieto del prestito ad interesse, prima della svolta estensiva del 1964, su
cui si v. infra, nota 56), proprio in relazione ai confini di
illiceità del ribā’, ha fatto notare come in assenza
di un espresso divieto, e quindi di una precisa puntualizzazione delle pratiche
vietate, non si possa parlare di proibizione, non essendo il mero dubbio (ishtibah)
sufficiente a fondarla.
Cfr.
per una sintesi delle riferite argomentazioni C.
Mallat, The Debate on Riba and
Interest in Twentieth Century Jurisprudence, cit., pp. 78, 81.
[46] G. M.
Piccinelli, Banche islamiche in contesto non islamico, cit., p.
[47] Come
avviene nel pensiero hanafita, che parla a tal proposito di atto sconsigliato (makrûh) e non proibito (haram), con particolare riferimento alla
lettera di cambio. Cfr. sul punto H. Algabid, Les banques islamiques, cit., p. 43.
[48] M. Abu al-Saud, Islamic View of Riba (Usury and Interest), cit., p. 80 s., il quale
indica l’autorevole opinione di Ibn al-Quayyim tra quelle che
sostengono l’illiceità del ribā’ al-fadl, mentre, altrettanto autorevolmente, tra
chi reputa che esso non costituisca necessariamente un ribā’
proibito si cita la prospettazione, condivisa dall’autore, di Ibn Hazm.
M. Muslehuddin, Banking and Islamic Law, cit., p. 102, imposta, sulla base delle
opinioni di Ibn
Quayyim, la distinzione tra ribā’ al nasi’ah e ribā’ al-fadl
discorrendo, nel primo caso, di ribā’ Jali, o espresso,
mentre il ribā’ al-fadl si considera Khafi, o
implicito.
[49] M. Abu al-Saud, Islamic View of Riba (Usury and Interest), cit., p. 81, il quale
fornisce l’esempio concreto dello scambio di una libbra di datteri di
buona qualità con una libbra di datteri di qualità inferiore; in
tale ipotesi, sottolinea l’autore, nessuna persona di buon senso
addiverrebbe ad un simile accordo, per cui sarebbe senz’altro
ragionevole, nel caso di scambio tra datteri di buona e inferiore
qualità, che la quantità dei secondi ecceda quella dei primi.
Tuttavia, ciò che è sottolineato con particolare vigore dalla
scuola Hanafita, si pone in contrasto con questa soluzione l’episodio
riferito negli Ahàdìth, nel quale Bilal (il primo dei Muezzin,
ex schiavo di origine abissina poi affrancato), a seguito di una precisa
domanda del Profeta circa la provenienza di una quantità acquistata di
datteri djanîb, di
qualità assai elevata, rispose di aver scambiato due misure di datteri
di qualità inferiore con una misura di datteri di migliore
qualità, ricevendo l’interdetto di Maometto a causa della
qualificazione come ribā’ di un siffatto scambio. L’unico modo per sottrarsi
all’operatività del relativo divieto sarebbe allora,
nell’ottica dei c.d. moralisti, l’effettuare due distinte
operazioni, ossia la vendita di datteri di mediocre qualità seguita
dall’acquisto di datteri di qualità migliore (in tal senso si
esprime il Profeta, nell’episodio citato: “Vendi piuttosto il
primo tipo di datteri e utilizza ciò che hai ricavato per acquistare i
secondi”). Una sintesi della vicenda in N. A. Saleh, Unlawful
gain and legitimate profit in Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking,
cit., p. 24, testo e nota 58, nonchè in H.
Algabid, Les banques islamiques,
cit., p. 42 e in N. Comair-Obeid,
Le contrats en droit musulman des
affaires, cit., p. 49 s., la quale critica assai incisivamente
l’influenza negativa che le citate dottrine dispiegano
sull’economia dei paesi musulmani (p. 54).
[50] Sulla
identificazione di un possibile ruolo in termini di strumento di estensione
analogica, che la giustificazione razionale (hikma) del divieto di prestito ad interesse può svolgere, si
è soffermato lo studio di A.
Saeed, Islamic Banking and
Interest. A Study of the Prohibition of Riba and its Contemporary
Interpretation, cit., p. 35 s., il quale fa notare come, utilizzando il
solo strumento della causa efficiente (illa),
qualunque transazione che comporti un incremento oltre e al di sopra del
capitale, sia per ciò solo da considerare proibita come ribā’, mentre, nel caso venga data preminenza
alla giustificazione razionale del divieto – da intendersi come
l’esistenza di una specifica situazione di ingiustizia relativa ad una
particolare transazione di prestito –, allora non può considerarsi
proibito a tale titolo ogni contratto che contempli un incremento siffatto, ma
solo quelli che implichino un’ingiustizia a danno di una delle parti.
L’assenza di un’enfasi sugli aspetti etici del divieto nella
discussione giuridica in tema di ribā’ viene stigmatizzata in
senso negativo, poiché il privilegiare l’aspetto legalistico in
confronto alle conseguenze etiche condurrebbe a configurare un precetto
sciaraitico privo di significato. Posto che, però, il Corano, se si
tiene conto della collocazione in cui si rinvengono i versetti contemplanti la
proibizione del prestito ad interesse, mostra di affrontare il problema del ribā’
non solo da una prospettiva formale, bensì tenendo nella giusta
considerazione anche i profili morali, è necessario, nel verificare se
una concreta transazione ricada o meno nell’ambito del divieto, vagliare
la natura e le circostanze della medesima, le parti che vi addivengono, il
contesto economico prevalente all’interno del quale essa si radica, nonché
gli scopi che persegue (conformemente, M.
El-Gamal, Contemporary Islamic Law
and Finance: the Tradeoff between Brand-Name Distinctiveness and Convergence,
cit., p. 199, dichiara dimostrabilmente falsa l’equazione in base alla
quale ogni interesse è ribā’, come anche il ragionamento inverso, sia considerando i testi canonici
sia tenendo conto della giurisprudenza delle corti islamiche). La conclusione
cui si giunge mira a sottolineare come l’assenza di considerazione della
dimensione morale nel dibattito sul ribā’ fa sì che
sussista il pericolo di rendere il suddetto dibattito un esercizio senza senso,
consistente in una serie di sofismi sul significato letterale dei precetti,
come può ricavarsi dalle ipotesi di utilizzo della ‘illa.
[51] Su
questa esigenza si è soffermato, in particolare, il pensiero di Ibn Rushd, noto in occidente come Avveroè, il quale, oltre ad
essere un celebre filosofo, fu anche uno dei maggiori esponenti della scuola
Malikita. Nonostante questa appartenenza culturale, in relazione al divieto
di ribā’ egli dichiara di prediligere
l’approccio della scuola Hanafita e il relativo riferimento
all’eguaglianza di misura, in quanto, a suo avviso, dietro la proibizione
del prestito ad interesse vi sarebbe l’obbiettivo di esaltare la correttezza
nello scambio, perseguito con l’insistere sull’esatta
corrispondenza matematica delle prestazioni ogniqualvolta detta corrispondenza
sia possibile ed appropriata. Sotto questo profilo, un’adeguata
eguaglianza è usualmente assicurata tramite il commercio effettuato con
valuta, in quanto lo scopo di quest’ultima è quello di costituire
uno strumento neutrale di misurazione dei rispettivi valori.
In specie, volume, peso e valuta costituiscono le
usuali ‘ilal, ossia le c.d. cause efficienti che consentono di
sottoporre i beni ribawi ad una disciplina unitaria. In particolare, il
ragionamento analogico (qiyàs)
si ritiene generalmente valido in base alle ‘ilal quando ci si
trova in presenza delle seguenti condizioni: a) la ‘illa
rappresenta il fattore che motiva la regola legale o che è sotteso ad
essa, dovendo necessariamente presentarsi come agevolmente ricavabile e
consistente; b) la stessa ‘illa deve comparire in entrambi gli
elementi dell’analogia oggettivo e soggettivo, per cui una semplice
somiglianza tra caratteristiche non è sufficiente; c) la regola
giuridica relativa all’elemento oggettivo dell’analogia deve essere
di applicazione generale e non ristretta ad un caso specifico (si v. sul punto N. A. Saleh, Unlawful gain and legitimate profit in Islamic Law: riba, gharar and
Islamic Banking, cit., p. 18, il quale, in ordine alla traduzione del termine ‘illa,
propone di renderlo come “causa efficiente”, precisando,
peraltro, che sarebbe maggiormente opportuno, visto il carattere non
interamente satisfattivo della traduzione, optare per l’uso del termine
arabo. A. Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the
Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation, cit., p. 34, fa
notare come l’identificazione della ‘illa, intesa a estendere la proibizione a beni ulteriori rispetto a
quelli specificamente previsti in base allo strumento analogico, non significhi
indagare all’interno delle ragioni morali o sociali della proibizione, ma
stabilire la lettera della legge).
Se, in ogni modo, i due controvalori che vengono
scambiati hanno usi similari e possono essere misurati entrambi o in base al
volume o in base al peso ovvero tramite valuta, allora l’esatta
eguaglianza matematica deve necessariamente essere richiesta. Infine,
poiché, presumibilmente, il rinvio di una delle due consegne introduce
un incontrollato elemento di disuguaglianza, si proibisce ogni ritardato
scambio di beni identificabili in base alla loro misurabilità secondo i
criterî prima evidenziati. Da quanto fin’ora descritto si coglie
con evidenza come la teoria di Ibn Rushd sia basata principalmente sul ribā’
al-fadl, ciò che viene sottolineato da F.. E. Vogel, The Islamic Law of Finance, cit., p. 79, al quale rinvio anche per
una diffusa illustrazione delle
critiche cui la medesima si espone.
[52] Il
timore dello sfruttamento da parte del contraente forte verso il debitore in
difficoltà costituisce il fondamento del divieto di ribā’ nella prospettiva di Ibn Quayyim, il quale, in sintesi,
sostiene che l’oggetto principale della proibizione sia costituito dal ribā’
al-Jahiliyyah, laddove al debitore, tenuto a pagare, sia concessa
un’estensione del termine in cambio di un incremento della somma da
restituire: in questo caso si ha uno sfruttamento del bisogno, dal momento che
solo un soggetto bisognoso sarebbe disposto a pagare un importo maggiore per
ottenere una mera dilazione del termine, mentre, nei confronti di simili
persone, i più abbienti hanno il dovere di concedere la carità,
piuttosto che di sottrarre ad esse qualcosa in più. Quanto, invece, al
divieto delle ulteriori forme di ribā’, particolarmente ribā’
al-fadl e ribā’ al-nasi’a, che comprendono anche lo
scambio di beni ribawi in eguale quantità ma con dilazione, esso
impedisce che i beni suddetti vengano commerciati come merci comuni in quanto,
nelle relative transazioni, si verifica uno sfruttamento dei meno abbienti
tramite l’accaparramento o la speculazione allo stesso modo in cui
ciò si verifica con il prestito ad interesse. Si v. F. E. Vogel, The Islamic Law of Finance, cit., p. 82, il quale nota come la
teoria esposta non dia conto del perchè il divieto di ribā’
non si estenda alla vendita di
beni fungibili in cambio di valuta, specie con dilazione del pagamento e in
cambio di un incremento dell’importo dovuto, ipotizzando, comunque, che
nel pensiero di Ibn Quayyim
questa spiegazione si ritragga implicitamente dal fatto che chi non ha
disponibilità di valuta e commercia tramite il baratto necessita di una
protezione speciale rispetto a coloro che possiedono la suddetta
disponibilità e accedono al mercato.
[53] Anche
per questa giustificazione merita fare riferimento al pensiero di Ibn Quayyim,
riportato da F. E. Vogel, The Islamic Law of Finance, cit., p. 83,
il quale fa notare come, se il denaro deve considerarsi una misura neutrale di
valore, non possa essere riguardato come una merce; inoltre, poiché i
generi alimentari sono spesso usati come sostitutivi del denaro e costituiscono
bisogni essenziali dell’umanità, debbono essere trattati il
più possibile come se fossero valori stabili e neutrali, al di fuori del
commercio.
[54] In
tal modo si esplicita una conseguenza ricollegabile ad una massima legale
classica nel diritto commerciale islamico, ossia il fatto che il guadagno si
accompagni alla responsabilità per eventuali perdite. Ciò
significa che eventuali profitti possono essere ritratti lecitamente dal denaro
solo nel momento in cui un soggetto investe in beni produttivi, in quanto esso
partecipa al rischio che i frutti inerenti ai suddetti beni non vengano ad
esistenza. I profitti, in sintesi, sono riguardati positivamente quando sono
associati con i rischî collegati alla titolarità di beni
produttivi noti, ossia il rischio inerente alla redditività futura del
bene ovvero al protrarsi della sua esistenza. Specularmente, nel momento in cui
una delle parti si sottraesse completamente ai suddetti rischî, gli
eventuali guadagni sarebbero sottoposti al vaglio delle regole in tema di ribā’. Anche per questo profilo si veda
l’approfondita valutazione critica di F. E. Vogel, The
Islamic Law of Finance, cit., p. 83-
[55] Ci si
esprime a questo riguardo considerando che, se un rischio moderato giustifica
l’eccesso nel rapporto di scambio tra le prestazioni, uno troppo intenso
o troppo lieve incorre senz’altro nel divieto di ribā’, così che quest’ultimo svolge
la funzione di regolamentare e moderare i rischî degli operatori del
mercato. A titolo esemplificativo, può osservarsi come concepire il
divieto in discorso come relativo unicamente alla proibizione del prestito ad
interesse sia solo in parte corretto, dal momento che nel settore delle vendite
a credito queste possono essere realizzate senza nessun tentativo di conformare
l’eventuale eccedenza derivante dal ritardato pagamento al “prezzo
corretto” astrattamente inteso, né al corrente prezzo di mercato
per i beni venduti. Allo stesso modo, l’idea, frequentemente riportata,
che il diritto islamico consenta il guadagno solo nel momento in cui una delle
parti sia esposta al rischio di perdite e non abbia la sicurezza, contrattualmente
prevista, di un guadagno, non si palesa corretta, se si pone mente al fatto che
il venditore in una vendita a credito ha la suddetta sicurezza senza alcun
rischio di perdite, e della liceità del suddetto contratto non si
dubita. F. E. Vogel, The Islamic Law of Finance, cit., p. 86,
testo e nota 29, nel precisare queste conseguenze, si pone il problema della proibizione
del ribā’ al-nasi’a tra oro e argento, ipotizzando che, nel caso di specie, non vi sia un
rischio eccessivo (come tra beni), bensì un rischio assai lieve, il che
richiede l’equivalenza di valore nello scambio ovvero che le relative
prestazioni vengano eseguite senza dilazioni.
[56] Il
contenimento, più che l’abbandono, dell’interesse nei
prestiti di somme di danaro è stato perseguito con il Codice civile
egiziano del 1949 (sul quale si v. A.
d’Emilia, Il diritto
musulmano e il nuovo codice civile egiziano, in Id., Scritti di diritto
islamico, raccolti a cura di F.
Castro, Roma, 1976, pp. 543 ss.). Tra le disposizioni maggiormente
significative possono citarsi:
-
l’art. 226, il quale prevede, in caso di mora del
debitore, un interesse legale del quattro per cento per le transazioni civili e
del cinque per cento per i prestiti commerciali; in tal caso le regole
processuali risultano favorevoli al debitore, poiché non è
sufficiente, affinché decorrano i suddetti interessi,
un’intimazione, anche ufficiale, ad opera del creditore, il quale
è tenuto a dedurre in giudizio la propria pretesa, specificando nel
relativo atto che il proprio diritto non si limita alla restituzione del
capitale, ma comprende anche gli interessi di mora;
-
l’art.
-
l’art.
-
l’art. 542, che prevede la
gratuità del prestito nel caso le parti non pervenissero ad un accordo
sul tasso di interesse;
-
l’art. 544, relativo alla restituzione anticipata del
prestito, la quale può essere effettuata dal debitore senza che
necessiti il consenso del creditore, né è ammissibile una
clausola contrattuale che la escluda; al debitore è però
consentita la suddetta restituzione solo se siano trascorsi sei mesi dalla
conclusione del contratto, avendo poi sei mesi per dare esecuzione al proprio
intento (in ogni caso, gli interessi sul prestito decorrono per l’intero
periodo di sei mesi).
La
norma degna di una più articolata valutazione risulta tuttavia essere
l’art. 227, il quale recita che “Le parti del contratto possono concordare un differente tasso di
interesse, in cambio di una dilazione nel pagamento o in ogni altra situazione,
a condizione che questo tasso non superi il sette per cento. Se esse concordano
un interesse che supera questo tasso, detto interesse sarà ridotto al
sette per cento, ed ogni eccedenza già pagata dovrà essere
restituita”. Il “differente tasso di interesse” fa
riferimento alla precedente disposizione, l’art. 226, che indica, come
menzionato in precedenza, i tassi di interesse legali, che possono essere
disattesi dall’autonomia privata con il limite imperativo testé
illustrato.
Sulle
citate disposizioni del Codice civile egiziano possono riscontrarsi due diverse letture circa la
conformità delle medesime al divieto di ribā’, l’una, assai rigorosa nel
riaffermare l’importanza del divieto e nel censurare la sua sostanziale
obliterazione ad opera della codificazione, che risulta contraria ai
principî sciaraitici, è proposta da Ibrahim Zaki al-Badawi, mentre Abd al-Razzàq Ahmad al-Sanhùri (su questa
complessa e innovativa figura di studioso rinvio a Abd al-Razzàq Ahmad al-Sanhùri. Primi
appunti per una biografia, in F. Castro,
Il modello islamico2, cit., pp.
186-218) ha sviluppato una articolata
difesa del Codice civile, basata sul principio di necessità che
consentirebbe il prestito ad interesse, su una visione restrittiva del ribā’
al nasi’ah, che significherebbe esclusivamente anatocismo e sarebbe
pertanto vietato ai sensi dell’art. 232 citato, e, infine,
sull’osservazione che il versetto 275 della Sura II, in cui si rinviene
la matrice della proibizione del ribā’, non fa riferimento al
prestito ad interesse ma alla vendita, quindi essa dovrebbe costituire il
prisma alla luce del quale vagliare la liceità o meno, caso per caso,
del primo. Il dibattito tra i due studiosi è esposto con dovizia di
riferimenti in C. Mallat, The Debate on Riba and Interest in Twentieth
Century Jurisprudence, cit., pp. 79-85.
Il
sistema sanhuriano, peraltro, ha dato vita, oltre a quello egiziano, a numerosi
codici civili (di esso sono tributarie le codificazioni realizzate ad es. in
Siria nel
A. Saeed, Islamic
Banking and Interest. A
Study of the Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation,
cit., p. 46, fa notare come la posizione adottata nel Codice civile egiziano
sia sostanzialmente conforme alla tesi in base alla quale l’interesse
proibito è solo quello che eguagli o superi il capitale, posizione assai
contestata in base al rilievo che il tentativo di differenziare tra interesse
ed usura al fine di consentire il primo è un concetto estraneo al
diritto islamico.
[57]
Merita a questo proposito osservare, con A.
Saeed, Islamic Banking and
Interest. A Study of the Prohibition of Riba and its Contemporary
Interpretation, cit., p. 48 s., che le posizioni di seguito menzionate nel
testo, portate avanti dai c.d. Modernisti, sono risultate assai indebolite
dalle critiche di ordine economico e scritturale dei loro detrattori di stampo
neoconservatore, in ciò agevolati soprattutto da due fattori:
l’incapacità dei Modernisti di formulare un’organica teoria
del ribā’ sulla base
di una giustificazione razionale del divieto basata sul Corano, e
l’ascesa delle istituzioni bancarie ispirate dal pensiero neoconservatore
in tema di ribā’, le quali hanno adottato la prospettiva che
vede in ogni interesse un ribā’ vietato e perciò
proibito in quanto tale.
[58] Cfr. N. Comair-Obeid, Le contrats en droit musulman des affaires, cit., p. 48, testo e
nota 4 per la fonte dell’esempio proposto.
[59]
Questa lettura mi pare si possa ricavare dalla puntuale ricerca di L. Boxberger, Avoiding ribā’:
Credit and Custodianship in nineteenth – and early – twentieth
Century Hadramawt, in 5 Islamic L. & Soc’y 196
(1998), la quale si concentra su un istituto in uso nella regione di Hadramawt,
nello Yemen, ovvero il c.d. ‘uhda; il termine, letteralmente, si
riferisce ad un’obbligazione contrattuale di custodia, ma nel luogo in
discorso assume il più specifico significato di una custodia estesa
della proprietà, regolata da un accordo negoziale. In specie, un
soggetto bisognoso di danaro può attribuire a terzi la custodia della
proprietà, solitamente un fondo agricolo o un’abitazione. Il
venditore riceve il denaro di cui ha bisogno, conservando contemporaneamente il
diritto di revocare la vendita in seguito; in tal modo egli riottiene la proprietà
dietro pagamento del prezzo di vendita una volta trascorso un periodo minimo
garantito al compratore. Quest’ultimo, in particolare, nel frattempo
guadagna l’usufrutto della proprietà, spesso concedendolo in
locazione allo stesso venditore. Si sottolinea come il successo
dell’istituto sia dimostrato dagli sforzi compiuti al fine di
giustificarne la liceità ad opera degli stessi giuristi islamici (cfr.
pp. 198 ss. del lavoro citato), spesso richiedendo requisiti cogenti al fine di
validarne gli schemi operativi (come il considerare necessario, ai fini della
validità del contratto, che l’ammontare pagato per l’‘uhda
sia inferiore al valore della vendita finale della proprietà). Tuttavia
i contrasti tra le varie opinioni sono ben lungi dall’essere sopiti, se
ad oggi si discute ancora di abusi dello strumento descritto, spesso utilizzato
al fine di consentire alle persone facoltose l’accaparramento dei fondi
dei più deboli (pur se, si fa notare – p. 211 – , dal
momento che il contratto consente al venditore, ossia alla parte bisognosa di
denaro, di reclamare la proprietà del bene con una semplice richiesta,
purché ovviamente si realizzino determinate condizioni, ciò
contribuisce a ridurre qualsiasi potenziale sfruttamento ad opera del
creditore-compratore). Mi pare comunque indubbio che, sotto il profilo
comparatistico, l’esempio fornito
dall’‘uhda nello Hadramawt, come evidenzia la stessa
Autrice, “illustrates the plasticity with which the local legal system
responded to that particular society’s social and economic needs”
(p. 212), contribuendo in tal modo ad arricchire le posizioni riscontrabili in
tema di superamento del divieto di ribā’.
[60]
Questo argomento, utilizzato nella sentenza della Corte suprema federale degli
Emirati Arabi Uniti Baroda Bank vs. Abu
Dhabi Electronics Trading Co. (1983), sarebbe funzionale alla
giustificazione, su base etico-religiosa, della dicotomia risultante dalla
diversa applicazione del divieto di interessi nel campo civile e in quello
commerciale, dicotomia riscontrabile in numerosi codici (si v. ad es.
l’art. 305 del Codice civile e l’art. 102 del Codice di commercio
Kuwaitiano, entrambi del 1980, il primo dei quali sancisce la nullità
delle pattuizioni sugli interessi, che il secondo invece consente; differenze
tra tassi di interesse nelle obbligazioni civili e commerciali sono previste
anche dall’art. 226 cit. del codice civile egiziano in ordine alla
fissazione del tasso di interesse legale, rispettivamente del 4% e del 5%);
rinvio sul punto a G. M. Piccinelli,
Banche islamiche in contesto non islamico,
cit., p. 37 s. e p. 49, per ulteriori implicazioni sistematiche che possono
desumersi dal riferimento giurisprudenziale citato.
In
particolare, l’esenzione dal divieto di banche, società di
capitali o governi di Stati viene rafforzata dalla considerazione in base alla
quale il percepire un interesse da un’istituzione, come ad esempio una
banca, non è vietato all’individuo in quanto questi non può
sfruttare un organizzazione complessa e potente come quella bancaria. I critici
hanno avuto gioco facile a privare di valore questa argomentazione col
replicare che la commissione di un illecito contro un individuo o
un’istituzione assume il medesimo significato per il diritto islamico,
oltre al fatto che le persone giuridiche e i governi rappresentano, in ultima
istanza, persone fisiche. Infine, la possibilità di essere oggetto di
sfruttamento si rinviene sia nelle istituzioni che negli individui, sì
che il Corano non fa alcuna distinzione tra i medesimi in materia di divieto
del prestito ad interesse. Si v. la sintesi sul punto di A. Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the Prohibition of Riba and
its Contemporary Interpretation,
cit., p. 45 s.
[61] Ne
dà notizia G. M. Piccinelli,
Banche islamiche in contesto non islamico,
cit., p. 38.
[62] Applicazioni
di questo principio si rinvengono ad esempio negli ordinamenti
dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti; rinvio ancora per
ulteriori dettagli a G. M. Piccinelli,
Banche islamiche in contesto non islamico,
cit., p. 45, 49 s.
[63] La
quale, peraltro, è riguardata in modo assai negativo, in quanto non
costituisce una misura autenticamente riferibile al diritto islamico, violando
i principî basilari della relativa filosofia che concernono la libera
volontà ed il rispetto della proprietà privata; per questa
opinione si v. F. Al-Omar –
M. Abdel-Haq, Islamic
Banking. Theory, Practice & Challenges, cit, p. 24.
[64] In tal senso si v. Z. Ahmad, The Theory of Riba, cit., pp. 66 s.
[65] Tale
notazione è formulata da M. Abu
al-Saud, Islamic View of Riba
(Usury and Interest), cit., p. 83 s., il quale confuta in modo articolato
l’obiezione che eccezioni al suddetto principio siano rinvenibili nel
diritto ereditario (difatti, chi riceve in eredità o ha contribuito alla
creazione del patrimonio devolutogli ovvero si è sottoposto
all’autorità paterna, così che quanto oggetto di
successione può senz’altro considerarsi una controprestazione dei
relativi impegni), nell’ipotesi del socio finanziatore dell’impresa
che non partecipa alla gestione delle relative attività (poiché
questi corre il rischio di perdere quanto concesso in finanziamento) ovvero nel
caso di concessione di un fondo in godimento per un canone fisso (in quanto si
dubita della liceità della suddetta pratica nel diritto islamico,
proprio in virtù della violazione del principio in base al quale un
soggetto non è legittimato a conseguire un vantaggio se non come
risultato del proprio lavoro o impegno). Si v., inoltre, N. A. Saleh, Financial transactions
and the Islamic Theory of Obligations and Contracts, cit., p. 18, il quale
a tal proposito parla icasticamente di “idle money”.
[66] M.
Abu al-Saud, Islamic
View of Riba (Usury and Interest), cit., p.
[67] Così M. Abu al-Saud, Islamic
View of Riba (Usury and Interest), cit., p. 86. Che
questa considerazione riceva puntuale smentita nella prassi non ne inficia la
valenza teorica, ma ne depotenzia senz’altro l’attuazione.
[68] Su
questa via spingono, nell’esortazione di cui fanno destinatarî gli
altri paesi islamici ad unirsi a loro per un riassestamento complessivo dei
valori fondamentali di convivenza sociale e religiosa, in special modo
l’Iran e il Pakistan (a fronte di atteggiamenti di aperta elusione del
problema relativo al divieto del prestito ad interesse, che si riscontrano in
Stati in cui, pur essendo l’osservanza della Shari’ah tradizionalmente impostata in un senso
rigidamente ortodosso, la logica del profitto gioca un ruolo assai rilevante,
come tipicamente avviene in Arabia Saudita). Cfr. N. A. Saleh, Financial transactions
and the Islamic Theory of Obligations and Contracts, cit., p. 18 s., il
quale dalla possibile diffusione della proposta più restrittiva circa
l’ambito dell’interesse lecitamente praticabile trae argomento per
ribadire la necessità di una complessiva rivisitazione della materia.
Merita
sottolineare, a questo proposito, il ragionamento operato dalla Corte
costituzionale egiziana che, nella sentenza n. 20 del 4 maggio
[69] In
particolare, si è denunciato come la netta discrasia tra
l’ideologia e la pratica delle banche islamiche abbia alimentato una
certa confusione, derivata in particolare dal considerare la prima come
strumentale alla protezione della seconda (lo nota V. Nienhaus, Islamic
economics, finance and banking – theory and practice, cit., p. 10).
[70] Lo ribadisce M. Abu al-Saud, Islamic
View of Riba (Usury and Interest), cit., p. 89.
[71] Cfr.
per le funzioni ascrivibili al sistema bancario le osservazioni di Abu Zahra, riportate in C. Mallat, The Debate on Riba and Interest in Twentieth Century Jurisprudence,
cit., p. 77, il quale, portatore di un approccio conservativo al tema del
divieto di ribā’,
ritiene che le suddette funzioni debbano consistere, ad esempio, nella
partecipazione ad imprese commerciali o industriali, in modo tale che i
prestiti, prescindendo dall’interesse, costituiscano la base della
suddetta partecipazione, la quale deve avere ad oggetto anche i relativi
profitti e perdite.
[72] Il
riferimento è all’esperienza del Nuovo Galles del Sud australiano,
in cui si è sperimentata con successo la concessione di prestiti senza
interessi a piccole imprese industriali e agricole; ne dà notizia M. Abu al-Saud, Islamic View of Riba (Usury and Interest), cit., p. 90, che,
peraltro, sottolinea come la praticabilità di un simile modello sia
connessa al grado di istruzione ed educazione rinvenibile nell’ambiente
in cui si vuole innestare il sistema cooperativo, ciò che non frenerebbe
la sua adozione nei paesi islamici, posto che uno tra i principali scopi dello
Stato islamico sarebbe quello di agire alla luce del primo verso del Corano
rivelato a Maometto: “Leggi! In
nome del tuo Signore che ha creato” (Sura XCVI, v. 1). Vi è,
peraltro, da dire che il sistema della Grameen Bank, il quale opera anche in
contesti caratterizzati da non elevati standard formativi (per tutti, il
Bangladesh), trova comunque un considerevole apprezzamento in termini di
adempimento dell’obbligazione restitutoria, pur se si rivela più
prossimo al modello bancario occidentale rispetto al sistema del credito
cooperativo, che pure è in quell’ambiente noto (vedi infra sul punto il par. 6).
[73] Le
proposte illustrate sono formulate da M.
Abu al-Saud, Islamic View of Riba
(Usury and Interest), cit., p. 90 s.
[74] V. Nienhaus, Islamic economics, finance and banking – theory and practice,
cit., p. 12 ss., descrive in termini assai netti quali siano i problemi che la
riorganizzazione del sistema bancario dovrebbe affrontare: si indicano,
principalmente, l’assenza di adeguati strumenti per supportare le imprese
con l’indispensabile liquidità, oltre che la necessità di
comporre il conflitto tra l’azione regolativa delle banche centrali,
finalizzata alla protezione dei risparmiatori, ed i principî PLS. Nel
primo caso, si propone, al fine di scongiurare i rischi che deriverebbero alla
banca dalla stretta applicazione del modello di condivisione nei profitti e
nelle perdite, di sostituirlo con il riferimento al valore aggiunto come
indicativo della ricchezza producibile nel corso della durata di
un’impresa; in tal modo, si fornisce alla banca un parametro maggiormente
prevedibile (nonché meno rischioso) per i guadagni futuri che
l’impresa sovvenuta potrà produrre, il quale consente anche il
finanziamento in caso di bilanci in rosso. Nel secondo caso, invece, la
protezione dei risparmiatori, che non produca conflitti con le banche centrali,
potrebbe essere realizzata tramite un’assicurazione sull’ammontare
del deposito (il che, peraltro, comporterebbe la difficoltà
nell’individuazione della compagnia assicuratrice), ovvero dalla
stipulazione di uno specifico accordo che vieti alla banca depositaria di
impiegare le somme del risparmiatore in attività rischiose, restando in
tal caso le eventuali perdite ad esclusivo carico dell’ente creditizio
inadempiente.
Inoltre,
ulteriori problemi sono: la differenza di tassazione nei prestiti ad interesse,
laddove questo può essere dedotto dall’imponibile in quanto
costituisce un costo per l’ottenimento del credito, e quella relativa ai
profitti ritraibili dal modello partecipativo, i quali sono suddivisi tra banca
ed imprenditore nell’importo residuo a seguito della tassazione; il
mancato compiuto sviluppo di strumenti per la collocazione di fondi a breve o a
brevissimo termine, al di fuori dei mercati monetarî internazionali
basati sull’interesse; l’assenza di un prestatore di ultima istanza
per le banche islamiche, le quali non possono ricorrere alle banche centrali
convenzionali in quanto governate dalla logica dell’interesse.
Su
questi temi, pur se segnalati in epoca oramai risalente, il dibattito si
manifesta ancora vivace, atteso che persiste un forte contrasto (né pare
necessario ricorrere ad esplicite esemplificazioni per dimostrarlo) tra
l’ansia riformatrice e le spinte reazionarie, anche nel campo
dell’applicazione a livello microeconomico di teorie di stampo normativo,
come quelle formulate dagli studiosi islamici più progressisti (per una
sintesi delle questioni sulle quali il dibattito segnalato si concentra cfr.
ancora V. Nienhaus, Islamic economics, finance and banking
– theory and practice, cit., pp. 15 ss.).
[75] In
relazione alle importazioni, le banche commerciali, si sostiene, dovrebbero
erogare il credito necessario all’importatore richiedendo o una
percentuale dei relativi profitti ovvero il pagamento di importi prefissati
determinati in base alle spese di erogazione del credito all’importatore.
Altra soluzione sarebbe quella di un’integrazione organizzativa tra gli
importatori, finanziata gratuitamente dallo Stato in quanto la relativa
attività può considerarsi condotta nell’interesse del
medesimo (al fine di scongiurare abusi dovrebbe fissarsi la percentuale massima
per il credito all’importazione, la quale raggiungerebbe il 75 per cento
in casi eccezionali, mentre dovrebbe normalmente attestarsi sul 20 per cento).
Si v. per questa prospettazione M. Abu
al-Saud, Islamic View of Riba
(Usury and Interest), cit., p. 92.
[76] A
questa finalità è senz’altro coerente la teoria di Abu Zahra
che differenzia il prestito accordato per esigenze di consumo (istihlak) dal prestito strumentale ad
attività di carattere economico (istighlal),
risultando il secondo, in quanto utile per l’espansione
dell’economia, permesso, pur se
[77] M. Abu al-Saud, Islamic View of Riba (Usury and Interest), cit., p. 92, fa notare
come un eventuale scetticismo circa la corretta attuazione di questo compito,
in specie per quanto concerne la possibile difficoltà
nell’erogazione ovvero gli eventuali abusi nel ricorso al credito
statale, dovrebbe essere smentito in considerazione del fatto che la
coscienziosa e decisa applicazione dei precetti islamici in un determinato
ambito sociale rende assai remota l’ipotesi della necessità di un
prestito.
[78] La
classificazione riportata fu adottata per la prima volta da M. al-Daoualibi, in occasione della
Conferenza tenutasi a Parigi il 7 luglio 1951, intitolata “
Si v.,
sulle critiche che respingono
[79]
Difatti, in un’economia che presenta fenomeni inflattivi, un tasso di
interesse finalizzato alla correzione della perdita sofferta dal creditore a
causa di questi eventi potrebbe essere giustificato in base allo strumento
dell’indicizzazione dei prestiti, cioè col consentire un
incremento tale da compensare la diminuzione del potere di acquisto della
moneta; per una sintesi della discussione in materia nella letteratura sul fiqh si v. A. Saeed, Islamic
Banking and Interest. A Study of the Prohibition of Riba and
its Contemporary Interpretation,
cit., p. 46 ss.
[80] N. Comair-Obeid, Le contrats en droit musulman des affaires, cit., p. 53, nel
trattare questa prospettiva di indagine fa notare come essa, allo stato, sia
rimasta isolata.
[81] F.
Al-Omar – M. Abdel-Haq, Islamic Banking. Theory,
Practice & Challenges, cit., p. 6 s., precisano che il
prelievo delle somme a titolo di zakat
costituisce per le persone facoltose uno strumento di purificazione della loro
ricchezza e delle loro anime, non effettuandosi, peraltro, al di sotto di un
determinato limite di esenzione, individuato, insieme alla percentuale dovuta,
dalla Sharī ۚa (si
parla di un tasso pari al 2,5 per cento del valore complessivo di capitale e
profitti, al netto dei debiti non coperti e della svalutazione, mentre in
agricoltura esso varia dal 5 al 10 per cento, a seconda del tipo di irrigazione
posta in essere). La distribuzione di quanto raccolto viene poi effettuata
secondo modalità organizzative di carattere collettivo, a conferma del
rilievo pubblico che questa pratica assume.
[82] Cfr.
in questi termini A. Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the
Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation, cit, p. 18, il
quale chiarisce come nella terminologia coranica zakat e sadaqat siano utilizzati come
sinonimi, mentre il diritto islamico ha successivamente operato una distinzione
tra i medesimi restringendo il significato del primo al versamento obbligatorio
e riservando unicamente al secondo una caratterizzazione in termini di
volontarietà.
[83]
Questa riflessione si deve a N.
Comair-Obeid, Le contrats en droit
musulman des affaires, cit., p. 54, che opera un forte richiamo alla
necessità di rispettare la logica del Libro sacro nel considerare
l’ambito di applicazione del divieto di ribā’.
[84]
Risulta perciò sconfessata da questa prospettiva la considerazione,
riportata supra nel testo, in base
alla quale sarebbe lo Stato, nel pieno rispetto dei principî islamici, a
garantire lo sviluppo economico secondo le alternative al prestito ad interesse
in precedenza delineate. Tuttavia, sull’intervento dello Stato
nell’economia si sono concentrati gli auspicî di molti analisti, i
quali pongono in evidenza come le relative attività non possano
rapportarsi sia a schemi capitalistici, che si assumono tesi alla ricerca della
massimizzazione dell’interesse privato a detrimento del benessere
sociale, sia a modelli socialisti, atteso che essi implicano il passaggio dalla
proprietà privata alla proprietà pubblica, sotto il controllo
statale, mentre l’Islam non rinnega la proprietà privata ma
ricerca esclusivamente uno sviluppo della medesima armonico con le istanze
collettive. Si v., chiaramente, M. U.
Chapra, The Future of Economics.
An Islamic Perspective, Leicester, 2000, p. 67.
Il
riferimento alla proprietà privata contribuisce a chiarire ulteriormente
la portata del divieto di prestito ad interesse, in quanto, per il diritto
musulmano, la legittimità del suddetto diritto si ha i) quando la proprietà risulta
dalla combinazione di lavoro e risorse naturali, ovvero ii) nel momento in cui essa viene trasferita dal suo titolare
tramite scambio, donazione o eredità. Il prestito di denaro costituisce,
allora, un trasferimento provvisorio del diritto di proprietà,
derivandosene che non può reclamarsi, alla scadenza, più di
quanto sia stato dato, a meno che l’importo concesso, combinato con uno
sforzo produttivo, abbia dato luogo alla creazione di un valore e, pertanto, di
un diritto di proprietà, così che il concedente può domandare
parte di questo valore o del diritto che gliene deriva. Per questo perspicuo
ragionamento si v. I. Karich, Le Système Financier Islamique. De la
Religion à la Banque, cit., p. 42.
[85] V. Nienhaus, Islamic economics, finance and banking – theory and practice,
cit., p. 2.
[86]
Peraltro, per le banche islamiche, in special modo per i relativi advisors che ne verificano la
conformità, nell’attività di concessione del credito, ai
precetti musulmani, la proibizione dell’interesse non si pone
principalmente, come per gli economisti, nei termini della netta
superiorità sotto il profilo dell’allocazione e distribuzione
delle risorse, di un sistema di finanziamento interest-free, ma è valutata come un divieto legale. Si v. in questi termini V. Nienhaus, Islamic economics, finance and banking – theory and practice,
cit., p. 10.
[87] Lo
sottolinea con particolare vigore V.
Nienhaus, Islamic economics,
finance and banking – theory and practice, p. 2 s.
[88]
Critica la quale riceve ulteriore conferma dal considerare che il risultato
finale della finanza islamica consiste nell’attribuire al cliente un
rischio eguale o maggiore rispetto alle forme occidentali, a costi più
elevati, in patente contraddizione con il principio in base al quale
l’obbiettivo delle regole giuridiche in questo campo è sempre il
benessere del cliente, come fa criticamente notare M. El-Gamal, Contemporary
Islamic Law and Finance: the Tradeoff between Brand-Name Distinctiveness and
Convergence, cit., p. 200.
[89]
Difatti la quasi totalità dei versetti coranici si riferiscono al qard nel senso di qard hasan, il quale costituisce lo strumento principale per
alleviare i bisogni dei poveri, come anche
[90] Molto
opportunamente, fa notare A. Saeed,
Islamic Banking and Interest. A Study of
the Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation, cit., p. 127,
che nell’attuale contesto economico-finanziario, in cui il dare /prendere
in prestito costituisce un insostituibile modello estensivamente praticato,
sarebbe più opportuno non precludere qualunque possibilità di
sviluppo al prestito ma individuare i meccanismi opportuni per praticarlo su
basi di giustizia ed equità, piuttosto che ricorrere a varî
stratagemmi, come si è fatto in passato (e si fa tutt’ora).
[91] In tal senso osserva A. Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the Prohibition of Riba and
its Contemporary Interpretation, cit., p. 126 s.
[92]
Ciò tenendo nella massima considerazione quanto sottolineato da F. E. Vogel, The Islamic Law of Finance, cit., p. 86, il quale osserva che le
recenti metodologie di analisi finanziaria, nonché la terminologia di
cui questa si avvale, rischiano di obliterare distinzioni che sembrano vitali
per il sistema islamico, come quella tra credito dilazionato connesso ad una
vendita rispetto al medesimo connesso ad un prestito, o ancora tra un pagamento
in valuta e un pagamento effettuato tramite un altro bene fungibile, o infine
tra contratti che possiedono la medesima funzione economica ma che presentano
una differente struttura disciplinare (come i contratti che differiscono in
ordine ai rimedî da esperire qualora i beni promessi fossero
indisponibili).
[93] V.
Nienhaus, Islamic
economics, finance and banking – theory and practice, cit., p. 3. Il
ricorso ai “PLS (profit and loss) arrangements”, tuttavia, da un
punto di vista economico non è strettamente definibile, almeno per
Ad
ulteriore conferma dell’importanza che la tecnica del profit-sharing riveste nel diritto
islamico va sottolineata la stretta connessione con la quale essa è
riguardata rispetto all’efficienza allocativa; in particolare, si
è avanzata l’ipotesi che un’economia basata
sull’interesse tenda strutturalmente a causare fenomeni inflattivi, in
quanto l’espansione della disponibilità di denaro non è
connessa con investimenti di carattere produttivo. Per contro, nel sistema
bancario islamico, l’inflazione sarebbe al livello minimo, atteso che
l’offerta monetaria è proporzionata e correlata alle
attività economiche (così osservano F. Al-Omar – M.
Abdel-Haq, Islamic Banking.
Theory, Practice & Challenges, cit, p. 12).
[94] Si
tratta, per la sua adattabilità funzionale e per la intrinseca coerenza
con il principio di proporzionalità (takāfu’)
nella ripartizione dei profitti e delle perdite, della forma tipica di impresa
islamica; cfr. G. M. Piccinelli, Banche islamiche in contesto non islamico,
cit., pp. 102 ss., spec. pp. 107 s. per le caratteristiche concrete assunte
nella prassi bancaria da questa tipologia contrattuale.
Che
simili forme associative fossero ben note allo stesso Maometto viene
sottolineato dalla dottrina, al fine, da un lato, di escludere che
l’Islam sia ontologicamente contrario al commercio nelle sue espressioni
più remunerative e, dall’altro, per sottolineare la valenza etica
del divieto di prestare denaro per profitto, da considerarsi “ruinous for
the borrower, immoral for the lender and therefore unlawful under Sharia
teaching” (in questi termini N. A.
Saleh, Unlawful gain and
legitimate profit in Islamic Law: riba, gharar and Islamic Banking, cit.,
p. 15, testo – per la citazione riportata – e nota 15 – per
il ruolo storico di Maometto nell’accreditamento della Mudarabah –). M. K. Lewis – L. M. Algoud, Islamic Banking, cit., p. 41,
sottolineano in particolare che, con riferimento alla Sunna, può
rinvenirsi un precedente del contratto di Mudarabah
nell’accordo concluso tra Maometto e Khadija, in epoca antecedente al
loro matrimonio, in virtù del quale il Profeta poté recarsi in
Siria.
[95] V. Nienhaus, Islamic economics, finance and banking – theory and practice,
cit., p. 4, ne sintetizza il ruolo nel prestito bancario descrivendo la banca
come il solo fornitore di capitale, alla remunerazione del quale il partner
contribuisce con i proprî sforzi, essendo l’unico a poter gestire
l’affare. La banca riceve una percentuale sui profitti, non un ammontare
predeterminato dei medesimi, così che, in caso di perdite, queste sono
sopportate integralmente dal finanziatore, mentre il rischio
dell’imprenditore consiste nella possibilità di non vedere
remunerato il proprio lavoro.
[96] Sono
le stesse regole del fiqh ad impedire
che il finanziatore possa partecipare alla gestione (ovvero supervisionarla)
delle attività dell’imprenditore; tuttavia, specie nel settore
bancario, si è assistito recentemente all’espansione del ruolo
svolto dal finanziatore nella gestione del progetto nonché
nell’utilizzazione del capitale conferito per
[97] Di
particolare interesse risulta l’utilizzo della Mudarabah ad opera delle banche islamiche nel momento in cui esse
agiscono come mudarib nella gestione
dei fondi attinti dai risparmi dei depositanti, da destinare ad operazioni
condotte secondo lo schema in esame, nelle quali la banca assume il ruolo di rabb al-mal. In più semplici
parole, la banca islamica, mentre da un lato gestisce capitali altrui,
dall’altro ne fa uso per finanziare iniziative economiche, alle quali
apporta il necessario capitale. Peraltro, questa attività può
condurre ad una sottotutela dei risparmiatori, nel momento in cui gli azionisti
della banca potrebbero destinare ad operazioni con elevato livello di rischio i
relativi fondi, così da conseguire, in caso di buon fine
dell’iniziativa, un ragguardevole profitto senza esporre i capitali
personali (pongono in evidenza questo profilo critico M. K. Lewis – L. M. Algoud, Islamic Banking, cit., p. 46).
[98] La
restituzione di quanto ricevuto a titolo di capitale di rischio è, in
via eccezionale, dovuta solo qualora ricorrano due condizioni: la negligenza
nell’utilizzo dei fondi ovvero l’inadempimento delle condizioni
della Mudarabah, come riportano F. Al-Omar – M. Abdel-Haq, Islamic Banking. Theory, Practice & Challenges, cit, p. 13.
[99] I
contenuti del contratto così descritti possono articolarsi
ulteriormente, così che si può parlare di Mudarabah semplice, che presenta due parti-persone fisiche, un
investitore ed un imprenditore, ovvero più persone che ricoprano le due
posizioni ora citate, con clausole che possono variare nei contenuti. La
variante complessa della Mudarabah
può assumere, invece, svariate forme, anche in ordine alla possibilità che
entrambe le parti siano soggetti collettivi. Inoltre, si discorre di tipo
assoluto o “non ristretto”, nel quale il capitale viene messo a
disposizione ma non sono determinati né l’attività da
svolgersi e l’entità della medesima, né il momento o il
luogo in cui essa verrà eseguita, né coloro con i quali
l’affare dovrà aver luogo; il tipo “ristretto”,
invece, vede talune o tutte le circostanze riferite compiutamente determinate.
Cfr. per un’esposizione dettagliata delle tipologie descritte M. K. Lewis – L. M. Algoud, Islamic Banking, cit., p. 41.
[100] Sulla
base delle caratteristiche sopra descritte
[101] La
distinzione emerge anche nell’estensione temporale delle rispettive
operazioni, atteso che
[102] Per
quanto concerne i requisiti formali e sostanziali, il contratto in esame non
deve necessariamente essere redatto per iscritto, potendo le parti avvalersi
della forma orale; inoltre, ciò che legittima alla ripartizione dei
profitti in siffatto negozio è l’apporto di capitale, unitamente
alla partecipazione attiva nelle transazioni ad esso sottese ed alla
responsabilità. Quanto alla ripartizione dei profitti, essa avviene,
come anticipato nel testo, sulla base di criterî proporzionali,
preventivamente definiti dalle parti in termini di percentuale o quota, mentre
le perdite gravano in rapporto all’entità del capitale conferito. Rinvio
ancora per ulteriori approfondimenti a M.
K. Lewis – L. M. Algoud, Islamic
Banking, cit., p. 43, i quali sottolineano l’unanimità di
vedute che si riscontra in materia tra i giuristi.
[103] M.
U. Chapra, The
Nature of Riba and its Treatment in the Qu’ran, Hadits and Fiqh, cit.,
p. 51.
[104]
Risulta singolare in quest’ottica il ruolo svolto dalla c.d. Murabahah (la quale si fa risalire al
banchiere centrale giordano, formatosi in Egitto, Sami Homoud, come riferisce M.
El-Gamal, Contemporary Islamic Law
and Finance: the Tradeoff between Brand-Name Distinctiveness and Convergence,
cit., p. 195), nelle cui transazioni la banca finanzia l’acquisto di beni
(solitamente impianti industriali, materie prime o merci, ovvero anche beni di
consumo) effettuandone la compravendita per conto del proprio cliente, al quale
li rivende in un secondo momento in cambio di un importo che comprende, oltre
all’originario prezzo, un’ulteriore somma volta a remunerare i
costi del servizio offerto. Difatti, si è notato che, in tal modo,
l’interesse vietato sarebbe comunque rinvenibile nella corresponsione
della somma aggiuntiva rispetto al prezzo di acquisto del bene corrisposto
dalla banca; così, il prestito ad interesse, formalmente bandito,
verrebbe contraddittoriamente legittimato in base al modello negoziale
descritto. In particolare, se l’acquisto e la rivendita sono effettuati
simultaneamente, come spesso si verifica, in modo tale che gli ipotetici
rischî insiti nell’operazione siano di entità assai esigua
per la banca, si tratterebbe di una mera formalità che impone la
riqualificazione del contratto nei termini di prestito ad interesse, come tale
vietato (argomenta in tal senso M. H.
Kamali, Equity and Fairness in
Islam, cit., p. 110).
Si
è, peraltro, sostenuta la legittimità della Murabahah in base alle seguenti considerazioni: a) la banca
acquista un bene per rivenderlo, quindi opera uno scambio di cosa contro
danaro, non di danaro verso danaro; b) la banca assume in tal modo dei
rischî, che si manifestano nell’intervallo tra acquisto e rivendita,
come ad esempio un improvviso ribasso del prezzo d’acquisto che induca il
cliente a rifiutare di ricomprarlo dalla banca, potendolo egli conseguire sul
mercato per un importo al momento più vantaggioso (mentre
l’interesse non è soggetto a variazioni, essendo indipendente
dalla fluttuazione di valore dei beni o servizî); c) la banca è
gravata dalla responsabilità per il bene fino alla consegna di questo al
cliente. In tal modo, i servizî resi dalla banca islamica assumono un
valore diverso dal semplice prestito per l’acquisto del bene, praticato
dalle banche ordinarie. Uno schema chiarificatore dei complessi rapporti cui
dà luogo
Una
valutazione generale dell’istituto di notevole interesse è offerta
da M. El-Gamal, Contemporary Islamic Law and Finance: the
Tradeoff between Brand-Name Distinctiveness and Convergence, cit., p. 199,
il quale sottolinea che le odierne forme di Murabahah
hanno assai poco in comune con l’istituto tradizionale cui il nomen iuris si riferisce,
avvantaggiandosi della relativa “etichetta” al fine di ritrarre una
qualificazione lecita per la nuova, ma diversa, operazione posta in essere,
sì che gli studiosi moderni che ne avallano la liceità possono
accreditare la loro opinione in base all’autorità degli antichi
giuristi islamici.
[105] Una
visione eclettica dei rapporti tra gli schemi negoziali indicati nel testo si
rinviene nella riflessione di M. H.
Kamali, Equity and Fairness in
Islam, cit., spec. pp. 114 ss., ove si suggerisce, ad esempio,
l’integrazione tra Murabahah e Musharakah, al fine di articolare in
modo più appropriato alle esigenze delle parti sia la partecipazione
nell’attività gestoria sia la ripartizione dei rischi connessi
all’affare. In tal modo, le
parti sono poste in grado di prevedere, nei contratti di Musharakah, che ogni tipo di acquisto e di rivendita per conto
della relativa società debba essere condotto nei termini della Murabahah.
[106]
Così M. U. Chapra, The Nature of Riba and its Treatment in the
Qu’ran, Hadits and Fiqh, cit., p.
[107]
Secondo N. A. Saleh, Financial Transactions and the Islamic Theory of Obligations and
Contracts, cit., p. 18, la proibizione del ribā’ nelle attività bancarie non coinvolge
esclusivamente le operazioni finanziarie di considerevole entità, ma si
estende a qualsivoglia transazione monetaria, per quanto esigua si presenti. Ne
consegue che il costo del servizio che la banca fornisce al cliente non
può in alcun modo essere correlato al valore finanziario di quel
servizio, come si verificherebbe se fosse proporzionale all’ammontare
delle somme coinvolte (mentre, al più, detto costo potrebbe essere
proporzionale all’ampiezza del servizio attualmente reso dalla banca).
[108] Ci si
riferisce alla già citata Sura III, versetto 130, prima parte: “O voi che credete, non cibatevi
dell’usura che aumenta di doppio in doppio”.
[109] La
necessità (darura) risulta
essere una delle quattro tecniche applicate nel settore finanziario dalla
scienza giuridica islamica, oltre alla diretta derivazione dai testi rivelati
del Corano e della Sunna (c.d. ijtihad,
la quale viene utilizzata, seppur raramente, per modificare le pratiche
negoziali finanziarie o bancarie), alla scelta tra le diverse opinioni
formulate sul punto dai giureconsulti (c.d. ikhtiyar,
della quale si valuta favorevolmente il sincretismo tra l’interpretazione
degli studiosi moderni e quella fornita dai grandi autori classici e che
risulta essere il metodo più comunemente utilizzato nel settore bancario
e finanziario) e al benessere generale (maslaha,
che include anche il benessere religioso). Il riferimento alla darura, che rifugge dal rigore teorico
ma che permette di adottare come regola qualunque posizione, anche contraria ad
una perentoria prescrizione della Shari’ah, quando un soggetto è spinto da una estrema necessità,
va inteso in senso assai stretto, come riferibile a situazioni di vita o di
morte (pur se una versione della dottrina in discorso ritiene che anche un mero
bisogno (haja), se avvertito da molti, possa essere sottoposto al
medesimo trattamento normativo della necessità, in cui si trovi un solo soggetto). Tuttavia
nei pareri legali (fatāwā) resi sul tema dal Muftī o da
giuristi di fama, riguardanti in special modo l’autorizzazione fornita
alle banche islamiche per il deposito di fondi presso conti produttivi di
interessi, specie in paesi stranieri, vi sono condizioni stringenti alle quali
le attività consentite sono sottoposte, come la richiesta che i guadagni
(i quali permangono contrari ai precetti islamici, benché si sia
autorizzati a percepirli) vengano utilizzati per scopi meritorî sotto il
profilo religioso, come la carità o la ricerca scientifica. Cfr. sul
punto l’ampia ricognizione di F.
E. Vogel, The Islamic Law of
Finance, cit., pp. 34 ss.
[110] Per
questa puntuale critica degli argomenti favorevoli all’interesse bancario
rinvio a Z.
Ahmad, The Theory of Riba,
cit., p. 65 s.
In particolare, per quanto concerne i suddetti
argomenti, merita sottolineare l’approfondimento che, della teoria del
bisogno/necessità (haja/darura), è stato dato da un
illustre studioso, Muhammad Abu Zahra,
il cui ragionamento può essere così articolato: premesso, come si
è detto, che per i sostenitori del prestito con interesse questo
è richiesto dalla stessa necessità (darura) e, in mancanza
di essa, dovrà considerarsi il benessere generale (Maslaha),
assunto come legge di Dio, questo argomento è assimilabile
all’attenuazione della rigidità di taluni divieti, come quello di
mangiare carne suina o bere vino, che in situazioni difficili possono essere
resi meno cogenti. Tuttavia, nel caso di prestito ad interesse, non pare
all’illustre studioso che possa rinvenirsi un’analogia con i casi
di speciale difficoltà di cui si è detto. Inoltre, osserva
perspicuamente Abu Zahra, se anche si trattasse di situazioni comparabili, la
suddetta attenuazione del divieto dovrebbe considerarsi caso per caso, a
livello individuale, non certo in una prospettiva sociale e generale. Infine,
se anche a livello individuale potesse prospettarsi la possibilità del
prestito ad interesse, la necessità dovrebbe operare a favore del solo
debitore, mai di colui che concede il prestito (come esemplificato nel caso,
definito irrealistico da Abu Zahra, dello Stato musulmano che si accinge ad
affrontare una guerra e, dovendo acquistare un arsenale per fronteggiarla,
può ricorrere al prestito con interesse al massimo in quanto debitore, non
come concedente). Vi è, difatti, una netta distinzione tra dare e
prendere in prestito ad interesse, pur se entrambi costituiscono illecito (haram);
il primo è vietato per sé, mentre il secondo per le sue
conseguenze (si parla di responsabilità accessoria del debitore, mentre
quella del creditore è qualificata come primaria). Cfr. in tema C. Mallat, The
Debate on Riba and Interest in Twentieth Century Jurisprudence, cit., pp.
77 s.
[111] Si
verifica, a questo proposito, uno svantaggio strutturale delle banche islamiche
rispetto alle banche ordinarie, in quanto, qualora le prime sviluppassero nuovi
strumenti finanziarî, le seconde potrebbero senz’altro decidere di
adottarli, nel caso in cui li giudicassero utili, mentre il fenomeno contrario
non sarebbe sempre possibile, se le tecniche bancarie di nuova ideazione
fossero contrarie al divieto di ribā’; in tal senso F. Al-Omar
– M. Abdel-Haq, Islamic
Banking. Theory, Practice & Challenges, cit, p. 24.
[112] Questo aspetto viene messo in luce da V. Nienhaus, Islamic economics, finance and banking – theory and practice,
cit., p. 4 s.
[113] Cfr.
per questo rilievo V. Nienhaus, Islamic economics, finance and banking
– theory and practice, cit., p. 9, il quale evidenzia come le
tecniche fondate sul modello PLS vengano utilizzate in special modo nel credito
commerciale a breve termine, che presenta un’incertezza non significativa
in termini di profitto atteso.
[114] Detta
conformazione deriva dalla prevalenza
in esso del modello di controllo religioso, in una prospettiva che
adotta come criterio di classificazione sistemologica la prevalenza nelle
diverse organizzazioni sociali di uno o dell’altro dei tre modelli di
controllo (quello basato sul diritto, quello basato sulla tradizione o sulla
religione e quello basato sulla politica); sul tema rinvio senz’altro a
U. Mattei, Verso una tripartizione non eurocentrica dei sistemi giuridici, in Scintillae iuris. Studi in memoria di Gino
Gorla, t. 1, Milano, 1994 pp. 775 ss., spec. pp. 790 ss.
Si v.
peraltro un’attualizzazione di questo assunto nella Introduzione di G. M. Piccinelli
a F. Castro, Il modello islamico2, cit., spec. pp. XIII s., il quale sottolinea,
testualmente, come il legislatore statale, eventualmente di rango
costituzionale, stabilisca in via esclusiva l’ambito di
operatività del diritto musulmano, che non si applica più nella
sua integrità ma in relazione allo spazio che lo stesso legislatore
intende di volta in volta concedergli o sottrargli.
[115] La
stessa Grameen Bank applica, difatti, un tasso di interesse pari al 16 %,
ciò che presenterebbe, se praticato nel nostro ordinamento, serî
profili di illiceità penale e civilistica. Tuttavia, relativizzando la
misura indicata rispetto al contesto di riferimento, anche a cagione
dell’esiguo ammontare dei prestiti concessi, è indubbio che in tal
modo si consente l’accesso al credito da parte di coloro che non rientrano
nei circuiti ordinarî delle erogazioni finanziarie (la
sostenibilità del prestito così strutturato è
vieppiù dimostrata dalla elevata percentuale di restituzioni del
capitale, appresso riferita). Tuttavia, non può tacersi che la misura,
in sé consistente, del saggio di interesse costituisce uno dei motivi di
maggior frizione del microcredito con i principî del diritto islamico,
come descritto infra nel testo.
[116]
Questo emerge con nettezza proprio nel campo dei prestiti a scopo di
solidarietà, ai quali ci si riferisce, si è già detto, con
il termine Qard Hasan, che il Corano
richiede ai musulmani di rendere disponibili nei confronti di chiunque versi in
stato di bisogno. Per essi si prevede che il sovvenuto debba restituire
esclusivamente il capitale, pur essendo ammesso un ulteriore importo a sua
discrezione; inoltre, la restituzione avviene dopo un lasso di tempo concordato
tra le parti. È ammessa anche la previsione di costi del servizio
corrisposto dalla banca, che sono imputabili al capitale ma non possono essere
di entità gravosa. Va sottolineato come spesso i prestiti in esame siano
corrisposti ad istituzioni caritatevoli per il finanziamento della relativa
attività, il che contribuisce ulteriormente a ravvicinare
l’esperienza del Qard Hasan a
quella del microcredito. Si comprende, allora, come la presenza di un istituto
che risulta coestensivo rispetto al fenomeno oggetto della presente indagine ma
che, a differenza di questo, non sia correlato alla responsabilizzazione del
sovvenuto mediante lo strumento dell’interesse, ponga le basi per un
possibile rigetto dello schema alieno, non solo da un punto di vista della
conformità ai precetti filosofico-religiosi, ma anche sotto il profilo
della reale convenienza per i destinatarî.
[117] Un
accenno in tal senso è rinvenibile in R.
Hamaui – M. Mauri, Economia
e finanza islamica, Seminario tenutosi presso l’Università
degli studi di Bergamo il 30 ottobre 2007, p. 62 del dattiloscritto
(consultabile in http://wwwdata.unibg.it/dati/bacheca/270/27323.pdf),
i quali, nell’evidenziare come siano sorti in taluni paesi islamici
progetti di microcredito totalmente aderenti ai principî sciaraitici,
sottolineano le difficoltà che comporta l’adozione di simili
meccanismi, come le complessità gestionali e la predisposizione di un
sistema di contabilità che sia capace di registrare in modo capillare la
percezione dei profitti.
[118] Cfr. S. Al-Harran, Partnership Financing: Self-Help for the Poor, cit., spec. p. 34,
per uno specifico riferimento alle politiche creditizie operate dalla Grameen
Bank e alla capacità delle medesime di assicurare un elevatissimo tasso
(documentato al 98%) di rimborso dei finanziamenti erogati. In specie, la
riflessione in discorso esprime il tributo strategico dovuto all’istituto
del microcredito dal contesto geografico che essa descrive, ossia
[119] Da
ultimo si v. in tal senso M. H. Kamali,
Shari’ah and Civil Law: towards a Methodology of Harmonization, in XIV Islamic Law and Society 391
(2007), spec. p. 399, il quale,
alquanto tralatiziamente, afferma che un tentativo di coordinamento delle
rispettive posizioni di base (definite enfaticamente diametrically opposing
positions) di Shari’ah e Civil Law sarebbe irrealistico
– pur essendo possibile rinvenire taluni tratti comuni – in quanto
sussiste tra il sistema bancario islamico e quello ordinario una netta
separazione concettuale, prima ancora che di struttura.
[120] La
diffusione, come principio volto all’arricchimento culturale, è
stata evidenziata, difatti, dallo stesso Profeta Maometto, coniugandosi con
un’altra massima consolidata, in base alla quale tutto ciò che non
è proibito dalla Shari’ah è consentito in via di
presunzione, ciò che costituisce un argomento di notevole peso in ordine
all’apertura del diritto islamico ai modelli provenienti da altre
culture. Quanto detto si pone in aperto contrasto con l’opinione di chi
contesta la reale islamicità delle istituzioni finanziarie sviluppate
nella tradizione capitalistica occidentale e ritiene che i musulmani debbano
realizzare istituzioni “puramente islamiche”. È stato,
peraltro, opportunamente fatto notare che in tal modo si dimentica la
disponibilità riscontrata nella storia e nella civiltà islamica
al sincretismo culturale e all’assimilazione, come chiaramente
evidenziato da A Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the
Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation, cit., p. 140 s.,
cui può farsi riferimento anche per una puntuale disamina del valore
inerente al concetto di diffusione.
[121] Si
veda, per una ragionata sintesi dei motivi che ne sostengono
l’applicazione e ne giustificano il successo, M. Nowak, Non si presta
solo ai ricchi, Torino, 2005, spec. pp. 149 ss. In Italia, nel biennio
2006-2008, le somme erogate a titolo di microcredito hanno subito un incremento
del 33%, mentre i beneficiari sono aumentati del 24%; tra essi si rinvengono
principalmente studenti e «atipici», donne e immigrati, over 40
«espulsi» dal mercato del lavoro, ma anche famiglie normali, alle
prese con problemi di liquidità derivanti dall’insufficienza del
reddito mensile (fonte: Corriere della Sera, 1° giugno 2008, articolo a
firma di G. Jacomella, pp. 8-9).
[122] Mi
permetto di rinviare, per una più articolata analisi della prospettiva
di ricerca che ho qui indicato e, segnatamente, delle implicazioni sistematiche
in tema di microfinanza nell’ordinamento italiano sul versante del
principio di solidarietà, al mio lavoro Il microcredito solidale: profili tipologici e prospettive disciplinari,
in corso di pubblicazione.