N. 8 – 2009 – Contributi

 

LA LOGGIA  Enrico La potestà legislativa dello Stato e delle Regioni in materia di contratti alla luce dell'articolo 117 della Costituzione

 

Enrico La Loggia

Università di Palermo

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Appalti pubblici e opere pubbliche tra competenza legislativa esclusiva e concorrente. – 3. I principi di sussidiarietà e adeguatezza. – 4. La potestà regolamentare e amministrativa. – 5. Il Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture. – 6. In particolare l’articolo 4 e il riparto delle competenze: la sentenza della Corte Costituzionale n. 401 del 2007.

 

 

1. – Premessa

 

L’innovazione più importante della riforma del Titolo V della Costituzione, modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3,  è rappresentata dal riconoscimento su un piano di pari dignità costituzionale dei Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, quali elementi costitutivi della Repubblica, in quanto livelli di governo generale, esponenziali di comunità territoriali ad ordinamento autonomo.

La riforma costituzionale, tuttavia, trova la sua parte più peculiare nella radicale rivoluzione operata dalla modifica dell’articolo 117, della Costituzione, in tema di riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni. Tale nuova configurazione della potestà legislativa prevede, infatti, il rovesciamento del criterio di riparto delle competenze tra  lo Stato e le Regioni, in base al quale allo Stato spetta la potestà legislativa esclusiva in un numero di materie tassativamente elencate dal comma 2, mentre alle Regioni spettano tutte le competenze residuali, oltre alla legislazione di dettaglio nelle materie elencate dal comma 3, di cui lo Stato stabilisce “soltanto” i principi fondamentali. Tale ultima attività, peraltro, non è indispensabile affinché le Regioni possano emanare la propria disciplina di dettaglio in quanto la Corte Costituzionale ha quasi immediatamente ribadito che, in assenza di specifiche disposizioni legislative, non potendosi consentire una paralisi del sistema in attesa dell’emanazione dei principi fondamentali da parte del legislatore statale nelle materie di legislazione concorrente, i principi possono desumersi dalla legislazione vigente.

Aspetto rilevante del nuovo sistema sembra, quindi, essere quello di far operare legislatore statale e legislatore regionale, almeno in linea di principio, in un regime di separazione che si potrebbe tradurre, anche, in una parità gerarchica nel sistema delle fonti, essendo il nuovo rapporto non più regolato dalla gerarchia ma dalla competenza.

Parte della dottrina[1], infatti, sostiene che tale parificazione non verrebbe messa in discussione nemmeno dalla previsione relativa alla competenza legislativa concorrente di cui al comma 3, dell’articolo 117, della Costituzione, perché nella nuova dizione adoperata sembra chiaro l’intento di una netta ripartizione delle competenze tra il legislatore regionale, che deve rispettare i principi determinati dalle leggi statali, ed il legislatore statale che può soltanto stabilire i principi fondamentali delle materie a legislazione concorrente, lasciando integralmente al legislatore regionale la disciplina di ogni altro aspetto.

Tale parificazione sembra chiara nel disegno del costituente del 2001 per svariati motivi tra cui si segnala, a mero titolo esemplificativo, la soggezione della potestà legislativa statale e regionale ai medesimi limiti dati dal rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali[2].

Prima della riforma del Titolo V della Costituzione, tuttavia, è stato il legislatore statale che, di volta in volta, ha potuto determinare i contenuti delle materie regionali, in contrasto, peraltro, con quella che doveva essere la lettura più adeguata del testo della Costituzione, dal momento che l’enumerazione delle materie regionali è un “prius” giuridico, oltre che logico, sia rispetto al legislatore regionale, che al legislatore ordinario statale, che sulla base dell’enumerazione costituzionale è chiamato a definire i principi fondamentali delle materie.

Significativa è stata, in questo senso, la sentenza della Corte Costituzionale n° 174 del 1981, in materia di beneficenza pubblica, con la quale la Corte, riprendendo un particolare orientamento della dottrina, ammetteva che il legislatore, con gli atti di esercizio della competenza poteva procedere alla definizione delle materie[3].

Quest’orientamento potrebbe avere ragion d’essere anche nel nuovo articolo 117 della Costituzione, in quanto se nel precedente sistema, la legge statale ha potuto determinare il contenuto delle materie utilizzando la legislazione che avrebbe dovuto fissare i principi fondamentali, nell’attuale sistema di riparto potrebbe attuarsi la sperimentazione, tipica, peraltro, degli ordinamenti federali, dell’ampliamento delle voci enumerate, attraverso l’attuazione all’interno di queste di oggetti che potrebbero appartenere ad altri campi materiali.

Trascorsi ormai sette anni dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni contenute nell’articolo 117 della Costituzione, il sistema sembra muoversi verso quest’ultima ipotesi, nel senso di una interconnessione, più che di netta separazione, dei due livelli: basti pensare all’inclusione in elenchi diversi di materie in tutto o in parte sovrapponibili come nel caso di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, di competenza esclusiva statale, e della valorizzazione degli stessi beni culturali e ambientali; di competenza concorrente, i confini delle quali appaiono incerti e difficilmente individuabili; alle materie trasversali, che condizionano le competenze legislative regionali in qualunque forma esercitate, come la “tutela della concorrenza”[4]; agli “ambiti di legislazione”, sostanzialmente simili alle materie trasversali ma in relazione a materie non espressamente elencate nell’articolo 117, che «non integrano una vera e propria materia, ma che si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti»[5].

È questo il caso dei “lavori pubblici” che, non rientrando tra le materie espressamente elencate dall’articolo 117, si qualificano a seconda dell’oggetto al quale di volta in volta afferiscono.

Ciò premesso, il presente lavoro si propone di delimitare, per quanto possibile, la materia dei lavori pubblici, considerando la precedente disciplina dell’articolo 117, della Costituzione, e la nuova, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, operata della legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3,  utilizzando, a supporto di tale analisi, la giurisprudenza, ormai copiosa, della Corte Costituzionale.

Definito questo, si passerà allo studio degli strumenti utilizzabili e, di fatto, già utilizzati dallo Stato, per attrarre funzioni amministrative e, in applicazione del principio di legalità, le conseguenti competenze legislative, riguardo ad ambiti e materie che, da una “semplice” lettura dell’articolo 117 della Costituzione, non rientrerebbero nella sua competenza, quanto meno esclusiva: si affronteranno le questioni riguardanti la sussidiarietà e l’adeguatezza.

Individuati i limiti e le modalità di “attrazione”, si passerà ad affrontare l’applicabilità degli stessi principi e strumenti, a forme di normazione secondaria in relazione alla potestà regolamentare e amministrativa anche in riferimento al potere sostitutivo e all’interesse nazionale, nei limiti in cui questo è ancora evocabile.

Ci si propone, quindi, di individuare all’interno del Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, le norme che rientrano nella potestà legislativa dello Stato, se non per i contenuti, almeno per l’individuazione dei principi, ovvero quelle che, seppur in recepimento di direttive comunitarie, dovranno ritenersi cedevoli rispetto al successivo intervento del legislatore regionale, nell’ambito delle sue competenze di disciplinare il dettaglio ovvero, residualmente, l’intero ambito.

Si soffermerà l’attenzione, in fine, sull’articolo 4 del Codice e sulla sua idoneità a non lasciare perplessità circa il riparto delle competenze legislative, in relazione al parere del Consiglio di Stato, nonché della Conferenza Unificata.

Si evidenzia sin da subito che nell’ambito della trattazione si farà, quasi sempre, esclusivo riferimento alle Regioni, intendendo per quest’ultime quelle a Statuto ordinario.

Per le Regioni a Statuto speciale e le Province Autonome di Trento e Bolzano, senza voler entrare nel dibattito dottrinario circa l’applicabilità alla stesse del nuovo Titolo V della Costituzione, si evidenzia che l’articolo 10 della l. cost. n. 3 del 2001 prevede che le disposizioni del Titolo V della Costituzione si applicano per le parti in cui queste prevedano forme di autonomia maggiore rispetto a quelle già previste dai rispettivi Statuti di autonomia.

Da ciò sembrerebbe potersi evincere che la normativa statale di riferimento si applica anche alle Regioni a Statuto speciale e alle Province Autonome di Trento e di Bolzano (anche se per quest’ultime la fattispecie, come si cercherà di evidenziare, è ancora diversa), nei limiti e nel rispetto delle potestà loro attribuite dai propri statuti di autonomia e relative norme di attuazione.

 

 

2. – Appalti pubblici e opere pubbliche tra competenza legislativa esclusiva e concorrente

 

La riforma in senso federalista ha posto numerosi problemi ed interrogativi relativamente al coordinamento tra norma statale e norma regionale soprattutto con riferimento a determinate materie, fra cui quella dei lavori pubblici.

Tali problemi sono sorti anche in relazione al fatto che vi sono alcune materie previste dal comma secondo dell’articolo 117 della Costituzione (ad esempio la tutela della concorrenza, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela dell’ambiente), relativamente alle quali si attribuisce allo Stato una competenza c.d. “trasversale”. In dette materie cioè, come prima accennato, la legislazione statale tende a svolgere un ruolo di omogeneizzazione del sistema andando ad incidere anche su materie riservate alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni.

L’articolo 117 della Costituzione, prima della riforma attuata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, riservava allo Stato la competenza legislativa per tutte le opere e infrastrutture pubbliche, demandando all’intervento legislativo regionale la «viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale», nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, («sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale»)[6].

All’indomani dell’entrata in vigore del nuovo articolo 117 della Costituzione, si è aperto un acceso dibattito in tema di appalti pubblici in quanto il testo approvato dalla legge costituzionale di riforma del Titolo V della Costituzione, non prevedeva la materia “appalti pubblici” né in competenza legislativa esclusiva statale, né in competenza legislativa concorrente, tanto da fare desumere a molti studiosi, almeno in prima analisi, che dovesse rientrare nella competenza legislativa residuale regionale di cui al comma 4 dello stesso articolo, come novellato dalla legge di riforma costituzionale, a norma del quale spetta alle Regioni «la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato»[7].

Tale problema si poneva sia in riferimento alla “validità” delle leggi statali in materia di appalti pubblici alla luce del nuovo Titolo V della Costituzione, sia in riferimento alla possibilità per lo Stato di continuare a legiferare e in che modo e con quali limiti rispetto alla competenza legislativa regionale, laddove non si arrivasse alla conclusione (in realtà presa in considerazione soltanto in un primo momento) che fosse competenza residuale regionale.

In riferimento alla “validità” delle leggi statali, sin dall’epoca del primo regionalismo, la Corte Costituzionale[8], aveva affermato la non implicita abrogazione delle norme legislative preesistenti l’entrata in vigore della riforma costituzionale, ma la loro perdurante vigenza fino alla successiva declaratoria di incostituzionalità, ovvero fino a quando l’autonomia regionale si fosse espressa attuando, con proprie leggi, i nuovi principi costituzionali[9], secondo il meccanismo della sostituzione in funzione del principio della prevalenza della legge regionale successiva su quella statale precedente. Di modo che le norme statali primarie di disciplina degli appalti pubblici di lavori forniture e servizi, anche ove si accerti la migrazione della relativa competenza legislativa alle Regioni, sono destinate a produrre effetti fintantoché le Regioni non legiferino a loro volta sulle stesse materie, ovvero non le impugnino in via incidentale assumendone l’illegittimità per contrasto con i nuovi principi costituzionali[10]. In realtà la Corte sembra aver cristallizzato nel principio di continuità l’impossibilità di dichiarare l’illegittimità di una norma preesistente alla riforma per il “solo” contrasto con i nuovi principi costituzionali, in virtù della cedevolezza della norma in contrasto con il nuovo ordinamento (ma legittimamente emanata in costanza del vecchio), nel momento in cui entra in vigore la nuova disciplina sostitutiva emanata in armonia con le nuove norme[11].

Depongono, peraltro, nella stessa direzione anche fondamentali esigenze di continuità dell’ordinamento giuridico e la connessa necessità di evitare vuoti normativi. Tale orientamento è stato più volte ribadito dalla Corte Costituzionale, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione.

Quanto al secondo problema, e cioè in che modo ed in che termini lo Stato possa legiferare in materia di appalti pubblici, lo stesso è stato risolto dalla Corte Costituzionale, che ha affrontato la questione a seguito dell’impugnativa della l. n. 443 del 2001, recante “delega al Governo in materia di infrastrutture e insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive”, cosiddetta “legge obiettivo”, da parte di una serie di Regioni[12]. Tale legge, attribuisce al Governo il compito di individuare le infrastrutture pubbliche e private e gli insediamenti produttivi strategici e di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione del Paese.

Le Regioni ricorrenti sostengono, per quanto qui di interesse, l’illegittimità dell’intervento legislativo da parte dello Stato in quanto carente di competenza a legiferare in materia di appalti pubblici dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale e le conseguenti modifiche all’articolo 117 della Costituzione.

Si lamenta anzitutto la violazione dell’articolo 117 della Costituzione, adducendosi al riguardo che il predetto compito non è ascrivibile ad alcuna delle materie di competenza legislativa esclusiva statale.

Alcune tra le ricorrenti sostengono, inoltre, che, non essendo più contemplata dall’articolo 117 della Costituzione la materia dei “lavori pubblici di interesse nazionale”, non sarebbe nemmeno possibile far riferimento alla dimensione nazionale dell’interesse così da escludere la potestà legislativa regionale, atteso che la scelta del legislatore costituzionale è stata proprio quella di considerare detta dimensione come rilevante in relazione al riparto solo nell’ambito di quanto assegnato allo Stato a titolo di potestà legislativa esclusiva o concorrente.

Laddove, peraltro, si dovesse ravvisare una potestà legislativa concorrente di cui all’articolo. 117, terzo comma, della Costituzione, sostengono le ricorrenti che la disposizione censurata, sarebbe comunque illegittima da un lato, in quanto prevede una disciplina di dettaglio e non di principio e dunque lesiva dell’autonomia legislativa regionale e dall’altro in quanto escluderebbe le Regioni dal processo “codecisionale”, che dovrebbe essere garantito in base allo strumento dell’intesa tra Stato e Regioni medesime, violando, quindi, il principio di leale collaborazione che dovrebbe informare tutti i livelli di Governo[13]. Si sostiene inoltre che, alcune disposizioni del suddetto provvedimento, dettano principi non già alle Regioni ma al Governo e ciò attraverso una disciplina compiuta e di dettaglio, non cedevole rispetto ad una eventuale futura legislazione regionale[14].

In prima battuta la Corte conferma che «il nuovo articolo 117 della Costituzione, distribuisce le competenze legislative in base ad uno schema imperniato sulla enumerazione delle competenze statali; con un rovesciamento completo della previgente tecnica del riparto sono ora affidate alle Regioni, oltre alle funzioni concorrenti, le funzioni legislative residuali». Subito dopo, tuttavia, continua sostenendo che «in questo quadro, limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materie di potestà concorrente, come postulano le ricorrenti, significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze [basti pensare al riguardo alla legislazione concorrente dell’ordinamento costituzionale tedesco (konkurrierende Gesetzgebung) o alla clausola di supremazia nel sistema federale statunitense (Supremacy Clause)]. Anche nel nostro sistema costituzionale sono presenti congegni volti a rendere più flessibile un disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l’ampia articolazione delle competenze, istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principi giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica. Un elemento di flessibilità è indubbiamente contenuto nell’art. 118, primo comma, Cost., il quale si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per queste un meccanismo dinamico che finisce col rendere meno rigida, come si chiarirà subito appresso, la stessa distribuzione delle competenze legislative, là dove prevede che le funzioni amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo diverso per assicurarne l’esercizio unitario, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. E’ del resto coerente con la matrice teorica e con il significato pratico della sussidiarietà che essa agisca come subsidium quando un livello di governo sia inadeguato alle finalità che si intenda raggiungere; ma se ne è comprovata un’attitudine ascensionale deve allora concludersi che, quando l’istanza di esercizio unitario trascende anche l’ambito regionale, la funzione amministrativa può essere esercitata dallo Stato. Ciò non può restare senza conseguenze sull’esercizio della funzione legislativa, giacché il principio di legalità, il quale impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto».

Tale argomentazione, soprattutto in riferimento al significato pratico di sussidiarietà al fine di assicurare l’esercizio unitario della funzione, sarà più avanti approfondita. Ciò che qui ora interessa è che la Corte rileva che le disposizioni oggetto di impugnativa riguardano «solo materie di potestà statale esclusiva o concorrente […] la mancata inclusione dei “lavori pubblici” nella elencazione dell’art. 117, Cost., diversamente da quanto sostenuto in numerosi ricorsi, non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni. Al contrario si tratta di ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritte di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti»[15].

In conclusione, quindi, si evince l’impossibilità di ascrivere la materia “appalti pubblici” alla competenza legislativa dello Stato o della Regione in quanto non si tratta di una vera e propria materia bensì di ambiti di legislazione. Ad una considerazione simile, tuttavia, era già pervenuta, prima della pronuncia della Corte Costituzionale, parte della dottrina sostenendo che la disciplina degli appalti comprende profili che per lo più sono specifici della materia dei contratti ad evidenza pubblica (per esempio in riferimento al contenuto del bando e ai requisiti di prequalificazione); altri che sono oggetto più in generale di temi che vengono fatti rientrare nella materia “ordinamento civile”, come l’esecuzione del contratto; altri ancora che rispondono a specifiche esigenze di tutela della concorrenza, «vale a dire alla regolamentazione tout court, genericamente necessaria per promuovere e garantire il libero dispiegarsi della concorrenza»[16]; ancora si è sostenuto che attengono il governo del territorio, porti aeroporti, grandi reti di trasporto e navigazione, tutte materie in cui non emergono chiari riferimenti ai lavori pubblici ma nelle quali può farsi rientrare l’importante momento della realizzazione delle opere pubbliche[17]. Lo stesso autore conclude nel senso che «se è vero, come è vero, che la sfera di competenza del legislatore regionale debba essere ritagliata nel rispetto della competenza attribuita al legislatore statale, ben poco rimane al legislatore regionale quando si consideri come la disciplina dei lavori pubblici sia interessata da aspetti riservati alla competenza statale per l’intero o almeno nei principi».

Anche la sentenza n. 345 del 2004 della Corte Costituzionale, offre un ulteriore contributo all'inquadramento sistematico della competenza legislativa statale in materia di “tutela della concorrenza” e, pur senza avere aggiunto novità di rilievo rispetto alla ricostruzione operata dalle altre decisioni rese sul punto, dà alcune interessanti indicazioni riguardo al modus operandi e all’ambito di intervento di questa competenza “trasversale”, in riferimento all’acquisto di beni e servizi.

La Corte, infatti, afferma che anche la disciplina dell'acquisto di beni e servizi da parte delle amministrazioni pubbliche secondo procedure di evidenza pubblica, trova il proprio fondamento nella potestà dello Stato di regolare il mercato e di favorire all’interno di esso rapporti concorrenziali, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lett. e), della Costituzione.

«Le procedure di evidenza pubblica, anche alla luce delle direttive della Comunità Europea (cfr., da ultimo, la direttiva 2004/18/CE, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e servizi), hanno assunto un rilievo fondamentale per la tutela della concorrenza tra i vari operatori economici interessati alle commesse pubbliche.

Viene in rilievo, a questo proposito, la disposizione di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, secondo la quale spetta allo Stato legiferare in via esclusiva in tema di tutela della concorrenza»[18].

A tal proposito, peraltro, la giurisprudenza della Corte[19] ha già posto in evidenza che si tratta di una competenza trasversale, che coinvolge più ambiti materiali, che si caratterizza per la natura funzionale e che vale a legittimare l’intervento del legislatore statale anche su materie, sotto altri profili, di competenza regionale.

L’intervento del legislatore statale è legittimo, tuttavia, solo se contenuto entro i limiti dei canoni di adeguatezza e proporzionalità. In particolare «la norma statale che imponesse una disciplina tanto dettagliata da risultare non proporzionata rispetto all’obiettivo della tutela della concorrenza costituirebbe una illegittima compressione dell’autonomia regionale»[20].

La sent. n. 345 del 2004, quindi, si colloca lungo il percorso tracciato dai precedenti: in essa si afferma, infatti, che la disciplina delle procedure ad evidenza pubblica, laddove impone la gara, fissa l'ambito soggettivo e oggettivo di tale obbligo, limita il ricorso alla trattativa privata e collega alla violazione di tale obbligo sanzioni civili e forme di responsabilità, si giustifica in funzione della potestà dello Stato di regolare la concorrenza nel settore degli appalti pubblici; d'altro canto, perché l'intervento statale non si traduca in una indebita compressione dell'autonomia regionale, agli enti autonomi si impone unicamente l'osservanza dei principi desumibili dalle disposizioni in questione, che, come del resto recita lo stesso art. 24 della legge n. 289 del 2002, al comma 9, si pongono quali norme “di principio e di coordinamento”.

Ed è proprio quest'ultimo profilo a rappresentare uno dei principali motivi di interesse della decisione: la Corte ha infatti cura di precisare che tale espressione è cosa diversa da quella di “principi fondamentali” che ricorre nelle ipotesi di legislazione concorrente, quasi a voler attestare l'assoluta peculiarità delle materie trasversali nel quadro delle competenze definite dal nuovo Titolo V. Poiché le materie trasversali hanno un sistema di qualificazione che esula da schemi di riparto rigidi tra legislazione statale e legislazione regionale, per loro natura, hanno la capacità di interferire in settori di competenza regionale, e ciò non implica che «abbiano l'effetto di degradare la potestà legislativa residuale in concorrente e la concorrente in una potestà di mera attuazione-integrazione»: esse mantengono infatti una propria fisionomia autonoma, in cui gli spazi lasciati alla disciplina regionale oscillano in funzione della natura e del tipo di intervento statale, il quale deve essere in ogni caso commisurato ai canoni di proporzionalità e adeguatezza rispetto al fine da perseguire[21].

 

 

3. – I principi di sussidiarietà e adeguatezza

 

La Corte Costituzionale, dopo aver chiarito che in tema di lavori pubblici, trattandosi di ambiti di legislazione, non può ascriversi la competenza legislativa aprioristicamente né allo Stato né alle Regioni, meno che mai né in via esclusiva, né concorrente, né residuale[22], fa riferimento all’articolo 118 della Costituzione non tanto per affermare l’esistenza di spazi di competenza concorrente[23], ma al fine di sostenere una competenza legislativa, regolamentare e amministrativa diversa e ulteriore rispetto a quelle che sembravano essere tassativamente elencate dall’articolo 117 della Costituzione. L’articolo 118, al comma 1, prevede una deroga al riparto delle competenze, stabilendo l’allocazione delle funzioni amministrative (e delle correlative funzioni legislative, come si vedrà) in capo allo Stato sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Nel sistema previgente era il limite dell’interesse nazionale che consentiva tale deroga; adesso le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo una diversa allocazione ai vari livelli di governo, sulla base dei principi suddetti, al fine di “assicurarne l’esercizio unitario”.

La Corte, infatti, afferma che «Una volta stabilito che, nelle materie di competenza statale esclusiva o concorrente, in virtù dell’articolo 118, primo comma, la legge può attribuire allo Stato funzioni amministrative e riconosciuto che, in ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, essa è anche abilitata a organizzarle e regolarle, al fine di renderne l’esercizio permanentemente raffrontabile a un parametro legale, resta da chiarire che i principî di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata. Che dal congiunto disposto degli articoli. 117 e 118, primo comma, sia desumibile anche il principio dell’intesa consegue dalla peculiare funzione attribuita alla sussidiarietà, che si discosta in parte da quella già conosciuta nel nostro diritto di fonte legale. Enunciato nella legge 15 marzo 1997, n. 59 come criterio ispiratore della distribuzione legale delle funzioni amministrative fra lo Stato e gli altri enti territoriali e quindi già operante nella sua dimensione meramente statica, come fondamento di un ordine prestabilito di competenze, quel principio, con la sua incorporazione nel testo della Costituzione, ha visto mutare il proprio significato. Accanto alla primitiva dimensione statica, che si fa evidente nella tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, è resa, infatti, attiva una vocazione dinamica della sussidiarietà, che consente ad essa di operare non più come ratio ispiratrice e fondamento di un ordine di attribuzioni stabilite e predeterminate, ma come fattore di flessibilità di quell’ordine in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie.

Ecco dunque dove si fonda una concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà e dell’adeguatezza. Si comprende infatti come tali principi non possano operare quali mere formule verbali capaci con la loro sola evocazione di modificare a vantaggio della legge nazionale il riparto costituzionalmente stabilito, perché ciò equivarrebbe a negare la stessa rigidità della Costituzione. E si comprende anche come essi non possano assumere la funzione che aveva un tempo l’interesse nazionale, la cui sola allegazione non è ora sufficiente a giustificare l’esercizio da parte dello Stato di una funzione di cui non sia titolare in base all’articolo 117 della Costituzione Nel nuovo Titolo V l’equazione elementare interesse nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa previgente sorreggeva l’erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle Regioni, è divenuta priva di ogni valore deontico, giacché l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale.

Ciò impone di annettere ai principi di sussidiarietà e adeguatezza una valenza squisitamente procedimentale, poiché l’esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà»[24].

Il capovolgimento dei poteri legislativi tra Stato e Regioni, si è arricchito, dunque, di una clausola di flessibilità che amplia le competenze statali a tutela di istanze di ordine unitario. Ciò non significa che si possa «resuscitare l’interesse nazionale quale clausola attributiva di competenze implicite allo Stato»[25]; la sussidiarietà diventa regola dinamica e collega il principio di legalità con un riparto proporzionato e flessibile delle funzioni amministrative. E' nell'articolo 118 della Costituzione, che la Corte ritrova la flessibilità indispensabile al funzionamento del sistema, ancorandolo stabilmente a interessi di ordine unitario, i quali giustificano, nel contempo, il potere amministrativo e quello legislativo dello Stato (venuto meno, come prima accennato, l’interesse nazionale)

La Corte, tuttavia, non affronta la questione circa ulteriori e possibili interferenze tra sussidiarietà e legislazione esclusiva delle Regioni in termini generali; piuttosto esplicitamente evidenzia che resta estranea alla materia del contendere «la questione se i principi di sussidiarietà e adeguatezza permettano di attrarre allo Stato anche competenze legislative residuali delle Regioni»[26]. In riferimento, inoltre, alla «concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà e dell'adeguatezza», discende che l'ampliamento della potestà legislativa non solo deve essere proporzionato all'interesse pubblico concreto, deve essere sottoposto allo scrutinio stretto di ragionevolezza, ma deve essere soprattutto «oggetto di un accordo con la Regione interessata» o meglio deve esplicitarsi in una «disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese che devono essere condotte in base al principio di lealtà».

La Corte sembra dunque imporre alla legge statale, a condizione della sua stessa legittimità, di prevedere quale metodo per l'esercizio delle funzioni il raccordo mediante intesa con le Regioni.

La leale collaborazione, insufficiente nella fase di iniziativa legislativa, grazie alla connessione con la sussidiarietà diviene principio basilare e vincolante per il contenuto della legge che voglia fondarsi direttamente sull'articolo 118 della Costituzione. Se la legge non rispetta il metodo dell'intesa è sicuramente illegittima e ciò sembra addirittura semplificare il controllo della Corte sulla leale collaborazione visto ex ante.

 La legge statale che in futuro pretendesse di svincolarsi dal metodo del raccordo e dell'intesa per disciplinare una funzione amministrativa allocata per esigenze unitarie a livello centrale sarebbe illegittima nonostante l'effettività di tali esigenze. Se invece la legge rispettasse siffatto metodo, si aprirebbero altri spazi di valutazione e la Corte sarebbe chiamata a sindacarne il contenuto per verificare se, in concreto, lo strumento di raccordo prescelto è proporzionato e ragionevole, in altre parole se è sufficiente a salvaguardare le aspettative regionali in nome della leale collaborazione[27].

 

 

4. – La potestà regolamentare e amministrativa

 

Ai sensi dell’articolo 117, comma 6, della Costituzione, «la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva […]. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia».

In riferimento alle norme secondarie emanate prima dell’entrata in vigore del Titolo V della Costituzione, in materie che successivamente non sono più riservate alla competenza esclusiva del legislatore statale, la Corte è stata immediatamente chiara in merito in quanto le ha dichiarate legittime in base al principio di continuità dell’ordinamento, per cui restano in vigore le norme preesistenti, emanate in conformità con il passato quadro costituzionale, in attesa che il legislatore competente le sostituisca[28]. 

È opportuno evidenziare che il legislatore costituzionale, prevedendo che la potestà regolamentare spetta allo Stato, utilizza una formulazione del comma 6, più ampia che non la mera imputazione della potestà regolamentare in capo al Governo. Pertanto sembra che il legislatore statale possa individuare gli organi centrali che nelle diverse materie siano chiamati a dettare la disciplina regolamentare, non ultime, ad esempio, le Autorità indipendenti. Per cui, gli atti a contenuto generale dell’Autorità di vigilanza per i lavori pubblici, quando siano preposti a dare attuazione a norme di legge adottate ai sensi dell’articolo 117, comma 2, potrebbero, di fatto, vincolare le Regioni[29]. Da qui il problema da una parte della c.d. normazione tecnica e, dall’altra, la normazione emanata da Autorità indipendenti e dagli altri Enti pubblici. A prescindere dalla potestà regolamentare di organizzazione delle dette Autorità che sembra discendere dall’articolo 117, comma 2, lett. g), della Costituzione, è da ritenere che la disciplina attuale possa continuare per quelle Autorità che operano in materie di competenza esclusiva dello Stato, ciò che sicuramente comprende la CONSOB e la Banca d’Italia, dotate di rilevanti poteri regolamentari. Anche le Autorità nazionali di regolazione dei servizi pubblici, almeno nella parte in cui detti regolamenti sono intesi a promuovere la concorrenza tra operatori, ad assicurare livelli essenziali di servizi, unitari sull’intero territorio nazionale, nonché ad assicurare l’effettività di tali regolamenti[30]. La limitazione della potestà regolamentare dello Stato incide sensibilmente, inoltre, sulle politiche di semplificazione procedimentale e di delegificazione avviate sin dalla l. n. 53/93 e poi con la già citata l. n. 59/97; molti dei settori oggetto di delegificazione afferiscono a materie non comprese nell’elenco del comma 2, dell’articolo 117, e, quindi, escluse dalla potestà regolamentare statale (per esempio il regolamento, di delegificazione, sui lavori pubblici, di cui al D.P.R. n. 554 del 1999).

Tuttavia è controversa in dottrina la questione se lo Stato possa emanare norme regolamentari in materia di appalti pubblici, considerato che non è una materia elencata dall’articolo 117, comma 2. e che, di fatto, non è una materia, bensì un ambito di legislazione. Si tende, come detto in precedenza a far rientrare gran parte della materia dei lavori pubblici nell’ambito della potestà legislativa elusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza. La Corte Costituzionale ha affermato che la tutela della concorrenza «abbraccia, nel loro complesso, i rapporti concorrenziali sul mercato e non esclude interventi promozionali dello Stato»[31]. Nel timore, tuttavia, che una dilatazione massima di tale competenza vanificherebbe le attribuzioni regionali in via concorrente o residuale, ha distinto gli interventi di «rilevanza macroeconomica», di pertinenza statale, dagli «interventi sintonizzati sulla realtà produttiva regionale» i quali, nel rispetto dell’articolo 120, comma 1, della Costituzione, debbono ascriversi alla competenza concorrente o residuale delle Regioni sempre che, continua la Corte, nel loro insieme non siano suscettibili di assumere rilevanza sul piano macroeconomico. Ciò detto va, peraltro, sottolineato che ai regolamenti governativi adottati in delegificazione era stato inibito disciplinare materie di competenza regionale, come affermato dalla Corte Costituzionale[32], già avendo riguardo al quadro costituzionale anteriore all’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione: l’argomento su cui è incentrata la ratio decidendi è che lo strumento della delegificazione non può operare in presenza di fonti tra le quali non vi siano rapporti di gerarchia, ma di separazione di competenze. Tale orientamento si è rafforzato con la nuova formulazione dell’articolo 117, sesto comma, Cost., secondo il quale, come già detto, la potestà regolamentare è dello Stato (salva delega alle Regioni) nelle materie di legislazione esclusiva, mentre in ogni altra materia è delle Regioni. «In un riparto così rigidamente strutturato», continua la Corte, «alla fonte secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti (sentenza n. 22 del 2003); e neppure i principi di sussidiarietà e adeguatezza possono conferire ai regolamenti statali una capacità che è estranea al loro valore, quella cioè di modificare gli ordinamenti regionali a livello primario. […] Se quindi, come già chiarito, alla legge statale è consentita l’organizzazione e la disciplina delle funzioni amministrative assunte in sussidiarietà, va precisato che la legge stessa non può spogliarsi della funzione regolativa affidandola a fonti subordinate, neppure predeterminando i principi che orientino l’esercizio della potestà regolamentare, circoscrivendone la discrezionalità»[33]. 

Sembra, quindi, che la regolamentazione in riferimento agli appalti pubblici muove nel senso di in una serie molteplice di profili destinati ad essere assorbiti nell’ambito di altre materie, con conseguente suddivisione della competenza tra gli enti che, di volta in volta, sono dotati di potestà legislative e dell’inerenza del medesimo ora di materie elencate dal comma 2 dell’articolo 117, della Costituzione, considerando quindi la potestà legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza, ordinamento civile, ordinamento contabile dello Stato, ovvero elencate dal comma 3, considerando la potestà regolamentare regionale nelle materie di governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto, ipotizzando, peraltro, la stessa potestà regolamentare nell’ambito di quella residuale di cui al comma 4 [34].

Per quanto riguarda la potestà amministrativa in materia di lavori pubblici, il riparto di competenze presenta problemi diversi rispetto a quella legislativa, ciò in quanto è stato eliminato il criterio del parallelismo tra le funzioni amministrative e le funzioni legislative.

Senza ripetere tutto quanto precedentemente esposto in merito all’emblematica pronuncia della Coste Costituzionale, l’articolo 118, comma 1, realizzando una forma di federalismo amministrativo già presente nel disegno del legislatore ordinario fin dalla l. n. 59/97, stabilisce in via generale che le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo poi la possibilità di attrarle a livelli di governo man mano superiori, per esigenze di esercizio unitario, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. La sussidiarietà, in particolare, “pretende” che il riparto avvenga partendo dal livello più vicino al cittadino per tenere conto della prossimità territoriale.

Il comma 2, dello stesso articolo, prevede che «i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze».

Senza voler spingersi sulla questione di cosa debba intendersi per funzioni proprie e se queste siano o meno assimilabili alle funzioni fondamentali dei Comuni, Province e Città metropolitane che, ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lett. p) della Costituzione, spetta individuare alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, circa la possibilità per lo Stato, ai fini di esigenze di esercizio unitario, di attrarre la funzione amministrativa e, conseguentemente quella legislativa, in tema di lavori pubblici, si rimanda a quanto precedentemente detto a proposito del commento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 303 del 2003.

 

 

5. – Il Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture

 

Il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”, è stato emanato in virtù della delega contenuta all’articolo 25 della legge n. 62 del 2005 (legge comunitaria 2005) e in attuazione delle direttive comunitarie suddette.

Tale delega, in realtà, non prevede l’emanazione di un codice. La delega, infatti, statuisce che:

«Il Governo è delegato ad adottare, con le modalità di cui all'articolo 1, uno o più decreti legislativi volti a definire un quadro normativo finalizzato al recepimento della direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, e della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

a) compilazione di un unico testo normativo recante le disposizioni legislative in materia di procedure di appalto disciplinate dalle due direttive coordinando anche le altre disposizioni in vigore nel rispetto dei principi del Trattato istitutivo dell'Unione europea;

b) semplificazione delle procedure di affidamento che non costituiscono diretta applicazione delle normative comunitarie, finalizzata a favorire il contenimento dei tempi e la massima flessibilità degli strumenti giuridici; …».

L’intenzione del legislatore, quindi, sembra quella di delegare il Governo all’emanazione di un unico testo al fine di introdurre, nel nostro Ordinamento, la disciplina delle direttive comunitarie ed il loro coordinamento con la disciplina esistente, nonché una semplificazione delle procedure di affidamento che non costituiscono diretta applicazione della normativa comunitaria.

Da una delega così configurata, il Consiglio di Stato è pervenuto a ritenere sussistente il conferimento del potere legislativo ai fini della confezione del Codice, nei sensi in cui è stato redatto, in quanto, pur sottolineando tale apparente differenza, ha ritenuto la terminologia utilizzata dalla norma (“unico testo”, di cui alla lettera a) della legge delega) come “atecnica”, traendone, quindi, un argomento per una più ampia delega[35].

Tuttavia l’esigenza di un testo (sia esso “unico” o “codice”) che portasse ad unità tutta la disciplina di riferimento, era sentita da tempo, soprattutto a livello comunitario.

Gli appalti pubblici rappresentano più del 16% del PIL dell’Unione europea, ma il mercato non è sufficientemente aperto e competitivo anche a causa dell’esistenza di barriere normative e tecniche degli Stati alla libera concorrenza del mercato degli appalti pubblici, nonché a causa di un recepimento parziale, incompleto e spesso frammentato delle direttiva da parte degli Stati membri. Al fine di incentivare la concorrenza in questo settore, l’Unione europea ha emanato il cosiddetto “Pacchetto legislativo”, composto dalle direttive oggetto di recepimento del Codice, con il chiaro obiettivo di semplificare e rafforzare la disciplina, di modernizzare il mercato attraverso nuove tecnologie, di rendere flessibile il sistema attraverso l’utilizzo di nuovi strumenti organizzativi e contrattuali nonché di adeguare la normativa alle esigenze ambientali e sociali.

Gli Stati membri, quindi, devono attuare le direttive con celerità per disporre rapidamente di un quadro normativo, ricondotto il più possibile ad unità ed aggiornato, che renda possibile l’utilizzo di strumenti moderni e flessibili[36].

Il diritto nazionale degli appalti, infatti, per grandi linee, si presentava con tre distinti decreti legislativi (nn. 358/92; 157/95; 158/95), che recepivano a loro volta precedenti direttive comunitarie, che disciplinavano gli appalti sopra soglia comunitaria di forniture e servizi, nonché lavori, forniture e servizi nei settori speciali.

Gli appalti di lavori, sia sopra che sotto soglia comunitaria, erano disciplinati dalla l. n. 109 del 1994, e successive modificazioni, nonché relative normative secondarie di attuazione ed esecuzione. Gli appalti di forniture sotto soglia comunitaria erano disciplinati con il D.P.R. n. 573 del 1995, mentre mancava una disciplina per gli appalti di servizi sotto soglia per cui sembrava applicabile la normativa di Contabilità di Stato del 1923-24, nonché i principi del Trattato.

I servizi e le forniture in economia avevano una disciplina generale nel D.P.R. n. 384 del 2001 mentre i lavori in economia erano disciplinati in generale dal D.P.R. 554 del 1999 (di attuazione della l. 109/94).

Speciali procedure di affidamento delle grandi infrastrutture erano regolate dal decreto legislativo 190 del 2002, come da ultimo modificato dal decreto legislativo n. 189 del 2005.

Vanno considerate, inoltre, le norme speciali per i settori della difesa, nonché Sismi e Sisde; si segnala, in ultimo che nel decreto legislativo n. 30 del 2004, è inserita la disciplina degli appalti relativi ai beni culturali. Si aggiunga a ciò lo sviluppo della normativa comunitaria in materia di appalti la quale si è progressivamente intrecciata con materie attinenti alla crescita economica, al progresso sociale, al rispetto dell’ambiente, tutte materie ispirate al perseguimento di un modello di sviluppo equilibrato e sostenibile[37].

L’articolato del Codice, oggi, è suddiviso in cinque parti.

La parte I, recante “principi e disposizioni comuni e contratti esclusi in tutto o in parte dall’ambito di applicazione del codice”, contiene le norme relative a oggetto, principi, definizioni, fonti di disciplina, riparto di competenze tra Stato e Regioni, Autorità per la vigilanza e Osservatorio, responsabile del procedimento, accesso; contiene, inoltre, l’elencazione dei contratti esclusi dall’ambito di applicazione del codice[38].

La parte II è, a sua volta, suddivisa in quattro Titoli. Il primo disciplina i contratti di rilevanza comunitaria e contiene la disciplina delle procedure di affidamento, nonché i principi in tema di esecuzione del contratto. Tale disciplina costituisce il modello della regolamentazione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e per la disciplina di specifiche figure contrattuali vengono, di volta in volta, enucleate le regole derogatoria alla disciplina generale; tale procedura è, infatti, seguita nel secondo Titolo che disciplina i contratti sotto soglia mediante un rinvio alla disciplina generale dettata per i contratti sopra soglia comunitaria e l’enucleazione di specifiche regole derogatorie. Il terzo Titolo detta disposizioni specifiche per i contratti relativi a lavori pubblici e, in particolare, per la concessione di opere pubbliche, il promotore finanziario, la concessione ed il contraente generale per le infrastrutture strategiche. Il quarto Titolo disciplina i contratti di lavori, servizi e forniture nel settore della difesa e nel settore dei beni culturali.

La parte III, recante “contratti pubblici di lavori, servizi, forniture nei settori speciali”, contiene il recepimento della direttiva comunitaria 2004/17/CE. Viene dettato un articolo di ricognizione delle norme, proprie dei settori ordinari, che si applicano anche ai settori speciali. Il modello è la disciplina dettata per i contratti sopra soglia di lavori, servizi e forniture, enucleando, inoltre, norme specifiche per tali settori speciali e individuando il regime dei contratti nei settori speciali ma sotto soglia comunitaria.

La parte IV disciplina il “contenzioso”, attraverso gli strumenti stragiudiziali e giudiziali di composizione delle liti in materia di contratti pubblici, in particolare la transazione, l’accordo bonario, l’arbitrato, nonché le norme in tema di giurisdizione e riti speciali e la tutela cautelare ante causam.

La parte V contiene le disposizioni di coordinamento e transitorie, nonché le abrogazioni.

Seguono, in ultimo, gli allegati anch’essi in recepimento delle direttive, a cui sono stati aggiunti altri due allegati relativi alle infrastrutture strategiche[39].

 

 

6. – In particolare l’articolo 4 e il riparto delle competenze: la sentenza della Corte Costituzionale n. 401 del 2007 [40]

 

I contratti della Pubblica Amministrazione e i pubblici lavori, servizi o forniture, come già ricordato, non sono nominati dal nuovo articolo 117 della Costituzione, ma ciò non implica che essi siano oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni.

Il loro inquadramento nel nuovo assetto costituzionale non è quindi agevole per due ragioni: da un lato tale disciplina ha carattere trasversale e rientra, nei suoi molteplici aspetti, in altre materie elencate nel nuovo articolo 117 ed attribuite alla legislazione esclusiva dello Stato o alla legislazione concorrente dello Stato e delle Regioni; sotto altro profilo, si deve distinguere tra i contratti stipulati da amministrazioni o enti statali e i contratti di interesse regionale.

L’articolo 4 del decreto legislativo n. 163/06, prevede le competenze legislative di Stato, Regioni e Province Autonome. In particolare recita:

«1. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano esercitano la potestà normativa nelle materie oggetto del presente codice nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e delle disposizioni relative a materie di competenza esclusiva dello Stato.

2. Relativamente alle materie oggetto di competenza concorrente, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano esercitano la potestà normativa nel rispetto dei principi fondamentali contenuti nelle norme del presente codice, in particolare, in tema di programmazione di lavori pubblici, approvazione dei progetti ai fini urbanistici ed espropriativi, organizzazione amministrativa, compiti e requisiti del responsabile del procedimento, sicurezza del lavoro.

3. Le regioni, nel rispetto dell’articolo 117, comma secondo, della Costituzione, non possono prevedere una disciplina diversa da quella del presente codice in relazione: alla qualificazione e selezione dei concorrenti; alle procedure di affidamento, esclusi i profili di organizzazione amministrativa; ai criteri di aggiudicazione; al subappalto; ai poteri di vigilanza sul mercato degli appalti affidati all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture; alle attività di progettazione e ai piani di sicurezza; alla stipulazione e all’esecuzione dei contratti, ivi compresi direzione dell’esecuzione, direzione dei lavori, contabilità e collaudo, ad eccezione dei profili di organizzazione e contabilità amministrative; al contenzioso. Resta ferma la competenza esclusiva dello Stato a disciplinare i contratti relativi alla tutela dei beni culturali, i contratti nel settore della difesa, i contratti segretati o che esigono particolari misure di sicurezza relativi a lavori, servizi, forniture.

4. Nelle materie di competenza normativa regionale, concorrente o esclusiva, le disposizioni del presente codice si applicano alle regioni nelle quali non sia ancora in vigore la normativa di attuazione e perdono comunque efficacia a decorrere dalla data di entrata in vigore delle normativa di attuazione adottata da ciascuna regione.

5. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano adeguano la propria legislazione secondo le disposizioni contenute negli statuti e nelle relative norme di attuazione».

Tale articolo ha subito varie modifiche, durante l’iter di approvazione del Codice, perché, nella sua versione originale, era previsto soltanto un generico riferimento alla competenza esclusiva statale che non sembrava sufficiente a capirne in fondo i criteri di riparto. I dubbi di conformità al riparto costituzionale delle competenze hanno, infatti, sempre accompagnato il codice fin dalla sua prima bozza. Il legislatore, tuttavia, ha seguito alcune indicazioni contenute sia nel parere della Conferenza Unificata che nel parere del Consiglio di Stato.

Nel parere della Conferenza Unificata, peraltro negativo sull’intero schema di decreto, si rilevava la sostanziale neutralità dell’art. 4, relativo al riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, che, «pur precisando l’ambito della competenza esclusiva dello Stato con il richiamo all’articolo 117, comma 2, lett. e), non ne chiarisce compiutamente l’ambito di applicazione, né definiva i limiti già indicati dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 272/2004»[41].

Peraltro, il parere della Conferenza metteva proprio in risalto che l’ampia dizione utilizzata nel testo sembrava «ricondurre alla competenza esclusiva dello Stato ambiti della materia ascrivibili, invece, alla competenza delle Regioni, quali, ad esempio, le modalità di svolgimento delle procedure di gara, che attengono più a profili organizzativi che di tutela della concorrenza. Sarebbe auspicabile far emergere con nettezza gli ambiti che rientrano nella potestà legislativa delle Regioni»[42].

La questione del riparto di competenze normative tra Stato e Regioni, è stata affrontata dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 401 del 2007. Il legislatore ha riservato gran parte della disciplina dei contratti pubblici allo Stato facendo leva, in particolare, su due grandi materie, appartenenti alla competenza esclusiva dello Stato: la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile,. Del resto, come ampiamente detto, gli appalti pubblici e più in generale i contratti non costituiscono in sé una materia. Pertanto la lettura non poteva che essere trasversale e all’interno vanno ricercati e verificati i singoli frammenti di competenza statale e regionale. La Corte Costituzionale, con la sua sentenza, ha pienamente confermato e consolidato l’intero impianto del Codice.

Infatti, la Corte afferma anzitutto che le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 163 del 2006, per la molteplicità degli interessi perseguiti e degli oggetti implicati, non sono riferibili ad un unico ambito materiale (punto 3, considerato in diritto). Sia i lavori sia i contratti pubblici, infatti, «non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono», per cui non sono ascrivibili in via generale alla competenza dello Stato o delle Regioni, ma debbono essere analizzati a seconda del contenuto precettivo delle singole disposizioni. Viene rigettata altresì la censura altrettanto generale, secondo cui il legislatore statale non si sarebbe limitato a disciplinare i contratti di interesse generale, ma si sarebbe spinto anche sul piano di quelli regionali e sub-regionali. La Corte ritiene infatti che «non è possibile tracciare una netta linea di demarcazione che faccia unicamente perno sul profilo soggettivo, distinguendo le procedure di gara indette da amministrazioni statali da quelle poste in essere da amministrazioni regionali o sub-regionali, per inferirne che solo le prime sarebbero di spettanza statale, mentre le seconde rientrerebbero nell’ambito della potestà legislativa regionale. La perimetrazione delle sfere materiali di competenza non può, infatti, essere determinata avendo riguardo esclusivamente alla natura del soggetto che indice la gara o al quale è riferibile quel determinato bene o servizio, in quanto, come già sottolineato, occorre fare riferimento, invece, al contenuto delle norme censurate al fine di inquadrarlo negli ambiti materiali indicati dall’art. 117 Cost.» (paragrafo 3, considerato in diritto). Fra le censure principali, suggestiva era quella relativa alla violazione del principio di leale collaborazione, in particolare sulla base dell’assunto che il parere della conferenza unificata era stato richiesto e reso soltanto sul primo schema di decreto legislativo, poi profondamente modificato prima dell’adozione del Consiglio dei Ministri. Le argomentazioni con cui la Corte disattende la censura appaiono particolarmente forti, in quanto osserva che «è bene chiarire, in via generale, come – nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi, anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (vedi sentenze numeri 423 e 6 del 2004) – il principale strumento che consente alle Regioni di avere un ruolo nella determinazione del contenuto di taluni atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale è costituito dal sistema delle Conferenze. Esso – disciplinato dal decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali) – realizza una forma di cooperazione di tipo organizzativo e costituisce «una delle sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione» (sentenza numero 31 del 2006). Chiarito ciò, deve, però, ritenersi, per quanto interessa in questa sede, che, in linea di massima, non sussiste alcuna violazione del principio di leale collaborazione nel caso in cui le modifiche introdotte allo schema di decreto legislativo successivamente alla sua sottoposizione alla Conferenza unificata siano imposte dalla necessità di adeguare il testo alle modifiche suggerite in sede consultiva (vedi la sentenza numero 179 del 2001). In tale caso, non è necessario che il testo modificato torni nuovamente alla Conferenza per un ulteriore parere, anche perché altrimenti si innescherebbe un complesso e non definibile meccanismo di continui passaggi dall’uno all’altro dei soggetti coinvolti» (§ 5.3 cons. diritto; corsivo aggiunto). Questo indebolimento della valenza del parere della Conferenza viene ribadito in via generale osservando che «Questa Corte ha, infatti, già avuto modo di affermare che «le procedure di cooperazione e di concertazione» in sede di Conferenza unificata possono «rilevare ai fini dello scrutinio di legittimità degli atti legislativi, solo in quanto l’osservanza delle stesse sia imposta, direttamente o indirettamente, dalla Costituzione» (sentenza numero 437 del 2001). Pertanto, affinché il mancato coinvolgimento di tale Conferenza, pur previsto da un atto legislativo di rango primario, possa comportare un vulnus al principio costituzionale di leale cooperazione, è necessario che ricorrano i presupposti per la operatività del principio stesso e cioè, in relazione ai profili che vengono in rilievo in questa sede, la incidenza su ambiti materiali di pertinenza regionale. Nel caso in esame, la ricorrente non ha neppure indicato quali siano le specifiche disposizioni, introdotte dal Governo ex novo nel comma in esame, idonee ad incidere su competenze regionali» (paragrafo 5.3, considerato in diritto).

Tutta una serie di questioni di costituzionalità verte sulla ampiezza da riconoscere alla materia “Tutela della concorrenza”. La Corte ripercorre la propria ricostruzione sulla materia della tutela della concorrenza, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), e ricorda che «la nozione di concorrenza, riflettendo quella operante in ambito comunitario, include in sé sia interventi «di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto», sia interventi mirati a ridurre gli squilibri attraverso la creazione delle condizioni per la instaurazione di assetti concorrenziali (sent. n. 14 del 2004; nn. 29 del 2006 e 272 del 2004). Rientrano, pertanto, nell’ambito materiale in esame le misure di garanzia del mantenimento di mercati già concorrenziali e gli strumenti di liberalizzazione dei mercati stessi».

Nell’ambito dei contratti pubblici, ad avviso della Consulta, viene, però, soprattutto in rilievo l’aspetto della tutela della concorrenza che si concretizza, in primo luogo, nell’esigenza di assicurare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi (articoli 3, paragrafo 1, lettere c e g; 4, paragrafo. 1; da 23 a 31; da 39 a 60 del Trattato che istituisce la Comunità europea, del 25 marzo 1957). Ne discende che «si tratta di assicurare l’adozione di uniformi procedure di evidenza pubblica nella scelta del contraente, idonee a garantire, in particolare, il rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza». In pratica – prosegue la Corte – «la nozione comunitaria di concorrenza, che viene in rilievo in questa sede e che si riflette su quella di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., è definita come concorrenza “per” il mercato, la quale impone che il contraente venga scelto mediante procedure di garanzia che assicurino il rispetto dei valori comunitari e costituzionali sopra indicati. Ciò ovviamente non significa che nello stesso settore degli appalti, soprattutto relativi ai servizi a rete, non sussistano concomitanti esigenze di assicurare la cosiddetta concorrenza “nel” mercato attraverso la liberalizzazione dei mercati stessi, che si realizza, tra l’altro, mediante l’eliminazione di diritti speciali o esclusivi concessi alle imprese (vedi considerando n. 3 della direttiva 31 marzo 2004, n. 2004/17/CE)». In questo quadro, la materia “tutela della concorrenza” non può non avere natura trasversale, non presentando i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di «una funzione esercitabile sui più diversi oggetti» (sent. n. 14 del 2004; poi sent. nn. 29 del 2006; 336 del 2005 e 272 del 2004). «Nello specifico settore degli appalti deve, però, ritenersi che la interferenza con competenze regionali si atteggia, in modo peculiare, non realizzandosi normalmente un intreccio in senso stretto con ambiti materiali di pertinenza regionale, bensì la prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte normativa. Ne consegue che la fase della procedura di evidenza pubblica, riconducibile alla tutela della concorrenza, potrà essere interamente disciplinata, nei limiti e secondo le modalità di seguito precisati, dal legislatore statale».

La Corte, tuttavia, non sostiene che la riconducibilità alla materia in questione renda sempre e comunque rientrante nella competenza statale ogni oggetto, in quanto va comunque effettuato «uno scrutinio di costituzionalità sui singoli atti legislativi dello Stato, al fine di stabilire se la scelta in concreto adottata sia ragionevole e proporzionata rispetto all’obiettivo prefissato, costituito, nella specie, dalla più ampia apertura del mercato degli appalti alla concorrenza. La ratio di questo controllo risiede proprio nella natura della materia in esame: essa, infatti, non ha un ambito definito, ma si caratterizza per le specifiche finalità perseguite. In questa prospettiva, si giustifica un controllo di costituzionalità – guidato dai criteri della proporzionalità e adeguatezza – volto a saggiare «la congruità dello strumento utilizzato rispetto al fine di rendere attivi i fattori determinanti dell’equilibrio economico generale» (citata sentenza numero 14 del 2004)».

Considerazioni analoghe, quanto agli effetti, sono fatte riguardo alla materia “ordinamento civile”, la quale «ricomprende l’intera disciplina di esecuzione del rapporto contrattuale, incluso l’istituto del collaudo – il quale è, tra l’altro, anche specificamente disciplinato dal codice civile (art. 1665 e seguenti), valendo per esso le argomentazioni già svolte a proposito del subappalto – si connota, pertanto, per la normale mancanza di poteri autoritativi in capo al soggetto pubblico, sostituiti dall’esercizio di autonomie negoziali» (paragrafo 6.8., considerato in diritto). Da tale assunto - in base all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. - un’altra ampia fetta del Codice degli appalti viene ricondotto alla competenza statale «disciplinando aspetti afferenti a rapporti che presentano prevalentemente natura privatistica, pur essendo parte di essi una pubblica amministrazione». «Sussiste, infatti, l’esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità di trattamento, nell’intero territorio nazionale, della disciplina della fase di conclusione ed esecuzione dei contratti di appalto avente, tra l’altro – per l’attività di unificazione e semplificazione normativa svolta dal legislatore –, valenza sistematica».

Secondo quanto precede, quindi, il Codice degli appalti esce rafforzato e consolidato dalla pronuncia costituzionale in quanto la nozione di tutela della concorrenza, da una parte, e l’ordinamento civile, dall’altra, rilevanti rispetto al Codice dei contratti, sono molto ampie e sono state utilizzate dal legislatore statale in modo corretto e rispettoso, soprattutto, della normativa europea da cui, peraltro, il Codice trae origine.

 

 



 

[1] F. Pizzetti, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico esploso, in Le Regioni, 2001.

 

[2] In tal senso F. Mannella, L’intervento della Corte costituzionale nel riparto delle competenze normative tra Stato e Regione, in Giustizia amministrativa, 2005, n. 5. In senso contrario o, quantomeno dubbioso, F. Sorrentino, in Regioni, diritto internazionale e diritto comunitario. Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, in www.associazionedeicostituzionalisti.it . Interessante anche la posizione di A. Ruggeri, in Fonti, norme, criteri ordinatori, Torino 2001, secondo cui l’articolo 117, comma 1, della Costituzione, nella sua interpretazione letterale, altera indubbiamente gli assetti posti a base dell’ordinamento espressi dagli articoli 10 e 11 della Costituzione.

In questo senso, forse, va letto l’intervento del legislatore statale che, con l’articolo 1, comma 1, della l. n. 131/03, in attuazione del Titolo V della Costituzione, ha precisato che vanno considerati vincoli alla potestà legislativa statale e regionale quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all’articolo 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione di sovranità, di cui all’articolo 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali.

 

[3] A. D’Atena, La ridefinizione legislativa della beneficenza pubblica in Giur. Cost. 2001, 1530 ss; G. Falcon, Prescrizioni costituzionali e indirizzo legislativo nella definizione delle materie regionali, in Le Regioni 1981.

 

[4] Cfr., in ultimo, sent. Corte Cost. n. 29 del 2006.

 

[5] Cfr. sent. Corte Cost. n. 303 del 2003, punto 2.3, considerato in diritto.

 

[6] Così recitava il vecchio articolo 117 della Costituzione.

 

[7] Tra i tanti, cfr. R. Caranta, I contratti pubblici, Torino, Giappichelli, 2004; A. Massera, I contratti, in (a cura di) S. Cassese, Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale. Tomo II, cit., 1547 ss; G. Pasquini, C. Guccione, D. Galli, “Legge obiettivo” e opere pubbliche, in Giorn. dir. amm., 2002, 469 ss.

 

[8] Cfr., tra le altre, sent. Corte Cost. n 13 del 1974.

 

[9] Cfr. G. Virga, I nuovi principi costituzionali non possono abrogare per implicito le disposizioni delle leggi previdenti, in Giust.it, 2001.

 

[10] Cfr. S. Bandini Zanigni, Stato, Regioni ed Enti Locali davanti alla disciplina degli appalti pubblici dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001, in Rivista trimestrale degli appalti, 2003, fasc. 3.

 

[11] In questo senso, cfr., in ultimo, sent. Corte Cost. n. 235 del 2006. Pronunciandosi in merito ad un conflitto di attribuzione proposto anche dalla Regione Veneto, quest’ultima, chiedeva, tra l’altro, di dichiarare l’illegittimità sopravvenuta di una legge dello Stato emanata prima della riforma del Titolo V della Costituzione, in quanto adesso lo Stato sarebbe carente di p0otestà legislativa riguardante la norma de quo. La Corte, non riportando nel considerato in diritto tale doglianza rilevata dalla Regione, si è pronunciata nel senso che nell’ordinamento vige il principio di continuità. Da cui si deduce, quindi, l’impossibilità di una dichiarazione di illegittimità sopravvenuta.

 

[12] Cfr. Corte Cost. n. 303 del 2003. le Regioni che hanno promosso il ricorso in via principale sono: Regione Marche, Regione Toscana, Regione Umbria, Provincia autonoma di Trento, Regione Emilia Romagna, Provincia autonoma di Bolzano, Regione Campania, Regione Basilicata, Regione Lombardia, Comune di Vercelli (il cui ricorso è stato dichiarato inammissibile, in quanto «la titolarità del potere di impugnazione di leggi statali è […] affidata in via esclusiva alla Regione»).

 

[13] Il comma oggetto di censura in tal senso (comma 1 dell’articolo 1), è stato modificato dall’articolo 13, comma 3, della legge 1° agosto 2002, n. 166, che ha mantenuto in capo al Governo l’individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti strategici e di preminente interesse nazionale, ma ha elevato il livello di coinvolgimento delle Regioni e delle Province autonome, introducendo espressamente un’intesa. In base a tale modifica l’individuazione delle opere si definisce a mezzo di un programma che è predisposto dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti «d’intesa con i Ministri competenti e le Regioni o Province autonome interessate». Tale programma deve essere inserito sempre nel DPEF ma previo parere del CIPE e “previa intesa della Conferenza unificata”, e gli interventi in esso previsti «sono automaticamente inseriti nelle intese istituzionali di programma e negli accordi di programma quadro nei comparti idrici ed ambientali […] e sono compresi in un’intesa generale quadro avente validità pluriennale tra il Governo e ogni singola Regione o Provincia autonoma, al fine del congiunto coordinamento e realizzazione delle opere».

 

[14] Quelle appena esposte sono soltanto alcune delle censure mosse dalle Regioni nei confronti della c.d. “legge obiettivo”, desumibili dal “considerato in fatto” della sentenza della Corte Costituzionale n. 303 del 2003.

 

[15] Punto 2.3 del “considerato in diritto” della sentenza. Vedi anche il punto 5, in fine, «si è dunque in presenza di una disciplina particolarmente complessa che insiste su una pluralità di materie, tra loro intrecciate, ascrivibili non solo alla potestà legislativa concorrente ma anche a quella esclusiva dello Stato (ad esempio alla tutela dell’ambiente)». In questo senso vedi R. Caranta, Appalti pubblici ed opere pubbliche tra competenza statale e competenza regionale, in Giurisprudenza italiana, 2004, fasc. 5.

 

[16] Vedi S. Badini Zanigni, in op. cit.. In questo senso, vedi tra gli altri anche C. Rossano, I lavori  pubblici nel quadro della legge costituzionale n. 3 del 2001, in Rivista trimestrale degli appalti, 2002, fasc. 4.

 

[17] In questo senso A. Carullo, L’accrescimento della competenza legislativa della Regione in materia di lavori pubblici dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Rivista trimestrale degli appalti, 2002, fasc. 4. L’autore sostiene che «considerato che oggi la distinzione tra lavori ed opere non ha più fondamento normativo, sia sotto un profilo logico che sistematico, ne deriva che vengono attratti nella sfera di competenza legislativa concorrente i lavori pubblici quando investano le materie indicate all’articolo 117, comma 3».

 

[18] Cfr. sent. Corte Cost., n. 345 del 2004, punto 6.2, del “considerato in diritto”.

 

[19] Cfr. sentt. Corte Cost., nn. 14 e 272 del 2004.

 

[20] Cfr. sent. Corte Cost., n. 272 del 2004, punto 3, del “considerato in diritto”.

 

[21] In questo senso, A. Concaro e I. Pellizzone, Tutela della concorrenza e definizione delle materie trasversali:alcune note a margine della sent. n. 345 del 2004 della Corte costituzionale, in Le Regioni, n. 3/2005.

 

[22] In questo senso anche Corte Cost., sentenza n. 370 del 2003.

 

[23] Il che, come affermato da R. Caranta, in op. cit, non si presterebbe a particolari obiezioni.

 

[24] Punto 2.2, del “considerato in diritto”.

 

[25] Vedi R. Caranta, in op. cit., pag. 1058.

 

[26] Punto 2.3, del “considerato in diritto”. In merito a tale questione vedi A. D’Atena, La Consulta parla e la riforma del Titolo V entra in vigore, in Giur. Cost., 2002. L’Autore sostiene che l’attrazione di materie di residuale competenza delle Regioni sembra potersi escludere in quanto “la Costituzione non solo esclude in radice la sussistenza di interessi unitari e infrazionabili ma priva lo Stato del primo strumento di influenza sull’Amministrazione: la legislazione di principio”. Contra, cfr. F. Cintoli, Le forme dell'intesa e il controllo sulla leale collaborazione dopo la sentenza 303 del 2003, in www.federalismi.it , 31 ottobre 2003.

 

[27] In questo senso F. Cintoli, in op. ult. cit.

 

[28] Cfr., tra le tante, Corte Cost. n. 376/02 che sostiene che “la sorte dei regolamenti che fossero stati legittimamente emanati, prima della riforma, in base alla norma impugnata, discenderebbe dal principio di continuità, per cui restano in vigore le norme preesistenti, stabilite in conformità al passato quadro costituzionale, fino a quando non vengono sostituite da nuove norme dettate dall’autorità dotata di competenza nel nuovo sistema (cfr. sentenza n. 13 del 1974)”. Il principio di continuità è stato espressamente previsto dall’articolo 1 della legge n. 131/03. un’applicazione peculiare di tale principio si riscontra nella sentenza n. 13/04. In riferimento allo stesso principio, cfr., in ultimo, Corte Cost., sent. n. 235/06. in riferimento all’esigenza di continuità vedi anche Cons. St. Ad. plen. 11.4.2002; 17.10.2002.

 

[29] Così A. Carullo, op. ult. cit., 630.

 

[30] In questo senso V. Cerulli Irelli e C. Pinelli, Normazione e amministrazione nel nuovo assetto dei pubblici poteri, in Verso il federalismo. Normazione e amministrazione nella riforma del Titolo V della Costituzione, Astrid 2004, il Mulino.

 

[31] Cfr. Corte Cost., sent. n. 14/04, e, in ultimo, sent. n. 29/06.

 

[32] Nelle sentenze n. 333 e n. 482 del 1995 e nella sentenza n. 302 del 2003.

 

[33] Cfr. Corte Cost. sent. n. 303/03, punto 7 del considerato in diritto.

 

[34] Vedi, in questo senso, S. Bandini Zanigni, in op. ult. cit..

 

[35] Così L. Giampaolino, Il nuovo codice degli appalti: rischi ed opportunità, in Giustizia Amministrativa, n. 4-2006.

 

[36] Per una trattazione completa di quanto appena succintamente esposto si veda Giornale di diritto amministrativo – Quaderni, Le nuove direttive europee sugli appalti pubblici Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, di servizi e di lavori; Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, a cura di Luigi Fiorentino e Chiara Lacava, in particolare Capitolo VIII, Conclusioni, di L. Fiorentino.

 

[37] Cfr., P. De Lise, Presentazione del nuovo codice degli appalti, in Giustizia Amministrativa, n. 1-2006.

 

[38] Ad esempio gli appalti segretati, gli appalti stipulati sulla base di accordi internazionali, ecc..

 

[39] Tale ricostruzione è stata effettuata con l’ausilio della “relazione illustrativa dell’articolato proposto”, al codice in esame.

 

[40] Nell’affrontare la delicata questione della competenza Stato-Regioni in relazione al Codice De Lise in riferimento, soprattutto, alla sentenza della Corte Costituzionale, si riporteranno interi passi della sentenza della Corte, debitamente virgolettata, e si cercherà di affermarne la validità in relazione ai principi enucleati dal Giudice della leggi nonché di confrontare gli stessi con le norme del Codice. Si segnala, inoltre, che alla data in cui si scrive, il Governo ha proposto alcune modifiche al testo del Codice, non ancora entrate in vigore. Si tratta del terzo decreto di modifica al Codice, emanato in attuazione dell'articolo 25, comma 3, della legge 18 aprile 2005, n. 62, che consente l'emanazione di disposizioni correttive ed integrative del Codice dei contratti pubblici, entro due anni dalla data di entrata in vigore dello stesso, nonché dell’articolo 1 comma 3, della stessa legge, secondo cui questi ultimi sono prorogati di novanta giorni, qualora il termine per l’espressione del parere parlamentare di cui al presente comma, ovvero i diversi termini previsti dai commi 4 e 8, scadano nei trenta giorni che precedono la scadenza dei termini previsti dai commi 1 o 5 o successivamente. Questo terzo decreto è stato preceduto dai primi due decreti legislativi di modifica sono rispettivamente del 26 gennaio 2007 n. 6 e del 31 luglio 2007, n. 113.

Il decreto di cui sopra, proseguendo l'opera di revisione al fine di giungere ad una definizione normativa organica e condivisa della materia, tiene conto: 1) delle osservazioni della Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana in ordine alla trasposizione delle direttive in materia di contratti pubblici (lettera di messa in mora n. 2007/2309); 2) della sentenza della Corte di giustizia della comunità europea e il 15 maggio 2008, relativa all'esclusione automatica delle offerte anomale dei contratti sotto soglia; 3) delle osservazioni del Consiglio di Stato, espresse nel parere n. 3262 del 2007, reso sullo schema di regolamento di esecuzione ed attuazione, ai sensi dell'articolo 5 del Codice di contratti pubblici.

 

[41] Cfr. parere della Conferenza Unificata del 9 febbraio 2006.

 

[42] Così il parere della Conferenza Unificata del 9 febbraio 2006.