N. 8 – 2009 – Contributi
Capograssi,
Kelsen e il nichilismo giuridico. Aspetti dell’attuale crisi della
scienza giuridica
Università di Sassari
Sommario: 1. Le
“Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto
formalismo giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e
forma”. La “pars destruens” del Capograssi. – 2. La
“pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico
ed alla concezione del “diritto come esperienza”. – 3. Sull’attualità del
pensiero di Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti significativi
dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti saggi
monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo
giuridico”(ontologico).
Giuseppe Capograssi scrisse le “Impressioni su Kelsen
tradotto” nel 1952[1],
poco dopo la traduzione della “Teoria generale del diritto e dello
Stato” di Hans Kelsen, a cura di Sergio Cotta e di Giuseppino Treves,
edita nel 1952 dalle Edizioni di Comunità[2].
Si tratta di un saggio denso, in cui la prosa capograssiana e la
sua “cifra stilistica” è, per dirla con Pietro Piovani,
«mossa, libera, sinuosa, andante»[3]
come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva,
concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars
destruens” che nella “pars costruens” dello scritto.
La “pars destruens” è chiara e persuasiva. La
dottrina kelseniana dello Stato e del diritto si pone fuori i reali problemi
della scienza giuridica: «ed una prima immediata impressione ha il
lettore, e deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe
così bello se uno potesse accettare questo pensiero! Come si capisce il
successo che ebbe quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci
è ormai così lontano e che era così facile ad accogliere
ogni genere di illusioni! Qui non ci sono più problemi. Come per
un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono più
disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà: ogni
cosa è sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore,
che smista e distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse
accettare! Con tanto più impegno di attenzione il lettore è
indotto a leggere»[4].
Il diritto come concepito e teorizzato dal Kelsen è una
scienza esangue. Lo notava pure Antonio Pigliaru, in “Persona umana ed
ordinamento giuridico”, del 1953, richiamando proprio in nota il pensiero
capograssiano testè citato[5].
E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia,
fondato su un’astratta idea di “Sollen”, di “dover
essere”, contrapposta al “Sein”,
all’“essere”, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge
nell’opera surriferita[6],
ma anche in altri scritti, tra “scienze dello Spirito” e
“scienze della Natura”.
Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente
formalistica, fondata sulla “norma giuridica”, monade, essenza,
fondamento del sistema kelseniano[7].
Il diritto per Kelsen è «un ordinamento
coercitivo»[8]
basato sulla “validità”, cioè la “forza
vincolante”, e sull’ “efficacia”, cioè
l’effettiva applicazione delle norme giuridiche[9].
L’ordinamento giuridico, in questa concezione, è un
sistema di «norme generali ed individuali», connesse fra loro in
base «al principio che il diritto regola la propria creazione»[10].
Lo Stato, il “potere” dello Stato, i “tre
poteri” dello Stato, gli “elementi” dello Stato, sono
soltanto “stadi diversi” “nella creazione”
dell’ordinamento giuridico[11].
Così come, in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen
quelle che per lui sono le due fondamentali forme di governo, “democrazia
ed autocrazia”, «sono modi diversi di creare l’ordinamento
giuridico»[12].
Lo Stato, entro una simile ed asfittica concezione, è un
ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci,
collocate in un «sistema giuridico gerarchico», in cui ogni norma
trae il fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente
superiore e la stessa Costituzione è ridotta a «norma sulla
normazione»[13],
sulle procedure di formazione della legge.
Capograssi nota opportunamente che lo Stato kelseniano è,
altresì, «un ordinamento relativamente accentrato», a
differenza dell’ordinamento internazionale «più
decentrato»[14].
Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva quella che
Kelsen chiama «giurisprudenza normativa»[15],
che coincide con un «sistema di norme valide», che è
l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del giurista.
Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen «il diritto in
senso sociologico», che descrive «l’effettivo comportamento
umano che rappresenta il fenomeno del diritto» e cerca «di predire
l’attività degli organi creatori del diritto e specialmente quella
dei Tribunali» e lo «Stato in senso sociologico»[16],
riguardano la sfera dell’ “efficacia del diritto”, delle
norme, e sono condizionati dal “diritto normativo”, così
come quest’ultimo concerne la sfera della “validità delle
norme” e condiziona la scienza sociologica del diritto.
Ma “scienza delle norme” e “scienza dei
fatti” sono scisse, ciascuna vive di vita propria, sono parallele e non
interferenti, sempre rigorosamente distinte ed eterogenee.
Capograssi scrive con pungente ironia che «in questi due
mondi così puri l’uno e l’altro, lo scienziato si muove con
la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria»[17].
Di conseguenza, la “giurisprudenza normativa” non si
interseca mai con la “giurisprudenza sociologica”, il diritto come
“tecnica della sanzione” ed “ordinamento coercitivo”
può “rivestire qualsiasi contenuto”, in una concezione del
“dover essere giuridico” assolutamente formalista, che, scrive
Capograssi, «non ha nemmeno per così dire il contenuto di
sé stessa come dover essere, perché questo dover essere non ha
nulla del dovere»[18].
E afferma altresì l’insigne autore, citando il
Bobbio e comparando la teoria generale del Kelsen a quella del Carnelutti, che
se la teoria generale è “teoria generale del diritto
positivo”, sicuramente quella del Carnelutti, a differenza di quella del
Kelsen, è relativa «alla vita stessa della realtà
giuridica», perché muove dalla nozione di diritto «come
composizione di conflitti di interesse»[19].
La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla
«superficie della norma e della vita», perché il sistema
gerarchico di «norme valide» trae il suo fondamento da «una
norma non da un fatto»[20],
da una «norma fondamentale», una “Grundnorm”,
«presupposta ed ipotetica», ricavata con procedimento
interpretativo dall’operatore del diritto. Quest’ultima pone
«una data autorità», «non si fonda su nessuna
norma»[21],
«è valida» «in virtù del suo contenuto» e
non «perché è stata creata in un certo modo»,
«al pari di una norma di diritto naturale, a prescindere dalla sua
validità puramente ipotetica», ed il suo contenuto è
«il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale come
il primo fatto produttivo del diritto»[22].
La norma fondamentale cioè «significa in un certo
senso, la trasformazione del potere in diritto».
Capograssi scrive con acutezza che «la perfetta separazione
della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da qualsiasi
contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la norma
fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano
proprio perché il contenuto è per esse
indifferente…perché è proprio il contenuto a dare qui
validità alla norma fondamentale»[23].
L’«identificazione perfetta» tra diritto e
Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e
“l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva
da una concezione del diritto «come forza», come «diritto
naturale della forza»[24].
E’sistema di «norme sanzionatorie» che, formalmente, sono
«un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare della forza»[25],
ma la cui validità è “emanazione” di una “norma
fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’
«evento di forza che si è assicurato il potere vale a dire il
diritto di riempire le forme vuote delle norme».[26]
Questo è il «residuo giusnaturalistico
kelseniano»: il «diritto naturale della forza» che fonda il
diritto positivo statale. La prosa capograssiana sul punto è vibrante,
incisiva: «qui il diritto è forza organizzata, cioè forza e
forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma riveste la forza»[27].
La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo
acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che
è in questo libro…richiama la visione di quegli spettri di
città e paesi, che i bombardamenti avevano demolito in modo che erano
rimasti in piedi muri e travi: non c’era più nulla tranne quel
tragico scheletro di case nude e vuote, terribili sotto la luna»,
«ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse preso quei
“cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli
uomini vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per
il diritto, come è esposto in questo libro»[28].
Il diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen per
«eventi di forza», «dispositivi di sanzioni»,
«sistemi coercitivi».
La
“pars costruens” dello scritto oggetto delle presenti
considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma convincenti, il pensiero
del Vico, sempre presente nella riflessione del Capograssi, la storia e lo
storicismo, la nozione di esperienza.
Capograssi indica come prioritaria la necessità «di
non mutilare l’oggetto della scienza del diritto, cioè
l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla
cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza»
e alla «vuota forma»[29];
la «necessità di vedere l’oggetto, cioè
l’esperienza, nella sua integralità vivente, nella sua natura,
cioè vichianamente nel modo di nascere perenne e quotidiano del diritto
come vita e come esperienza, e quindi con tutto quello per cui nasce, per cui
si afferma, per cui si concreta in forme concrete nella realtà»[30].
Al riguardo si accennano idee di grande importanza che hanno
più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il
problema della scienza del diritto”: la possibilità della
conoscenza della realtà e del diritto si compie «nella comune
coscienza umana di colui che osserva e conosce e di colui che opera nella
realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi osserva
partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse esigenze di
chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto di
quello che fa colui che opera»[31].
Ne “Il problema della scienza del diritto” si legge,
infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro l’intelletto
riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente ,
perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa,
scoprendo quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo
traverso tutte le forme concrete e particolari dell’esperienza che essa
forma»[32].
E «l’idea viva del diritto» si forma come
«parte essenziale dell’esperienza», «momento e parte
della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé
stessa nella sua effettiva e determinata puntualità e riesce a
conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e puntuali
determinazioni»[33].
Capograssi, inoltre, soffermandosi ulteriormente sull’opera
del Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana che il mondo
storico lo conosciamo perché lo facciamo…»[34];
richiama il monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori
dall’umanità…»[35].
E rileva che «se uno si mette al mondo supponendolo già
compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente
l’integralità dell’esperienza gli sfugge»[36].
In tal modo l’insigne autore coglie, dunque, il punto di
maggiore fragilità dell’impianto teorico del Kelsen, cioè
la netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma
giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’
“oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma
estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla norma»[37].
La “pars costruens” capograssiana ruota, quindi,
intorno al concetto di «unità in perenne movimento che è
tutta la natura dell’oggetto» del diritto[38],
«l’esperienza nella sua vivente umana unità» che
è “falsata” (perché l’ “oggetto”
è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del
diritto e dello Stato di Hans Kelsen[39].
E l’illustre autore, perciò, individua la
«positività del diritto» come «coerenza intrinseca al
processo di vita», «coerenza interna e vitale», e non
«coerenza formale e artificiale», delle «determinazioni della
vita giuridica», che «vivono nel concreto»[40],
ricordando un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti
sui principi generali del diritto” del civilista Antonio Cicu.
Perché è attuale la critica capograssiana al
formalismo giuridico kelseniano?
Perché nell’ “ambiguità del diritto
contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del
grande pensatore abruzzese, del 1953 [41],
si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per
riprendere il linguaggio dello stesso Capograssi, «una situazione che non
vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un
elemento di speranza», il richiamo di una «situazione
passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a
dire che preferiremmo»[42].
Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti
dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a
parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza
società” di Pietro Barcellona[43],
il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello
stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino Irti[44]
ed “Il diritto e il suo limite” di Stefano Rodotà[45].
Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46],
tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella del “nichilismo
giuridico” ( più precisamente del “nichilismo giuridico
ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di
Mario Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”[47],
che lo distingue dal “nichilismo giuridico cognitivo”
nordamericano) e quest’idea è affermata dall’angolo visuale
di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con lucidità[48],
risposte alternative al nichilismo.
Il nichilismo, senza voler entrare nel merito di tutti i suoi
significati[49],
secondo il filosofo Emanale Severino ed il giurista Natalino Irti, significa,
in un senso specifico al diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le
cose dal niente» e «riportarle al niente»[50].
Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di disorientamento
che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali,
cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al
“perché”e che come tali illuminavano l’agire
dell’uomo»[51];
Friedrich Nietzsche ne parlava come «il più inquietante tra tutti
gli ospiti»[52].
Sul punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”,
scritto in più atti dai due stessi importanti autori surrichiamati, Irti
e Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite
razionalità riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di
norme», «la validità non discende più da un
contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle
procedure proprie di ciascun ordinamento»[53]
ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a diventare
principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra
volontà»[54],
«la “capacità” della tecnica è la potenza
effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di
realizzare indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni»[55].
L’idea di sistema giuridico unitario e di diritto statale
«portatore di valori», in un simile orizzonte, è ormai
destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto.
Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos”
di crisi più acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra
“liberalismo” e “liberismo” che Benedetto Croce
già tracciava negli anni trenta[56].
Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia non conosce
differenze soggettive ma soltanto variazioni di quantità»[57].
Il “diritto globale”, come nota un altro grande
giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non
su quello di legalità, è pienamente funzionale all’
“idea di produzione” che viene dall’economia e, come scrive
l’Irti, «caratterizza l’economia globale»[58],
i cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli
Stati nazionali sovrani.
E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso
insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”,
il «dove del diritto», il «dove applicativo», il
«dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca ed
originaria spazialità del diritto», l’idea di
“confine” consustanziale allo Stato nazionale moderno che si
afferma con il capitalismo mercantile[59].
Non solo: i ritmi produttivistici della tecnica e della sua
volontà di potenza, posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti
ineluttabili da Emanuele Severino[60],
secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme
giuridiche…» che «attesta la “nientità”
del diritto, i canali delle procedure- questi che potremmo chiamare nomo-dotti,
poiché conducono le volontà dalla proposizione alla posizione di
norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi può
scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto
è indifferenza verso tutti i contenuti…»[61].
Per cui, l’attuale crisi del diritto, «nella
postmodernità giuridica», è «l’indifferenza
contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e
costituisce perciò realizzazione ed inveramento dello
“Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma
qualsiasi contenuto” (“
Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole
autore, di diversa formazione culturale, il filosofo marxista Galvano Della
Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico, “Antikelsen”,
contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia
contemporanea”[63],
individuava i limiti propri della dottrina del diritto e dello Stato del
Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una concezione meramente
formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese del diritto,
della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto importanti le
profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha giustamente
parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina adattabile a
qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di contenuti[64].
Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti
dell’attuale crisi della scienza del diritto, “nichilismo e
formalismo” sono i due aspetti pregnanti di un diritto
“tecnico”, “autoreferenziale”[65],
“senza società”, come scrive Pietro Barcellona[66]
realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore, delle distorsioni della
teoria sistemica di Luhmann[67].
Rodotà nella sua opera summenzionata scrive che «il
diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è stata da tempo esaltata
l’irresistibile potenza, la continua produzione di fini, alla quale
sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica annichilirebbe
il diritto, condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma questa è
una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica diviene
progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare alla
tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in
questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi,
determinado quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del
diritto per ablazione della sua causa finale”»[68].
Per cui viene da chiedersi, in termini comunque molto
problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al
declino dei sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi
di razionalità”, per riprendere Habermas, delle società
capitalistiche postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali
degli ordinamenti giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i
diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene altresì che
«la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai diritti fondamentali
si presenta così come una guida quotidiana, come un test permanente al
quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti. E’un
impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La politica,
considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del
rispetto. Il diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a
un sistema di valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte
tecnologiche»)[69].
Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto?[70]
Ed in che senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di Capograssi[71]
è attuale e può costituire, “storicizzato” ed
adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle
asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali
“usi sociali del diritto”?[72]
La critica capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al
presente. Essa rappresenta una delle più significative alternative
teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole
del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia»,
per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e
quindi il diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni
positive»[73];
anche perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista,
Salvatore Satta, è «dover essere dell’essere» e non
«dover essere» contrapposto all’«essere»[74],
“Sollen” staccato dal “Sein”.
Capograssi ne “L’ambiguità del diritto”[75]
propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che
«quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni
così gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e
delle sue creazioni niente altro che l’uomo». Ed esse possono
essere un’alternativa alla “nientità” del diritto
globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e
massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di
cui parla Severino ne “La filosofia futura”[76],
che quasi lascia presagire la «fine della storia» e del
«divenire storico» come «farsi dell’esperienza
umana» e, per riprendere Jhering, della “lotta per il
diritto”[77].
[1] Il
presente testo riprende, nelle linee essenziali, la relazione presentata al
Convegno di studi internazionale sull’ “Attualità del
pensiero di Giuseppe Capograssi”, tenutosi a Sassari tra il 16 ed il 18
novembre 2006, i cui atti sono in corso di pubblicazione con la casa editrice
“Il Mulino”.
V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di
diritto pubblico”,1952/4, 767-810, ora in Id., Opere, Milano,
1959, V, 313-356.
[2] V. H.Kelsen, General theory of law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di S.
Cotta e G. Treves, Milano, 1952.
[3] V. P. Piovani, Introduzione a G.Capograssi, Il
problema della scienza del diritto, Milano, 1962, VIII.
[4] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente
concezione del diritto critica verso il formalismo gradualista di Hans Kelsen
v. G.Winkler, Teoria del diritto e dottrina della
conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto (1990), tr. it.
di A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è scritto che «la dottrina
pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle
sue premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta
solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina
pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi.
Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di determinazione
dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro ancora
nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il concetto
teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale, lo deforma
e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»).
[5] V. A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su
quest’opera v. G. Bianco, Prefazione ad Antonio Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico,
in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 = http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm ed in A.
Pigliaru, op.ult.cit., Nuoro,
2008.
[10] v. H.
Kelsen, Teoria generale del
diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G.
Capograssi, Impressioni su Kelsen
tradotto, op. cit., 316-317.
[13] v.H.Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss.
Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra
“Costituzione formale” e “Costituzione materiale”
specificando che «presupposta la norma fondamentale, la costituzione
rappresenta il più alto grado del diritto statale. La costituzione
è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso
materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne,
un insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si
osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più
difficile la modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale
consiste in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche
generali, ed in particolare la creazione delle leggi formali». Questa
distinzione è, ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo
“Costituzione formale-Costituzione materiale” proposta dai
“realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl Schmitt, Giuseppe
Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli autori
richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel
che resta della Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in
“
[27] v. G.
Capograssi, Impressioni su Kelsen
tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro aggiunge nella stessa pagina, con il
consueto tono intelligente ed appassionato, che «concepito il diritto
come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento giuridico ha
una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma,
cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed è
condizionata dalla prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda;
la validità è l’espressione formale dell’efficacia, e
l’efficacia è la realtà sostanziale della validità.
Per questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si
rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto»(p.
333).
Dappresso
è scritto che «la forza è il principio del diritto; gli
interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la
norma come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è
il sistema delle norme valide fondato sull’evento di forza che
costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si può dire,
può non chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di
razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per
qualsiasi via e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di
sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo
irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del
diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con più
riuscita e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale
esplicarsi e compiersi nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma
più razionale e perfetta il diritto naturale della forza e la sua dogmatica»(p.
335).
[32] v. G.
Capograssi, Il problema della
scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di Pietro
Piovani), 181.
[40] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e
particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in
considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare
a questa unità vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di
vita, proprio le profonde esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un
interesse formativo della vita; quel cogliere dall’interno e come
componente il diritto tutta la sostanza etica del fenomeno giuridico. Qui il
giurista è non il tecnico che fa uno sforza di costruzione puramente
formale, per raggiungere una coerenza puramente formale, ma l’uomo,
proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di cogliere
il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle
profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive
della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il collaboratore
della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo traverso il
quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e
l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro
la barbarie sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è
questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita?
Perché vive?»
[41] v. G.
Capograssi, L’ambiguità
del diritto contemporaneo, in AA.VV., La
crisi del diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in Id., Opere, V, op.
cit., 385 ss.
[46] Sia
consentito di rinviare a G. Bianco,
Nichilismo giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III
vol. di agg., Torino, 2007, 790 ss.
[48] v. S.
Rodotà, La vita e le regole,
op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel
saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca
nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un
tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al
modo di dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile,
addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16);
«il percorso tra diritto e non diritto porta al disvelamento progressivo
dell’inadeguatezza della dimensione giuridica tradizionalmente conosciuta
rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine giuridico possono
annidarsi i fattori che si oppongono al dispiegarsi della personalità,
alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo più di fronte
all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto»(p. 25).
[49] v.in modo particolare sul punto M. Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003,
108; F. Nietzsche, La volontà di potenza, frammenti
postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura
di M. Ferraris e P. Kobau, Milano, 2005, 7, 8, 17.
[50] v. N.
Irti, Atto primo, in N. Irti-E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Bari,
2001, 8 ss.; Id., Nichilismo e metodo giuridico, in
“Nichilismo giuridico”, op. cit., 7.
[56] Su cui
v. B. Croce, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di
politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. Irti, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul
nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le
riflessioni contenute in B. Leoni,
Conversazione su Einaudi e Croce, in Id., Il pensiero politico moderno e
contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata,
2008, 337-374.
[57] v. N.
Irti, La rivolta delle differenze,
in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo
giuridico, op. cit., 144.
[58] v. N.
Irti, Nichilismo e formalismo
nella modernità giuridica, in Nichilismo
giuridico, op.ult.cit., 25. Sul
pensiero del Galgano v. Id., Lex mercatoria,
Bologna, 2001, 234 ss.
[59] v. N.
Irti, Le categorie giuridiche
della globalizzazione, in Norme e
luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144.
[60] v. tra
i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano,
2006, p.150sgg.; Id., Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.;
Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg.
[61] v. N.
Irti, Atto secondo, in E. Severino-N. Irti, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit.,
45-46.
[63] v. G.
Della Volpe, Antikelsen, in Id., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, 1967, 91-100.
[66] v. P.
Barcellona, Diritto senza
società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca
della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto
della società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso
la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e
l’ordine prodotto dall’autogoverno della società, e come
fine della storia intesa come metamorfosi dell’orizzonte di senso entro
il quale si sviluppa la dialettica sociale…I concetti di Stato nazionale,
che aveva rappresentato la forma dell’organizzazione sociale, e di
sovranità, che aveva individuato nella democrazia, come governo di
popolo, la base di ogni ordinamento, sono inutilizzabili per descrivere e
comprendere le forme della globalizzazione».
[67] v. P.
Barcellona, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria
surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei
progetti, della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini
in carne ed ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità
della riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi
“dispositivi” e della sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto
del moto perpetuo e per questo la sua teoria è ormai il nucleo vero di
tutte le rappresentazioni della modernità…»(p. 152). v. al riguardo N. Luhmann, La
differenziazione del diritto (1981), tr. it., Bologna, 1990, 61 ss.
[70] Su cui
v. in generale le classiche pagine di Rudolf
von Jhering, Lo scopo del diritto,
tr. it., con introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è
scritto che «lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non
esiste alcuna norma giuridica che non debba la sua origine ad uno scopo;
cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato opportunamente
notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi
intenzionali, consapevoli, voluti» (R.
Racinaro, Presentazione di
“La lotta per il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989,
XX).
[71]
Sull’attualità del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo
quarto di G. Bianco, Nichilismo giuridico, op. cit., 790 ss.
[72] Al
riguardo v. la ricostruzione contenuta in S.
Rodotà, La vita e le regole.
Tra diritto e non diritto, op.cit., 9 ss.
[74] Sul
tema v. S. Satta, Norma, diritto, giurisdizione, in
“Studi in memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, 1973, 1623 ss.,
1629; Id., Il giurista Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di
Arturo Carlo Jemolo”, Milano, 1963, IV, 589 e ora in Id., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova, 1968, 433 ss.
Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed
ampia trattazione, a G. Bianco, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore
Satta, in “Clio”, n.4/2003, 703 ss., 709 e 711.
[76] v. E.
Severino, La filosofia futura,
op.cit., 150 ss., 155-156 (pagine nelle quali si afferma che «la
volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e
decide in questa direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide
innanzitutto di eseguire quell’insieme determinato di azioni che in quel
momento aumentano determinatamente la sua potenza. In quantoè questa
decisione, la volontà è quindi certa dell’accadimento di
tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in cui tali azioni
sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente non
è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la
sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in
ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza
e cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del
proprio tentativo. Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si
troverà esistente, tenterà di aumentare la propria
potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia eterno»
perché «la volontà che si vuole sempre più potente
riconosce la possibilità del proprio annientamento»).
[77] V. R. von Jhering, La lotta per il diritto, op. cit., 71 sgg. Sostiene l’Insigne
giurista che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento
storico, il quadro del tentare, del combattere, del lottare, in breve dello
sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno scopo, posto nel
mezzo dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni, interessi umani,
è costretto incessantemente a tastare, saggiare per trovare la via giusta,
e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto
l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92).