N. 7 – 2008 – Tradizione Romana
Università di Sassari
Persone e cose: res communes
omnium
Prospettive sistematiche
tra diritto romano e tradizione
romanistica*
Sommario: 1. La summa divisio
rerum di Marciano e dell’Imperatore Giustiniano: res e
forme di appartenenza tra universalismo e particolarismo giuridico. –
2. Res communes omnium nel Diritto romano (aria, acqua, mare e litora
maris). – 3. Brevi cenni alle vicende
storiche della categoria res communes omnium. –
4. Le res publicae. – 5. Diritto romano nella
Sardegna medioevale e moderna. –
6. Uomini e forme comunitarie
di appartenenza della terra nel diritto e nella storia del Popolo Sardo.
– 7. Bibliografia.
Per
inquadrare al meglio il rapporto tra persone e res communes nel sistema
giuridico-religioso romano, bisogna muovere da alcuni testi del giurista
Marciano: testi che i compilatori giustinianei hanno inserito prima nei Digesta
e poi fatti propri nelle Institutiones.
Punto
di partenza per qualsiasi discorso sulle res communes è
dunque un notissimo passo delle Istituzioni dell’imperatore Giustiniano.
Nel titolo I (Della divisione delle cose) del libro secondo, dopo
l’enunciazione generale tratta da Gaio, che tutte le cose (res) o
sono nel nostro patrimonio (in nostro patrimonio) o sono fuori dal
nostro patrimonio (extra nostrum patrimonium habetur)[1],
i compilatori hanno inserito un’altra più articolata summa divisio
estrapolata dalle Istituzioni del giurista Elio Marciano:
Inst. 2.1 pr.: Quaedam enim
naturali iure communia sunt omnium, quaedam publica, quaedam universitatis,
quaedam nullius, pleraque singulorum, quae variis ex causis cuique adquiruntur,
sicut ex subiectis apparebit[2].
Segue
un altro frammento, sempre tratto dalle Istituzioni del medesimo giurista, in
cui sono enumerate le res communes:
Inst. 2.1.1: Et
quidem naturali iure communia sunt omnium haec: aer et aqua profluens et mare
et per hoc litora maris. Nemo igitur ad litus maris accedere prohibetur, dum
tamen villis et monumentis et aedificiis abstineat, quia non sunt iuris
gentium, sicut et mare[3].
Il
frammento di Marciano è stato pure accolto nei Digesta,
esattamente nel Titolo VIII del Libro I (De divisione rerum et qualitate),
per quanto nel testo ivi recepito la divisio rerum del giurista
si presenti in parte diversa per l’omissione delle res publicae:
D. 1.8.2 pr.-1 (Marcianus libro tertio institutionum): Quaedam naturali iure communia sunt omnium,
quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum, quae variis ex
causis cuique adquiruntur. [1] Et quidem naturali iure omnium communia illa
sunt: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris[4].
Tralasciando,
per ora, il problema della diversità testuale determinata
dall’assenza delle res publicae, a proposito del quale mi
pare convincente l’opinione della dottrina dominante «che Marciano
includesse nel suo elenco anche le res publicae e che l’omissione
del Digesto sia dovuta ad una caduta accidentale» (Grosso); vorrei
soffermarmi brevemente sul contenuto e sull’ordine della summa divisio
di Marciano:
1) abbiamo
in primo luogo le res comuni a tutti per diritto naturale;
2) seguono
poi le res pubbliche (res del popolo Romano);
3) ancora
di seguito le res di una collettività (universitas);
4) al
quarto posto troviamo le res di nessuno (nullius), in cui
Marciano, come sappiamo da un altro frammento[5],
comprende anche le res sacrae, religiosae e sanctae;
5) infine,
per ultime, le res di singoli, che pure sono la gran parte di tutte le res
(pleraque).
L’ordine
di questa divisio rerum, sanzionato e reso operante nel sistema
giuridico dal potere normativo dell’Imperatore, relega all’ultimo
posto della gerarchia dei rapporti di appartenenza le res dei singoli
(che pure sono di gran lunga la parte più rilevante dei beni oggetto di
rapporti giuridici). Si direbbe che l’Imperatore Giustiniano, collocando
al primo posto della gerarchia delle res (e quindi nella gerarchia dei
rapporti che le persone intrattengono con le res) una categoria di res
«comuni a tutti per diritto di natura» (res communes omnium naturali
iure), abbia voluto ribadire ancora una volta la profonda socialità,
che ha sempre caratterizzato il diritto romano in tutto l’arco del suo
sviluppo storico (De Martino). Dunque, seguendo Giustiniano, converrà
muovere dalle cose comuni che non possono e non debbono cadere integralmente
sotto il dominio esclusivo di uno o più uomini. Il sistema giuridico
romano garantiva e tutelava le condizioni che consentivano a tutti di godere di
quelle cose con uguale diritto, ed – in particolari circostanze – anche
di farle proprie in piccola quantità.
Vediamo
ora più da vicino le res communes omnium, categoria
per mezzo della quale i giuristi romani (ma Bonfante [1966] riteneva che fosse
da attribuire al solo giurista Marciano) pervennero ad una tutela assai ampia
di interessi comunitari ed universalistici.
A
questa categoria dello ius naturale, che sulla base del notissimo
testo di Ulpiano (D. 1.1.1.3)[6]
è quel diritto quod natura omnia
animalia docuit («quello che la natura ha insegnato a tutti gli
animali»), il giurista Marciano attribuiva l’aria, l’acqua
corrente, il mare e conseguentemente il lido del mare (aer, aqua profluens,
et mare, et per hoc litora maris).
Da
più parti è stato rilevato il fatto che Marciano fosse il
giurista più imbevuto di cultura letteraria, o almeno il più
ricco di allusioni letterarie e filosofiche, e che la categoria delle res
communes sembra essere non tanto una categoria giuridica, quanto piuttosto
un prodotto della speculazione filosofico-letteraria. Alcune fonti letterarie
attestano, infatti, che i Romani fin da età più risalente
ravvisavano nel mare un bene comune a tutto il genere umano: tale è il
caso, ad esempio, di Plauto[7],
Cicerone[8],
Virgilio[9].
Non
voglio – e non potrei anche volendo – affrontare qui il problema
del particolare valore che acquistano le cosiddette fonti
“letterarie” nella ricostruzione di istituti del diritto romano
pubblico e privato. Ricordo però che il valore storico-giuridico delle
fonti letterarie e la validità della tradizione annalistica sono ormai
generalmente accettati negli studi più recenti.
Si
tratta di opere di storiografi ed antiquari, da analizzare con quello spirito e
quel metodo che Santo Mazzarino ha insegnato alle scienze romanistiche del
nostro tempo; dell’insigne studioso italiano, del quale tutti conoscono
le tesi sulla «caratteristica storica del pensiero giuridico
romano» che si leggono in alcune memorabili pagine del secondo volume del
Pensiero storico classico, sono da
rimeditare soprattutto le acutissime pagine da lui scritte «intorno ai
rapporti fra annalistica e diritto». Sovente queste analisi conducono a
risultati sorprendenti per il moderno giurista: come ho avuto modo di mostrare,
a proposito di Virgilio, nel mio libro Bellum nefandum.
Anche
a voler prescindere dalle fonti letterarie, non va però dimenticato che
la individuazione delle res communes omnium appare
già presente in giuristi più antichi. Prima di Marciano, il
giurista Nerazio Prisco aveva parlato di litora come di quelle cose quae
primum a natura prodita sunt (D. 41.1.14)[10];
mentre il giurista Celso aveva teorizzato che il mare e l’aria sono communem usum omnibus hominibus (D. 43.8.1)[11];
allo stesso modo, in un passo di Ulpiano (D. 47.10.13.7)[12]
si legge che il mare è di uso comune in quanto bene commune omnium. Marciano,
dunque, non ha elaborato la base concettuale delle res communes;
il suo apporto è stato forse quello di aver fatto di esse una vera e
propria categoria di cose, distinte dalle pubbliche.
Nella
lingua latina l’aggettivo communis, -e indica ciò che
è ugualmente e contemporaneamente di tutte le persone o di tutte le
cose; però tale termine assume nel linguaggio dei giuristi significati
differenti, a volte rilevabili in uno stesso passo dei Digesta[13].
Di norma, i giuristi utilizzano l’espressione res communes omnium,
o omnibus hominibus, per indicare cose che non appartengono ai
privati, né ad una collettività politica, ma che sono lasciate al
godimento di tutti gli esseri umani.
Da
questo punto di vista, le res communes venivano a trovarsi in posizione
sostanzialmente differente rispetto alle res publicae;
l’uso delle res communes omnium poteva essere regolato dal
diritto, tuttavia non sarebbe stata concepibile la loro sottrazione
all’uso comune (cosa che invece poteva accadere per le res publicae).
Non
posso certo dar conto, in questo luogo, delle molteplici controversie
dottrinali sul fondamento e sul regime delle res communes omnium,
nonché sulla loro concreta differenziazione dalle res publicae.
Basterà rilevare che per alcuni autori le res communes omnium
sarebbero del tutto estrenee al diritto classico; da ascrivere quindi al
diritto giustinianeo (Costa, Perozzi, Arangio-Ruiz); per altri la categoria
sarebbe stata formulata dal solo Marciano (Bonfante; Talamanca); per altri
autori la categoria risale al diritto classico (Scialoja, Branca, Grosso).
L’autonomia
delle res communes omnium emerge con particolare rilievo, nelle
elaborazioni dei giuristi romani, a proposito della condizione giuridica del
mare e del lido del mare. Al riguardo, poco rileva il fatto che i giuristi
Nerazio[14]
e Pomponio[15]
assimilassero il lido del mare e il mare alle res nullius. Se, infatti,
il mare e il lido fossero stati considerati res nullius, non sarebbe
stato concepibile applicare a queste due entità in via utile gli
interdetti, come invece insegnava il giurista Ulpiano:
D. 43.8.2.8 (Ulpianus libro
sexagensimo octavo ad edictum): Adversus
eum, qui molem in mare proiecit, interdictum utile competit ei, cui forte haec
res nocitura sit: si autem nemo damnum sentit, tuendus est is, qui in litore
aedificat vel molem in mare iacit[16].
D’altra
parte, le porzioni di lido e di mare cadono in proprietà dei privati per
le costruzioni che essi innalzano, perché nel concetto di quel diritto
d’uso che compete ad ogni uomo sul lido e sul mare entra la
facoltà di occuparlo per porzioni, costruendovi edifici[17].
Se scompare l’edificio, il lido e il mare torneranno alla condizione
naturale di res communes omnium, in quanto colui che aveva
costruito si era avvalso del suo diritto d’uso, che su tali cose sono
appunto comuni; così una determinata parte di mare o di lido può
diventare privata solo per un periodo di tempo determinato.
Le
cose comuni (res communes omnium) si reputavano, dunque, non
suscettibili di appropriazione individuale in via definitiva, né di
gestione economica individuale; apparentemente non erano regolate dal diritto,
ma lasciate all’uso di tutti. La turbativa del singolo nel godimento delle
res communes omnium si configurava come turbativa
personale ed era repressa con l’actio iniuriarum.
Forse
non è del tutto improbabile che originariamente queste res
fossero considerate come «cose pubbliche», pur sottolineandone
alcune differenze dovute alla loro particolare natura. Poi con Ulpiano, il mare
e il lido del mare vengono qualificati come res communes e per
ciò stesso contrapposti alle res publicae.
Pare
tuttavia difficile, anche in questa prospettiva, accettare la posizione del
grande Pietro Bonfante [1966], secondo il quale Marciano aveva annoverato tra
le res communes omnium: «tutte quelle cose che in altri
giureconsulti ricevono il nome di publicae iuris o iure gentium
o l’epiteto iuris gentium semplicemente, tanto più
che lo stesso Marciano adopera per le sue res communes omnium anche la
terminologia iuris gentium».
Marciano
trova, dunque, già nella giurisprudenza precedente il punto di
riferimento per indicare il regime cui sottoporre alcune res sfuggite
fino ad allora ad una particolare classificazione. Né mi sembra
sostenibile la confusione di categorie prospettata dal Bonfante, poiché
certamente Marciano – come è stato sostenuto da Maria Gabriella
Zoz – «doveva conoscere la categoria delle res publicae, e
non avrebbe chiamato res communes omnium quelle che per altri
erano res publicae iuris gentium, dal momento che egli dichiara di
considerare pubblici i fiumi (D. 8.1.4.1)».
Per
comprendere appieno la disciplina giuridica delle res communes elaborata
dai giuristi romani dell’età imperiale, si rende necessario
cogliere le radici, anche culturali, di questa costruzione. Autorevolissimi
studiosi hanno sottolineato la forte valenza della nozione romana di humanitas; in concreto essa si
manifestava come autentica vocazione universalistica che trovò la sua
piena ed originaria collocazione nello ius
naturale.
Cicerone,
ad esempio, teorizzava la necessità di concedere a tutti l’uso di
quei beni comuni (illa communia) cui la natura ha dato vita
affinché fossero nella disponibilità di tutti:
Cicero, De off. 1.52: Una ex re satis praecipit, ut, quicquid sine detrimento commodari
possit, id tribuatur vel ignoto. Ex quo sunt illa communia: non prohibere aqua
profluente, pati ab igne ignem capere, si qui velit, consilium fidele
deliberanti dare, quae sunt iis utilia, qui accipiunt, danti non molesta. Quare et his utendum est et
semper aliquid ad communem utilitatem afferendum[18].
Ad
ulteriore riprova di quanto questa concezione universalistica fosse radicata
nella mentalità giuridica e nella coscienza civile dei Romani, mette
conto menzionare le considerazioni ciceroniane sull’utilitas communis. Questa sarebbe “naturalmente” anche
del singolo, il quale vedrebbe in tal modo tutelati i propri diritti attraverso
la tutela di quelli collettivi, in quanto appunto anche suoi, per la parte di propria
pertinenza. Assai nota è, poi, la definizione di res publica elaborata da
Cicerone, nella quale la utilitatis communio viene annoverata fra gli
elementi costitutivi del populus come
entità giuridica e organizzazione politica[19].
La
costruzione giuridica delle res communes omnium ha conosciuto, dopo i
Romani, alterne vicende storiche, alcune peraltro di grande rilievo.
Ad
esempio, nella Summa Institutionum attribuita ad Irnerio le res
communes sono intese come cose comuni a uomini e animali, seguendo una
logica applicazione del concetto di ius naturale, quale risultava
da Ulpiano e Giustiniano:
Summa Inst.
2.1: Res communes communia omnium animalium dicuntur: publica hominum tantum[20];
ma avuto riguardo per usi
degli uomini, le res communes tornano a confondersi nel pensiero
del giurista con quelle pubbliche.
Tra il
medioevo e l’età moderna, la
categoria di res communes ebbe grande rilievo (anche politico)
soprattutto nella classificazione giuridica del mare. I glossatori elaborarono
il principio dell’acquisto della proprietà delle res communes
(e non del mero possesso, come nel diritto romano) da parte di chi avesse
eretto costruzioni sul mare, ravvisando in ciò un caso eccezionale di
accessione dell’immobile alla superficie.
Grazie
a questo principio nei secoli XIV e XV della nostra era, la Serenissima
Repubblica di Venezia poté rivendicare – come apprendiamo da Baldo
– la propria libertà nei confronti dell’Imperatore del
“Sacro Romano Impero” e del Pontefice Romano su base giuridica
solidissima:
De iure gentium civitates in mari aedificatae sunt ipsorum
qui aedificant … Sic etiam licet in Mari aedificare, l. in tantum 6. in
princ. ubi Dd. ff. h. Ita Veneti praetendunt libertatem, quia non
aedificaverunt in solo alicuius, sed ipso in Mari, Baldus, in Rubric h tit.[21].
I
Veneziani ritenevano che fosse la stessa natura lagunare dei luoghi, in cui era
stata edificata la città di Venezia, a renderli legittimamente padroni
del proprio territorio e, dunque, liberi da ogni potere superiore: «ora
l’indipendenza di Venezia dalle due potestà veniva dai giuristi
curiosamente giustificata col fatto che la città delle lagune sorgeva
sul mare, il quale è res communis, non soggetto all’impero,
né alla giurisdizione di principi e di pontefici» (Bonfante,
1966).
è noto, altresì, che la
categoria delle res communes omnium ha costituito la base giuridica
dell’elaborazione della teoria della libertà dei mari, propugnata
nel XVII secolo dal grande giurista olandese Ugo Grozio (Huig van Groot), la
cui opera più celebre, De iure belli ac pacis (pubblicata a
Parigi nel 1625), «gli assicurò fama imperitura, ponendolo ad un
tempo fra i fondatori del diritto internazionale e di un nuovo
giusnaturalismo» (Orestano).
Per
quanto al giorno d’oggi, il principio della libertà dei mari, nato
come naturale portato della classificazione del mare quale res communis
omnium, tenda a farsi sempre più sfumato a causa
dell’avanzare dell’opposto principio della sovranità degli
Stati rivieraschi; non mi pare, tuttavia, che possano dirsi completamente
esaurite né la sua prospettiva storica, né la funzione politica.
Nelle
Istituzioni di Giustiniano le res publicae si contrappongono da
un lato alle res communes omnium, dall’altro alle res
universitatis. Il significato dell’espressione res publicae
è oltremodo semplice e pregnante nello stesso tempo: come insegnano i
linguisti, la etimologia dell’espressione porta a res populi
(populicae, poplicae), cioè alle res del Popolo
romano; ma l’espressione res publica populi Romani
stava anche a designare l’organizzazione politica del Populus Romanus,
che noi moderni siamo soliti distinguere tra repubblica e impero.
Circa
le res publicae è necessario distinguere due concetti o
categorie:
1)
cose destinate all’uso pubblico;
2)
cose destinate a sostenere col reddito che da esse si ricava gli oneri
dell’organizzazione politica del Popolo romano.
Mentre
le prime sono veramente extra patrimonium ed extra commercium,
le seconde sono invece in patrimonio e in commercio, per la semplice ragione
che in altro modo non potrebbero produrre alcun reddito.
La divisio
rerum delle Istituzioni di Gaio, Marciano e Giustiniano si riferisce
chiaramente alle res publicae extra patrimonium ed extra commercium.
Tuttavia, va sottolineato – come dato significativo ed emblematico
– il fatto che nelle fonti non si abbia una netta ed univoca terminologia
per designare le due categorie di res publicae. Così nel
linguaggio delle leggi e dei giuristi sono pubblici tanto fiumi e strade (flumina
publica, viae publicae), quanto terre, schiavi e loro
peculii, danaro pubblico (ager publicus, servi publici, pecunia
publica); publicum è, infine, il vectigal –
l’imposta – e gli appaltatori delle imposte sono publicani.
Per
inquadrare le res publicae bisogna
fare riferimento ad una categoria assai ampia che i giuristi romani hanno
definito come «res in usu publico»[22],
oppure «res quae usibus populi
perpetuo expositae sint»[23],
o ancora «res quae publicis usibus
destinatae sunt»[24].
Vale
la pena di ricordare che sulla base di queste definizioni sono res publicae:
1) i loca publica,
cioè (secondo quanto insegnava il grande giurista Labeone, citato da
Ulpiano in D. 43.8.2.3[25])
agri, aree urbane, edifici, vie, piazze;
2) i
fiumi pubblici;
3) le
cloache pubbliche.
In un
lavoro pubblicato nel 1990, Andrea Di Porto (La tutela della «salubritas» fra editto e giurisprudenza)
ha dimostrato in maniera convincente come il pensiero giuridico romano avesse
previsto nell’ambito più generale della disciplina delle res publicae
anche la conservazione e la salvaguardia della salubritas dell’ambiente; la cui tutela giuridica appare
profondamente plasmata dal modo con cui i Romani concepivano
l’appartenenza delle res publicae.
Non
voglio addentrarmi, ora, sul problema della emersione della rilevanza giuridica
del fenomeno inquinamento. Basterà dire che il problema
dell’adozione di forme di tutela dall’inquinamento si pone a Roma
già nel corso dell’età repubblicana, nel periodo in cui,
fra l’altro, si definiva il nuovo profilo urbanistico della città,
caratterizzato da un certo sovraffollamento, da strade piuttosto strette e,
soprattutto, dalla presenza di edifici a più piani (insulae) ad alta densità abitativa, specie in alcuni
quartieri che potremmo definire di edilizia economico-popolare. La
complessità dello sviluppo generava, dunque, gravi problemi di
inquinamento e la conseguente necessità di una tutela giuridica
dell’ambiente e della salute (pubblica e privata). Vi era poi il problema
della salubrità dell'aria ammorbata dalle esalazioni di attività
produttive altamente inquinanti, ma anche dagli scarichi non adeguatamente
canalizzati e dalle cloache mal funzionanti. Infine, vi era un problema di
purezza delle acque e di conservazione delle condizioni naturali dei fiumi.
Sul
primo aspetto abbiamo le importanti testimonianze di Vitruvio e di Plinio il
Vecchio. Vitruvio, nel De architectura, sottolinea la maggiore
salubrità delle tubazioni di terracotta rispetto a quelle di piombo[26];
mentre Plinio (Naturalis Historia 31.34) sconsiglia decisamente
l’uso potabile dell’acqua di cisterna, nociva al ventre e alla gola
per la sua durezza, e che era per di più assai impura[27].
Proprio
l’esigenza di salvaguardare la salubritas
sta alla base dell’introduzione da parte del pretore (fine del II secolo
e metà del I a.C.) degli interdetti de
rivis e de fonte, volti a
tutelare l'attività di purgatio
e refectio, rispettivamente, degli
impianti di conduttura dell'acqua e dei fontes.
Riguardo
ai fiumi, il problema più rilevante era costituito dalla
necessità di evitare che indiscriminati prelievi di risorse o massicci
disboscamenti deteriorassero le loro condizioni naturali; le quali, come
apprendiamo da Tacito (Annales 1.79),
sono da rispettare appunto perché derivanti dalla natura: «al bene
degli uomini ha provveduto nel migliore dei modi la natura, la quale ha
assegnato ai fiumi le loro fonti, il loro corso e così le sorgenti come
le foci»[28].
Non mi
pare il caso di dare qui una dimostrazione, con i testi latini alla mano, del
fatto che la tutela della salubritas
delle res publicae si inserisce nell’ambito più generale del
regime delle res publicae.
Sarà
bene invece ricordare, soprattutto sulla scorta degli studi di Francesco Paolo
Casavola sulle azioni popolari, come il regime di tutela delle res publicae
prevedesse un ruolo attivo per il civis;
poiché come osserva Andrea Di Porto: «La tutela della salubritas, quando attiene, ad esempio,
ai loca publica, si innesta su concezioni che affidano al civis una responsabilità ed un
ruolo attivo fondamentali».
In
sostanza, nel sistema giuridico-religioso romano al cittadino, al quivis e populo, era affidata la gran
parte della responsabilità nella tutela delle res publicae, attraverso la possibile utilizzazione di strumenti
come gli interdetti popolari (Fiorentini) e l'operis novi nuntiatio publici iuris tuendi gratia (Santucci).
Si
trattava di strumenti giuridici che tutelavano un diritto proprio di qualsiasi
cittadino, in quanto parte del Popolo romano: un diritto cioè che
apparteneva al civis (a ciascun cittadino) come membro del popolo e non
già al popolo come ente diverso e distinto dal cittadino. I citati
interdetti si fondano dunque sulla sovranità dei cives e sul
generale diritto dei cittadini romani all'uso comune delle res publicae.
Appare
del tutto evidente che un simile regime delle res in usu publico si fonda sulla nozione, tipicamente romana, di res publicae
come res populi. O per meglio dire, sulla stessa concezione concreta del Populus Romanus. Populus che
– seguo la linea interpretativa che va dallo Jhering fino al Catalano
– veniva concepito come pluralità di cittadini, nel senso di
«tutti i cittadini», non già come persona o entità
astratta, distinta cioè dai cives
che la compongono.
Mi pare di un qualche interesse descrivere brevemente, come
esempio di sopravvivenza di modelli proprietari comunitari, il caso della
Sardegna. Un’isola in cui la forte identità linguistica,
autonomistica, religiosa e culturale del suo popolo si è plasmata nella
dinamica storica dei grandi sistemi giuridici mediterranei (Sini, 2003), e in
cui si è conservata fortissima (dall’età antica,
all’età medioevale, all’età moderna)
l’influenza (e la vigenza) del diritto romano giustinianeo (Sini, 2004).
Evidenze significative di questa influenza del diritto romano
sulla legislazione della Sardegna medievale sono riscontrabili nella Carta de Logu de Arborea[29]:
l’opera legislativa più importante della tradizione giuridica in
lingua sarda, promulgata dalla sovrana del Giudicato di Arborea
(l’odierna Oristano) Eleonora Bas-Serra, nell’ultimo decennio del
XIV secolo.
Certamente, oggi, non appare più possibile aderire nelle
sue linee generali alla vecchia impostazione, formulata – per quel che mi
è dato sapere – dal giurista sardo del XVII secolo Giovanni Dexart
(1590-1646), secondo cui in Sardegna lo ius
commune o Romanorum sarebbe stato vigente da tempo immemorabile
«mediante veteri consuetudine et continua observantia»[30].
Questa impostazione risulta ancora presente nel celebre manuale di Antonio
Pertile [II.2], soprattutto laddove lo studioso definisce la Carta de Logu «diritto locale
modificante il diritto generale o comune; onde quel nome corrisponde a quello
di statuti dato alle proprie norme dai principi di Savoia e dalle nostre
città». Si possono condividere, invece, sia la conclusione a cui
il Pertile era pervenuto in merito al rapporto tra diritto romano e Carta de Logu d’Arborea: «E
in fatto la carta de logu presuppone
l'autorità del diritto romano, e qualche volta anche lo cita», sia
la motivazione complessiva che stava alla base di siffatta conclusione.
Come ho avuto modo di dimostare nel mio libro “Comente comandat sa lege”, il
forte ancoramento della Carta de Logu
al diritto romano, pur avvertibile nella gran parte dei 198 capitoli, risulta esplicito nei
capitoli iii, lxxvii, lxxviii, xcvii
e xcviii; poiché in quei
capitoli i compilatori arborensi plasmarono le soluzioni giuridiche proposte
sul diritto romano, mediante espliciti riferimenti e rinvii ad un altro sistema
normativo, identificato con sa lege o sa ragione. Sia
l’utilizzazione di verbi dall’indiscutibile valenza precettiva (comandare / ordinare), sia l’impiego di questi verbi al presente
indicativo (comandat), attestano in
maniera incontrovertibile il fatto che i compilatori della Carta de Logu ritenessero ancora vigente quel
sistema normativo (sa lege, sa ragione) oggetto di
rinvio nel «codice» del Giudicato di Arborea.
Così nel capitolo III [Qui
ochirit homini], la pena capitale comminata all'omicida volontario si fonda
sull’imperatività del diritto romano: «secundu quessu ordini dessa rag(i)oni comandat»[31].
Nei capitoli LXXVII e LXXVIII sono riferiti in maniera esplicita al diritto romano
i termini legali d’impugnazione, fissati entro il limite massimo di dieci
giorni: «si appellado non est infra
tempus legittimu de dies deghi comente comandat sa lege»[32].
Rinvia ugualmente al diritto romano il capitolo XCVIII, dove si designa la porzione legittima
dell'eredità con l’espressione «sa parti sua secundu ragione»[33].
La Carta de Logu de Arborea,
monumento legislativo scritto in «sardo antico» (Blasco
Ferrér),
ha plasmato per secoli le istituzioni giuridiche del Popolo Sardo, quasi fino
ai nostri giorni. La Carta de Logu de
Arborea, estesa a tutto il Regnum
Sardiniae dopo la definitiva
affermazione della sovranità aragonese nel 1421, cessò di avere
forza di legge solo nel 1828, anno in cui entrarono in vigore le Leggi civili e criminali del re di Sardegna
Carlo Felice di Savoia (Da Passano).
Anche nel giudizio non certo positivo dello Schupfer, la secolare
lunga vigenza della Carta de Logu
«fa fede certamente della bontà intrinseca della legge, ma attesta
eziandio l’indole piuttosto stazionaria di cotesti insulani».
Dunque, le ragioni di una così lunga durata sono da ricercare
soprattutto nelle intrinseche qualità e nell’elevato spessore
giuridico della compilazione, i cui capitoli incarnavano, per quanto tradotti
con la scrittura «in termini colti», le istanze fondamentali di
esperienze popolari e consuetudinarie maturate nelle comunità sarde di
pastori e contadini; fra le quali si è conservata operante, anche al di
là della sua stessa vigenza. Questa peculiarità della Carta de Logu non era sfuggita ad A.
Pertile [II.2], il quale ne
sosteneva la vigenza ben oltre l’abolizione formale: «essa non
perdette ogni valore nell’isola che allorquando vi fu introdotto il
codice civile italiano, e con esso si ruppe ogni filo della storia».
Ancora oggi, istituti e tradizioni tipici della Sardegna
contadina e pastorale hanno le loro radici, per lo più senza coscienza
storica del fatto, in capitoli dell'antica Carta
de Logu de Arborea. Si spiega in tal modo la persistenza secolare nella
Sardegna contadina della figura del juargiu[34]
e del relativo contratto di società parziaria, in rapporto alla
coltivazione della terra (Mor); o degli usuali contratti di soccida tra pastori
e proprietari (delle greggi o del pascolo), stipulati nelle campagne sarde in
forme e contenuti assai simili, nei fatti, agli antichi Ordinamentos de cumonis[35], che regolavano tali
fattispecie nella Carta de Logu
arborense.
I modelli di appropriazione e le varie forme di godimento della
terra, come ha scritto al riguardo Carlo Guido Mor, si presentano quasi del
tutto imperniati «sul duello fra cultura e pastorizia, ma la legislatrice
ci si appalesa nettamente favorevole alla prima, difesa energicamente di fronte
all'invandenza degli armenti». Tuttavia questa preferenza per la tutela
delle attività agricole, che evidentemente stavano acquistando una
notevole importanza nell'economia sarda, non porta con sé alcuna
preferenza per un modello proprietario o per una forma produttiva. Si direbbe
anzi, che la tutela della lCarta de Logu de Arborea sia
quasi indifferente alla forma giuridica della terra:
«A questo punto
si può forse comprendere come sia falsata l'ottica di chi ricerchi nei
documenti antichi le prove “dell'esercizio del diritto di
proprietà”, sebbene sia agevole trovare testimonianze di forme di
proprietà, individuale e collettiva, espresse in epoca risalente, come
già nei condaghi; ma quell'ottica è fuorviante perché
proietta nel passato la moderna prospettiva che vede il diritto come
un'emanazione del soggetto e non come un prodotto che scaturisce dall'oggetto.
In realtà l'ordinamento tutelava non tanto il diritto di
proprietà, bensì la destinazione agraria della terra, ossia la
sua utilitas nell'ambito del sistema
dato: prima che il diritto astratto sul fondo proteggeva il fondo stesso. Ed
ecco, allora, la spiegazione della maggior severità stabilita a
protezione delle terre coltivate rispetto alle altre terre che si riscontra
nelle fonti legislative a noi note ma che costituisce già un corollario
implicito dell'ordinamento agrario: e infatti già i condaghi esprimevano
una tale maggiore protezione» (Birocchi).
Così nel cap. XLVII della Carta de Logu si sanzionava, con la previsione di forti
penalità che potevano arrivare fino al taglio della mano destra,
qualsiasi deperimento doloso ad opera di un incendiario di prodotti agricoli
pregiati, quali frumento già preparato per la trebbiatura, frumento
ancora da mietere, vigneto, orto[36].
E certo le forme di appropriazione della terra comunitarie non risultano
sfavorite in quella legislazione. Anzi, alcuni istituti si giustificano solo
alla luce del carattere collettivistico (nel diritto e nella produzione) delle
comunità di villaggio (villas). Tale era il caso degli antichi Jurados de padru preposti nella Carta de Logu de Arborea alla vigilanza
e alla protezione delle coltivazioni e del bestiame, nonché alla tutela
della pubblica sicurezza nel territorio della villa:
Carta de Logu, cap. XXXVIII: [De proare sos cavallos] Volemus et ordinamus: qui sos juradus siant tenudos ciaschuno
in sa curadoria sua de prouare sos cavallos domados et issas ebbas domadas et
issos boes domados et molentes qui sant hochier affura o qui sant furare in sa
villa o in habitatione dessa villa et si non lu prouarint paghint sa fura a sos
pubillos comunalimente sos juradus cun sos hominis tottu de sa villa, et i
cussu bestiamen cant achaptare sos juradus de pardu ispeciadu ade nocte cio
è couallu domado ebba domada boe domadu et molente; siant tenudus dellu
tenne et baturellu assa corte, et issos juradus indi appant de cussu qui ant
batire a sa corte sa terza parte dessas tenturas, et cio si intendat pro boes
domadus qui in cussu tempus si paschit a muda si tenerent pro qui debent
giaghere in sa corte: et si alcunu maiore pardu over atera persona miteret
alcunu bestiamen dissu quest naradu de subra dae foras at intro; paghit sodhus
binti pro ciaschuna bolta et pro ciaschuna bestia sindi est convinto[37].
Compiti
assolti, in età moderna e contemporanea dalle compagnie barracellari
(Sanna), costituite ancora oggi in numerosi villaggi e città della
Sardegna.
Anche
alcune prescrizioni, contenute nelle ordinanze della Regione Autonoma della
Sardegna in materia di prevenzione degli incendi estivi[38],
presentano notevoli elementi di somiglianza con la Carta de Logu; o meglio con i suoi Ordinamentos de foghu, statuiti nei capitoli xlv-xlix[39].
Infatti, per combattere la micidiale piaga degli incendi – fenomeno
purtroppo ricorrente nella storia secolare della nostra Isola (Artizzu) –
è fatto obbligo alle comunità (Comuni, Province, ecc.) di
predisporre idonee fasce tagliafuoco nei terreni di pertinenza pubblica, prima
dell’inizio dell'estate[40]; con
modalità e procedure assai simili a quelle prescrizioni della Carta de Logu che ordinavano alle
comunità di villaggio (villas)
de fagher sa doha […] per Sanctu
Pedru de lampadas. Era fatto obbligo, cioè, di predisporre idonee
fasce tagliafuoco nei terreni di pertinenza pubblica, prima dell’inizio
dell'estate.
Carta de Logu, cap. XLIX: [De fogu] Constituimus
et ordinamus: qui sas villas qui sunt usadas de fagher sa doha proguardia dessu
fogu deppiant illa fagher sa doha secundu qui fudi usadu pro temporale.
Ciascaduna villa in sa habitationi sua. Et qui nolat auiri fata pro sanctu
pedru de lampadas: paghit ssz. x. per homini et issa villa qui lat faghire:
fazat illa qui fogu nò la parighit sa doha et si fogu illa barigat et
faghit perdimentu: paghit sa villa ssz. x. per homini secundu quest vsadu est issu
curadore llrs X a sa corte. Et si su curadore comandarit assus juradus over a
sus ateros hominis dessa villa defaghere sa dicta doha: et nò la
fagherent paghit comonalimenti sa pena qui deuat pagare su officiali et icussu
officiali siat liberu[41].
Con le
stesse finalità si giustifica (ora come allora) l’obbligo, posto
in capo ai privati cittadini, siano essi proprietari dei fondi o altri aventi
titolo, di osservare scrupolosamente i tempi prescritti (Volemus et ordinamus qui nexuna persona deppiat ne pozat ponne foghu
infini ad passadu sa festa de sancta Maria qui est a dies VIII de capudanni)[42]
per l’abbruciamento delle stoppie di colture cerealicole o foraggiere[43].
Nella legislazione sarda medioevale e moderna risulta possibile
esercitare sulla terra due tipi di diritti: uno da parte di privati (ma non
necessariamente di singoli), con occupazioni, chiusure e dissodamenti;
l’altro più propriamente comune, consistente nel godimento
collettivo di un certo territorio.
Nel
corso di molti secoli, nelle campagne sarde hanno coesistito – spesso
scontrandosi anche duramente – una pluralità di modelli di
appropriazione e varie forme di godimento della terra. Modelli e forme tutti
riconducibili all’agricoltura e pastorizia, alcuni dei quali si sarebbero
modellati sulla memoria medievale della scriptura che regolava la
contribuzione della provincia in età romana (Di Tucci).
Il
risultato di tutto questo è che ancora oggi in Sardegna permangono
rilevanti estensioni di terre comuni, su cui si applica una concezione di utilizzo
molto simile alle res communes omnium. Le terre comunali (terre delle
vecchie comunità di villaggio che sono rimaste proprietà dei
Comuni) hanno un’estensione di 353 mila ettari, rappresentano il 15%
dell’intero territorio regionale e interessano 263 dei 359 Comuni
dell’Isola. Se sommiamo ad esse le altre terre pubbliche, abbiamo in
Sardegna il 25% del territorio non privatizzato.
Il
fenomeno delle terre comuni, caratterizzato dal godimento collettivo di quei
territori, resta dunque assai rilevante nella dinamica della società e
nell’organizzazione economica delle comunità di villaggio. Alle
modalità di gestione di queste terre si ricollega, certamente, anche una
parte del malessere sociale e politico che interessa al momento le zone interne
della Sardegna; da ricondurre al diffuso timore dei pastori di perdere il
secolare uso delle terre comuni.
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tradizione romana 4 (novembre
2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Contributi/Sanna-Origini-compagnie-barracellari.htm
].
* Testo
della comunicazione presentata a Novi Sad nel corso dei lavori del IX
Colloquio dei romanisti dell’Europa centro-orientale e dell’Asia «La
persona nel sistema del diritto romano. La difesa dei debitori. Lo studio e
l’insegnamento del diritto romano» (24-26 ottobre 2002),
organizzato per iniziativa di Antun Malenica e Pierangelo Catalano dalla
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Novi Sad e del
Centro per gli studi su diritto romano e sistemi giuridici del CNR.
[1] Inst.
2.1 pr.: Superiore libro de iure personarum exposuimus: modo videamus de
rebus. Quae vel in nostro patrimonio vel extra nostrum patrimonium habentur.
Trad.: «Nel precedente libro abbiamo
esposto il diritto delle persone; ora vediamo le cose. Che si annoverano, o nel
nostro patrimonio o fuori dal nostro patrimonio» (Nardi).
[2] [Inst.
2.1 pr.] Trad.: «Alcune sono comuni a tutti per diritto naturale, alcune
sono pubbliche, alcune di una collettività, alcune di nessuno, molte di
singoli, che a ciascuno si acquistano per varie cause, come da quel che segue
apparirà» (Nardi).
[3] [Inst.
2.1.1] Trad.: «Comuni a tutti per diritto naturale sono queste:
l’aria, l’acqua corrente, il mare, e, di conseguenza, i lidi del
mare. A nessuno quindi è proibito accedere al lido del mare,
purché però stia lontano da ville, monumenti ed edifici, che non
sono di diritto delle genti come il mare» (Nardi).
[4] [D.
1.8.2 pr.-1 (Marcianus libro tertio institutionum)] Trad.: «Alcune
cose sono comuni di tutti per diritto naturale, alcune sono di una
collettività, alcune di nessuno; le più numerose sono dei
singoli, le quali vengono acquistate a ciascuno in base a varie cause. Sono
comuni di tutti, per diritto naturale, le <cose> ben note: l’aria,
l’acqua corrente, e il mare, e in ordine a questo i lidi del mare»
(a c. Schipani).
[5] D. 1.8.6.2 (Marcianus libro tertio institutionum):
Sacrae res et religiosae et sanctae in nullius bonis sunt.
Trad.:
«Le cose sacre, le religiose e le sante non sono nel patrimonio di
alcuno» (a c. Schipani).
[6] D.
1.1.1.3 (Ulpianus libro primo
institutionum): Ius naturale est,
quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium,
sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque
commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos
matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus
etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.
Trad.:
«Il diritto naturale
è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati: infatti,
questo diritto non è proprio del
genere umano, ma è comune a
tutti gli esseri animati che nascono in terra, in mare, ed è
comune anche agli uccelli. Da qui deriva l'unione del maschio e della femmina,
la quale unione noi chiamiamo matrimonio; da qui deriva la procreazione dei figli;
da qui l’educazione. Vediamo, infatti, che tutti gli altri esseri
animati, comprese le fiere, sono valutati in base all’esperienza <che
abbiano> di questo diritto» (a c. Schipani).
[7] Plautus, Rud. 975: [Gr.]
Mare quidem commune certost omnibus.
Trad.:
«[Gr.] Perché un fatto è certo, il mare è
bene comune per tutti».
[8]
Cicero, Pro Roscio 26.72: Etenim quid tam est commune quam
spiritus vivis, terra mortuis, mare fluctuantibus, litus eiectis?
Trad.:
«Che cosa, infatti, è tanto comune quanto l’aria per i vivi,
la terra per i morti, il mare per i naufraghi, il lido per i respinti dalle
onde?».
[9]
Vergilius, Aen. 7.228-230: Diluvio ex illo tot vasta per aequora
vecti / dis sedem exiguam patriis litusque rogamus / innocuum et cunctis
undamque auramque patentem.
Trad.:
«Trascinati da quel diluvio per tante distese marine, / chiediamo per gli
dei patrii una piccola sede / e un’innocua riva, e acqua e aria libere
per tutti» (Canali in ed. a c. Paratore).
Cfr.
anche Ovidius, Met. 6.349-355; Seneca, De ben. 4.28.
[10] D.
41.1.14 pr. (Neratius libro quinto membranarum): Quod in litore quis
aedificaverit, eius erit: nam litora publica non ita sunt, ut ea, quae in
patrimonio sunt populi, sed ut ea, quae primum a natura prodita sunt et in
nullius adhuc dominium pervenerunt: nec dissimilis condicio eorum est atque
piscium et ferarum, quae simul atque adprehensae sunt, sine dubio eius, in
cuius potestatem pervenerunt, dominii fiunt.
Trad.:
«Ciò, che qualcuno edificherà nel lido sarà suo:
poiché i lidi non sono pubblici
come quelle cose che sono nel patrimonio del popolo, ma come quelle, che
per la prima volta uscirono dalla natura e, finora, non sono pervenute nel dominio
di alcuno: né la condizione di esse è dissimile da quella dei
pesci e delle fiere, i quali quando siano stati catturati, sono nel dominio di
colui del quale pervennero in potestà».
[11] D.
43.8.3 pr.-1 (Celsus libro trigensimo nono digestorum): Litora, in
quae populus Romanus imperium habet, populi Romani esse arbitror. Maris
communem usum omnibus hominibus, ut aeris, iactasque in id pilas eius esse qui
iecerit: sed id concedendum non esse, si deterior litoris marisve usus eo modo
futurus sit.
Trad.: «I
lidi, sui quali il popolo Romano ha il dominio, ritengo siano del popolo
Romano. L’uso del mare è comune a tutti gli uomini, come
l’aria, ed i moli gettati sul mare appartengono a chi li ha costruiti; ma
ciò non si deve concedere nel caso l’uso del mare o del lido
risulterà deteriore».
[12] D.
47.10.13.7 (Ulpianus libro quinquagensimo septimo ad edictum): Si
quis me prohibeat in mari piscari vel everriculum (quod Graece sag»nh
dicitur) ducere, an iniuriarum iudicio possim eum convenire? Sunt qui putent iniuriarum
me posse agere: et ita Pomponius et plerique esse huic similem eum, qui in
publicum lavare vel in cavea publica sedere vel in quo alio loco agere sedere
conversari non patiatur, aut si quis re mea uti me non permittat: nam et hic
iniuriarum conveniri potest. Conductori autem veteres interdictum dederunt, si
forte publice hoc conduxit: nam vis ei prohibenda est, quo minus conductione
sua fruatur. Si quem tamen ante
aedes meas vel ante praetorium meum piscari prohibeam, quid dicendum est? Me
iniuriarum iudicio teneri an non? Et quidem mare commune omnium est et litora,
sicuti aer, et est saepissime rescriptum non posse quem piscari prohiberi.
Trad.:
«Se qualcuno mi proibisca di pescare nel mare, o di gettarvi la rete da
pesca, che i greci chiamano sagina,
potrei forse citarlo in giudizio per ingiurie? Vi sono quelli che ritengono che
possa agire per ingiurie: così Pomponio e molti credono che sia simile a
quello che m’impedisca di lavare in pubblico o di sedere in un pubblico
teatro o in qualunque altro luogo stare, sedere, conversare, o se uno non mi
permette di usare di una cosa mia; perché anche costui può essere
portato in giudizio per ingiuria. Gli antichi giuristi poi accordarono
l’interdetto all’affittuario, nel caso avesse affittato per pubblico
interesse: infatti, si deve impedire la violenza contro di lui, perché
possa godere del suo affitto. Se però vieto di pescare dinanzi alle mie
case o al mio villino, che può dirsi? Sono passibile o no di processo
per ingiurie? Certamente il mare è comune a tutti ed anche i lidi, come
l’aria, e spessissimo è stato rescritto che a nessuno può
essere proibito di pescare».
[13] Cfr.
D. 1.8.6.1 (Marcianus libro tertio institutionum): Universitatis sunt
non singulorum veluti quae in civitatibus sunt theatra et stadia et similia et
si qua alia sunt communia civitatium. Ideoque nec servus communis civitatis
singulorum pro parte intellegitur, sed universitatis et ideo tam contra civem
quam pro eo posse servum civitatis torqueri divi fratres rescripserunt. Ideo et
libertus civitatis non habet necesse veniam edicti petere, si vocet in ius
aliquem ex civibus.
Trad.:
«Sono della
collettività e non dei singoli, per esempio, i teatri e gli stadi che si
trovano nelle città, e cose simili
se ve ne sono anche altre che appartengono in comune alla città.
Pertanto, un servo comune della città non si intende appartenere per
quota ai singoli <cittadini>, bensì alla collettività, e
pertanto i divi <imperatori> fratelli
<Marco Aurelio e Lucio Vero>
stabilirono con rescritto che <un servo della città>
può essere sottoposto a tortura sia
contro un cittadino sia a favore. Pertanto, anche il liberto di una
città, ove egli chiami in giudizio un cittadino, non ha necessità
di richiedere la dispensa prevista dall'editto» (a c. Schipani).
[14] D.
41.1.14 pr.
[15] D.
41.1.30.4 (Pomponius libro trigensimo quarto ad Sabinum): Si pilas in
mare iactaverim et supra eas inaedificaverim, continuo aedificium meum fit.
Item si insulam in mari aedificaverim, continuo mea fit, quoniam id, quod
nullius sit, occupantis fit.
Trad.:
«Se getterò dei pilastri in mare e sopra di essi
edificherò, tosto l’edificio diventa mio. Nello stesso modo se
edificherò un’isola nel mare, subito diventa mia, poiché
ciò che è di nessuno appartiene all’occupante».
[16] [D.
43.8.2.8 (Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum)] Trad.:
«Contro colui che gettò materiale nel mare compete
l’interdetto utile a chi la cosa potrebbe nuocere: ma se nessuno risente
danno, deve essere sostenuto colui che fabbrica sul lido o pone qualche materiale
in mare».
[17] D.
1.8.10 (Pomponius libro sexto ex Plautio): Aristo ait, sicut id, quod
in mare aedificatum sit, fieret privatum, ita quod mari occupatum sit, fieri
publicum.
Trad.:
«Aristone afferma che, come diventa privato ciò che sia stato
edificato nel mare, così diventa pubblico ciò che sia stato
occupato dal mare» (a c. Schipani).
[18]
[Cicero, De off. 1.52] Trad.: «Con quest'unico esempio insegna
che, in quanto si può giovare senza danno, se ne deve far partecipe anche un ignoto.
Donde quelle massime «non sottrarre ad alcuno l'acqua che scorre»,
«permettere di prender fuoco dal fuoco, ove alcuno lo
voglia», «dare un consiglio schietto a chi stia per decidere»,
tutte azioni utili a chi riceve, non gravose a chi dà. Ad esse bisogna
aderire e sempre portare un qualche contributo al vantaggio comune»
(Ferrero, Zorzetti).
[19]
Cicero, De re publ. 1.39: ‘Est igitur,’ inquit Africanus,
‘res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo
modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis
communione sociatus’.
Trad.:
«E’ dunque, disse l’Africano, la repubblica cosa del popolo,
e poi non è popolo ogni agglomerato di uomini riunito in qualsiasi modo,
ma l’agglomerato di una moltitudine associata per consenso nel diritto e
per comunanza di interessi».
[20] Cfr.
Glossa ad legem 3 D. 1.8: collige ex hac lege quod eadem
dicuntur communia quae cum sint in commune usum omnium animantium occupanti
conceduntur.
[21] Glossa
ad legem in tantum 6 D. 1.8. F.
Gaethalsii, De Foelici et Infoelici
Republica, Lovanii 1567: «Tales
sunt Venetiae, Veneti enim praetendum libertatem, nec agnoscunt [f 2v]
superiorem»; che ho letto in versione on line nel sito http://www.karintilmans.nl/pdf/foelice.pdf
.
[22] D. 18.
1.6 pr. (Pomponius libro nono ad Sabinum): Sed Celsus filius ait
hominem liberum scientem te emere non posse nec cuiuscumque rei si scias
alienationem esse: ut sacra et religiosa loca aut quorum commercium non sit, ut
publica, quae non in pecunia populi, sed in publico usu habeatur, ut est Campus
Martius.
Trad.:
«Ma Celso figlio afferma che tu non puoi comprare l’uomo libero, se
ne conosci la condizione, né, se ne conosci la condizione,
v’è la possibilità che vi sia l’alienazione <a tuo
favore> di qualsiasi altra cosa come i luoghi sacri e religiosi o quelli dei
quali non vi sia la commerciabilità tra colui che li vende e colui che
li compra, come quelli pubblici, che non siano nel patrimonio del popolo,
bensì si trovino in uso pubblico, come il Campo Marzio» (a c.
Schipani).
[23] Inst.
3.19.2: Idem iuris est, si rem sacram aut regiosam, quam humani iuris esse
credebat, vel publicam, quae usibus populi perpetuo exposita sit, ut forum vel
theatrum.
Trad.:
«Lo stesso criterio si applica se uno stipuli una cosa sacra o religiosa,
che credeva di diritto umano; o una cosa pubblica, stabilmente destinata a
servizio del popolo, come una piazza o un teatro» (Nardi).
[24] D.
50.16.17 pr. (Ulpianus libro decimo ad edictum): Inter
"publica" habemus non sacra nec religiosa nec quae publicis usibus
destinata sunt: sed si qua sunt civitatium velut bona. Sed peculia servorum
civitatium procul dubio publica habentur.
Trad.:
«Tra le cose pubbliche abbiamo non le cose sacre né le religiose,
né quelle che sono destinate agli usi pubblici; ma quelle, se mai ve ne
sono come beni delle città. Ma i peculii dei servi delle città,
senza dubbio si hanno per pubblici».
[25] D.
43.8.2.3 (Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum): Publici loci
appellatio quemadmodum accipiatur, Labeo definit, ut et ad areas et ad insulas
et ad agros et ad vias publicas itineraque publica pertineat.
Trad.:
«Come si deve intendere la denominazione di ‘luogo pubblico’,
lo definisce Labeone: in maniera che sia riferibile alle superfici, alle isole,
ai campi, alle vie pubbliche ed ai sentieri pubblici».
[26]
Vitruvius, De arch. 8.6.1-11.
[27]
Plinius, Nat. Hist. 31.34: pluvias quidem aquas celerrime
putrescere convenit minimeque durare in navigatione. Epigenes autem aquam, quae
septies putrefacta purgata sit, ait amplius non putrescere. Nam cisternas etiam
medici confitentur inutiles alvo duritia faucibusque, etiam limi non aliis
inesse plus aut animalium, quae faciunt taedium.
Trad.:
«È ammesso che le acque
piovane imputridiscono molto presto e
si conservano pochissimo durante la navigazione. Epigene, d'altra parte, sostiene che
l'acqua putrefatta, se purificata sette volte, non imputridisce
più. Anche i medici dichiarano che l'acqua di cisterna, per la sua
durezza, è dannosa al ventre e alla gola e più d'ogni altra
contiene fango e animali che provocano disgusto».
[28]
Tacitus, Ann. 1.79.2-3: Congruentia his Interamnates disseruere:
pessum ituros fecundissimos Italiae campos, si amnis Nar (id enim parabatur) in
rivos diductus superstagnavisset. Nec Reatini silebant, Velinum lacum, qua in
Narem effunditur, obstrui recusantes quippe in adiacentia erupturum: optume
rebus mortalium consuluisse naturam, quae sua ora fluminibus, suos cursus, ut
que originem, ita fines dederit; spectandas etiam religiones sociorum, qui
sacra et lucos et aras patriis amnibus dicaverint; quin ipsum Tiberim nolle
prorsus accolis fluviis orbatum minore gloria fluire.
Trad.:
«Quelli di Terni presentarono una richiesta simile, dicendo che le
più fertili pianure d'Italia sarebbero state rovinate, se le acque della
Nera (come si progettava) fossero state divise in tanti ruscelli e ridotte a
stagnare sulle campagne. Né tacevano quelli di Rieti, i quali non
volevano che fosse chiuso lo sbocco per cui il lago Velino si scarica nella
Nera, perché le acque si sarebbero riversate sui campi adiacenti. Essi
dicevano che al bene degli uomini ha provveduto nel migliore dei modi la
natura, la quale ha assegnato ai fiumi le loro fonti, il loro corso e
così le sorgenti come le foci; che si doveva anche rispettare il
sentimento religioso degli alleati, i quali avevano dedicato cerimonie e boschi
sacri ed altari ai fiumi patrii; che anzi il Tevere stesso non avrebbe voluto
assolutamente scorrere meno glorioso, senza il tributo dei suoi affluenti».
[29] Con
questo titolo è stato pubblicato nei primi anni del Novecento
l’unico manoscritto esistente della Carta
de Logu, posseduto dalla Biblioteca Universitaria di Cagliari: E. Besta-P. E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con
Prefazioni illustrative, Estratto dagli “Studi Sassaresi” III,
Sassari 1905.
Nelle
citazioni della carta arborense, ho seguito di norma il testo
dell’edizione incunabola: Carta de
Logu. Riproduzione dell’edizione quattrocentesca conservata nella
Biblioteca Universitaria di Cagliari (a cura di Antonina Scanu), Sassari
1991; confrontandolo con Le Costituzioni
di Eleonora giudicessa d'Arborea intitolate Carta de Logu. Colla Traduzione
Letterale dalla Sarda nell'Italiana Favella e con copiose Note, del
Consigliere di Stato e Referendario Cavaliere Don Giovanni Maria Mameli De' Mannelli, Roma 1805 [rist. an.,
Cagliari 1974]; col citato manoscritto pubblicato dal Besta e dal Guarnerio;
nonché con la recente edizione di F. C. Casula, La “Carta
de Logu” del regno di Arborèa. Traduzione libera e commento
storico, Sassari 1995.
[30] Ioannis Dexart, Capitula sive
Acta Curiarum regni Sardiniae, Carali 1645, I, 4, 3, num. 6-7: «summa
profecto ratione mentio in eo tantum, sit de iure communi; id est Romanorum.
[…] In nostra Sardinia contrarium servatur, idque non ex particulari
aliqua ipsius constitutione, vel saltim et iure scripto: sed ex non scripto,
mediante veteri consuetudine, et continua observantia, iuxta quam ab
immemorabili tempore, ita quotidie practicari, expertus sum».
[31] Carta de Logu, cap. III: [Qui ochirit
homini] Volemus et ordinamus que si alcuna persona ochirit homini et est
indi confesso in su iudiciu, o ver convinto, secundu quessu ordini dessa
rag(i)oni comendat, siat illi segada sa testa in su logu dessa iusticia per modu
quindi morgiat et pro dinari alcuno non campit. Salvu si su dittu homini
ochirit defendendo a si, sa quali deffenssa deppiat provari et mostrare
legitimamente per bonos hominis infra dies XV da essa die qui lat esser
comandado per issu armentargiu nostru de logu; o ver per atero officiali nostru
at qui sa dicta causa esseret commissida. Et in casu qui provarit aver mortu su
dittu homini deffendendo assi comente est naradu desupra, non siat mortu et
pena alcuna non patischat et non paghit. Et, si perventura avenerit qui plus
hominis esserent in compagnia de pari et unu de cussos hochirit alcuno atero
homini, et issos ateros qui non esserent in culpa assa dicta morte non benerent
assa corte et non si ischulparint legitimamente que issos non furunt culpabilis
nen consentivilis assa morte de cussu tali homini, infra tres dies, qui issos
siant ponidos et condenpnados a morte comente et issu qui avirit mortu su dictu
homini pro qui nara(n)t sas leges: agentes et consentientes pari pena
puniuntur. Et in casu qui alcuno homini hochirit alcun attero homini
improvisa(da)mente et non cum animu deliberadu et non pensadamente, ma pro
causa fortunabili segundu qui solint a venne(r) multos desastros, volemus qui
in tali casu istet et istari depiat at arbitriu et correctione nostra.
Trad.:
«Vogliamo ed ordiniamo che se alcuna persona uccide un uomo, e lo
confessa in giudizio, oppure venga accertato (il suo crimine), secondo quello
che l’ordine della ragione comanda, sia decapitato nello stesso luogo
dov'è stato condannato, in modo che ne muoia. E che nessuno si salvi col
denaro, a meno che il suddetto (omicida) non abbia ucciso per difendere se
stesso. La qual difesa debba provare e dimostrare con la testimonianza di
uomini onorati entro quindici giorni a partire dal giorno stabilito dal nostro armentariu
de logu, oppure da qualche altro nostro ufficiale, a cui la detta causa
è stata commessa. E nel caso sia provato che la persona abbia ucciso per
difendersi, come detto sopra, non sia uccisa, né patisca alcuna pena,
né paghi qualcosa. E se per avventura accadesse che più persone
fossero in compagnia, ed una di loro uccidesse qualche altro uomo, e gli altri
non colpevoli della detta morte non venissero entro tre giorni alla Corte (di
giustizia) per discolparsi legittimamente dichiarandosi non consenzienti nella
morte di quel tale uomo, siano puniti e condannati a morte come colui che ha
perpetrato il crimine, perché dicono le leggi: “agentes et
consentientes pari pena puniuntur” (“sia punito con la
stessa pena chi agisce e chi acconsente”). Mentre nel caso che qualcuno
ammazzi un altro uomo improvvisamente, senza deliberazione e premeditazione ma
per causa fortuita, come sogliono accadere molte disgrazie, vogliamo che allora
stia, e debba stare, ad arbitrio e correzione nostra».
[32] Carta de Logu, cap. LXXVII: [De chertos dubitosos] Volemus et
ordinamus: cum cio siat causa qui in sas coronas nostras de loghu et ateras qui
se tenent pernos per issu armentagiu nostru, multas boltas advenit que inter
issos lieros que sunt in sas ditas coronas est adivisioni discordia, o ver
differentia in su iuygare que faghint supra alcuno chertu et desiderando nos
qui ciascuna dessas terras nostras siant mantesidas et observadas in iusticia
et in r(ax)one et pro defectu dessa dita divisione, o ver discordia non perdat
nen manquit alcuna raxone sua. Ordinamus et bolemus qui si in alcuna dessas
ditas coronas pervengiat alcunu chertu quesseret grosso et dubitosu, de su
quali sos lieros dessa dita corona esserent perdidos et divisidos insu iuigare
issoro, qui incusso casu su armentargiu nostru de loghu over atero officiali
nostru quest assu presenti, o chat esser per inantes, sia tenudo dessu chertu
et dessu iuighamentu cant faghire sos ditos lieros supra su ditu chertu, de
avirende consigiu cum sos savios dessa corte nostra et cum alcunos dessos
lieros de sa corona qui pargiant sufficientes ad elect(i)one dessu ditu
armentargiu, o ver officiali cat reer sa corona, et icussu qui pro issos o per
ipsa maiore parti de(i)ssos sat deliberari de raxione siat defaghire dessu dito
chertu, su armentargiu o ver officiali nostru fazat leer et publicare in sa
predicta corona in presentia de ambas partis pro sentencia diffinitiva et
mandit ad executione, si appellado non est infra tempus legitimu de dies deghi
comenti comandat sa lege, non infirmando però sa carta de logu.
Trad.:
«Vogliamo ed ordiniamo: accade che nelle nostre coronas de logu,
e nelle altre coronas tenute per Noi dal nostro armentariu (de logu),
molte volte fra i "liberi" componenti la corona si crei divisione,
discordia e divergenza nel giudicare qualche lite; e siccome desideriamo che in
ogni nostro territorio regni la giustizia e la ragione, e che non si perdano a
causa delle suddette divisioni, vogliamo ed ordiniamo che se in qualcuna delle
dette coronas perverrà qualche vertenza grave e dubbia che arreca
incertezza e divisione fra i "liberi" giudicanti, allora il nostro
armentariu de logu, o altro funzionario regio presente o futuro,
insieme con alcuni "liberi" della corona, scelti da lui
stesso, sia tenuto a chiedere parere ai savi della nostra Corte, e ciò
che essi delibereranno all'unanimità o a maggioranza verrà letto
e reso pubblico come sentenza definitiva in corona, alla presenza
delle parti in causa. E se non sarà appellata entro il tempo legittimo
di dieci giorni, come comanda la legge, la detta sentenza sia mandata ad
esecuzione, sempreché non infirmi la Carta de Logu».
Carta de Logu, cap.
LXXVIII: [De appellationibus]
Constituimus et ordinamus, qui ciascuna persona qui si sentirit agravada de
alcuna sententia quilli esseret dada incontra subra alcuno chertu de alcuna
questione qui avirit daenante de qualuncha officiali si pozat, si bolet,
appellaresi infra su tempus ordinadu daessa ragione duas boltas, secundu quest
naradu de subra, cio est de una de questione non usit et non si pozat appellari
plus et in casu qui plus boltas si appellarit ultra sas secundas duas non silli
deppiant amittere nen acceptare.
Trad.:
«Stabiliamo ed ordiniamo che ciascuna persona che si sentisse gravata da
una sentenza contraria in una causa davanti ad un funzionario regio, quella
persona, se vuole, si può appellare nel tempo ordinato dalla ragione due
volte – e non di più – secondo quanto specificato sopra;
ogni altro appello, oltre i due concessi, non deve essere accolto».
[33] Carta de Logu, cap. XCVIII: [De
coyamentos] Constituimus
et ordinamus qui, si alcuna persona coiarit figia sua adodas, qui non siat
tenudu de lassareli nen darelli in vida nen in morte sua si non cussu quillat
aviri dadu indodas si non a voluntadi sua. Salvu qui si isse non avirit ateru
figiu quilli deppiat laxare sa parte sua secundu raxione, contadu illoy in
cussa parte cat deber avire sas dodas cat aviri appidu daenante. Et simigiante
si intendat pro tottu sos dixendentes suos et totu satero quillat romanne inde
possat faguere cussu quillat plaghere et in casu qui morret ab intestadu
sussedat sa figia femina coiada cus sus ateros fradis et sorris suas iscontandu
daessa parti sua cunssa doda qui at aviri appidu.
Trad.:
«Costituiamo ed ordiniamo che, se una persona fa sposare sua figlia con
la dote, non sia tenuta a lasciarle in vita o in morte nient'altro in
più di ciò che le ha già dato, se non per sua stessa
volontà. Se però non ha altri figli, dovrà lasciare (alla
figlia maritata) la sua parte secondo ragione (= l'intera
"legittima"), contando in questa parte la dote che aveva avuto in
precedenza. La stessa cosa intendasi per tutti i suoi discendenti. Del
rimanente potrà disporre a piacimento. Nel caso che uno morisse intestato,
gli succederà la figlia sposata, insieme coi fratelli e le sorelle (del
morto), scontata dalla parte (della figlia) la dote che aveva già
avuto».
[34] Carta de Logu, cap. xciv (De sotzus): Volemus et
ordinamus qui alcunu terarmangiesu cat dare iuo suo assardu pro iuargiu o pro
soci, non appat ad cherre at perunu homini salvu aquillu ad aviri dadu. Ed issu
iuargiu istit assa usansa dessa terra.
Trad.:
«Vogliamo ed ordiniamo che alcuno straniero continentale, che darà
un suo giogo di buoi ad un sardo sia come lavorante sia come soccidario, non
abbia a volere nessun altro uomo tranne quello a cui avrà dato. Ed il
lavorante si attenga all’usanza della terra».
[36] Carta
de Logu, cap. XLVII: Item ordinamus qui si alcuna persona
ponneret foghu istudiosamenti ad lauore messadu over ad messare o a vigna o at
ortu et est indi binchidu paghit pro maquicia lliras L et issu dannu a quillat
aviri factu, et si non pagat isso over attero pro se seghitsilli sa manu dextra.
Trad.
«Inoltre ordiniamo che se qualche persona da fuoco intenzionalmente a
frumento già mietuto o da mietere o ad una vigna o ad un orto e sia
riconosciuta colpevole paghi per multa lire 50 ed anche il danno che
avrà causato; e se non paga lui stesso ovvero altra persona per lui gli
sia tagliata la mano destra».
[37] [Carta
de Logu, cap. XXXVIII: De
proare sos cavallos] Trad.: «Vogliamo ed ordiniamo che i giurati siano tenuti
ciascuno nella sua curatoria di trovare le prove dei cavalli domati, delle
cavalle domate e dei buoi domati e degli asini uccisi di nascosto o rubati nel
villaggio o nei terreni del villaggio; se non troveranno le prove, i giurati e
tutti gli uomini del villaggio paghino in comune ai padroni del bestiame il
valore del furto. E quel bestiame che i giurati dei pascoli avranno trovato
vagante specialmente di notte, e cioè cavallo domato, cavalla domata,
bue domato ed asino, siano tenuti di catturarli e consegnarli alla corte; ed i
giurati avranno la terza parte delle multe: e ciò si intende che anche
nel caso catturassero buoi domati che pascolino di giorno in luogo vietato, i
quali si debbono consegnare alla corte, avranno la terza parte delle multe,
come è detto sopra; e se alcun maggiore di pascolo, ad altra persona,
spingerà un capo del bestiame suddetto da un terreno a pascolo dentro un
campo coltivato, paghi venti soldi per ciascuna bestia, e per ciascuna volta,
se riconosciuto colpevole».
Cfr.
anche Carta de Logu,
cap. CXLII [Qui iscongiarit bingia o orto];
cap. CLXVII [De su pardu]; cap. CXCIV
[De bestiamen rude].
[38] Basterà citare, come esempio, una di queste ordinanze
annuali, per lo più tralatizie nel contenuto: Regione Autonoma della Sardegna. Decreto del Presidente della Giunta 25
marzo 1997, n. 1 = Ordinanza Regionale antincendi 1997, dal cui prologo
traspare l’incombente presenza del fuoco nella quotidianità della
nostra Isola: «Il Presidente della
Giunta Regionale, Considerato che nelle decorse stagioni estive si sono
verificati gravi danni causati dagli incendi nei boschi e nelle campagne della
Sardegna; Ritenuto necessario, per evitare ed attenuare la recrudescenza del
fenomeno, predisporre per tempo, approssimandosi la stagione estiva, misure
idonee atte a prevenire, per quanto possibile, l’insorgere e il diffondersi
degli incendi [...] DECRETA: Art. 1: Ai sensi dell’art. 9 della Legge
1.3.1975, n. 47, dal 1° giugno al 15 ottobre vige lo “STATO DI GRAVE
PERICOLOSITÀ” di incendi per le zone boscate della Sardegna».
[39] Carta
de Logu, cap. XLVI: [Qui ponne fogu in domo] Constituimus et
ordinamus: qui si alcuna persona ponneret fogu ad domo de persona alcuna
istudiosamente et fagherit dannu o no nd-est binchidu: siant tenudos sos
juradus et hominis de sa villa deprouare et detenne su homini qui ad auiri
postu su dictu fogu: et dellu battiri tentu a sa corte nostra, et siat juigadu
dellu ligare ad unu palu er fagherellu arder, et si issos jurados et hominis de
sa villa nò tennerent su homini qui ad aver factu su male paghint
cumonalimenti sa villa manna Liras Centu et issa villa pizina Liras 50 et de
sos benes de cussos hominis qui ad aviri postu su fogu si depiat pagare su
dannu qui ad aviri factu.
Trad.: «Costituiamo ed ordiniamo, che se
qualche persona abbia incendiato una casa di un’altra persona
intenzionalmente, abbia provocato danni o no, e sia stata dichiarata colpevole:
i giurati e gli altri uomini del villaggio siano tenuti a trovare le prove ed
arrestare l’uomo che abbia appiccato il detto fuoco; e catturato di
condurlo davanti alla nostra corte, dove sia condannato ad essere legato ad un
palo e farlo bruciare; se invece i giurati e gli uomini del villaggio non
abbiano catturato l’uomo che aveva commesso il delitto paghino in comune
per un villaggio grande lire cento e per un villaggio piccolo lire 50 e dai beni
dell’uomo che aveva provocato l’incendio si dovrà pagare il
danno a chi lo ha subito»
Carta
de Logu, cap. XLVII: [De fogu in lauore] Et issos jurados siant
tenudos de prouare et de tenne sus malusfactores adicussa pena qui narat su
secundu capidulu.
Trad.: «E gli stessi giurati siano tenuti di
catturare i malfattori e di fornire le prove per sottoporli a quella pena che
prescrive il capitolo secondo».
Carta de Logu, cap.
XLVIII: [De fogu] Volemus et ordinamus. qui si su fogu qui sadi ponni in sa
villa over in sa habitationi dessa dita villa qui fazat perdimentu: siant
tenudos sus curadores ciascadunu is sa curadoria sua: et issus officialis qui
ant sas villas afeu. Et issos officialis o armentargios dessas villas issoro
depiant àdare adprezare su dannu qui ad aviri fatu su fogu cuz sus
megios hominis dessa villa et de benne assa corte da inde a dies XV ad
denunciarellu assa corte nostra a pena de pagare su curadore a sa corte Liras
XXV.
Trad.: «Vogliamo ed ordiniamo, che se il
fuoco che sarà appicato nel villaggio, ovvero nelle pertinenze coltivate
di detto villaggio, provochi dei danni, i curatori ciascuno nella sua curatoria
ne saranno responsabili e gli ufficiali che hanno i villaggi in feudo. E gli
ufficiali, o armentari dei loro villaggi, debbano andare a valutare il danno
che avrà fatto il fuoco, con i migliori uomini del villaggio e di venire
a denunciarlo alla nostra corte entro quindici giorni altrimenti il curatore
dovrà pagare una penale alla corte di lire 25».
[40] Ordinanza Regionale
antincendi 1997, cit., art. 14: «L’ANAS,
le Amministrazioni ferroviarie, le Province e i Comuni dovranno provvedere
entro il 30 giugno […] all’eliminazione di fieno, sterpi o altro
materiale infiammabile lungo la viabilità di propria competenza e nelle
rispettive aree di pertinenza e mantenere tale situazione per tutto il periodo
in cui vige lo Stato di Grave Pericolosità di cui al precedente art. 1».
[41] [Carta
de Logu, cap. XLIX: De fogu] Trad.: «Costituiamo ed ordiniamo che i villaggi, che sono soliti
predisporre fasce tagliafuoco, debbano fare
queste fasce tagliafuoco nei tempi usuali. Ciascun villaggio nei suoi terreni
coltivati. Chi non le abbia fatte per il giorno di San Pietro del mese di
giugno paghi 10 soldi per uomo. E quei
villaggi che le faranno, facciano in modo che le fiamme non attraversino le
fascie tagliafuoco. E se il fuoco le supera provocando danni, paghi il
villaggio alla corte 10 soldi per uomo secondo l’uso e lo stesso curatore
10 lire. Se invece il curatore avrà ordinato ai giurati ovvero agli
altri uomini del villaggio di predisporre le fasce e costoro non le abbiano
fatte, paghino collettivamente la pena che dovrebbe pagare l’ufficiale e
lo stesso ufficiale ne sia liberato».
[42] Carta
de Logu, cap. XLV: [Ordinamentos de fogu] Volemus et ordinamus:
qui nexuna persona deppiat ne pozat ponne fogu infini ad passadu sa festa de
sancta Maria qui est a dies VIII de capudanni et qui contra fagherit paghit de
maquicia.llrs XXV et ultra so paghit su dannu cat fagher acuyu ad esser. Et de
cussa die inantes ciascaduna persona pozat ponne fogu a voluntadi sua guardando
si pero no fazat dannu ad atere, et si fagheret damno paghit pro maquicia liras
X, et issu dannu ad qui l'at aver factu. Et si no ad de qui ndi pagare cussu
qui ad esser condemnadu in liras x
istit in pregione ad voluntadi nostra. Et issus jurados de sa villa hue ponne
su fogu siant tenudos de prouare et tenne sos malefactores predictos et de
representarellos a sa corte nostra infra XV dies. Et si nò los tenint in
su dictu tempus sus dictos jurados cum sos hominis dessa villa paghit de
maquicia cio est sa villa manna liras XXX et issa villa pizina liras XV et issu
curadores de ciascuna de cussa villas paghit ssz.C, et de sos benes cant
lassari: cio est sos cant essere fuidos et inculpadussi deppiant pagare su
dannu ad cuy ad esser et issu remanente decussus benes si deppiant contari in
su pagamentu qui ant fagher sos hominis dessa villa.
Trad.: «Vogliamo ed ordiniamo che
nessuna persona debba né possa abbrucciare stoppie fino a dopo la festa di Santa Maria, che
è il giorno 8 settembre, e chi agirà in senso contrario paghi di
multa lire 25 ed inoltre paghi il danno che può aver fatto a colui che
lo ha subito. Da quel giorno in poi ognuno potrà appiccare fuoco a sua
volontà, facendo attenzione
a non danneggiare altri, se invece avrà provocato qualche
danno paghi per multa lire 10 ed il valore del danno al danneggiato. Se non ha
di che pagare la multa di 10 lire, stia in prigione a volontà nostra. Ed
i giurati del villaggio, dove sarà appiccato il fuoco, siano tenuti a trovare le prove e
catturare i malfattori ed a portarli davanti alla nostra corte entro quindici
giorni. E se non li catturano nel tempo prescritto detti giurati e gli uomini
di quel villaggio paghino di multa, se è un villaggio grande 30 lire, se
è un villaggio piccolo 15 ed il curatore di ciascuno di questi villaggi
paghi 100 soldi, e dai beni che lasceranno, cioè quelli che saranno
fuggiti ed incolpati si dovrà risarcire il danneggiato; mentre la parte
rimanente di quei beni si dovrà computare nel pagamento che faranno gli
uomini del villaggio».
[43] Ordinanza Regionale
antincendi 1997, cit., art. 10: «I
proprietari e i conduttori di terreni, non compresi tra i boschi e le macchie
di cui al precedente art. 2, possono, sotto la propria diretta responsabilità
penale e civile, procedere all’abbruciamento di stoppie, frasche,
cespugli, residui di colture agrarie e di altre lavorazioni, di pascoli nudi,
cespugliati o alberati, nonché di incolti, anche nel periodo dal 1°
giugno al 30 giugno e dal 15 settembre al 15 ottobre, purché muniti di
apposita autorizzazione da rilasciarsi dalla Stazione Forestale e di V.A.
competente per il territorio nel quale dovranno effettuarsi gli abbruciamenti»;
da vedere anche gli artt. 11 e 12.