N. 7 – 2008 – Tradizione
Romana
Professore Emerito
Università di Torino
La ‘verità’: valore sotteso alla
definizione celsina del diritto*
Sommario: 1. Disattenzione
per la ‘verità’ nell’attuale scienza giuridica e
ricerca del significato di verus in
una selezione di testi di giuristi romani. – 2. Non
degradabilità a Leerformel
della definizione celsina del diritto, posta da Ulpiano a base della sua
trattazione. – 3. ‘Verità’
della definizione celsina e suo difetto nella dottrina pura del diritto.
– 4. Esclusione, nella
definizione, dell’apparente carenza del riferimento alla
prescrittività e coazione.
Lelio
Lantella ci ha offerto questa mattina le sue riflessioni sugli elementi (valori
e principii) che formano oggetto, in relazione al diritto romano, di questa
giornata di studi dedicata a Silvio Romano. Parlando, da parte mia, della
‘verità’, come valore sotteso alla definizione celsina del
diritto, non sono sicuro di essere in piena sintonia con le sue determinazioni.
Egli, da un lato, non colloca la ‘verità’ tra gli
«oggetti che, nel discorso comune attuale, vengono qualificati
‘valori’» e, dall’altro, nota che mancano, nel suo
elenco, «i valori di qualificazione eulogica», così
esemplificati: «certezza (del diritto), rapidità (delle decisioni,
delle attività, dei processi, ecc.), economicità (dei
procedimenti, delle soluzioni, ecc.), trasparenza (delle decisioni), eleganza
(del ragionamento, della costruzione giuridica, della soluzione), ecc.».
Un
dato è sicuro: nell’attuale scienza giuridica la
‘verità’ (intesa come conformità o rispondenza alla
realtà, di cui sono parte le esigenze umane) non forma oggetto di
speciale attenzione; non si suole cioè ricercare se in specie
l’elaborazione dottrinale (una teoria, una definizione,
un’interpretazione, ecc.) sia o non sia rispondente alla realtà[1].
In assenza di indicazioni sul punto, non è agevole individuarne con certezza
la ragione. Sono in gioco due elementi fra loro contrapposti: da un lato, la
ritenuta ovvietà della rispondenza alla realtà
dell’elaborazione dottrinale[2]
e, dall’altro lato, lo spazio lasciato, in tale elaborazione,
all’ideologia, che si sovrappone alla realtà, tendendo a
sostituirla.
All’atteggiamento
riferito ha pure partecipato la dottrina romanistica. Nelle fonti romane a noi
pervenute è attestata la valutazione, circa la
‘verità’, di definizioni, distinzioni, teorie, pareri, ecc.
Uno dei giuristi, per i quali è più frequentemente testimoniata
siffatta valutazione, espressa con l’aggettivo verus, è Ulpiano, a cui è dovuta la citazione,
conservata nel Digesto, della definizione del diritto di Celso figlio come ars boni et aequi[3].
È tuttavia finora mancata, a quanto mi risulta, da parte dei romanisti,
una ricerca in argomento. Non fanno eccezione neppure gli autori che si sono
occupati, anche di recente, della famosa presa di posizione ulpianea, secondo
cui i giuristi perseguono, nella loro elaborazione, la vera philosophia, non quella simulata[4].
Il significato di vera philosophia
è stato ricercato con sfoggio di cultura, ma senza tener conto
dell’uso, da parte di Ulpiano, dell’aggettivo verus a proposito dell’attività dei giuristi. È
stata così prospettata una serie di interpretazioni della locuzione, per
lo più tra loro divergenti, ma accomunate dal prescindere dal
significato preminente e comune di verus
(= conforme o rispondente alla realtà), sicuramente presente nel
linguaggio dei giuristi, tra i quali Ulpiano, e confermato, nel luogo in
oggetto, dalla contrapposizione a simulatus.
Indico, come esempio, l’opinione rielaborata dal Falcone, secondo cui
Ulpiano avrebbe inteso replicare all’accusa, che era stata mossa da
Cicerone ai giuristi nell’oratio
pro Murena (§ 30), di praticare una verbosa simulatio prudentiae, ravvisando rispettivamente la vera filosofia nella pars moralis e quella simulata nella pars dialectica della filosofia stessa[5].
A prescindere da altri rilievi esposti altrove[6],
non pare dubbio che la ‘verità’ e la
‘simulazione’ possano rinvenirsi tanto nel campo giuridico che in
quello filosofico – e, in quest’ultimo, sia nella pars moralis che nella pars dialectica –, come in
qualsiasi altro ambito in cui opera la mente umana.
Come
mostra il contesto, Ulpiano, parlando di vera
philosophia, si è riferito all’elaborazione dei giuristi, da
lui contrapposta a quella svolta in campo filosofico e giudicata (per
l’ambito giuridico) un sapere simulato, in quanto rispondente solo in
apparenza alla realtà e alle esigenze umane. La circostanza che il
giureconsulto ha enunciato la propria critica nel manuale istituzionale fa
ritenere che egli abbia avuto di mira concezioni per un verso, concernenti il
diritto e, per l’altro, in auge al suo tempo. Erano tali le idee radicate
nella visione del diritto naturale e tramandate congiuntamente ad essa nella
filosofia stoica, alla cui diffusione nella cultura romana aveva concorso, in
misura rilevante, Cicerone. Esistono elementi, se pure trascurati, da cui risulta
che Ulpiano prese le distanze da tale visione e dalle concezioni in cui si
concretava. È sufficiente ricordare qui che egli ridusse il ius naturale, raffigurato in un passo
ciceroniano come vera lex, recta ratio, naturae congruens, diffusa in
omnis, constans, sempiterna[7],
alla partizione del diritto privato (affiancata a quelle già prima
individuate del ius civile e del ius gentium), priva di ogni significato
pratico, in quanto formata da elementi di carattere giuridico (costituenti una
partizione del diritto privato), presentati come comuni agli uomini e agli
altri animali, mentre l’asserita comunione giuridica non esisteva
(né avrebbe potuto esistere), dato che gli animali diversi dal genus humanum risultavano esclusi dalla
stessa soggettività giuridica. A differenza degli schiavi, che erano
volta a volta considerati personae e res, i predetti animali erano
esclusivamente res.
L’intrinseca
contraddizione presente nella teorizzazione ulpianea circa il ius naturale, può sembrare
superata, sul piano enunciativo, pur non essendolo su quello delle cose, grazie
al diverso significato che presenta, nel discorso del giurista,
l’aggettivo communis, come
emerge, in specie, dalla raffigurazione del ius
gentium: Ius gentium est, quo gentes
humanae utuntur. quod a naturali recedere facile intellegere licet, quia illud
omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit[8]. La stipulatio,
istituto del ius gentium, è
comune ai romani e ai peregrini nel senso che viene conclusa tra gli uni e gli altri;
viceversa la maris atque feminae
coniunctio è comune agli uomini e agli altri animali nel senso che
esiste sia tra i primi che tra i secondi, non in quello che si pratica tra gli
uni e gli altri[9].
Sgombrato
il terreno dall’equivoco terminologico rilevato, rimane il dato della
realtà che il diritto è in tutto e per tutto un affare umano:
è prodotto dall’uomo per disciplinare i rapporti umani. E rimane
insieme il fatto che la configurazione ulpianea del diritto naturale non ha
incidenza pratica su tale disciplina[10].
Non
è possibile, nella presente relazione, svolgere l’indagine,
tuttora mancante, circa l’impiego di ‘verus’ e ‘veritas’
almeno nelle fonti giuridiche romane. Cito tuttavia alcuni testi in materia (in
parte rilevante ulpianei), a dimostrazione, da un lato,
dell’opportunità della ricerca auspicata, e a suffragio,
dall’altro, dell’interpretazione affacciata della locuzione vera philosophia usata da Ulpiano a
proposito dell’attività dei giuristi[11].
Ulp. (11 ad ed.) D. 4.3.1.1-2:
Verba autem edicti talia sunt: ‘Quae dolo malo facta esse dicentur, si de
his rebus alia actio non erit et iusta causa esse videbitur, iudicium
dabo’. Dolum malum Servius quidem ita definiit machinationem quandam,
alterius decipiendi causa, cum aliud simulatur et aliud agitur. Labeo autem
posse et sine simulatione id agi, ut quis circumveniatur: posse et sine dolo
malo aliud agi, aliud simulari, sicuti faciunt, qui per eiusmodi
dissimulationem deserviant et tuentur vel sua vel aliena: itaque ipse sic
definiit dolum malum esse omnem calliditatem fallaciam machinationem ad
circumveniendum fallendum decipiendum alterum adhibitam. Labeonis definitio
vera est[12].
Ulp. (4 ad ed.) D.
2.14.7.14: Si paciscar, ne operis novi nuntiationem exsequar, quidam putant non
valere pactionem, quasi in ea re imperio praetoris versetur: Labeo autem
distinguit, ut, si ex re familiari operis novi nuntiatio sit facta, liceat
pacisci, si de re publica, non liceat: quae distinctio vera est. et in ceteris
igitur omnibus ad edictum praetoris pertinentibus, quae non ad publicam
laesionem, sed ad rem familiarem respiciunt, pacisci licet: nam et de furto
pacisci lex permittit[13].
Gai 1.190: Feminas vero perfectae aetatis in tutela esse fere
nulla pretiosa ratio suasisse videtur; nam quae vulgo creditur, quia levitate
animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis
speciosa videtur quam vera: mulieres enim quae perfectae aetatis sunt, ipsae
sibi negotia tractant et in quibusdam causis dicis gratia tutor interponit
auctoritatem suam, saepe etiam invitus auctor fieri a praetore cogitur[14].
Ulp. (1 ad l. Iul. et Pap.)
D. 1.9.7.1: Item Labeo scribit etiam eum, qui post mortem patris senatoris
natus sit, quasi senatoris filium esse. sed eum, qui posteaquam pater eius de
senatu motus est concipitur et nascitur, Proculus et Pegasus opinantur non esse
quasi senatoris filium, quorum sententia vera est: nec enim proprie senatoris
filius dicetur is, cuius pater senatu motus est antequam iste nasceretur. si
quis conceptus quidem sit, antequam pater eius senatu moveatur, natus autem
post patris amissam dignitatem, magis est ut quasi senatoris filius
intellegatur: tempus enim conceptionis spectandum plerisque placuit[15].
Ulp. (48 ad Sab.) D.
45.1.1.6: Eadem an alia lingua respondeatur, nihil interest. proinde si quis
Latine interrogaverit, respondeatur ei Graece, dummodo congruenter
respondeatur, obligatio constituta est: idem per contrarium. sed utrum hoc
usque ad Graecum sermonem tantum protrahimus an vero et ad alium, Poenum forte
vel Assyrium vel cuius alterius linguae, dubitari potest. et scriptura Sabini,
sed et verum patitur, ut omnis sermo contineat verborum obligationem, ita
tamen, ut uterque alterius linguam intellegat sive per se sive per verum
interpretem.
Nei
passi scelti l’aggettivo verus
esprime sempre, con diverse sfumature, connesse alla diversità delle
situazioni, la rispondenza alla realtà. La valutazione di
quest’ultima è fatta dall’uomo, che peraltro, con le sue
esigenze, ne è nel contempo parte. Il diritto è un elemento
artificiale, sovrapponentesi, come tale, alla realtà, ma, una volta
posto, ne diviene parte.
Il
dolo, alla cui definizione, dovuta a Labeone, è attribuita da Ulpiano la
qualifica vera, è
un’entità giuridica, alla cui conformazione concorrono al solito
un profilo prescrittivo ed uno concettuale. Le relative definizioni di Servio e
di Labeone attengono al secondo profilo, esprimendone la nozione, individuata
in entrambe in una machinatio, posta
in essere per trarre in inganno un soggetto nell’attività
negoziale. Servio peraltro richiese, insieme alla machinatio, la simulazione (aliud
simulatur, aliud agitur). Come si è detto, Ulpiano ritenne
preferibile, qualificandola vera, la
nota definizione di Labeone omnis
calliditas fallacia machinatio ad circumveniendum fallendum decipiendum alterum
adhibita. Con tale qualifica Ulpiano intese dire che la definizione
labeoniana corrisponde a quello che il dolo è effettivamente nella
realtà. La ‘verità’ della definizione, affermata dal
giureconsulto severiano, trova conferma nel fatto che ancora al presente
l’essenza del dolo negoziale è ravvisata nel raggiro.
In D.
2.14.7.14 Ulpiano qualifica vera una distinctio, anch’essa dovuta a
Labeone. Alcuni avevano sostenuto l’invalidità della pattuizione ne operis novi nuntiationem exsequar, in
quanto in essa era coinvolto l’imperium
del pretore. Labeone, invece, distinse a seconda che la denuncia di nuova opera
fosse stata fatta ex re familiari,
nel qual caso la pactio era lecita,
ovvero de re publica, nel quale la
stessa era viceversa illecita. In questo caso (nei riguardi cioè della
distinzione labeoniana) la ‘verità’ è data dalla
congiunta rispondenza alla realtà e alla relativa disciplina giuridica.
Lo stesso deve dirsi per la generalizzazione che segue nel testo (la
libertà di pattuire anche in merito a tutte le altre clausole
dell’editto pretorio, purché non abbiano riguardo a una lesione
pubblica, ma ad un interesse privato), giustificata col dato che la legge (il
riferimento è alle XII tavole) consente di et de furto pacisci.
Nel
passo gaiano la qualifica vera
ricorre in una argomentazione volta a contestare la fondatezza della ratio comunemente addotta della tutela
muliebre. Essa si svolge in questi passaggi: non esiste alcuna ratio plausibile per sottoporre a tutela
le donne perfectae aetatis; certo
quella che si adduce (siccome le donne, a causa della leggerezza d’animo,
vengono sovente ingannate, parve congruo che vengano guidate dall’auctoritas del tutore) è
più appariscente che vera; in effetti esse trattano da se stesse i
propri affari, in taluni casi il tutore interpone l’auctoritas come mera formalità, e spesso è costretto
a interporla contro il proprio volere. Al solito la qualifica vera esprime l’aderenza alla
realtà, ma con speciale riguardo alle esigenze umane, che giustificano
norme e istituti giuridici. È da sottolineare, nel discorso gaiano, la
correlazione posta tra l’inesistenza, almeno come regola, della levitas animi delle donne e quella
dell’aequitas della loro
sottoposizione alla tutela. Secondo il giureconsulto, le norme e gli istituti
giuridici non rispondenti alla realtà, di cui sono parte le esigenze
umane, non sono neppure equi.
In D.
1.9.7.1 Ulpiano qualifica vera la sententia di Proculo e Pegaso, secondo i
quali non è figlio di senatore colui che è stato concepito ed
è nato dopo che il padre è stato rimosso dal senato. La
‘verità’ della sententia
è ravvisata nella congiunta rispondenza alla realtà e alla regola
giuridica: è figlio di senatore chi nasce da un senatore ed è
tale chi riveste, e finché riveste, la carica. Proseguendo nella
disamina Ulpiano pervenne a puntualizzare che, per colui che è stato
concepito quando il padre rivestiva la carica senatoriale, ma è nato
dopo che lo stesso ne è stato rimosso, si debba propendere per la
condizione di figlio di senatore, risultando decisivo per la determinazione,
così come avevano reputato i più, il momento del concepimento.
Ulpiano, come i plerique, ritenne
rispondente alla realtà (risultante dal dato incontrovertibile che tutti
gli esseri umani viventi sono stati concepiti), l’individuazione
dell’inizio della vita, non dal momento della separazione dal corpo
materno, ma da quello anteriore del concepimento, senza il quale non può
esserci nascita. Anche in difetto di altre conoscenze, l’attenzione alla
realtà rendeva evidente che la vita al di fuori del corpo materno
è la prosecuzione di quella dentro di esso, il cui inizio risale appunto
al concepimento.
Nell’ultimo
passo citato Ulpiano riferisce la scrittura di Sabino, secondo cui i
contraenti, nel concludere la stipulatio,
possono esprimersi in qualsiasi lingua, purché l’uno conosca
quella dell’altro. Nel caso considerato la ‘verità’
consiste in primo piano nella conformità alla fondamentale esigenza
dell’attività contrattuale che ognuna delle parti conosca la
volontà manifestata dall’altra o dalle altre. Il vero interprete
è quello che, grazie all’adeguata padronanza delle diverse lingue
usate, assicura tale conoscenza.
L’esame
condotto, se pure solo in via esemplificativa, circa l’uso di
‘vero’ nelle fonti giuridiche romane a noi pervenute, fornisce
indici per la valutazione della ‘verità’ della definizione
celsina del diritto[16].
Credo tuttavia opportuno sgomberare preliminarmente il terreno da una possibile
obiezione e da una critica radicale, che riscuote ancora adesioni.
A)
Ulpiano, mentre, come si è visto, qualificò ‘vera’ la
definizione labeoniana del dolo, usò, a proposito della definizione
celsina del diritto, l’avverbio eleganter.
Potrebbe arguirsene che il giurista severiano non abbia riconosciuto alla
definizione celsina l’indicata qualifica. L’illazione è
peraltro priva di fondamento. Ogni entità presenta solitamente
più aspetti e ciascuno, nel considerarla, è orientato dalle
proprie propensioni e dai fini che persegue a porne in risalto uno piuttosto
che un altro. Eleganter, a proposito
dell’attività umana, evoca la finezza, la precisione, la sagacia,
qualità tutte che sembrano implicare, in specie quando essa è
indirizzata, come nel campo giuridico, a fini pratici, l’aderenza alla
realtà. La sua implicazione è in ogni modo sicura nel pensiero di
Ulpiano, il quale non si limita a riferire la definizione celsina, ma la assume
come base della propria argomentazione volta a mostrare il nesso esistente tra
il ius e la iustitia e a delineare i compiti del giurista, esplicitati nel iustitiam colere et boni et aequi notitiam
profiteri, mediante la separazione dell’equo dall’iniquo, il
discernimento del lecito dall’illecito, lo sforzo di rendere gli uomini
migliori non solo col timore delle pene, ma altresì con
l’esortazione dei premi, e il perseguimento, con ogni forza, della vera philosophia, non di quella
simulata. Chiaramente, in assenza della verità della definizione
celsina, cadrebbe l’intera costruzione del giureconsulto.
B)
Ogni elemento della definizione celsina è stato oggetto di
interpretazioni distorte, tendenti ad omologarla alle nostre attuali
concezioni. Così il segno ius,
con cui è espresso il definiendum,
è stato inteso, senza alcun indizio a favore, nel senso di scientia iuris; il segno ars, con cui è indicato, nel definiens, il genere prossimo, è
stato inteso nel significato di sistema, in contrasto col suo significato
comune e, specificamente, con quello che presenta nelle definizioni di
attività umane; il segno aequum,
che, insieme a bonum enuncia, sempre
nel definiens, la differenza
specifica, è stato inteso nel significato di giusto, in opposizione alle
perspicue risultanze delle fonti[17].
Al
presente è largamente riconosciuto che, nella definizione celsina, ius significa diritto, ars indica le cognizioni teoriche, le
capacità pratiche e le attività occorrenti per dar vita ad esso e
renderlo operante (per la sua produzione, interpretazione, elaborazione e
applicazione) ed aequum non richiama
la giustizia, ma l’eguaglianza nel senso elastico, quale si attaglia al
diritto, e cioè proporzionale[18].
Persistono però ancora, anche tra i romanisti, riserve e
perplessità, nei riguardi della definizione celsina, dipendenti dalla
convinzione, o almeno dal dubbio, che essa sia una formula vuota riempibile di
ogni contenuto. La convinzione che si tratti di una Leerformel è espressa con la consueta chiarezza da M.
Talamanca nel suo manuale istituzionale[19]
e trova condivisione, se pure non tradotta in trattazione scritta, da parte di
altri studiosi. Nel recente convegno della SIHDA, a Catania, l’obiezione
della Leerformel mi è stata
affacciata da voi colleghi in colloqui seguiti alla mia relazione, tenuta, ad
altro proposito, sulla definizione celsina[20].
Tale
obiezione ha radici profonde nella scienza romanistica. Fritz Schulz, nella sua
Storia della giurisprudenza romana,
apparsa a cavallo della metà del secolo scorso in edizione inglese,
tedesca e italiana e costituente tuttora (senza togliere merito a opere coeve e
successive) un punto di riferimento basilare in materia[21],
commentò il brano ulpianeo, in cui è citata la definizione
celsina, in termini lapidari. Riferisco la formulazione dell’edizione
tedesca, che rispecchia meglio, a mio parere, il suo pensiero: «Eine
oberflächliche, nichtssagende Formel. Und Ulpian nennt sie elegant! Es ist die einzige
Definition von ius in unsern
Rechtsbüchern»[22].
Lo studioso
se la sbrigò in due righe. Egli considerò la definizione celsina
come un elemento a se stante, avulso dal contesto, esprimendo nei suoi
confronti un giudizio tanto negativo da essere difficilmente pensabile: essa
è una formula superficiale e nulladicente (meno, se possibile, di
insignificante). Più che di una critica, si trattò, dal suo punto
di vista, di una constatazione, da cui egli si sentì esonerato non
soltanto dal giustificare il proprio assunto, ma altresì dall’esaminare
il contenuto della definizione, cosa d’altronde inutile e impossibile,
stante il suo preconcetto che essa non dica nulla.
Anche
la qualifica di elegante, attribuita da Ulpiano alla definizione celsina,
è considerata dallo studioso tedesco quale elemento isolato, avulso dal
contesto. La ritenuta radicale inattendibilità di tale qualifica
è da lui espressa, in connessione col giudizio prima esposto sulla
definizione, mediante un punto esclamativo. Per quanto possa stupire, non si
può non rilevare che Fritz Schulz non ha tenuto conto che il giurista
severiano non si è limitato a parlare di eleganza a proposito della
definizione celsina, ma ha colto in essa il significato profondo del diritto,
avvalendosene, come già si è rilevato, sia per l’individuazione
del nesso tra il diritto stesso e la giustizia, sia per la determinazione dei
compiti dei giuristi, il tutto in dissonanza con le concezioni dominanti nel
tempo in cui lo studioso fu scientificamente attivo.
A
conclusione del commento al brano ulpianeo considerato, Fritz Schulz rilevò
che la definizione celsina, è la sola definizione di ius tramandata nei testi giuridici
romani a noi noti. Il rilievo, almeno per se stesso, non è peraltro in
linea con la tesi da lui sostenuta. I prudentes
romani solevano criticare, correggere e modificare enunciazioni e definizioni
di altri giuristi anteriori o coevi da essi ritenute inadeguate, mentre
ovviamente si astenevano dal farlo nei casi in cui le reputavano corrette.
Rimanendo nell’ambito dei dati già richiamati, Labeone corresse la
definizione serviana del dolo, mentre Ulpiano accolse, qualificandola
‘vera’, quella labeoniana. Lo stesso Ulpiano accolse e
utilizzò la definizione celsina del diritto, giudicandola elegante, sul
presupposto, come si è visto, della sua ‘verità’. I
dati di cui disponiamo inducono a ritenere che la definizione in questione,
riferita da Ulpiano e ricevuta nei Digesta,
non sia stata oggetto di critiche nel corso dell’esperienza romana.
Il
rilievo in esame dello studioso tedesco assume significato dal convincimento, al
suo tempo largamente diffuso, secondo cui i giuristi romani, dediti alla
concretezza, non amavano le astrazioni e definizioni, non avevano con esse
dimestichezza e, in definitiva, per quanto attiene alle seconde, non le
sapevano solitamente fare[23].
A proposito del diritto – lascia intendere F. Schulz – essi hanno
lasciato un’unica definizione e anche questa fallita e da dimenticare, in
quanto consistente in una formula superficiale e senza significato. Convinto
che il diritto si identifichi con le norme, lo studioso rifiutò
aprioristicamente la sua definizione come ars
boni et aequi, senza vagliarne la fondatezza e la compatibilità con
l’indispensabile presenza, in esso, delle norme.
Fritz
Schulz non era sicuramente uno sprovveduto, ma uno studioso di alto valore, che
si rivolgeva nel suo lavoro scientifico ad altri studiosi, in primis ai romanisti. Egli diede per scontati e pacifici gli
elementi che stavano a base del suo giudizio radicalmente negativo sulla
definizione celsina. E in ciò colse nel segno, come mostra la mancanza
di reazioni alla sua demolizione della definizione stessa (demolizione che, a
ben vedere, ne giustificava a posteriori
la già avvenuta rimozione dalla scienza giuridica anche romanistica) nei
decenni centrali del secolo scorso[24].
Oggi
il pregiudizio circa la supposta inettitudine dei giuristi romani per le
definizioni e, in generale, le astrazioni, appare caduto. E non ne mancano le
ragioni.
La
concretezza si contrappone all’astrattezza, ma coesiste fin da epoca
antichissima, nel pensiero umano, con l’astrazione, indispensabile anche
nel campo giuridico: l’idea della norma (o regola), assai più
risalente dell’esperienza romana, implica (ha connaturate in se stessa)
la generalità ed astrattezza. La concretezza non esclude definizioni e astrazioni,
ma ne postula l’aderenza alla realtà.
Grazie
alla loro formazione, i giuristi romani avevano mediamente una conoscenza
migliore di quelli attuali delle regole e insidie dell’attività
definitoria. La definizione celsina del diritto rispetta tali regole e, come mi
propongo di dimostrare nella mia esposizione, è modellata sulla
realtà. Per altro verso, nelle moderne trattazioni sul diritto, alla
definizione di esso tende ad essere sostituita quella di norma o di
ordinamento, considerato come un insieme di norme. Nelle stesse manca
solitamente l’individuazione del genus
in cui sussumere il diritto. Tralascio l’approfondimento di queste
questioni di grande interesse, ma esorbitanti dal mio tema odierno, e rientro
in esso, cercando di dare risposta alla domanda: perché si continua a
ritenere che la definizione celsina del diritto sia una Leerformel o almeno si manifestano ancora dubbi al riguardo?
Un
aiuto alla risposta è fornito dalla trattazione già citata di
Mario Talamanca, dove egli, al fine di dare «una traduzione letterale ed
aproblematica» della definizione celsina, rende ars boni et aequi in «scienza pratica che ha ad oggetto il
buono e il giusto»[25].
A prescindere dal rilievo che il sintagma «scienza pratica» si
presenta riduttivo rispetto ad ars,
evocante, insieme al conoscere, anche il fare (l’attività pratica
in cui si estrinseca ciascuna ars),
appare discutibile che «giusto» possa considerarsi la traduzione
più attendibile, letteralmente, di aequus,
il cui significato principale è ‘uguale’, ‘piano’,
ed è certo che «il giusto», in assenza di criteri per la sua
determinazione, è uno dei concetti più controversi e, nel
contempo, più vaghi, riempibile da ciascuno in base alle proprie
convinzioni e ai fini perseguiti e riempito volta a volta, nell’esperienza
storica, in modi diversi. Aequum,
così inteso, è realmente una Leerformel
e il Talamanca è stato coerente nel ricondurre ad essa la definizione
celsina, quale da lui concepita.
Al
presente aequum, nella definizione
celsina, viene più spesso reso con ‘equo’. Tuttavia
l’appiattimento, ancora frequente, dell’equo nel giusto non
consente di uscire dalla prospettiva della Leerformel,
al qual fine è necessario intendere ‘equo’ nel senso
dell’eguaglianza proporzionale, percependo, nel bonum et aequum, il profilo dei criteri.
Si
tratta di un punto nodale, su cui è opportuno un chiarimento.
Il
profilo dei criteri – congiunto a quelli dei fini perseguiti e dei
connotati richiesti in quanto viene prodotto – è immanente nella
concezione del diritto come ars, espressa
con la sussunzione nel genus in essa
ravvisato. Questa concezione, rimossa da secoli dalla scienza giuridica,
è apparsa, oltre che contrastante, incompatibile con quella normativa,
elaborata in suo luogo e tuttora ampiamente diffusa. In coerenza alla
concezione del diritto come ars si
individuano i fini con esso perseguiti, i criteri che guidano nella sua
produzione, interpretazione, elaborazione ed applicazione e i connotati che
devono presentare le loro esplicazioni. Viceversa, in base alla concezione
normativa, si individuano nel diritto gli elementi della prescrittività
e della coazione.
Come
conclusione, in merito alla tesi considerata di F. Schulz, rilevo che è
consono al convincimento che la sostanza del diritto consista nella
prescrittività e coazione ritenere che la relativa definizione come ars boni et aequi non dica niente in
ordine ad esso.
L’avvenuta
rimozione della definizione celsina del diritto dalla scienza giuridica ha
avuto conseguenze che pesano tuttora sulla scienza stessa. Un esempio
significativo è dato dalla mancata percezione del significato
dell’eguaglianza e ragionevolezza nelle convenzioni internazionali sui
diritti dell’uomo e in carte costituzionali del nostro e di altri Paesi.
Limito
la considerazione all’esperienza italiana.
Come
ho già rilevato in altri scritti, la ragionevolezza e
l’uguaglianza rappresentano la formulazione astratta del concreto binomio
bonum et aequum (ciò che
è buono e rispondente all’eguaglianza proporzionale) della
definizione celsina. Nella nostra costituzione l’eguaglianza, da cui
è stata enucleata la ragionevolezza, è contemplata
nell’art. 3 sotto i Principi
fondamentali. L. Lantella, il quale non si è occupato del criterio,
puntualizza che «il principio è una regola direttiva non sottordinata ad altre norme e sovraordinata ad altre». A rigore
l’eguaglianza e la ragionevolezza non appaiono comprimibili in questa
rappresentazione, non essendo, da un lato, sottordinate ad alcuna norma, ed
essendo, dall’altro, sovraordinate a tutte. Esse non stanno neppure sullo
stesso piano degli altri precetti disposti dai costituenti nel novero dei
principi fondamentali, fra cui figurano la tutela delle minoranze linguistiche
(art. 6), il riconoscimento che «tutte le confessioni religiose sono
egualmente libere davanti alla legge» (art. 8), la promozione dello
sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, nonché la
tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione (art.
9), ecc. È certo infatti che pure questi precetti sono sottordinati
all’eguaglianza e alla ragionevolezza, le quali permeano l’intero
ordinamento.
L.
Lantella sembra muoversi nella visuale normativa, limitando la considerazione
alle norme, mentre, secondo la prospettiva celsina, aderente alla
realtà, del versamento del diritto nell’ars, l’eguaglianza e la ragionevolezza afferiscono
all’intero fenomeno giuridico: esse precisamente guidano (devono guidare)
non solo la produzione del diritto, ma altresì la sua interpretazione,
elaborazione e applicazione.
Il
genere più appropriato, in cui sussumere l’uguaglianza e la
ragionevolezza, appare quello del criterio. Nel nostro sistema esse sono
stabilite (più esattamente recepite) da una norma costituzionale, ma, a
differenza di tutte le altre norme costituzionali e non costituzionali, che
disciplinano determinati ambiti e settori, costituiscono appunto i criteri per
disciplinarli tutti.
Chiarito
che Ulpiano, il quale ha qualificato elegante la definizione celsina del
diritto, l’ha pure ritenuta vera e mostrata l’inconsistenza delle
ragioni per cui essa è stata generalmente – ed è ancora in
qualche misura – reputata una formula vuota, cerco ora di metterne in
luce la ‘verità’ negli aspetti più rilevanti.
Celso,
nella sua definizione, sussunse il ius
nel genere ars e ne indicò la
nota specifica nel bonum et aequum. I
due elementi sono tra loro strettamente connessi.
Col
segno ars i romani indicavano tutte
le attività (materiali, intellettuali e miste) poste in essere
dall’uomo nella realtà terrena, nella quale esistono cose e si
producono accadimenti ad opera della natura e, rispettivamente,
dell’uomo. Si individua, insomma, la summa
divisio tra il naturale e l’artificiale. Nell’ambito di quest’ultimo
si hanno settori (quali l’agricoltura, la medicina, la cucina, la
pettinatura dei capelli), in cui l’attività umana interagisce con
la natura e settori in cui ciò non avviene (o non appare avvenire), come
nella musica, nella matematica, nel linguaggio, nel diritto; in particolare
quest’ultimo è stato ed è ancora, nell’esperienza
umana, un elemento in tutto e per tutto artificiale: è prodotto,
osservato, violato, interpretato, elaborato ed applicato dall’uomo.
La
sussunzione del diritto nell’ars
è, quindi, conforme alla realtà e a una concreta esigenza.
È in effetti percepito nella comune esperienza che l’atteggiamento
e l’agire umano sono, ad esempio, diversi nel difendersi dalla grandine o
dalla bora e, rispettivamente, nel costruire una casa o una barca, così
come nel produrre e applicare il diritto.
È
peraltro possibile che Celso abbia avuto una specifica sollecitazione a
formulare la definizione del diritto. Come ho già notato, al di
là della derivazione dal predetto giurista, non sappiamo nulla circa il
contesto e la stessa opera in cui la definizione era contenuta. Abbiamo
tuttavia conoscenza di alcuni elementi aventi con essa attinenza. Da tempo
erano penetrate nella cultura romana dottrine della filosofia, in specie
stoica, tra le quali la concezione del diritto naturale eterno ed immutabile.
Questa concezione, alla cui diffusione in tale cultura aveva dato, come ho
già rilevato, un contributo rilevante Cicerone, continuò a
tramandarsi nel quadro del sapere filosofico, ricevendo qualche attenzione
anche da parte dei giuristi[26].
Orbene
l’idea in oggetto del diritto naturale contrasta frontalmente con
l’artificialità del ius
(dell’intero fenomeno giuridico) affermata da Celso.
Ulpiano,
a cui è dovuta la nostra conoscenza della definizione del diritto come ars boni et aequi, la riferì,
come sappiamo, nell’incipit
delle sue Institutiones, ricollegando
ad essa sia la connessione del diritto con la giustizia, sia i compiti
riconosciuti ai giuristi, e concludendo il discorso in argomento con la
puntualizzazione che essi perseguono la vera filosofia, non quella simulata. La
filosofia simulata non poteva essere che quella dei filosofi, i quali
continuavano a sostenere e tramandare, in contrasto col dato oggettivo che il
diritto è un prodotto umano, l’idea del diritto naturale eterno e
immutabile. Questa stessa idea era sostenuta, in campo filosofico, al tempo di
Celso, nella cui definizione del diritto l’affermazione della sua artificialità
risultava, da un lato, aderente alla realtà e si contrapponeva,
dall’altro, a tale idea. È ben possibile che Celso ne fosse
consapevole.
L’esigenza
che l’elaborazione dottrinale sia aderente alla realtà, nella
quale rientra il dato, ad un tempo elementare e fondamentale,
dell’artificialità del diritto, non suole formare oggetto di
discussione: è difficile dire se essa sia stata data per scontata o
trascurata. In ogni modo, nella nostra tradizione, a cui limito la
considerazione, si sono avute e si hanno tuttora dottrine e concezioni che
rimuovono tale dato o non ne tengono conto. Un esempio è fornito dalla
dottrina, a cui si è fatto cenno, del diritto naturale concepito come
eterno ed immutabile. Un altro esempio, su cui intendo soffermarmi, può
vedersi, sul versante opposto del giuspositivismo, nella dottrina pura del
diritto, elaborata da Hans Kelsen nel secolo scorso e avente ancora al presente
sostenitori[27].
Mi
rendo conto delle difficoltà che presenta e come possa apparire
presuntuoso prendere posizione nei confronti della meditata costruzione
kelseniana in un tratto della mia relazione. Riconosco alti meriti allo
studioso, ma non posso non manifestare stupore per il largo seguito avuto, e
che in parte ha ancora, la dottrina pura del diritto, nonostante il suo distacco
dalla realtà e dalle profonde esigenze umane, a causa del quale essa non
si presenta, nella prospettiva ulpianea, come vera philosophia, ma simulata.
Rilevo
intanto la rimozione, da parte dello studioso, dell’artificialità
del diritto e considererò più avanti la conclusione inaccettabile
(a mio avviso aberrante) da lui enunciata.
Il
Kelsen ebbe presente che il diritto è posto dall’uomo[28],
ma rimosse il dato nella ricerca della norma fondamentale
dell’ordinamento giuridico statale al di fuori della visione, da lui
rifiutata, del diritto naturale. Questa rimozione lo indusse precisamente a
presupporre (inventare) la norma fondamentale al fine di fornire una
giustificazione, sostitutiva di quella derivante dalla produzione umana, alla
validità (intesa come carattere vincolante) del diritto, rendendo
così contraddittoria la sua argomentazione.
Riferisco
tre passaggi significativi.
«Dal
fatto che qualcosa è non si
può dedurre che qualcosa deve (soll) essere, così come dal fatto
che qualcosa deve (soll) essere non si può dedurre
che qualcosa è. Il fondamento
della validità di una norma non può essere che la validità
di un’altra norma»[29].
«La
ricerca di un fondamento della validità di una norma non può
proseguire all’infinito … Tale ricerca deve terminare con una norma
presupposta come ultima e suprema. Come norma suprema deve essere presupposta, in quanto non può
essere posta da
un’autorità, la cui competenza dovrebbe riposare su una norma
ancora più elevata. La sua validità non può più
essere dedotta da una norma superiore, il fondamento della sua validità
non può più essere discusso»[30].
«Poiché
il fondamento della validità di una norma può essere soltanto
un’altra norma, questo presupposto deve essere una norma: non una norma posta dall’autorità
giuridica, bensì una norma presupposta,
cioè una norma che si presuppone quando si interpreta il senso
soggettivo dell’atto costituente ed il senso soggettivo degli atti
produttivi di diritto (posti in essere secondo la costituzione) anche come loro
senso oggettivo. Trattandosi della norma fondamentale di un ordinamento
giuridico …, la proposizione che descrive questa norma … suona
così» [nella «forma più breve» indicata
dall’autore]: «Bisogna comportarsi così come prescrive la
costituzione»[31].
Nel
primo passaggio il diritto è valutato alla stregua di
un’entità naturale autonoma e completa, avente cioè in se
stessa il proprio fondamento (ogni norma trae validità dalla
validità di un’altra norma), indipendentemente dall’intervento
umano. In tale valutazione il Kelsen afferma l’impossibilità di
dedurre il diritto dal fatto (come il fatto dal diritto), trascurando il dato
decisivo, da lui rimosso, della produzione del diritto da parte dell’uomo[32].
Nell’impostazione emerge pure la fallacia della riduzione del diritto
alla norma.
Proseguendo,
nei due passaggi successivi, nella configurazione della dottrina pura del
diritto, lo studioso si trova costretto a disattendere i presupposti su cui si
regge tale dottrina.
In
primo luogo disconosce, in fatto, il principio secondo cui «il fondamento
della validità di una norma non può essere che la validità
di un’altra norma». E lo fa non, come si attenderebbe, per una
ragione logica, ma per l’impossibilità di dare ad esso
applicazione: perché com’egli dice, la ricerca della norma
fondamentale «non può proseguire all’infinito» (si
sottintende inutilmente, dato che non può essere trovata) ed è,
quindi, necessario terminare la ricerca «con una norma presupposta come
ultima e suprema». È facile il rilievo che, se un principio non
può trovare applicazione, perché non risponde alla realtà,
deve essere abbandonato, in quanto non vero. Non si può fingere di
mantenerlo, disapplicandolo.
Come
si è visto, la norma fondamentale dell’ordinamento giuridico dello
stato è espressa dal Kelsen con l’espressione «bisogna
comportarsi come prescrive la costituzione». Peraltro, secondo i
presupposti della dottrina pura del diritto, anche questa norma postula
l’esistenza di un’altra norma di rango più elevato. Essa non
è quindi, in realtà, la norma fondamentale, ma viene assunta come
tale. Sono palesi, nella costruzione del Kelsen, la disattenzione (unita al
mancato rispetto), nei confronti della realtà e il difetto di coerenza
interna: da un lato viene inventata la norma fondamentale, di cui è
riconosciuta l’inesistenza (l’impossibilità di trovarla
nella catena senza fine di norme sempre postulanti una norma superiore) e,
dall’altro, la si inventa in contrasto con le premesse poste[33].
In
secondo luogo il Kelsen rimette in gioco, a proposito della norma fondamentale,
la dipendenza del diritto dall’uomo, compromettendone la purezza da lui
perseguita. E, sempre a causa del distacco dalla realtà, lo fa in modo
anche per se stesso non corretto. A suo parere la norma fondamentale non
è «una norma posta
dall’autorità giuridica, bensì una norma presupposta» in via
interpretativa: come risulta dal contesto, dall’elaborazione dottrinale:
la norma fondamentale è cioè una invenzione della dottrina[34].
È certo doveroso riconoscere a quest’ultima il ruolo da essa
svolto nella produzione ed evoluzione del diritto, ma in esso non rientra la
posizione di norme generali ed astratte. Essa può individuare la norma
fondamentale esistente nell’ordinamento, non inventarla (presupporla in
difetto della sua esistenza).
La
costruzione del Kelsen non spiega (e non può spiegare), stante il suo
scostamento dalla realtà[35],
il carattere vincolante delle norme giuridiche, il quale trova invece piana
spiegazione nella visione celsina dell’artificialità del diritto
ad essa aderente. In effetti nella realtà si ha questo e soltanto
questo: il diritto è in tutto e per tutto un prodotto dell’uomo,
il quale, nel produrlo, pone in esso gli elementi e imprime i connotati che
presenta. Pure gli edifici sono, ad esempio, prodotti dall’uomo, che li
configura in modo diverso a seconda della loro destinazione: abitazione,
palestra, teatro, ricovero di animali, ecc. Sul piano del galateo e della
stessa morale l’uomo ha ritenuto sufficiente la prescrittività; su
quello giuridico ha invece reputato necessaria, in aggiunta, la coazione. Tutto
il resto è immaginazione, fantasia, che può presentare pregio in
altri campi, ma è pregiudizievole (non solo inutile)
nell’elaborazione dottrinale[36],
che non può non avere lo stesso scopo pratico del diritto, che ne forma
oggetto.
È
radicalmente diversa la visione di Celso. Nella sua definizione del diritto, al
versamento di esso nel genere ars
è correlata l’individuazione della nota specifica nel bonum et aequum. Il binomio esprime il
fine perseguito dall’uomo col complesso delle attività in cui si
esplica la specifica ars detta ius, fine che consiste nella concreta
attuazione del bonum et aequum nei
rapporti che si determinano nella convivenza umana. In coerenza la sostanza del
ius è rinvenuta nelle
soluzioni attinenti a tali rapporti, in cui sono coinvolti gli interessi e
sentimenti delle persone umane (dei soggetti formanti il raggruppamento per cui
il diritto è posto). Le norme generali ed astratte, se pure
indispensabili, sono strumentali rispetto all’indicata attuazione. In
altre parole la legge è sottoordinata al diritto, non viceversa. E tale
sottoordinazione deve tradursi nei fatti. All’occorrenza, quindi, la
previsione normativa generale ed astratta deve essere integrata o modificata,
in modo che ciascuna soluzione risulti rispondente al ius: a ciò che, secondo l’ars iuris, è buono ed equo. Per l’esperienza romana
non si trattava soltanto di un’aspirazione. Com’è noto, la
funzione della iurisdictio era
preordinata ad assicurare, in caso di bisogno, nella decisione delle
controversie, l’adeguamento al bonum
et aequum della normativa in vigore, rafforzandola, correggendola e
supplendo ad essa.
Come
si è mostrato, il binomio bonum et
aequum esprime, congiuntamente ai fini dell’ars iuris, i supremi criteri che guidano le varie attività in
cui si esplica il diritto ed i connotati che devono presentare, ai diversi
livelli, le soluzioni nelle quali esse si concretano. Ovviamente
l’aderenza alla realtà, postulata dall’ars iuris, si esplica pure nel tenere conto dei limiti inerenti
alla condizione umana: ad esempio, che non sono evitabili errori, comportanti
scostamenti dal bonum et aequum,
nelle decisioni delle liti emesse nell’unico o nel più alto grado
previsto.
La
concezione del diritto naturale, a cui si è fatto cenno, penetrata e
tramandata nell’esperienza romana, escludeva, in una con
l’artificialità del diritto, gli elementi richiamati da Celso
nella raffigurazione della differenza specifica dell’ars iuris. Secondo tali concezioni il diritto naturale era peraltro
espressione della giustizia.
Il
Kelsen perviene, nella sua elaborazione, a giustificare, all’insegna
della purezza del diritto, qualsivoglia contenuto di esso[37].
Riferisco un passo centrale della sua argomentazione sul punto. La «norma
fondamentale presupposta … appartiene all’ordinamento giuridico, le
cui norme sono prodotte conformemente» ad essa. «Il diritto
può quindi avere qualsiasi contenuto. Non esiste alcun comportamento
umano che, come tale, a causa del suo contenuto, non potrebbe formare il
contenuto di una norma giuridica. La validità di quest’ultima non
può essere negata argomentando che il suo contenuto contraddice ad
un’altra norma non appartenente all’ordine giuridico, la cui norma
fondamentale costituisce il fondamento della validità della norma in
questione»[38].
Come in
altri luoghi, lo studioso richiama la produzione del diritto da parte
dell’uomo, ma nel contempo la accantona, disconoscendone le implicazioni
riassumentisi nell’artificialità: così egli non considera i
fini dell’ars iuris, i criteri
che la informano e i connotati che devono presentare le soluzioni apprestate.
Per lui non contano le esigenze umane, come non contano i dati della
realtà, non importa neppure l’inettitudine allo svolgimento della
funzione per cui il diritto è posto, e cioè «garantire
… una situazione relativamente pacifica all’interno della
comunità da esso regolata»; a suo parere rileva soltanto
l’immaginazione, in contrasto con le premesse enunciate, della norma
fondamentale, volta a garantire fittiziamente (nella rappresentazione, non in fatto)
la validità del diritto[39].
Purtroppo
nell’esperienza umana non sono mai mancati comportamenti e situazioni
contrastanti anche in modo grave col bonum
et aequum. Peraltro, come il fatto che si commettono omicidi non rende
legittima la loro commissione, così il fatto che si instaurino sistemi
giuridici conculcanti diritti umani non giustifica la loro instaurazione.
Non
nascondo il mio profondo sconcerto di fronte alla netta asserzione che
«non esiste comportamento umano che, come tale, a causa del suo contenuto,
non potrebbe formare il contenuto di una norma giuridica». Il diritto
potrebbe quindi prescrivere sia comportamenti criminosi (quale lo sterminio di
un popolo o l’uccisione di tutte le neonate partorite da ciascuna donna
dopo la prima), sia comportamenti assurdi (come costruire le case di abitazione
senza fondamenta o senza finestre, oppure – nella linea degli esempi
appresi quando ero studente nella facoltà giuridica torinese, i quali
apparivano atti a suscitare un sorriso e non turbare dei discenti[40]
– tenere l’ombrello chiuso quando piove e aperto quando non piove.
Non posso del pari nascondere il mio stupore di fronte all’indifferenza,
espressa dal Kelsen, rispetto alla funzione fondamentale del diritto di
assicurare, nella comunità per cui è posto, il pacifico
svolgimento dei rapporti umani. Non si può non dire che si tratta di una
posizione, oltre che astratta, irrazionale. Sarebbe come affermare, in ordine
alla costruzione di un teatro, l’irrilevanza che esso serva o non serva
alle rappresentazioni[41].
L’elemento
formale ha grande rilevanza nell’esperienza umana e, specificamente, nel
diritto. Esso tuttavia non sostituisce la sostanza, né la rende
irrilevante. Un oggetto che presenti soltanto l’aspetto esteriore, per
quanto ben imitato, di un orologio o di una mela, non è un orologio o
una mela; un’arancia svuotata degli spicchi e riempita di gelato non
è più un’arancia. Non si vede perché, nel diritto,
si debba attribuire esclusiva importanza alla forma, trascurando la sostanza.
Il diritto presenta indubbiamente aspetti peculiari, ma rientra nel genere
prodotto umano e, come tutti gli altri prodotti umani (e altresì gli
elementi naturali) è costituito dalla forma e dalla sostanza: da
quest’ultima rivestita dalla prima.
La
visuale celsina dell’artificialità, a differenza della concezione
positivistica portata alle estreme conseguenze da Hans Kelsen, consente di
risalire alle ragioni profonde del diritto. Certamente gli omicidi, e in genere
i delitti, vengono puniti perché ciò è previsto dal
diritto, ma il diritto è stato posto per evitare il più possibile
che essi vengano commessi, punendo i contravventori.
Lo
scopo del diritto non è quello di regolare comunque i rapporti umani, ma
di regolarli nel modo migliore possibile, così come lo scopo per cui
è stata ideata l’architettura non è di costruire comunque
edifici, ma di costruirli per soddisfare le molteplici esigenze umane. In breve
alla produzione umana (alle svariate artes
nelle quali essa si esplica) è inerente, se pure si hanno deviazioni, il
profilo del ‘buono’, valutato in base alle esigenze umane.
Il
Kelsen rileva con ragione che «la validità» di una norma
giuridica «non può essere negata argomentando che il suo contenuto
contraddice un’altra norma non appartenente»
all’«ordinamento giuridico» considerato. È noto che,
nella nostra tradizione, la separazione del diritto dalla religione e dalla
morale è già stata operata dalla giurisprudenza romana, anche se
si sono ancora riproposte in seguito tendenze alla commistione. L’autonomia,
nel senso detto, del diritto non ne preclude però la valutazione dal
punto di vista sostanziale. Sotto questo profilo il diritto non si differenzia
dagli altri prodotti umani. Anche per esso tale valutazione non solo si
presenta possibile e si pratica abitualmente, ma è in molti casi
indispensabile, come per le modifiche normative. Soprattutto lo sforzo
elaborativo del Kelsen non ha eliminato l’esigenza di una valutazione del
diritto non circoscritta alla forma, ma estesa alla sostanza. Come avviene per
le altre artes rivolte a uno scopo
pratico, anche nel diritto la sostanza ha preminenza sulla forma, che, in
rapporto alle esigenze umane per le quali il diritto stesso è posto, ha
carattere strumentale rispetto ad essa. Come per gli altri prodotti umani,
occorre evitare che si nasconda, sotto l’aspetto formale del diritto,
ciò che ne ha l’apparenza, ma non la sostanza: con specifico
riferimento alla teoria kelseniana occorre evitare che, sotto l’insegna
della purezza dottrinale, si snaturi il diritto o si camuffi come tale la
prescrizione di comportamenti anche insensati, o comunque confliggenti col bonum et aequum, e la stessa disumana
prescrizione di crimini[42].
Celso,
dando preminenza alla sostanza sulla forma, indicò, col binomio bonum et aequum, i connotati essenziali
del diritto, in difetto dei quali esso non esiste (se ne può avere
l’aspetto formale, ma non la sostanza); per contro il Kelsen, ravvisando
nella forma l’elemento decisivo per l’individuazione del diritto,
ritenne che essa possa rivestire qualsiasi contenuto. Non si può non
constatare, nella prospettiva delle esigenze umane (certo quella preminente in
campo giuridico), che la definizione celsina si presenta ‘vera’,
cioè aderente ad esse, mentre la dottrina kelseniana non è tale,
ma simulata.
Uscendo
dall’impostazione kelseniana, la critica alla dottrina pura del diritto
deve spingersi oltre, investendo la stessa distinzione, quale si presenta in
essa, tra norme procedurali (la cui osservanza assicura, da sola, la
validità del diritto) e norme sostanziali. Questa distinzione non trova
rispondenza in quella tra forma e sostanza. In effetti anche nelle norme
procedurali coesistono forma e sostanza e anch’esse possono violare il bonum et aequum: la sua violazione si
riscontra, ad esempio, nella disposta concentrazione (non conseguibile nella
realtà) in un unico soggetto o carica, quale si ebbe nel sistema
giustinianeo, della produzione, elaborazione e interpretazione del diritto. La
‘verità’ non è di casa nella teoria criticata,
aspirante all’astrazione dalla realtà.
Come
si è mostrato, il genere prossimo e la differenza specifica, enunciati
da Celso nella definizione del diritto, trovano puntuale rispondenza nella
realtà. Tuttavia, ai nostri occhi, la definizione può presentarsi
carente, in quanto in essa non figurano i due elementi della
prescrittività e della coazione, in cui, secondo concezioni radicate nella
nostra esperienza, si concreta il diritto. Anch’io, condizionato da
queste concezioni, avevo ritenuto, in passato, la definizione celsina carente
nel senso detto[43].
Un più attento esame della questione mi induce peraltro a cambiare
opinione.
Contrariamente
a quanto è stato sostenuto[44],
la definizione celsina non è una definizione nominale, ma reale. La
filosofia stoica aveva elaborato e introdotto nell’esperienza romana, a
lato della definizione per genere prossimo e differenza specifica, usata da
Celso, numerose altre specie di definizioni[45].
Tuttavia la definizione predetta conservò un ruolo privilegiato;
soprattutto l’introduzione di altre specie di definizioni non
mutò, in tale esperienza, la natura e la funzione della definizione
stessa, nella quale in particolare, mediante l’individuazione del genere
prossimo, si mirava ad indicare l’essenza del definiendum: com’è stato detto, il «predicato
essenziale comune a cose che differiscono di specie»[46].
È
antistorico vedere in Celso un antesignano dell’empirismo logico, la cui
tesi fondamentale è la riduzione del sapere filosofico all’analisi
del linguaggio (e, quindi, della definizione a definizione nominale), con la
conseguente ripulsa dei giudizi di valore, a cominciare da quello di
verità o falsità. È documentato nelle fonti che il
giurista romano cercava, nell’elaborazione dottrinale, la
‘verità’, valutandone l’attendibilità o
inattendibilità a seconda della rispondenza o non rispondenza ad essa.
Cels. (35 dig.) D.
34.7.1pr.-2: Catoniana regula sic definit, quod, si testamenti facti tempore
decessisset testator, inutile foret, id legatum quandocumque decesserit, non
valere. quae definitio in quibusdam falsa est. Quid enim, si quis ita
legaverit: ‘si post kalendas mortuus fuero, Titio dato’? an
cavillamur? nam hoc modo si statim mortuus fuerit, non esse datum legatum
verius est quam inutiliter datum. Item si tibi legatus est fundus, qui
scribendi testamenti tempore tuus est, ‘si eum vivo testatore
alienaveris’, legatum tibi debetur, quod non deberetur si testator statim
decessisset.
Cels. (6 dig.) D.
15.1.6: Definitio peculii quam Tubero exposuit, ut Labeo ait, ad vicariorum
peculia non pertinet, quod falsum est: nam eo ipso, quod dominus servo peculium
constituit, etiam vicario constituisse existimandus est[47].
Nei
passi citati l’esigenza della rispondenza alla realtà appare
sottolineata da Celso nei riguardi dell’elaborazione dottrinale, ma
è certo che si trattava, secondo il giureconsulto, di un’esigenza
comune a tutte le attività nelle quali si esplica l’ars iuris.
Non
è possibile, a mio avviso, una netta separazione (la totale esclusione
di interferenze e punti di contatto) tra la definizione reale e quella
nominale, dato che i segni linguistici sono stati apprestati e servono per
indicare le cose e queste vengono abitualmente indicate coi primi. Tuttavia
l’individuazione del genere appropriato di una determinata cosa e delle
caratteristiche che la contraddistinguono dalle altre rientranti nello stesso
genere attengono alla cosa stessa. Tale individuazione non pare invece pertinente
(o comunque necessaria) per accertare il significato delle parole: esattamente
l’uso che ne viene fatto da una determinata persona o in un dato ambito[48].
Nel
quadro indicato emerge la ragione per cui i fautori dell’empirismo logico
escludono i giudizi di valore (in primis
quello di verità o falsità) dalla definizione nominale, la sola
da essi ritenuta scientificamente valida. Se si ricerca, ad esempio, il
significato di diritto nell’attuale esperienza italiana, la sola cosa che
conta è che il significato accertato con la ricerca compiuta corrisponda
all’effettivo impiego della parola in tale esperienza. A rigore, neppure
in questo orizzonte può dirsi esclusa l’esigenza del giudizio di
verità o falsità, il quale risulta necessario per accertare
l’indicata corrispondenza. Al di là del rilievo fatto,
l’impostazione in esame incontra limiti inaccettabili sul piano
scientifico, precludendo la valutazione di ciò che più importa,
vale a dire della rispondenza o non rispondenza del significato accertato alla
realtà, ed implicando l’acritica accettazione delle definizioni (e
sottese concezioni) esistenti, senza la possibilità di vagliarne e
correggerne le eventuali manchevolezze e distorsioni: in definitiva essa, se
compiutamente attuata (il che non si è finora verificato, neppure ad
opera dei suoi più tenaci assertori), osterebbe allo svolgimento e
sviluppo del sapere giuridico.
Sono
ora acquisiti gli elementi per mostrare che non esiste, nella definizione
celsina, la carenza ipotizzata in apertura di questo paragrafo.
Occorre
concentrare l’attenzione sul diverso approccio valutativo del definiendum nella definizione nominale e
in quella reale. La definizione nominale ha ad oggetto la parola, di cui indica
il significato, e cioè che cosa essa rappresenta: in ultima analisi
l’entità da essa rappresentata. Anche i segni linguistici sono
entità, ma la loro funzione è quella di evocare e rappresentare,
necessariamente mediante altri segni linguistici, elementi della realtà,
tra i quali figurano essi stessi. La definizione reale ha viceversa ad oggetto
l’entità rappresentata dal segno linguistico, della quale persegue
una percezione più approfondita mediante l’individuazione del
genere appropriato a cui essa appartiene e della caratteristica che la
contraddistingue dalle altre specie ad esso appartenenti.
A ben
vedere, le due operazioni sono entrambe necessarie nell’elaborazione
scientifica del diritto[49].
Colui che si accinge a formulare una definizione reale, non può non
accertare previamente, se pure senza esplicita enunciazione,
l’entità evocata dal segno linguistico che la indica.
Uberto
Scarpelli, che ha coscientemente formulato, per l’area presa in
considerazione, una definizione del diritto secondo i canoni della filosofia
analitica, ne ha ravvisato il genere e la differenza specifica nel
«concetto designante gli usi linguistici prescrittivi, o norme» e,
rispettivamente, «nella coattività»[50].
A prescindere dall’inadeguatezza della definizione rispetto alla
realtà[51],
lo Scarpelli ha perseguito l’explicatio
nominis, cioè la spiegazione del significato della parola diritto,
mediante l’indicazione di ciò che essa rappresenta. Per contro,
Celso, definendo il ius come ars boni et aequi, aveva perseguito
l’explicatio rei, vale a dire
del complesso fenomeno giuridico, quale si presenta nella realtà,
mediante l’indicazione del genere appropriato in cui rientra, ravvisato
nell’ars, e della differenza
specifica che lo distingue da tutte le altre artes, espressa col binomio bonum
et aequum.
Sembra
doversi dire che la definizione reale e quella nominale non sono, come si
è ritenuto, operazioni contrapposte, nel senso che l’una esclude
l’altra, bensì tra loro coordinabili, in quanto il definiens correttamente individuato
della definizione nominale è assunto come definiendum in quella reale. Ad esempio, nella definizione celsina,
gli elementi della prescrittività e della coazione, esprimenti il genus e la species nella definizione nominale dello Scarpelli (più
esattamente tutti gli elementi e le attività che concorrono a formare il
fenomeno giuridico), sono evocati dal definiendum
espresso col segno ius. Attraverso
questo segno, Celso intese definire la realtà con esso rappresentata,
come mostra anche il dato che il definiens
da lui elaborato è, per un verso, modellato su di essa, per
l’altro, rivolto al conseguimento, nel modo migliore possibile, degli
scopi per i quali gli uomini hanno apprestato il diritto, giungendo a
sceverarlo vuoi dalla religione, vuoi dalla morale, e continuando a servirsene,
come avviene ancora al presente. È in effetti evidente che egli ha
versato nel genere ars la disciplina
dei rapporti umani, rappresentata con i segni ius, diritto, Recht, e
tanti altri, com’è pure palese che si riferiscono ad essa, nel suo
complesso, i fini, criteri e connotati espressi congiuntamente col binomio bonum et aequum. Nella definizione di
Celso la disciplina indicata, rientrante nel significato di ‘ius’, è rappresentata da
questo segno assunto appunto per indicare il definiendum.
La
rispondenza della definizione celsina ai dati della realtà e alle
esigenze umane, unita a grande profondità, trova un’ulteriore
conferma nella sua attitudine, sia a rendere ragione dell’intero fenomeno
giuridico e dei suoi elementi, sia a mettere in luce la responsabilità
umana per le deficienze e storture presenti, oltre che nel sapere giuridico,
nelle molteplici esplicazioni in cui si concreta tale fenomeno. Lo svolgimento
del tema, a mio avviso di rilevante interesse, fuoriesce dai limiti della mia
relazione. Osservo soltanto che, mentre il bonum
et aequum, nel quadro della sussunzione del diritto nell’ars, guida alla configurazione, in esso,
della prescrittività e della coazione, queste ultime, considerate per se
stesse (sganciate precisamente dall’artificialità), non conducono
all’individuazione dei supremi criteri dell’attività
giuridica espressi dal binomio.
È
patente la consonanza al bonum et aequum
della posizione di regole nei raggruppamenti, in cui l’uomo conduce la
propria vita e svolge la propria attività, come lo è
dell’aggiunta ad essa della coazione nel raggruppamento per eccellenza,
avente carattere politico, al fine di sopperire al fatto che né la
morale, né la religione, né altro, hanno finora assicurato,
nell’esperienza umana, l’osservanza delle regole poste[52],
da parte di tutti i consociati. È del pari consono al bonum et aequum il corollario
(purtroppo, come ho già osservato, non tenuto nel debito conto nella
nostra attuale esperienza), secondo cui la violazione delle regole giuridiche
non deve mai risultare più vantaggiosa della loro osservanza. Rientra
infatti nella natura e funzione del diritto che la sua violazione non sia
premiata, ma punita. Per contro, come si è visto, secondo la dottrina
pura del diritto, non ha importanza che l’ordinamento giuridico non
assicuri uno svolgimento sufficientemente pacifico della convivenza umana.
Viene così disconosciuta la funzione del diritto e snaturato il diritto
stesso, che non ha ragione di esistere e non è più tale, se non
serve allo scopo per cui è posto, così come un oggetto avente la
parvenza di una carrozza o di un’automobile non può dirsi tale
(non ne ha la natura e la funzione) se non serve alla locomozione. È
consono all’impostazione rifiutata che non si percepisca, o si consideri
irrilevante, il fondamentale corollario indicato: reputandosi decisiva, nel
diritto, la forma e, viceversa, ininfluente il contenuto sostanziale, non si
coglie in esso una distorsione o anomalia nel privilegiare il mal fare rispetto
al ben fare. Inoltre nella dottrina pura del diritto la prescrittività e
la coazione, a causa della loro isolata e astratta considerazione, non trovano
una giustificazione plausibile e siffatta considerazione conduce a riconoscere
come diritto valido qualsivoglia regola, per quanto contrastante col bonum et aequum, sotto la sola
condizione dell’osservanza, nell’emetterla, della procedura
prescritta: raffigurazione nella quale, come si è puntualizzato, in
conseguenza del bando dei valori, salvo il rispetto della forma, rientra anche
la disumana e irrazionale prescrizione di comportamenti insensati e dei crimini
più gravi. In nome della purezza del diritto si rinnega la ragione e si
conculcano imprescindibili esigenze e aspirazioni umane.
* Relazione tenuta nella Giornata di studi su Valori e principii del
Diritto romano. Per i 100 anni del Prof. Silvio Romano Maestro di Istituzioni,
Torino 12/10/2007.
[1] G. Zagrebelsky, nella recente
pubblicazione Contro l’etica della
verità, Roma-Bari 2008, non si occupa della verità nella
prospettiva, da me assunta, della rispondenza alla realtà e alle
esigenze umane. Anzi proprio questa prospettiva rende chiare le ragioni per cui
non può accettarsi, a mio avviso, la sua posizione. Lo studioso prende
esplicitamente le distanze dal pirronismo e, implicitamente (a me pare), dalle
forme estreme del nichilismo. Egli scrive nella Premessa (VII): «Il dubbio …, al contrario del radicale
scetticismo, presuppone l’afferrabilità delle cose umane, ma,
insieme, l’insicurezza di averle afferrate veramente, cioè la
consapevolezza del carattere necessariamente fallibile o mai completamente
perfetto della conoscenza umana, cioè ancora la coscienza che la
profondità delle cose, pure se sondabile, è però
inesauribile». All’«etica della verità» Gustavo
Zagrebelsky contrappone «l’etica del dubbio», esteso, nella
sua prospettazione, a ogni sfera della conoscenza umana: non solo ai sommi
problemi, quali l’origine dell’universo e della vita o
l’esistenza di Dio, ma anche a tutti quelli relativi ai rapporti umani,
formanti oggetto del diritto. Mi limito, nell’impossibilità di una
disamina compiuta, ad alcuni rilievi. In primo luogo il dubbio sistematico e
generale è sinonimo di relativismo, parente prossimo (sotto altro
aspetto, una sorta di mascheramento) del nichilismo: non c’è
infatti grande differenza, ai fini dell’agire pratico, tra il ritenere
che non esista la verità e il credere che essa esista, ma non sia
attingibile dall’uomo. Si tratta di un atteggiamento palesemente non
produttivo nel campo giuridico, sia in merito alle soluzioni generali ed astratte,
sia nei riguardi delle decisioni concrete. Si pensi all’emanazione di una
legge o alla pronuncia di una sentenza in materia di furto o soppressione di
neonati da parte di chi sia incerto se essi siano delitti o comportamenti
leciti, o addirittura da incoraggiare. In secondo luogo non corrisponde alla
realtà l’opinione che tutto, nell’esperienza umana e
specificamente nel diritto (in merito tanto agli accadimenti naturali e ai
comportamenti umani quanto al dettato legislativo o comunque alla normativa esistente),
si presenti incerto. Non sono in discussione i limiti inerenti alla condizione
umana, ai quali non è sottratta la conoscenza, e che, in quanto facenti
parte della realtà, vanno tenuti in conto anche nell’elaborazione
giuridica. Peraltro, nell’ambito di questi limiti, l’uomo ha di
norma elementi conoscitivi sufficienti per orientarsi nella realtà
terrena e nei rapporti con gli altri consociati. Non è necessaria, sul
punto, una dettagliata esplicazione, rientrando tutto ciò nella comune
esperienza: l’uomo, come ha imparato da epoca remota a fare l’olio
con le olive, così sa che, per la pacifica convivenza, deve astenersi
dal sottrarre o danneggiare le cose altrui e, viceversa, restituire ciò
che ha ricevuto in prestito. Il quadro complessivo non è cambiato dalla
possibilità di errori, che non sono mancati e non mancano
nell’esperienza umana. In terzo luogo, nei casi di incertezza, che senza
dubbio talora si presentano, ricorre il criterio del plausibile (di ciò
che appare preferibile o meno peggio), già noto alla scienza giuridica
romana. Inoltre, alla luce dell’esperienza concreta, potranno essere in
seguito corrette, per il futuro, le eventuali scelte rivelatesi erronee.
Gustavo
Zagrebelsky (op. cit., 105) pensa che
al presente «il binomio natura-artificio» sia «diventato
insostenibile». Io credo che la distinzione tra elementi naturali ed
elementi artificiali (prodotti dall’uomo autonomamente o interagendo con
la natura) non sia venuta meno. Il diritto, come già indicato da Celso
nella definizione in esame, è, nell’esperienza storica, un
prodotto in tutto e per tutto artificiale.
[4] V., da
ultimo, con citazioni della letteratura anteriore, V. Marotta, Iustitia, vera
philosophia e natura. Una nota sulle Institutiones di Ulpiano, in D. Mantovani e A. Schiavone (a cura di), Testi
e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia 2007, 563 ss. La presa di
posizione ulpianea ricordata nel testo si rinviene, com’è noto,
nel frammento con cui si aprono i Digesta
(D. 1.1.1.1 Ulp. 1 inst.).
[5] G. Falcone, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’.
Sulla raffigurazione ulpianea dei giuristi (D. 1.1.1.1), in AUPA 49 (2004), 111 s.
[6] F. Gallo, Fondamenti romanistici del diritto europeo: a proposito del ruolo della
scienza giuridica, in Tradizione
romanistica e Costituzione (dir. L. Labruna,
cur. M.P. Baccari e C. Cascione), 2, Napoli 2006, 1955 ss.
[7] Si
tratta di de rep. 3.22.33 [K. Ziegler], di cui riferisco i
passaggi più significativi: est
quidem vera lex, recta ratio, naturae congruens, diffusa in omnis, constans,
sempiterna … . huic legi nec obrogari fas est, neque derogari aliquid ex hac
licet, neque tota abrogari potest, nec vero aut per senatum aut per populum
solvi hac lege possumus, neque est quaerendus explanator aut interpres Sextus
Aelius, nec erit alia Romae, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et
omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et inmutabilis continebit,
unusque erit communis quasi magister et imperator omnium deus: ille huius legis
inventor, disceptator, lator … La distanza, rispetto alla
teorizzazione ulpianea del diritto naturale, appare abissale. Per altri testi
ciceroniani in argomento v. W. Waldstein,
Teoria generale del diritto, Roma 2001, 83 ss.
[9] La
suggestione dell’esistenza di una comunanza giuridica tra gli uomini e
gli altri animali è aumentata, al livello rappresentativo, dalla
puntualizzazione inter se, ricorrente
nella parte finale del brano riportato, relativa al ius gentium, ma da riferire, alla luce del contesto, anche al ius naturale prima menzionato: quia illud [il ius naturale] omnibus
animalibus, hoc [il ius gentium] solis hominibus inter se commune sit. La
puntualizzazione, calata nella realtà, conferma peraltro
l’inesistenza, nella stessa, della comunione giuridica raffigurata col ius naturale. L’elemento
già addotto della maris atque
feminae coniunctio evidenzia che l’inter se non trova applicazione entro la sfera di tale diritto, ma
nei più ristretti e distinti ambiti, esistenti al suo interno, del
genere umano e delle diverse specie o classi degli altri animali.
[10] Le
difficoltà alle quali dà luogo la teorizzazione ulpianea del
diritto naturale non possono essere risolte, a mio parere, come pure è
stato sostenuto, nella prospettiva della manipolazione. È in particolare
da escludere l’attribuzione di essa ai giustinianei, i quali inserirono
nelle Institutiones (1.2.11) una
concezione profondamente diversa circa i iura
naturalia (risultanti dalla combinazione della visione stoica con quella
cristiana della divina provvidenza). Sulla configurazione ulpianea del ius naturale, nel quadro della tripartizione
da lui formulata del diritto privato, v. F.
Gallo, ‘Ars boni et
aequi’ e ‘ius naturale’, in corso di stampa in SDHI, 75 (2009). Se pure la trattazione
è svolta da un’angolazione e a fini particolari, penso si possa
dire, con buon fondamento, che Ulpiano accolse la concezione
dell’artificialità del diritto, enunciata nella definizione
celsina dello stesso come ars boni et
aequi, rifiutando e criticando in coerenza quella contrastante, tramandata
nella filosofia stoica, della sua naturalità. Ulpiano cercò la
conciliazione dell’idea del diritto naturale con quella
dell’artificialità del diritto, riducendo il primo
all’ordine preesistente, nella realtà terrena, agli interventi
umani e modificabile in ogni tempo dall’uomo con le determinazioni del ius gentium
e del ius civile.
[11] Cfr.,
ad altro proposito, Pap. (24 quaest.)
D. 50.17.76: In totum omnia, quae animi
destinatione agenda sunt, non nisi vera et certa scientia perfici possunt.
[12] Cfr.
Pomp. (5 ad Q. M.) D. 34.2.10 e, in generale,
a proposito della verità o falsità nel discorso, Iul. (l.
sing. de amb.) D. 34.5.13(14), in part. § 3.
[15] Cfr.
Ulp. (16 ad ed.) D. 6.1.13; (70 ad ed.) D. 6.1.25; (16 ad ed.) D. 6.2.9.4, nonché, in
merito alla verità dell’opinio,
Pomp. (1 sen. cons.) D. 16.1.32.1 e
Iav. (7 epist.) D. 28.5.11.
[16] In Reth. ad Her. 2.13.20 la veritas è posta in connessione
col ius ex aequo et bono: Ex aequo et bono ius constat, quod ad
veritatem <et utilitatem> communem videtur pertinere, quod genus ut maior
annis LX et cui morbus causa est, cognitorem det. Ex eo vel novum ius constitui
convenit ex tempore et ex hominum dignitate. [L’inserzione di et utilitatem – ritenuta necessaria
per dare un significato all’aggettivo che segue communem – è generalmente accettata]. Nel confronto
tra questo testo e la definizione celsina del diritto, occorre peraltro tenere
presente la fondamentale differenza che intercorre tra essi: nel primo il ius ex aequo et bono è una
partizione del diritto (cfr. Rhet. ad
Her. 2.13.19); viceversa nella seconda tutto il diritto, in quanto versato
nell’ars boni et aequi,
presenta i connotati espressi col binomio.
[17] V.
più ampiamente F. Gallo, Sulla definizione celsina del diritto,
in SDHI, 53 (1987), 7 ss. (= Opuscula selecta, cur. F. Bona e M. Miglietta,
Padova 1999, 553 ss.). P. Voci, ‘Ars boni et aequi’, in Index, 27 (1999), 1 [ = Ultimi studi di diritto romano (cur. R. Astolfi), Napoli 2007, 292], scrive che
«iustum, le poche volte che si
incontra nei giuristi, vale come aequum,
tanto che Gaio, nello stesso testo» [D. 3.5.2] «usa prima aequum e poi iustum». Il dato non suffraga tuttavia l’illazione
dello studioso che aequum significhi
«conforme a giustizia, giusto». Per la soluzione del problema (che
non può essere qui compiutamente svolto), vanno tenuti in conto questi
elementi: a) prima della puntualizzazione fatta da Celso nella sua definizione
del diritto, si riteneva ricompreso nell’aequum anche il bonum
[pure nella costituzione italiana risulta enunciata solo l’eguaglianza
(art. 3); la ragionevolezza – esprimente, in forma astratta e con mutata
prospettiva, il bonum –
è stata da essa enucleata, in via interpretativa, dalla Corte
Costituzionale]; b) l’aggettivo iustus,
in coerenza alla sua derivazione etimologica, prima di indicare la
conformità alla giustizia, ha indicato quella al diritto, recante i
connotati del buono e dell’equo; c) come mostra, ad esempio, il confronto
di Gai 3.149 con Inst. 3.25.2, i
giustinianei tendevano a sostituire, nei testi classici, iustum ad aequum: la
sostituzione è espressione della loro preferenza per l’idea
astratta e vaga di giustizia, rispetto a quella concreta e determinata di aequum. Osservo ancora che, nel
frammento gaiano addotto dal Voci (D. 3.5.2, in tema di negotiorum gestio), il giurista classico non ha usato aequum nel senso di giusto (quale
tendevano ad intenderlo i giustinianei e lo intendiamo noi), bensì iustum nel senso di equo (conforme
cioè al diritto caratterizzato dal bonum
et aequum): … et sane sicut
aequum est ipsum [il gestor dei negotia dell’assente] actus sui rationem reddere et eo nomine
condemnari, quidquid vel non ut oportuit gessit vel ex his negotiis retinet:
ita ex diverso iustum est, si utiliter gessit, praestari ei, quidquid eo nomine
vel abest ei vel afuturum est. Non è dubbio che il criterio che
sorregge entrambe le enunciazioni, la prima retta da sicut e la seconda da ita,
è quello dell’uguaglianza proporzionale (se si vuole quello dei
sommi criteri ispiratori del diritto costituiti dal bonum et aequum).
[18]
Argomenti sull’ultimo punto, nella linea sostenuta nel testo, sono stati
portati recentemente da F. Goria,
La definizione del diritto di Celso nelle
fonti giuridiche dei secoli VI – IX e l’Anonimo sulla strategia,
in G. Santucci (cur.) “Aequitas”. Giornate in memoria
di Paolo Silli (Atti convegno Trento 11-12/4/2004), Padova
[20] La definizione celsina del ius nel sistema
repubblicano e imperiale e nel sistema della compilazione giustinianea.
[21] F. Schulz, History of Roman legal science, Oxford 1946; Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, Weimar 1961; Storia della giurisprudenza romana (trad.
G. Nocera), Firenze 1968.
[23] F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts,
München 1934, 27 ss.; I principii
del diritto romano (cur. V. Arangio-Ruiz),
Firenze 1946, 34 ss. (a pag. 35 si rileva «la singolare riluttanza dei
romani all’astrazione», a pag. 37 la loro «riluttanza a
fissare i concetti giuridici» e a pag. 39 si puntualizza che le
definizioni tramandate nelle «nostre fonti … sono spesso molto
imperfettamente costruite»). In controtendenza, meritoriamente, R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966 (v. 1 ss. lo stato
della dottrina in cui lo studioso è intervenuto), se pure non può
accogliersi, a proposito della definizione celsina del ius, come mostra anche la presente relazione, la sua diagnosi (op. cit., 184) che, «sotto
l’aspetto tecnico», si tratti «probabilmente di una
definizione metaforica per laudem».
[27] H. Kelsen,
Reine Rechtslehre, 2a ed., Wien 1960;
La dottrina pura del diritto (trad.
it. M. G. Losano), Torino 1966,
da cui trarrò i passi infra
citati. M. G. Losano scrive,
nella Prefazione all’opera, da
lui tradotta e curata, H. Kelsen,
Scritti autobiografici, Reggio Emilia
2008, 27, che la predetta «edizione italiana … può …
essere considerata l’edizione autentica più aggiornata della Reine Rechtslehre», in quanto lo
stesso Kelsen gli «aveva indicato alcuni passi che desiderava
modificare» nell’edizione stessa.
[28] Si
veda, ad esempio, La dottrina cit.,
226: «Se si vuole conoscere l’essenza della norma fondamentale,
bisogna anzitutto rendersi conto che essa si riferisce direttamente ad una
certa costituzione, realmente statuita, prodotta da una consuetudine o da una
attività costituente…».
[32]
Palesemente la rimozione della produzione umana del diritto ha impedito al Kelsen
di tener conto del reale rapporto intercorrente tra l’uomo e il diritto e
riassumentesi nella totale dipendenza, sotto ogni profilo (produzione,
interpretazione, elaborazione, applicazione), del secondo
dall’attività umana. Ogni elemento e carattere presente nel
fenomeno giuridico dipende da tale attività. La norma fondamentale non
esiste nella realtà e la sua supposizione non solo non appare necessaria
ad alcun fine, ma è, come si vede, fonte di distorsioni.
[33] Nella
visione del Kelsen la configurazione della norma fondamentale sembra frutto di
un gioco di prestigio. Un passaggio significativo, da riconnettere a quelli
già citati, si legge in op. cit.,
230: «Non essendo la norma fondamentale una norma voluta (e, in
particolare, non essendo voluta dalla scienza giuridica), ma essendo soltanto
una norma pensata, la scienza giuridica, accettando l’esistenza della
norma fondamentale, non si arroga l’autorità di statuire
norme». La norma fondamentale è pensata dalla scienza giuridica (e
solo da essa, non trattandosi di una norma posta),
ma non è voluta nemmeno dalla medesima; essa è soltanto pensata, ad opera della scienza
giuridica, ma ha un’esistenza da questa percepita; la sua esistenza,
quale che sia, è attribuita alla scienza giuridica, priva peraltro del
potere normativo. Ha tutto da guadagnare, al confronto, la linearità,
congiunta alla ‘verità’, della definizione celsina.
[34] Il Kelsen, op. cit., 226, si preoccupa soltanto che si eviti (non rileva, al
fine considerato, il mancato conseguimento dell’intento)
l’arbitrarietà nell’invenzione: «La norma fondamentale
non è quindi il prodotto di una libera invenzione. Non la si presuppone
arbitrariamente, come se si avesse la scelta fra diverse norme fondamentali,
allorché si interpreta il senso soggettivo di un atto costituente e
degli atti posti in essere conformemente a questa costituzione con il loro
senso oggettivo, cioè come norme oggettive giuridicamente valide».
[35] Il
quale appare evidentissimo, per gli ordinamenti statali, in cui esiste una
carta costituzionale, nella negazione del loro fondamento in essa e nella
congiunta individuazione del medesimo nella fantomatica – inesistente
– norma fondamentale.
[36] Come
si mostrerà più avanti, l’autore della dottrina pura del
diritto è pervenuto, proprio in dipendenza della sostituzione della
supposta norma fondamentale al dato reale della produzione del diritto da parte
dell’uomo, a conclusioni – credo non solo a mio avviso, ma
obiettivamente – disumane e irrazionali.
[37] Non
sono, allo stato, in grado di dire se sia esistita o meno una connessione tra
l’elaborazione, da parte dello studioso, della dottrina pura del diritto
e la sua esperienza di un sistema giuridico totalitario conculcante i diritti
umani (come ebreo, egli subì, in Germania, l’applicazione di prescrizioni
epurative).
[38] H. Kelsen, La dottrina cit., 222; v. pure ibid.,
226 s.: «Non ha quindi importanza quale sia il contenuto di questa
costituzione» (cfr. alinea precedente) «e dell’ordinamento
giuridico statale su di essa fondato né se questo ordinamento sia giusto
o no; non ha importanza neppure se questo ordinamento giuridico garantisce
effettivamente una situazione relativamente pacifica all’interno della
comunità da esso regolata. Nel presupporre la norma fondamentale non si
approva nessun valore che trascenda il diritto» (basato esclusivamente
sulla regolarità formale).
[39] Le
cose solo immaginate, ma non esistenti, non incidono sulla realtà, nella
quale – sul punto in considerazione – il carattere vincolante del
diritto non è certo assicurato dalla supposta norma fondamentale, ma
dalla coazione.
[40] A ben
vedere, ad attutirne lo spirito critico e distoglierne l’attenzione dai
reali problemi: dico reali problemi perché non sono notoriamente
mancati, ad esempio, nell’esperienza umana, casi di leggi prescriventi
crimini.
[41] Le
implicazioni della posizione rifiutata – alcune delle quali riscontrabili
nella nostra attuale esperienza – sono molteplici. Ne indico una, a mio
avviso di estrema gravità: ormai in parecchi settori, nella generalizzata
disattenzione del legislatore, dei giudici e della stessa scienza giuridica, la
violazione del diritto è più vantaggiosa della sua osservanza. Il
fatto mina alle radici il fenomeno giuridico, compromettendo la pacifica
convivenza, la quale non può persistere senza un adeguato livello di
osservanza delle regole giuridiche. Appare abissale la differenza rispetto
all’insegnamento ulpianeo, secondo cui rientrano nei compiti dei giuristi
l’educazione al diritto (la coltivazione della virtù della giustizia,
quale ferma e duratura volontà di fare avere a ciascuno il suo diritto)
e il proposito di rendere gli uomini migliori con lo strumento delle pene e dei
premi. È illusorio pensare sia di poter conservare il diritto, togliendo
o snaturando gli elementi da cui è costituito, sia di poter fare a meno,
per la conservazione stessa, dell’ausilio educativo.
[42]
L’indifferenza, postulata dalla dottrina pura del diritto, per i valori,
ne implica il bando da essa. Secondo questa dottrina lo studioso del diritto
limita l’attenzione al dato formale, costituito dal rispetto, nella
posizione delle norme, della procedura prescritta. Appare palese la dipendenza
del postulato dall’obliterazione dell’artificialità del
diritto, essendo ovvia, per i prodotti umani, la valutazione in senso positivo
o negativo, ed innegabile, per gli stessi, la diffusa aspirazione al
miglioramento. Fortunatamente il postulato viene disatteso, in fatto, anche da
fautori convinti della dottrina kelseniana.
[44] A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi mezzi e fini, Napoli
1966, 111 s.; P. Cerami, La concezione celsina del ‘ius’.
Presupposti culturali e implicazioni metodologiche, in AUPA, 38 (1985), 20.
[47] Si
vedano inoltre:
Cels.
(17 dig.) D. 30.63: Si ancillas omnes et quod ex his natum erit testator
legaverit, una mortua Servius partum eius negat deberi, quia accessionis loco
legatus sit: quod falsum puto et nec verbis nec voluntati defuncti accommodata
haec sententia est.
Coll. 12.7.10 (Ulp. 18 ad
ed.): Item Celsus libro XXVII digestorum
scribit: si, cum apes
meae ad tuas advolassent, tu eas exusseris, quosdam negare conpetere legis
Aquiliae actionem, inter quos et Proculum, quasi apes domini mei non fuerint. Sed id
falsum esse Celsus ait, cum apes revenire soleant et fructui mihi sint. Sed
Proculus eo movetur, quod nec mansuetae nec ita clausae fuerint. Ipse autem
Celsus ait nihil inter has et columbas interesse, quae, si manum refugiunt,
domi tamen fugiunt.
[50] U. Scarpelli, Il problema della definizione e il concetto di diritto, Milano
1955, 87 ss., 91 ss.
[51] Tale
inadeguatezza appare dovuta al proposito – se pure non pienamente
attuato, stante la già rilevata ineliminabile funzione
strumentale-evocativa delle parole – di non uscire dal piano linguistico.