N. 7 – 2008 – Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro
Università
di Bologna
Le
secessioni della plebe
(in particolare quella del 494-
Sommario:
1. Considerazioni preliminari.
– 2. La tradizione
annalistica. – 3. La
secessione: un problema di definizione. – 4. I protagonisti della prima
secessione. – 5. Le
procedure di conciliazione. Aspetti giuridici rituali religiosi.
Una premessa è d’obbligo,
perché il tema è troppo vasto per poter essere racchiuso in una
comunicazione, per cui toccherò solo alcuni dei tanti aspetti del
problema ‘secessioni della plebe’, con particolare riferimento alla
storiografia più recente, preferibilmente storica più che
giuridica. Se tentiamo un bilancio critico della riflessione moderna su quel
grumo di questioni che si addensano attorno alle secessioni, dobbiamo
fronteggiare una serie impressionante di ipotesi, che spesso variamente si
incrociano, e di questioni ancora aperte, come è ben noto a tutti. E in
tutto questo, storici e giuristi colloquiano poco, con reciproco danno, io credo.
Nella storiografia moderna, con le dovute
eccezioni che vedremo, si sono venuti attenuando i dubbi sulla realtà
storica di una o più secessioni della plebe, a partire da quella del 494
a.C.
Si è dissolta l’ipercritica di
un Beloch[1]
e di un Pais[2],
e gli studiosi hanno assunto una posizione di relativa "confidenza"
nei dati offerti dalla tradizione annalistica, ma certamente permangono intatte
le difficoltà di uno studio di storia romana arcaica, terreno
affascinante ma infido, che rende estremamente cauto il passo dello studioso
moderno e che prevede scelte metodologiche precise.
Ad esemplificare, cito J.-Cl. Richard[3],
che nella sua recensione al volume curato dal Serrao, Legge e società nella repubblica romana del 1981, scriveva:
«La vulgata relativa alle lotte della plebe quale l’hanno fissata
Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso, a partire dai dati
dell’annalistica, è per il V e IV secolo degna di fede» e
questa fiducia nella tradizione è alla base anche dei tanti contributi
di Tim Cornell[4]
o dei lavori del Tondo[5],
dell’Amirante[6]
o del Serrao stesso[7].
Ma negli stessi anni ‘80 (1985) D. Gutherlet[8]
esprimeva già nel titolo di un suo saggio una tesi opposta: la prima
decade di Livio è fonte essenziale per l’analisi
dell’età graccana e sillana, riaffermando la totale
antistoricità della narrazione dei primi secoli della repubblica,
costruiti per così dire a calco anticipatorio dei decenni graccani e sillani.
È una tesi estrema, nella sua negatività, così come
è estrema la tesi di chi accetta in toto il dato della tradizione.
Sappiamo bene che le nostre fonti su questi
problemi sono storici romani e greci che scrivono in momenti e contesti molto
diversi da quelli in cui si sono svolti gli avvenimenti e che aprono un
colloquio con lettori contemporanei che misurano quanto leggono in rapporto ai
tempi in cui si trovano a vivere, e questo, a maggior ragione, vale per il
lettore moderno, che porta con sé il bagaglio delle proprie idee, dei
propri interessi e anche, talora, delle proprie ferite. E però una cosa,
a mio parere, va pur detta. Vanno bene tutte le cautele e tutte le
consapevolezze della distanza tra l’annalistica e i tempi della prima
repubblica e dei suoi forti legami con impostazioni ora ideologiche ora
gentilizie, ma pensare che, in ogni modo, un romano colto dell’età
graccana o sillana o della fine della repubblica, che viveva in una
città e in un ambiente familiare ricco di tradizioni e di segni - i
Romani, si sa, sono formidabili allestitori della memoria - non fosse in grado
di orientarsi, come noi, tra plebe del V secolo a.C. e plebe della sportula, mi pare, quanto meno, un
po’ presuntuoso. La memoria, si sa, può essere truccata, ma non
è detto che non possano restare intatti i fatti strutturali.
E allora, considerato che, in linea
generale, i tentativi di interpretazione della tradizione sulle secessioni,
come del resto su ogni altra vicenda arcaica, tendono a salvare questo o
quell’altro aspetto, in un difficile gioco d’equilibrio tra
elementi ritenuti anacronistici ed elementi ritenuti autentici, è
evidente che il risultato, nel tempo, è stato tutto un intrecciarsi di
ipotesi dentro cui è facile smarrirsi.
La prima impressione che si ricava,
scorrendo i lavori più o meno recenti, è una certa qual
"marginalità" dell’interesse per le secessioni. Mi
spiego. Nella intensa secolare riflessione sulla Roma della prima età
repubblicana, la secessione non è assente, ma ha una scarsa evidenza in
sé e per sé. Ciò che soprattutto interessa chiarire sono i
suoi esiti (il tribunato, la caduta del decemvirato e le leggi Valerie e
Orazie, il conubium, la parificazione
tra plebisciti e leggi), e, oltre a ciò, necessariamente, la fisionomia
della plebe, la natura della sua lotta, lo spazio che si conquista dentro la civitas[9].
Tant’è che, pur
nell’ampia bibliografia su questo periodo storico, non mi pare ci sia uno
studio monografico dedicato alle secessioni, pochi sono i saggi che ne toccano
qualche aspetto, e rarefatti gli accenni, soprattutto nelle più recenti Storie di Roma, per non dire che la
monumentale opera del Richard[10]sull’origine
del dualismo patrizio e plebeo termina là dove iniziano le secessioni,
che appena sono sfiorate.
La tradizione antica ricorda alcune
secessioni attuate (quattro nel quadro complessivo offerto da Floro e da
Ampelio), altre minacciate, accanto ad un evento, quello del
Ma anche sulla terza, del
La secessione del
È l’ultimo atto di lotta della
plebe e come tale è assunto anche dalla storiografia moderna, con le
debite eccezioni: di un Mitchell[14],
ad esempio, che affermando l’invenzione tutta moderna della lotta degli
ordini, denuncia l’artificiosità anche di questa data finale.
Ma c’è subito da sottolineare
che gli autori antichi, anche se più di una volta la plebe sembra aver
fatto ricorso alle secessioni, fanno riferimento, quando richiamano le lotte
plebee, solo alla prima o, più raramente, alle prime due, che, quindi
assumono il valore di secessioni per eccellenza. E’ illuminante
Sallustio: maiores vestri … bis per
secessionem armati Aventinum occupavere (Iug. 31), e così pure autori tra loro assai lontani, come
Cicerone (de rep. 2,58,63) Plinio (n. h. 19,19,56) e Orosio (2,5,5),
ricordano come essenziali solo le prime. La storiografia moderna non ha avuto
problemi ad individuarne la ragione nel fatto che entrambe si collegano al
tribunato della plebe, avvertito, specie in età graccana e sillana, come
il momento più significativo e gravido di conseguenze delle vittorie
plebee.
Quanto alla storicità delle
secessioni, se andiamo ad esaminare gli orientamenti storiografici, vediamo
emergere due tendenze, più o meno articolate al loro interno, quella che
fa capo al Beloch e ancor prima al Meyer[15],
che considera le prime due come reduplicazioni di quella unica storica del
Tutto nasce, secondo il solito, da una
tradizione annalistica che accoglie diverse memorie, al punto che non ci indica
neppure con chiarezza i luoghi della secessione[19],
e che non colloquia con la tradizione erudito-antiquaria, in questo caso, di
Varrone.
Tra le varie opzioni presentate dalle
fonti, Monte Sacro- Aventino- Crustumerio, i moderni o non hanno scelto (come
il Ridley[20]),
o hanno scelto l’una o l’altra, preferibilmente il Monte Sacro per
la liviana frequentior fama, ma anche
l’Aventino per la sua vocazione plebea (Guarino[21])
o hanno supposto due concomitanti secessioni (Fabbrini)[22].
Che cosa è una secessione? Livio e
Dionigi, come è naturale, descrivono, raccontando tutta una serie di
avvenimenti messi in rapporto con vari esiti; non definiscono, e del resto non
c’è bisogno di definizione, il significato è perspicuo: una
separazione (se-cedo).
Il Fluss[23],
nella voce della Pauly Wissowa, la definisce Abtrenung (separazione) e subito la storicizza: «si intende
con questo la triplice sovversiva partenza della plebe da Roma»;
l’Oxford Latin Dictionary[24]
segnala un primo valore, diciamo cesariano, di «appartarsi» e un
secondo che qui ci interessa di ritiro (with
drawal) in una posizione separata, «che implica una non
partecipazione alla comunità», per cui “secessione”.
Nella sua Storia di Roma, il Mommsen interpreta la secessione come un
abbandono della città da parte dell’esercito in rivolta e
un’occupazione di un colle nella contrada di Crustumerio, dove –
egli scrive – si accinse a fondare una nuova città di plebei[25].
E questa valutazione dei fini della secessione ritorna in De Martino[26],
per cui la lotta scelta dalla plebe sembra essere stata quella della rottura
dell’unità cittadina e della minaccia di costituire una nuova
città autonoma, la «città impossibile» di Giulia
Piccaluga[27].
Non mi pare sia questa la prospettiva in
cui si colloca in genere la storiografia moderna.
I moderni si innamorano subito, ed è
un innamoramento che risale alla rivoluzione francese, dell’idea di
secessione come sciopero[28],
ed è un’assimilazione che, il Catalano insegna[29],
molto è servita nella discussione sulla configurazione giuridica dello
sciopero generale. In questa assimilazione senz’altro ha pesato
l’apologo di Menenio Agrippa, col suo richiamo al ritorno alla
collaborazione, dopo il rifiuto delle membra di portare cibo allo stomaco, e la
successiva e ripetuta opposizione dei tribuni alla leva militare, presentata
dalle fonti come strumento abituale e forte della lotta plebea.
Quest’immagine, che ritorna anche nei
più recenti saggi (Mitchell[30],
Eder[31],
Cornell[32]
etc.) rischia di ridurre lo spettro contenutistico di quest’antico
concetto, mettendo in ombra l’elemento anche etimologicamente
caratterizzante, che è quello della separazione,
dell’allontanamento. In altre parole, se il valutare il fenomeno della
secessione attraverso la categoria contemporanea dello sciopero valorizza il
momento dinamico delle mobilitazioni, rischia però di attenuare il senso
forte della secessione.
Andiamo alle fonti.
Nella tradizione liviana sulla prima
secessione[33],
l’accento cade sul timore patrizio che questa moltitudine possa muoversi
ostilmente contro la città. Nella elaborazione più ampia di
Dionigi, invece, affiora il progetto di una apostasis
apo ton patrikion e della ricerca di una nuova patria, quale che sia, nella
quale poter godere della libertà. A ciò vien fatto corrispondere,
da parte patrizia, il disegno di colmare i vuoti con altri apporti di
popolazione straniera, una migrazione, che di per sé, per Roma e il
Lazio, non è fatto insolito (Dionigi ha buon gioco a richiamare Enea,
Romolo; ed era appena giunto Attus Clausus con i suoi, 6,73,2; 79,1; 79,3;
6,80,1).
C’è enfasi retorica, senza
dubbio, nella pagina di Dionigi, ma forse c’è anche un frammento
di verità, nel momento in cui indica come la sua fonte interpretasse
l’azione della plebe.
Una secessione, che può tradursi in
un migrare che rende definitiva la separazione, è l’alternativa
che Dionigi ci presenta, ma poiché è la via che non viene
imboccata, in nessuno dei momenti in cui si fece ricorso alla secessione, il
valore di separazione si attenua e sparisce. Ma resta nella memoria
(annalistica), se è vero che anche dopo la conquista di Veio la plebe
minaccia un trasferimento in massa nella città conquistata (Liv.
5,24,5).
La secessione è un’innovazione
nel quadro politico romano della prima repubblica, è un esito della seditio che insistente lacera la
città dopo la morte di Tarquinio, e da quel primo episodio permane,
attiva o latente, fino al
Nell’interpretazione storiografica
contemporanea, non mancano gli accenni a questa capacità innovativa
della plebe, soprattutto sulla scia del Momigliano[34]
che vede le secessioni, al pari delle creazioni dei tribuni e delle assemblee
proprie, come i tratti caratterizzanti un’organizzazione estremamente efficiente
di una plebe che guarderebbe ai modelli greci (e su questo punto riflettono
soprattutto i giuristi, in riferimento alle leggi delle XII Tavole, e gli
storici delle religioni per il culto di Cerere). In genere, però, si
opera una sorta di presa d’atto del ricorso alla secessione, al
più, sociologicamente, ci si chiede che cosa essa rappresenti e, con
l’Ellul[35],
si può rispondere che una secessione è in sé un segno di
debolezza, un ripiegarsi su se stessi. Che è una bella debolezza, visti
gli esiti sempre positivi.
Stupisce che l’elemento della
continuità nel ricorso ad una forma di lotta tanto forte che spesso
basta che venga minacciata perché si ottenga un risultato favorevole,
non abbia ottenuto una sufficiente attenzione in chi è convinto della
storicità delle secessioni; fa eccezione il Lobrano[36],
che vede nella capacità della plebe «di continuare a prospettare
una scissione duratura di sé stessa» dal resto delle strutture
organizzative del populus romanus, la
prova del perdurare di una «autonoma struttura sociale» della
plebe, di una sua omogeneità interna, cui corrisponderebbe una formale
condizione ‘giuridica’ di plebità.
A parte la tesi di fondo, che si può
condividere o non condividere, la posizione del Lobrano è significativa,
nel momento in cui individua nel ricorso alle secessioni il segno della
peculiarità della plebe arcaica, ben diversa dalla plebe degli ultimi
secoli della repubblica. A raffronto, colpisce come il Raaflaub[37],
in una visione del conflitto tra gli ordini che si spezza in più fasi,
di diverso carattere e complessità, sia totalmente indifferente di
fronte al ripetersi delle secessioni come strumento di lotta, sia che esse
vadano considerate o no un fatto autentico.
Al Raaflaub poco interessa lo strumento,
interessa che, o con una massiccia rivolta o dopo una graduale evoluzione, i
plebei siano emersi con la loro separata organizzazione e coi loro leaders. Al
contrario, il problema non è minimale, poiché non si può
scindere la specificità del metodo politico della secessione
dall’altrettanta specificità del tribunato della plebe, istituto
che dalla secessione nasce. Lo ha ben chiaro Livio, quando ripetutamente pone
sui colli della secessione l’inizio della libertà per la plebe e
nella potestas sacrosancta del
tribunato l’auxilium libertatis (Liv.
3,54,8; 3,61,5; 4,44,5).
La riflessione moderna non ha dedicato
molto interesse ai protagonisti di parte plebea e di parte patrizia, salvo che
per Menenio Agrippa in virtù del suo apologo. Sul liviano Sicinio quodam auctore, l’anonimo
Caio di Dione Cassio, il comandante del campo e presidente dell’assemblea
della plebe secessionista in Dionigi, poco è stato detto e forse poco si
può dire[38],
eppure si tratta per la tradizione liviana dell’autore della secessione,
colui che esce dalla massa e si pone alla testa del movimento collettivo.
È figura fantastica per il Pais[39],
che vi vede l’anticipazione forse del tribuno del
Altri hanno supposto una confusione con la
figura di Siccio Dentato, l’Achille romano, che divenuto tribuno
citò in giudizio il console Romilio, storia minutamente raccontata da
Dionigi (10,36-50) e mancante in Livio, ipotesi decisamente debole.
E il Richard[40],
che riprende queste posizioni, ha pochi dubbi: Sicinio promotore della prima
secessione e primo tribuno è figura priva di storicità, in quanto
è il frutto di una manipolazione dei fasti tribunizi più antichi,
favorita dal ricordo di più di un tribuno Sicinio storico. Che poi, se
anche fosse al limite esistito, per il Richard resta irrecuperabile nella sua
identità storica.
E così Sicinio è spazzato via[41].
Sicinio muto in Livio, di poche parole in
Dionigi, fa fatica, però, ad entrare anche nei fasti del primo
tribunato, e questo è stato messo bene in luce già dalle ricerche
del Niccolini[42]
e in tempi più recenti ancora dal Richard[43].
Come sappiamo, la tradizione è tutt’altro che univoca sul numero
dei primi tribuni, due o cinque. I nomi, per dirla con l’Ogilvie[44],
sono fluidi e quello di Sicinio compare solo tra i cooptati in Livio; in
Dionigi, invece, affianca Bruto, ai primi due posti[45].
Il testo di Dionigi presenta aspetti
altrettanto problematici[46],
quando, appunto, pone a fianco di Sicinio come capo della rivolta un L. Giunio
Bruto, omonimo, specifica Dionigi, del Bruto liberatore del popolo dai
Tarquini.
Su questa figura i moderni hanno assunto le
più varie posizioni: Bruto è un patrizio in forza della gens Iunia patrizia (Mommsen[47],
Ménager[48]),
Bruto è plebeo[49],
non è personaggio storico, ma “apocrifo”[50].
Per Mastrocinque[51],
che ha dedicato notevoli sforzi a mettere ordine in tale controversa questione,
Bruto è una sorta di doppio, il Bruto che in Dionigi guida i plebei alla
prima secessione e tiene infuocati discorsi è la faccia plebea del Bruto
fondatore della libertas
repubblicana, patrizio[52].
La maggior parte degli studiosi moderni,
quelli almeno che ne affermano la storicità, respinge invece la
plebità di Bruto, che Mastrocinque salva, rimproverando ai moderni di
essere caduti nella trappola delle falsificazioni annalistiche di fine II e
inizi I secolo a.C., che avrebbe prodotto una sorta di epurazione delle
presenze plebee.
Una coincidenza di primo consolato e di
primo tribunato nella stessa figura lascia però perplessi: salviamo il
console e cancelliamo il tribuno?
A me pare che il problema dal piano storico
vada passato al piano storiografico antico e possa essere letto in riferimento
al tema ideologico della libertas: quella
del popolo recuperata con la cacciata dei re, quella della plebe conquistata
con la prima secessione. In entrambe le situazioni, per certi filoni di
tradizione, che Dionigi accoglie, Bruto è presente.
Gli attori di parte patrizia occupano gran
parte del campo nella vicenda della prima secessione, perché la
tradizione sulle secessioni è stata gestita da chi plebeo non era.
E quindi giganteggia la figura di Menenio
Agrippa[53],
come risolutore della crisi, il vero eroe della secessione, il perpetuo exemplum della capacità di
conciliazione, mentre un altro filone di tradizione, epigrafica e letteraria,
pone in quel ruolo M. Valerio, il dittatore e l’augure.
Gli studiosi moderni hanno dedicato il
maggiore interesse alla figura di Menenio, intrigante per il suo essere oriundus dalla plebe, e, soprattutto,
autore dell’apologo[54].
Gli studi del Ranouil[55]
ripresi dal Richard[56]
hanno cercato di chiarire l’appartenenza dei Menenii: per il Ranouil,
sono una gens patrizia di origine
etrusca, e i tribuni plebei potrebbero essere loro antichi clienti; per il
Richard, Menenio Agrippa è un patrizio moderato, interpretato e sentito
in quanto tale, da una certa parte della tradizione, come plebeo.
La storiografia antica ci presenta due
chiavi interpretative delle secessioni, fides
e concordia, e l’aver chiarito
questo è uno dei risultati più interessanti, e direi anche
più utili, della ricerca moderna. La fides,
osserva il Bayet[57],
indica una reciprocità totale e da essa dipendevano l’ordine e la
stabilità della città. E’ il valore cardine dello stato.
Tutto il racconto della prima secessione e
della sua ricomposizione ruota attorno ad un rompersi e rinsaldarsi dei
rapporti di fides. La colpa dei
plebei, è una giusta osservazione della Piccaluga[58],
è una colpa di perfidia:
l’insolvenza dei plebei è un’infrazione della fides negoziale, cui corrisponde
l’inadempiuta promessa dei patrizi dello scioglimento dei debiti. La
rottura dell’equilibrio della fides
spezza la comunità «in due metà ugualmente inservibili».
Il superamento può avvenire solo attraverso il recupero della concordia.
Lo hanno messo bene in luce, in
particolare, coloro (Nestle[59],
Momigliano[60],
Bertelli[61],
Peppe[62])
che, analizzando l’apologo di Menenio Agrippa, hanno ricercato la genesi
del criterio storiografico della
concordia, individuando le ragioni del rimodellamento della narrazione
della prima secessione, il Momigliano nell’esigenza di affermare
l’ideale aristocratico in cui le diverse parti dello stato sono
subordinate ad un ordine superiore che garantisce l’equilibrio, il
Bertelli, nelle tensioni ideologiche dell’età graccana che portano
allo slogan politico della concordia
ordinum, il Peppe nel formarsi di una più ampia concezione dello
stato e della convivenza civile. In Livio, la riscrittura in termini di concordia della prima secessione,
coerentemente dalle battute iniziali con l’abdicazione del dittatore
Valerio (Non placeo ... concordiae auctor,
2,31,9) alla conclusione (agi de
concordia coeptum 2,33,1), porta ad edulcorare il fatto in sé,
cancellando quegli aspetti di violenza[63]
che poi trapelano sporadicamente (ad es. i campi saccheggiati di contro al
rispetto per i raccolti[64]),
al punto che Livio, recuperando dall’antica memoria degli annali il rito
dittatoriale dell’infissione del chiodo, definisce le secessioni frutto
di menti alienate dall’ira, che possono essere riportate a saggezza da un
rito piaculatorio[65].
Nelle pagine di Dionigi[66]
lo spazio di mediazione è condiviso da Manio Valerio, figura presente
anche in Livio[67],
ma limitatamente ai fatti che precedono la secessione, come dittatore
filoplebeo, che abdica per protesta contro il rifiuto del senato di deliberare de nexis. Da questo momento nelle pagine
di Tito Livio sparisce; permane invece in quelle di Dionigi, come uno dei dieci
ambasciatori inviati a mediare, anzi il più anziano e il più
popolare, colui che torna a Roma a sancire l’accordo.
L’Elogium
aretino di età augustea[68]
(Inscr. Ital. 13,78) lo indica come
dittatore ed augure e lo celebra come colui che plebem de sacro monte deduxit / gratiam cum patribus reconciliavit /
faenore gravi populum … liberavit.
Pesa su Manio Valerio una posizione molto
diffusa nella storiografia contemporanea, quella di leggere i dati relativi ai
Valerii nella tradizione annalistica come frutto di un intervento di
rielaborazione operato da Valerio Anziate[69],
così come la tradizione claudia, che ad essa si oppone, sarebbe
debitrice a Claudio Quadrigario[70].
E nel caso di questo dittatore del V secolo a.C., nel suo ruolo di conciliatore,
più di uno ha richiamato la preoccupante somiglianza con
l’identico ruolo del dittatore Valerio per la sedizione/secessione del
342 a.C. Le quiete acque di un sostanziale disinteresse per questa figura sono
state con buoni argomenti agitate da Vallocchia[71].
Ora il Vallocchia si rende conto benissimo
della difficoltà che presenta questa associazione dittatura - augure
(anche perché esiste un omonimo augure, ma le fonti lo pongono ben
lontano dal tempo della secessione, nel
Nella sua funzione di augure, egli avrebbe
consentito «di porre le condizioni giuridico-religiose necessarie
perché la plebe non violi la religio»
e «possa lasciare il mons della
secessione senza aver turbato la pax
deorum»[72].
Fin dall’inizio della riflessione
storiografica moderna, si è posto il problema della verisimiglianza
storica e giuridica del foedus che, a
stare a Dionigi[73],
e più velatamente a Livio[74],
avrebbe sancito, per mezzo dei feziali, l’accordo finale della prima
secessione.
E la questione è stata molto
dibattuta[75]
tra storici e giuristi, con varie argomentazioni ed anche con una ricerca di
ipotesi conciliatorie tra le opposte posizioni[76]
(poiché il problema che ne è al centro, ossia se uno strumento
come il foedus che opera nei rapporti
di carattere internazionale potesse essere stato legittimamente impiegato a
regolare i rapporti tra patrizi e plebei, è problema che investe la
natura della collettività plebea e il fondamento del tribunato della
plebe[77]).
Se la plebe costituiva una parte della
cittadinanza e non una comunità autonoma[78],
argomenta il De Martino[79],
questo basta per impedire la conclusione del
foedus e ancor di più l’ipotesi del foedus diventa insostenibile se si considera il carattere delle
leggi sacrate, tipiche di un ordinamento in cui non vi erano sanzioni
giuridiche riconosciute da una comunità come obbligatorie per tutti. Il
trattato e le leggi sacrate costituirebbero categorie giuridiche incompatibili.
La questione, direi, potrebbe dichiararsi
chiarita dopo le ricerche del Catalano[80]
sul cd. sistema sovrannazionale romano, che hanno lucidamente mostrato come non
sia corretto utilizzare le categorie moderne di diritto internazionale e
diritto statuale rispetto alla nozione di foedus.
Meglio ricondursi allo ius fetiale,
uno ius percepito dai Romani come
universale, che individua come suoi potenziali soggetti comunità che non
corrispondono all’idea moderna di stato. E su questa linea il Tondo[81]
ritiene che l’accordo reso solenne dall’intervento dei feziali
dovette consentire l’utilizzo, con qualche adattamento, del tipo di ius iurandum in uso per i trattati,
quale strumento particolarmente idoneo a vincolare, nella maniera più
efficace, l’intera comunità civica.
Del tutto diversa la conclusione della
secessione del 449 a.C.
Piuttosto strano, così lo definisce
il Bayet[82],
lo schema che Livio propone del ritorno alla libera res publica dopo l’abdicazione dei decemviri,
nient’altro avviene che la decisione senatoria di creare nuovi tribuni
sotto la presidenza del pontefice massimo e di concedere l’amnistia per
la secessione dei soldati e della plebe. Non c’è traccia di foedus, tutto avviene in comitiis e col recupero di quelle
cerimonie sacrificali, di sapore magico per il Piganiol[83],
che già avevano chiuso la prima secessione e che erano mirate a
restituire ai tribuni quella sacrosanctitas
il cui ricordo ormai era quasi svanito.
Questo diverso andamento indica con
chiarezza come già il movimento secessionistico del
Nella storiografia contemporanea, non trova
molto spazio l’analisi degli aspetti rituali delle secessioni e delle
ripercussioni che dovettero avere sul piano sacrale[84],
anche se tutti sono consapevoli che, in una società come quella romana,
politica e religione sono indissociabili, sono due facce della stessa
realtà[85].
L’interesse si è facilmente
focalizzato sull’istituzione del culto di Cerere, sia per quanto
può testimoniare sulla situazione agraria del tempo, sia per il suo
ruolo come centro degli tesori e degli archivi plebei, sia per
l’incertezza della sua derivazione (greca per il Momigliano[86])
e, in particolare, per il suo supposto rappresentare, con la triade aventinese,
un contraltare alla triade capitolina.
Sono restati in ombra quei risvolti
religiosi della secessione, che ora in parte il Vallocchia recupera, cercando
di chiarire la fondatezza o meno della qualificazione di augure che
l’elogio epigrafico associa (ed è un unicum) alla dittatura di Manio Valerio. Dando il giusto rilievo
agli atti rituali della plebe, giunge alla conclusione che la secessione non
determina alcuna rottura sul piano religioso, anzi i plebei si pongono
esplicitamente sotto la protezione degli dei della città e non affermano
proprie scelte religiose. E’ anche la tesi del de Cazanove[87],
che rilegge il modo con cui l’esercito si organizza al campo al tempo
della prima secessione. I soldati, egli osserva, portano con sé
l’insegne militari, il cui valore sul piano religioso è ben colto
da Dionigi, che le definisce statue divine, idrumata
theon (6,45,2). Non praticano alcuna rottura in materia religiosa, anzi
richiedono la presenza fisica degli dei di Roma; e soprattutto si pongono sotto
la protezione di Juppiter, facendo
dell’altare votato sul Monte Sacro una replica di quello capitolino, solo
che si tratta di Juppiter Territor, a
rammentare a tutti quale tremenda minaccia significhi una secessione.
Coerentemente con questa impostazione, il
de Cazanove vede nel culto di Cerere non culto plebeo che si contrappone al
culto capitolino, ma un culto integrato nel quadro dei culti civici. Solo
attraverso un processo complesso il tempio di Cerere sarebbe divenuto il luogo
privilegiato in cui si cristallizzano le istituzioni plebee, una sorta di
controfaccia rispetto al polo capitolino, non nel senso di una opposizione alla
triade, ma piuttosto come complemento ad essa, poiché Juppiter è garante della fides che regge il contratto sociale, ma
quando la fides non basta più,
ci vogliono anche gli archivi per conservare gli scritti che non mentono.
Che cosa rappresenta la secessione nella
storia della plebe del V secolo?
Una suggestiva risposta è quella del
Richard[88]:
«Con la secessione la plebe entra nella storia», risposta che
è giustificata dalla tesi che solo con le secessioni la plebe
uscì da una condizione virtuale, divenendo forza politica.
Per la scuola che si rifà al Mommsen[89],
la plebe entra con la secessione in
uno stato di rivoluzione permanente. Di fronte allo stato di diritto, ossia
alla res publica patrizia, la plebe
incarna la forza illegale, che per due secoli resta ai margini della
città, finché il tribunato e i concilia plebis furono assimilati al populus.
Al Mommsen si ricollega espressamente il De
Martino[90],
che qualifica la plebe società rivoluzionaria dentro il comune. Ancora
più deciso il Guarino[91],
che intitola il suo saggio del 1975 alla rivoluzione della plebe, definita
«grandiosa e fin oggi per più versi misteriosa, forse
misconosciuta, l’unica sola vera rivoluzione registrata nella storia di
Roma» (il saggio del Syme era già uscito da decenni).
In realtà, nella storiografia
moderna, la valutazione di rivoluzione/rivoluzionario ricorre frequentemente,
ed è principalmente diretta a qualificare la natura del tribunato della
plebe, spesso definito come tale, almeno nella sua genesi, e/o l’intero
processo di formazione dello stato patrizio-plebeo. Che sia dubbia la
correttezza, per comprendere la realtà romana, dell’uso di
concetti che appartengono ad esperienze moderne, ed anche ad ideologie ben
precise, lo dimostrò quella riflessione importante condotta, da storici
e giuristi, nell’incontro preparatorio del seminario cagliaritano del
1971, su “Stato e istituzioni rivoluzionarie in Roma antica”, in
cui si fronteggiarono visioni opposte[92].
Le conclusioni di tale dibattito sono quelle enunciate, in particolare, dal
Catalano[93]:
«L’uso del concetto rivoluzione… è probabilmente utile
per commisurarsi sul dato storico... ma non è certo sufficiente per
afferrarlo nella sua interezza, …l’importante è cercare
nell’esperienza e nei concetti antichi ciò che può essere
utile al rinnovamento del pensiero e della società contemporanei»,
e su questo si può concordare.
[3] J.-CL. Richard,
rec. a F. Serrao (ed.), Legge e
società nella repubblica romana, I, Napoli 1981, REL, 60, 1982, 438.
[4] T.J. Cornell, The Failure of the Plebs, in Tria
Corda. Scritti in onore di A. Momigliano, Como 1983, 101-120; The Value of the Literary Tradition
concerning Early Rome, in Social
Struggles in Archaic Rome, Berkeley 1986, 52-76; The Beginnings of Rome, Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic
Wars (c. 1000-264 BC), London 1995.
[8] D. Gutberlet,
Die erste Dekade des Livius als Quelle
zur gracchischen und sullanischen Zeit, Hildesheim- Zürich 1985.
[9] Ancora aperto e dibattuto il tema
dell’origine della distinzione tra patriziato e plebe. Rilevava il Momigliano,
in un ben noto articolo del 1967 dedicato all’Ascesa della plebe nella storia arcaica di Roma (in RSI, 79, 1967, 297-312, ora in Quarto Contributo, 437-454), quel che definisce una stranezza,
ossia il disinteresse che aveva colpito, negli ultimi 30 anni, uno dei temi
classici, fin dall’800, della storiografia su Roma arcaica, quello delle
lotte tra patrizi e plebei. Il Momigliano scriveva nel 1967 e l’unico
lavoro originale che cita del trentennio è
In realtà l’insieme del lavori dedicati, tra le due guerre mondiali, alla plebe romana aveva visto il progressivo attenuarsi dell’interesse sul problema dell’origine (che tanto aveva appassionato dalla fine dell’800 e gli inizi del ‘900) e il prevalente concentrarsi dell’attenzione di storici e di giuristi sull’organizzazione che la plebe si era data dopo la prima secessione. Il lavoro dell’Altheim viene quasi a conclusione di un decennio assai fertile: basti pensare alle ricerche del Momigliano stesso sull’origine delle magistrature romane (il tribunato, 1932; l’edilità, 1933) e sugli ordinamenti centuriati (1938) o, sugli stessi temi, di G. De Sanctis sull’edilità plebea del 1932; sulle origini dell’ordinamento centuriato del 1933), del Niccolini (Il tribunato della plebe, 1932) del Siber (sulle magistrature plebee fino alla legge Ortensia del 1936), dell’Hoffman (sulla plebe, 1938), del Cornelius (sulla storia romana arcaica, 1940). In altre parole, non si ricerca più ciò che differenzia la plebe dai patrizi a partire da un passato più o meno lontano e quasi mitico, ma il problema della genesi della plebe diventa il problema della genesi degli istituti in cui si è venuta esprimendo la differenza tra patrizi e plebei.
A questa svolta metodologica, alla
metà degli anni ‘40 si aggiunge col lavoro del Last sulla riforma
serviana (The Servian Reforms, in JRS, 35, 1945, 30-48) una forte svolta
anche nei contenuti, con la decisa affermazione che la distinzione tra patrizi
e plebei si sviluppò dopo la fine della monarchia, per effetto della
sopraffazione politica di un gruppo di potenti famiglie che si chiusero in
casta, tesi che sviluppava precedenti osservazioni del Soltau, Jordan, Meyer,
Hulsen e che spazzava via (o tentava di farlo) il postulato niebhuriano
praticato a lungo del privilegio patrizio di appartenenza alla cittadinanza
(cfr. su ciò J.-Cl. Richard, Les origines cit., 76 s.).
Si riaccende un dibattito che è
tuttora lontano dall’essersi concluso su quando e come si siano formati i
privilegi patrizi (con le teorie sull’origine repubblicana del Last (op. cit.),
del Magdelain (Auspicia ad patres redeunt,
in Hommages à J. Bayet,
Bruxelles 1964, 427-473), del Ranouil (Recherches
sur le patriciat (509-366 avant J.-C.), Paris 1975), del Palmer (The archaic community of the Romans,
Cambridge 1970), sul rapporto tra plebe e organizzazione centuriata (che vede
contrapporsi la tesi del Momigliano (Osservazioni
sulla distinzione fra patrizi e plebei, in Les origines de
Una forte esigenza fu espressa dal Richard
alla fine degli anni ‘70 (Les
origines cit.), quella di mettersi decisamente alle spalle il problema
più o meno inafferrabile dei primordia del dualismo patrizio-plebeo,
sostituendo, sulla scia del Pallottino, il concetto di formazione, anzi di
creazione continua, a quello di origine. Seguendo l’indicazione della
tradizione annalistica, che colloca l’inizio del conflitto
all’indomani della morte di Tarquinio, il Richard va a verificare le
condizioni politiche e sociali che portano la plebe a diventare gruppo di
pressione e forza politica.
E’ evidente che se l’origine
del conflitto si sposta all’inizio dell’età repubblicana, la
prima secessione viene ad assumere un rilievo fondamentale, rappresentando il
momento di genesi di un’organizzazione binaria, al punto che in
abbastanza fresco manuale (Storia di Roma,
Milano 2000) di Adam Ziolkowski si legge che «in realtà questo
dualismo fu il risultato di un’espansione di un’organizzazione nata
nel
In questi ultimi decenni, un’altra
svolta si è avuta nella ricerca di nuove prospettive per analizzare e
comprendere la lotta tra gli ordini, con i contributi del Raaflaub (Politics and Society in Fifth Century Rome,
in Bilancio critico su Roma arcaica fra
monarchia e repubblica, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1993, 129-157) e di
Eder (The Political Significance of the
Codification of Law in Archaic Societies: an unconventional hypothesis, in
K. Raaflaub (ed.), Social Struggles in
Archaic Rome: new perspectives on the Conflict of the Orders, Berkeley 1986, 262-300), che hanno
portato al centro del dibattito l’utilità di un’analisi
comparativa tra le poleis greche
arcaiche e Roma. Il Raaflaub cerca nel mondo greco modelli interpretativi utili
e applicabili alla realtà economica e sociale romana, così come
l’Eder propone interessanti analisi comparative sulle codificazioni
aristocratiche, che portano alla non di poco innovativa ipotesi di vedere in
esse l’esito di propositi autoregolamentatori dei gruppi aristocratici.
Tante ricerche, tante ipotesi, tanti
diversi modelli interpretativi del conflitto, che lungi dall’aver trovato
un ubi consistam abbastanza concorde,
mi pare però abbiano portato a significative conclusioni: la conferma
della centralità del ruolo delle secessioni come punto di genesi
dell’organizzazione plebea, e una concezione meno rigida, più
duttile, sia della fisionomia della plebe, intesa non più come corpo
omogeneo e monolitico di tutti poveri, ma come un gruppo che presenta al
proprio interno differenziazioni economiche e sociali, e quindi aspirazioni
diverse, sia della natura e dell’articolazione del conflitto, che non
resta immutato per quasi due secoli, ma si snoda in più momenti, di
diverso carattere e complessità (cfr. i contributi in due importanti
volumi, W. Eder (ed.), Staat und Staatlichkeit in der frühen
römischen Republik, Stuttgart 1990; K.
Raaflaub (ed.), Social Struggles,
cit.; nonché Crise et
transformation des sociétés archaïques de l’Italie
antique au Ve siècle av. J.C., Rome 1990; Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti
dei Convegni Lincei, Roma 1993).
[11] Vedi G. Poma,
Considerazioni sul processo di formazione
della tradizione annalistica: Il caso della sedizione militare del
[15] ED. Meyer, Der Ursprung des Tribunats und die Gemeinde der vier Tribus -Anhang:
Die Secessionen von 494 und
[16] TH. Mommsen, Römische Staatsrecht, 2, 3a ed.,
273-374, cfr. anche Storia di Roma antica,
I, 1, Torino 1925 (a cura di E. Pais), 253 s.
[19] Per la prima secessione, la descrizione
liviana (2,32,2) ci presenta una seditio
che matura entro l’esercito reduce e vittorioso che, chiamato artatamente
ad un nuovo impegno militare, prima medita l’uccisione dei consoli per
sciogliersi dal giuramento; poi su iniziativa di un tal Sicinio iniussu consulum si ritira, e qui sta
pacificamente, in un campo munito sul Monte Sacro o sull’Aventino (che
è versione più antica, risalendo a Pisone fr. 22 (Peter 1, 129), mentre quella relativa al Monte Sacro per
l’Ogilvie (A commentary on Livy,
books 1-5, Oxford 1965, 311) sembrerebbe risalire a Sempronio Tuditano).
Per Cicerone, invece, va sul Monte Sacro e sull’Aventino (Cic. de rep. 2,58 e 63), per Dionigi (6,45,2;
10,35,1) sul solo Monte Sacro, mentre Dione Cassio parla genericamente e
prudentemente solo di un colle (fr.
17. 9). Più complessa è la dinamica della seconda secessione, che
si collega alla caduta dei decemviri. Per Livio (3,50-54), che si abbandona ad
un ampio racconto, lo sviluppo è complesso: due sono gli eserciti negli
accampamenti, uno era in monte Vecilio
e spinto da Virginio occupa in armi l’Aventino, l’altro in Sabinis, da dove per iniziativa di
Icilio e Numitore si ricongiunge ad esso; a questo movimento degli armati verso
Roma si aggiunge la plebs urbana,
mogli e figli insieme si spostano sul Monte Sacro, abbandonando la
città, poi di nuovo, fatto l’accordo, sull’Aventino. Per
Cicerone gli armati vanno (de rep.
2,63) prima sul Monte Sacro e poi sull’Aventino, parlano del solo
Aventino Sallustio (Iug. 31,17),
Dionigi (9,43), Diodoro (12,24, 5) e altri ancora. Intanto, queste complicate
manovre sono, per l’Ogilvie (op.
cit., loc. cit.), il frutto
dell’incrocio di due tradizioni che collocano la secessione su due colli
diversi (en passant, la mancanza di chiarezza è in Livio stesso che a
distanza di poche righe definisce l’Aventino come il locus felix dove ebbe inizio la libertà della plebe
(3,54,9) e il Monte Sacro come il colle in cui fu eletto il primo tribuno della
plebe). Resta isolata la testimonianza di Varrone (de l.l. 5,81, 52 Collart): in
secessione Crustumerina, che però non può essere trascurata,
data la bontà del suo lavoro antiquario. E poiché la citazione di
Varrone è relativa alla derivazione del nome dei tribuni dai tribuni militum, può essere
intesa in più modi, riferita alla prima secessione (in tal caso potrebbe
indicare un terzo luogo o identificare in altro modo ancora il Monte Sacro,
così il Niccolini e i più) o riferita alla seconda, e collocante
la prima elezione dei tribuni nel
[20] R.T. Ridley,
Notes on the Establishment of the Tribunate
of the Plebs, in Latomus, 27,
1968, 535-554.
[24] Oxford Latin Dictionary, v. secessio 2, ed. P.G.W. Glare, 1982, 17161; A. Forcellini, Lexicon totius latinitatis, t. IV, 1965 (ed. an.), 2711.
[27] G. Piccaluga,
La colpa di ‘perfidia’ sullo
sfondo della prima secessione della plebe, in Le délit religieux
dans la cité antique, Rome 1981, 21-25.
[28] Vedi
P. Catalano, Tribunato e resistenza, Torino
1971, 21 ss. Si deve a G. Grosso la proposizione del rapporto tra il moderno
diritto di sciopero e l’azione della plebe (Il diritto di sciopero e l’intercessio dei tribuni della plebe,
in RISG, 89, 1952-1953, 397-401).
[31] W. Eder, Zwischen Monarchie und Republik: das Volkstribunat in der Frühen
Römischen Republik, in Bilancio
critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti dei Convegni
Lincei, Roma 1993, 97 s.
[35] J. Ellul, Réflexions sur la révolution, la plèbe et le
tribunat de la plèbe, in Index,
3, 1972, 155-167.
[37] K. Raaflaub, Politics and Society in Fifth Century Rome, in Bilancio critico su Roma arcaica fra monarchia e repubblica, Atti
dei Convegni Lincei, Roma 1993, 129-157, 151.
[38] F. Münzer, v. Sicinius (4), in PWRE
La storiografia moderna ha tentato varie
vie d’uscita, a cui è sottesa l’accettazione o meno
dell’assunto liviano (4,4,1) che il consolato dalla sua nascita sia stato
ricoperto solo da patrizi: nomi frutto di tarde interpolazioni plebee, nomi in
età arcaica portati da patrizi poi decaduti, nomi di coscripti, nomi autenticamente plebei
che attestano come in età arcaica il consolato non fosse monopolio
patrizio, coesistenza in una medesima gens
di due stirpes, una patrizia, una
plebea. Per un punto su tale dibattito, cfr. J.-CL. Richard, Les origines
cit., 529; A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia,
religione e diritto sulle origini della repubblica romana, Trento 1988, 96
ss.
[41] L.
Sicinius Vellutus o Bellutus, destinato
a diventare tribuno nel 493, edile della plebe nel 492 e forse ancora tribuno
nel
[45] Tutti i ragionamenti fatti hanno portato alla
conclusione che si intrecciano e fiancheggiano due filoni di tradizione: una
rappresentata da Pisone, Attico, Cicerone, Asconio, che Livio conosce, e una
seconda rappresentata da Dionigi di un collegio a 5, che Livio accoglie
attraverso l’escamotage della cooptazione. Vedi per le fonti in merito,
G. Niccolini, I Fasti cit., 1 ss. C’è un
certo accordo sulle posizioni dell’Ogilvie, che raccoglie gli esiti di
una ricerca che parte dal Mommsen (Römische
Staatsrecht cit., 2, 272-330) e dal Meyer (Der Ursprung cit., 353-373), nel ritenere che in origine i tribuni
dovessero essere due, che la lista sia ristretta sia allargata sia stato campo
di bene identificabili irruzioni gentilizie o politiche a favore dei Licinii,
degli Icilii e forse degli Iunii (A
Commentary cit., 311 ss.). C’è una certa probabilità
che la coppia originaria possa essere stata costituita in effetti da Sicinius e da L. Albinus o Albinius,
illustri ignoti, per il Richard, invece, accanto a L. Albinus o Albinius va
collocato uno dei cinque di Dionigi, il C.
Visellus o Viscellius Ruga (Les origines cit., 568 ss.).
[46] Tra
l’altro, il fatto che sottolinea, per il tribunato della plebe del
[48] L.R. Ménager, Nature et mobiles de l’opposition entre la plèbe et le
patriciat, in RIDA, ser. 3, 19,
1972, 367-97.
[49] Per
il Niebhur, Römische Geschichte cit., I, 552, Bruto era il simbolo
dell’accesso della plebe al potere.
[54] Sul
processo di formazione della tradizione su Menenio Agrippa, cfr. J.-CL. Richard, Les
origines cit., 542, nt. 344.
[60] A. Momigliano,
Camillus and Concord, in CQ, 36, 1942, 111-120 (ripubblicato nel Secondo contributo alla storia degli studi
classici e del mondo antico, Roma 1960, 99-104).
[61] L. Bertelli,
L’apologo di Menenio Agrippa:
incunabolo della "Homonoia" a Roma?, in Index, 3, 1972, 224-
[62] L. Peppe,
Studi sull’esecuzione personale. I.
Debiti e debitori nei primi due secoli della repubblica romana, Milano 1981.
[63]
Livio sottolinea il diverso comportamento della plebe di Ardea rispetto a quella
romana: pulsa plebs, nihil Romanae plebi
similis, …in agros optumatium cum ferro ignique excusiones facit
(4,9,8).
[65] Liv. 7,3,8. Mai, in ogni modo, i
secessionisti subirono rappresaglie. Sul tema dell’amnistia, richiesta dai
plebei, vedi da ultimo, M. Raimondi,
L’amnistia tra patrizi e plebei
nelle Antichità Romane di Dionigi di Alicarnasso, in Amnistia,
perdono e vendetta nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Milano 1997,
99-111.
[68] Sull’iscrizione
aretina, vedi da ultimo, F. Vallocchia,
Manio Valerio Massimo, dittatore e augure,
in Index, 35, 2007, 27-39 (che
riporta anche le altre fonti sul ruolo del dittatore).
[72] F. Vallocchia, Manio Valerio Massimo cit., 36. Giustamente l’autore richiama
il ruolo che, al termine della seconda secessione, avrà il pontefice
massimo.
[74] Liv.
2,33,1: agi deinde de concordia coeptum,
concessumque in condiciones…, un accenno incidentale in 4,6,7: foedere icto cum plebe.
[75] L’ipotesi del foedus è proposta dal Niebhur (Römische Geschichte, I, Berlin 1811), ma fortemente combattuta
dal Mommsen (Römisches Staatsrecht
cit.).
[76]
Sulle varie posizioni su questa tradizione, cf. J.-CL. Richard, Les origines
cit., 551, nt. 370.
[77]
Vedi, a proposito, G. Lobrano, Il potere dei tribuni cit., 27 ss.; e
dello stesso, Fondamento e natura del
potere tribunizio nella storiografia giuridica contemporanea, in Index, 3, 1972, 235-262.
[78]
L’argomentazione in tal senso è sviluppata da G. De Sanctis, Storia dei Romani, 2, cit., 28 ss.
[79] F. De Martino, Storia della costituzione I, cit., 340 s., con riferimenti al
dibattito in merito a ntt. 25 e 26.
[80] Sulla possibilità tecnica di un foedus tra i due ordini, P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 189, nt. 99,
195 ss.
[83] A. Piganiol,
Les attributions militaires et les
attributions religieuses du tribunat de la plèbe, in JS,
1919, 237-248 (= Scripta varia, 2, Bruxelles
1973, 261-271).
[84] Considerazioni interessanti in D. Sabbatucci, Patrizi e plebei nello sviluppo della religione romana, in SMSR, 24-25, 1953-54, 76-92.
[86] A. Momigliano, L’ascesa della plebe cit.,
239-256; sul culto in generale, H. Le
Bonniec, Le culte de
Cérès à Rome, Paris 1958.
[87] O. DE Cazenove, Le sanctuaire de Cérès jusqu’à la
deuxième sécession de la plèbe, in Crise et transformation,
Roma 1980, 373-399.
[89] Conosciamo tutti la posizione del Mommsen,
se il populus ist der Staat ci fu
forzatamente un’epoca in cui la plebe non era altra cosa che la
rivoluzione in permanenza, posizione come è noto, che era debitrice ad
una concezione statualistica del diritto; per il Mommsen, la plebe è
«Gemeinde in der Gemeinde». Sul concetto di stato in Mommsen, e il
dibattito successivo, vedi, tra gli altri, G.
Lobrano, Fondamento e natura
cit., 240 ss.
[92] I cui interventi sono in Index, 3, 1972. Si fronteggiarono
visioni, almeno in apparenza, opposte: il Sabattucci (La censura: istituzione rivoluzionaria dell’antica Roma, 192
s.) che affermava che l’invenzione dei romani, rivoluzionaria rispetto
all’ordinamento gentilizio, fu lo stato, inteso quindi come il prodotto
di una rivoluzione culturale, l’Ellul (Rèflexions sur la révolution cit., 55 ss.) per cui il
movimento plebeo tendeva a trovare e affermare un proprio ruolo autonomo dentro
una civitas dualistica in via di
costruzione, in cui il tribunato non agiva in forma rivoluzionaria
perché restava nel quadro della civitas
(«la creazione di uno stato di tensione bipolare tra due gruppi della
comunità»), il Sereni (Considerazioni
di metodo su Stato, rivoluzione e schiavitù in Roma antica, 203
ss.), tutt’altro che propenso ad usare, anzi abusare del termine
rivoluzione «più giornalistico che storiografico», e per il
quale, in ogni modo, la rivoluzione è da intendersi fondamentalmente sul
piano sociale; in sintonia con l’Ellul, il Sereni è disposto ad
accettare un processo rivoluzionario, ma mai delle istituzioni rivoluzionarie.
Gli storici, in tale dibattito, mi pare siano restati abbastanza defilati;
basti pensare al Mazzarino, che nel