N. 7 – 2008 – Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro
Università di Verona
L’idea del Tribunato nella storia
della Repubblica di Venezia
Sommario: Premessa.
– 1. I
tribuni veneziani nella trattatistica politica dell’età moderna. – 2. La magistratura repubblicana
degli Avogadori di Commun. – 3. La
formazione della “plebe” patrizia. – 4. Un’eredità
risorgimentale per il Tribunato veneziano?
La voce
Tribuno presente nel Dizionario del linguaggio storico ed
amministrativo di Giulio Rezasco della fine dell’Ottocento consente
di circoscrivere le direzioni di ricerca e di indicare le fonti della fortuna
del tribunato della plebe nelle vicende politiche della Repubblica di Venezia[1].
Per primo punto poniamo il discorso sul piano dell’originaria
libertà politica delle istituzioni precedenti alla creazione della Venezia
ducale, cioè il legame con i tribuni
esistenti nella laguna fra la metà del V e il IX secolo, e poi per
secondo argomento analizzeremo l’analogia fra la podestà
tribunizia e i compiti dell’Avogaria di Commun in un arco cronologico
ampio, esteso cioè fra il ‘500 e il ‘700, nella missione di
difesa della legalità costituzionale propria di questa magistratura
repubblicana. Infine per terza questione affronteremo la discussione
settecentesca sulle proposte di riforme politiche e giuridiche avanzate a Venezia
con l’intenzione di comprendere come venne percepita dalla classe di
governo il ruolo della magistratura romana nelle dinamiche costituzionali di
questa Repubblica d’antico regime[2].
Le
fonti che verranno prese in considerazione provengono prevalentemente dalla
trattatistica politica sul mito della Repubblica di Venezia, cioè dal
cardinale Gasparo Contarini (1543) a Giovan Francesco Pivati (1740), incentrate
cioè sull’idea che Venezia rappresentasse la perfezione del
modello dello “stato misto”, una forma di governo nella quale
fossero armonicamente rappresentati il principio monarchico, le istanze
aristocratiche e l’elemento popolare, associando il Senato e il Maggior
consiglio al governo dogale. Nel ‘700 la documentazione esaminata
comprende le discussioni costituzionali dei principali organi di governo, come
il Maggior Consiglio, negli anni fra il 1761 e il
All’origine
della storia di Venezia nel periodo compreso fra il V e fino al quarto decennio
del IX e poi definitivamente nel X secolo sono presenti nella laguna delle
figure di tribuni, cioè di capi o anche di governatori locali, in
ciascuna isola, la cui funzione era principalmente di amministrare la giustizia
penale e civile. Il contesto storico di riferimento era quello contrassegnato
all’inizio del VII secolo dalla lenta ripresa dell’attività
espansionistica dei Longobardi nell’entroterra veneziano e
dell’intensificarsi dell’emigrazione verso la laguna. Il quadro di
svolgimento di queste esperienze tribunizie nell’area costiera bizantina
è contrassegnato verso la metà del secolo VIII dalla progressiva
crisi dell’impero romano – costantinopolitano. La lacuna della documentazione
pervenutaci non permette di proporre delle risposte univoche per la
quantificazione precisa del numero dei tribuni, della loro dislocazione
geografica e soprattutto della loro continuità o meno fra il costituirsi
di un’aristocrazia tribunizia, che era riuscita a rendere ereditaria la
dignità, e la successiva formazione del patriziato veneziano[7].
Le
fonti non consentono di comprendere con sicurezza la genesi di questa carica che
va rapportata alle esigenze di militarizzazione amministrativa della Provincia veneta, e soprattutto al
processo di trasferimento del potere al doge (697) a partire dall’VII
secolo che si afferma superando le resistenze dell’aristocrazia
tribunizia. Il processo del radicamento e della centralizzazione della sede
ducale a Rialto (809-811) porta alla decadenza progressiva dei centri minori
con la cessazione delle funzioni pubbliche già esercitate dai tribuni in
età bizantina[8].
Tale passaggio di attribuzioni è da ritenersi centrale perché, ad
esempio alla metà dell’VIII secolo, l’esercizio del potere
del doge Domenico Monegario era sotto il controllo di due tribuni,
rappresentanti di una “presunta autorità popolare” che era
una forma di controllo di sindacato così estraneo e contraddittorio ai
presupposti originari della podestà ducale da essere rifiutato dallo
stesso designato[9].
L’antica esigenza di affiancare dei tribuni ai dogi per creare un
meccanismo organico di limitazione e di controllo dei diritti ducali
rappresentò un tentativo che non riuscì a consolidarsi[10].
Il
problema del rapporto fra questi tribuni veneziani e quelli della plebe venne
posto dai trattatisti dell’età moderna. Per primo negli anni
trenta del Seicento dal cittadino veneto Niccolò Crasso nell’Annotazione XXXVIII al suo commento agli
scritti di Donato Giannotti e di Gasparo Contarini che si domandava da dove
provenisse questa istituzione[11].
L’interrogativo non è privo di significato sia per
l’aspirazione veneziana della pretesa originaria libertà politica
alla fondazione mitica della città, sia per respingere l’ipotesi
(come alcuni sostenevano polemicamente) che il termine derivasse dalla parola tributo e per garantire anche negli
inizi della storia di Venezia i primordi di quell’evoluzione naturale che
approderà nell’assetto cinquecentesco all’idea di un
ordinamento armonico e perfetto[12].
Crasso afferma che l’ufficio di tribuno non era un termine sconosciuto
perché esistevano già nell’antica Roma, di cui Venezia non
aveva abbandonato il ricordo, la consuetudine di «chiamar coloro,
a’ quali fosse qualche carico publico o privato da farsi
attribuito»[13].
La
questione era nuovamente affrontata in maniera più esplicita in quella
sorta di orazione, ideologicamente filtrata, alla gloria e alla libertà
di Venezia che erano alla metà del Settecento I principi di storia civile dell’avvocato Vettor Sandi. Alla
radice di questo interesse vi era anche la ripresa della controversia
cinquecentesca con il teorico dell’assolutismo francese Jean Bodin che
nella sua critica complessiva alla rappresentazione aristotelica del
“governo misto” sosteneva nell’organizzazione politica alle
origini di Venezia la suddivisione nelle isole di tante autonome
“Repubblichette”[14].
Questo periodo storico era considerato centrale dal Sandi che vedeva
nell’istituzione del tribunato la prima magistratura e nella presunta
creazione di un governo libero ed indipendente le radici dell’embrionale
aristocrazia veneziana[15].
La connessione con la podestà tribunizia era affermata dal Sandi che fra
le ipotesi sulla etimologia dei tribuni veneziani non escludeva che questa
istituzione potesse derivare dalla figura del difensore del popolo
nell’antica Roma[16].
Tuttavia
– afferma il trattatista – a Venezia mancavano ancora quelle altre
coordinate istituzionali rappresentate dalla creazione di organi
costituzionali, come il Senato, e l’emergere di un nucleo aristocratico
che avrebbero potuto rendere il paragone fra i due modelli più pregnante
ed evitare che il tribunato di quel periodo, se fosse stato davvero un
tribunato della plebe, si trasformasse – secondo il pensiero del Sandi
– in un’istituzione che avrebbe reso tutti interamente soggetti a
un “protettor della plebe”[17].
Un punto fermo della ricostruzione dell’avvocato era comunque il bisogno
dei veneziani dell’assoggettamento ad un’autorità superiore
considerata spoglia dalle passioni che era rappresentata dalla legge[18].
In definitiva in una lettura verosimile di questa nebulosa rappresentata
dell’antico tribunato veneziano vi era da parte dei trattatisti un
bisogno di rivestire e di identificare la sua magistratura delle origini con le
prerogative di quell’istituzione che nella Repubblica romana veniva
proposta alla difesa della libertà e delle leggi[19].
L’invenzione
di una tradizione tribunizia alle origini della storia di Venezia
risultò decisamente minoritaria rispetto ad un’altra
identificazione che ebbe poi fra i trattatisti una maggiore vitalità:
cioè l’Avogaria di Commun[20].
Malgrado a Venezia compiti di legittimità e di controllo erano
attribuiti a più magistrature i tre avogadori, cioè avvocati, del
comune in carica per sedici mesi erano una magistratura patrizia di grande
autorità e di grande reputazione perché era specificatamente
delegata alla custodia delle leggi[21].
All’inizio del ‘500 il trattatista Domenico Morosini aveva
sottolineato come fra le prime delle sue funzioni ci fosse la difesa della
libertà[22].
Del resto lo stesso patrizio considerava il ruolo del doge, in maniera piuttosto
ideale non conforme alla tradizione, come quello di «un grande
avogadore»[23].
Nel
corso del tardo medioevo e della prima età moderna l’Avogaria di
Commun si era venuta sempre più caratterizzando quale opposizione dei
torti e delle violenze, come una difesa capace di tutelare i diritti dei
singoli e della collettività di fronte alle prepotenze
dell’autorità pubblica[24].
I patrizi eletti a questa carica potevano entrare in tutti i consigli e in
tutti i collegi veneziani per verificare il rispetto della legalità
degli atti emanati potendoli “intromettere” e agitare la causa
contro qualunque magistrato che si fosse comportato in maniera disonesta nel
proprio ufficio con tanta discrezionalità da decidere a quale consiglio
o collegio spettasse il giudizio[25].
L’eventualità di porre in discussione gli atti del governo, sotto
il profilo della loro legittimità in base a una valutazione in termini
di legalità, comportava l’esercizio di un ruolo di notevole
duttilità politica nel quale le singole personalità degli avogadori
di commun potevano anche impersonificare dei differenti stili giuridici[26].
La
plurisecolare discussione, alimentata dalla rilettura della storia romana,
sull’identità di questa magistratura paragonata frequentemente ai
tribuni della plebe non la circoscrive alla dialettica politica della vita
urbana in cui il tribunato era stato confinato da Max Weber ma investe lo
stesso concetto di libertà del dominio veneto[27].
Il fatto che il campo d’intervento degli avogadori di commun fosse esteso
alla terraferma veneta era significativo perché, malgrado
l’originaria dizione comunale, questa magistratura aveva assunto una
competenza di dimensione regionale e svolgeva nella capitale e sul territorio
un ruolo di mediazione politica improntato alla difesa della legalità
esercitato a tutti i livelli, cioè dal vertice politico fino alla
popolazione locale[28].
Ad esempio le lettere avogaresche
inviate ai Rettori della terraferma erano in grado di bloccare
l’applicazione delle sentenze che non avessero rispettato le formalità
previste dalle leggi. Se l’apice di questa magistratura è
circoscrivibile fra la seconda metà del Quattrocento e la prima
metà del Cinquecento, cioè fino a quando l’ascesa del
Consiglio dei X ne erose il prestigio politico, ciononostante la presenza dei
suoi esponenti nei tentativi di riforma dell’assetto costituzionale a
Venezia e nel dibattito sulla razionalizzazione del diritto veneto nel
Settecento ci fa comprendere come la sua scomoda esistenza rimanesse
un’esigenza sentita ancora a lungo[29].
Per primo
a paragonare il “diritto d’intercessione” della
podestà tribunizia con i compiti dell’Avogaria di Commun era stato
lo storico veneziano Marc’Antonio Sabellico a fine ‘400 nel De venetis magistratibus (1502)[30].
L’argomento era presente pure nell’opera del giurista patavino
Guerino Pisone Soacio (m. 1591) De
Romanorum et venetorum magistratuum inter se comparatione (1563) che ci
conduce alla stessa identificazione con l’acuta sottolineatura della
differenza che si trattava di una magistratura patrizia facente riferimento
agli organi di governo veneziani e non alla plebe, come era per i tribuni
romani. Queste due opere, in particolare quella del Sabellico che nel 1491
pubblicò uno studio sull’origine romana del “praetor”,
incarnato nella persona del podestà veneziano, ci portano a
contrassegnare il contributo specifico dell’umanesimo giuridico, forgiato
nel ricordo di Roma, e delle traduzioni veneziane di Tito Livio in questo
confronto istituzionale[31].
Date
queste premesse comprendiamo quindi parte del retroterra ideologico entro il
quale questa tradizione venne recepita con il dovuto rilievo in un classico
della fondazione del mito della Repubblica di Venezia come l’opera Della Repubblica e magistrati di Venezia
(1563) di Gaspare Contarini che, riportando la voce della presunta
identificazione, ci parla comunque degli avogadori come di “tribuni delle
leggi” per non voler fare della confusione fra le due differenti
tipologie. A Venezia infatti erano la custodia delle leggi, e non della plebe,
la suprema garanzia che i magistrati dovevano far rispettare[32].
La discriminante, a cui non si accennava invece negli scritti, era la presenza
del popolo che a Venezia costituiva allora una massa sociale informe senza
reali diritti politici[33].
Tuttavia
era significativo che lo storico Paolo Paruta riproponendo nei Discorsi politici (1599) la
validità dell’esperienza veneziana intravedesse, a differenza del
Machiavelli, in un capitolo iniziale dedicato alla storia romana una visione
negativa nel ruolo del tribunato della plebe come motivo perturbatore negli
equilibri interni della Repubblica romana[34].
Secondo la tradizione veneziana la città doveva la sua esistenza proprio
all’indipendenza dal mondo romano. Venezia era riuscita a mantenersi
uguale nel suo ordinamento e nella sua libertà politica e allo stesso
tempo evitare le lotte di fazione, per un migliaio di anni, raggiungendo la sua
perdurante stabilità politica. Alla resa dei conti la sua storia era in
netto contrasto con quella considerata turbolenta e militaristica di Roma[35].
Si tratta quindi di una visione diametralmente opposta a quella di Machiavelli
che nei Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio, proseguendo una
descrizione “sociologica” del patriziato veneziano, presentava il
motivo della positività dell’esperienza dei “tumulti”
e della “disunione” fra la plebe e il senato per le vicende vissute
nell’antica Roma[36].
Per una
corretta impostazione del problema del tribunato si comprende quanto furono
importanti i processi di impoverimento di una parte del patriziato veneziano
che portarono, a partire dal secondo Seicento, alla creazione dei cosiddetti
nobili barnabotti, definiti
significativamente dai trattatisti come plebe[37].
Nel secolo successivo qualche indizio per una riconsiderazione del valore del
tribunato nella storia romana non era mancato se il patrizio Marco Foscarini
nell’opera Della perfezione della Repubblica veneziana,
composta negli anni venti del Settecento, riconosceva il contributo di questa
magistratura nel creare un’atmosfera di concordia e di prudenza fra i
diversi ordini a Roma perché la sua istituzione aveva permesso al popolo
di partecipare agli onori della città e quindi di motivarlo
nell’esporsi con più animo ai pericoli della guerra[38].
Tuttavia
è negli anni sessanta del Settecento che riemerge prepotentemente
l’identificazione fra i tribuni della plebe e gli Avogadori di Commun nel
dibattito sulla “correzione”, cioè la riforma,
dell’autorità degli Inquisitori di Stato del 1761. Questi
magistrati, come l’Avogadore Angelo Querini, cercavano di recuperare il
perduto prestigio della magistratura designata per tenere nell’equilibrio
stabilito dalle leggi tutti gli organi di governo e per resistere alle
prevaricazioni di tutti i consigli e collegi della Repubblica[39].
In un clima contrassegnato dal vivace ricordo dell’esperienza politica
romana, Triumviri e Decemviri venivano significatamente
definiti i due schieramenti in esame, sono importanti le voci che circolavano
per Venezia raccolte dallo storico di quelle crisi politiche, cioè il
funzionario Piero Franceschi[40].
Secondo l’influente segretario dei “correttori” gli Avogadori
di Commun con il loro comportamento intransigente nel portare le loro intromissioni presso i principali
consigli della Repubblica, come l’assemblea plenaria del patriziato
veneziano, miravano al fine di aumentare l’autorità esercitata
dagli Avogadori e di far cadere
Il
presupposto di queste discussioni politiche era stato un mutamento profondo
nella nozione di uguaglianza repubblicana di fronte alla legge e all’equa
ripartizione delle cariche patrizie con l’appannaggio di quelle fornite
di attribuzioni decisionali, come l’appartenenza al collegio dei savi, da parte di coloro che erano
significativamente definiti nelle fonti come i Grandi. L’idea di uguaglianza fra la classe nobiliare era
stata sopraffatta dalle acuite differenze economiche e sociali in seno al ceto
di governo. In quegli anni il patriziato veneziano era classificabile secondo
una stratificazione sociale, a forma di piramide, a seconda della ricchezza e
del potere raggiunto dalle famiglie con alla base dei nobili fortemente impoveriti[42].
Malgrado gli Avogadori di Commun continuassero ad essere eletti dallo stesso
corpo aristocratico che esprimeva il ceto di governo e la loro azione non si
poteva certamente ricondurre alla stregua di un controllo esercitato dal
popolo, tuttavia alcuni motivi ispiratori comuni, come il “diritto di
resistenza”, si condensavano in questa magistratura che veniva ad
interpretare diffusi malesseri sociali[43].
La capacità di resistenza degli Avogadori di Commun al potere degli
Inquisitori di Stato, che venne percepito da parte dei nobili di mediocri
fortune come “dispotico” e fonte di “prepotenza e di
ingiustizia”, venne quindi interpretata dal Franceschi come un
“potere negativo” ma esso contribuì ad accelerare la convergenza
del patriziato verso quella forma di protesta tipicamente veneziana che era il
rifiuto di eleggere i patrizi successori che si alternavano nelle magistrature
durante le frequenti mutazioni alle cariche per interrompere
l’attività ordinaria delle magistrature[44].
Verso
gli anni ottanta del secolo un’esemplare testimonianza di questa
crescente tensione che andava allora sviluppandosi fra il patriziato veneziano
sui temi della redistribuzione delle terre, della riorganizzazione dei poteri,
dell’istruzione pubblica e degli istituti di beneficenza, sono le Riflessioni
filosofico - politiche dell’antica democrazia romana del principe Luigi Gonzaga Castiglione. L’autore fin dalla prima pagina si
definisce significativamente “difensore” del popolo e in
un’ottica democratica, in cui loda la ricostruzione storica del ruolo
svolto dal popolo romano dal Machiavelli, delinea il rapporto fra l’usura
e la nascita del tribunato della plebe a Roma, con la cui istituzione per
cinque secoli il popolo rinnovò il patto originario della primitiva associazione
improntata alla libertà e alla felicità, nonché le vicende
dei fratelli Gracchi che dovevano servire a meglio intendere la crisi
veneziana. Nell’opera in esame l’esempio del tribunato della plebe
era persino rapportato alla lotta per le riforme che preparava la rivoluzione
ginevrina del
Queste
trasformazioni e queste vicende politiche erano congiunte ai tentativi di
riforma del diritto veneto avanzati in quegli anni. Sempre al patrizio Zorzi
Pisani, che era stato il probabile ispiratore di questo volume di Riflessioni e il protagonista della
“correzione”, cioè della riforma, del 1780, era
altresì dedicato il V tomo del Dizionario
del diritto veneto (1779) dell’avvocato Marco Ferro che rappresentava
un ulteriore tentativo di riforma sulla via dell’integrazione ufficiale
del diritto veneto con quello comune ma che nella voce Tribuno riprendeva l’analogia fra l’Avogaria di commun
e il Tribunato della plebe[47].
Tuttavia
la pretesa superiorità di Venezia nel conservare gli antichi usi romani,
specialmente nelle magistrature, preoccupandosi di introdurre i necessari
correttivi era già stata ripresa nel
Per
delineare in termini più generali come il problema venne percepito
dall’insieme della classe dirigente lagunare è opportuno
soffermarsi sui dispacci con cui l’ambasciatore veneziano a Parigi Alvise
Querini descrisse la scoperta nel maggio del 1796 della congiura del teorico e
rivoluzionario Gracchus Babeuf
(1760-1797) e del suo “giornale incendiario” identificabile nel
“
Questo
discorso può essere completato facendo riferimento ad un’altra
epoca ed un’altra temperie culturale nella storia dell’idea di
tribunato. Anche durante la rivoluzione del 1848-1849 Venezia ebbe un suo giornale
popolare il “Tribuno del popolo”, cioè un quotidiano
illustrato rimasto allo stato di avviso
del primo numero. L’iniziativa del gennaio dello stesso anno era stata
promossa dal circolo del popolo di Marc’Antonio Canini anche se non
esercitò una reale influenza sulla società veneziana del tempo.
Tuttavia il contenuto del foglio non era affatto sedizioso perché fin
dalla sua prima pagina sottolineava che i tre baluardi della vita erano:
“Religione, patria e famiglia”. Fra le righe, cioè in una
parte del patto sociale stretto fra coloro che dovevano cooperare al giornale,
veniva riportata fra i propositi di condotta da osservare una sentenza di S.
Paolo in cui era scritto: «il vostro ossequio sia ragionevole». Un
invito assimilabile a quella tradizione di moderazione, di ordine armonico e di
rispetto dell’autorità legittimamente costituita in cui era
possibile individuare un aspetto fecondo della tradizione repubblicana maturata
nei secoli a Venezia[52].
[1] Dizionario del linguaggio italiano storico
ed amministrativo di Giulio Rezasco, Bologna 1966 (ristampa anastatica
dell’edizione Ferrara 1881), 1213. Su Venezia e sul tribunato romano
è fondamentale P. CATALANO, Tribunato
e resistenza, Bologna 1971, 35-47, 101 che sottolinea la necessità
di tener conto del fatto che l’idea di tribunato nella storia come
strumento della sovranità popolare può raggiungere gradi
differenti di elaborazione concettuale e confronta P. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe,
Milano 1983, 22 nota 56. Sulla
presenza del “mito” del tribunato della plebe nella letteratura
politica cinque-seicentesca, compresa Venezia, vedi R. FERRANTE, La difesa della legalità. I
sindacatori della Repubblica di Genova, Torino 1995, 279-343. Per la sopravvivenza
dei valori repubblicani a Venezia W. J. BOUWSMA, Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del
Rinascimento nell’età della Controriforma, Bologna 1977, 39-82
e soprattutto O. SKINNER, Le origini del
pensiero politico: il Rinascimento, Bologna 1989, 245-316.
[2] D. GIANNOTTI, Della Repubblica de’ viniziani, in Opere politiche, a cura di F. DIAZ, Milano 1974, 55. FERRANTE, La difesa della legalità,
[3] G.
GAETA, Venezia da “Stato
misto” ad aristocrazia “esemplare”, in Storia della cultura veneta, 6/2, Il Seicento, a cura di G. ARNALDI
– M. PASTORE STOCCHI, Vicenza 1986, 438-494 e F. VENTURI, Settecento riformatore, V, L’Italia dei lumi, II, La Repubblica di Venezia (1761-1797),
Torino 1990, 18 e 211.
[4] Venezia - Parigi 1795 - 1797. I dispacci di
Alvise Querini ultimo ambasciatore in Francia della Repubblica di Venezia,
a cura di G. FERRI CATALDI - A. GRADELLA, I-II, Udine 2006, 278-279 e
soprattutto 282, 678, 722.
[6] A.
VENTURA, Il problema storico dei bilanci
generali della Repubblica veneta, in Bilanci
generali della Repubblica di Venezia, IV, Bilanci dal 1756 al
[7]
Fondamentali le puntualizzazioni di A. CASTAGNETTI, La società veneziana nel Medioevo, I, Dai tribuni ai giudici, Verona 1992, 19-86; G. ZORDAN, L’ordinamento giuridico veneziano.
Lezioni di storia del diritto veneziano con una nota bibliografica, Padova
1980, 15-61. Fra la letteratura critica sull’argomento si segnalano gli
studi di G. MARANINI, La costituzione di
Venezia dalle origini alla serrata del Maggior Consiglio, I, Firenze 1974,
24-53; A. PERTILE, Storia del diritto
italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, II/I, Storia del diritto pubblico e delle fonti,
a cura di P. DEL GIUDICE, Bologna 1968, 240-249; G. COZZI, Venezia ducale, I, Duca e
Popolo, Venezia 1963, 257-261. Della
Republica et Magistrati di Venetia. Libri cinque di M. Gasparo Contarini, che
fu poi cardinale. Con un ragionamento intorno alla medesima di M. Donato Gianotti
fiorentino colle annotazioni sopra li due sudetti autori di Nicolò
Grasso, et i discorsi de’ Governi civili di M. Sebastiano Erizzo, in
Venetia 1660, c. 432, 451 e 508, 513, 542, 565.
[8]
CASTAGNETTI, La società veneziana,
21, 87-88, e 135 e ZORDAN, L’ordinamento
giuridico,
[10] G.
ORTALLI, Il travaglio d’una definizione.
Sviluppi medievali del dogado, in I
dogi, a cura di G. BENZONI, Milano 1982, 24 e CATALANO, Tribunato e resistenza, 40.
[11] C. POVOLO, Crasso, Nicolò, in Dizionario
biografico degli italiani, 30, Roma 1984, 573-577. Della Republica et Magistrati di Venetia, c. 477 e seguenti. Sul
Contarini vedi G. FRAGNITO, Gasparo
Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità,
Firenze
[12] Della Republica et Magistrati di Venetia,
c. 494 per la lettera di Cassiodoro ai tribuni
marittimi e sull’origine del tribunato p. 494-495. MARANINI, La costituzione, 62.
[13] Della Republica et Magistrati di Venetia,
c. 477 e seguenti, in particolare p. 499 per un esempio dei tribuni della
plebe. CASTAGNETTI, La società
veneziana, 12 e 70.
[14] Principj di storia civile della Repubblica
di Venezia dalla sua fondazione sino all’anno di N.S. 1700 scritti da
Vettor Sandi nobile veneto. Della parte prima che contiene i tempi sin al 1300.
Volume primo sino al
[19] A.
DE BENEDICTIS, Da Confalonieri del popolo
a tribuni della plebe: onore, insegne e visibilità di una magistratura
popolare (Bologna, XIV-XVI secolo), in Essere
popolo. Prerogative e rituali d’appartenenza nelle città italiane
d’antico regime, a cura di G. DELILLE e A. SAVELLI, “Ricerche
storiche”, 32 (2002), 221.
[20] ASV, Compilazione delle leggi, b. 66 e M.
SANUDO, De origine, situ et magistratibus
urbis Venetae ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di A.
CARACCIOLO ARICÒ, Milano 1989, 97-98. Sull’Avogaria di Commun
è fondamentale il breve contributo di G. COZZI, Note sopra l’Avogaria di Comun, in Venezia e la terraferma attraverso le relazioni dei rettori. Atti del
convegno, Trieste 23-24 ottobre
[21] Sull’argomento è importante
A. VIGGIANO, Interpretazione della legge
e mediazione politica. Note sull’Avogaria di Comun nel secolo XV, in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi,
Vicenza 1992, 121-131 e A. VIGGIANO, Governanti
e governati. Legittimità del potere ed esercizio
dell’autorità sovrana nello Stato veneto della prima età
moderna, Treviso 1983, 91-123. Malgrado a metà dell’Ottocento
il giurista Giandomenico Romagnosi nelle sue Istituzioni di civile filosofia, ossia di Giurisprudenza teorica si
riferisse, in un punto non chiaro del suo pensiero,
all’“Avvogaria” la sua identificazione con l’ufficio
delle suppliche indica una competenza che a Venezia era piuttosto svolta dalla
consulta dei savii: per questo importante passo vedi LOBRANO, Il potere dei tribuni, 35-36.
[22] C. FINZI, Introduzione, in D. MOROSINI, De
bene instituita re publica, Milano 1969, 1-56. ZORDAN, L’ordinamento giuridico, 6. FERRANTE, La difesa della legalità, 287.
[23] L. VON RANKE, Venezia nel Cinquecento, Roma 1974, 156. Interessante la
ricostruzione di G. COZZI, Domenico
Morosini, Niccolò Machiavelli e la società veneziana, in Ambiente veneziano, ambiente veneto. Saggi
su politica, società, cultura nella Repubblica di Venezia in età
moderna, Venezia 1997, 113 ss.
[27] M.
WEBER, Storia economica. Linee di una
storia universale dell’economia e della società, Roma 1997 e
soprattutto M. WEBER, La città,
Milano 1950, 115-120.
[30] B.
DUDAN, Sindacato d’oltremare e di
terraferma. Contributo alla storia di una magistratura e del processo sindicale
della Repubblica veneta, Roma 1935, 53. Ad esempio vedi P. MOLMENTI, Curiosità di storia veneziana, Bologna
1919, 364-365.
[31] DUDAN, Sindacato
d’oltremare, 21 e 53, D. MAFFEI, Gli
inizi dell’umanesimo giuridico, Milano 1968, 118-119. L’ideale
del Sabellico era l’imitazione dei classici di cui Tito Livio
rappresentava il suo preferito G. COZZI, Cultura,
politica e religione nella “pubblica storiografia” veneziana del
‘500, in Ambiente veneziano,
ambiente veneto. Saggi su politica, società, cultura nella Repubblica di
Venezia in età moderna, Venezia 1997, 19 nota 11. Sullo studio di
alcuni passi di Livio nel Quattrocento per le conoscenze sul tribunato della
plebe DE BENEDICTIS, Da Confalonieri del
popolo, 233-234.
[32] Della
Republica et Magistrati di Venetia, c. 101-109. Confronta COZZI, Repubblica di Venezia, 139-140.
[33] A.
ZANNINI, L’identità
multipla: essere popolo in una capitale (Venezia, XVI-XVIII secolo), in Essere popolo. Prerogative e rituali
d’appartenenza nelle città italiane d’antico regime, a
cura di G. DELILLE e A. SAVELLI, “Ricerche storiche”, 32 (2002),
247-262.
[34]
GAETA, Venezia da “Stato misto”,
438-494. P. PARUTA, Discorsi politici nei
quali si considerano diversi fatti illustri e memorabili di principi e di
Repubbliche antiche e moderne, a cura di G. CANDELORO, Bologna 1943, 5-35.
SKINNER, Le origini del pensiero politico,
249-250. FERRANTE, La difesa della
legalità, 303.
[36] I.
CERVELLI, Machiavelli e la crisi dello
Stato veneziano, Napoli 1974, 229. N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio seguiti dalle Considerazioni
intorno ai Discorsi del Machiavelli di Francesco Guicciardini, a cura di C.
VIVANTI, Torino 2000, 16-18, 117-121. Sulla valutazione negativa che
Machiavelli aveva per Venezia F. GILBERT, Machiavelli
e Venezia, in Machiavelli e il suo
tempo, Bologna 1977, 319-334.
[37] V.
HUNECKE, Il patriziato veneziano alla
fine della Repubblica 1646-1797. Demografia, famiglia, ménage, Roma
1997, 63.
[38] M.
FOSCARINI, Necessità della storia
e della perfezione della Repubblica veneziana, a cura di L. RICALDONE,
Milano 1983, 180.
[39] C.
GRIMALDO, Giorgio Pisani e il suo
tentativo di riforma, Venezia 1907, 10.
VENTURI, Settecento riformatore,
18.
[40] Biblioteca del museo civico Correr,
Venezia, mss. Cicogna 2276, P. FRANCESCHI, Istoria
dei correttori eletti nell’anno 1761, scritta da Pietro Franceschi,
segretario delli stessi, c. 123 e 212.
[41] Biblioteca del museo civico Correr,
Venezia, mss. Cicogna 2276, P. FRANCESCHI, Istoria
dei correttori eletti nell’anno 1761, scritta da Pietro Franceschi,
segretario delli stessi, c. 20 e confronta c. 170. FERRANTE, La difesa della legalità,
330-331.
[44]
VENTURI, Settecento riformatore, 17-
[45]
VENTURI, Settecento riformatore, 207-
[46] P.
DEL NEGRO, La classicità nella
cultura politica veneziana del Settecento, “Studi veneziani”,
N.S. 23 (1992), 183. Fra gli storici settecenteschi francesi la discussione sul
tribunato e in generale verso i conflitti interni di Roma fu ampia ed
articolata oscillante fra posizioni d’ammirazione e di critica vedi L.
GUERCI, Principio aristocratico e
principio popolare nella storia della Repubblica romana. Louis De Beaufort e la
discussione con Montesquieu, in Modelli
nella storia del pensiero politico, I, Saggi,
a cura di V. I. COMPARATO, Firenze 1987, 191-217 e J.-M. GOULEMOT, Sul repubblicanesimo e sull’idea
repubblicana nel XVIII secolo, in L’idea
di Repubblica nell’Europa moderna, Roma - Bari 1993, 21-22. Nella
terraferma veneta un’eccezione è costituita dall’opera
rimasta lungamente inedita di S. MAFFEI, Del
governo de’ Romani nelle provincie, che nel recupero dei modelli
sociali e culturali creati dal mondo romano passando per la letteratura
giuridica del ‘500 giunge ai dibattiti culturali sul rinnovamento del
diritto nella Repubblica di Venezia A. OLIVIERI, A proposito di una riedizione del libro Maffeiano sul governo
provinciale romano, “Archivio veneto”, s. V. 134 (1990),
145-146.
[47] VENTURI, Settecento riformatore, 207 e G. FERRO, Dizionario del diritto comune e veneto, II, Venezia 1847, ad vocem Tribuno. COZZI, Repubblica di
Venezia, 375.
[49] G.
COZZI, Politica e diritto nei tentativi
di riforma del diritto penale veneto nel Settecento, in Sensibilità e razionalità nel
Settecento, a cura di V. BRANCA, II, Firenze 1967, 373-
[51] P.
PRETO, Baimonte Tiepolo: traditore della
patria o eroe e martire della libertà?, in Continuità e discontinuità nella storia politica, economica
e religiosa. Studi in onore di Aldo Stella, Vicenza 1993, 238.