ds_gen N. 7 – 2008 – Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro

 

Galtarossa-foto-CVMassimo Galtarossa

Università di Verona

 

L’idea del Tribunato nella storia

della Repubblica di Venezia

 

 

Sommario: Premessa. – 1. I tribuni veneziani nella trattatistica politica dell’età moderna. – 2. La magistratura repubblicana degli Avogadori di Commun. – 3. La formazione della “plebe” patrizia. – 4. Un’eredità risorgimentale per il Tribunato veneziano?

 

 

Premessa

 

La voce Tribuno presente nel Dizionario del linguaggio storico ed amministrativo di Giulio Rezasco della fine dell’Ottocento consente di circoscrivere le direzioni di ricerca e di indicare le fonti della fortuna del tribunato della plebe nelle vicende politiche della Repubblica di Venezia[1]. Per primo punto poniamo il discorso sul piano dell’originaria libertà politica delle istituzioni precedenti alla creazione della Venezia ducale, cioè il legame con i tribuni esistenti nella laguna fra la metà del V e il IX secolo, e poi per secondo argomento analizzeremo l’analogia fra la podestà tribunizia e i compiti dell’Avogaria di Commun in un arco cronologico ampio, esteso cioè fra il ‘500 e il ‘700, nella missione di difesa della legalità costituzionale propria di questa magistratura repubblicana. Infine per terza questione affronteremo la discussione settecentesca sulle proposte di riforme politiche e giuridiche avanzate a Venezia con l’intenzione di comprendere come venne percepita dalla classe di governo il ruolo della magistratura romana nelle dinamiche costituzionali di questa Repubblica d’antico regime[2].

Le fonti che verranno prese in considerazione provengono prevalentemente dalla trattatistica politica sul mito della Repubblica di Venezia, cioè dal cardinale Gasparo Contarini (1543) a Giovan Francesco Pivati (1740), incentrate cioè sull’idea che Venezia rappresentasse la perfezione del modello dello “stato misto”, una forma di governo nella quale fossero armonicamente rappresentati il principio monarchico, le istanze aristocratiche e l’elemento popolare, associando il Senato e il Maggior consiglio al governo dogale. Nel ‘700 la documentazione esaminata comprende le discussioni costituzionali dei principali organi di governo, come il Maggior Consiglio, negli anni fra il 1761 e il 1780. In quel periodo le magistrature repubblicane sono strette attorno ad un conflitto politico che vedeva contrapporsi almeno due concezioni interne al patriziato: da una parte la difesa dello spirito di uguaglianza avvalorata dalla legge e dall’altra il prevalere del principio dell’autorità basato sulla disuguaglianza della ricchezza e della sbilanciata distribuzione del potere[3]. A conclusione del contributo i dispacci dei rappresentanti diplomatici veneziani a Parigi durante la Rivoluzione Francese (1797) e le notizie desunte dalle gazzette stampate a Venezia verso la fine della Repubblica sono indizi di una significativa parabola dell’influenza del tribunato nella città di San Marco ma sono altresì testimonianza della perdurante vitalità di questo dibattito in forza di un centro d’interesse sentito come assolutamente sostanziale[4]. Malgrado i confronti con il tribunato dalle plebe fossero complicati dalla distanza nel tempo dei vari modelli antichi richiamati e dalla disomogeneità dei contesti statuali moderni di confronto essi si rifacevano ad un universo concettuale particolarmente ricco come quello derivato dalla storia romana[5]. A Venezia la difesa della libertà repubblicana era innervata nel patriziato e, benché fosse una dimensione esistenziale rigorosamente circoscritta entro la dialettica interna alla classe di governo, era suscettibile di suggestioni, di approssimazioni e di sviluppi che trascendevano i limiti di questa esperienza storica e giustificano l’opportunità di tali esempi per la storia dell’idea del tribunato della plebe[6].

 

 

1. – I tribuni veneziani nella trattatistica politica dell’età moderna

 

All’origine della storia di Venezia nel periodo compreso fra il V e fino al quarto decennio del IX e poi definitivamente nel X secolo sono presenti nella laguna delle figure di tribuni, cioè di capi o anche di governatori locali, in ciascuna isola, la cui funzione era principalmente di amministrare la giustizia penale e civile. Il contesto storico di riferimento era quello contrassegnato all’inizio del VII secolo dalla lenta ripresa dell’attività espansionistica dei Longobardi nell’entroterra veneziano e dell’intensificarsi dell’emigrazione verso la laguna. Il quadro di svolgimento di queste esperienze tribunizie nell’area costiera bizantina è contrassegnato verso la metà del secolo VIII dalla progressiva crisi dell’impero romano – costantinopolitano. La lacuna della documentazione pervenutaci non permette di proporre delle risposte univoche per la quantificazione precisa del numero dei tribuni, della loro dislocazione geografica e soprattutto della loro continuità o meno fra il costituirsi di un’aristocrazia tribunizia, che era riuscita a rendere ereditaria la dignità, e la successiva formazione del patriziato veneziano[7].

Le fonti non consentono di comprendere con sicurezza la genesi di questa carica che va rapportata alle esigenze di militarizzazione amministrativa della Provincia veneta, e soprattutto al processo di trasferimento del potere al doge (697) a partire dall’VII secolo che si afferma superando le resistenze dell’aristocrazia tribunizia. Il processo del radicamento e della centralizzazione della sede ducale a Rialto (809-811) porta alla decadenza progressiva dei centri minori con la cessazione delle funzioni pubbliche già esercitate dai tribuni in età bizantina[8]. Tale passaggio di attribuzioni è da ritenersi centrale perché, ad esempio alla metà dell’VIII secolo, l’esercizio del potere del doge Domenico Monegario era sotto il controllo di due tribuni, rappresentanti di una “presunta autorità popolare” che era una forma di controllo di sindacato così estraneo e contraddittorio ai presupposti originari della podestà ducale da essere rifiutato dallo stesso designato[9]. L’antica esigenza di affiancare dei tribuni ai dogi per creare un meccanismo organico di limitazione e di controllo dei diritti ducali rappresentò un tentativo che non riuscì a consolidarsi[10].

Il problema del rapporto fra questi tribuni veneziani e quelli della plebe venne posto dai trattatisti dell’età moderna. Per primo negli anni trenta del Seicento dal cittadino veneto Niccolò Crasso nell’Annotazione XXXVIII al suo commento agli scritti di Donato Giannotti e di Gasparo Contarini che si domandava da dove provenisse questa istituzione[11]. L’interrogativo non è privo di significato sia per l’aspirazione veneziana della pretesa originaria libertà politica alla fondazione mitica della città, sia per respingere l’ipotesi (come alcuni sostenevano polemicamente) che il termine derivasse dalla parola tributo e per garantire anche negli inizi della storia di Venezia i primordi di quell’evoluzione naturale che approderà nell’assetto cinquecentesco all’idea di un ordinamento armonico e perfetto[12]. Crasso afferma che l’ufficio di tribuno non era un termine sconosciuto perché esistevano già nell’antica Roma, di cui Venezia non aveva abbandonato il ricordo, la consuetudine di «chiamar coloro, a’ quali fosse qualche carico publico o privato da farsi attribuito»[13].

La questione era nuovamente affrontata in maniera più esplicita in quella sorta di orazione, ideologicamente filtrata, alla gloria e alla libertà di Venezia che erano alla metà del Settecento I principi di storia civile dell’avvocato Vettor Sandi. Alla radice di questo interesse vi era anche la ripresa della controversia cinquecentesca con il teorico dell’assolutismo francese Jean Bodin che nella sua critica complessiva alla rappresentazione aristotelica del “governo misto” sosteneva nell’organizzazione politica alle origini di Venezia la suddivisione nelle isole di tante autonome “Repubblichette”[14]. Questo periodo storico era considerato centrale dal Sandi che vedeva nell’istituzione del tribunato la prima magistratura e nella presunta creazione di un governo libero ed indipendente le radici dell’embrionale aristocrazia veneziana[15]. La connessione con la podestà tribunizia era affermata dal Sandi che fra le ipotesi sulla etimologia dei tribuni veneziani non escludeva che questa istituzione potesse derivare dalla figura del difensore del popolo nell’antica Roma[16].

Tuttavia – afferma il trattatista – a Venezia mancavano ancora quelle altre coordinate istituzionali rappresentate dalla creazione di organi costituzionali, come il Senato, e l’emergere di un nucleo aristocratico che avrebbero potuto rendere il paragone fra i due modelli più pregnante ed evitare che il tribunato di quel periodo, se fosse stato davvero un tribunato della plebe, si trasformasse – secondo il pensiero del Sandi – in un’istituzione che avrebbe reso tutti interamente soggetti a un “protettor della plebe”[17]. Un punto fermo della ricostruzione dell’avvocato era comunque il bisogno dei veneziani dell’assoggettamento ad un’autorità superiore considerata spoglia dalle passioni che era rappresentata dalla legge[18]. In definitiva in una lettura verosimile di questa nebulosa rappresentata dell’antico tribunato veneziano vi era da parte dei trattatisti un bisogno di rivestire e di identificare la sua magistratura delle origini con le prerogative di quell’istituzione che nella Repubblica romana veniva proposta alla difesa della libertà e delle leggi[19].

 

 

2. – La magistratura repubblicana degli Avogadori di Commun

 

L’invenzione di una tradizione tribunizia alle origini della storia di Venezia risultò decisamente minoritaria rispetto ad un’altra identificazione che ebbe poi fra i trattatisti una maggiore vitalità: cioè l’Avogaria di Commun[20]. Malgrado a Venezia compiti di legittimità e di controllo erano attribuiti a più magistrature i tre avogadori, cioè avvocati, del comune in carica per sedici mesi erano una magistratura patrizia di grande autorità e di grande reputazione perché era specificatamente delegata alla custodia delle leggi[21]. All’inizio del ‘500 il trattatista Domenico Morosini aveva sottolineato come fra le prime delle sue funzioni ci fosse la difesa della libertà[22]. Del resto lo stesso patrizio considerava il ruolo del doge, in maniera piuttosto ideale non conforme alla tradizione, come quello di «un grande avogadore»[23].

Nel corso del tardo medioevo e della prima età moderna l’Avogaria di Commun si era venuta sempre più caratterizzando quale opposizione dei torti e delle violenze, come una difesa capace di tutelare i diritti dei singoli e della collettività di fronte alle prepotenze dell’autorità pubblica[24]. I patrizi eletti a questa carica potevano entrare in tutti i consigli e in tutti i collegi veneziani per verificare il rispetto della legalità degli atti emanati potendoli “intromettere” e agitare la causa contro qualunque magistrato che si fosse comportato in maniera disonesta nel proprio ufficio con tanta discrezionalità da decidere a quale consiglio o collegio spettasse il giudizio[25]. L’eventualità di porre in discussione gli atti del governo, sotto il profilo della loro legittimità in base a una valutazione in termini di legalità, comportava l’esercizio di un ruolo di notevole duttilità politica nel quale le singole personalità degli avogadori di commun potevano anche impersonificare dei differenti stili giuridici[26].

La plurisecolare discussione, alimentata dalla rilettura della storia romana, sull’identità di questa magistratura paragonata frequentemente ai tribuni della plebe non la circoscrive alla dialettica politica della vita urbana in cui il tribunato era stato confinato da Max Weber ma investe lo stesso concetto di libertà del dominio veneto[27]. Il fatto che il campo d’intervento degli avogadori di commun fosse esteso alla terraferma veneta era significativo perché, malgrado l’originaria dizione comunale, questa magistratura aveva assunto una competenza di dimensione regionale e svolgeva nella capitale e sul territorio un ruolo di mediazione politica improntato alla difesa della legalità esercitato a tutti i livelli, cioè dal vertice politico fino alla popolazione locale[28]. Ad esempio le lettere avogaresche inviate ai Rettori della terraferma erano in grado di bloccare l’applicazione delle sentenze che non avessero rispettato le formalità previste dalle leggi. Se l’apice di questa magistratura è circoscrivibile fra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, cioè fino a quando l’ascesa del Consiglio dei X ne erose il prestigio politico, ciononostante la presenza dei suoi esponenti nei tentativi di riforma dell’assetto costituzionale a Venezia e nel dibattito sulla razionalizzazione del diritto veneto nel Settecento ci fa comprendere come la sua scomoda esistenza rimanesse un’esigenza sentita ancora a lungo[29].

Per primo a paragonare il “diritto d’intercessione” della podestà tribunizia con i compiti dell’Avogaria di Commun era stato lo storico veneziano Marc’Antonio Sabellico a fine ‘400 nel De venetis magistratibus (1502)[30]. L’argomento era presente pure nell’opera del giurista patavino Guerino Pisone Soacio (m. 1591) De Romanorum et venetorum magistratuum inter se comparatione (1563) che ci conduce alla stessa identificazione con l’acuta sottolineatura della differenza che si trattava di una magistratura patrizia facente riferimento agli organi di governo veneziani e non alla plebe, come era per i tribuni romani. Queste due opere, in particolare quella del Sabellico che nel 1491 pubblicò uno studio sull’origine romana del “praetor”, incarnato nella persona del podestà veneziano, ci portano a contrassegnare il contributo specifico dell’umanesimo giuridico, forgiato nel ricordo di Roma, e delle traduzioni veneziane di Tito Livio in questo confronto istituzionale[31].

Date queste premesse comprendiamo quindi parte del retroterra ideologico entro il quale questa tradizione venne recepita con il dovuto rilievo in un classico della fondazione del mito della Repubblica di Venezia come l’opera Della Repubblica e magistrati di Venezia (1563) di Gaspare Contarini che, riportando la voce della presunta identificazione, ci parla comunque degli avogadori come di “tribuni delle leggi” per non voler fare della confusione fra le due differenti tipologie. A Venezia infatti erano la custodia delle leggi, e non della plebe, la suprema garanzia che i magistrati dovevano far rispettare[32]. La discriminante, a cui non si accennava invece negli scritti, era la presenza del popolo che a Venezia costituiva allora una massa sociale informe senza reali diritti politici[33].

Tuttavia era significativo che lo storico Paolo Paruta riproponendo nei Discorsi politici (1599) la validità dell’esperienza veneziana intravedesse, a differenza del Machiavelli, in un capitolo iniziale dedicato alla storia romana una visione negativa nel ruolo del tribunato della plebe come motivo perturbatore negli equilibri interni della Repubblica romana[34]. Secondo la tradizione veneziana la città doveva la sua esistenza proprio all’indipendenza dal mondo romano. Venezia era riuscita a mantenersi uguale nel suo ordinamento e nella sua libertà politica e allo stesso tempo evitare le lotte di fazione, per un migliaio di anni, raggiungendo la sua perdurante stabilità politica. Alla resa dei conti la sua storia era in netto contrasto con quella considerata turbolenta e militaristica di Roma[35]. Si tratta quindi di una visione diametralmente opposta a quella di Machiavelli che nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, proseguendo una descrizione “sociologica” del patriziato veneziano, presentava il motivo della positività dell’esperienza dei “tumulti” e della “disunione” fra la plebe e il senato per le vicende vissute nell’antica Roma[36].

 

 

3. – La formazione della “plebe” patrizia

 

Per una corretta impostazione del problema del tribunato si comprende quanto furono importanti i processi di impoverimento di una parte del patriziato veneziano che portarono, a partire dal secondo Seicento, alla creazione dei cosiddetti nobili barnabotti, definiti significativamente dai trattatisti come plebe[37]. Nel secolo successivo qualche indizio per una riconsiderazione del valore del tribunato nella storia romana non era mancato se il patrizio Marco Foscarini nell’opera Della perfezione della Repubblica veneziana, composta negli anni venti del Settecento, riconosceva il contributo di questa magistratura nel creare un’atmosfera di concordia e di prudenza fra i diversi ordini a Roma perché la sua istituzione aveva permesso al popolo di partecipare agli onori della città e quindi di motivarlo nell’esporsi con più animo ai pericoli della guerra[38].

Tuttavia è negli anni sessanta del Settecento che riemerge prepotentemente l’identificazione fra i tribuni della plebe e gli Avogadori di Commun nel dibattito sulla “correzione”, cioè la riforma, dell’autorità degli Inquisitori di Stato del 1761. Questi magistrati, come l’Avogadore Angelo Querini, cercavano di recuperare il perduto prestigio della magistratura designata per tenere nell’equilibrio stabilito dalle leggi tutti gli organi di governo e per resistere alle prevaricazioni di tutti i consigli e collegi della Repubblica[39]. In un clima contrassegnato dal vivace ricordo dell’esperienza politica romana, Triumviri e Decemviri venivano significatamente definiti i due schieramenti in esame, sono importanti le voci che circolavano per Venezia raccolte dallo storico di quelle crisi politiche, cioè il funzionario Piero Franceschi[40]. Secondo l’influente segretario dei “correttori” gli Avogadori di Commun con il loro comportamento intransigente nel portare le loro intromissioni presso i principali consigli della Repubblica, come l’assemblea plenaria del patriziato veneziano, miravano al fine di aumentare l’autorità esercitata dagli Avogadori e di far cadere la Repubblica sotto la podestà tribunizia – qui il Franceschi si rifaceva alla classica distinzione introdotta dal Contarini fra i tribuni della plebe e quelli alle leggi – con il creare delle sobillazioni fra il patriziato povero. Gli Stati dovevano essere governati con le leggi, di cui – riconosceva il segretario – non c’è cosa più sacra, ma congiunte con la prudenza e l’esperienza. Il tribunato e l’eloquenza quando vengono usati non per difendere ma per attaccare gli istituti di governo potevano facilmente condurre alla rivolta. Gli Avogadori dovevano essere scelti fra i patrizi più eminenti, anziani ed esperti nelle materie politiche. Il segretario veniva così a proporre delle soluzioni conservatrici inedite, probabilmente non largamente condivise, sicuramente inattuali, come un ruolo più strettamente politico della magistratura filtrato dall’appartenenza alla ristretta gerontocrazia di governo[41].

Il presupposto di queste discussioni politiche era stato un mutamento profondo nella nozione di uguaglianza repubblicana di fronte alla legge e all’equa ripartizione delle cariche patrizie con l’appannaggio di quelle fornite di attribuzioni decisionali, come l’appartenenza al collegio dei savi, da parte di coloro che erano significativamente definiti nelle fonti come i Grandi. L’idea di uguaglianza fra la classe nobiliare era stata sopraffatta dalle acuite differenze economiche e sociali in seno al ceto di governo. In quegli anni il patriziato veneziano era classificabile secondo una stratificazione sociale, a forma di piramide, a seconda della ricchezza e del potere raggiunto dalle famiglie con alla base dei nobili fortemente impoveriti[42]. Malgrado gli Avogadori di Commun continuassero ad essere eletti dallo stesso corpo aristocratico che esprimeva il ceto di governo e la loro azione non si poteva certamente ricondurre alla stregua di un controllo esercitato dal popolo, tuttavia alcuni motivi ispiratori comuni, come il “diritto di resistenza”, si condensavano in questa magistratura che veniva ad interpretare diffusi malesseri sociali[43]. La capacità di resistenza degli Avogadori di Commun al potere degli Inquisitori di Stato, che venne percepito da parte dei nobili di mediocri fortune come “dispotico” e fonte di “prepotenza e di ingiustizia”, venne quindi interpretata dal Franceschi come un “potere negativo” ma esso contribuì ad accelerare la convergenza del patriziato verso quella forma di protesta tipicamente veneziana che era il rifiuto di eleggere i patrizi successori che si alternavano nelle magistrature durante le frequenti mutazioni alle cariche per interrompere l’attività ordinaria delle magistrature[44].

Verso gli anni ottanta del secolo un’esemplare testimonianza di questa crescente tensione che andava allora sviluppandosi fra il patriziato veneziano sui temi della redistribuzione delle terre, della riorganizzazione dei poteri, dell’istruzione pubblica e degli istituti di beneficenza, sono le Riflessioni filosofico - politiche dell’antica democrazia romana del principe Luigi Gonzaga Castiglione. L’autore fin dalla prima pagina si definisce significativamente “difensore” del popolo e in un’ottica democratica, in cui loda la ricostruzione storica del ruolo svolto dal popolo romano dal Machiavelli, delinea il rapporto fra l’usura e la nascita del tribunato della plebe a Roma, con la cui istituzione per cinque secoli il popolo rinnovò il patto originario della primitiva associazione improntata alla libertà e alla felicità, nonché le vicende dei fratelli Gracchi che dovevano servire a meglio intendere la crisi veneziana. Nell’opera in esame l’esempio del tribunato della plebe era persino rapportato alla lotta per le riforme che preparava la rivoluzione ginevrina del 1782 in cui il Gonzaga si domandava: «se i demagoghi di questo popolo illuminato avranno il glorioso successo de’ tribuni romani nella loro intrapresa»[45]. Una disamina coraggiosa e profonda che poteva essere meglio compresa perché nel secondo Settecento esistevano dei profondi legami che univano la Repubblica marciana a quella romana soprattutto in quel tentativo di sottrarre la politica contemporanea alla sfera dell’effimero e del contingente ancorandola alla ricchezza dell’eredità classica[46].

Queste trasformazioni e queste vicende politiche erano congiunte ai tentativi di riforma del diritto veneto avanzati in quegli anni. Sempre al patrizio Zorzi Pisani, che era stato il probabile ispiratore di questo volume di Riflessioni e il protagonista della “correzione”, cioè della riforma, del 1780, era altresì dedicato il V tomo del Dizionario del diritto veneto (1779) dell’avvocato Marco Ferro che rappresentava un ulteriore tentativo di riforma sulla via dell’integrazione ufficiale del diritto veneto con quello comune ma che nella voce Tribuno riprendeva l’analogia fra l’Avogaria di commun e il Tribunato della plebe[47].

Tuttavia la pretesa superiorità di Venezia nel conservare gli antichi usi romani, specialmente nelle magistrature, preoccupandosi di introdurre i necessari correttivi era già stata ripresa nel 1770 in un Trattato del gius pubblico veneto. Nella sua disquisizione sul diritto pubblico l’intellettuale Giovan Francesco Pivati continuando la tradizione laudativa del mito di Venezia considerava gli Avogadori di Commun migliori dei Tribuni della plebe perché erano eletti per la virtù dei loro meriti fra il corpo patrizio[48]. In questa congiuntura straordinariamente feconda la lettura di opere giuridiche poneva interrogativi allora non pienamente sviluppati. Ad esempio la traduzione italiana della Teoria delle leggi criminali (1781) del giurista francese Jacques-Pierre Brissot che entrava nel dibattito sulla codificazione della legislazione criminale a Venezia riportando l’esempio dei plebei romani che erano giudicati dai loro stessi tribuni poneva indirettamente il confronto con il Consiglio dei X che solo a Venezia aveva il privilegio di giudicare i patrizi[49].

Per delineare in termini più generali come il problema venne percepito dall’insieme della classe dirigente lagunare è opportuno soffermarsi sui dispacci con cui l’ambasciatore veneziano a Parigi Alvise Querini descrisse la scoperta nel maggio del 1796 della congiura del teorico e rivoluzionario Gracchus Babeuf (1760-1797) e del suo “giornale incendiario” identificabile nel “La Tribune du Peuple”. Il diplomatico, riportando la varietà delle opinioni desunte dai giornali e i messaggi inviati dal Direttorio al corpo legislativo (“Journal des Débats”), considerò il giornale secondo un’ottica conservatrice, comune al patriziato veneziano, come un’“orrida congiura”[50]. Una valutazione politica che è confermata nel maggio del 1797 dalla corrispondenza dell’avvocato Marco Piazza, un municipalista di idee originariamente moderate, che propose la riabilitazione democratica del trecentesco doge congiurato Baimonte Tiepolo accostandolo con il celebre tribuno della plebe Gracco proprio nel periodo in cui le gazzette rendevano dettagliatamente conto del processo e del destino di Babeuf. Un anacronismo questo passato romano-medievale che era allo stesso tempo – come ben ha colto Franco Venturi – indizio della consistente distanza che separava i presupposti della rivoluzione veneta rispetto a quella parigina[51].

 

 

4. – Un’eredità risorgimentale per il Tribunato veneziano?

 

Questo discorso può essere completato facendo riferimento ad un’altra epoca ed un’altra temperie culturale nella storia dell’idea di tribunato. Anche durante la rivoluzione del 1848-1849 Venezia ebbe un suo giornale popolare il “Tribuno del popolo”, cioè un quotidiano illustrato rimasto allo stato di avviso del primo numero. L’iniziativa del gennaio dello stesso anno era stata promossa dal circolo del popolo di Marc’Antonio Canini anche se non esercitò una reale influenza sulla società veneziana del tempo. Tuttavia il contenuto del foglio non era affatto sedizioso perché fin dalla sua prima pagina sottolineava che i tre baluardi della vita erano: “Religione, patria e famiglia”. Fra le righe, cioè in una parte del patto sociale stretto fra coloro che dovevano cooperare al giornale, veniva riportata fra i propositi di condotta da osservare una sentenza di S. Paolo in cui era scritto: «il vostro ossequio sia ragionevole». Un invito assimilabile a quella tradizione di moderazione, di ordine armonico e di rispetto dell’autorità legittimamente costituita in cui era possibile individuare un aspetto fecondo della tradizione repubblicana maturata nei secoli a Venezia[52].

 

 



 

[1] Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo di Giulio Rezasco, Bologna 1966 (ristampa anastatica dell’edizione Ferrara 1881), 1213. Su Venezia e sul tribunato romano è fondamentale P. CATALANO, Tribunato e resistenza, Bologna 1971, 35-47, 101 che sottolinea la necessità di tener conto del fatto che l’idea di tribunato nella storia come strumento della sovranità popolare può raggiungere gradi differenti di elaborazione concettuale e confronta P. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1983, 22 nota 56. Sulla presenza del “mito” del tribunato della plebe nella letteratura politica cinque-seicentesca, compresa Venezia, vedi R. FERRANTE, La difesa della legalità. I sindacatori della Repubblica di Genova, Torino 1995, 279-343. Per la sopravvivenza dei valori repubblicani a Venezia W. J. BOUWSMA, Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del Rinascimento nell’età della Controriforma, Bologna 1977, 39-82 e soprattutto O. SKINNER, Le origini del pensiero politico: il Rinascimento, Bologna 1989, 245-316.

 

[2] D. GIANNOTTI, Della Repubblica de’ viniziani, in Opere politiche, a cura di F. DIAZ, Milano 1974, 55. FERRANTE, La difesa della legalità, 337. F. DALLA COLLETTA, I principi di storia civile di Vettor Sandi. Diritto, istituzioni e storia nella Venezia di metà Settecento, Venezia 1995, 159.

 

[3] G. GAETA, Venezia da “Stato misto” ad aristocrazia “esemplare”, in Storia della cultura veneta, 6/2, Il Seicento, a cura di G. ARNALDI – M. PASTORE STOCCHI, Vicenza 1986, 438-494 e F. VENTURI, Settecento riformatore, V, L’Italia dei lumi, II, La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1990, 18 e 211.

 

[4] Venezia - Parigi 1795 - 1797. I dispacci di Alvise Querini ultimo ambasciatore in Francia della Repubblica di Venezia, a cura di G. FERRI CATALDI - A. GRADELLA, I-II, Udine 2006, 278-279 e soprattutto 282, 678, 722.

 

[5] FERRANTE, La difesa della legalità, 16.

 

[6] A. VENTURA, Il problema storico dei bilanci generali della Repubblica veneta, in Bilanci generali della Repubblica di Venezia, IV, Bilanci dal 1756 al 1783, a cura di A. VENTURA, Padova 1972, XXXIII-XXXIV e CATALANO, Tribunato e resistenza, 40.

 

[7] Fondamentali le puntualizzazioni di A. CASTAGNETTI, La società veneziana nel Medioevo, I, Dai tribuni ai giudici, Verona 1992, 19-86; G. ZORDAN, L’ordinamento giuridico veneziano. Lezioni di storia del diritto veneziano con una nota bibliografica, Padova 1980, 15-61. Fra la letteratura critica sull’argomento si segnalano gli studi di G. MARANINI, La costituzione di Venezia dalle origini alla serrata del Maggior Consiglio, I, Firenze 1974, 24-53; A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, II/I, Storia del diritto pubblico e delle fonti, a cura di P. DEL GIUDICE, Bologna 1968, 240-249; G. COZZI, Venezia ducale, I, Duca e Popolo, Venezia 1963, 257-261. Della Republica et Magistrati di Venetia. Libri cinque di M. Gasparo Contarini, che fu poi cardinale. Con un ragionamento intorno alla medesima di M. Donato Gianotti fiorentino colle annotazioni sopra li due sudetti autori di Nicolò Grasso, et i discorsi de’ Governi civili di M. Sebastiano Erizzo, in Venetia 1660, c. 432, 451 e 508, 513, 542, 565.

 

[8] CASTAGNETTI, La società veneziana, 21, 87-88, e 135 e ZORDAN, L’ordinamento giuridico, 44, in cui per le presenze di queste figure negli atti pubblici sono sempre due tribuni Buono e Rustico che secondo la leggenda nell’829 trafugano da Alessandria le spoglie dell’evangelista Marco reliquia che venne poi custodita nella cappella ducale attorno alla quale si raccoglieva l’anima veneziana A. CARILE - G. FEDALTO, Le origini di Venezia, Bologna 1978, 19-23 e MARANINI, La costituzione, 56-57.

 

[9] ZORDAN, L’ordinamento giuridico, 34.

 

[10] G. ORTALLI, Il travaglio d’una definizione. Sviluppi medievali del dogado, in I dogi, a cura di G. BENZONI, Milano 1982, 24 e CATALANO, Tribunato e resistenza, 40.

 

[11] C. POVOLO, Crasso, Nicolò, in Dizionario biografico degli italiani, 30, Roma 1984, 573-577. Della Republica et Magistrati di Venetia, c. 477 e seguenti. Sul Contarini vedi G. FRAGNITO, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988, in particolare 15, 234-235.

 

[12] Della Republica et Magistrati di Venetia, c. 494 per la lettera di Cassiodoro ai tribuni marittimi e sull’origine del tribunato p. 494-495. MARANINI, La costituzione, 62.

 

[13] Della Republica et Magistrati di Venetia, c. 477 e seguenti, in particolare p. 499 per un esempio dei tribuni della plebe. CASTAGNETTI, La società veneziana, 12 e 70.

 

[14] Principj di storia civile della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino all’anno di N.S. 1700 scritti da Vettor Sandi nobile veneto. Della parte prima che contiene i tempi sin al 1300. Volume primo sino al 1000, in Venezia 1755, 46. FERRANTE, La difesa della legalità, 301.

 

[15] Principj di storia civile, 44 ss. DALLA COLLETTA, I principi di storia civile, 157-161.

 

[16] Principj di storia civile, 51-52.

 

[17] Principj di storia civile, 51.

 

[18] Principj di storia civile, 49.

 

[19] A. DE BENEDICTIS, Da Confalonieri del popolo a tribuni della plebe: onore, insegne e visibilità di una magistratura popolare (Bologna, XIV-XVI secolo), in Essere popolo. Prerogative e rituali d’appartenenza nelle città italiane d’antico regime, a cura di G. DELILLE e A. SAVELLI, “Ricerche storiche”, 32 (2002), 221.

 

[20] ASV, Compilazione delle leggi, b. 66 e M. SANUDO, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di A. CARACCIOLO ARICÒ, Milano 1989, 97-98. Sull’Avogaria di Commun è fondamentale il breve contributo di G. COZZI, Note sopra l’Avogaria di Comun, in Venezia e la terraferma attraverso le relazioni dei rettori. Atti del convegno, Trieste 23-24 ottobre 1980, a cura di A. TAGLIAFERRI, Milano 1981, 547-557 e G. COZZI, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, 122-125 e 136-142.

 

[21] Sull’argomento è importante A. VIGGIANO, Interpretazione della legge e mediazione politica. Note sull’Avogaria di Comun nel secolo XV, in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Vicenza 1992, 121-131 e A. VIGGIANO, Governanti e governati. Legittimità del potere ed esercizio dell’autorità sovrana nello Stato veneto della prima età moderna, Treviso 1983, 91-123. Malgrado a metà dell’Ottocento il giurista Giandomenico Romagnosi nelle sue Istituzioni di civile filosofia, ossia di Giurisprudenza teorica si riferisse, in un punto non chiaro del suo pensiero, all’“Avvogaria” la sua identificazione con l’ufficio delle suppliche indica una competenza che a Venezia era piuttosto svolta dalla consulta dei savii: per questo importante passo vedi LOBRANO, Il potere dei tribuni, 35-36.

 

[22] C. FINZI, Introduzione, in D. MOROSINI, De bene instituita re publica, Milano 1969, 1-56. ZORDAN, L’ordinamento giuridico, 6. FERRANTE, La difesa della legalità, 287.

 

[23] L. VON RANKE, Venezia nel Cinquecento, Roma 1974, 156. Interessante la ricostruzione di G. COZZI, Domenico Morosini, Niccolò Machiavelli e la società veneziana, in Ambiente veneziano, ambiente veneto. Saggi su politica, società, cultura nella Repubblica di Venezia in età moderna, Venezia 1997, 113 ss.

 

[24] VIGGIANO, Interpretazione della legge, 121-122.

 

[25] FERRANTE, La difesa della legalità, 290.

 

[26] VIGGIANO, Interpretazione della legge, 125.

 

[27] M. WEBER, Storia economica. Linee di una storia universale dell’economia e della società, Roma 1997 e soprattutto M. WEBER, La città, Milano 1950, 115-120.

 

[28] FERRANTE, La difesa della legalità, 5 e 293.

 

[29] COZZI, Note sopra l’Avogaria di Comun, 547-557.

 

[30] B. DUDAN, Sindacato d’oltremare e di terraferma. Contributo alla storia di una magistratura e del processo sindicale della Repubblica veneta, Roma 1935, 53. Ad esempio vedi P. MOLMENTI, Curiosità di storia veneziana, Bologna 1919, 364-365.

 

[31] DUDAN, Sindacato d’oltremare, 21 e 53, D. MAFFEI, Gli inizi dell’umanesimo giuridico, Milano 1968, 118-119. L’ideale del Sabellico era l’imitazione dei classici di cui Tito Livio rappresentava il suo preferito G. COZZI, Cultura, politica e religione nella “pubblica storiografia” veneziana del ‘500, in Ambiente veneziano, ambiente veneto. Saggi su politica, società, cultura nella Repubblica di Venezia in età moderna, Venezia 1997, 19 nota 11. Sullo studio di alcuni passi di Livio nel Quattrocento per le conoscenze sul tribunato della plebe DE BENEDICTIS, Da Confalonieri del popolo, 233-234.

 

[32] Della Republica et Magistrati di Venetia, c. 101-109. Confronta COZZI, Repubblica di Venezia, 139-140.

 

[33] A. ZANNINI, L’identità multipla: essere popolo in una capitale (Venezia, XVI-XVIII secolo), in Essere popolo. Prerogative e rituali d’appartenenza nelle città italiane d’antico regime, a cura di G. DELILLE e A. SAVELLI, “Ricerche storiche”, 32 (2002), 247-262.

 

[34] GAETA, Venezia da “Stato misto”, 438-494. P. PARUTA, Discorsi politici nei quali si considerano diversi fatti illustri e memorabili di principi e di Repubbliche antiche e moderne, a cura di G. CANDELORO, Bologna 1943, 5-35. SKINNER, Le origini del pensiero politico, 249-250. FERRANTE, La difesa della legalità, 303.

 

[35] BOUWSMA, Venezia e la difesa, 73-74. 

 

[36] I. CERVELLI, Machiavelli e la crisi dello Stato veneziano, Napoli 1974, 229. N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio seguiti dalle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli di Francesco Guicciardini, a cura di C. VIVANTI, Torino 2000, 16-18, 117-121. Sulla valutazione negativa che Machiavelli aveva per Venezia F. GILBERT, Machiavelli e Venezia, in Machiavelli e il suo tempo, Bologna 1977, 319-334.

 

[37] V. HUNECKE, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica 1646-1797. Demografia, famiglia, ménage, Roma 1997, 63.

 

[38] M. FOSCARINI, Necessità della storia e della perfezione della Repubblica veneziana, a cura di L. RICALDONE, Milano 1983, 180.

 

[39] C. GRIMALDO, Giorgio Pisani e il suo tentativo di riforma, Venezia 1907, 10. VENTURI, Settecento riformatore, 18.

 

[40] Biblioteca del museo civico Correr, Venezia, mss. Cicogna 2276, P. FRANCESCHI, Istoria dei correttori eletti nell’anno 1761, scritta da Pietro Franceschi, segretario delli stessi, c. 123 e 212.

 

[41] Biblioteca del museo civico Correr, Venezia, mss. Cicogna 2276, P. FRANCESCHI, Istoria dei correttori eletti nell’anno 1761, scritta da Pietro Franceschi, segretario delli stessi, c. 20 e confronta c. 170. FERRANTE, La difesa della legalità, 330-331.

 

[42] HUNECKE, Il patriziato veneziano, 63.

 

[43] FERRANTE, La difesa della legalità, 305 e 340.

 

[44] VENTURI, Settecento riformatore, 17-19. A. DE BENEDICTIS, Identità comunitarie e diritto di resistere, in Identità collettive tra Medioevo ed età moderna. Convegno internazionale di studio, a cura di P. PRODI e W. REINHARD, Bologna 2002, 265-294 e M. CASTELLI, In tema di destabilizzazione, “Aggiornamenti sociali”, 4 (1981), 283. Confronta P. CATALANO, Sovranità della Multitudo e potere negativo: un aggiornamento, in Studi in onore di Gianni Ferrara, I, Torino 2005, 657-658.

 

[45] VENTURI, Settecento riformatore, 207-214. F. VENTURI, L’ultimo dei Gonzaga alla ricerca della democrazia, in Studi storici in onore di Luigi Firpo, II, Ricerche sui secoli XVII-XVIII, Milano 1999, 773-808. Sulla rivoluzione ginevrina del 1782 vedi F. VENTURI, Pagine Repubblicane, a cura di M. ALBERTONE, Torino 2004, 111-128 tratto da F. VENTURI, Settecento riformatore, IV, La caduta dell’antico regime, 1776-1789, II, Il patriottismo repubblicano e gli imperi dell’Est, Torino 1984, 465-471, 474-475, 477-479, 483-488.

 

[46] P. DEL NEGRO, La classicità nella cultura politica veneziana del Settecento, “Studi veneziani”, N.S. 23 (1992), 183. Fra gli storici settecenteschi francesi la discussione sul tribunato e in generale verso i conflitti interni di Roma fu ampia ed articolata oscillante fra posizioni d’ammirazione e di critica vedi L. GUERCI, Principio aristocratico e principio popolare nella storia della Repubblica romana. Louis De Beaufort e la discussione con Montesquieu, in Modelli nella storia del pensiero politico, I, Saggi, a cura di V. I. COMPARATO, Firenze 1987, 191-217 e J.-M. GOULEMOT, Sul repubblicanesimo e sull’idea repubblicana nel XVIII secolo, in L’idea di Repubblica nell’Europa moderna, Roma - Bari 1993, 21-22. Nella terraferma veneta un’eccezione è costituita dall’opera rimasta lungamente inedita di S. MAFFEI, Del governo de’ Romani nelle provincie, che nel recupero dei modelli sociali e culturali creati dal mondo romano passando per la letteratura giuridica del ‘500 giunge ai dibattiti culturali sul rinnovamento del diritto nella Repubblica di Venezia A. OLIVIERI, A proposito di una riedizione del libro Maffeiano sul governo provinciale romano, “Archivio veneto”, s. V. 134 (1990), 145-146. 

 

[47] VENTURI, Settecento riformatore, 207 e G. FERRO, Dizionario del diritto comune e veneto, II, Venezia 1847, ad vocem Tribuno. COZZI, Repubblica di Venezia, 375.

 

[48] DEL NEGRO, La classicità, 185.

 

[49] G. COZZI, Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale veneto nel Settecento, in Sensibilità e razionalità nel Settecento, a cura di V. BRANCA, II, Firenze 1967, 373-421, in particolare 398.

 

[50] Venezia - Parigi 1795 - 1797, 278-279 e soprattutto 282, 678, 722.

 

[51] P. PRETO, Baimonte Tiepolo: traditore della patria o eroe e martire della libertà?, in Continuità e discontinuità nella storia politica, economica e religiosa. Studi in onore di Aldo Stella, Vicenza 1993, 238.

 

[52] “Il Tribuno del popolo”, Programma, 11 gennaio 1849, capitolo XX, 105-115; CATALANO, Tribunato e resistenza, 105-115 e P. GINSBORG, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Torino 2007.