N. 6 – 2007 – Tradizione
Romana
Università
di Sassari
Religione e poteri del popolo in Roma repubblicana*
Sommario: 1. Premessa. – 2. Religione, popolo, imperium populi romani. – 3. Pregiudizi moderni sulla
religione politeista romana: «Isolierung» e «laicizzazione».
– 4. Religio
e pax deorum. – 5. Ius publicum, iussum populi
e religio nella scienza giuridica del
III secolo a.C. – 6. Poteri del populus Romanus in materia religiosa: interpretatio pontificale in tema di ver sacrum
e iussum populi.
Le
elaborazioni teologiche e giuridiche dei sacerdoti romani, rilevabili anche
nelle versioni annalistiche delle più antiche vicende storiche di Roma,
hanno sempre postulato un rapporto di imprescindibile causalità tra la religio[1] e tutte le manifestazioni più
significative della vita e della
storia del Popolo romano[2].
Teologia
e ius divinum spiegavano che la
volontà degli dèi aveva concorso alla fondazione dell’Urbs Roma[3];
ne aveva sostenuto la prodigiosa e costante “crescita” del numero
dei cittadini (civitas augescens, per
usare la felice espressione del giurista Pomponio, conservata dai compilatori
dei Digesta Iustiniani[4]);
infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la
sua estensione sine fine[5].
Una
simile percezione del diritto e della storia in parte spiega – ed in
parte determina – il ruolo della religione nella dinamica dei rapporti
tra cittadini, istituzioni e poteri nel sistema giuridico religioso romano[6].
Gli
antichi Romani attribuivano al favore degli dèi l’egemonia
mondiale ormai acquisita alla fine dell’età repubblicana.
Tuttavia, erano anche coscienti del fatto che ciò non sarebbe potuto
accadere senza alcun merito: essi, infatti, ritenevano di aver superato tutti
gli altri popoli, per sensibilità e cautela verso la religio[7].
Al
riguardo, appaiono davvero fondamentali le definizioni ciceroniane di religio[8],
in cui la parola risulta utilizzata quasi sempre nel senso di “culto
degli dèi”[9]:
due passi del trattato “sulla
natura degli dèi” lasciano intravedere con grande chiarezza
questa legittimazione teologica (e giuridica) dell’imperium del Popolo romano.
Cic. De
nat. deor. 2.8: Quorum exitio
intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus
paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut
pares aut etiam inferiores reperiemur, religione,
id est cultu deorum, multo superiores[10].
Cic. De
nat. deor. 3.5: Cumque omnis populi
Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit si
quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sibyllae interpretes
haruspicesve monuerunt, harum ego religionum nullam umquam contemnendam putavi
mihique ita persuasi Romulum auspiciis, Numam sacris constitutis fundamenta
icisse nostrae civitatis, quae numquam
profecto sine summa placatione deorum immortalium tanta esse potuisse[11].
Nel
primo testo, Cicerone sostiene che neglegere
la religio ha sempre determinato
intollerabili vulnera al Popolo
romano, come appunto gli esempi storici menzionati; mentre l’osservanza
della religio non può che
produrre, nella dinamica della storia, la costante amplificatio della res
publica: almeno finché i Romani continueranno ad essere, rispetto
agli altri popoli, «religione, id
est cultu deorum, multo superiores»[12].
Nel
secondo passo, Cicerone fa delineare a C. Aurelio Cotta[13]
i principali campi della religio
(«les deux grandes divisions, exhaustives, de la religion», come ha
scritto Georges Dumézil[14]),
teorizzando che essa in sacra et in
auspicia divisa sit. Da questo passo, emerge con chiarezza che sacra e auspicia, non solo costituiscono i due principali campi della religio, ma devono essere considerati
più propriamente gli originari fundamenta
(riferibili, infatti, alle origini dell’Urbs di Romolo e di Numa Pompilio) della res publica[15].
Emerge anche la convinzione che l’estensione “mondiale”
dell’imperium populi Romani
sarebbe stata impossibile sine summa
placatione deorum immortalium.
La
sottolineatura del carattere provvidenziale dell'impero è motivo ricorrente
in diverse opere ciceroniana: così, nell'orazione De haruspicum responsis si legge che per pietas e religio
omnis gentis nationesque
superavimus[16];
mentre nell'orazione pro Milone, la imperi nostri magnitudo viene presentata in strettissima connessione
con la
maiorum nostrorum sapientia, qui sacra, qui caerimonias, qui auspicia et
ipsi sanctissime coluerunt et nobis suis posteris prodiderunt[17].
Questa
consapevolezza del ruolo esercitato dalla religio
nella vita della comunità romana costituiva un motivo ricorrente per la
storiografia latina. Così, ad esempio, nella Catilinae coniuratio[18],
lo storico dei populares C. Sallustio
Crispo[19]
contrapponeva l’esempio dei nostri
maiores, religiosissimi mortales, alla corrotta decadenza dei
contemporanei, rimarcando con nostalgia e rimpianto, soprattutto che illi, a differenza di questi ignavissumi homines del suo tempo[20],
delubra deorum pietate, domos suas gloria
decorabant[21].
Allo
stesso modo Tito Livio, nei libri ab urbe
condita, ha caratterizzato la città di Roma[22]
come il luogo massimamente votato alla religione[23].
Nell’opera liviana (Liv. 5.51.4-5) si trova riaffermata più volte
la convinzione che la storia dei Romani costituisse una prova inconfutabile di
come omnia prospera evenisse sequentibus
deos[24].
Lo storico considerava la pietas e la
fides[25]
elementi essenziali per la legittimazione divina dell’imperium dei Romani. A suo avviso, gli
dèi si sarebbero mostrati, in ogni circostanza, più ben disposti
verso coloro i quali praticano la pietas
ed onorano la fides: favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii
venerit[26].
Anche
Valerio Massimo[27]
sottolineava, quale elemento basilare e caratterizzante della civitas romana, il principio omnia namque post religionem ponenda semper nostra
civitas duxit. Spiegava, infatti, l’autore dei Facta et dicta memorabilia[28]
che per questa ragione i titolari della summa
maiestas non avevano mai esitato a
mettersi a disposizione della civitas
per il compimento dei riti sacri, stimando che avrebbero avuto il governo del
mondo, se avessero servito bene e costantemente il potere degli dèi[29].
L’ultima
testimonianza, che intendo proporre, proviene dal campo avverso alla religione
politeista romana. Si tratta della testimonianza di Q. Settimio Fiorente
Tertulliano[30],
vero padre della letteratura latina cristiana, il quale alla fine del II secolo
d.C., nel suo Apologeticum[31],
contestava le misure repressive anticristiane con precisi riferimenti a nozioni
giuridiche romane[32]
e polemizzava contro i molti dèi della religione tradizionale. La
polemica di Tertulliano in difesa della causa
Christianorum[33]
tende, soprattutto, a dimostrare infondata la base teologica e giuridica della
religione politeista romana: vale a dire, illa
praesumptio secondo cui i Romani sarebbero stati innalzati fino al dominio
del mondo (ut orbem occuparint), solo
in ragione della grandissima pietà religiosa (pro merito religionis diligentissimae), in quanto gli dèi
concedono il massimo della potenza ai popoli che più degli altri li
venerano[34].
Discutendo
della separazione tra diritto ‘divino’ e diritto
‘umano’ in Roma antica, Rudolph von Jhering[35],
in una pagina del suo Geist des
römischen Rechts, sottolineava il carattere originario, e improntato
su tale separazione, dell'antitesi fas/ius:
quasi che con essa il Popolo romano fin dalle sue origini avesse «voluto
manifestare la sua missione per il mondo giuridico»; anche se poi il
grande studioso tedesco, con lo spiccato senso storico che lo caratterizzava,
non poteva esimersi dal rilevare quanto la separazione fosse piuttosto teorica[36].
Questa
posizione esercitò notevole influenza sulla dottrina successiva, la
quale in maniera pressoché unanime riteneva peculiarità
tipicamente romana il fatto che fra i popoli dell'antichità «il
romano fece più presto degli altri a distinguere la religione dal
diritto, e fu questa una causa del suo progresso»[37].
Dobbiamo
a Fritz Schulz la più netta teorizzazione del processo di separazione
tra religione e diritto nell'esperienza giuridica romana. Negli anni trenta del
Novecento, lo studioso tedesco ha proposto la sua celebre teoria
dell'«Isolierung»[38],
che si legge nell’omonimo capitolo dei Prinzipien des römischen Rechts[39].
Com'è noto, lo studioso tedesco riteneva che la maggiore gloria della
giurisprudenza romana consistesse proprio in quella sua capacità,
manifestatasi già in epoca assai risalente, «di distinguere il
diritto dal non diritto, di delimitare il campo del diritto e di ridurre
l'ordinamento giuridico ad un sistema autonomo» («La legge delle
XII Tavole contiene esclusivamente norme giuridiche, e la giurisprudenza
successiva ha proseguito la separazione, con rigore romano, anche nelle materie
non regolate da leggi»)[40].
Tuttavia,
anche entro il dominio del diritto procede il lavoro di separazione e di
isolamento. In tal modo, a parere dello Schulz furono nettamente separati, fin
dalla prima età repubblicana, «il diritto sacro ed il
profano»[41].
Seguì la separazione «ancora più importante» dello ius publicum
dallo ius privatum[42];
ed infine, anche entro il diritto privato si operano separazioni
ulteriori»[43].
Riguardo
all'impostazione dello studioso tedesco (e dei suoi più o meno
dichiarati sostenitori), mi pare da condividere l'osservazione formulata, con
grande acutezza, da Mario Piantelli: «l'indipendenza della sfera
giuridica da quella religiosa, sentita quasi come valore da difendere, si viene
a sovrapporre all'impostazione metodologica di fondo nell'approccio alla
realtà della Weltanschauung
romana arcaica, col rischio di deformare irreparabilmente la nostra
possibilità di comprensione di quest'ultima»[44].
D'altra
parte, lo Schulz si muoveva in un universo normativo di tipo kelseniano, dove
la separazione procede essenzialmente da norma a norma; non sviluppo di una
nuova realtà, dunque, ma scoperta e isolamento di una realtà
preesistente. Inoltre tale concezione presuppone che la giuridicità
della norma costituisca una caratteristica obiettivamente accertabile e che
morale, religione e mores siano
ordinamenti normativi non giuridici[45].
Pur
con precisazioni e distinguo, la teoria dello Schulz sulla separazione tra religione
e diritto ha avuto un vasto seguito nella dottrina romanistica. Basterà
ricordare, giusto a titolo di esempio, le posizioni di Max Kaser, a giudizio
del quale in Roma arcaica «l’uomo primitivo fu a presupposti di
carattere religioso molto più legato dei suoi evoluti posteri, e la
progressiva “laicizzazione” delle sue concezioni si inquadra nello
sviluppo storico generale della civiltà»[46].
Oppure quelle sostenute da Carlo Gioffredi, per il quale nell'esperienza romana
non vi sarebbe mai stata commistione tra religione e diritto, ma soltanto una
sovrapposizione di piani differenti)[47];
e da Giovanni Pugliese: questo studioso, più cauto, si avvicina solo in
parte alle tesi dello Schulz, quando scrive: «Nessuno dubita che nel
periodo romano primitivo religione e diritto siano stati intrinsecamente
connessi, sebbene incertezze possano regnare fra gli studiosi circa
l'intensità e i modi di tale connessione»)[48].
Fino ad arrivare alle più recenti opinioni di Franz Wieacker, per il
quale non c'è affatto bisogno di postulare una identità
originaria tra la sfera della vita religiosa e la sfera della vita giuridica[49],
mentre insiste sulla «Isolierung» dello ius come «Teilsystem», che ha origine nelle
rappresentazioni giuridiche dell'età arcaica e nella sapienza specialistica
del collegio pontificale[50].
Mi
pare di poter concludere questa discussione sulle caratteristiche
dell'autonomia del diritto nel mondo romano, rilevando l'insufficienza di
concetti quali «isolamento» e «laicizzazione»[51]
per dipanare i fili assai consistenti che legano ius e religio in Roma
repubblicana[52].
Costituirebbe
ugualmente un grave errore metodologico, assumere come parametro
d’indagine categorie quali «libertà individuale»[53],
o «tolleranza» e «intolleranza», per quanto
l’immagine della religione romana come religione tollerante costituisca
un motivo ormai accettato in maniera quasi unanime dalla dottrina più
recente[54].
Alla
base di tutto questo stava la concezione teologica (e giuridica) di pax
deorum[55],
che pure «fu dunque al centro della polemica contro il Cristianesimo e fu
alla radice di molte (e certamente delle più importanti) iniziative
persecutorie»; essa costituiva «motivo di tolleranza e principio di
libertà religiosa» per gli altri gruppi religiosi estranei alla
tradizione romana; assicurando nei fatti «il riconoscimento alla
coscienza dei singoli, da parte dell'autorità romana, di una sorta di
libertà religiosa»[56].
I
sacerdoti romani postularono, fin dalle prime attestazioni della memoria
storica e documentaria delle loro attività, un legame indissolubile tra
la vita del Popolo romano e la sua religio; per questa ragione riti e culti
della religione politeista furono sempre finalizzati al conseguimento e alla
conservazione della pax deorum[57],
pace degli dèi, ma da intendere nel senso di pace con gli Dèi[58].
La conservazione della pax deorum richiedeva una perfetta
conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla; degli atti che mai
dovevano essere compiuti nel tempo e nello spazio; delle parole che mai
dovevano essere pronunciate[59].
Nell'antitesi
fas/nefas[60],
fondata sul sentimento che spazio e tempo appartenessero agli Dèi, si
manifestava compiutamente la peculiarità dei rapporti tra uomini e
divinità nel sistema giuridico-religioso romano: in un sistema,
cioè, in cui la distinzione tra il “divino” e
l'“umano” rappresentava «la più antica concezione
romana del mondo»[61].
Tale concezione del mondo è il risultato della cautela definitoria e
della tensione universalistica della teologia sacerdotale[62].
Per la
vita del popolo romano si riteneva indispensabile il permanere di una
situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e dèi[63],
considerati anch’essi parte del sistema giuridico-religioso; certo la
più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che si
riconosceva alle divinità[64].
Marco
Tullio Cicerone doveva avere ben presente questa concezione della religio, quando scriveva nel de legibus che gli dèi e gli
uomini appartengono alla medesima societas,
alla medesima civitas[65]
e che la loro associazione riposa nella comunanza della legge: lege quoque consociati homines cum dis
putandi sumus[66].
Dal
punto di vista umano (cioè dello ius
sacrum), il «legalismo
religioso»[67]
dei sacerdoti romani configurava la pax
deorum come una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività
e individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore
degli dèi. Si spiega così la precisione con cui
l’annalistica romana, erede diretta dell’attività
“storiografica” del collegio dei pontefici[68],
annottava fatti ed accadimenti suscettibili di turbare la pax deorum; documentando anche i riti e le cerimonie posti in
essere per espiare[69].
La
conservazione della pax deorum
costituiva il fondamento e la ratio
di tutte le procedure operative dei riti pubblici e privati[70];
al tempo stesso, era considerata la più solida garanzia
dell’organizzazione politica romana. Non senza ragione essa costituiva,
quindi, materia dello ius del Popolo
romano (ius publicum), tripartito in sacra, sacerdotes, magistratus nel De legibus di Cicerone[71]
e nella celebre definizione del giurista Ulpiano[72].
Riguardo
alla tripartizione dello ius publicum,
è stato sostenuto, con buone ragioni, che si tratta «di una
suddivisione propria della giurisprudenza repubblicana, tracciata in spontanea
adesione ai documenti sacerdotali e magistratuali»[73].
Credo di aver dimostrato, nel mio libro dedicato ai documenti sacerdotali, che
la concezione ciceroniana e ulpianea affonda le sue radici in elaborazioni
sacerdotali di età precedente al “pareggiamento” tra patrizi
e plebei, o di età appena successiva; riflettendo una gerarchizzazione
antica delle parti dello ius publicum[74].
La conservazione tenace dei sacerdoti e il carattere sacerdotale della
giurisprudenza medio-repubblicana[75]
hanno consentito all'antica partizione dello ius publicum, di affermarsi nella sistematica giurisprudenziale del
III e II secolo a.C., fino ad essere poi riproposta in funzione politica nel I
secolo.
Ai
fini del nostro tema, possono risultare di grande utilità alcuni
contributi alla iuris scientia dei
giuristi del III secolo a.C.[76].
Un secolo emblematico e significativo per la storia della scienza giuridica
romana; che si apre con la lex Ogulnia de
sacerdotibus ex plebe creandis, cioè con l'ammissione dei plebei ai
collegi sacerdotali[77],
e si chiude con i tripertita di Sesto
Elio Peto, peraltro egli stesso appartenente ad una famiglia di tradizione
sacerdotale[78].
Fu un
secolo di sviluppo della giurisprudenza romana interamente caratterizzato
dall'azione di pontefici-giuristi, i quali mostrarono di possedere una
molteplicità di interessi che investiva i diversi (ma non separati)
campi dello ius: sacrum, publicum, privatum. Si tratta di giuristi quali P.
Sempronio Sofo, Tiberio Coruncanio, L. Cornelio Lentulo, P. Licinio Crasso:
sacerdoti, ma soprattutto cultori di ius
sacrum e di ius publicum.
La
dottrina moderna, con alcune eccezioni, ha sottovalutato il contributo alla iuris scientia di questi giuristi;
forse, in ragione delle tematiche dibattute, spesso difficili da classificare
negli schemi giuridici contemporanei; oppure, a causa dell'atteggiamento
preclusivo verso il problema dell'interazione tra ius pontificium e ius civile
presente nella romanistica odierna[79].
Lo
studio dei giuristi romani dell’età medio-repubblicana ci pone di
fronte a questioni essenziali, quali il problema della commistione tra ius sacrum, ius publicum, ius privatum;
o il valore delle fonti che tramandano frammenti di questi giuristi[80].
Ora la
discussione sarà alquanto sommaria: mi permetto, tuttavia, di rimandare
per gli eventuali approfondimenti ad un mio libro, dedicato appunto ai giuristi
del III secolo a.C.[81].
Riguarda
proprio lo iussum populi
l’intervento di P. Sempronio Sofo[82]
sul conflitto delle leggi (Liv. 9.34.7)[83]:
si tratta di una interpretatio iuris
publici («Ubi duae contrariae
leges sunt, semper antiquae obrogat nova»[84]),
che il giurista argomenta sulla base della norma decemvirale: «quodcumque postremum populus iussisset, id
ius ratumque esset»[85].
Il
frammento costituisce una solida prova dell'interesse del ceto dirigente plebeo
per l'evoluzione del diritto e per l'interpretatio
del codice decemvirale, anche prima dell'ammissione degli stessi plebei ai
sacerdozi[86].
Dall’esame
dei frammenti di questi sacerdoti-giuristi emerge la coerenza dell'interpretatio; una raffinata concretezza
ed un’ammirevole perizia nella teologia; nonché la costante
interazione tra ius sacrum, ius publicum,
ius privatum. Pur nella varietà dei temi trattati, il motivo
dominante della riflessione teologica e giuridica di questi sacerdoti-giuristi,
severi custodi ed interpreti ufficiali della religio, appare la superiorità del populus e dello iussum populi
(Sempronio Sofo, Cornelio Lentulo); da ciò conseguono singole
riflessioni su poteri e prerogative dei sacerdotes
populi Romani e dei magistratus
populi Romani (Tiberio Coruncanio, Licinio Crasso, Cornelio Lentulo), e l'interpretatio delle XII Tavole
(Sempronio Sofo, ma soprattutto Sesto Elio Peto)[87].
La
tradizione documentaria pontificale e la prassi interpretativa del collegio
negavano ab antiquo che il magistrato
avesse il potere di offrire vota publica[88]
senza il preventivo assenso del popolo; in altre parole, la giurisprudenza
sacerdotale[89]
considerava lo iussum populi requisito
indispensabile per l'assunzione del vincolo obbligatorio nei confronti degli
dèi[90],
e quindi per la validità del rito.
In
tema di vota publica, merita di
essere presentata una interpretatio
del pontefice massimo L. Cornelio Lentulo, che verteva sulle modalità
del più grande e solenne dei vota
publica: il voto della “primavera sacra” (ver sacrum vovere)[91],
con il quale il magistrato sottoponeva all’approvazione del populus la promessa di consacrare agli
dèi tutto ciò che la natura avrebbe generato in una prossima
primavera: vegetali, animali, uomini. Per adempiere al voto era necessario
offrire alle divinità i prodotti della natura e sacrificare tutti gli
animali, mentre in età storica si risparmiavano gli esseri umani[92].
Console,
censore e pontefice massimo nella seconda metà del II secolo a.C.[93],
L. Cornelio Lentulo fu personaggio politico di primo piano negli anni cruciali
della seconda guerra punica: la storiografia antica lo presenta come «il
principale sostenitore della guerra»[94],
dichiarato avversario del gruppo "pacifista" che faceva capo a Fabio
Massimo, al punto da restarne poi nella memoria di quella tradizione unico
antagonista[95].
La
formula solenne del ver sacrum[96]
è conservata in un noto passo di Tito Livio, che documenta anche il
responso (pro collegio) del pontefice massimo L. Cornelio Lentulo a difesa dello iussum populi in materia di vota publica; contro ogni
interpretazione estensiva dei poteri magistratuali (iniussu populi voveri non posse).
Liv. 22.10.1-6: His senatus consultis perfectis L. Cornelius Lentulus pontifex maximus
consulente collegium praetore omnium primum populum consulendum de vere sacro
censet; iniussu populi voveri non posse. Rogatus in haec verba populus:
«Velitis iubeatisne haec sic fieri? Si res publica populi Romani
Quiritium ad quinquennium proximum, sicut velim eam salvam, servata erit hisce
duellis, quod duellum populo Romano cum Carthaginiensi est, quaeque duella cum
Gallis sunt, qui cis Alpe sunt, tum donum duit populus Romanus Quiritium: quod
ver attulerit ex suillo, ovillo, caprino, bovillo grege, quaeque profana erunt,
Iovi fieri, ex qua die senatus populusque iusserit. Qui faciet, quando volet
quaque lege volet, facito; quo modo faxit, probe factum esto. Si id moritur,
quod fieri oportebit, profanum esto neque scelus esto; si quis rumpet occidetve
insciens, ne fraus esto; si quis clepsit, ne populo scelus esto, neve cui
cleptum erit; si atro die faxit insciens, probe factum esto; si nocte sive
luce, si servus sive liber faxit, probe factum esto; si antidea, <quam>
senatus populusque iusserit fieri, faxitur, eo populus solutus liber
esto»[97].
Il
testo liviano testimonia l’interpretatio
iuris e la perizia cautelare del pontefice massimo, il quale si
mostrò severo custode delle prerogative giuridiche e religiose del populus Romanus, in occasione del ver
sacrum votato agli dèi nel
Nel
testo liviano meritano la nostra attenzione due questioni differenti: la prima
consiste nella netta riaffermazione dei poteri popolari in materia di religio; la seconda riguarda invece la
struttura della formula del ver sacrum[100].
Quanto
al primo aspetto, bisogna respingere la tentazione di collegare in maniera
schematica l'interpretatio del pontefice
massimo alle vicende politiche di quegli anni: caratterizzati dalla rinnovata
iniziativa politica del movimento popolare romano[101].
Si perseguiva, con costante determinazione, una maggiore subordinazione dell'imperium dei magistrati al potere popolare;
andava in tal senso l’innovazione di far eleggere dal popolo il dittatore
e di estensione i limiti della provocatio
anche all’imperium di questo
magistrato[102].
è da credere, piuttosto, che
nello stabilire soggetti e procedure per il ver
sacrum, l'interpretatio iuris del
pontefice L. Cornelio Lentulo abbia fatto ricorso ai documenti del collegio,
che «une étude sérieuse des Commentaires»[103]
gli permetteva di padroneggiare. Il pontefice-giurista non ignorava la
casistica della più antica giurisprudenza pontificale, né la
tradizione interpretativa dei sacerdoti in materia di vota publica e di dedicationes
in loco publico. I sacerdoti ritenevano, ab antiquo, lo iussum populi
requisito indispensabile per l'assunzione del vincolo obbligatorio nei
confronti degli dèi, e quindi, per la validità di tali atti di
culto[104];
anche quando ad offrire il voto fosse lo stesso magistrato.
La
formula del ver sacrum costituisce
uno splendido testo «dont l'armature, sinon tous les mots, paraît
authentique»[105];
la forma linguistica, pur rammodernata, lascia trasparire arcaismi tipici delle
formule solenni del più conservativo linguaggio sacerdotale[106].
Una
breve riflessione merita poi la struttura giuridica della formula, dettata dal pontefice massimo per il votum del ver sacrum.
Alla circostanziata precisazione delle cose offerte in voto, segue una serie di
clausole liberatorie, in cui la perizia giurisprudenziale e teologica del
pontefice-giurista è tutta protesa a garantire che la pax deorum non sia turbata da
comportamenti delittuosi di privati cittadini, intenzionali o
preterintenzionali. Insomma, si vuole assicurare che scelus e inscientia dei
singoli cittadini non possano procurare alcun danno al populus Romanus[107].
Da
notare, infine, come le clausole della formula attestino uniformità e
continuità nell'interpretazione del collegio pontificale: intendo
riferirmi alla clausola si atro die faxit
insciens, probe factum esto, che sembra improntata ad un decreto reso dai
pontefici circa trent'anni prima, per giudicare corretta una singolare azione
rituale di Tiberio Coruncanio, il quale aveva celebrato feriae praecidaneae in dies
ater[108].
*
Comunicazione presentata nel XI Colloquio dei romanisti dell’Europa
Centro-Orientale e dell’Asia “Persona
e popolo nel sistema del diritto romano. Difesa dei diritti civili e difesa dei
debitori. Recezione del diritto romano nel sistema giuridico attuale.
Necessità dell’insegnamento del diritto romano”,
organizzato a Craiova, in Romania, nei giorni 1-3 novembre 2007, dalla
Facoltà di Diritto e Scienze Amministrative “Nicolae
Titulescu” dell’Università di Craiova, in collaborazione con
l’Unità di ricerca
“Giorgio La Pira” del CNR, l’Università di Roma
“La Sapienza” e il Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto
romano.
[1] Per significati e spettro semantico della parola, cfr. H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine (Paris
1963) 172 ss.; é. Benveniste,
Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion (Paris 1969) 265 ss.; H.
Wagenvoort, Wesenzüge
altrömischer Religion, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt I.2 (Berlin-New York 1972) 348 ss.
[ripubblicato col titolo Characteristic
Traits of Ancient Roman Religion, in Id.,
Pietas. Selected Studies in Roman
Religion (Leiden 1980) 223 ss.]; G.
Lieberg, Considerazioni
sull'etimologia e sul significato di Religio, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 102 (1974) 34 ss.; R. Muth, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.1 (Berlin-New
York 1978) 290 ss.; R. Schilling,
L'originalité du vocabulaire
religieux latin, in Id., Rites, cultes, diex de Rome (Paris 1979)
30 ss.; E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana IV (Roma 1988) 423 ss.
[2] Valgano,
al riguardo, le acute osservazioni di R. Orestano,
Dal ius al fas. Rapporto tra diritto
divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica,
in Bullettino dell'Istituto di Diritto
Romano 46 (1939) 198, per il quale «è certo che nella storia
primitiva di Roma domina il concetto che non solo le principali vicende, ma i
principi stessi dell'organizzazione sociale fossero rispondenti alla
volontà degli Dèi».
[3]
Già il poeta Ennio aveva cantato, in questo modo, l’antichissima
fondazione dell’Urbe: Augusto
augurio postquam inclita condita Roma est (Suet. August. 7: cum, quibusdam
censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis,
praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non solum novo sed etiam ampliore
cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur
augusta dicatur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet
scribens: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est); cfr. anche
Liv. 1.4.1: Sed debebatur, ut opinor,
fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium.
Le varie ‘fondazioni’, di cui Roma sarebbe stata oggetto in epoche
diverse, sono state studiate da A.
Grandazzi, La fondation de Rome.
Réflexion sur l’histoire (Paris 1991) in part. 195.
[4] D.
1.2.2.7 (Pomponius libro singulari
enchiridii): Augescente civitate quia
deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium Sextus Aelius
alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum.
Le implicazioni giuridiche e politiche del concetto di civitas augescens, con
particolare riguardo alla raccolta di iura
ordinata dall’imperatore Giustiniano, sono state ben delineate da P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema
romano (Torino 1990) xiv s.
Sulla stessa linea interpretativa, vedi ora M.P.
Baccari, Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61 (1995) [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi II
(Roma 1996)] 759 ss.; Ead., Cittadini popoli e comunione nella
legislazione dei secoli IV-VI (Torino 1996) 47 ss.
[5] Verg. Aen. 1.275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine
dicet. / His ego nec
metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi. La forte carica ideologica e la
precisa connotazione religiosa del passo non sono sfuggiti a P. Boyancé, La religion de Virgile (Paris 1963) 54, per il quale proprio
sull’annuncio Imperium sine fine
dedi «sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu
suprême repose pour ainsi dire toute l’oeuvre». Già i
commentari antichi (cfr. Serv. in Verg.
Aen. 1.278) avevano stabilito un nesso ben preciso tra l’imperium sine fine e
l’eternità di Roma. Per la
bibliografia sul poema virgiliano: W.
Suerbaum, Hundert Jahre
Vergil-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer
Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt II.31.1 (Berlin-New York 1980) 3 ss.
Quanto alla divini et
humani iuris scientia di Virgilio, vedi invece F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto
internazionale antico" (Sassari 1991) 17 ss.
[6]
Sull’espressione «sistema giuridico-religioso», vedi P. Catalano: Linee del sistema sovrannazionale romano I (Torino 1965) 30 ss., in
part. 37 nt. 75; Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.1 (Berlin-New
York 1978) 445 s.; Diritto e persone.
Studi su origine e attualità del sistema romano cit. 57; con il
quale concorda, in parte, anche G. Lombardi,
Persecuzioni, laicità,
libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla Dignitatis Humanae (Roma 1991) 34 s.
[7] A. Momigliano, La storiografia della religione nella tradizione occidentale, in A. Schiavone (direz.), Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie (Torino 1989) 900: «I Latini del I
secolo avevano problemi loro particolari, e imboccarono una loro strada. Essi
avevano uno stato con una vigorosa tradizione religiosa propria; una tradizione
che veniva considerata fondamento e giustificazione dell’enorme potere di
Roma».
[8]
Più in generale, riguardo alle concezioni religiose di Cicerone rimane
tuttora insostituibile M. van den
Bruwaene, La théologie de
Cicéron (Louvain 1937); cfr. inoltre, fra gli altri: P. Deforny, Les fondaments de la religion d’après Cicéron,
in Les études
Classiques 22 (1954) 241 ss., 366 ss.; R.D.
Sweeney, Sacra in the Philosophic
Works of Cicero, in Orpheus 12
(1965) 99 ss.; J. Guillén,
Dios y los dioses en Cicerón,
in Helmantica 25 (1974) 511 ss.; J. Kroymann, Cicero und die römische Religion, in Ciceroniana. Hommages à Kazimierz Kumaniecki (Leiden 1975)
116 ss.; L. Troiani, Cicerone e la religione, in Rivista Storica Italiana 96 (1984) 920
ss.; C. Bergemann, Politik und Religion im
spätrepublikanischer Rom (Stuttgart 1992).
[9] Cfr. anche Cic. De
nat. deor. 1.117; De leg. 1.60;
2.30; De har. resp. 18. Una diversa
definizione di religio è data
da Serv. in Verg. Aen. 8.349: religio
id est metus, ab eo quod mentem religet dicta religio. Sull'uso del termine
nelle opere di Virgilio, vedi E.
Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana IV cit. 423 ss.
[10] Cic. De nat. deor. 2.8: Nihil nos P. Clodi bello Punico primo temeritas movebit, qui etiam per
iocum deos inridens, cum cavea liberati pulli non pascerentur, mergi eos in
aquam iussit, ut biberent, quoniam esse nollent? Qui risus classe devicta
multas ipsi lacrimas, magnam populo Romano cladem attulit. Quid collega eius L.
Iunius eodem bello nonne tempestate classem amisit, cum auspiciis non
paruisset? Itaque Clodius a populo condemnatus est, Iunius necem sibi ipse
conscivit. C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum
scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio – superiores. Acute osservazioni
in C. Bailey, Phases in the Religion of Ancient Rome (
Anche Virgilio si mostra sensibile a tale ideologia, al
punto da attribuire allo stesso Iuppiter
versi quali Aen. 12.838-840: Hinc genus Ausonio mixtum quod sanguine
surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis, / nec gens ulla tuos
aeque celebrabit honores; cfr. F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio
e il problema del "diritto internazionale antico" cit.
192 nt. 27.
[11] Sul
testo citato, vedi l'ampio commento di A.S.
Pease, M. Tulli Ciceronis De
natura deorum, II (1957, rist. an. Darmstadt
1968) 983 s.
[13] Cfr. G.W.R. Ardley, Cotta and the Theologians, in
Prudentia 5 (1973) 33 ss.; W. Heilmann, Auctoritas der Tradition und Ratio im Widerstreit. Zur Position des Cotta in Ciceros De natura deorum (3,5 und 3,51f.), in Der Altsprachliche Unterricht 36 (1994)
Heft 6, 23 ss.
[14] G.
Dumézil, Idées
romaines (Paris 1969) 96 nt. 1; nello stesso senso, vedi anche R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in Id.,
Rites, cultes, dieux de Rome cit. 37.
[15] Per la definizione più generale di res publica,
cfr. R. Stark, Ciceros Staatsdefinition, ora in Das Staatsdenken der Römer, hrsg.
von R. Klein (Darmstadt 1966) 332 ss.
[16] Cic. De har. resp.
19: Etenim quis est tam vaecors qui aut, cum
suspexit in caelum, deos non sentiat et ea quae tanta mente fiunt, ut vix
quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem persequi possit, casu fieri
putet, aut, cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum
imperium esse natum et auctum et retentum? Quam volumus licet, patres
conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec
calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique ipso huius gentis ac terrae
domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione
atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique
perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus. Stimolanti
riflessioni sul valore più generale del testo in M. Humbert, Droit et
religion dans la Rome antique cit. 191 ss.
[17] Cic. Pro Mil. 83: Nec vero quisquam aliter arbitrari potest, nisi qui nullam vim esse
ducit numenve divinum, quem neque imperi nostri magnitudo neque sol ille nec
caeli signorumque motus nec vicissitudines rerum atque ordines movent, neque,
id quod maximum est, maiorum nostrorum sapientia, qui sacra, qui caerimonias,
qui auspicia et ipsi sanctissime coluerunt et nobis suis posteris prodiderunt.
[18]
Sull’opera sallustiana: Z. Yavetz,
The Failure of Catiline's Conspiracy,
in Historia 12 (1963) 485 ss.; W. Wimmel, Die zeitlichen Vorwegnahmen in Sallusts Catilina, in Hermes 95 (1967) 192 ss.; E.J. Phillips, Catiline's Conspiracy, in Historia
25 (1976) 441 ss.; H.-J. Glücklich,
Gute und schlechte Triebe in Sallusts Catilinae coniuratio, in Der Altsprachliche Unterricht 31 (1988) Heft 5, 23 ss.; W. Dahlheim, Die Not des Staates und das Recht des Bürgers. Die
Verschwörung des Catilina (63/62 v.Chr.), in Macht und
Recht. Grosse Prozesse in der Geschichte, hrsg. von A. Demandt
(München 1990) 27 ss.; A. Drummond,
Law, politics and power. Sallust and the
execution of the Catilinarian conspirators (Stuttgart 1995); G. Philipp, Gedanken zum Prooemium und zur Charakterisierung Catilinas in Sallusts Coniuratio Catilinae, in Die Antike und ihre Vermittlung. Festschrift für Friedrich Maier
zum 60. Geburtstag (München 1995) 137 ss.; A. Giovannini, Catilina
et le problème des dettes, in Leaders
and Masses in the Roman World. Studies in Honor of Zvi Yavetz (Leiden-New York-Köln 1995) 15 ss.;
A.T. Wilkins, Villain or Hero. Sallust's Portrayal of
Catiline (
[19] Sterminata la bibliografia sul grande
storico: G. Funaioli, v. C.
Sallustius Crispus, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft I.A.2 (Stuttgart 1920) coll. 1913
ss.; W. Schur, Sallust als Historiker (Stuttgart 1934);
D.C. Earl, The Political Thought of Sallust (Cambridge 1961); K. Hanell, Bemerkungen zu der politischen Therminologie des Sallustius, in Eranos 43 (1945) 263 ss. [ripubblicato
in Das Staatsdenken der Römer cit.
500 ss.]; R. Syme, Sallust (Berkeley 1964) = Id., Sallustio, trad. it. di S. Galli (Brescia 1968); A.
[20] Sui
temi della decadenza e del rapporto tra espansione e crisi delle istituzioni
repubblicane nella visione storica di Sallustio, vedi fra gli altri: C. Perl, Sallust und die Krise der römischen Republik, in Philologus 113 (1969) 201 ss.; E. Koestermann, Das Problem der römischen Dekadenz bei Sallust und Tacitus, in
Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt I.3 (Berlin-New York 1973) 786 ss.; K. Bringmann, Weltherrschaft und innere Krise Roms im Spiegel der
Geschichtsschreibung des zweiten und ersten Jahrhunderts v.Chr., in Antike und Abendland 23 (1977) 28 ss.; C. Venturini, Luxus e avaritia nell’opera
di Sallustio, in Athenaeum 57
(1979) 277 ss.; J.M. Alonso-Nuñez,
La crisi in Sallustio, in La rivoluzione romana, inchiesta tra gli
antichisti (Napoli 1982) 208 ss.; H.
Wolff, Bemerkungen zu Sallusts
Deutung der Krise der Republik, in Klassisches
Altertum, Spätantike und frühes Christentum. Adolf
Lippold zum 65. Geburtstag gewidmet
(Würzburg 1993) 163 ss.; K.
Heldmann, Sallust über die
römische Weltherrschaft. Ein Geschichtsmodell im Catilina und seine
Tradition in der hellenistischen Historiographie (Stuttgart 1993); E. Schütrumpf, Die Depravierung Roms nach den Erfolgen des
Imperiums bei Sallust, Bellum Catilinae Kap. 10 - philosophische Reminiszenzen,
in Imperium Romanum. Studien zu
Geschichte und Rezeption. Festschrift für Karl Christ zum 75. Geburtstag
(Stuttgart 1998) 674 ss.
[21] Sall. Cat.
12.1-5: Postquam divitiae honori esse
coepere et eas gloria imperium potentia sequebatur, hebescere virtus, paupertas
probro haberi, innocentia pro malivolentia duci coepit. Igitur ex divitiis
iuventum luxuria atque avaritia cum superbia invasere: rapere consumere, sua
parvi pendere, aliena cupere, pudorem pudicitiam, divina atque humana
promiscua, nihil pensi neque moderati habere. Operae pretium est, cum domos
atque villas cognoveris in urbium modum exaedificatas, visere templa deorum,
quae nostri maiores, religiosissumi mortales, fecere. Verum illi delubra deorum
pietate, domos suas gloria decorabant, neque victis quicquam praeter iniuriae
licentiam eripiebant. At hi contra, ignavissumi homines, per summum scelus
omnia ea sociis adimere, quae fortissumi viri victores reliquerant: proinde
quasi iniuriam facere, id demum esset imperio uti. Per un
esauriente commento del passo, rinvio a K.
Vretska, C. Sallustius Crispus,
De Catilinae coniuratione (Heidelberg
1976) 232 ss.
[22] A. Ferrabino, Urbs in aeternum condita (Padova 1942); J. Vogt, Römischer
Glaube und römisches Weltreich (Padova 1943). Per l’ideologia, vedi H. Haffter, Rom und
römische Ideologie bei Livius, in Gymnasium
71 (1964) 236 ss. = Id., Römische Politik und römische
Politiker (Heidelberg 1967) 74 ss.; M.
Mazza, Storia e ideologia in
Livio. Per un'analisi
storiografica della ‘praefatio’ ai ‘libri ab urbe
condita’ (Catania 1966) in part. 129 ss.; G.
Miles, Maiores, Conditores, and Livy's Perspective of the Past, in
Transactions of the American Philological
Association 118 (1988) 185 ss.; B.
Feichtinger, Ad maiorem gloriam Romae.
Ideologie und Fiktion in der Historiographie des Livius, in Latomus 51
(1992) 3 ss.
[23] Liv. 5.52.2: Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non
religionum deorumque est plenus; sacrificiis solemnibus non dies magis stati
quam loca sunt in quibus fiant. La valenza religiosa del testo
è stata colta assai bene da H. Fugier,
Recherches sur l'expression du
sacré dans la langue latine cit. 207; ma vedi anche la riflessione
di C.M. Ternes, Tantae molis erat… De la
‘nécessité’ de fonder Rome, vue par quelques
écrivains romains du –1er siècle, in “Condere
Urbem”. Actes
des 2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg (janvier
1991) (Luxembourg 1992) 18 s.; infine F. Sini, Initia Urbis e sistema giuridico-religioso romano
(ius sacrum e ius
publicum tra terminologia e sistematica), in «Roma e America. Diritto
romano comune». Atti del Congresso internazionale «Mundus Novus.
America Latina. Sistema giuridico latinoamericano» 18 (2004) = Mundus Novus. America. Sistema giuridico latinoamericano, a cura di
Sandro Schipani (Roma 2005) 205 ss. [pubbl. anche in Diritto @ Storia.
Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 3 (Maggio
2004) = http://www.dirittoestoria.it/3/TradizioneRomana/Sini-Initia-Urbis-2.htm
].
[24] Liv.
5.51.4-5: Equidem, si nobis cum urbe
simul positae traditaeque per manus religiones nullae essent, tamen tam evidens
numen hac tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem neglegentiam divini cultus
exemptam hominibus putem. Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas
res vel adversas; invenietis omnia prospera evenisse sequentibus deos, adversa
spernentibus. Cfr. Liv. 1.9.3-4; 1.21.1-2; 1.55.3-4; 8.3.10; 28.11.1.
[25] M. Merten,
Fides Romana bei Livius, Diss.
(Frankfurt am Main 1965); W. Flurl,
Deditio in fidem. Untersuchungen zu
Livius und Polybios, Diss. (München
1969) 127 ss.; su fides e pietas vedi T.J. Moore, Artistry
and Ideology: Livy’s Vocabulary of Virtue (Frankfurt am Main 1989) in
part. 35 ss., 56 ss.
[26] Liv. 44.1.9-11: Paucis
post diebus consul contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei
perpetrato in fratrem, cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum
veneficia, caedes, latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum
Romanum, direptiones sociarum urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque
invisa essent, sensurum in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique
deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit.
Per una visione complessiva delle concezioni religiose
del sommo annalista romano, sono da consultare G. Stübler, Die
Religiosität des Livius (Stuttgart-Berlin 1941); I. Kajanto, God and fate in Livy (Turku 1957); A. Pastorino, Religiosità romana dalle Storie di
Tito Livio (Torino 1961); W.
Liebeschuetz, The Religious
position of Livy’s History, in The
Journal of Roman Studies 67 (1967) 45 ss.; D.S. Levene, Religion
in Livy (Leiden-New York-Köln 1993); per le formule di preghiera, vedi
invece F.V. Hickson, Roman prayer language: Livy and the Aeneid
of Virgil (Stuttgart 1993).
[27] Quanto agli aspetti biografici, vedi R. Helm, v. Valerius Maximus, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft VIII.A.1 (Stuttgart 1955), coll. 90 ss.;
R. Faranda, Introduzione,
a Valerio Massimo, Detti e fatti
memorabili, a cura di R. F., 1ª ed. 1971 (rist. Torino
1976) 9 ss. (ivi anche la bibliografia precedente).
[28] Le
più recenti edizioni dell’opera sono quelle curate da R. Combès, Valère Maxime. Faits et Dits Mémorables, Voll. I-II
[libri I-III, IV-VI] (Paris 1995, 1997); J.
Briscoe, Valeri Maximi Facta et
dicta memorabilia, 2 Voll. (Stuttgart-Leipzig 1998). Fra gli studi su
Valerio Massimo, ma resta ancora utile il saggio di A. Klotz, Studien zu
Valerius Maximus und den Exempla (München 1942), sono da vedere: F. Römer, Zum Aufbau der Exempelsammlung des Valerius Maximus, in Wiener Studien 103 (1990) 99 ss.; W.M. Bloomer, Valerius Maximus and the Rhetoric of the New Nobility (London
1992); C. Skidmore, Practical Ethics for Roman Gentlemen. The
Work of Valerius Maximus (Exeter 1996); infine i contributi di vari
studiosi raccolti da J.-M. David,
in Valeurs et mémoire à
Rome. Valère Maxime ou la vertu recomposée (Paris 1998):
saggi, oltre che dello stesso David, di Y. Lehmann, C. Loutsch, M. Coudry, M. Chassignet, M. Humm, A. Jacquemin,
M.L. Freyburger.
[29] Val.
Max. Fact. et dict. mem. 1.1.9: Qui praetor a patre suo collegii Saliorum
magistro iussus sex lictoribus praecedentibus arma ancilia tulit, quamvis vacationem
huius officii honoris beneficio haberet. Omnia namque post religionem ponenda
semper nostra civitas duxit, etiam in quibus summae maiestatis conspici decus
voluit. Quapropter non dubitaverunt sacris imperia servire, ita se humanarum
rerum futura regimen existimantia, si divinae potentiae bene atque constanter
fuissent famulata. Non mi pare che colga bene tutte le implicazioni
teologiche e giuridiche del passo il recente commento di D. Wardle, Valerius Maximus, Memorable
deeds and saying, Book I (Oxford 1998) 100, dove si legge: «V. has
rhetorical exaggeration, particularly in glory of the highest majesty, with is
not a natural definition of the praetorship».
[30] Fra la
bibliografia, veramente considerevole, basterà citare alcune opere
recenti: R. Braun, Deus Christianorum. Recherches
sur le vocabulaire doctrinal de Tertullien (Paris 1962, 2ª ed. 1977); R. Klein, Tertullian und das römische Reich
(Heidelberg 1968); J.-C. Fredouille, Tertullien et la conversion de la culture antique (Paris 1972); C. Rambaux, Tertullien face aux morales des trois premiers siècles
(Paris 1979); T.D. Barnes, Tertullian. A historical and literary study, 2ª ed. (Oxford 1985).
[31] C.
Becker, Tertullians
Apologeticum. Werden und Leistung (München 1954);
P. Frassinetti, Tertulliano e l'“Apologetico”
(Genova 1974); G. Eckert, Orator Christianus. Untersuchungen zur Argumentationskunst in Tertullians Apologeticum
(Stuttgart 1993).
[32] Per lo
studio dei riferimenti a nozioni giuridiche romane e del vocabolario giuridico
di Tertulliano, vedi P. Vitton, I concetti giuridici nelle opere di
Tertulliano (Roma 1924); A. Beck, Römisches Recht bei Tertullian und Cyprian. Eine
Studie zur frühen Kirchenrechtsgeschichte (1930, rist. Aalen 1967) in part. 49 ss., 60 ss.; J.K. Stirnimann, Die praescriptio Tertullians
im Lichte des römischen Rechts und der Theologie (Freiburg in der
Schweiz 1949) in part. 39 ss.; R.D.
Sider, Ancient Rhetoric and the
Art of Tertullian (Oxford 1971) 74 ss.; J.
Gaudemet, Le droit romain dans la
littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve
siècle, [Ius Romanum Medii Aevi, pars I, 3, b] (Mediolani 1978) 15
ss. Quanto invece alla possibilità di identificare il
polemista cristiano con l’omonimo giurista, rinvio alla dettagliata
disamina di W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der
römischen Juristen (Weimar 1952) 236 ss.; cfr. anche T.D. Barnes, Tertullian. A historical and literary study cit. 22 ss.
[33] Tert. Apolog. 1.1: Si non licet vobis, Romani imperii antistites, in aperto et edito, in
ipso fere vertice civitatis praesidentibus ad iudicandum, palam dispicere et
coram examinare, quid sit liquido in causa Christianorum; si ad hanc solam
speciem auctoritas vestra de iustitiae diligentia in publico aut timet aut
erubescit inquirere; si denique, quod proxime accidit, domesticis indiciis
nimis operata infestatio sectae huius os obstruit defensioni: liceat veritati
vel occulta via tacitarum litterarum ad aures vestras pervenire.
[34] Tert. Apolog. 25.1-2: Satis quidem mihi videor probasse de falsa et vera divinitate, cum
demonstravi, quemadmodum probatio consistat, non modo disputationibus nec
argumentationibus, sed ipsorum etiam testimoniis, quos deos creditis, ut nihil
iam ad hanc causam sit retractandum. Quoniam tamen Romani nominis proprie
intercedit auctoritas, non omitto congressionem, quam provocat illa praesumptio
dicentium, Romanos pro merito religionis diligentissimae in tantum sublimitatis
elatos et impositos, ut orbem occuparint, et adeo deos esse, ut praeter ceteros
floreant, qui illis officium praeter ceteros faciant. La problematica
trattata nel passo e il relativo «argomento politico» risultano
assai bene inquadrati nel commento di J.P.
Waltzing, Tertullien, Apologétique (Liège-Paris
1919) 120 ss.
All’analisi della «Polemik im Werke
Tertullians» sono dedicate molte pagine nel lavoro di I. Opelt,
Die Polemik in der christlichen
lateinischen Literatur von Tertullian bis Augustin (Heidelberg
1980) 4 ss.
[35] Sul contributo del grande giurista tedesco alla scienza giuridica
contemporanea, vedi le brevi sintesi di F. Wieacker,
Privatrechtsgeschichte der Neuzeit unter
besonderer Berücksichtigung der deutschen Entwicklung, neubearbeite
Auflage, II (Göttingen 1967) cit. in trad. it.: Storia del diritto privato moderno II (Milano 1980) 150 ss. (con
essenziali riferimenti bibliografici); e di R.
Orestano, Introduzione allo studio
del diritto romano (Bologna 1987) 278 ss. (ivi altra bibliografia); quanto,
invece, agli «elementi per una rinnovata visione storica» presenti
nell'opera dello Jhering, rinvio alla suggestiva trattazione di P. Catalano, Populus Romanus Quirites (Torino 1974) 64 ss.
[36] R. von
Jhering, Geist des römischen
Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I (1852), qui
citato in trad. francese: L’esprit
du droit romain, dans les
diverses phases de son développement I (Paris 1886, rist. an. Bologna 1969) 267 s.: «Chez le peuple grec, cette
séparation ne s’est faite que dans les temps historiques; chez le
peuple romain, au contraire, elle se fit à l’origine des
siècles. Dès sa première apparition, ce peuple apporte
avec lui l’antithèse du fas
et du jus, qui porte
l’empreinte de cette séparation, comme si dès le principe
il avait voulu constater sa mission pour le monde juridique et son pouvoir
d’analyse. Fas, c’est le
droit religieux, saint ou révélé. Il comprend aussi bien
la religion, en tant qu’elle prend un aspect juridique (dans notre
langage actuel, le droit ecclésiastique) que le droit privé et
public, en tant qu’il a un côté religieux». Cfr. anche
la traduzione italiana della prima edizione: Lo spirito del diritto
romano nei diversi gradi del suo sviluppo, tr. it. di L. Bellavite, con
aggiunte e cambiamenti dell’Autore o da esso approvati, ed una prefazione
del Traduttore (Milano 1855) 208 ss.
[37]
Così P. Cogliolo, in G. Padelletti - P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2ª ed.
(Firenze 1886) 21 nt. x. Nello stesso senso vedi, fra gli altri, L. Mitteis, Das römische Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians I
(Leipzig 1908) 22 s.; C. Ferrini,
v. Fas, in Nuovo Digesto Italiano V
(Torino 1938) 919.
[38] A. Varsilona, Il principio di isolamento nel diritto romano, in Archivio Giuridico "F. Serafini”
201 (1981) 37 ss.
[39] f. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts (München 1934), cit. in
trad. it.: I principii del diritto romano,
a cura di V. Arangio-Ruiz (Firenze 1946) 16 ss.
[40] F. Schulz, I principii del diritto romano cit. 17-18: «Si tratta
anzitutto di distinguere il diritto dal non diritto, di delimitare il campo del
diritto e di ridurre l'ordinamento giuridico ad un sistema autonomo. Nella vita
il diritto si presenta inserito nell'insieme dell'attività sociale della
comunità organizzata. Sulla sua base influiscono le relazioni ed
opinioni economico-politiche, ed anche le concezioni del costume e della
moralità, di guisa che esso è geneticamente congiunto col
non-diritto. Ma anche funzionalmente l'ordine giuridico è legato con
l'ordine sociale non giuridico: accanto all'ordinamento del diritto sta
l'ordinamento del costume e della morale, quella cerchia di obblighi
extragiuridici che proprio nel mondo romano ha tanta importanza anche per la
vita del diritto, e che formano il contenuto prevalente della parola officium. Nell'età giovanile dei
popoli diritto, morale e costume sono sempre intrecciati insieme. Mentre
però alcuni popoli – fra essi compresi anche il greco e il
germanico – si decidono difficilmente, e non senza ritorni, alla
separazione fra le varie norme, i romani hanno cominciato ben presto a metterla
in atto. La legge delle XII Tavole contiene esclusivamente norme giuridiche, e
la giurisprudenza successiva ha proseguito la separazione, con rigore romano,
anche nelle materie non regolate da leggi».
[41] F. Schulz, I principii del diritto romano cit. 22-23: «Anzitutto sono
stati separati, già in principio dell'età repubblicana, il
diritto sacro e il profano, e di nuovo la separazione conduce all'isolamento.
P. Scevola (console nel 133) usava ancora dire che un buon pontefice deve
conoscere anche il diritto profano, ma questa persuasione venne via via
scomparendo. Già al tempo di Cicerone vi sono specialisti del diritto
sacro che non si occupano del diritto profano o almeno non se ne occupano
altrettanto a fondo: Capitone, scrittore di diritto sacro, sembra aver prodotto
soltanto opere insignificanti nel campo del diritto profano. D'altronde le due
sfere giuridiche non esercitano più influenza una sull'altra».
[42] F. Schulz, I principii del diritto romano cit. 23-24: «Ancora più
importante era la separazione del diritto pubblico (ius publicum) dal privato (ius
privatum). [...] Il diritto pubblico è quello che regola i rapporti
giuridici del populus Romanus: ogni
volta che lo Stato romano è oggetto attivo o passivo di un rapporto
giuridico, questo è sottratto al diritto privato e sottoposto al diritto
pubblico. La distinzione che è sconosciuta agli altri ordinamenti
giuridici non dipendenti dal romano, ha portato come sua conseguenza gravi
pregiudizi. Anche qui, infatti, la separazione porta all'isolamento, e i due
gruppi di norme, che nella vita s'intrecciano così strettamente l'uno
con l'altro, sono tenuti divisi con straordinario rigore».
[43] F. Schulz, I principii del diritto romano cit. 28: «Ma anche entro il
diritto privato si opera una separazione ulteriore. La giurisprudenza
repubblicana e la classica trattano il diritto privato prevalentemente dal
punto di vista della città di Roma. Non solo essi lasciano completamente
da parte il diritto peregrino che vigeva entro l'impero romano, ma si occupano
quasi esclusivamente del diritto privato romano quale si applicava nei
tribunali della città, o almeno in quelli italiani. Le norme particolari
sancite per le province dalla legislazione imperiale li interessano poco, e
niente affatto gli editti giudiziarii particolari che vigevano nelle singole province».
[44] M. Piantelli, Una ricerca su ritus in epoca
arcaica, in Studi in onore di
Giuseppe Grosso VI (Torino 1974) 236 s.
[45] Una
decisa posizione «contro l’ “isolamento” del diritto e
contro l’evoluzionismo» è stata espressa da P. Catalano, Per lo studio dello ius divinum,
in Studi e Materiali di Storia delle
Religioni 33 (1962) 129 ss.; Id.,
La religione romana
«internamente»: il punto di vista giuridico, Ibidem 62, n.s. 20 (1996) 148 ss. Per
un'impostazione alternativa alle tesi dello Schulz, vedi soprattutto R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in
Roma dall'età primitiva all'età classica cit. 194 ss.; Id., I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica (Torino 1967)
99 ss.; cfr. anche P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
19 (1953) 49 ss. = Id., Scritti di diritto romano I (Padova
1985) 226 ss.; utile sintesi in F.
Fabbrini, v. Res divini iuris, in Novissimo Digesto Italiano XV (Torino 1968) 515 s.
[46] M. Kaser, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Catania 3
(1948-49) 77 ss.; il saggio è stato ripubblicato di recente, con il
medesimo titolo e senza alcun cambiamento, in Ars boni et aequi. Festschrift für Wolfang Waldstein zum 65. Geburtstag (Stuttgart 1993) 151 ss.; cfr. Id., Religiöse
Begriffe in frührömischen Recht, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 67
(1950) 47 ss.
[47] C. Gioffredi, Religione e diritto nella più antica esperienza romana, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
20 (1954) 261. Su questo «studioso aristocratico molto
particolare», vedi ora il profilo tracciato da A.D. Manfredini, In
memoriam. Carlo Gioffredi (1920-1994), in Iura 46 (1995, ma 2000) 185 ss.
[48] G. Pugliese, L'autonomia del diritto rispetto agli altri fenomeni e valori sociali
nella giurisprudenza romana, in La
storia del diritto nel quadro delle scienze storiche. Atti del primo Congresso
Internazionale della Società Italiana di Storia del diritto (Firenze
1966) 162.
[49] F.
Wieacker, Römische
Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur
I (München 1988) 318 ss.
[50] F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte cit. 503, ma anche 322 s. Per
quanto, a proposito dell'insistenza sulla «Isolierung» da parte
dell'illustre e compianto Maestro tedesco, M.
Bretone, La storia del diritto romano fra scienza giuridica e antichistica,
in Iura 39 (1988, ma 1991) 14, non
chiamerebbe in causa Fritz Schulz: «Io vi intravedo un filo che risale a
Weber (oltre che a Jhering)».
[51] Sulla
questione vedi ora, brevemente, le puntuali riflessioni di P. Catalano - P. Siniscalco, Laicità tra diritto e religione.
Documento introduttivo del XIV Seminario «Da Roma alla Terza Roma»,
pubblicato in Index 23 (1995) 461
ss.; in part. paragrafo 5 «'Laicizzazione' della giurisprudenza e
cosiddetta 'Isolierung' del diritto», 463: «Il sistema romano
antico, sia precristiano sia cristiano, non conosce l'isolamento del diritto
rispetto alla morale o alla religione. Non vi è isolamento del diritto
nell'età repubblicana (ius civile
in penetralibus pontificum repositum erat, Liv. 4.3.9), né
nell'impero cristiano (publicum ius in
sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit, D. 1.1.1.2). Quanto
alla giurisprudenza, significativa è la definizione contenuta in D.
1.1.10.2: divinarum atque humanarum rerum
notitia, iusti atque iniusti scientia. [...] E' corrente poi nella dottrina
romanistica l'uso del termine "laico" per indicare i giuristi non
sacerdoti (onde si parla di laicizzazione della giurisprudenza)».
[52] Al
riguardo, si presentano del tutto inadeguate, per comprendere la dinamica
storica del rapporto tra religione e diritto in Roma repubblicana, le teorie di
quanti vorrebbero operanti «già durante l'età
monarchica» i processi di «isolamento» e
«laicizzazione»: così, fra gli altri, C. Gioffredi, Sulle attribuzioni sacrali dei magistrati romani, in Iura 9 (1958) 22 ss., in part. 23-24:
«Ad esempio, che motivi religiosi siano l'elemento dominante
nell'organizzazione politica della Roma più antica è un dato
certo, ma lo studioso deve andare rintracciando i modi e i fattori che,
considerate le peculiarità e le concezioni religiose romane, hanno
portato dall'indistinzione originaria alla distinzione già durante
l'età monarchica e più decisamente in quella repubblicana, e non
cedere alla tentazione di costruzioni suggestive ma infondate. [...] Questo
necessario processo di laicizzazione è già in atto durante il
periodo monarchico, si da confinare la figura del re come personaggio schiettamente
sacrale nella prima età regia se non in età preromana».
Mi pare
anche di poter fare mia l'indicazione formulata da M. Bretone, L'autonomia
del diritto e il diritto antico, in Materiali
per una Storia della Cultura Giuridica 22 (1992) 40, per indagare
proficuamente sul tema dell'autonomia del diritto: «Non basta aver
individuato il fenomeno ed osservarlo a lungo da ogni lato. Così si
può renderlo interessante, ma bisogna anche tentarne una spiegazione.
Questo esige che lo storico del diritto, il quale fa bene ad avventurarsi nel
groviglio labirintico della sua materia, non dimentichi mai una verità
fondamentale e semplice: se il diritto è una funzione autonoma, lo
è sempre nel contesto di una società e di una cultura; è
al loro interno che si viene disegnando; per comprenderne il senso, bisogna
allora ricomporre il quadro intero».
[53] Per
una recente discussione sul problema de «La libertà nella Roma
arcaica e repubblicana», vedi G. Lombardi,
L'editto di Milano del 313 e la
laicità dello Stato, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 50 (1984) 10 ss., il quale si propone di
«chiarire come la consapevolezza del fondamento dell'autonomia dell'uomo
sia sostanzialmente mutata a séguito del diffondersi del
cristianesimo» (11); Id., Persecuzioni, laicità, libertà
religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis humanae" cit.
[54] Sulla
sostanziale tolleranza della religione politeista romana, vedi fra gli altri:
M. Adriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica, in Studi Romani 6 (1958) 507 ss.; R. Bloch, La religione romana, in H.-Ch.
Puech, Storia delle religioni I.2 L'Oriente
e l'Europa nell'antichità, trad. it. (Roma-Bari 1976) 554 s., il
quale indica l'apertura e la tolleranza verso divinità straniere come
«un'espressione singolare e affascinante della religione romana»;
J.A. North, Religious Toleration in Republican Rome, in Proceedings of the Cambridge Philological Association 25 (n. s.
1979) 85 ss. Sottolinea, invece, le ambiguità insite nell'atteggiamento
"tollerante" dei Romani A. Momigliano,
Appunti preliminari
sull'«opposizione religiosa» all'impero romano, in Id., Saggi di storia della religione romana (Brescia 1988) 154; ma in
altro senso, Id., The desadvantages of monotheism for a
universal State, in Classical
Philology 81 (1986) 285 ss.
[55] Per la
definizione di pax deorum, vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum
neunzehnten Buch der Civitas Dei (Berlin 1926) 186 ss.; ampi riferimenti
alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla in P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica cit. 49 ss. = Id., Scritti di diritto romano I cit. 226 ss.; ai quali sono da
aggiungere: J. Bayet, La religion romaine. Histoire
politique et psychologique (1957, 2a
ed. Paris 1969 [rist. 1976]) 57 ss. = Id.,
La religione romana. Storia politica e psicologica, trad.
it. di G. Pasquinelli (Torino 1959, rist. 1992) 59 ss.; M. Sordi, Pax deorum e libertà
religiosa nella storia di Roma, in La
pace nel mondo antico (Milano 1985) 146 ss.; con qualche riserva, R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione
giuridico-religiosa (Napoli 1996) 167 ss.; E. Montanari, Il
concetto originario di ‘pax’ e la ‘pax deorum’, in Concezioni della pace (Seminario 21 aprile 1988), [Da Roma
alla Terza Roma, Studi - VI] a cura di P. Catalano e P. Siniscalco (Roma 2006)
39 ss.
[57] Su tale
nozione, mi permetto di rinviare ad alcuni dei miei lavori (ivi fonti e
letteratura precedente): F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio e il problema
del “diritto internazionale antico”, cit., 256 ss.; Populus et religio dans
[58] M. Humbert,
Droit et religion dans
[59] R. Orestano, I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica cit. 114:
«In queste condizioni tutta la vita privata e quella pubblica erano
dominate dall'assillo ansioso e ininterrotto di operare in accordo con queste
“forze” o “deità”, di procurarsi il loro
ausilio, di propiziarsi il loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro
influenze ostili, di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una
loro reazione. La paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche
atto o comportamento potesse rompere la pax
deorum da cui dipendevano il benessere dell'individuo, della famiglia,
della comunità, rendeva il romano continuamente attento a cercare in
qualunque aspetto della natura i segni della volontà divina».
[60] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il
problema del “diritto internazionale antico” cit. 83 ss.
[61] R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto divino e umano in
Roma dall'età primitiva all'età classica cit. 201.
[62] Cfr.
la qualifica, certo antichissima, attribuita al pontifex maximus nell'ordo sacerdotum:
Fest. De verb. sign., p. 198-
[63] Cfr.
in tal senso, P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica
cit. 49 = Id., Scritti di diritto romano I cit. 224.
[64] J. Scheid,
Le prêtre et le magistrat.
Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la
République, in Des ordres
à Rome, direction de C. Nicolet (Paris 1984) 269 s.
[65] P. Catalano, Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris
61 (1995) = Studi in memoria
di Gabrio Lombardi II (Roma
1996) 723 ss. Quanto ai diversi impieghi della parola, vedi invece P. Rodríguez, El significado de civitas en
Cicerón, in Veleia 7
(1990) 233 ss.
[66] Cic. De leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque est et in homine et
in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem ratio, inter
eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege quoque
consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis,
inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei
civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et potestatibus parent,
multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique divinae et
praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una civitas communis deorum
atque hominum existimanda. Su questo
passo ciceroniano, cfr. K.M. Girardet, Die Ordnung
der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen
Interpretation von Ciceros Schrift de legibus
(Wiesbaden 1983) 135 ss.; M. Ducos,
Les Romains et la loi.
Recherches sur les rapports
de la philosophie grecque et de la tradition romaine à la fin de
la République (Paris 1984) 225 ss.
[67]
L'espressione è di P. Voci,
Diritto sacro romano in età
arcaica cit. 50, per il quale «Legalismo religioso è l'insieme
delle regole che insegnano a mantenere la pax
deorum» = Scritti di diritto
romano cit. 225.
[68] B.W. Frier, 'Libri Annales pontificum Maximorum': the Origins of the Annalistic
Tradition (Roma 1979, 2ª ed. Ann Arbor 1998); J. Rüpke, Livius, Priesternamen und die annales maximi, in Klio 75
(1993) 155 ss.; M. Chassignet, L’annalistique romaine, Tome I. Les
annales des pontifes et l’annalistique ancienne (fragments), Texte
établi et traduit par M. Ch. (Paris 1996).
[69] Cfr.
Liv. 2.36.1; 3.5.14; 3.10.6; 4.9.3; 4.12.6; 4.21.5; 4.30.7; 5.13.4; 6.20.16;
7.2.2; 7.3.3; 7.27.1; 7.28.7; 8.6.9; 8.9.6-12; 8.25.1; 10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13;
22.3.11; 22.9.7; 22.36.6; 23.31.15; 23.36.10; 23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9;
25.7.7-9; 25.16.1; 25.17.3; 26.23.3-6; 26.45.9; 27.4.11; 27.11.1; 28.27.16;
30.2.9-13; 30.38.8. Sul nutrito elenco di prodigi presenti nell'opera liviana,
certo improntati - direttamente o indirettamente - agli Annales Maximi, vedi E. De
Saint-Denis, Les
énumérations de prodiges dans l'œuvre de Tite-Live, in Revue de Philologie 16 (1942) 126 ss.;
J.Ph. Packard, Official
notices in Livy's fourth decade: style and treatment (Ann Arbor 1970) 125
ss.; E. Rawson, Prodigy list and the use of Annales Maximi,
in The Classical Quarterly 21 (1971)
158 ss.; infine B. MacBain, Prodigy and expiation: a study in religion
and politics in Republican Rome (Bruxelles 1982) 82 ss. [Appendix
A: index of prodigies].
[70] C. Bailey,
Phases in the religion of Ancient
[73] P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone)
cit. 676; con adesione di C. Nicolet,
Notes complementaires, in Polybe, Histoires, Livre VI (Paris 1977) 149
ss.; J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions
sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République cit. 269 ss.
[76] F. Sini, A quibus iura civibus
praescribebantur. Ricerche sui giuristi
del III secolo a.C. (Torino 1995). Sulla giurisprudenza romana del III e II
secolo a.C., rinvio anche a F.
D'ippolito: I giuristi e la
città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della repubblica (Napoli
1978, ma 1979); Id., Giuristi e sapienti in Roma arcaica cit.
Per una brillante indagine storiografica su questo secolo, F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C. (Trieste 1962, rist.
an. Roma 1968).
[77] Sulla lex Ogulnia de sacerdotibus ex plebe
creandis, vedi Liv. 10.6.1-6. Cfr. Liv. 10.7 e 8; 10.9.1-2.
[78] Liv.
22.35.1-2: Cum his orationibus accensa
plebs esset, tribus patriciis petentibus, P. Cornelio Merenda L. Manlio Vulsone
M. Aemilio Lepido, duobus nobilium iam familiarum plebeiis, C. Atilio Serrano
et Q. Aelio Paeto, quorum alter pontifex, alter augur erat, C. Terentius consul
unus creatur, ut in manu eius essent comitia rogando collegae; 23.21.7: Et tres pontifices creati, Q. Caecilius
Metellus et Q. Fabius Maximus et Q. Fulvius Flaccus, in locum P. Scantinii demortui
et L. Aemilii Pauli consulis et Q. Aelii Paeti, qui ceciderant pugna Cannensi.
[79] Cfr. F. Bona, "Ius pontificium'' e "ius civile'' nell'esperienza giuridica
tardo-repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale
nell'esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della
presentazione della nuova riproduzione della "littera Florentina''
(Napoli 1990) 210 s.
[80] Sul
punto vedi, ora, F. Sini, Diritto
e documenti sacerdotali: verso una palingenesi, in Ius
Antiquum - Drevnee Pravo 16 (Moskva 2005) 22 ss.; pubbl. anche in Diritto @ Storia 4 (Novembre 2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Sini-Diritto-documenti-sacerdotali-palingenesi.htm;
cfr. L. Kofanov, Verso una palingenesi dei documenti
sacerdotali romani, in Diritto @
Storia 4 (Novembre 2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Kofanov-Palingenesi-documenti-sacerdotali-romani.htm
.
[83] Liv.
9.34.6-7: Itane tandem, Appi Claudi, cum
centesimus iam annus sit ab Mam. Aemilio dictatore, tot censores fuerunt,
nobilissimi fortissimique viri, nemo eorum duodecim tabulas legit? nemo id ius esse,
quod postremo populus iussisset, sciit? Immo vero omnes sciverunt et ideo
Aemiliae potius legi paruerunt quam illi antiquae, qua primum censores creati
erant, quia hanc postremam iusserat populus et quia, ubi duae contrariae leges
sunt, semper antiquae obrogat nova. Nega che possa risalire alle XII Tavole
la norma riferita da Livio, A. Biscardi,
Aperçu historique du
problème de l'abrogatio legis, in Revue Internationale des Droits de l'Antiquité 18, 3ª
ser. (1971) 461. Critico F. Serrao,
Classi, partiti e legge nella repubblica
romana (Pisa 1974) 32 ss. nt. 85.
[84] J.
Bleicken, Lex
publica. Gesetze und Recht in der römischen Republik (Berlin-New York
1975) 231 ss.; 243; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches
sur les rapports de la philosophie grecque et la tradition romaine à la
fin de la République (Paris
1984) 142 ss.
[85] La norma decemvirale sullo iussum populi, citata da Liv. 7.17.12 (In secundo interregno orta contentio est, quod duo patricii consules
creabantur, intercedentibusque tribunis interrex Fabius aiebat in duodecim
tabulis legem esse, ut, quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque
esset; iussum populi et suffragia esse) e attribuita in genere dagli
editori moderni alla Tabula XII (cfr.
ad esempio Fontes Iuris Romani Antiqui,
edidit C.G. Bruns, ed. sexta,
cura Th. Mommseni et O. Gradenwitz [Friburgi in Brisgavia et Lipsiae 1893]
39 fr. 5; Fontes Iuris Romani
Antejustiniani. Pars prima. Leges,
ed. altera, curante S. Riccobono
[Florentiae 1941] 73 fr. 5) «segna la raggiunta capacità normativa
del popolo»: così M.
Bretone, Tecniche e ideologie dei
giuristi romani, 2ª ed. (Napoli 1982) 5; vedi anche F. D'ippolito, Le XII Tavole: il testo e la politica, in Storia di Roma 1. Roma in
Italia, dir. di A. Momigliano - A. Schiavone (Torino 1988) 407; L. Amirante, Una storia giuridica di Roma (Napoli 1990)
[86] Il
testo delle XII Tavole aveva costituito un indubbio successo della plebe: cfr.
per tutti, F. De Martino, Storia della costituzione romana I,
2ª ed. (Napoli 1972) 307 ss. Sul crescente ruolo politico della plebe
nell'età decemvirale, vedi J.-C.
Richard, Les origines de la
plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme
patricio-plébéien (Roma
1978) 593 ss. Per F. Serrao, Classi partiti e legge cit. 32, si
collegava indirettamente all'ideologia della plebe anche la legge decemvirale
di cui si discute nel testo.
[88] Su votum e vota publica vedi A.
Bouché-Leclercq, Les
pontifes de l'ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses
de Rome (Paris 1871, rist. New York 1975) 165 ss.; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung III, 2ª ed., a cura di G.
Wissowa (Leipzig 1885, rist. New York 1975) 264 ss. = Id., Le culte chez les
Romains I (Paris 1889) 315 ss.; G.
Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, 2ª ed. (München 1912) 381 ss.; J. Toutain, v. Votum, in Dictionnaire des
Antiquités Grecques et Romaines 5 (Paris 1919) 969 ss.; A. Magdelain, Essai sur les origines de la sponsio (Paris 1943) 114 ss.; P. Noailles, Du droit sacré au droit civil. Cours de droit romain approfondi 1941-1942 (Paris 1949) 302 ss.; K.
Latte, Römische
Religionsgeschichte (München 1960) 46; W. Eisenhut, v. Votum,
in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, Suppl. 14 (Stuttgart 1966) coll. 964
ss.; K. Visky, Il votum in diritto romano privato, in Index
2 (1971) 313 ss.; O. Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune fonti letterarie,
in Studi in onore di A. Biscardi IV
(Milano 1983) 297 ss.; Id., v. Voveo, in Enciclopedia Virgiliana IV (Roma 1990) 629 ss.; J. Daza, El votum, in Derecho de
obligaciones. Homenaje al profesor J. Murga Gener, coordinación y
presentación J. Paricio (Madrid 1994) 505 ss.
[89] Per quanto riguarda la dottrina dei sacerdotes Fetiales, cfr. Liv. 9.9.3-4: Nam quod deditione nostra negant exolvi
religione populum, id istos magis ne dadantur quam quia ita se res habeat
dicere, quis adeo iuris fetialium expers est qui ignoret? Neque ego infitias
eo, patres conscripti, tam sponsiones quam foedera sancta esse apud eos homines
apud quos iuxta divinas religiones fides humana colitur; sed iniussu populi
nego quicquam sanciri posse quod populum teneat.
[90] Il carattere obbligatorio del voto era
stato assai bene evidenziato da A. Pernice,
Zum römischen Sacralrechte (I),
in Sitzungsberichte der Akademie der
Wissenschaften zu Berlin 51 (1885) 1148. Brevemente, vedi anche
il recente lavoro di F.V. Hickson, Roman prayer language: Livy and the Aeneid
of Virgil cit. 91 ss. Del resto, nelle fonti il verbo obligare appare di frequente utilizzato in riferimento al votum: cfr. Cic. De leg. 2.41; D. 50.12.2; Macr. Sat.
3.2.6; Serv. in Verg. Buc. 5.80.
[91] Quanto
alla dottrina vedi, per tutti: J.
Marquardt, Römische
Staatsverwaltung III cit. 370 = Id.,
Le culte chez les Romains I cit. 316;
G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer cit. 145 ss.; N. Turchi, La religione di Roma antica cit. 130 ss.; G. De Sanctis, Storia
dei Romani IV.2.1 (Firenze 1953) 318 s.; E.
Eisenhut, v. Ver sacrum, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VIII.A.1
cit. coll. 911 ss.; J. Heurgon, Trois études sur le «ver
sacrum» (Bruxelles 1957) 35 ss.; K.
Latte, Römische
Religionsgeschichte cit. 124 s.; G.
Franciosi, Clan gentilizio e
strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana,
6ª ed. (Napoli 1999) 104 ss.
[92] Nega
anche il «sacrificio rituale degli animali» R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una
sanzione giuridico-religiosa cit. 46. Ma, in altro senso, la maggior parte
della dottrina: cfr. per tutti E.
Cantarella, I supplizi capitali in
Grecia e a Roma cit. 300 ss.
[93]
Console nel 237, censore nel 236, ascese al pontificato massimo dopo la morte
di L. Cecilio Metello nell'anno 221, morì nel
[96] Fonti
sul ver sacrum (a parte Tito Livio):
Paul. Festi ep., p.
[97] B.
Brissonii, De
formulis et solennibus populi Romani verbis libri VIII (ed. Francofurti et
Lipsiae 1754) 88 nr. CLXI; P. Preibisch,
Fragmenta librorum pontificiorum cit.
10 fr. 47; G. Appel, De Romanorum precationibus (Gissae 1909)
8 s. fr. 5.
[98] Liv. 22.9.7-10: Q.
Fabius Maximus dictator iterum, quo die magistratum iniit, vocato senatu, ab
dis orsus, cum edocuisset patres plus neglegentia caeremoniarum auspiciorumque
quam temeritate atque inscitia peccatum a C. Flaminio consule esse, quaeque
piacula irae deum essent ipsos deos consulendos esse, pervicit, ut, quod non
ferme decernitur, nisi cum taetra prodigia nuntiata sunt, decemviri libros
Sibyllinos adire iuberentur. Qui inspectis fatalibus libris rettulerunt
patribus, quod eis belli causa votum Marti foret, id non rite factum de integro
atque amplius faciendum esse, et Iovi ludos magnos et aedes Veneri Erucinae ac
Mentis vovendas esse et supplicationem lectisterniumque habendum et ver sacrum
vovendum, si bellatum prospere esset resque publica in eodem, quo ante bellum
fuisset, statu permansisset.
Cfr. J. Scheid, Les incertitudes de la uoti sponsio. Observations en marge du uer sacrum de 217 av. J.-C., in Mélanges
de droit romain et d'histoire ancienne. Hommage à la mémoire de
André Magdelain, a cura di M. Humbert e Y. Thomas (Paris 1998) 417
ss.
[99] Ha
sottolineato l'eccezionalità di un simile voto J. Heurgon, Trois études sur le «ver sacrum» cit. 36.
[101] Tutta
la seconda metà del III secolo è interessata da un forte movimento
riformatore: la riforma dell'ordinamento centuriato (G. De Sanctis, Storia
dei Romani III.1 [Torino 1916] 1ª rist. della 2ª ed. [Firenze
1970] 327 ss.); la distribuzione viritim
dell'ager Picenus Gallicus (vedi F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C. cit. 209 ss.). Per un
quadro più generale A.J. Toynbee,
L'eredità di Annibale. Le
conseguenze della guerra annibalica nella vita romana, I. Roma e l'Italia prima di Annibale,
trad. it. (Torino 1981) 353 ss.
[102]
Sull'evoluzione della dittatura, cfr. per tutti, F. De Martino, Storia
della costituzione romana I cit. 438 ss.
[103] La
frase, riferita a L. Cornelio Lentulo, si legge in A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome cit. 168.
[104] Anche
la successiva giurisprudenza pontificale non transige sull'applicazione della
regola «iniussu populi voveri non
posse»: cfr. Cic. De domo
136: Sed, ut revertar ad ius
publicum dedicandi, quod ipsi pontifices
semper non solum ad suas
caerimonias, sed etiam ad populi
iussa accomodaverunt, habetis in commentariis
vestris C. Cassium censorem de signo
Concordiae dedicando ad pontificum collegium retulisse eique M. Aemilium pontificem maximum pro collegio respondisse, nisi eum populus
Romanus nominatim praefecisset atque eius iussu faceret, non videri eam posse
recte dedicare. Quid? cum Licinia
virgo Vestalis summo loco nata,
sanctissimo sacerdotio praedita, T. Flaminio
Q. Metello consulibus aram et
aediculam et pulvinar sub Saxo
dedicasset, nonne eam rem ex
auctoritate senatus ad hoc collegium
Sex. Iulius praetor rettulit? cum P. Scaevola pontifex maximus pro collegio
respondit: “quod in loco publico
Licinia Gai filia iniussu populi dedicasset, sacrum non viderier”.
Dalle fonti, peraltro, abbiamo conferma della vigenza di tale regola già
alla fine del V secolo a.C.; come si apprende da Liv. 4.20.4: Dictator coronam auream libram pondo ex
publica pecunia populi iussu in Capitolio Iovi donum posuit.
[105] G. Dumézil, La religion romaine archaïque cit. 473 = Id., La religione romana arcaica cit. 411.
[106]
Significativo l'uso dell'arcaica forma duellum
in luogo di bellum, di cui restava
memoria ormai solo nelle opere di eruditi e antiquari (Varr. De ling. Lat. 7.49; Cic. Orat. 153; Quint. Inst. orat. 1.4.15) e nelle formule solenni della lingua sacerdotale:
Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L.
VI.32323.94 = G.B. Pighi, De ludibus saecularibus populi Romani
Quiritium (Milano 1941) 114; Act.
lud. saec. Sept. Sev. 4.11 = C.I.L. VI.32329.11 = G.B. Pighi, Op. cit.
157: imperi>um maiestatem que p. R. Q.
du<elli domique auxis utique semper Latinu>s obtemperassit). Altre
fonti confermano che la tradizione documentaria sacerdotale conservava arcaismi
linguistici (Fest. De verb. sign., v. Praeceptat, p.
[107] A.
Bouché-Leclercq, Les pontifes de l'ancienne Rome cit. 167 s.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque cit. 474 = Id., La religione romana arcaica cit. 411.
[108] Gell. Noct. Att.
4.6.10: Propterea verba Atei Capitonis ex
quinto librorum, quos de pontificio iure composuit, scripsi: ‘Tib. Coruncanio pontifici maximo feriae
praecidaneae in atrum diem inauguratae sunt. Collegium decrevit non habendum
religioni, quin eo die feriae praecidaneae essent’. Cfr. F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur cit. 92 s.