N. 6 – 2007 –
Tradizione Romana
Università di
Cagliari
Capitis deminutio e captivitas
Sommario: 1. Gli orientamenti della
dottrina in tema di capitis deminutio del captivus. –
2. Durante il periodo di
prigionia, pur essendo il captivus servus hostium, tamen pendet ius
liberorum. – 3.
Esame delle problematiche
connesse ad un eventuale scioglimento del matrimonio del captivus in
seguito alla capitis deminutio. – 4. Esegesi di D. 48.5.14.7.
– 5. Esegesi di D.
23.2.45.6. – 6. Una
volta tornati in patria con i genitori, i figli concepiti e nati in prigionia
sono liberi e legittimi. – 7. Conclusioni.
Al momento
della cattura da parte del nemico il cittadino romano, come è noto,
diveniva servus hostium, perdendo la titolarità dei propri
diritti per riacquistarli, eventualmente, al momento del rientro in patria in
virtù del postliminium. La dottrina si è chiesta,
sin dai secoli passati, se con la cattura e la conseguente perdita della
libertà il captivus subisse una capitis deminutio
maxima[1],
con estinzione dei diritti e successivo riacquisto degli stessi al momento del
ritorno nel territorio romano, o se, pur verificandosi la perdita della
libertà, la capitis deminutio[2]
non si considerasse realizzata per via del postliminium, che faceva
sì che le situazioni in patria non si estinguessero, ma rimanessero in
uno stato di pendenza. Il captivus viene qualificato capite deminutus
in alcune fonti letterarie[3],
ma nelle fonti giuridiche dell’età classica non è detto mai
espressamente ed univocamente tale e i pochi testi sui quali ci si è
basati per sostenere che la captivitas comportasse una capitis
deminutio maxima sono, come si vedrà, dotati di una sostanziale
ambivalenza oppure considerati interpolati. Un’autorevole dottrina[4]
ha ipotizzato che si sarebbe passati, con l’emanazione della lex
Cornelia[5],
da una concezione più antica per cui il postliminium avrebbe
comportato la rinascita dei diritti del captivus, estinti in seguito
alla capitis deminutio - intesa in tale periodo solo come perdita
da parte del soggetto della propria posizione nell’ambito dell’ordinamento
giuridico - ad una concezione dell’epoca classica per cui tali diritti
sarebbero rimasti in pendenti in attesa del ritorno o della morte del captivus.
Nel periodo antecedente la lex Cornelia, il captivus avrebbe
subito la capitis deminutio al momento della cattura e i figli rimasti in
civitate sarebbero divenuti sui iuris; una volta stabilita la
validità del testamento del prigioniero morto in captivitate,
questi non sarebbe più stato considerato capite deminutus e i
figli non sarebbero più divenuti sui iuris, ma la loro condizione
sarebbe rimasta in uno stato di pendenza[6].
Non
esistono, però, fonti giuridiche che possano comprovare questa
suggestiva teoria per il periodo anteriore alla lex Cornelia[7];
le testimonianze delle fonti letterarie, se pur possono deporre per una qualche
associazione fra la situazione del captivus e quella del capite
deminutus nel modo di vedere della società romana dell’epoca,
non sono, ad avviso di molti Autori, determinanti perché potrebbero non
utilizzare il concetto di capitis deminutio in modo tecnico ma indicare,
più semplicemente, con esso la perdita della propria posizione sociale e
giuridica di fronte all’ordinamento romano[8].
Per
quanto riguarda le fonti giuridiche di età classica, i pochi testi, come
D. 38.16.1.4, sui quali parte della dottrina si è basata per sostenere
che la captivitas comportasse una capitis deminutio maxima[9]
sono, come si è detto, ambivalenti e, infatti, sono stati interpretati
in senso contrastante da altra parte della dottrina. Esaminiamo, dunque,
D. 38.16.1.4 (Ulpianus l. 12 ad Sabinum): Si filius suus heres esse desiit, in eiusdem
partem succedunt omnes nepotes neptesque ex eo nati qui in potestate sunt: quod
naturali aequitate contingit. filius autem suus heres esse desinit, si capitis
deminutione vel magna vel minore exiit de potestate. quod si filius apud hostes
sit, quamdiu vivit nepotes non succedunt. proinde etsi fuerit redemptus, nondum
succedunt ante luitionem: sed
si interim decesserit, cum placeat eum statu recepto decessisse, nepotibus
obstabit.
Dopo
aver ricordato il principio secondo il quale se un figlio cessa di essere suus
heres succedono al suo posto tutti i nipoti (maschi e femmine) che sono in
potestate del nonno al momento della sua morte, per un principio di aequitas
naturalis[10],
Ulpiano si chiede quando un figlio cessa di essere suus heres e la
risposta è nel senso che perderà tale qualifica se esce dalla potestas
paterna per capitis deminutio, sia magna che minor[11].
Col quod si, sul quale si è accentrata l’attenzione della
dottrina, il giurista passa poi ad esaminare il caso del figlio captus ab
hostibus, affermando che finché egli è in vita i nipoti non
potranno succedere al nonno[12].
Anche se il prigioniero sia rientrato in patria in qualità di redemptus,
continua Ulpiano, i nipoti non solo non potranno succedere prima del pagamento
del prezzo del riscatto (ante luitionem)[13],
ma neppure in caso di morte del redemptus durante la sottoposizione al redemptor[14],
perché in questo caso sarà il redemptus stesso a succedere,
anche se il riacquisto della condizione di suus sarebbe contemporaneo
alla morte. Fino a che permane il vinculum pignoris che grava su di lui,
il redemptus, pur essendo rientrato nel territorio romano, non sembra
avere riacquistato i vincoli di adgnatio con la famiglia ai fini
successori, perché la sottoposizione al redemptor impedirebbe il
ristabilirsi dei rapporti agnatizi sino alla morte (o al pagamento del prezzo
del riscatto, se accettiamo l’ipotesi formulata nella prima parte di D.
49.15.15[15]).
Al momento del rientro del redemptus, dunque, i rapporti di adgnatio
che, in assenza di redemptio, dovrebbero essere riacquistati per via del
verificarsi del postliminium, non possono dirsi ancora ristabiliti.
Secondo una parte della dottrina[16],
il quod si del passo, con valore concessivo, introdurrebbe un esempio di
capitis deminutio, secondo altra parte avrebbe,
invece, un valore oppositivo e differenzierebbe le ipotesi di capitis deminutio
dalle ipotesi di captivitas[17].
Il dibattito si è riacceso di recente: la Cursi[18]
ha osservato che la presunta opposizione in D. 38.16.1.4 tra capitis
deminutio e captivitas «potrebbe non essere strutturale -
ossia non riguardare la ‘causa’ dell’uscita dalla patria
potestas, che in entrambi i casi potrebbe coincidere con la capitis
deminutio – ma interessare esclusivamente gli ‘effetti’
– ossia, com’è noto, l’applicazione del postliminium
e della fictio legis Corneliae al solo prigioniero di guerra[19]
e non anche al semplice capite deminutus»[20].
L’Autrice, pur considerando non sufficientemente provata anche la teoria
per la quale il quod si avrebbe un valore concessivo, ritiene che, in
base all’esame di altre fonti, sia letterarie[21]
che giuridiche[22],
si possa propendere per la tesi del realizzarsi della capitis deminutio.
Da
ultima,
A me
pare, invero, che la dottrina abbia accentrato in maniera eccessiva l’attenzione
sull’alternativa verificarsi – non verificarsi della capitis
deminutio in capo al captivus, tentando di ricavarne le prove da
elementi formali come il quod si di D. 38.16.1.4, che difficilmente
possono fornire una risposta certa. I giuristi romani, lungi dal porsi il
problema se il captivus subisse o meno una capitis deminutio,
sembrano, piuttosto, considerare le problematiche relative caso per
caso, contemperando i vari interessi in giuoco e tenendo sempre conto della spes
postliminii. Osservava già l’Albanese [28]
che la situazione di pendenza relativa ai rapporti preesistenti del captivus
non si presta ad essere inquadrata in schemi rigorosi e che i giuristi
operarono empiricamente «nell’intento di salvare, nei limiti del
possibile, le aspettative del captivus che eventualmente cessi
d’esser tale ed anche nell’intento – spesso divergente
– di non sacrificare gli interessi dei terzi».
Se i
giuristi hanno considerato il captivus servus hostium, e, dunque,
da un certo punto di vista, capite deminutus, lo hanno fatto solo per
ciò che concerne la sua posizione al di fuori del territorio romano,
senza definirlo mai tale espressamente - e anzi cercando di paralizzare gli
effetti derivanti dalla schiavitù per la speranza del suo ritorno - ma non
per quanto riguarda la regolamentazione della situazione dei figli rimasti in
patria, che non divengono sui iuris, ma si trovano in una situazione di
pendenza in attesa del ritorno o della morte del pater, come afferma il
noto
Gai 1.129: Quodsi ab hostibus captus fuerit parens, quamvis
servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius postliminii, quo hi
qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt;
itaque reversus habebit liberos in potestate. Si vero illic mortuus sit, erunt
quidem liberi sui iuris; sed utrum ex hoc tempore quo mortuus est apud hostes
parens, an ex illo quo ab hostibus captus est, dubitari potest. Ipse quoque
filius neposve si ab hostibus captus fuerit, similiter dicemus propter ius
postliminii potestatem quoque parentis in suspenso esse[29].
L’affermazione di Gaio per cui i prigionieri
al loro ritorno omnia
pristina iura recipiunt ha destato
qualche perplessità, in quanto il verbo recipere, secondo la
dottrina prevalente, presupporrebbe un amittere, che comporta
estinzione dei diritti[30],
mentre Gaio parla espressamente di pendenza: il giurista nello stesso passo
affermerebbe, dunque, sia che
pendet ius liberorum, sia che i
prigionieri al ritorno omnia
iura recipiunt[31]. Tale circostanza induce a pensare che anche la
contrapposizione che si è voluta vedere tra le fonti nelle quali si
parla di pendenza[32],
e quelle nelle quali si parla di estinzione (amittere, restituere iura)
dei diritti del captivus[33],
sia stata accentuata in maniera eccessiva dalla dottrina, e che non si possano,
in ogni caso, correttamente applicare al diritto romano i moderni concetti di
pendenza, quiescenza, reviviscenza, estinzione dei diritti.
Se il captivus ritorna, afferma, comunque, Gaio nel nostro passo,
riacquista omnia pristina iura, e avrà i figli in potestate, se muore in
prigionia, i figli saranno sui
iuris. Il giurista aggiunge, però,
che è dubbio (dubitari potest) il momento a partire dal quale saranno
considerati tali, se il momento della morte del padre o quello della cattura[34];
sembrerebbe, pertanto, che l’applicazione della fictio legis Corneliae non fosse stata, ai tempi di Gaio, ancora estesa
alla successione ab
intestato, come sembra, invece, ritenere la dottrina prevalente[35]. Il dubbio espresso nel passo col dubitari potest non appare
più in un passo del più tardo Trifonino:
D. 49.15.12.1 (Tryphoninus l. 4 disputationum): Si quis capiatur ab hostibus, hi, quos in
potestate habuit, in incerto sunt, utrum sui iuris facti an adhuc pro filiis
familiarum computentur: nam
defuncto illo apud hostes, ex quo captus est, patres familiarum, reverso
numquam non in potestate eius fuisse credentur.
Mentre
Gaio[36]
afferma che è dubbio[37]
se i figli saranno considerati sui
iuris dal momento della morte del
padre o da quello della cattura, per Trifonino, morto il padre in
prigionia, i figli sono considerati sui iuris sin dal momento della
cattura.
Nel
passo delle Istituzioni imperiali corrispondente a quello gaiano, che ribadisce
in caso di morte presso il nemico la soluzione proposta da Trifonino, si motiva il fatto che il padre, al suo
ritorno, avrà i figli in
potestate con la fictio postliminii:
I. 1.12.5: Si ab
hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen pendet ius
liberorum propter ius postliminii: quia hi, qui ab hostibus capti sunt, si
reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt. idcirco reversus et liberos
habebit in potestate, quia postliminium fingit eum qui captus est semper in
civitate fuisse: si vero ibi decesserit, exinde, ex quo captus est pater,
filius sui iuris fuisse videtur. ipse quoque filius neposve si ab hostibus
captus fuerit, similiter dicimus propter ius postliminii ius quoque potestatis
parentis in suspenso esse.
Parte della dottrina ritiene che la fictio postliminii di cui si parla nel passo rappresenti
un’innovazione giustinianea [38]; dal momento, però, che il contenuto di
tale fictio[39] non si discosta dal contenuto della fictio legis Corneliae, in quanto ambedue fingono che il captivus non sia mai stato catturato, sia sempre rimasto in civitate, e che lo stesso concetto appare in numerosi passi
del Digesto[40],
occorre chiedersi se si tratti realmente di un’innovazione dei
giustinianei, che avrebbero interpolato i testi classici. Questa era la tesi
della dottrina più risalente, ma già l’Albanese[41]
aveva ritenuto che i sospetti di interpolazione su tali passi non abbiano
ragione di essere e che la dichiarazione giustinianea di I. 1.12.5, pur
rappresentando formalmente un’alterazione rispetto a Gai 1.129, sia
sostanzialmente coincidente con il pensiero dei classici.
Dal momento che in base
ai testi finora esaminati non si può arrivare a delle conclusioni sicure
sul verificarsi della capitis deminutio a carico del captivus,
anche perché, come osservato, i giuristi romani non si sono posti
nell’ottica verificarsi – non verificarsi della capitis
deminutio, passiamo, ora, ad esaminare altri testi relativi al caso del
matrimonio del captivus, che secondo la dottrina dominante si scioglie
in seguito alla prigionia [42].
Il matrimonio non potrebbe essere riacquistato automaticamente al momento del
rientro in patria iure postliminii, ma se ne dovrebbe costituire
uno nuovo con una nuova manifestazione di volontà, proprio
perché, in seguito alla capitis deminutio [43]
conseguente alla cattura, la volontà del captivus non potrebbe
essere considerata giuridicamente rilevante, e quindi verrebbe meno il consenso
continuo richiesto per la validità del matrimonio, come si ricaverebbe
da
D.
49.15.14.1 (Pomponius l. 3 ad Sabinum): Non ut pater filium, ita uxorem maritus iure postliminii recipit: sed consensu redintegratur matrimonium
Nel passo Pomponio
potrebbe, però, aver solo voluto differenziare la patria potestas,
che si riacquista iure postliminii, cioè automaticamente, dal
matrimonio, che non si reintegra automaticamente, ma con la manifestazione del
consenso [44].
Il verbo redintegratur non indica necessariamente la nascita di un nuovo
matrimonio, ma potrebbe far pensare anche alla reintegrazione di quello
precedente.
Né decisivo per
la tesi che sostiene lo scioglimento per capitis deminutio e il nascere
di un nuovo matrimonio sembra
D.
24.2.1 (Paulus l. 35 ad edictum): Dirimitur
matrimonium divortio morte captivitate vel alia contingente servitute utrius
eorum.
Il passo si limita,
infatti, ad affermare che il matrimonio si scioglie per captivitas[45],
vel alia contingens servitus, senza, peraltro, fare espresso riferimento
alla capitis deminutio [46],
ma non nega la possibilità che lo stesso matrimonio si possa reintegrare
con la manifestazione di un nuovo consenso.
In un passo di
Trifonino, tratto dai libri disputationum, si afferma, poi, che durante
la captivitas non esiste matrimonio, nonostante l’intenzione [47]
in tal senso dell’uxor rimasta in patria:
D.
49.15.12.4 (l. 4 disputationum): Sed captivi uxor, tametsi maxime velit et in domo eius sit, non tamen
in matrimonio est.
Il giurista nel nostro
passo non si occupa, peraltro, del momento del rientro, ma solo della
condizione della donna rimasta in civitate durante la prigionia del
marito; la circostanza che, comunque, abbia sentito la necessità di
affermare che l’uxor, nonostante la volontà in tal senso[48]
e la sua permanenza nella casa coniugale, non tamen in matrimonio est, sembra
deporre per la non completa condivisione da parte di tutti i giuristi della
totale insussistenza del matrimonio durante la prigionia[49].
D’altra
parte, non sempre la giurisprudenza romana ha ritenuto assolutamente
necessaria, per il sussistere o il permanere del matrimonio, la volontà
continua dei coniugi; caratteristico in questo senso, per il Pugliese[50],
sarebbe il trattamento del matrimonio del furiosus[51],
che «mette in luce il carattere non rigoroso dell’orientamento
giurisprudenziale che richiedeva la volontà matrimoniale continua»[52].
Pur
essendo la situazione del captivus diversa da quella del furiosus[53]
perché il captivus diviene servus hostium mentre il
furiosus perde, almeno secondo la dottrina prevalente, solo la
«capacità di agire»[54],
sembra, comunque, singolare che i giuristi romani si siano mostrati così
inclini a salvare il matrimonio del furiosus e così rigidi nel
negare ogni rilevanza al matrimonio del captivus ritornato in patria,
considerato, tra l’altro, che in alcuni testi sembra prospettata la
possibilità che, una volta rientrato il captivus (o la captiva),
il periodo di prigionia, per motivi di benignitas[55]
e di humanitas[56],
fosse considerato a certi effetti come mai esistito, come se il captivus
non fosse mai stato apud hostes.
Così
nel passo che andiamo ad esaminare si concede benignius l’accusatio
iure viri al marito [57]
per l’adulterio commesso dalla moglie durante la prigionia:
D.
48.5.14.7 (Ulpianus l. secundo de adulteriis): Si quis plane uxorem suam, cum apud hostes esset, adulterium commisisse
arguat, benignius dicetur posse eum accusare iure viri: sed ita demum
adulterium maritus vindicabit, si vim hostium passa non est: ceterum quae vim
patitur, non est in ea causa, ut adulterii vel stupri damnetur.
Il passo, inserito nel
titolo ad legem Iuliam de adulteriis coercendis[58],
nel suo tenore letterale concede benignius al marito di accusare iure
viri la moglie, a meno che non vi sia stata violenza da parte dei nemici,
per un adulterio commesso mentre era apud hostes, adulterio che, dunque,
non potrebbe essere tale tecnicamente, perché il matrimonio[59]
dovrebbe essere sciolto e la donna dovrebbe essere schiava. Il passo è
stato, pertanto, considerato interpolato[60]
dalla dottrina più risalente, o interpretato in maniera tale da mutarne
il significato[61].
Per la genuinità del passo si sono schierati, invece, per la dottrina
più risalente, il Rasi[62]
e, per quella più recente, l’Ankum[63],
il Rizzelli[64]
e il Palma[65].
Per quanto riguarda la
difficoltà maggiore del passo, cioè ammettere che la captiva
possa avere commesso un adulterio, dal momento che si trova in schiavitù[66]
e le iustae nuptiae sono venute meno, il Volterra[67]
aveva osservato che la nozione di nuptiae su cui si basa quella di adulterium
non è ristretta al solo caso di iustae nuptiae ma è molto
più estesa, comprendendo anche unioni che non possono essere considerate
matrimoni legittimi, come quelle di un cittadino romano con una peregrina
sine conubio; il reato che va sotto il nome di adulterium
assumerebbe già dunque nel diritto classico un significato vastissimo[68].
Mentre l’accusatio privilegiata sarebbe esperibile, per
l’Autore, solo in caso di adulterio rigorosamente tecnico, cioè in
caso di iustae nuptiae, l’accusatio iure extranei sarebbe
concessa sia per l’adulterio in senso tecnico che per lo stuprum[69];
il nostro passo sarebbe, pertanto, interpolato, in quanto nel dettato
originario avrebbe concesso l’accusatio non iure viri, ma iure
extranei[70].
Il Rizzelli[71]
va oltre, ritenendo che le unioni costituenti matrimonia iniusta siano
state gradualmente attratte nella repressione dell’adulterium in
ragione dell’estendersi del concetto di matrimonio ad altre unioni
monogamiche tendenzialmente stabili diverse dalle iustae nuptiae; non
varierebbe, pertanto, nella coscienza sociale la nozione di adulterium,
ma quella di matrimonium. L’Autore ritiene il passo non
interpolato, pur avvertendo la problematicità della soluzione di
concedere l’accusatio iure mariti, tanto da suggerire
l’ipotesi, ingegnosa ma del tutto indimostrabile, che la donna si
trovasse presso i nemici non come captiva ma come ostaggio[72].
Sia il Volterra che il
Rizzelli non riescono, però, a superare la principale difficoltà
del passo, che è rappresentata dalla circostanza che se il matrimonio
durante la prigionia non produce alcun effetto, la captiva non
può aver commesso adulterio in alcun modo, sia se lo si intenda in senso
stretto, come relazione sessuale di una donna legata da iustae nuptiae,
sia in senso ampio, come comprendente anche lo stupro, in quanto anche
quest’ultimo deve necessariamente essere commesso da una donna libera.
Se, infatti, nelle fonti si concede l’accusatio, non iure viri
ma iure extranei, in alcuni casi in cui non esiste un matrimonium
iustum[73],
come in quello della sponsa[74],
diversa è la situazione in cui versa la captiva, per la quale non
si pone un problema di matrimonium iustum o iniustum, in quanto
si trova in condizioni di schiavitù.
Ciononostante, l’accusatio
iure mariti viene concessa, ma benignius[75],
dunque anche se a rigor di termini non spetterebbe; tale circostanza potrebbe
far pensare che alcuni giuristi, tra i quali dobbiamo, dunque, annoverare
Ulpiano, ritenessero che in certi casi il matrimonio mantenesse qualche effetto
anche durante la captivitas[76],
fosse considerato, perlomeno a questi fini, “in qualche modo”
esistente
anche durante il periodo di prigionia[77].
Un altro caso nel quale
il matrimonio appare mantenere effetti durante la prigionia è quello del
patronus che ha sposato la propria liberta[78]:
D.
23.2.45.6 (Ulpianus l. 3 ad legem Iuliam et Papiam): Si ab hostibus patronus captus esse
proponatur, vereor ne possit ista conubium habere nubendo, quemadmodum haberet,
si mortuus esset. et qui Iuliani
sententiam probant, dicerent non habituram conubium: putat enim Iulianus durare eius libertae
matrimonium etiam in captivitate propter patroni reverentiam. certe si in aliam
servitutem patronus sit deductus, procul dubio dissolutum esset matrimonium.
Ulpiano esprime con il vereor
ne il timore, il dubbio che la liberta unita in matrimonio con un patronus
che è stato captus ab hostibus non possa risposarsi durante la
prigionia, come sarebbe, invece, possibile se egli fosse morto. Coloro che
seguono l’opinione di Giuliano, continua il giurista severiano, si
basano, infatti, sulla circostanza che essa non ha il conubium [79],
in quanto per Giuliano il matrimonio dura anche nel periodo della prigionia propter
patroni reverentiam[80].
Giuliano affermerebbe,
pertanto, che il matrimonio fra la liberta e il suo patrono non si
scioglieva in seguito alla captivitas, il che ha indotto la dottrina
più risalente [81]
a considerare interpolato il passo, mentre in seguito il Volterra[82],
che in precedenza si era espresso in tal senso[83],
ha osservato che la genuinità del testo risulta dalle espressioni
adoperate: vereor ne possit ista conubium habere nubendo e non
habituram conubium[84].
La parola conubium, che compare nel passo per ben due volte, non
può essere stata inserita, secondo l’Autore, dai compilatori, che
non solo non la adoperano, ma l’hanno «accuratamente ed
intenzionalmente» soppressa dovunque. Per il Volterra Ulpiano non afferma
di seguire l’opinione di Giuliano, ma si limita a riferirla; che,
però, ne riporti correttamente il pensiero risulterebbe dall’esame
di un altro passo dello stesso giurista, tratto dallo stesso libro 62 digestorum,
D. 24.2.6[85],
che, tranne forse il temere, sembra originale e risponde pienamente al
pensiero di Giuliano: la moglie del captivus rimane nella condizione di nupta
solo in quanto non può unirsi in matrimonio legittimo con altri,
concetto tipicamente classico che non potrebbe essere attribuito ai
giustinianei.
Secondo altri Autori il passo mostra una disputa tra Ulpiano
e Giuliano: per il Watson [86], Ulpiano ritiene che la captivitas ponga fine al matrimonio fra il patrono e la liberta, mentre il punto di vista di Giuliano, genuino,
rappresenterebbe un’eccezione rispetto alla regola per cui in diritto classico il matrimonio si
scioglie per captivitas[87]; anche secondo l’Urso[88], Ulpiano riterrebbe che, in seguito alla prigionia del
marito, la liberta possa legittimamente passare a nuove nozze, in quanto il vereor seguito dal ne avrebbe significato positivo e non negativo[89], mentre Giuliano difenderebbe la tesi che la liberta sia privata del conubium per passare a nuove nozze[90]. A me non pare che dal tenore del passo risulti tale
disputa, ma, piuttosto, che Ulpiano, pur con qualche perplessità (vereor
ne), ritenga valida l’opinione di Giuliano,
secondo il quale, durante la prigionia del marito patronus, la liberta non può sposarsi con un altro
perché difetta del conubium[91], e il matrimonio dura anche durante la captivitas. Certamente anche in questo, come nel passo esaminato in
precedenza, la soluzione può essere dovuta alla peculiarità delle
situazioni esaminate, ma entrambi fanno pensare che, se anche fosse esistita
una regola che prevedeva lo scioglimento del matrimonio del captivus al momento della cattura, tale regola sia stata
suscettibile di alcune deroghe.
Passiamo, ora,
all’esame di altri passi che sollevano ugualmente qualche dubbio sulla
circostanza che il matrimonio durante il periodo di prigionia non producesse
alcun effetto[92],
come i noti[93]
C. 8.50.1 (Impp. Severus et Antoninus AA. Ovinio):
Ex duobus captivis Sarmatia nata
patris originem ita secuta videtur, si ambo parentes in civitatem nostram
redissent. quamquam enim iure proprio postliminium habere non possit quae capta
non est, tamen parentum restitutio reddet patri filiam. Qui cum ab hostibus
interemptus sit, matris dumtaxat condicionem, quae secum filiam duxit, videtur
necessario secuta. nam fictio legis Corneliae, quae legitimos apud hostes
defuncto constituit heredes, ad eam quae illic suscepta est non pertinet, cum
eo tempore quo captus est diem suum pater obisse existimetur.
D. 49.15.9 (Ulpianus l. 4 ad legem Iuliam et
Papiam): Apud hostes susceptus
filius si postliminio redierit, filii iura habet: habere enim eum postliminium
nulla dubitatio est post rescriptum imperatoris Antonini et divi patris eius ad
Ovinium Tertullum praesidem provinciae Mysiae inferioris[94].
D. 49.15.25 (Marcianus l. 14 institutionum):
Divi Severus et Antoninus
rescripserunt, si uxor cum marito ab hostibus capta fuerit et ibidem ex marito
enixa sit: si reversi fuerint, iustos esse et parentes et liberos et filium in
potestate patris, quemadmodum iure postliminii reversus sit : quod si cum
matre sola revertatur, quasi sine marito natus, spurius habebitur[95].
D. 38.17.1.3 (Ulpianus l. 12 ad Sabinum):
...sed et si apud hostes conceptus a
captiva procreatus cum ea rediit, secundum rescriptum imperatoris nostri et
divi patris eius ad Ovinium Tertullum poterit ex hoc senatus consulto admitti
quasi vulgo quaesitus[96].
In C.
8.50.1 si affronta la complessa situazione di una figlia concepita e nata
durante la prigionia dei genitori e poi tornata in patria con la sola madre
perché il padre è morto in prigionia. Se la figlia fosse
rientrata assieme a tutti e due i genitori, pur non potendo godere iure
proprio del postliminium, che si applica a chi è stato captus
ab hostibus mentre lei non lo è stata, tuttavia parentum
restitutio[97]
reddet patri filiam; le si concede, quindi, usando le parole
dell’Arangio-Ruiz[98],
un quasi-postliminium[99].
Nel caso preso in esame, però, essendo la figlia tornata solo con la
madre, dovrà seguire la condizione di questa, e di nessun giovamento le
potrà essere la fictio legis Corneliae con la quale si
considererebbe morto il padre nel momento della cattura, perché in tale
momento non era neppure concepita[100].
Negli altri passi, che
richiamano espressamente il rescritto di Severo e Caracalla[101],
si ribadisce che il figlio concepito e nato in prigionia potrà godere al
suo ritorno del postliminio: se torna con ambedue i genitori sarà
considerato legittimo[102],
se rientra solo con la madre, quasi spurius. In D. 38.17.1.3, in base al
rescritto, si ammette, poi, all’eredità della madre il figlio da
lei avuto in prigionia, quasi vulgo quaesitus[103].
Alcuni Autori osservano
che se il matrimonio fosse continuato durante la prigionia non si sarebbero
posti problemi per i figli, e che, dunque, il rescritto mostra come, invece, il
matrimonio si sciogliesse; secondo altri[104],
i testi provano, invece, che il matrimonio continuava ad esistere:
l’impiego da parte di Marciano dei termini uxor, cum marito, quasi
sine marito, costituirebbe una prova in tal senso[105].
Occorre, innanzitutto, porre in evidenza che C. 8.50.1 non adduce come
motivazione dell’impossibilità di concedere un vero e proprio postliminium
alla figlia la mancanza del matrimonio tra i genitori[106],
ma il fatto che essa non è stata capta ab hostibus: quamquam
enim iure proprio postliminium habere non possit quae capta non est. Una
volta tornata la figlia con entrambi i genitori, sarà però non
solo libera, ma anche legittima, soluzione che implicitamente sembra partire
dall’idea che il matrimonio abbia mantenuto qualche effetto anche durante
la prigionia: il matrimonio si considera, peraltro, esistente non a tutti gli
effetti, come sostiene parte della dottrina, ma al solo fine di consentire la
legittimità della figlia. Se, infatti, ritenessimo il matrimonio durante
la prigionia esistente a tutti gli effetti, allora la figlia dovrebbe essere
legittima anche se fosse tornata senza il padre. A tal proposito, è
interessante notare che perché la figlia sia considerata legittima si
richiede solo che il padre sia tornato, non che sia tornato assieme alla figlia
né che abbia rinnovato il consenso al matrimonio.
Per quanto riguarda il
figlio concepito in civitate e nato in prigionia, concepito, dunque, in
patria all’interno di un legittimo matrimonio, la prigionia non influisce
sul suo status, in quanto il figlio segue la condizione del padre al
momento del concepimento, quando il matrimonio senza dubbio esisteva. Egli
gode, inoltre, del postliminio ben prima del rescritto di Severo e Caracalla,
perché era già in utero quando la madre è stata
catturata, e dunque in rerum natura[107],
come afferma il noto
D.
1.5.26 (Iulianus l.
69 digestorum): Qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur
in rerum natura esse. nam et legitimae hereditates his restituuntur: et si
praegnas mulier ab hostibus capta sit, id quod natum erit postliminium habet,
item patris vel matris condicionem sequitur: praeterea si ancilla praegnas
subrepta fuerit, quamvis apud bonae fidei emptorem pepererit, id quod natum
erit tamquam furtivum usu non capitur[108].
In un
altro passo, piuttosto discusso, si affronta, poi, il problema di un figlio
concepito in patria e di uno concepito presso i nemici, equiparandoli circa la
possibilità di essere considerati sui del nonno
D.
28.3.6.1/2 (Ulpianus l. 10 ad Sabinum): Sed si pater eius, qui mortis avi tempore in utero fuit, apud hostes
erat, nepos iste patre in eadem causa decedente post mortem avi succedendo
testamentum rumpet, quia supra scripta persona ei non obstat: nec enim creditur
in rebus humanis fuisse, cum in ea causa decedat, quamquam captivus reversus
patris sui iniustum faceret testamentum in eo praeteritus. Sive autem in
civitate nepos fuit conceptus sive apud hostes, quoniam datur et partui postliminium,
succedendo testamento rumpit.
Il padre di un
concepito è apud hostes al momento della morte del nonno; se il
padre muore in captivitate, il nipote (che nasce dopo la morte del
nonno) testamentum rumpet, se il padre torna e non è stato
nominato erede, sarà, invece, lui a rumpere il testamento. Il
passo affronta il problema di un nipote che nasce postumo[109]:
requisito perché possa succedere è che il padre sia morto[110],
ma se è stato captus ab hostibus, sintanto che si trova apud
hostes, la praeteritio del nipote non provoca ruptio; solo se
il padre muore in prigionia, il nipote rompe il testamento.
Nel secondo paragrafo,
però, di più difficile comprensione[111],
si equipara il caso in cui il nipote sia stato concepito in patria a quello in
cui sia stato concepito presso i nemici[112]:
in ambedue i casi, tornando in patria, succederebbe al nonno e romperebbe il
testamento. Si osserva che nel caso di figlio concepito in captivitate,
non essendo i genitori al momento del concepimento legati da iustae nuptiae,
il figlio, se il padre non torna, non potrebbe, al suo ritorno in patria, pur
godendo del postliminio[113],
essere suus del nonno[114].
Per lo Stiegler[115]
il passo deve essere interpolato, a meno che non si voglia ritenere che nel
testo originario, di cui mancherebbe una parte, non si prendesse più in
considerazione la morte del padre apud hostes. Effettivamente
la formulazione del § 2 è molto generica e non fa cenno alla morte
del padre in prigionia: il padre potrebbe essere tornato prima della moglie e
del figlio, ed essere morto prima del nonno. Avremmo, in questo caso, un figlio
concepito e nato presso i nemici considerato suus al ritorno in patria,
ma, di fronte alle obiettive difficoltà poste dal passo, si rimane nel
campo delle ipotesi[116].
Per quanto, poi,
concerne la situazione del figlio concepito in captivitate ma partorito
in patria, non abbiamo fonti che se ne occupano, anche se il Ratti[117]
e la Montañana Casaní[118]
citano a tal proposito
C. 8.50.8 (Impp. Diocletianus et
Maximianus AA. Matronae): Praeses
provinciae, ne ulterius in servitutis iugo detinearis, curae habebit: qui pro
sollertia tua parum ignorat magis filiorum tuorum statum tueri, quos, postquam
redempta es, enixam te esse significas, cum eos, qui post redemptionem
nascuntur, ne pignoris quidem vinculo ob pretium, quod pro his datum non est,
teneri nullis auctoribus visum est (a. 291).
Il
passo mostrerebbe, secondo il Ratti, che il postliminio, una volta concesso al
figlio concepito e nato in prigionia e ritornato in patria con la madre,
dovette a maggior ragione ritenersi spettante al figlio concepito apud
hostes e nato in civitate[119].
C. 8.50.8, però, come ho tentato di dimostrare in un precedente studio[120],
si riferisce ai figli di una redempta ab hostibus, nati, come
espressamente afferma il passo, post redemptionem; se anche si trattasse
di figli concepiti in captivate e nati in patria, non si porrebbe
né il problema del postliminio né quello della posizione dei
figli rispetto ad un eventuale padre, e, dunque, nessun aiuto possiamo trarre
dal passo[121]
rispetto ai problemi che stiamo esaminando.
Dall’esame dei
passi finora analizzati si ricava l’impressione che i giuristi romani,
lungi dal porsi in termini astratti il problema del verificarsi o non
verificarsi della capitis deminutio in capo al captivus, abbiano
esaminato di volta in volta i problemi posti dalla peculiare situazione della
prigionia apud hostes, destinata a risolversi col ritorno o con la morte
del captivus, e condizionata, pertanto, da istituti di ius singulare
come il postliminium e la fictio legis Corneliae. I
giuristi si trovarono spesso di fronte alla necessità di risolvere casi
che potevano dare adito a non poche perplessità, come è normale
in un sistema casistico; in tema di matrimonio, ad esempio, una volta avvenuta
la cattura di uno o ambedue i coniugi, in alcuni casi si producevano, comunque,
degli effetti, come la concessione dell’accusatio adulterii
iure mariti per una relazione sessuale avvenuta durante il periodo di
prigionia della moglie, l’impossibilità per la liberta
sposata al patronus captus ab hostibus di contrarre un altro
matrimonio, il riconoscimento ai figli concepiti e nati in prigionia della
libertà e della condizione di figli legittimi se ritornavano con
entrambi i genitori. Non sembra, pertanto, sufficientemente provata la tesi che
vuole il matrimonio definitivamente sciolto ad ogni effetto in seguito alla capitis
deminutio subita dal captivus al momento della cattura, capitis
deminutio che renderebbe la sua volontà priva di rilevanza, ma che
non viene espressamente enunciata nelle fonti giuridiche.
In una visione di
evidente favore verso il captivus, si sarebbe trattato, probabilmente,
di un’affermazione troppo rigida per i giuristi classici, lontani dalle
formule astratte, e molto più attenti alla regolamentazione concreta
delle varie fattispecie che si venivano a creare in seguito alle mutate
condizioni sociali e giuridiche.
[1] Sui rapporti fra postliminium e capitis
deminutio si vedano Bechmann,
Das Ius postliminii und die lex Cornelia, Erlangen, 1872; Cohn, Zur Lehre von der capitis
deminutio, in Beiträge zur Bearbeitung des römischen
Rechts, 2, Berlin, 1880, 69 ss.; Maret,
Du postliminium et de la loi Cornelia, Grenoble, 1888; Desserteaux, Études sur la
formation historique de la capitis deminutio. I.
Ancienneté respective des cas et des sources de la capitis deminutio,
Dijon, 1909; Id., Evolution et
effects de la capitis deminutio, Paris, 1919; Sertorio, La prigionia di guerra e il diritto di
postliminio, Torino, 1915; Coli,
Capitis deminutio, Firenze, 1922, ora in Scritti di diritto romano,
1, Milano, 1973, 153 ss.; Beseler,
Postliminium und Cornelia, in Miscellanea, ZSS, 45, 1925,
192 ss.; Ratti, Studi sulla
captivitas, Roma, 1927, ristampato con una nota di Amirante insieme
all’articolo Alcune repliche in tema di postliminio, col titolo Studi
sulla captivitas e alcune repliche in tema di postliminio, Napoli, 1980; Guarneri-Citati, Reviviscenza e
quiescenza nel diritto romano, in Annali Università Messina,
1, 1927, 19 ss. ; Balogh, Der
Urheber und das Alter der fiktion des Cornelischen Gesetz, in Studi
Bonfante, 4, Milano, 1930, 623 ss.; De
Visscher, Aperçus sur les origines du postliminium, in Festschrift
Paul Koschaker, Weimar, 1939, 367 ss.; Ambrosino,
Il simbolismo della capitis deminutio, in SDHI, 6, 1940,
375 ss.; Gioffredi, Caput,
in SDHI, 11, 1945, 301 ss.; Id.,
Sul ius postliminii, 1. La struttura dell’istituto,
in SDHI, 16, 1950, 13 ss.; Id.,
Pendenza e sospensione dalle fonti romane alla dommatica odierna, in SDHI,
22, 1956, 113 ss., in part. 146 ss.; Id.,
A proposito di impostazione storica e diagnosi giuridica, in Studi De
Francisci, 2, Milano, 1956, 437 ss.; Solazzi, Il concetto del ius postliminii, in Scritti
Ferrini, 2, Milano, 1947, 288 ss., ora in Scritti di diritto romano,
4, Napoli, 1963, 565 ss.; Id., La
pendenza dei diritti nelle fonti romane, in Scritti Scialoja, 4,
Roma, 1953, 405 ss., ora in Scritti di diritto romano, 5, Napoli, 1972,
431 ss.; Id., Il ius
postliminii in Gai
[2] Per il
Coli, Capitis deminutio,
cit., 153 ss., l’essenza della capitis deminutio si troverebbe
nella permutatio status familiae, alla quale solo eventualmente si
aggiungerebbe la perdita della civitas o della libertas. L’Ambrosino, Il simbolismo della
capitis deminutio, cit., 375 ss., aveva, invece, ritenuto che la capitis
deminutio designasse originariamente la decapitazione dei captivi e
poi la morte fittizia di coloro che cessavano di essere titolari di rapporti
giuridici perché cadevano in potestà altrui. Contra Gioffredi, Caput, cit., 302 nt.
5, per il quale il parallelismo effettuato dall’autore tra manumissio,
mancipatio e capitis deminutio non avrebbe base, perché la
capitis deminutio è, contrariamente alle prime due, un fatto
giuridico; gratuita sarebbe, poi, l’affermazione che capitis deminutio
equivalga a «taglio della testa». Il Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio, cit., 48
ss., non ritiene che la perdita della posizione nella familia possa
essere il fondamento giuridico di ogni capitis deminutio, che avrebbe
indicato originariamente la perdita della libertà e della cittadinanza
in caso di interdictio aquae et ignis e di vendita trans Tiberim.
L’Albanese, Le persone
nel diritto romano, cit., 311 ss., è del parere che la capitis
deminutio consistesse, essenzialmente, nella perdita (deminutio) da
parte di un civis della precedente posizione giuridica rispetto alla famiglia
agnatizia, e, dunque, nell’estinzione di preesistenti vincoli agnatizi e
gentilizi. Che l’estinzione dei vincoli agnatizi e gentilizi costituisca
il punto essenziale per la capitis deminutio risulta, per
l’Autore, da testimonianze esplicite ed implicite: si vedano Gai 1.158,
3.21, 27.51; Tit. Ulp. 27.5 e 28.9; D. 38.7.1; D. 38.8.5; D. 38.16.11; D.
38.17.1.8; I. 3.4.2; 3.5.1; 3.10.1. Altrettanto esplicita, anche se riferita
alla capitis deminutio minima in particolare, sarebbe, per
l’Autore, la formulazione di Gai 1.163 per cui ius adgnationis corrumpitur.
Il Talamanca, Istituzioni di
diritto romano, Milano, 1990, 77, osserva che la definizione di Gaio della capitis
deminutio come prioris status mutatio è troppo generica
perché non ogni cambiamento di status costituisce, secondo i
romani, capitis deminutio, ma occorre che la status mutatio
coinvolga la recisione dei vincoli agnatizi. In questo senso, da ultima, anche
[3] Alcune
fonti addotte dalla dottrina non paiono, peraltro, riguardare la situazione del
captivus (vedi Caes. Bell. civ., 2.32.10, Cic. De orat.
1.40.181/182), su altre sono stati avanzati dei dubbi, come Paul-Fest.
verb.sign. s.v. deminutus capite (Lindsay, 61): Deminutus capite
appellatur, qui civitate mutatus est; ex alia familia in aliam adoptatus; et qui
liber alteri mancipio datus est; et qui in hostium potestatem venit; et cui
aqua ignique interdictum est. Il Ratti,
Studi, cit., 27 nt. 41 e il Dell’Oro,
Osservazioni, cit., 11 ss., hanno sostenuto che con et qui in hostium
potestatem venit ci si riferisca a chi sia passato volontariamente al
nemico e non al captivus, per il quale si userebbe, invece,
l’espressione in hostium potestatem pervenit. Ugualmente non
attendibile viene considerata dal Ratti la testimonianza di Isid. Orig.
10, 54: captivus dicitur quasi capite deminutus; ingenuitatis enim fortuna
ab eo excidit, unde et ab iuris peritis capite deminutus dicitur, in
quanto, come non sarebbe affidabile la derivazione etimologica proposta
da Isidoro, allo stesso modo potrebbe essere errata l’affermazione
relativa alla posizione giuridica del prigioniero. Più dubbiosa
[4] In
questo senso l’Amirante, Captivitas,
cit., 41 ss., voce Postliminio, cit., 431. Già il Guarneri Citati, Reviviscenza e
quiescenza nel diritto romano, cit., 24 (ma si veda anche Brevi
considerazioni agli Studi di Ratti, in Annali Università Messina,
1, cit., 324 ss.) aveva, peraltro, osservato che nel periodo più antico
la prigionia di guerra produceva una capitis deminutio maxima e privava
il captivus della capacità giuridica, dunque i diritti
trasmissibili passavano agli eredi o in mancanza di eredi si estinguevano,
quelli intrasmissibili perivano. Il postliminium avrebbe, però,
determinato col tempo un mutamento, facendo considerare i diritti del prigioniero
in suspenso anziché estinti. Anche per l’Albanese, Le persone, cit., 37 e
316 nt.
[5] La lex
Cornelia venne adottata, secondo la dottrina dominante, nell’81 a.C.,
e la fictio avrebbe considerato morto il prigioniero al momento della
cattura, in modo da salvare il testamento in caso di morte in prigionia. In
seguito la fictio sarebbe stata estesa anche alla successio ab
intestato (Paul. 3.4a.8, Tit. Ulp. 23.5, D. 28.6.28, D. 49.15.22, D.
49.15.10.1). Se, peraltro, in alcuni testi la fictio è espressa
con le parole si civis in civitate decessisset (D. 35.2.1.1, D.
38.2.4.1, D. 38.16.1pr.), in altri, tutti di Giuliano, troviamo
l’espressione si in hostium potestatem non pervenissent (D.
28.1.12, D. 28.6.28, D. 49.15.22pr.). Si veda, a tal proposito, Bianchi, Fictio iuris. Ricerche
sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea,
Padova, 1997, 352 ss.
[6]
Secondo il Kaden, Rec. ad
Amirante, cit., 253 ss., la pendenza sarebbe, invece, stata connessa al postliminium
ben prima della lex Cornelia per i rapporti di diritto sacrale e di
diritto pubblico, come dimostrerebbero Plin. hist. nat. 18, 2, 6, Liv.
27, 21, 10; 30, 19, 7. Replica l’Amirante,
Ancora sulla captivitas, cit., 521 ss., che in. hist. nat. 18, 2,
6, Plinio si limita ad affermare che la qualità di ‘fratello
Arvale’ si perde soltanto con la morte e che, perciò, tale honos
accompagna anche gli esuli e i prigionieri (quae prima apud Romanos fuit
corona, honosque is non nisi vita finitur et exules etiam captosque comitatur).
La circostanza che vengano accomunati esuli e prigionieri porrebbe, per
l’Autore, «fuori causa la testimonianza di Plinio per quanto
riguarda l’effetto sospensivo del postliminium, del quale certo
non è a parlare a proposito degli exules». I due testi di
Livio pongono, invece, la questione dell’esistenza di una legge che
avrebbe vietato di ricoprire magistrature plebee ai figli di patres
ancora in vita che avessero ricoperto cariche curuli. Osserva l’Amirante
che, a prescindere dalle varie obiezioni proposte in dottrina sull’autenticità
della notizia liviana, la questione della pendenza iure postliminii
della situazione giuridica dei figli «non sembra affatto essere tirata in
gioco da Livio, che si limita a dire patre…vivo». Per
[7] Anche
[8] Si
veda Amirante, voce
Postliminio, cit., 430: «Probabilmente nell’età
più antica, quando la capitis deminutio era soltanto un mero nome
per indicare la perdita da parte di un soggetto della propria posizione
nell’ambito di un ordinamento giuridico, il prigioniero era capite
minutus: e così può spiegarsi come, in un senso certamente
non tecnico, questa qualifica gli sia stata conservata anche più tardi
nelle fonti letterarie. La giurisprudenza, invece, pur non negando che il
prigioniero rimanesse privo fin dal momento della cattura della libertà
e della cittadinanza, ha evitato di qualificarlo capite deminutus, sia
perché a lui si applicava ormai il postliminium, sia
perché la capitis deminutio stessa era stata oggetto di
un’elaborazione, che, apparentandola alla poena capitis, escludeva
qualsiasi possibile equiparazione sua alla prigionia di guerra».
[9]
Problema sul quale non mi ero soffermata in un mio precedente studio, Ricerche
in tema di redemptio ab hostibus, Cagliari,
[10] Sul
concetto di aequitas naturalis si veda, per la dottrina più
risalente, Devilla, Aequitas
naturalis, in Studi sassaresi, II, serie 14, 1938, 125 ss. Più di recente il Didier, Les diverses conceptions du droit naturel a
l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des II et III siècles,
in SDHI, 47, 1981, 195 ss., in part. 255 nt. 394, il quale
annovera il nostro passo tra quelli nei quali Ulpiano cita l’aequitas
naturalis «à propos des initiatives des magistrats,
fréquentes en droit hereditaire, qu’Ulpien fait constamment
référence»; il Talamanca,
L’aequitas naturalis e Celso in Ulp. 26 ad ed. D.
12,4,3,7, in BIDR, 96-97, 1993-4, 1 ss.; lo Schiavone, Giuristi e principe nelle
Istituzioni di Ulpiano, in SDHI, 69, 2003, 3 ss., in part. 16,
secondo il quale in Ulpiano l’aequitas naturalis diventa una delle
chiavi dell’interpretazione giusnaturalistica dei fondamenti
dell’editto; il Walstein, Aequitas
naturalis e ius naturale, in Aequitas, Giornate in memoria di Paolo
Silli, Atti Convegno Trento, 11-12 aprile
[11] Se con
capitis deminutio magna intendiamo la perdita della
libertà e con capitis deminutio minor la perdita della
cittadinanza, nel nostro passo si escluderebbe la capitis deminutio minima;
occorre, però, stabilire se effettivamente la capitis deminutio magna
di D. 38.16.1.4 corrisponda a quella che Gai 1.159 definisce maxima, e
la minor alla media. Il Coli,
Capitis deminutio, cit., 181, sostiene che nel nostro passo, come in
altri, capitis deminutio magna «sia un’espressione invalsa
nell’uso dei giuristi per designare in modo abbreviato la maxima e
la media c.d.» e che con capitis deminutio minor si
intendesse, dunque, la minima. «L’assoluta
superfluità dell’inserzione vel-vel e la qualifica di minor
in luogo di minima, che è un açpax eièro@menon»,
osserva l’Autore, «farebbero dubitare che si tratti del balordo
errore di un amanuense anziché di una volontaria interpolazione dei
commissari. Ma non è da escludere che qualche commissario meno accurato
abbia inteso davvero limitare la perdita della qualità di suus
alla c.d. maxima (= magna) e alla media».
[12] Lo
stesso principio è affermato, in riferimento alla possibilità per
il figlio di chiedere la bonorum possessio, in D. 38.2.4.2 (Paulus l.
42 ad edictum): Si deportatus patronus sit, filio eius competit bonorum
possessio in bonis liberti nec impedimento est ei talis patronus, qui mortui
loco habetur. et dissimile est, si patronus apud hostes sit: nam propter
spem postliminii obstat liberis suis. Si distinguerebbe nettamente la
posizione del figlio del patrono deportato da quella del figlio del patrono captus
ab hostibus, in quanto il primo può richiedere la bonorum possessio,
il secondo no. La frase nec impedimento est ei talis patronus qui mortui
loco habentur è stata, però, considerata interpolata dal Ratti, Studi sulla captivitas,
cit., 32 nt. 49, il quale ricorda gli appunti formali avanzati dall’Eisele, Zur Natur und Geschichte der
Capitis Deminutio, in Beiträge zur römischen
Rechtsgeschichte, Freiburg-Leipzig, 1896, 167 nt. 12: l’ei riguarda
il figlio, mentre l’eius riguarda il patrono, il talis non
è chiarito dal seguito qui habetur ma si riferisce a deportatus,
al posto di patronus sarebbe stato preferibile pater. I
compilatori, secondo il Ratti, avrebbero distinto tra prigioniero e capite
minutus (mortui loco), in armonia con la loro nuova concezione,
mentre in epoca classica il captivus sarebbe stato considerato capite
deminutus. Riguardo al rilievo del Ratti per cui «se il patrono
è tenuto prigioniero i suoi diritti si estinguono ma non come in seguito
alla morte poiché si tien conto della spes postliminii»,
già il Guarneri-Citati, Reviviscenza
e quiescenza nel diritto romano, cit., 26 nt. 2, aveva, però, obiettato
che non esistono diverse specie di estinzioni con effetti differenti. Il Cosentini, Studi sui liberti.
Contributo allo studio sulla condizione giuridica dei liberti cittadini,
2, Catania, 1950, 139 ss., ritiene il nostro passo genuino, a parte la frase nec
impedimento-habetur; la prigionia di guerra, ai tempi di Paolo, teneva in
suspenso il patronato e, dunque, la capitis deminutio e la prigionia
erano differenti, altrimenti «Paolo non avrebbe potuto opporre
l’una all’altra». Il Bretone,
voce Capitis deminutio, cit., 918, osserva che in diritto giustinianeo
diviene molto più ampia l’equiparazione della capitis deminutio
maxima e media alla morte, di cui già si trovano spunti in
epoca classica. Tale equiparazione attenuerebbe il rigore degli effetti prodotti
in diritto classico dalla perdita della libertà e della cittadinanza e
consentirebbe di attribuire agli eredi i beni del deportato.
[13]
[14]
L’Amirante aveva considerato compilatoria tutta la parte del passo che
tratta del redemptus (proinde etsi fuerit redemptus, nondum succedunt
ante luitionem: sed si interim decesserit, cum placeat eum statu recepto
decessisse, nepotibus obstabit), perché
dall’affermazione che i nipoti non succedunt ante luitionem si
ricaverebbe che succedono post luitionem, il che sarebbe assurdo in
quanto, riacquistando il redemptus col pagamento del prezzo la piena
capacità, sarebbe lui a succedere e non i figli. Avevo già
osservato nel mio precedente lavoro che affermare che i nipoti non succedunt
ante luitionem non significa necessariamente che debbano succedere post
luitionem: dal passo si ricava che, come i nipoti non succedono quando il
padre è apud hostes, così non succedono se è stato redemptus
e si trova sottoposto al vinculum pignoris, perché in entrambi i
casi esiste ancora la possibilità che succeda il padre, nel primo caso
se ritorna in patria, nel secondo se viene meno il vinculum pignoris. Il
nondum succedunt ante luitionem desta, comunque, qualche sospetto di
interpolazione, in quanto fa pensare che esista una possibilità che in
seguito i nipoti succedano, mentre il passo non ne prospetta alcuna.
[15] D.
49.15.15 (Ulpianus l. 12 ad Sabinum): Si patre redempto et ante
luitionem defuncto filius post mortem eius redemptionis quantitatem offerat, dicendum
est suum ei posse existere. nisi forte quis suptilius dicat hunc dum moritur,
quasi iure pignoris finito, nactum postliminium et sine obligatione debiti
obisse, ut potuerit suum habere. quod non sine ratione dicetur. Nella prima
parte del passo si stabilisce che se il figlio offre il pagamento del riscatto
dopo la morte del padre, avvenuta durante la sottoposizione al vinculum
pignoris, diviene suus, ma nella seconda si prospetta la
possibilità che se il redemptus muore, muoia sine obligatione
debiti e i figli possano, comunque, essere considerati sui. I figli
riacquisterebbero, così, i vincoli di adgnatio senza la
necessità di adempiere al pagamento del prezzo del riscatto, al momento
della morte del padre. Le due soluzioni sono sicuramente contrastanti, il che
ha indotto pressoché tutta la dottrina (si veda, ad esempio, Pampaloni, Persone in causa mancipii
nel diritto romano giustinianeo, in BIDR, 17, 1905, 123 ss.; Romano, Redemptus ab hostibus,
in RISG, 5, 1930, 3 ss.; Amirante,
Appunti per la storia della redemptio ab hostibus, cit., 7 ss.) a
ritenere giustinianeo D. 49.15.15 da nisi forte sino alla fine,
per una serie di indizi sia formali (nisi forte quis suptilius dicat, quasi
iure pignore finito, nactum postliminium, sine obligatione debiti, ut potuerit)
sia sostanziali, primo dei quali la contraddizione fra la prima e la seconda
parte. Si può notare, a questo proposito, come nel passo dei Basilici
corrispondente a D. 49.15.15 (restitutus sulla base del Tipucito) sia
riportata esclusivamente la seconda soluzione: Bas. 34.1.11 (Heimbach III, 536:
Kai# oàti aèpoqnh@skontov tou^ eèk tw^n polemi@wn
aègorasqe@ntov lu@etai to# eèp’ auètw^j
eène@curon). Pur avendo io sostenuto nel mio precedente lavoro che i
contrasti fra la prima e la seconda parte del passo potrebbero essere dovuti
all’esistenza di diverse opinioni fra i giuristi classici, non mi sento
oggi di escludere un intervento compilatorio su D. 49.15.15, che, se ammesso,
dovrebbe portare alla conseguenza di considerare interpolato anche D.
38.16.1.4, nel quale sembra accolta, sia pur sotto un profilo differente, la
soluzione prospettata nella seconda parte di D. 49.15.15. Occorre, comunque,
porre in evidenza che i due passi non si occupano, come sembra ritenere la
dottrina prevalente, dello stesso caso: in D. 49.15.15 si sta trattando
dell’eredità del pater redemptus, quindi della
possibilità che egli abbia dei sui, in D. 38.16.1.4
dell’eredità del nonno, e quindi della possibilità che il
padre redemptus sia suus del nonno. Due sono, pertanto, i
problemi presi in considerazione: se il redemptus possa avere dei sui
in D. 49.15.15, se il redemptus possa essere suus in D.
38.16.1.4.
[16] In tal
senso l’Amirante, Captivitas
e postliminium, cit., 27 nt. 2 e 118 nt. 27; Id., Prigionia di guerra, cit., 149 s., per il quale
il quod si può avere tutt’al più un significato
concessivo e non oppositivo, perché in tal caso Ulpiano avrebbe,
piuttosto, scritto sed si come nel paragrafo successivo, D. 38.16.1.5
(Ulpianus l. 12 ad Sabinum): Sed si quis non desiit esse in
potestate, sed numquam coepit, ut puta si filius meus vivo patre meo ab
hostibus captus est, mox ibi me patre familias facto decesserit, nepotes in
eius locum succedent.
[17]
Così il Gioffredi, Sul
ius postliminii, cit., 13 ss.; Id.,
Pendenza e sospensione dalle fonti romane alla dommatica odierna,
cit., 113 ss., in part. 146 ss.; Id.,
A proposito di impostazione storica e diagnosi giuridica, cit., 437 ss.,
per il quale Ulpiano nel periodo quodsi - filius non richiamerebbe un
altro caso di capitis deminutio, ma un altro caso in cui si potrebbe
pensare che il figlio cessi di essere erede. Per l’Autore il prigioniero
non fu considerato capite deminutus perché non era schiavo
nell’ordinamento giuridico romano, in quanto la capitis deminutio
poggerebbe su un fatto giuridico esterno all’ordinamento e destinato a
cessare ove il soggetto torni a farne parte; pertanto verrebbero utilizzate dai
giuristi le espressioni pendere e simili, da riferirsi allo stato di
incertezza in cui si trovavano i diritti del prigioniero. Il Solazzi, Il concetto del ius
postliminii, cit., 565 ss.; Id.,
La pendenza, cit., 431 ss., concordava col Gioffredi sia sulla
considerazione che il romano prigioniero di guerra non fosse servus
nell’ordinamento romano, sia sulla considerazione che non fosse capite
deminutus, ma dissentiva sull’idea che le espressioni pendere, in
pendenti esse, in suspenso esse esprimessero l’idea
dell’incertezza, riflettendo, piuttosto, a suo avviso, il concetto
giuridico della pendenza, come risulterebbe da una serie di passi in cui
sarebbe chiaro il significato propriamente giuridico di pendere (Gai
1.135, Gai 1.186, D. 5.4.3, D. 20.5.12.1, D. 24.1.11.9, D. 32.3.80 e 83, D.
35.2.82, D. 45.1.2.1). Obiettava, però, al Gioffredi il Betti, Falsa impostazione della
questione storica dipendente da erronea diagnosi giuridica, in Studi
Arangio-Ruiz, 4, Napoli, 81 ss., che è assurdo che i romani
considerassero la caduta in prigionia di un civis un fatto
“estraneo” al loro ordinamento, perché ciò non solo
avrebbe urtato contro la logica del diritto che annovera la captivitas
dello straniero fra le fonti della schiavitù, ma avrebbe anche
significato che l’ordinamento romano si disinteressava delle conseguenti
vicende del civis e dei rapporti che a lui facevano capo.
[18] Cursi, Capitis deminutio, cit.,
301 s., 318 s. Anche per l’Autrice la tesi del Gioffredi è fondata
su un presupposto non condivisibile, ossia l’estraneità della captivitas
all’ordinamento romano. La riconducibilità della prigionia alla naturalis
ratio o al ius gentium segnalerebbe il suo inserimento nel
“sistema sovrannazionale romano”, all’interno del quale opera
il diritto di guerra come insieme di norme riconosciute e vigenti presso tutti
i popoli; la servitus che discende dalla captivitas sarebbe,
allora, verosimilmente iusta o, almeno, non iniusta. Sulla
qualifica di iusta o iniusta servitus della prigionia di
guerra si è, come noto, a lungo discusso. Per il Volterra, Manomissione e cittadinanza, in Studi
Paoli, Firenze, 1955, 695 ss., ora in Scritti giuridici, 2, Napoli,
1991, 395 ss., da Gai 1.11: Ingenui sunt qui liberi nati sunt; libertini,
qui ex iusta servitus manumissi sunt, si ricaverebbe che la servitus
del captivus non sarebbe iusta perché egli riacquista la
libertà senza necessità di alcuna manomissione. Secondo
[19] Lo
stesso argomento può essere opposto, secondo l’Autrice, a chi
ritiene che il captivus non possa definirsi capite deminutus
sulla base di D. 38.4.1.8 (Ulpianus l. 14 ad Sabinum): Si sit ex
patrono filius unus, ex altero duo et uni eorum libertus adsignatus est,
videndum, quot partes fiant hereditatis liberti, utrum tres, ut duas habeat is
cui adsignatus est, id est suam et fratris, an vero aequales partes fiant,
quoniam per adsignationem alius excluditur. Et Iulianus libro septuagensimo
quinto scripsit magis esse, ut bessem hic habeat, qui fratrem excludit: quod
verum est, quamdiu frater eius vivat vel admitti potuit ad legitimam
hereditatem: ceterum si fuerit capite minutus, aequales partes habebunt. Se
un patronus ha un solo figlio, l’altro ne ha due e ha assegnato il
liberto a uno solo di essi, ci si chiede come vada divisa
l’eredità, se in parti uguali, o se in tre parti, di cui una
spetterà al primo e due all’altro, che riceverebbe anche la parte
che sarebbe spettata al fratello. Secondo Giuliano la soluzione condivisibile
è la seconda, ma Ulpiano sembra precisare che questo è esatto quamdiu
frater eius vivat vel admitti potuit ad legitimam hereditatem, perché
se invece egli ha subito una capitis deminutio, l’eredità
dovrà essere divisa in parti uguali. Anche ammettendo, osserva
[20] Per
[22] In
verità queste ultime molto discusse dalla dottrina, come Tit. Ulp.
23.4/5: Inritum fit testamentum, si testator capite deminutus fuerit, aut si
iure facto testamento nemo extiterit heres. Si is qui testamentum fecit
ab hostibus captus sit, testamentum eius valet, si quidem reversus fuerit, iure
postliminii, si vero ibi decesserit, ex lege Cornelia, quae perinde
successionem eius confirmat, atque si in civitate decessisset, D. 28.3.6.5
(Ulpianus l. 10 ad Sabinum): Irritum fit testamentum, quotiens ipsi
testatori aliquid contigit, puta si civitatem amittat per subitam servitutem,
ab hostibus verbi gratia captus, vel si maior annis viginti venum se dari
passus sit ad actum gerendum pretiumve partecipandum, Gai Ep. 2.3.5:
Alio quoque modo testamenta iure facta infirmantur, si aliquis post factum
testamentum capite minuatur, id est aut ab hostibus capiatur, aut pro crimine
in exilium deputetur. Similiter
et si is qui adoptatus fuerit, testamentum, quod antequam adoptaretur fecerat,
non valebit. I passi sono stati
interpretati dalla dottrina sia a favore della tesi della capitis deminutio,
sia contra. Per quanto riguarda Tit. Ulp. 23.4/5, il Ratti, Studi sulla captivitas,
cit., 32 s., aveva ritenuto che nel testo, così come in D. 38.16.1.4,
Ulpiano, probabilmente, parlando della capitis deminutio maxima,
intendesse riferirsi anche al captivus; per l’Amirante, Captivitas e postliminio,
cit., 26 s., nel passo il captivus viene esplicitamente considerato capite
deminutus; in senso contrario il Gioffredi,
Sul ius postliminii, cit., 34, il quale sostiene che non vi è
alcun legame tra l’ipotesi della capitis deminutio, espressa
attraverso un’ampia formulazione giuridica, che ammette più casi,
e la seconda ipotesi, espressa attraverso una singola fattispecie pratica, la captivitas.
Il Solazzi, Il concetto del
ius postliminii, cit., 604 s. (v. anche La pendenza dei diritti,
cit., 432 nt. 3), osserva che dal passo risulta che, al pari di tutti gli altri
diritti privati del captus ab hostibus, anche la testamentifactio
è sospesa e non estinta. Per
quanto concerne D. 28.3.6.5 - passo molto discusso sia per quanto riguarda
l’aliquid contigit che il si civitatem amittat - il Coli, Capitis deminutio, cit.,
164, seguito da buona parte della dottrina (Brasiello,
La repressione penale in diritto romano, Napoli, 1937, 426, Ratti, Studi, cit., 33 nt. 51, Solazzi, Il concetto, cit.,
[24] Il Sertorio, La prigionia, cit.,
176 ss., affermava che un diritto estinto può risorgere o come diritto
nuovo o come diritto diverso, e può risorgere per via di un nuovo evento
che si avvera, o in seguito all’intervento della legge, o del magistrato.
Nel caso della captivitas, «non una nuova persona risorge, ma la
medesima», «non nuovi diritti, ma i medesimi che già
esistevano»; la captivitas è considerata come un
impedimento all’esistenza della personalità e quindi alla persistenza
dei suoi diritti. Col ritorno in patria viene meno questo impedimento e
«lo stato antico risorge, ipso iure, come risorgono ipso iure
i diritti che erano caduti».
[25] Il Ratti, Studi sulla captivitas,
cit., 23 ss., ritiene, invece, che prova della capitis deminutio subita
dal captivus si possa trovare nell’estinzione dei publica iura,
come le cariche militari: una volta tornato, il captivus non ha diritto
agli stipendi che gli sarebbero spettati nel tempo in cui si trovava in
prigionia (C. 12.35.1 (Imp. Antoninus A. Annaeo militi): Stipendia et
donativa temporis, quo apud hostes fuisse te dicis, restitui tibi postliminio
regresso restitutoque non iure desideras).
[26] In
caso di prigionia i rapporti patrimoniali del pater non passano al filius,
ma si può nominare un curator bonorum o si può utilizzare
nell’interesse del prigioniero la negotiorum gestio.
Osserva il Robleda, Il diritto
degli schiavi nell’antica Roma, Roma, 1976, 16 ss., che i diritti
cessano di appartenere al captivus, ma non passano ad un altro soggetto:
se il captivus non è dominus, non c’è ancora
un altro dominus, né le res si possono dire semplicemente sine
domino. Per quanto riguarda l’istituto pretorio della cura
bonorum, il captivus viene equiparato all’assente e all’heres
scriptus in attesa di decidere se adire l’eredità in D.
42.5.22.1 (Ulpianus l. 63 ad edictum). In D. 42.4.6.2 (Paulus l.
57 ad edictum) si afferma che al captus ab hostibus viene
nominato interim un curator bonorum per non permettere statim
la bonorum venditio. Il curator bonorum può essere
addirittura nominato per colui che nasce presso i nemici, in quanto tornando
potrà godere del postliminio, D. 4.6.15pr. (Ulpianus l. 12 ad edictum):
Ab hostibus autem captis postliminio reversis succurritur aut ibi
mortuis… Non minus autem ab hostibus capto quam ibi nato, qui
postliminium habet, succursum videtur. Per quanto riguarda la negotiorum
gestio, in D. 3.5.18.5 (Paulus l. 2 ad Neratium): Dum apud hostes
esset Titius, negotia eius administravi, postea reversus est : negotiorum
gestorum mihi actio competit, etiamsi eo tempore quo gerebantur dominum
non habuerunt si afferma che spetta l’actio negotiorum gestorum
a chi concluse dei negozi nell’interesse di Tizio, tornato in patria dopo
un periodo di prigionia, nonostante il fatto che al momento della conclusione
dei negozi non vi fosse un dominus. In D. 3.5.19 (20) (Ulpianus l. 10
ad edictum): Sin autem apud hostes constitutus decessit, et successori
et adversus successorem eius negotiorum gestorum directa et contraria competit,
l’actio negotiorum gestorum è concessa anche se il captivus
muore in prigionia, dunque se non ritorna in patria e pertanto è
impossibile applicare la fictio legis Corneliae. Il passo è
particolarmente rilevante perché mostra che non si sta ragionando in
termini di pendenza di situazioni giuridiche soggettive che verrebbero
riacquistate dal captivus solo al momento del rientro in patria, in
quanto il soggetto è morto e dunque non potrebbe riacquistarle. L’Amirante, voce Quiescenza, cit.,
141 ss., osserva che i giuristi non adoperano il concetto di pendenza per
descrivere la situazione giuridica del patrimonio del prigioniero, anche se
egli ne ha perso la titolarità. Pur utilizzando il concetto di pendenza
quando trattano degli incrementi ottenuti per mezzo del figlio o del servo, non
affermano la pendenza del dominium o dell’obligatio
acquistati da questi, non descrivono il rapporto nella sua statica
oggettività e guardano direttamente a quando l’acquisto si
sarà fissato in capo al prigioniero se ritornato iure postliminii,
all’erede, o se, in alcuni casi, si dimostrerà nullo.
L’Autore pone in evidenza come venga qualificato pendente
l’acquisto stesso o lo stesso fatto acquisitivo (D. 41.3.15pr. (Paulus l.
15 ad Plautium): in pendenti esse usucapionem Iulianus ait, D.
45.3.18.2: res in pendenti erit), senza distinguere se la pendenza
significhi possibilità di acquisto in capo all’uno o
all’altro soggetto o validità o nullità della fattispecie
acquisitiva. Per quanto, riguarda gli acquisti posti in essere dal servo o dal
figlio mentre il padre è captus ab hostibus, il Nicosia, L’acquisto del
possesso mediante i potestati subiecti, Milano, 1960, 234 ss., osserva che
se una compravendita viene posta in essere da uno schiavo che, di fatto,
possiede la res, durante il periodo di prigionia del dominus si
ha una situazione analoga a quella che si verificava in caso di eredità
giacente: manca solo un soggetto capace cui riferire gli effetti giuridici del
possesso. Se questa vacanza viene a cessare, iure postliminii, col
ritorno del captivus, nulla osta a che gli effetti di quel possesso, che
mai era stato interrotto, si verifichino in capo a lui; se, dunque, nel
frattempo era decorso il tempo necessario all’usucapione, la cosa si
considera acquisita al reversus.
[27]
[29] Si
veda anche Frag. August. 1.20: Ergo si aqua et igne interdicitur patri vel
filio, patria potestas tollitur…Velut si pater ab hostibus captus fuerit
… erunt filii sui iuris? hoc pleniore diligentia nobis tractandum
est e Paul. 2.25.1: Pater ab hostibus captus desinit habere filios in
potestate: postliminio reversus tam filios quam omnia sui iuris in potestatem
recipit, ac si numquam ab hostibus captus sit.
[30]
Osserva, peraltro, il Solazzi, Il
concetto, cit., 566, che Gaio usa altre volte il verbo recipere in
casi nei quali non vi è un amittere, come in 2.98, 2.251-255.
[31] L’Ambrosino,
Da Giavoleno a Gaio in tema di postliminio, in SDHI, 5, 1939, 202
ss., aveva sostenuto, sulla base di D. 41.2.23.1 (Iavolenus l. 1 epistularum):
In his, qui in hostium potestatem pervenerunt, in retinendo iura rerum
suarum singulare ius est: corporaliter tamen possessionem amittunt: neque enim
possunt videri aliquid possidere, cum ipsi ab alio possideantur: sequitur ergo,
ut reversis his nova possessione opus sit, etiamsi nemo medio tempore
res eorum possederit, che nel tempo incorrente fra Giavoleno e Gaio si
sarebbe passati dalla concezione del postliminio come un retinere a
quella di un recipere dopo un periodo di pendenza. Si oppose a
quest’idea il Guarino, Sul
ius singulare postliminii, in ZSS, 61, 1941, 58 ss., il quale
osservava che in un così breve lasso di tempo si sarebbe avuta non tanto
un’evoluzione, quanto piuttosto un’ardita riforma, di cui,
però, non sarebbe rimasta alcuna traccia negli scritti dei giuristi classici.
Inoltre non appare credibile, per l’Autore, che si sia passati col
trascorrere dei secoli da una disciplina che realizza il massimo trattamento di
favore per il captivus ad una che lo riduce da un originario retinere
ad un successivo amittere-recipere. La teoria dell’Ambrosino
potrebbe essere confermata se gli autori successivi a Giavoleno parlassero di retinere
iura rerum suarum, mentre parlano, invece, di recipere iura,
presupponendo, quindi, un amittere. Per il Guarino il passo di Giavoleno
è interpolato nella parte in his – est, sia per motivi
formali (la cacofonica ripetizione di tre in nel corso di due righe,
l’espressione in his…singulare ius est, la violenta rottura
sintattica tra il primo e il secondo periodo), che per motivi sostanziali (tra neque
enim – possideantur e in his-est vi sarebbe «una
insormontabile discrepanza di carattere logico»).
[32] In D.
38.17.2.7 (Ulpianus l. 13 ad Sabinum) si considera, poi, pendente
l’ius matris rispetto al figlio sia captus ab hostibus che
concepito: Si vero apud hostes est filius vel nasci speratur, pendet ius
matris, donec redierit vel nascatur. La posizione del captivus ab
hostibus viene più volte nelle fonti accomunata a quella del
concepito perché in ambedue i casi acquista rilevanza la spes: spes
postliminii per il captivus, spes nascendi per il
concepito.
[33] Si
vedano, tra gli altri, D. 49.15.19.3 (Paulus l. 16 ad Sabinum), D.
49.15.19pr. (Paulus l. 16 ad Sabinum).
[34] Per il
Solazzi, Il concetto,
cit., 566 nt. 2, 634 ss., Id., Il
ius postliminii, cit., 679 ss., la frase sed utrum – potest
sarebbe dovuta ad un rimaneggiamento. Il Kaser,
Rec. a Solazzi, Il concetto, in Iura, 2,
1951, 168 s., parla di un ‘Denkfehler’ gaiano.
[35] La
dottrina ritiene, infatti, che già in epoca classica la fictio legis
Corneliae sarebbe stata estesa dalla successione testamentaria alla
successione ab intestato: in questo senso il Bechmann, Das ius postliminii, cit., 84 ss., il Sertorio, La prigionia, cit.,
123 ss., l’Amirante, Captivitas,
cit., 32 vd. nt.19,
[36]
L’Archi, L’Epitome
Gai, cit., 192 s., confronta Gai 1.129 con Gai Ep. 1.6.2: Item si ab hostibus
pater captus sit, in potestate, quamdiu apud hostes fuerit, filios non habebit.
Sed si de captivitate evaserit, iure postliminii omnem, sicut in aliis rebus,
ita et in filiis recipit potestatem. L’epitomatore, pur condividendo
la sostanza del discorso di Gaio, finemente espressa con pendet ius
liberorum propter ius postliminii, non riuscirebbe più a
configurarsi altrettanto elegantemente la situazione giuridica: la frase
si ab hostibus pater captus sit, in potestate, quamdiu apud hostes fuerit,
filios non habebit mostra, infatti, che il concetto del diritto pendente
non gli riesce chiaro.
[37]
L’Urso, Il matrimonio
del prigioniero in diritto classico, in SDHI, 58, 1992, 85 ss.,
in part. 133, osserva che il dubbio di Gaio circa il momento nel quale i figli
diventano sui iuris non dovrebbe esistere se tra pendenza e
retroattività vi fosse una necessaria relazione. Il postliminium,
quindi, con il suo effetto di pendenza non avrebbe sempre, per l’Autore,
implicato retroattività, perchè la pendenza non esigerebbe
necessariamente la retroattività
[39] Per il
Solazzi, Il concetto,
cit., 565 ss., in epoca giustinianea,
affermandosi la fictio postliminii, che si potrebbe innestare solo sul dogma
della reviviscenza e non su quello della pendenza, si sarebbe passati dalla
teoria della pendenza alla teoria dell’estinzione: il captivus perderebbe i suoi diritti al momento della cattura, ma tornando in
patria li recupererebbe con effetto retroattivo, perché si fingerebbe
che sia stato sempre cittadino. La teoria del Solazzi non sembra, comunque,
accolta dalla dottrina successiva: per il Guarneri-Citati,
Reviviscenza e quiescenza nel diritto romano, cit., 19 ss., tutto l’indirizzo del diritto giustinianeo
contrasta con la tesi del Solazzi che presupporrebbe uno strano ritorno
all’antico; nel diritto della Compilazione, per il quale la prigionia non
scioglie più neanche il matrimonio, non potrebbe che valere il principio
della pendenza.
[40] D. 49.15.16 (Ulpianus l. 13 ad Sabinum): Retro creditur in civitate fuisse, qui ab hostibus advenit, D. 49.15.5.1 (Pomponius l. 37 ad Quintum Mucium): …nam si eodem bello is reversus fuerit, postliminium habet, id est
perinde omnia restituuntur ei iura, ac si captus ab hostibus non esset, D.
49.15.12.6 (Tryphoninus l. 4 disputationum): Cetera quae in iure
sunt, posteaquam postliminio redit, pro eo habentur, ac si numquam iste hostium
potitus fuisset.
[42] Sui
problemi relativi al matrimonio del captivus si vedano Volterra, La conception du mariage
d’aprés les juristes romains, Padova, 1940; Id., Lezioni di diritto romano. Il
matrimonio romano, Roma, 1961; Id.,
Iniustum matrimonium, in Studi Scherillo, 2, Milano, 1972, 441 ss.,
ora in Scritti giuridici, 3, Napoli, 1991, 177 ss.; Id., voce Matrimonio (dir. rom.),
in EdD, 25, 1975, 726 ss.; Id.,
Precisazioni in tema di matrimonio classico, in BIDR, 78,
1975, 245 ss., ora in Scritti giuridici, 3, cit., 360 ss.; Rasi, Consensus facit nuptias,
Milano, 1946; Di Marzo, Dirimitur
matrimonium captivitate, in Studi Solazzi, Napoli, 1948, 1 ss.; Orestano, La struttura giuridica del
matrimonio romano dal diritto classico al diritto giustinianeo, Milano,
1951; G. Longo, Il requisito
della convivenza nella nozione romana di matrimonio, in AUMA, 19,
1955, 270 ss.; Id., Postille
critiche in tema di captivitas, cit., 29 ss.; Id., Ancora sul matrimonio romano, in SDHI,
43, 1977, 459 ss.; Id., Riflessioni
critiche in tema di matrimonio, in Sodalitas. Scritti Guarino, 5,
Napoli, 1984, 2357 ss.; Arias Bonet,
En torno a la no reintegracion iure postliminii del matrimonio romano,
in AHDE, 25, 1955, 567 ss.; Watson,
Captivitas and Matrimonium, in TR, 29, 1961, 247 ss.; Robleda, El matrimonio en derecho
romano. Esencia, requisitos de validez, efectos, disolubilidad, Roma, 1970,
Id., Sobre el matrimonio en
derecho romano, in SDHI, 37, 1971, 344 ss., Id., Matrimonio inexisente o nulo en derecho romano,
in Studi Donatuti, 3, Milano, 1973, 1131 ss.; Di Salvo, Matrimonio e diritto
romano, in Index, 2, 1971, 376 ss.; Huber, Der Ehekonsens im römischen Recht, Roma,
1977; Urso, Il
matrimonio, cit., 85 ss. Per quanto riguarda il matrimonio del captivus
in epoca giustinianea si veda Vannucchi
Forzieri, Captivitas e matrimonium in Leone Magno (Ep. 159) e in
Giustiniano (Nov. 22.7), in Atti dell’Accademia Romanistica
Costantiniana, VII Convegno Internazionale, 1988, 393 ss., e bibliografia
ivi citata.
[43] In
questo senso, tra gli altri, Rasi,
Consensus facit nuptias, cit., 112 ss.; Orestano, La struttura, cit., 119 ss.; Amirante, Captivitas e
postliminium, cit., 150. Per altri
Autori, tra cui il Mitteis, Römische
Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, 1, Leipzig, 1908 e il Levy, Verschollenheit und Ehe in
Antiken Rechten, in Gedächtnisschrift für E. Seckel,
Berlin, 1927, 145 ss., in part. 149, ora in Gesammelte Schriften,
2, cit., 46 ss., la cui teoria appare oggi abbandonata, motivo dello
scioglimento del matrimonio sarebbe, invece, l’impossibilità della
convivenza. Secondo D’Amati,
Civis, cit., 135, alcuni Autori hanno tentato di conciliare i due
opposti orientamenti.
[44] Il Corbett, The
Roman Law of Marriage, Oxford, 1930, 213, afferma che da D.
49.15.14.1 si ricaverebbe che l’operatività del postliminium sarebbe soggetta alla condizione del consenso
dell’altro coniuge.
[45]
Osservava l’Albertario, Di
alcuni riferimenti al matrimonio e al possesso in Sant’Agostino, in Studi,
I, Milano, 1933, 231 ss., in part. 239, che l’insegnamento di Paolo dirimitur
matrimonium … captivitate sarebbe nella legislazione giustinianea un
«inerte residuo storico».
[46] Si
può ricordare che il Kreller,
Die Ehe des römischen Kriegsgefangenen, in Juristischen
Blätter, 70, 1948, 284 e ivi nt. 3, aveva proposto di sostituire contingente
servitute con capitis deminutione.
[47] D.
49.15.12.4 è stato considerato dalla maggior parte degli Autori
interpolato nel maxime (Bonfante,
Corso, 1, Roma, 1925, 241 nt. 1) o nel maxime velit et (Solazzi, Il concetto, cit., 350
s.). G. Longo, Il requisito
della convivenza, cit., 270 ss.; Id.,
Postille critiche, cit., 29 ss., osserva che con le parole tametsi
maxime velit et in domo eius sit, i giustinianei hanno inteso
utilizzare un punto del commento di Trifonino per sottolineare l’autonoma
importanza dell’elemento spirituale nella società coniugale e che
non si può argomentare dal passo circa la configurazione del consenso
matrimoniale in diritto classico, anche perché non vi si parla di
rinnovata prestazione del consenso. Per l’Orestano, La struttura, cit., 119 e ivi nt. 334, il maxime
non va riferito solo al velit ma anche al fatto che la donna si trova
nella casa del marito; il passo, a suo avviso, non è interpolato
perché, se i giustinianei fossero intervenuti su di esso,
l’avrebbero piuttosto dovuto eliminare, rappresentando nella compilazione
uno stato di diritto ormai superato, in quanto nel diritto giustinianeo la captivitas
non produrrebbe più lo scioglimento del matrimonio. Anche per il Watson, Captivitas, cit., 243,
è poco probabile che il passo sia stato interpolato, dato che
Giustiniano favorirebbe la sopravvivenza del matrimonio.
[48] Il Rasi, Consensus, cit., 113,
osservava che se il coniuge rimasto in patria avesse continuato a sentirsi
sposato, sebbene dal punto di vista giuridico non sussistesse un vincolo
matrimoniale, non perdeva la qualità di sposo con tutti i diritti e
doveri inerenti, in quanto avrebbe mantenuto volontariamente la spes
postliminii: la donna sarebbe stata ancora uxor, naturalmente si
velit, pur non essendo in matrimonio. Per l’Orestano, La struttura, cit.,
146, non si deve, però, confondere la volontà «quale fatto
psichico» con la volontà giuridica: se nel captivus
può continuare ad esistere la volontà come fatto psichico, questa
volontà non sarebbe produttiva di effetti in quanto mancherebbe la
capacità giuridica. A mantenere in vita il rapporto coniugale non
bastava la volontà di una sola delle parti, nel nostro caso la moglie,
ma occorreva la volontà perdurante di entrambe, e quella del marito non
era più una «volontà giuridicamente efficiente».
[49]
L’Orestano, La struttura,
cit., 119 s., ritiene che qualche giurista «in vena di far salvo il
matrimonio del captivus» avesse cercato di attribuire valore alla permanenza
della donna nella casa maritale, ipotesi contro la quale si sarebbe schierato
Trifonino; l’Urso, Il
matrimonio, cit., 88, osserva che Trifonino ha voluto sottolineare con
forza lo scioglimento del matrimonio, forse contro qualche giurista innovatore.
«Cominciava forse già ad avvertirsi», osserva
l’Autore, «come un fatto strano da parte di qualche giurista,
animato da quella humanitas che caratterizzerà successivamente la
legislazione giustinianea, che il matrimonio dovesse sciogliersi ipso iure
in seguito alla captivitas, e avrà azzardato la sussistenza del
matrimonio quando la moglie non voleva rompere il suo matrimonio e dimostrava
esternamente questa sua decisa volontà rimanendo nella casa del
marito». Anche
[51] D.
23.1.8 (Gaius l. 11 ad edictum provinciale): Furor quin sponsalibus
impedimento sit, plus quam manifestum est: sed postea interveniens sponsalia
non infirmat, D. 23.2.16.2 (Paulus l. 35 ad edictum): Furor
contrahi matrimonium non sinit, quia consensu opus est, sed recte contractum
non impedit, D. 25.7.2 (Paulus l. 12 ad legem Iuliam et Papiam): Si
patronus libertam concubinam habens furere coeperit, in concubinatu eam esse
humanius dicitur, Paul. 2.19.7: Neque furiosus neque furiosa matrimonium
contrahere possunt: sed contractum matrimonium furore non tollitur.
[52] Per
alcuni Autori, tra cui l’Huber, dal fatto che il matrimonio del furiosus
continui dopo l’intervenuta pazzia, nonostante egli sia carente di una
cosciente volontà, si potrebbe ricavare che non sempre si esigeva il
consenso continuato; per altri, non potendo il furiosus maturare la
volontà di sciogliere il matrimonio proprio a causa della pazzia e non
potendo esternare tale mutamento di volontà, sarebbe comprensibile che
il matrimonio continui, purché, chiaramente, esista la volontà
dell’altro coniuge in tal senso. Per il Robleda,
Il matrimonio, cit., 134 ss., la demenza non scioglie il matrimonio
perché la dissoluzione «exige un acto positivo contrario, el
divorcio»; il demente non potrebbe inviare il ripudio, e quindi non
potrebbe divorziare. Il Volterra,
Precisazioni in tema di matrimonio classico, cit., 254 ss., osservava
che, malgrado la demenza di uno dei coniugi, se dal comportamento
dell’altro risultava la persistenza della volontà di rimanere
uniti in matrimonio, il vincolo coniugale continuava, poiché sussisteva,
contrariamente al caso del prigioniero di guerra, il conubium. G. Longo, Ancora sul matrimonio romano,
cit., 459 ss., ritiene che nulla autorizzi a ritenere che la volontà del
demente di rimanere unito in matrimonio fosse venuto meno.
[53] Per il
Diliberto, Studi sulle origini
della cura furiosi, Napoli, 1984, 103 ss., il furiosus si
troverebbe, come il captus ab hostibus, in uno stato di incertezza,
determinato dalla possibilità che si verifichi un determinato evento: la
guarigione per il furiosus, il ritorno in patria per il captivus.
Gli stessi giuristi, d’altra parte, osserva l’Autore, evidenziano
l’analogia tra la situazione del pater furens e quello captus
ab hostibus in D. 23.4.8 (Paulus l. 7 ad Sabinum): Quotiens patre
furente vel ab hostibus capto filius familias ducit uxorem filiaque familias
nubit, necessario etiam pactio cum ipsis dumtaxat dotis nomine fieri poterit.
Si può pensare, per il Diliberto, che il diritto romano, avendo sin da
età risalenti approntato meccanismi giuridici correttivi della
situazione del captivus, abbia approntato anche dei meccanismi che
consentissero al pater furiosus una reintegrazione sostanziale
nei propri diritti, ove fosse risanato, almeno nella misura in cui la stessa
reintegrazione spettava al captivus. La pazzia del furiosus
sarebbe stata, infatti, guaribile: da D. 27.10.1pr. (Ulpianus l. 1 ad
Sabinum) risulta che se il furiosus fosse guarito, sarebbe cessata
la potestas su di lui e si sarebbe avuta reviviscenza dei suoi diritti: et
tamdiu erunt ambo in curatione, quamdiu vel furiosus sanitatem vel ille
(prodigus) sanos mores receperit: quod si evenerit, ipso iure desinunt esse in
potestate curatorum. Anche il Guarino,
Furiosus e prodigus nelle XII Tavole, in AUCT, 3, 1949, 194 ss.,
ora in Pagine di diritto romano, 4, Napoli, 1994, 154 ss., richiamava la
sostanziale analogia tra il caso del furiosus e quello del captus ab
hostibus, ma in senso opposto: il pater, divenendo furiosus,
andava incontro alla morte civile, così come il captivus. Il
Guarino ritiene, infatti, che la pazzia del furiosus lo rendesse privo
della soggettività giuridica, in quanto in età arcaica veniva
reputato furiosus solo chi fosse affetto da pazzia grave ed evidente,
quindi praticamente inguaribile e definitiva. Non sarebbe stata prevista la
possibilità pratica di una guarigione del furor, e relativamente
alla familia furiosi si sarebbe aperta la normale successione ab
intestato dei sui heredes, mentre la cura degli adgnati e dei
gentiles si sarebbe esercitata solo sulla pecunia. Il Volterra, Precisazioni in tema di matrimonio
classico, cit., 245 ss., distingueva, invece, tra furiosus e mentecaptus:
il furiosus, a differenza del mentecaptus, non sarebbe stato
affetto da un male inguaribile, ma solo temporaneo.
[54] Si
deve notare, peraltro, che il Guarino,
Furiosus e prodigus, cit., 154 ss., ritiene che il pater furiosus
fosse considerato alla stregua del pater defunto o capite deminutus,
e pertanto privato anche della capacità giuridica, tanto che si apriva
la successione dei sui heredes sulla familia, e veniva nominato
il curatore solo per quanto riguarda la pecunia. Non sarebbe stata,
infatti, ancora delineata, in epoca decemvirale, la distinzione tra
capacità di agire e capacità di diritti e il furiosus,
incapace di agire, sarebbe stato, di conseguenza, ritenuto privo della
soggettività giuridica.
[55] Per
motivi di benignitas si concede anche il postliminio al figlio concepito
da una statulibera presso i nemici e nato dopo che si è avverata
la condizione che, se fosse stata in patria, le avrebbe dato la libertà,
D. 40.7.6.1/2 (Ulpianus l. 27 ad Sabinum): Plane si apud hostes eum
concepisset et post existentem condicionem edidisset, benignius dicetur
competere ei postliminium et liberum eum esse. Il Palma, Benignior interpretatio, Torino, 1997, 5,
ritiene che la benignitas, l’humanitas, la caritas
costituiscano uno degli standard valutativi utilizzati dai giuristi, a partire
dall’età adrianea, di riscrittura, in chiave equitativa, degli
istituti di ius civile, più precisamente, valori giuridici
adottati dall’interprete nella giustificazione di decisioni non coerenti
con l’apparato consolidato delle rationes esistenti. Si veda anche
Wubbe, Benignus redivivus,
in Symbolae iuridicae et historicae Martino David dedicatae, Leiden,
1968, 237 ss.; Id., Benigna
interpretatio als Entscheidungskriterium, in Festgabe Herdlitzka, München-Salzburg,
1975, 295 ss.
[56] Per
motivi di humanitas si concede la restituzione della dote promessa con
una stipulatio nel caso di cessazione del matrimonio nel caso la donna sia
stata catturata dai nemici in D. 24.3.56 (Paulus l. 6 ad Plautium):
Si quis sic stipuletur a marito: si quo casu Titia tibi nupta esse desierit,
dotem dabis? hac generali commemoratione et ab hostibus capta ea committetur
stipulatio vel etiam si deportata fuerit vel ancilla effecta: hac enim
conceptione omnes hi casus continentur. plane quantum veniat in stipulatione,
utrum quasi mortua sit an quasi divortium fecerit? humanius quis id competere
dixerit, quod propter mortem convenit. In caso di donazioni
effettuate da un coniuge in seguito catturato e morto in prigionia
all’altro coniuge, Giustiniano sembra far salve le donazioni per ragioni
di humanitas, in C. 5.16.27 (Imp. Iustinianus A. Iohanni pp.): Si
unus ex his, qui matrimonio fuerant copulati, in alium donatione facta ab
hostibus captus est et in servitutem deductus, et postea ibi morte peremptus,
quaerebatur, an huiusmodi liberalitas, quam antea fecit, ex hoc roborari
videtur an vacillare: et iterum si donator quidem in civitate Romana constitutus
decesserit, mortis autem eius tempore is qui donationem accepit in captivitate
degebat et postea reversus est, an videtur et tunc donatio rata haberi. Cum
itaque in utroque casu oportet augusto remedio causam dirimi, cum nihil aliud
tam peculiare est imperiali maiestati quam humanitas, per quam solam dei
servatur imitatio, in ambobus casibus donationem firmam esse censemus (a.
530). Si veda Wubbe, L’humanitas
di Justinien, in TR, 58, 1990, 249 ss. Il Crifò, A proposito di humanitas, in Ars boni
et aequi, cit., 79 ss. (si veda anche Diritti della personalità e
diritto romano cristiano, in BIDR, 3, 1961, 33 ss.) ritiene che
nell’humanitas sia senza dubbio possibile riconoscere «lo
stesso valore e la stessa funzione espressi dall’aequitas».
L’Autore, ricordando l’affermazione del Biondi, Diritto romano cristiano, 2, Milano, 1952,
secondo il quale mentre per i i giuristi classici l’humanitas
sarebbe solo uno dei motivi, per i postclassici e i giustinianei sarebbe,
invece, il motivo generale e prevalente, non ritiene provata l’idea,
«certo allettante e possibile», che sia da cogliere
un’accentuazione cristiana nelle decisioni giustinianee nelle quali si
parla di humanitas senza esplicite indicazioni religiose. Ancora
più dubbia sarebbe una caratterizzazione generale di humanitas in
tal senso per l’età pregiustinianea.
[57]
L’accusatio iure mariti vel patris (o iure viri),
come è noto, è concessa solo in caso di adulterium,
cioè di relazione extraconiugale di una donna unita in iustae nuptiae;
il marito e il padre della sospetta adultera possono accusare entro 60 giorni
dall’avvenuto divorzio. Decorso inutilmente tale termine, l’accusa
diventa accessibile a tutti, compresi il marito e il padre che non abbiano
accusato nello spazio di tempo riservatogli, con l’accusatio iure
extranei, che può essere intentata, secondo la dottrina dominante,
sia per l’adulterium, sia per lo stuprum, cioè
qualsiasi relazione sessuale commessa con una virgo, una vidua,
un puer. In seguito, con una costituzione di Costantino, C. 9.9.29 (C.Th.
9.7.2) si sovvertì il sistema della lex Iulia: mentre questa
concedeva a chiunque, se non veniva esperita nel tempo previsto l’accusa
privilegiata, di accusare i colpevoli con l’accusatio iure extranei,
Costantino praticamente abolì quest’ultima, concedendola ai soli
parenti prossimi. Si veda a tal proposito Venturini,
Accusatio adulterii e politica costantiniana, in SDHI, 54, 1988,
66 ss.
[58] La lex
Iulia de adulteriis coercendis, proposta da Augusto verosimilmente intorno
al
[59] Per il
Volterra, In tema di accusatio
adulterii, in Studi Bonfante, 2, Milano, 1930, 111 ss., in part. 124
nt. 20, il matrimonio era stato ricostituito una volta tornata la donna in
patria.
[60]
Così il Ratti, Studi,
cit., 154 s., il quale afferma che nel diritto classico, essendo la prigioniera
schiava, non avrebbe potuto commettere adulterio, mentre nel diritto
giustinianeo, non provocando più la prigionia né schiavitù
né scioglimento del matrimonio, l’adulterio sarebbe stato
possibile; il Volterra, Per la
storia dell’accusatio adulterii iure mariti vel patris, in Studi
Cagliari, 17, 1928, 1 ss., ora in Scritti
giuridici, 1, Napoli, 1991, 219 ss.; In tema di accusatio, cit.,
122 ss., il quale osserva che l’interpolazione risulta chiara: le gravi
contraddizioni, la forma slegata, alcune espressioni come benignius,
propria dei bizantini per mutare radicalmente o attenuare una norma classica,
mostrerebbero che il passo doveva non concedere ma negare l’accusatio
iure viri: non posse eum accusare iure viri, sed iure extranei. Il D’Ercole, Il consenso degli
sposi e la perpetuità del matrimonio nel diritto romano e nei Padri della
Chiesa, in SDHI, 5, 1939, 18 ss., in part. 36, considera naturale
che Giustiniano riconoscesse nel marito il diritto di accusa contro la moglie
infedele durante la captivitas, ritenendo non interrotto il matrimonio.
L’Urso, Il matrimonio,
cit., 124, osserva che se in diritto giustinianeo è punibile il coniuge
che, al ritorno del captivus, non vuole ripristinare il matrimonio, non
può stupire che sia anche punibile il coniuge prigioniero che ha
commesso adulterio durante la prigionia, offrendo così una giusta
ragione all’altro coniuge per opporsi alla ricostituzione del vincolo
coniugale. La stessa opinione era stata già espressa dal Watson, Captivitas, cit., 256
s.
[61] Il Bandini, Appunti in tema di
adulterio, in Studi Ratti, Milano, 1930, 499 ss., proponeva di
aggiungere ille prima di apud hostes esset e non prima di iure
viri, ritenendo che fosse il marito a trovarsi presso i nemici e che, una
volta rientrato a Roma, potesse esercitare l’accusatio iure extranei
per stuprum, e non per adulterio. Mentre l’ipotesi che il marito
potesse agire non iure viri ma iure extranei era stata
avanzata già dal Volterra, quella che a trovarsi presso i nemici fosse
il marito e non la moglie rappresenta una novità, riproposta poi,
più di recente, dalla De Pascale,
Ulpiano equivocato, in Labeo, 42, 1996, 411 ss., la quale ritiene
non sia necessario aggiungere ille per specificare che si tratta di captivitas
del marito, dal momento che, a suo avviso, il testo renderebbe bene
quest’idea anche nella stesura del Digesto. Il Thomas, Accusatio adulterii, in Iura, 12, 1961,
65 ss., in part. 75 ss., proponeva, poi, una modifica del testo nel senso che
entrambi i coniugi fossero captivi (cum apud hostes essent).
[62] Il Rasi, Consensus, cit., 114 s.,
osserva che, accogliendo l’ipotesi del Bandini, il passo non affermerebbe
nulla di speciale e sarebbe ozioso, in quanto l’accusatio iure
extranei spetta a tutti, compresi gli ex mariti, sempre ammesso che il captivus,
in quanto schiavo, possa esercitarla. Ma, in ogni caso, se la moglie rimasta in
patria congiungendosi con un altro uomo commettesse adulterio, ciò
significherebbe che il matrimonio non è stato sciolto. Anche
l’ipotesi del Volterra che corregge “non posse eum accusare iure
viri”, renderebbe superfluo il passo, che invece, letto serenamente,
risulterebbe chiaro: la moglie caduta in captivitate, «per il
gioco della spes postliminii, che può essere messa in movimento
dal marito rimasto», sebbene il matrimonio giuridicamente non esista,
deve rispettare il marito lontano, tanto che a questo si concede benignius
l’accusatio iure mariti, sebbene in realtà il vincolo
matrimoniale non sussista; si tratterebbe, però, in questo caso, di un
diritto e non di un obbligo.
[63] Ankum, La captiva adultera. Problèmes concernent
l’accusatio adulterii en droit romain classique, in RIDA, 32,
1985, 153 ss., in part. 190 ss., il quale ritiene che il nostro passo
rappresenti un’eccezione alla regola dello scioglimento ipso iure
del matrimonio del captivus in epoca classica, così come D.
24.3.10pr. (Pomponius l. 15 ad Sabinum): Si ab hostibus capta filia,
quae nupta erat et dotem a patre profectam habebat, ibi decesserit, puto
dicendum perinde observanda omnia, ac si nupta decessisset, ut, etiamsi in
potestate non fuerit patris, dos ab eo profecta reverti ad eum debeat, e C.
5.18.5 (Impp.Valerianus et Galienus AA. et Valerianus C. Tauro): Si
quidem vivit apud hostes uxor tua, nondum frater eius quasi heres dotem
repetere potest. si vero diem functa est et hereditatem eius possit vindicare,
dotis quoque repetitio ei iure competit, cum in stipulatum deducta sit (a.
259). Per quanto riguarda le presunte interpolazioni del nostro passo,
l’Autore osserva che se il passo è difficile da spiegare per il
diritto classico, lo è altrettanto per il diritto giustinianeo, in
quanto anche in tale epoca, a suo avviso, il matrimonio non continuava durante
la prigionia, e respinge decisamente l’ipotesi che si parli di accusatio
iure extranei, perché non sarebbero, allora, giustificati né
il plane né il benignius. Alcuni giuristi classici, conclude l’Ankum,
«ont donné pour des problèmes juridiques précis
certains effets à un mariage d’une personne qui est devenue
captive, non seulement quand cette personne meurt en captivité, mais
aussi quand elle revient à Rome et continue le mariage avec
l’époux resté à Rome».
[64] Il Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis.
Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce, 1997, 206
ss., ritiene che la repressione del comportamento della donna avvenga a titolo
di adulterium, perché non sarebbe immaginabile un’accusatio
iure mariti per il crimen stupri.
[65] Il Palma, Benignior interpretatio,
cit., 127 ss., ritiene che la genuinità del passo si deduca dalla
circostanza che nei §§ 6 e 8 dello stesso frammento Ulpiano discorra
di nozze, concubinato, accusatio iure extranei, mentre nel
[66] Come
è noto, la lex Iulia non si applicava in caso di relazioni
sessuali con schiave. Si veda D. 48.5.6pr. (Papinianus lib. 1 de adulteriis):
Inter liberas tantum personas adulterium stuprumve passas lex Iulia locum
habet. quod autem ad servas pertinet, et legis Aquiliae actio facile tenebit et
iniuriarum quoque competit nec erit deneganda praetoria quoque actio de servo
corrupto.
[68] Mentre
il Volterra, Per la storia
dell’accusatio adulterii, cit., 221 nt. 2, aveva sostenuto che, pur
essendo i due termini stuprum e adulterium nella lex Iulia
interscambiabili per via dell’ampia nozione sia dell’uno che
dell’altro, adulterium «tenendosi al significato rigoroso
della parola» dovrebbe designare unicamente il rapporto extramatrimoniale
di una donna unita in iustae nuptiae, il Rizzelli, sostiene, invece, che vi siano ipotesi in cui
è ammessa, o perlomeno ventilata, la possibilità di accusare iure
extranei non a titolo di stuprum ma di adulterium
l’infedeltà femminile all’interno di unioni diverse dalle iustae
nuptiae ma essenzialmente monogamiche e stabili o avviate a divenire iustae
nuptiae (Coll. 4.5.1, D. 48.5.12.7, D. 48.5.14.3,4,6,7). Si sarebbe avuta, secondo
il Rizzelli, una dilatazione della nozione di unione rilevante per la
repressione dell’infedeltà coniugale femminile, «non
più coincidente con le iustae nuptiae, sino a ricomprendere
rapporti eterosessuali, monogamici e tendenzialmente stabili, ma non
configuranti iusta matrimonia». Da una serie di passi si
ricaverebbe che talvolta «contro il rapporto extraconiugale della donna
sposata, se il matrimonio sia iniustum, benchè non venga concessa
l’accusa privilegiata, è data però quella extranei»,
anche se in nessun testo si dice che ciò è stato previsto dalla lex
Iulia (D. 48.5.14.1). L’Autore parla di matrimonium iniustum,
ma, come è noto, su tale nozione esistono in dottrina opinioni
differenti: il Watson, The Law
of Persons in the Later Roman Republic, Oxford, 1967, 27, considera iniustum
il matrimonio fra persone che non hanno il conubium, il Volterra, Iniustum matrimonium,
cit., 441 ss., pone, invece, in evidenza che o il matrimonium è iustum,
perché si possiedono i requisiti (conubium, età, consenso
del pater in caso di filii alieni iuris) oppure non esiste.
Può anche essere usata l’espressione in matrimonio habere,
come in Coll. 4.5, o uxorem ducere come in D. 48.5.30.1, ma il
matrimonio sarà legittimo solo se si possiedono i requisiti. Per il Pugliese, Istituzioni, cit.,
394, iustum matrimonium è un matrimonio conforme al ius,
e non sarebbe conforme al ius se fosse mancato uno dei presupposti
richiesti dal diritto, cioè la pubertà, la sanità mentale,
il conubium. Più di recente
[69] Per il
Guarino, Studi
sull’incestum, in ZSS, 63, 1943, 175 ss., la lex Iulia de
adulteriis previde, accanto alle fattispecie dell’adulterium e
dello stuprum, anche quella dell’incestum, cioè, a
parte il caso della vestale, ogni unione sessuale fra persone legate da stretti
vincoli di parentela o affinità: il matrimonio incestuoso non è
matrimonio, è giuridicamente inesistente e altro non sarebbe se non una species
del genus stuprum, qualificato dal fatto che gli agenti non
possono, anche volendo, entrare in rapporti matrimoniali o di concubinato.
[70] Il
Volterra non manca, comunque, di rilevare che non si segue alla lettera il
principio classico dell’equiparazione del captivus al servus,
perché la captiva, schiava, non potrebbe commettere né
adulterio né stupro, ma tale equiparazione, osserva l’Autore, non
è spinta in diritto romano fino alle ultime conseguenze, né si
può escludere che la norma rappresenti una di quelle interpretazioni
benigne della giurisprudenza in tema di accusatio adulterii, come quella
presente nel § 2 dello stesso passo: Sed et in ea uxore potest maritus
adulterium vindicare, quae volgaris fuerit, quamvis, si vidua esset, impune in
ea stuprum committeretur.
[71] Rizzelli, Alcuni aspetti
dell’accusa privilegiata in materia di adulterio, in BIDR, 89,
1986, 411 ss., in part, 425 ss.
[72]
L’Autore osserva che nel testo si prendeva, forse, in esame uno specifico
caso concreto, dal quale si sarebbe tratta una regola di carattere generale; ci
si può, pertanto, domandare se la donna del cui adulterium si
discute non si sia per caso trovata presso i nemici in condizione di ostaggio,
e dunque di persona libera. Un eventuale rapporto extraconiugale, data la
particolare situazione che ne costituirebbe il contesto, non sarebbe stato
ritenuto perseguibile agevolmente, e sarebbe, pertanto, comprensibile il benignius.
A me pare che se la donna non fosse stata schiava dei nemici, ma ostaggio, il
marito avrebbe potuto esercitare a pieno titolo l’accusatio iure viri,
senza necessità del benignius, anche perché si specifica
che se alla donna è stata usata violenza l’accusatio non
è possibile.
[73] Il
Rizzelli sostiene, contrariamente al Volterra, che in questi casi venga
concessa l’accusatio iure extranei non per stupro, ma per
adulterio.
[74] Si
vedano Coll. 4.6: In uxorem adulterium vindicatur iure mariti, non etiam
sponsam. Severus quoque et Antoninus ita rescripserunt, D.
48.5.14.3 (Ulpianus l. 2 de adulteriis): Divi Severus et
Antoninus rescripserunt etiam in sponsa hoc idem vindicandum, quia neque
matrimonium qualecumque nec spem matrimonii violare permittitur, C.
9.9.7pr. (Imp. Alexander A. Herculano): Propter violatam virginem
adultam qui postea maritus esse coepit accusator iustus non est et ideo iure
mariti crimen exercere non potest, nisi puella violata sponsa eius fuerit
(a. 223). Il Volterra, In tema
di accusatio, cit., 112 ss., osserva che nel diritto della compilazione la
differenza fra accusatio iure mariti e accusatio iure extranei
è notevolmente attenuata e la violazione degli sponsali è
avvicinata a quella del matrimonio.
[75] In
ogni caso, si tratta di un’applicazione della benignitas piuttosto
svantaggiosa per la donna. Il Biondi,
Il diritto romano cristiano, II, cit., 243; III, Milano, 1954, 157 (si
veda anche La pena adulterii da Augusto a Giustiniano, in Studi
Sassari, 16, 1938, 63 ss., ora in Scritti, 2, Milano, 1965, 47 ss.)
osservava che se la decisione è motivata con ragioni di benignitas,
ciò deriverebbe dalla considerazione che tale accusatio sarebbe
più favorevole per la donna, nel senso che non verrebbe considerata
schiava, e quindi capace. Tale ultima considerazione mi sembra difficilmente
condivisibile, in quanto la benignitas sembra riferibile al marito:
riguardo alla donna, non solo non vi è benignitas, ma vi è
un aggravio della sua posizione. In questo senso già il Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis,
cit., 210 nt. 139: «la cosa strana è che la decisione, benevola
nei confronti dell’uomo, si rivela particolarmente dura nei riguardi
della moglie, non considerata schiava e ritenuta dunque capace di adulterio,
per quanto, presumibilmente, alla mercè dei nemici». Come visto in
precedenza, il Volterra aveva ritenuto che il benignius sia forma
propria dei bizantini per mutare radicalmente o attenuare una norma classica.
Per il Palma, è benigno il trattamento più favorevole alla
pretesa accusatoria del marito, come risvolto di quel favor matrimonii
che le leggi matrimoniali augustee avevano inteso assicurare, introducendo le
ipotesi criminali dell’adulterium e dello stuprum.
[76] Parla
di ripristino del matrimonio iure postliminii con efficacia retroattiva
[77] Il
passo pone, indubitabilmente, una serie di problemi, anche per quanto concerne
la seconda parte: sed ita demum adulterium maritus vindicabit, si vim
hostium passa non est: ceterum quae vim patitur, non est in ea causa, ut
adulterii vel stupri damnetur. La donna non potrà essere condannata
se le è stata usata violenza, perchè per la punibilità è
necessario il suo consenso ai rapporti sessuali, principio che sembra,
peraltro, pacifico, visto che già Salvo Giuliano affermava che non si ha
adulterio se non è commesso dolo malo, D. 48.5.44 (Gaius libro
tertio ad legem duodecim tabularum): …idque Salvius Iulianus
respondit, quia adulterium, inquit, sine dolo malo non committitur. Il Volterra, Intorno a D. 48.5.44,
in Studi Biondi, 2, Milano, 1965, 123 ss., ritiene che tale passo, per
quanto contenuto in un commento alle XII Tavole, debba essere posto in
relazione con le disposizioni della lex Iulia de adulteriis, in quanto
il problema posto da Gaio e Giuliano, cioè se l’uomo che si unisce
in matrimonio con una donna non divorziata secondo le debite forme sia o meno
da considerare adultero, postula che chi sia ritenuto tale venga sottoposto a
pena dal magistrato, il che non era possibile al tempo delle XII Tavole, in
quanto prima della lex Iulia l’adulterio non era considerato un crimen.
Inoltre, secondo l’Autore, D. 48.5.13 (Ulpianus l. 1 de adulteriis)
testimonia che il dolus malus come elemento essenziale
dell’adulterio era menzionato nel testo della lex Iulia: Haec
verba legis ne quis posthac stuprum adulterium facito sciens dolo malo et ad
eum, qui suasit, et ad eum, qui stuprum vel adulterium intulit, pertinent.
Il Botta, Per vim inferre.
Studi su stuprum violento e raptus nel diritto romano e bizantino, Cagliari,
2004, 45 ss., osserva che l’espressione non est in ea causa ut
adulterii vel stupri damnetur è da interpretare nel senso che la
donna violentata non è punibile per adulterio o per stupro, non che nei
suoi confronti sia inammissibile l’accusa. Per
[78] Il Volterra, Sul divorzio della liberta,
in Studi Riccobono, 3, Palermo, 1936, 201 ss., ritiene che la lex
Iulia et Papia contenesse, riguardo al divorzio della liberta,
due norme distinte: divortii faciendi potestas libertae quae nupta est
patrono ne esto, quamdiu patronus uxorem eam esse volet e invito patrono
liberta, quae ei nupta est, alii nubere non potest. La seconda regola non
si applicava nel caso di manomissione fideicommissi causa, nel qual caso
la liberta avrebbe facoltà di divorziare. Secondo il Volterra, i
bizantini avrebbero tentato di fondere le due norme, «cercando di
conciliarle con ardite costruzioni».
[79] Si
veda anche D. 24.2.11 (Ulpianus. l. 3 ad legem Iuliam et Papiam): Quod
ait lex: ‘divortii faciendi potestas libertae, quae nupta est patrono, ne
esto’, non infectum videtur effecisse divortium, quod iure civili
dissolvere solet matrimonium. quare constare matrimonium dicere non possumus,
cum sit separatum. denique scribit Iulianus de dote hanc actionem non habere.
merito igitur, quamdiu patronus eius eam uxorem suam esse vult, cum nullo alio
conubium ei est. nam quia intellexit legis lator facto libertae quasi direptum
matrimonium, detraxit ei cum alio conubium. quare cuicumque nupserit,
pro non nupta habebitur. Iulianus quidem amplius putat nec in concubinatu eam
alterius patroni esse posse, da cui si desumerebbe che la liberta
già moglie del patrono, se divorzia contro la sua volontà, perde
il conubium e pertanto la possibilità di passare a nuove nozze.
Secondo il Solazzi, Studi sul
divorzio, in BIDR, 34, 1925, 295 ss., ora in Scritti, 3,
Napoli, 1960, 1 ss., in part. 21 ss., sarebbero interpolati i periodi quare
constare matrimonium dicere non possumus, cum sit separatum e quare
cuicumque nupserit, pro non nupta habebitur, ma soprattutto il quasi
direptum. Per l’Autore la regola classica non sarebbe
l’indissolubilità del matrimonio della liberta col patrono,
ma l’impossibilità per la liberta che ha divorziato invito
patrono di avere un altro marito, come proverebbero anche C. 5.5.1 (Imp.
Alexander A. Amphigeni): Liberta eademque uxor tua, si a te invito
discessit, conubium cum alio non habet, si modo uxorem eam habere velis, e
C. 6.3.9 (Imp. Alexander A. Laetorio): Libertae tuae ducendo eam
uxorem dignitatem auxisti, et ideo non est cogenda operas tibi praestare, cum
possis legis beneficio contentus esse, quod invito te iuste non possit alii
nubere (a. 225).
[80] Se,
però, il patronus fosse caduto in aliam servitutem,
il matrimonio sarebbe, invece, sciolto. Per l’Urso, Il matrimonio, cit., 119, Ulpiano osserverebbe
che, se il il matrimonio del patrono caduto in un altro tipo di servitù
fosse sciolto senza alcun dubbio, non ci sarebbe motivo per cui non dovrebbe
essere sciolto nel caso di servitus per captivitas.
L’osservazione non sembra condivisibile: la captivitas,
sicuramente causa di servitus, anche se si discute se iusta o iniusta,
sembra distinta da Ulpiano dalle altre servitutes le quali,
contrariamente ad essa, hanno sicuramente l’effetto di sciogliere il
matrimonio.
[81] Il
Mommsen aveva corretto l’et qui Iuliani sententiam probant in
sed; per il Bonfante,
Corso, 1, cit., 242 e ivi nt. 3, il passo è interpolato,
perché il matrimonio ai tempi di Giuliano non perdurava; il Beseler, Miscellanea, cit., 198,
aveva ritenuto il testo interpolato da esse proponatur, sostenendo che
la frase putat Iulianus durat matrimonium derivi da una falsa
interpretazione di D. 24.2.6. Per il Solazzi,
Studi, cit., 25 s., che sospetta delle espressioni conubium habere
nubendo, propter patroni reverentiam, non si riesce a capire perché
la prigionia di chi ha sposato la propria liberta dovrebbe avere effetti
diversi rispetto alla prigionia di qualsiasi altro marito; se anche così
fosse, in ogni caso, per l’Autore, Giuliano non avrebbe potuto fondare la
sua sententia sulla patroni reverentia, termine che sarebbe
giustinianeo. Il Solazzi avanza il sospetto che il passo sia stato rimaneggiato
da un commentatore precedente a Triboniano, perché già in C.
5.16.27 si pongono dubbii che non avrebbero motivo di essere se la captivitas
avesse sciolto il matrimonio: andrebbe, in ogni caso, poi eliminato il periodo certe
– esset matrimonium per via del cambiamento di costruzione e
perché la distinzione fra captivitas e servitus non
sarebbe classica. Per l’Albertario,
L’autonomia dell’elemento spirituale nel matrimonio e nel possesso romano-giustinianeo,
in Studi, 1, Milano, 1933, 213 ss., in part. 217 s., il testo
è interpolato, sia per il procul dubio dopo il certe, che
per il riguardo giustinianeo alla patroni reverentia, ma soprattutto per
l’et, che logicamente esigerebbe una soluzione opposta a quella
che il testo attribuisce a Giuliano. Per il Rasi, Consensus facit nuptias, cit., 112 s., premesso
che durante la captivitas il vincolo matrimoniale non esiste, né,
trattandosi di un rapporto meramente personale, può gravare sul coniuge
rimasto la spes postliminii, questa sorge, invece, nel caso in cui
«il vincolo non è solubile»: così nel caso della liberta
sarebbe naturale che su di lei gravi tale spes, compendiata nella reverentia
patroni, senza che con ciò venga leso qualche suo diritto.
L’Autore ritiene, però, che nel passo originale fosse scritto quasi
durare… matrimonium perché in realtà il matrimonio
sarebbe sciolto per la captivitas ma sulla liberta graverebbe la reverentia
ossia la spes postliminii, «che fa quasi perdurare il vincolo».
Anche il Cosentini, Studi sui
liberti, 1, cit., 247 ss., si sofferma, in particolare,
sull’interpolazione del termine reverentia, che è
normalmente adoperato nel senso di deferenza e rispetto, doveri di natura
morale ma sanzionati dall’accusatio ingrati, mentre nel nostro
passo è richiamato indipendentemente dalle conseguenze penali che
avrebbe comportato la trasgressione del dovere che essa comportava. L’Astolfi, La lex Iulia et Papia
4, Padova, 1996, 183, osserva che il patronus è invito non
solo se contrario al divorzio, ma anche se non vi può consentire:
Giuliano equiparerebbe “arditamente” al patronus invitus il patronus
captivus, che non può consentire perché non è
più soggetto di diritto. Il frammento, tuttavia, sarebbe interpolato
perché, se si ammette che eccezionalmente la liberta non avesse
il ius conubii, e quindi non potesse contrarre nuove nozze, non si
ammette, invece, che continuasse ad essere unita in matrimonio col patrono captivus:
da putat enim il testo sarebbe stato aggiunto o modificato dai
compilatori. Il Robleda, El
matrimonio en derecho romano, cit., 242 nt. 5., osservava, invece, che
risulta difficile accettare l’interpolazione del putat enim Iulianus
durare eius libertae matrimonium.
[83]
L’Urso, Il matrimonio,
cit., 118, sembra tener conto solo di quanto affermato dal Volterra in Studi
sul divorzio della liberta e non nel successivo “Sulla D.
23.2.45.6”.
[84]
L’espressione habere conubium, che è stata sistematicamente
soppressa nei testi dai giustinianei, e che sarebbe presente nel nostro testo
per una svista, è sicuro indizio, per l’Autore, della
genuinità: Ulpiano non afferma, come farebbe un giurista del VI secolo o
uno moderno, che vi è l’impedimento a che la liberta compia
un altro matrimonio legittimo, ma afferma che essa non ha più il conubium
con persona diversa dal patrono. Il vereor mostrerebbe quanto Ulpiano
sentisse le difficoltà del caso, mentre la considerazione quemadmodum
haberet, si mortuus esset permetterebbe di congetturare come nel pensiero
del giurista alla liberta non sarebbe rimasta altra soluzione che quella
di attendere la morte in prigionia del marito, che le avrebbe conservato il conubium,
oppure il suo ritorno, con la possibilità da parte di questi di
manifestare la volontà di ricostituire il matrimonio oppure quella di
non volerla più come moglie, con la conseguenza stabilita dalle leggi
augustee di conservarle ugualmente il conubium. Dall’espressione qui
Iuliani sententiam probant dicerent non habituram conubium, si ricaverebbe,
per l’Autore, non solo che il testo è classico, ma anche che sulla
questione non vi era unanimità di consensi, perché per Giuliano
il matrimonio della liberta continua ad esistere durante la captivitas
propter patroni reverentiam.
[85] D.
24.2.6 (Iulianus l. 62 digestorum): Uxores eorum, qui in hostium
potestate pervenerunt, possunt videri nuptarum locum retinere eo solo, quod
alii temere nubere non possunt. et generaliter definiendum est, donec certum
est maritum vivere in captivitate constitutum, nullam habere licentiam uxores
eorum migrare ad aliud matrimonium, nisi mallent ipsae mulieres causam repudii
praestare. sin autem in incerto est, an vivus apud hostes teneatur vel morte
praeventus, tunc, si quinquennium a tempore captivitatis excesserit, licentiam
habet mulier ad alias migrare nuptias, ita tamen, ut bona gratia dissolutum
videatur pristinum matrimonium et unusquisque suum ius habeat imminutum: eodem
iure et in marito in civitate degente et uxore captiva observando. Anche la
prima parte del passo, considerata genuina dal Volterra, non si salva, secondo
il Di Marzo, Lezioni sul
matrimonio romano, Palermo, 1919, 91 ss., da sospetti, in quanto non
esprimerebbe né la dottrina secondo la quale la captivitas
scioglie il matrimonio, né la teoria opposta, ma tenterebbe quasi un
accomodamento affermando che il matrimonio perdura solo in quanto non è
lecito alla donna risposarsi senz’altro. I dubbi si sono appuntati,
però, in particolare sulla seconda parte, nella quale si afferma che la
moglie potrà contrarre un nuovo matrimonio solo dopo un quinquennio
dalla cattura, a meno di non voler causam repudii praestare, il che non
può non ricordare, pur essendo
[86] Il Watson, Captivitas, cit., 247 ss., ritiene che il passo nella sostanza sia
genuino e che non vi sia alcun cambiamento di stile: certe etc più il congiuntivo può essere una
continuazione dell’opinione di Giuliano in un discorso indiretto, o
può darsi che Ulpiano esprimesse la sua opinione o la congiunta opinione
di se stesso e di Giuliano; nell’uno e nell’altro caso il
congiuntivo potrebbe essere spiegato come ancora dipendente da proponatur.
Per l’Autore la ragione del conflitto fra
Giuliano e Ulpiano si troverebbe in D. 24.2.11pr., già riportato alla nt. 79, dal quale risulterebbe una
disputa fra Ulpiano e Giuliano per effetto della lex Iulia et Papia, come mostrato dalle
parole Iulianus quidem amplius putat, perchè
l’uso enfatico di amplius e quidem assieme mostrerebbe che Ulpiano non condivide il punto di
vista rappresentato: se Giuliano rifiuta alla liberta l’actio rei uxoriae la ragione deve essere trovata nella circostanza che considera
il matrimonio ancora esistente, e dunque la liberta non può essere la concubina di un altro patrono. Il
punto di vista di Ulpiano è per il Watson che il matrimonio sia sciolto
ma la liberta non possa risposarsi.
[87] Per
l’Autore, secondo Giuliano il matrimonio della liberta non si
scioglie con la captivitas del marito patrono perché la liberta
non ha il potere di porre fine al matrimonio; per Ulpiano, invece, che ritiene
che la liberta possa sempre divorziare, non si può dire che il
matrimonio debba automaticamente rivivere al ritorno del marito.
[89]
L’idea che il vereor ne abbia significato positivo non
è condivisibile; si veda, a tal proposito, Traina, Bertotti, Sintassi normativa della lingua latina,
Teoria, Bologna, 1985, 380 ss.
[90] La proibizione di Giuliano di contrarre matrimonio invito
patrono si dimostrerebbe, però, inefficace
perché il patrono è ormai schiavo e «non ha più una
volontà giuridicamente efficiente né per tenere in vita il
matrimonio né per proibire il nuovo e poi perché il matrimonio si
è sciolto ipso iure». Il testo, dunque, pur con secondarie
interpolazioni, sarebbe un’affermazione dello scioglimento del matrimonio
della liberta il cui patrono marito è stato captus
ab hostibus; non ci sarebbe, d’altra parte, per
l’Autore, «motivo di pensare diversamente perché la captivitas è come la morte».
[91]
Osserva il Volterra, Sulla D.
23.2.45.6, cit., 4379, che il criterio per cui persiste il rapporto giuridico
coniugale costituito con la liberta se il patronus non può
validamente esprimere la propria volontà affiora anche in D. 25.7.2
(Paulus l. 12 ad legem Iuliam et Papiam): Si patronus libertam
concubinam habens furere coeperit, in concubinatu eam esse humanius dicitur.
L’avverbio humanius, uno dei motivi per i quali il passo è
stato, per l’Autore ingiustamente, sospettato di interpolazione, è
«di uso frequente presso gli scrittori classici»; inoltre, osserva
il Volterra, non si vede come si possa attribuire il testo ai giustinianei
quando non si accorda con la legislazione del VI secolo in materia di
concubinato.
[92] Anche
se sembra eccessivo sostenere che provino, invece, che al ritorno in patria il
matrimonio si ricostituiva iure postliminii, come ritengono il Maret, Du Postliminium et de la loi
Cornelia, cit., 54 s., il Corbett,
Roman Law of Marriage, cit., 213 s., e il Sertorio, Il diritto di postliminio, cit., 62 s. Tale
tesi ha da sempre suscitato molte critiche: il Rasi, Consensus, cit., 117 aveva osservato che la patria
potestas, «essendo un diritto di carattere quasi reale»,
risorge ipso iure, mentre per il matrimonio, che è un rapporto
eminentemente personale, non basterebbe il ius postliminii, ma
occorrerebbe anche il consenso, naturalmente nei casi in cui il matrimonio non
è considerato indissolubile o il coniuge rimasto in patria non ha mutato
il proprio pensiero; per l’Orestano,
La struttura, cit., 120, è proprio la natura del matrimonio che
esclude la configurabilità della pendenza, necessaria per il postliminium.
Secondo l’Urso, Il
matrimonio, cit., 120, non si può applicare il postliminium
perché, sciolto il matrimonio per la captivitas di un coniuge,
l’altro può risposarsi e non sarebbe giusto che, una volta tornato
l’ex coniuge dalla prigionia, debba abbandonare l’attuale coniuge
per ridare vita al precedente matrimonio. L’osservazione mi pare non
tenga conto del fatto che anche gli Autori che parlano di ricostituzione del
matrimonio iure postliminii sostengono che, comunque, tale postliminio
possa operare solo in seguito all’esternazione di un nuovo consenso da
parte dei coniugi.
[93] Questi
passi sono stati da me esaminati, da un differente punto di vista, in Nuove
ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus,
Cagliari, 2001, 129 ss.
[94] Il
passo è stato considerato interpolato in quanto non richiede
espressamente, per concedere il postliminio al figlio, il ritorno con i
genitori; i giustinianei l’avrebbero modificato in quanto ai loro tempi
si sarebbe concesso il postliminio al concepito in captivitate anche in
caso di suo ritorno da solo. Si vedano, in tal senso, Ratti, Studi sulla captivitas, cit., 165, Albertario, Conceptus, cit., 22
nt. 3, il quale propone di eliminare dal passo la frase habere enim eum
postliminium nulla dubitatio est, Orestano,
La struttura, cit., 128 nt. 355, per il quale le parole apud hostes
susceptus filius si postliminio redierit, filii iura habet sarebbero una
evidente generalizzazione compilatoria, Amirante,
Prigionia di guerra, cit., 172 s., G. Longo,
Ancora sul matrimonio romano, cit., 467, il quale ritiene, inoltre, che susceptus
al posto di conceptus sia bizantino e che nulla dubitatio est
sarebbe tipica espressione generalizzante dei giustinianei. Anche lo Stiegler,
Et partui postliminium datur, in Ars boni et aequi, Festschrift
für W. Waldstein, Stuttgart, 1993, 331 ss., in part.
[95] D.
49.15.25 non ha posto, invece, alla dottrina problemi di interpolazione in
quanto richiede espressamente che il figlio ritorni con entrambi i genitori o
perlomeno con la madre. Osservavo in Nuove ricerche, cit., 139, che,
come in C. 8.50.1, non si afferma che è concesso il postliminio, ma che
si producono gli stessi effetti che si produrrebbero se questo fosse concesso (quemadmodum
iure postliminii reversus sit).
[96]
L’espressione quasi vulgo quaesitus si spiega in quanto nel
paragrafo precedente Ulpiano affermava sed et vulgo quaesiti admittuntur ad
matris legitimam hereditatem; il giurista sembra, dunque, estendere il
principio anche al concepito in prigionia, che ritorni con la madre,
considerandolo quasi vulgo quaesitus.
[97] L’Arias Bonet, La no reintegración iure postliminii
del matrimonio, cit., 573, ritiene che la parentum restitutio di cui
parla la costituzione «no encierra necesariamente la idea del postliminium,
y tampoco de las palabras de Marciano puede deducirse nada en este
sentido».
[99] Per il
Volterra, Iniustum matrimonium,
cit., 453 s., anteriormente al rescritto il nato da genitori captivi era
considerato spurio perché fra captivi non esisteva conubium
e quindi l’unione fra essi non poteva essere qualificata iustum
matrimonium.
[100] Nel
rescritto si chiedeva forse l’applicazione della fictio legis
Corneliae per considerare la figlia legittima e suus heres del
padre, ma, come fa osservare la cancelleria imperiale, non essendo essa neppure
concepita al momento della cattura del padre, la fictio non può
esserle di alcun giovamento.
[101]
Osserva l’Arangio-Ruiz, Rec.
ad Albertario, cit., 80, che la disposizione contenuta in C. 8.50.1
è di ius singolare, frutto di arbitrio legislativo e non
desumibile dai principii, tanto che non viene mai ricordata senza citarne la
fonte, e senza rilevare che i principii del postliminio vengono violati.
[102] Il Van de Wiel,
La légitimation par mariage subséquent, de Costantin
à Justinien. Sa réception sporadique dans le droit
byzantin, in RIDA, 25, 1978, 307 ss., in part. 345, si
chiede quando un figlio possa dirsi legittimo, e distingue tre casi, i figli
nati prima del matrimonio, che sono illegittimi, i figli concepiti e nati dopo
il matrimonio, che sono legittimi, e gli altri casi, tra cui quello dei
concepiti prima del matrimonio, ma nati dopo. Le soluzioni giurisprudenziali
classiche sono, ad avviso dell’Autore, contrastanti, in quanto per Paolo,
in D. 1.5.11 (l. 18 responsorum), il figlio sarebbe illegittimo, mentre
diversamente si esprimerebbe Ulpiano in Tit. Ulp. 5.10. Per Giustiniano
è sufficiente che il matrimonio esista al momento della nascita, C.
5.27.11 (Imp. Iustinianus A. Iuliano pp.): Nuper legem conscripsimus,
per quam iussimus, si quis mulierem in suo contubernio collocaverit non ab
initio adfectione maritali, eam tamen, cum qua poterat habere conubium, et ex
ea liberos sustulerit, postea vero adfectione procedente etiam nuptalia
instrumenta cum ea fecerit filiosque vel filias habuerit, non solum secundos
liberos qui post dotem edit sunt iustos et in potestate esse patribus, sed
etiam anteriores, qui et his qui postea nati sunt occasionem legitimi nominis
praestiterunt (a. 530).
[103]
Osservavo in Nuove ricerche, cit., 141, che la giurisprudenza
tardo-classica esercitava ancora una certa funzione innovativa, estendendo il
principio stabilito da C. 8.50.1 per un singolo caso ad una serie di altri casi
che con esso presentano delle analogie.
[104] Per il
Maret, Du Postliminium et de
la loi Cornelia, cit., 54 s., se i coniugi sono catturati assieme, quando
ritornano in patria il matrimonio «est validé
rétroactivement» per effetto del postliminio; il Sertorio, La prigionia di guerra,
cit., 62 s., ritiene che il passo costituisca prova dell’opinione per la
quale, nel caso i coniugi siano fatti prigionieri assieme e vivano assieme
durante la prigionia, al loro ritorno in patria il matrimonio «era
considerato essere sempre esistito e continuare a sussistere come se mai fosse
stato interrotto»; per il Corbett,
The Roman Law of Marriage, cit., 213, si aveva operatività del postliminium,
condizionato al consenso del coniuge rimasto in patria; il Solazzi, Attorno ai caduca, in Atti
dell’Accademia di scienze morali e politiche della Società reale
di Napoli, 61, 1942, 71 ss., ora in Scritti, 4, Napoli, 1963, 265
ss., in part. 359, osserva che a Severo e Antonino piacque considerare i
genitori «come se fossero uniti in matrimonio anche dopo la
cattura». Per il Watson, Captivitas
and matrimonium, cit., 244 ss., C.8.50.1 rappresenterebbe
un’eccezione alla regola generale del diritto classico per cui il
matrimonio termina con la captivitas, in quanto in questo caso ambedue i
coniugi sono prigionieri e, dunque, non viene meno la coabitazione. Il
matrimonio, pertanto, osserva l’Autore, «was retroactively
validated by postliminium if both parties returned»; se i coniugi
sono catturati assieme, nessuno dei due avrebbe la capacità per un
espresso dissenso. Anche per l’Ankum,
La captiva adultera, cit., 203 s., C. 8.50.1, D. 38.17.1.3, D. 49.15.9,
D. 49.15.25, rappresenterebbero delle eccezioni alla regola dello scioglimento ipso
iure del matrimonio in epoca classica.
[105]
Osservava l’Orestano, La
struttura, cit., 122 nt. 343, che i termini uxor, cum marito, quasi sine
marito, intendono solo mettere in evidenza che prima della captivitas
i due erano uniti in matrimonio.
[106] Per
l’Orestano, La struttura,
cit., 129, la semplice reintegrazione del matrimonio non sarebbe bastata ad
attribuire al figlio la condizione di legittimo, come non sarebbe bastato il
ritorno della madre per attribuire al figlio la condizione di lei.
[107] Per
l’esame dell’espressione in rerum natura in riferimento al
concepito, mi permetto di rimandare ad un mio studio di prossima pubblicazione
sulla rilevanza del concepimento in epoca classica.
[108] Per
l’esame del passo, sul quale esiste una vastissima letteratura, Sanna, Nuove ricerche, cit., 123
ss., Conceptus pro iam nato habetur e nozione di frutto, in Il
diritto giustinianeo fra tradizione classica e innovazione, a cura di
Botta, Torino, 2003, 217 ss., e la bibliografia ivi citata. Nel passo vengono
trattati insieme il caso del concepito da madre libera, in seguito capta ab
hostibus, e il caso del concepito da madre schiava come applicazione del
principio qui in utero sunt, in toto
paene iure civili intelleguntur in rerum natura esse.
[109] Per
postumi, come è noto, si intesero, propriamente, i figli e gli ulteriori
discendenti nati dopo la morte del paterfamilias, purchè
concepiti in vita di questi: D. 38.16.6 (Iulianus l. 59 digestorum):
…quia lex duodecim tabularum eum vocat ad hereditatem, qui moriente
eo, de cuius bonis quaeritur, in rerum natura fuerit; Gai 3.4: Postumi
quoque, qui si vivo parente nati essent, in potestate eius futuri forent, sui
heredes sunt; D. 38.16.3.9 (Ulpianus l. 14 ad Sabinum): Utique et
ex lege duodecim tabularum ad legitimam hereditatem is qui in utero fuit
admittitur, si fuerit editus. In seguito però, in base alla cd.
clausola aquiliana (D. 28.2.29pr. (Scaevola l. 6 quaestionum): Gallus
sic posse institui postumos nepotes induxit: Si filius meus vivo me morietur,
tunc si quis mihi ex eo nepos sive quae neptis post mortem meam in decem mensibus
proximis, quibus filius meus moreretur, natus nata erit, heredes sunto) si
tenne conto anche dei postumi Aquiliani, cioè i nipoti nati dopo
la morte del paterfamilias, dalla cui potestas fosse uscito il filius
per morte o interdizione, emancipazione, captivitas. In base, poi, alla lex
Vellaea, divenne possibile istituire anche i nati dopo la redazione del
testamento in vita del testatore che diventino immediatamente sui del
testatore e i già nati al momento della confezione del testamento
divenuti sui in seguito per premorienza del pater. Si ritiene,
inoltre, che Giuliano abbia esteso con un’interpretazione analogica
l’applicazione della lex Vellaea anche ai postumi nati dopo
la confezione del testamento e divenuti sui prima della morte del
testatore. Si vedano Robbe, I
postumi nella successione testamentaria romana, Milano, 1937; ID., voce
Postumi in NNDI, 13, 1966, 434 ss.; Sachers, v. Postumi, in PWRE. 22.1, 1953, 956
ss., e, più di recente, Lamberti,
Studi sui postumi nell’esperienza giuridica romana, 1, Milano,
1996; 2, Milano, 2001 e bibl. ivi citata; Blanch
Nougués, rec. a Lamberti, in SDHI, 65, 1999, 433
ss.; Manfredini, rec. a
Lamberti, in Iura, 52, 2001, 262 ss.
[110]
Poiché aqua et igni interdictio ed emancipatio sono
equiparabili alla morte, da D. 28.2.29.5/6 di Scevola sappiamo che il postumo
poteva succedere anche in questi casi: Et quid si tantum in mortis filii
casum conciperet? quid enim si aquae et ignis interdictionem pateretur? quid si
nepos, ex quo pronepos institueretur, ut ostendimus, emancipatus esset? hi enim
casus et omnes, ex quibus suus heres post mortem scilicet avi nasceretur, non
pertinent ad legem Vellaeam: sed ex sententia legis Vellaeae et haec omnia
admittenda sunt, ut ad similitudinem mortis ceteri casus admittendi sint. 6.
Quid si qui filium apud hostes habebat testaretur? quare non induxere, ut, si
antea quam filius ab hostibus rediret quamvis post mortem patris decederet,
tunc deinde nepos vel etiam adhuc illis vivis post mortem scilicet avi nasceretur,
non rumperet? nam hic casus ad legem Vellaeam non pertinet.
[111] Il
passo è stato considerato interpolato dal Ratti, Studi, cit., 164 s., che aveva ritenute
giustinianee le parole sive apud hostes e afferma che nel passo
originariamente si sarebbe parlato solo del nipote concepito in civitate
e nato in prigionia; dall’Albertario,
Conceptus, cit., 22 nt. 3, per il quale il testo originario avrebbe
affermato: Si autem in civitate nepos fuit conceptus succedendo testamentum
rumpit. Concorda col Ratti G. Longo,
Ancora sul matrimonio romano, cit., 467.
[112]
Vengono equiparati il figlio concepito in patria e quello concepito apud
hostes da una statulibera in D. 40.7.6.1/2 (Ulpianus l. 27 ad
Sabinum): Quid tamen si qua conceperit in servitute, deinde ab hostibus
capta peperit ibi post existentem condicionem, an liberum pariat? et interim
quidem quin servus hostium sit, nequaquam dubium est: sed verius est
postliminio eum liberum fieri, quia, si mater in civitate esset, liber
nasceretur. Plane si apud hostes eum concepisset et post existentem condicionem
edidisset, benignius dicetur competere ei postliminium et liberum eum esse.
Il passo, che non può essere preso in considerazione ai fini del
matrimonio perché tratta il caso di una statulibera, che quando
ha concepito era schiava e dunque non poteva essere unita in matrimonio,
è comunque interessante ai fini del nostro discorso perché, dopo
aver affermato nel primo paragrafo che viene concesso il postliminio al figlio
della statulibera concepito in patria e partorito apud hostes,
dopo che si è realizzata la condizione che avrebbe reso libera la madre
se fosse stata in patria, estende benignius nel secondo paragrafo la
stessa concessione anche se il concepimento è avvenuto presso i nemici.
Ulpiano sembra ragionare sul presupposto che se la madre avesse ottenuto la
libertà nel momento in cui le sarebbe spettata, se non fosse stata
catturata, il figlio sarebbe stato libero; uguale ragionamento sembra adottato
in D. 38.16.1.1 (Ulpianus l. 12 ad Sabinum): Quaeri poterit, si ex
ea, quae in fideicommissa libertate moram passa est, conceptus et natus sit, an
suus patri extat. et cum placeat eum ingenuum nasci, ut est a divis Marco et
Vero et imperatore nostro Antonino Augusto rescriptum, cur non in totum pro
manumissa haec habeatur, ut uxor ducta suum pariat? nec mirum sit, ex serva
ingenuum nasci, cum et ex captiva rescriptum sit ingenuum nasci. quare ausim
dicere, etsi pater huius pueri eiusdem sortis fuerit, cuius mater moram passa
in libertate fideicommissa, ipseque moram passus est, suum eum patri nasci
exemplo captivorum parentium, cum quibus rediit. ergo sive postea pater eius
post moram manumittatur, recipiet eum in potestate, sive ante decesserit,
definiendum erit suum existere. Il passo pone dei problemi soprattutto
perché sembra considerare suus il figlio di un padre che è
morto prima di aver ottenuto la libertà.
[113] Si
può, peraltro, ricordare che anche in C. 8.50.1 si chiedeva la
qualità di legittima per la figlia concepita e nata in prigionia, il cui
padre non poteva tornare, perché morto presso i nemici, ma tale
richiesta veniva respinta.
[114]
Requisiti perché il postumo possa succedere sono infatti che sia stato
concepito all’interno di un legittimo matrimonio e che nasca entro dieci
mesi dalla morte del de cuius.
[116]
Osservavo in Nuove ricerche, cit., 148 s., che il secondo paragrafo
potrebbe essere stato interamente aggiunto dai giustinianei, anche perché
eliminando, col Ratti, il sive apud hostes, rimane il sive autem in
civitate da solo; inoltre, l’ipotesi che il figlio concepito in
patria potesse testamentum rumpere era stata già presa in considerazione
nel paragrafo precedente. I giustinianei hanno, forse, proceduto ad
un’estensione del favor libertatis al figlio concepito apud
hostes senza cogliere tutte le implicazioni del passo, che trattava in
precedenza di un padre morto in prigionia, il che induce a ritenere che il
figlio sia tornato da solo o, tutt’alpiù, con la madre, della
quale, comunque, nel passo non si fa cenno.
[118] Montañana
CasanÍ, La situacion juridica de los
hijios de los cautivos de guerra, Valencia, 1996, 90.
[119] Esprime l’identico concetto,
senza citare il Ratti, la Montañana
Casaní, La situacion juridica, cit., 90 s.:
«Por supuesto si el postliminio se concede al hijo concebido y nacido en
prisión, con mayor razón se concederá al hijo cocebido en
prisión pero nacido en la ciudad al regreso de la madre, tal y como
queda atestiguado en el siguiente texto, C. 8.50.8».
[121] Parte
della dottrina ha considerato probante in tal senso anche D. 24.1.32.14 (Ulpianus
l. 33 ad Sabinum): Si ambo ab hostibus capti sint et qui
donavit et cui donatum est, quid dicimus? Et prius illud volo tractare. oratio,
si ante mors contigerit ei cui donatum est, nullius momenti donationem esse
voluit: ergo si ambo decesserint. quid dicemus, naufragio forte vel ruina vel
incendio? et si quidem possit apparere, quis ante spiritum posuit, expedita est
quaestio: sin vero non appareat, difficilis quaestio est. et magis puto
donationem valuisse et his ex verbis orationis defendimus: ait enim oratio si
prior vita decesserit qui donatum accepit: non videtur autem prior vita
decessisse qui donatum accepit, cum simul decesserint. proinde rectissime
dicetur utrasque donationes valere, si forte invicem donationibus factis simul
decesserint, quia neuter alteri supervixerit, licet de commorientibus oratio
non senserit: sed cum neuter alteri supervixerit, donationes mutuae valebunt:
nam et circa mortis causa donationes mutuas id erat consequens dicere neutri
datam condictionem: locupletes igitur heredes donationibus relinquent. secundum
haec si ambo ab hostibus simul capti sint amboque ibi decesserint non simul,
utrum captivitatis spectamus tempus, ut dicamus donationes valere, quasi simul
decesserint? an neutram, quia vivis eis finitum est matrimonium? an spectamus,
uter prius decesserit, ut in eius persona non valeat donatio? an uter rediit,
ut eius valeat? mea tamen fert opinio, ubi non reverterunt, ut tempus
spectandum sit captivitatis, quasi tunc defecerint: quod si alter redierit, eum
videri supervixisse, quia redit. Ulpiano, nel trattare della convalida o
meno della donazione fra coniugi nel caso entrambi cadano in prigionia, esamina
l’Oratio Severi et Antonini, che stabilisce la convalida se
il donante muore senza aver revocato la donazione, chiedendosi quale soluzione
applicare nel caso i coniugi muoiano nello stesso disastro: se si può
stabilire che uno è morto prima, la soluzione è evidente, ma
anche se ciò non è possibile, secondo il giurista le donazioni
devono essere convalidate. Quando passa ad esaminare il caso dei coniugi caduti
assieme in prigionia e morti durante la stessa ma in tempi diversi, Ulpiano si
chiede se debbano essere considerati morti al momento della cattura (quasi
simul decesserint) o se il matrimonio si debba considerare sciolto in tale
momento. Per l’Ankum, La
captiva adultera, cit., 204, il testo, genuino, rappresenterebbe una delle
eccezioni alla regola dello scioglimento del matrimonio del captivus in
epoca classica. La circostanza che Ulpiano si schieri (mea tamen fert opinio)
a favore della soluzione di considerare morti i captivi al momento della
cattura non sembra deporre, come vorrebbe il Volterra, per lo scioglimento ipso
iure del matrimonio, ma per l’applicazione della fictio legis
Corneliae. Riguardo all’obiezione del Solazzi che la fictio
convalidava solo i testamenti e non si applicava alle donazioni, non si
può dire con certezza se una volta applicata la fictio al
testamento e in seguito alla successione ab intestato, lo stesso
principio non sia stato esteso anche ad altri casi. Sul passo erano stati
avanzati molti sospetti di interpolazione dalla dottrina più risalente:
così il De Medio, Intorno
al divieto di donare tra coniugi nel diritto romano, Modena 1902, il Ratti, Studi, cit., 161 e ivi
nt. 3., il Solazzi, Il
concetto, cit., 631, il Lauria,
Il divieto delle donazioni fra coniugi, in Studi Albertoni, 2,
Padova, 1937, 555 nt.131. Già il Dumont,
Les donations entre èpoux en droit romain, Parigi 1928, 249 nt.1,
aveva, invece, ritenuto il testo contrario alle idee di Giustiniano,
perché ammetterebbe lo scioglimento del matrimonio per la caduta in
prigionia di uno degli sposi, principio riconosciuto, a suo avviso, solo in
diritto classico. Per l’Orestano,
La struttura, cit., 133 nt. 368, il passo, pur presentando glosse e
interpolazioni, rispecchia il diritto classico, nel quale la prigionia di
entrambi i coniugi scioglieva il matrimonio perché le due soluzioni, nullità
o convalescenza ex lege Cornelia delle donazioni, in diritto
postclassico non avrebbero avuto senso. Anche l’Urso, Il matrimonio, cit., 91 ss., sembra ritenere
genuino il passo, nel quale Ulpiano manifesterebbe la tendenza a salvare le
donazioni quando non si urta con le ragioni del divieto. Considera sospettato
in genere a torto dalla critica interpolazionistica il nostro passo anche il Lambertini, La problematica della
commorienza nell’elaborazione giuridica romana, Milano, 1984,
31 ss. Si veda anche Misera, Ulp. 33 ad sab. D. 24.1.32.14: Ein Juwel
überlieferter klassischer Entscheidungsfindung, in The Irish Jurist,
25-27, 90-92, 334 ss.