ds_gen N. 6 – 2007 – Tradizione Romana

 

sannamv-piccola.jpgMaria Virginia Sanna

Università di Cagliari

 

Capitis deminutio e captivitas

 

Sommario: 1. Gli orientamenti della dottrina in tema di capitis deminutio del captivus. – 2. Durante il periodo di prigionia, pur essendo il captivus servus hostium, tamen pendet ius liberorum. 3. Esame delle problematiche connesse ad un eventuale scioglimento del matrimonio del captivus in seguito alla capitis deminutio. – 4. Esegesi di D. 48.5.14.7. – 5. Esegesi di D. 23.2.45.6. – 6. Una volta tornati in patria con i genitori, i figli concepiti e nati in prigionia sono liberi e legittimi. – 7. Conclusioni.

 

 

1. – Gli orientamenti della dottrina in tema di capitis deminutio del captivus

 

Al momento della cattura da parte del nemico il cittadino romano, come è noto, diveniva servus hostium, perdendo la titolarità dei propri diritti per riacquistarli, eventualmente, al momento del rientro in patria in virtù del postliminium. La dottrina si è chiesta, sin dai secoli passati, se con la cattura e la conseguente perdita della libertà il captivus subisse una capitis deminutio maxima[1], con estinzione dei diritti e successivo riacquisto degli stessi al momento del ritorno nel territorio romano, o se, pur verificandosi la perdita della libertà, la capitis deminutio[2] non si considerasse realizzata per via del postliminium, che faceva sì che le situazioni in patria non si estinguessero, ma rimanessero in uno stato di pendenza. Il captivus viene qualificato capite deminutus in alcune fonti letterarie[3], ma nelle fonti giuridiche dell’età classica non è detto mai espressamente ed univocamente tale e i pochi testi sui quali ci si è basati per sostenere che la captivitas comportasse una capitis deminutio maxima sono, come si vedrà, dotati di una sostanziale ambivalenza oppure considerati interpolati. Un’autorevole dottrina[4] ha ipotizzato che si sarebbe passati, con l’emanazione della lex Cornelia[5], da una concezione più antica per cui il postliminium avrebbe comportato la rinascita dei diritti del captivus, estinti in seguito alla capitis deminutio - intesa in tale periodo solo come perdita da parte del soggetto della propria posizione nell’ambito dell’ordinamento giuridico - ad una concezione dell’epoca classica per cui tali diritti sarebbero rimasti in pendenti in attesa del ritorno o della morte del captivus. Nel periodo antecedente la lex Cornelia, il captivus avrebbe subito la capitis deminutio al momento della cattura e i figli rimasti in civitate sarebbero divenuti sui iuris; una volta stabilita la validità del testamento del prigioniero morto in captivitate, questi non sarebbe più stato considerato capite deminutus e i figli non sarebbero più divenuti sui iuris, ma la loro condizione sarebbe rimasta in uno stato di pendenza[6].

Non esistono, però, fonti giuridiche che possano comprovare questa suggestiva teoria per il periodo anteriore alla lex Cornelia[7]; le testimonianze delle fonti letterarie, se pur possono deporre per una qualche associazione fra la situazione del captivus e quella del capite deminutus nel modo di vedere della società romana dell’epoca, non sono, ad avviso di molti Autori, determinanti perché potrebbero non utilizzare il concetto di capitis deminutio in modo tecnico ma indicare, più semplicemente, con esso la perdita della propria posizione sociale e giuridica di fronte all’ordinamento romano[8].

Per quanto riguarda le fonti giuridiche di età classica, i pochi testi, come D. 38.16.1.4, sui quali parte della dottrina si è basata per sostenere che la captivitas comportasse una capitis deminutio maxima[9] sono, come si è detto, ambivalenti e, infatti, sono stati interpretati in senso contrastante da altra parte della dottrina. Esaminiamo, dunque,

 

D. 38.16.1.4 (Ulpianus l. 12 ad Sabinum): Si filius suus heres esse desiit, in eiusdem partem succedunt omnes nepotes neptesque ex eo nati qui in potestate sunt: quod naturali aequitate contingit. filius autem suus heres esse desinit, si capitis deminutione vel magna vel minore exiit de potestate. quod si filius apud hostes sit, quamdiu vivit nepotes non succedunt. proinde etsi fuerit redemptus, nondum succedunt ante luitionem: sed si interim decesserit, cum placeat eum statu recepto decessisse, nepotibus obstabit.

 

Dopo aver ricordato il principio secondo il quale se un figlio cessa di essere suus heres succedono al suo posto tutti i nipoti (maschi e femmine) che sono in potestate del nonno al momento della sua morte, per un principio di aequitas naturalis[10], Ulpiano si chiede quando un figlio cessa di essere suus heres e la risposta è nel senso che perderà tale qualifica se esce dalla potestas paterna per capitis deminutio, sia magna che minor[11]. Col quod si, sul quale si è accentrata l’attenzione della dottrina, il giurista passa poi ad esaminare il caso del figlio captus ab hostibus, affermando che finché egli è in vita i nipoti non potranno succedere al nonno[12]. Anche se il prigioniero sia rientrato in patria in qualità di redemptus, continua Ulpiano, i nipoti non solo non potranno succedere prima del pagamento del prezzo del riscatto (ante luitionem)[13], ma neppure in caso di morte del redemptus durante la sottoposizione al redemptor[14], perché in questo caso sarà il redemptus stesso a succedere, anche se il riacquisto della condizione di suus sarebbe contemporaneo alla morte. Fino a che permane il vinculum pignoris che grava su di lui, il redemptus, pur essendo rientrato nel territorio romano, non sembra avere riacquistato i vincoli di adgnatio con la famiglia ai fini successori, perché la sottoposizione al redemptor impedirebbe il ristabilirsi dei rapporti agnatizi sino alla morte (o al pagamento del prezzo del riscatto, se accettiamo l’ipotesi formulata nella prima parte di D. 49.15.15[15]). Al momento del rientro del redemptus, dunque, i rapporti di adgnatio che, in assenza di redemptio, dovrebbero essere riacquistati per via del verificarsi del postliminium, non possono dirsi ancora ristabiliti.

 Secondo una parte della dottrina[16], il quod si del passo, con valore concessivo, introdurrebbe un esempio di capitis deminutio, secondo altra parte avrebbe, invece, un valore oppositivo e differenzierebbe le ipotesi di capitis deminutio dalle ipotesi di captivitas[17]. Il dibattito si è riacceso di recente: la Cursi[18] ha osservato che la presunta opposizione in D. 38.16.1.4 tra capitis deminutio e captivitas «potrebbe non essere strutturale - ossia non riguardare la ‘causa’ dell’uscita dalla patria potestas, che in entrambi i casi potrebbe coincidere con la capitis deminutio – ma interessare esclusivamente gli ‘effetti’ – ossia, com’è noto, l’applicazione del postliminium e della fictio legis Corneliae al solo prigioniero di guerra[19] e non anche al semplice capite deminutus»[20]. L’Autrice, pur considerando non sufficientemente provata anche la teoria per la quale il quod si avrebbe un valore concessivo, ritiene che, in base all’esame di altre fonti, sia letterarie[21] che giuridiche[22], si possa propendere per la tesi del realizzarsi della capitis deminutio.

Da ultima, la D’Amati[23] ritiene, invece, che la captivitas non configuri un caso di capitis deminutio, dal momento che quest’ultima comporta una serie di conseguenze negative in capo al soggetto che la subisce, come l’estinzione[24] radicale dei rapporti giuridici [25] (e in particolare la recisione dei vincoli agnatizi) e la trasmissione dell’attivo del patrimonio del capite deminutus in capo ad un altro soggetto[26], mentre nessuno di questi effetti collegati alla recisione dei vincoli agnatizi sarebbe compatibile con la disciplina giuridica della captivitas[27].

 

 

2. – Durante il periodo di prigionia, pur essendo il captivus servus hostium, tamen pendet ius liberorum

 

A me pare, invero, che la dottrina abbia accentrato in maniera eccessiva l’attenzione sull’alternativa verificarsi – non verificarsi della capitis deminutio in capo al captivus, tentando di ricavarne le prove da elementi formali come il quod si di D. 38.16.1.4, che difficilmente possono fornire una risposta certa. I giuristi romani, lungi dal porsi il problema se il captivus subisse o meno una capitis deminutio, sembrano, piuttosto, considerare le problematiche relative caso per caso, contemperando i vari interessi in giuoco e tenendo sempre conto della spes postliminii. Osservava già l’Albanese [28] che la situazione di pendenza relativa ai rapporti preesistenti del captivus non si presta ad essere inquadrata in schemi rigorosi e che i giuristi operarono empiricamente «nell’intento di salvare, nei limiti del possibile, le aspettative del captivus che eventualmente cessi d’esser tale ed anche nell’intento – spesso divergente – di non sacrificare gli interessi dei terzi».

Se i giuristi hanno considerato il captivus servus hostium, e, dunque, da un certo punto di vista, capite deminutus, lo hanno fatto solo per ciò che concerne la sua posizione al di fuori del territorio romano, senza definirlo mai tale espressamente - e anzi cercando di paralizzare gli effetti derivanti dalla schiavitù per la speranza del suo ritorno - ma non per quanto riguarda la regolamentazione della situazione dei figli rimasti in patria, che non divengono sui iuris, ma si trovano in una situazione di pendenza in attesa del ritorno o della morte del pater, come afferma il noto

 

Gai 1.129: Quodsi ab hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius postliminii, quo hi qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt; itaque reversus habebit liberos in potestate. Si vero illic mortuus sit, erunt quidem liberi sui iuris; sed utrum ex hoc tempore quo mortuus est apud hostes parens, an ex illo quo ab hostibus captus est, dubitari potest. Ipse quoque filius neposve si ab hostibus captus fuerit, similiter dicemus propter ius postliminii potestatem quoque parentis in suspenso esse[29].

 

L’affermazione di Gaio per cui i prigionieri al loro ritorno omnia pristina iura recipiunt ha destato qualche perplessità, in quanto il verbo recipere, secondo la dottrina prevalente, presupporrebbe un amittere, che comporta estinzione dei diritti[30], mentre Gaio parla espressamente di pendenza: il giurista nello stesso passo affermerebbe, dunque, sia che pendet ius liberorum, sia che i prigionieri al ritorno omnia iura recipiunt[31]. Tale circostanza induce a pensare che anche la contrapposizione che si è voluta vedere tra le fonti nelle quali si parla di pendenza[32], e quelle nelle quali si parla di estinzione (amittere, restituere iura) dei diritti del captivus[33], sia stata accentuata in maniera eccessiva dalla dottrina, e che non si possano, in ogni caso, correttamente applicare al diritto romano i moderni concetti di pendenza, quiescenza, reviviscenza, estinzione dei diritti.

Se il captivus ritorna, afferma, comunque, Gaio nel nostro passo, riacquista omnia pristina iura, e avrà i figli in potestate, se muore in prigionia, i figli saranno sui iuris. Il giurista aggiunge, però, che è dubbio (dubitari potest) il momento a partire dal quale saranno considerati tali, se il momento della morte del padre o quello della cattura[34]; sembrerebbe, pertanto, che l’applicazione della fictio legis Corneliae non fosse stata, ai tempi di Gaio, ancora estesa alla successione ab intestato, come sembra, invece, ritenere la dottrina prevalente[35]. Il dubbio espresso nel passo col dubitari potest non appare più in un passo del più tardo Trifonino:

 

D. 49.15.12.1 (Tryphoninus l. 4 disputationum): Si quis capiatur ab hostibus, hi, quos in potestate habuit, in incerto sunt, utrum sui iuris facti an adhuc pro filiis familiarum computentur: nam defuncto illo apud hostes, ex quo captus est, patres familiarum, reverso numquam non in potestate eius fuisse credentur.

 

Mentre Gaio[36] afferma che è dubbio[37] se i figli saranno considerati sui iuris dal momento della morte del padre o da quello della cattura, per Trifonino, morto il padre in prigionia, i figli sono considerati sui iuris sin dal momento della cattura.

Nel passo delle Istituzioni imperiali corrispondente a quello gaiano, che ribadisce in caso di morte presso il nemico la soluzione proposta da Trifonino, si motiva il fatto che il padre, al suo ritorno, avrà i figli in potestate con la fictio postliminii:

 

I. 1.12.5: Si ab hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius postliminii: quia hi, qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt. idcirco reversus et liberos habebit in potestate, quia postliminium fingit eum qui captus est semper in civitate fuisse: si vero ibi decesserit, exinde, ex quo captus est pater, filius sui iuris fuisse videtur. ipse quoque filius neposve si ab hostibus captus fuerit, similiter dicimus propter ius postliminii ius quoque potestatis parentis in suspenso esse.

 

Parte della dottrina ritiene che la fictio postliminii di cui si parla nel passo rappresenti un’innovazione giustinianea [38]; dal momento, però, che il contenuto di tale fictio[39] non si discosta dal contenuto della fictio legis Corneliae, in quanto ambedue fingono che il captivus non sia mai stato catturato, sia sempre rimasto in civitate, e che lo stesso concetto appare in numerosi passi del Digesto[40], occorre chiedersi se si tratti realmente di un’innovazione dei giustinianei, che avrebbero interpolato i testi classici. Questa era la tesi della dottrina più risalente, ma già l’Albanese[41] aveva ritenuto che i sospetti di interpolazione su tali passi non abbiano ragione di essere e che la dichiarazione giustinianea di I. 1.12.5, pur rappresentando formalmente un’alterazione rispetto a Gai 1.129, sia sostanzialmente coincidente con il pensiero dei classici.

 

 

3. – Esame delle problematiche connesse ad un eventuale scioglimento del matrimonio del captivus in seguito alla capitis deminutio

 

 

Dal momento che in base ai testi finora esaminati non si può arrivare a delle conclusioni sicure sul verificarsi della capitis deminutio a carico del captivus, anche perché, come osservato, i giuristi romani non si sono posti nell’ottica verificarsi – non verificarsi della capitis deminutio, passiamo, ora, ad esaminare altri testi relativi al caso del matrimonio del captivus, che secondo la dottrina dominante si scioglie in seguito alla prigionia [42]. Il matrimonio non potrebbe essere riacquistato automaticamente al momento del rientro in patria iure postliminii, ma se ne dovrebbe costituire uno nuovo con una nuova manifestazione di volontà, proprio perché, in seguito alla capitis deminutio [43] conseguente alla cattura, la volontà del captivus non potrebbe essere considerata giuridicamente rilevante, e quindi verrebbe meno il consenso continuo richiesto per la validità del matrimonio, come si ricaverebbe da

 

D. 49.15.14.1 (Pomponius l. 3 ad Sabinum): Non ut pater filium, ita uxorem maritus iure postliminii recipit: sed consensu redintegratur matrimonium

 

Nel passo Pomponio potrebbe, però, aver solo voluto differenziare la patria potestas, che si riacquista iure postliminii, cioè automaticamente, dal matrimonio, che non si reintegra automaticamente, ma con la manifestazione del consenso [44]. Il verbo redintegratur non indica necessariamente la nascita di un nuovo matrimonio, ma potrebbe far pensare anche alla reintegrazione di quello precedente.

Né decisivo per la tesi che sostiene lo scioglimento per capitis deminutio e il nascere di un nuovo matrimonio sembra

 

D. 24.2.1 (Paulus l. 35 ad edictum): Dirimitur matrimonium divortio morte captivitate vel alia contingente servitute utrius eorum.

 

Il passo si limita, infatti, ad affermare che il matrimonio si scioglie per captivitas[45], vel alia contingens servitus, senza, peraltro, fare espresso riferimento alla capitis deminutio [46], ma non nega la possibilità che lo stesso matrimonio si possa reintegrare con la manifestazione di un nuovo consenso.

In un passo di Trifonino, tratto dai libri disputationum, si afferma, poi, che durante la captivitas non esiste matrimonio, nonostante l’intenzione [47] in tal senso dell’uxor rimasta in patria:

 

D. 49.15.12.4 (l. 4 disputationum): Sed captivi uxor, tametsi maxime velit et in domo eius sit, non tamen in matrimonio est.

 

Il giurista nel nostro passo non si occupa, peraltro, del momento del rientro, ma solo della condizione della donna rimasta in civitate durante la prigionia del marito; la circostanza che, comunque, abbia sentito la necessità di affermare che l’uxor, nonostante la volontà in tal senso[48] e la sua permanenza nella casa coniugale, non tamen in matrimonio est, sembra deporre per la non completa condivisione da parte di tutti i giuristi della totale insussistenza del matrimonio durante la prigionia[49].

D’altra parte, non sempre la giurisprudenza romana ha ritenuto assolutamente necessaria, per il sussistere o il permanere del matrimonio, la volontà continua dei coniugi; caratteristico in questo senso, per il Pugliese[50], sarebbe il trattamento del matrimonio del furiosus[51], che «mette in luce il carattere non rigoroso dell’orientamento giurisprudenziale che richiedeva la volontà matrimoniale continua»[52].

Pur essendo la situazione del captivus diversa da quella del furiosus[53] perché il captivus diviene servus hostium mentre il furiosus perde, almeno secondo la dottrina prevalente, solo la «capacità di agire»[54], sembra, comunque, singolare che i giuristi romani si siano mostrati così inclini a salvare il matrimonio del furiosus e così rigidi nel negare ogni rilevanza al matrimonio del captivus ritornato in patria, considerato, tra l’altro, che in alcuni testi sembra prospettata la possibilità che, una volta rientrato il captivus (o la captiva), il periodo di prigionia, per motivi di benignitas[55] e di humanitas[56], fosse considerato a certi effetti come mai esistito, come se il captivus non fosse mai stato apud hostes.

 

 

4. – Esegesi di D. 48.5.14.7

 

Così nel passo che andiamo ad esaminare si concede benignius l’accusatio iure viri al marito [57] per l’adulterio commesso dalla moglie durante la prigionia:

 

D. 48.5.14.7 (Ulpianus l. secundo de adulteriis): Si quis plane uxorem suam, cum apud hostes esset, adulterium commisisse arguat, benignius dicetur posse eum accusare iure viri: sed ita demum adulterium maritus vindicabit, si vim hostium passa non est: ceterum quae vim patitur, non est in ea causa, ut adulterii vel stupri damnetur.

 

Il passo, inserito nel titolo ad legem Iuliam de adulteriis coercendis[58], nel suo tenore letterale concede benignius al marito di accusare iure viri la moglie, a meno che non vi sia stata violenza da parte dei nemici, per un adulterio commesso mentre era apud hostes, adulterio che, dunque, non potrebbe essere tale tecnicamente, perché il matrimonio[59] dovrebbe essere sciolto e la donna dovrebbe essere schiava. Il passo è stato, pertanto, considerato interpolato[60] dalla dottrina più risalente, o interpretato in maniera tale da mutarne il significato[61]. Per la genuinità del passo si sono schierati, invece, per la dottrina più risalente, il Rasi[62] e, per quella più recente, l’Ankum[63], il Rizzelli[64] e il Palma[65].

Per quanto riguarda la difficoltà maggiore del passo, cioè ammettere che la captiva possa avere commesso un adulterio, dal momento che si trova in schiavitù[66] e le iustae nuptiae sono venute meno, il Volterra[67] aveva osservato che la nozione di nuptiae su cui si basa quella di adulterium non è ristretta al solo caso di iustae nuptiae ma è molto più estesa, comprendendo anche unioni che non possono essere considerate matrimoni legittimi, come quelle di un cittadino romano con una peregrina sine conubio; il reato che va sotto il nome di adulterium assumerebbe già dunque nel diritto classico un significato vastissimo[68]. Mentre l’accusatio privilegiata sarebbe esperibile, per l’Autore, solo in caso di adulterio rigorosamente tecnico, cioè in caso di iustae nuptiae, l’accusatio iure extranei sarebbe concessa sia per l’adulterio in senso tecnico che per lo stuprum[69]; il nostro passo sarebbe, pertanto, interpolato, in quanto nel dettato originario avrebbe concesso l’accusatio non iure viri, ma iure extranei[70].

Il Rizzelli[71] va oltre, ritenendo che le unioni costituenti matrimonia iniusta siano state gradualmente attratte nella repressione dell’adulterium in ragione dell’estendersi del concetto di matrimonio ad altre unioni monogamiche tendenzialmente stabili diverse dalle iustae nuptiae; non varierebbe, pertanto, nella coscienza sociale la nozione di adulterium, ma quella di matrimonium. L’Autore ritiene il passo non interpolato, pur avvertendo la problematicità della soluzione di concedere l’accusatio iure mariti, tanto da suggerire l’ipotesi, ingegnosa ma del tutto indimostrabile, che la donna si trovasse presso i nemici non come captiva ma come ostaggio[72].

Sia il Volterra che il Rizzelli non riescono, però, a superare la principale difficoltà del passo, che è rappresentata dalla circostanza che se il matrimonio durante la prigionia non produce alcun effetto, la captiva non può aver commesso adulterio in alcun modo, sia se lo si intenda in senso stretto, come relazione sessuale di una donna legata da iustae nuptiae, sia in senso ampio, come comprendente anche lo stupro, in quanto anche quest’ultimo deve necessariamente essere commesso da una donna libera. Se, infatti, nelle fonti si concede l’accusatio, non iure viri ma iure extranei, in alcuni casi in cui non esiste un matrimonium iustum[73], come in quello della sponsa[74], diversa è la situazione in cui versa la captiva, per la quale non si pone un problema di matrimonium iustum o iniustum, in quanto si trova in condizioni di schiavitù.

Ciononostante, l’accusatio iure mariti viene concessa, ma benignius[75], dunque anche se a rigor di termini non spetterebbe; tale circostanza potrebbe far pensare che alcuni giuristi, tra i quali dobbiamo, dunque, annoverare Ulpiano, ritenessero che in certi casi il matrimonio mantenesse qualche effetto anche durante la captivitas[76], fosse considerato, perlomeno a questi fini, “in qualche modo” esistente anche durante il periodo di prigionia[77].

 

 

5. – Esegesi di D. 23.2.45.6

 

Un altro caso nel quale il matrimonio appare mantenere effetti durante la prigionia è quello del patronus che ha sposato la propria liberta[78]:

 

D. 23.2.45.6 (Ulpianus l. 3 ad legem Iuliam et Papiam): Si ab hostibus patronus captus esse proponatur, vereor ne possit ista conubium habere nubendo, quemadmodum haberet, si mortuus esset. et qui Iuliani sententiam probant, dicerent non habituram conubium: putat enim Iulianus durare eius libertae matrimonium etiam in captivitate propter patroni reverentiam. certe si in aliam servitutem patronus sit deductus, procul dubio dissolutum esset matrimonium.

 

Ulpiano esprime con il vereor ne il timore, il dubbio che la liberta unita in matrimonio con un patronus che è stato captus ab hostibus non possa risposarsi durante la prigionia, come sarebbe, invece, possibile se egli fosse morto. Coloro che seguono l’opinione di Giuliano, continua il giurista severiano, si basano, infatti, sulla circostanza che essa non ha il conubium [79], in quanto per Giuliano il matrimonio dura anche nel periodo della prigionia propter patroni reverentiam[80].

Giuliano affermerebbe, pertanto, che il matrimonio fra la liberta e il suo patrono non si scioglieva in seguito alla captivitas, il che ha indotto la dottrina più risalente [81] a considerare interpolato il passo, mentre in seguito il Volterra[82], che in precedenza si era espresso in tal senso[83], ha osservato che la genuinità del testo risulta dalle espressioni adoperate: vereor ne possit ista conubium habere nubendo e non habituram conubium[84]. La parola conubium, che compare nel passo per ben due volte, non può essere stata inserita, secondo l’Autore, dai compilatori, che non solo non la adoperano, ma l’hanno «accuratamente ed intenzionalmente» soppressa dovunque. Per il Volterra Ulpiano non afferma di seguire l’opinione di Giuliano, ma si limita a riferirla; che, però, ne riporti correttamente il pensiero risulterebbe dall’esame di un altro passo dello stesso giurista, tratto dallo stesso libro 62 digestorum, D. 24.2.6[85], che, tranne forse il temere, sembra originale e risponde pienamente al pensiero di Giuliano: la moglie del captivus rimane nella condizione di nupta solo in quanto non può unirsi in matrimonio legittimo con altri, concetto tipicamente classico che non potrebbe essere attribuito ai giustinianei.

Secondo altri Autori il passo mostra una disputa tra Ulpiano e Giuliano: per il Watson [86], Ulpiano ritiene che la captivitas ponga fine al matrimonio fra il patrono e la liberta, mentre il punto di vista di Giuliano, genuino, rappresenterebbe un’eccezione rispetto alla regola per cui in diritto classico il matrimonio si scioglie per captivitas[87]; anche secondo l’Urso[88], Ulpiano riterrebbe che, in seguito alla prigionia del marito, la liberta possa legittimamente passare a nuove nozze, in quanto il vereor seguito dal ne avrebbe significato positivo e non negativo[89], mentre Giuliano difenderebbe la tesi che la liberta sia privata del conubium per passare a nuove nozze[90]. A me non pare che dal tenore del passo risulti tale disputa, ma, piuttosto, che Ulpiano, pur con qualche perplessità (vereor ne), ritenga valida l’opinione di Giuliano, secondo il quale, durante la prigionia del marito patronus, la liberta non può sposarsi con un altro perché difetta del conubium[91], e il matrimonio dura anche durante la captivitas. Certamente anche in questo, come nel passo esaminato in precedenza, la soluzione può essere dovuta alla peculiarità delle situazioni esaminate, ma entrambi fanno pensare che, se anche fosse esistita una regola che prevedeva lo scioglimento del matrimonio del captivus al momento della cattura, tale regola sia stata suscettibile di alcune deroghe.

 

 

6. - Una volta tornati in patria con i genitori, i figli concepiti e nati in prigionia sono liberi e legittimi

 

Passiamo, ora, all’esame di altri passi che sollevano ugualmente qualche dubbio sulla circostanza che il matrimonio durante il periodo di prigionia non producesse alcun effetto[92], come i noti[93]

 

C. 8.50.1 (Impp. Severus et Antoninus AA. Ovinio): Ex duobus captivis Sarmatia nata patris originem ita secuta videtur, si ambo parentes in civitatem nostram redissent. quamquam enim iure proprio postliminium habere non possit quae capta non est, tamen parentum restitutio reddet patri filiam. Qui cum ab hostibus interemptus sit, matris dumtaxat condicionem, quae secum filiam duxit, videtur necessario secuta. nam fictio legis Corneliae, quae legitimos apud hostes defuncto constituit heredes, ad eam quae illic suscepta est non pertinet, cum eo tempore quo captus est diem suum pater obisse existimetur.

 

D. 49.15.9 (Ulpianus l. 4 ad legem Iuliam et Papiam): Apud hostes susceptus filius si postliminio redierit, filii iura habet: habere enim eum postliminium nulla dubitatio est post rescriptum imperatoris Antonini et divi patris eius ad Ovinium Tertullum praesidem provinciae Mysiae inferioris[94].

 

D. 49.15.25 (Marcianus l. 14 institutionum): Divi Severus et Antoninus rescripserunt, si uxor cum marito ab hostibus capta fuerit et ibidem ex marito enixa sit: si reversi fuerint, iustos esse et parentes et liberos et filium in potestate patris, quemadmodum iure postliminii reversus sit : quod si cum matre sola revertatur, quasi sine marito natus, spurius habebitur[95].

 

D. 38.17.1.3 (Ulpianus l. 12 ad Sabinum): ...sed et si apud hostes conceptus a captiva procreatus cum ea rediit, secundum rescriptum imperatoris nostri et divi patris eius ad Ovinium Tertullum poterit ex hoc senatus consulto admitti quasi vulgo quaesitus[96].

 

In C. 8.50.1 si affronta la complessa situazione di una figlia concepita e nata durante la prigionia dei genitori e poi tornata in patria con la sola madre perché il padre è morto in prigionia. Se la figlia fosse rientrata assieme a tutti e due i genitori, pur non potendo godere iure proprio del postliminium, che si applica a chi è stato captus ab hostibus mentre lei non lo è stata, tuttavia parentum restitutio[97] reddet patri filiam; le si concede, quindi, usando le parole dell’Arangio-Ruiz[98], un quasi-postliminium[99]. Nel caso preso in esame, però, essendo la figlia tornata solo con la madre, dovrà seguire la condizione di questa, e di nessun giovamento le potrà essere la fictio legis Corneliae con la quale si considererebbe morto il padre nel momento della cattura, perché in tale momento non era neppure concepita[100].

Negli altri passi, che richiamano espressamente il rescritto di Severo e Caracalla[101], si ribadisce che il figlio concepito e nato in prigionia potrà godere al suo ritorno del postliminio: se torna con ambedue i genitori sarà considerato legittimo[102], se rientra solo con la madre, quasi spurius. In D. 38.17.1.3, in base al rescritto, si ammette, poi, all’eredità della madre il figlio da lei avuto in prigionia, quasi vulgo quaesitus[103].

Alcuni Autori osservano che se il matrimonio fosse continuato durante la prigionia non si sarebbero posti problemi per i figli, e che, dunque, il rescritto mostra come, invece, il matrimonio si sciogliesse; secondo altri[104], i testi provano, invece, che il matrimonio continuava ad esistere: l’impiego da parte di Marciano dei termini uxor, cum marito, quasi sine marito, costituirebbe una prova in tal senso[105]. Occorre, innanzitutto, porre in evidenza che C. 8.50.1 non adduce come motivazione dell’impossibilità di concedere un vero e proprio postliminium alla figlia la mancanza del matrimonio tra i genitori[106], ma il fatto che essa non è stata capta ab hostibus: quamquam enim iure proprio postliminium habere non possit quae capta non est. Una volta tornata la figlia con entrambi i genitori, sarà però non solo libera, ma anche legittima, soluzione che implicitamente sembra partire dall’idea che il matrimonio abbia mantenuto qualche effetto anche durante la prigionia: il matrimonio si considera, peraltro, esistente non a tutti gli effetti, come sostiene parte della dottrina, ma al solo fine di consentire la legittimità della figlia. Se, infatti, ritenessimo il matrimonio durante la prigionia esistente a tutti gli effetti, allora la figlia dovrebbe essere legittima anche se fosse tornata senza il padre. A tal proposito, è interessante notare che perché la figlia sia considerata legittima si richiede solo che il padre sia tornato, non che sia tornato assieme alla figlia né che abbia rinnovato il consenso al matrimonio.

Per quanto riguarda il figlio concepito in civitate e nato in prigionia, concepito, dunque, in patria all’interno di un legittimo matrimonio, la prigionia non influisce sul suo status, in quanto il figlio segue la condizione del padre al momento del concepimento, quando il matrimonio senza dubbio esisteva. Egli gode, inoltre, del postliminio ben prima del rescritto di Severo e Caracalla, perché era già in utero quando la madre è stata catturata, e dunque in rerum natura[107], come afferma il noto

 

D. 1.5.26 (Iulianus l. 69 digestorum): Qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur in rerum natura esse. nam et legitimae hereditates his restituuntur: et si praegnas mulier ab hostibus capta sit, id quod natum erit postliminium habet, item patris vel matris condicionem sequitur: praeterea si ancilla praegnas subrepta fuerit, quamvis apud bonae fidei emptorem pepererit, id quod natum erit tamquam furtivum usu non capitur[108].

 

In un altro passo, piuttosto discusso, si affronta, poi, il problema di un figlio concepito in patria e di uno concepito presso i nemici, equiparandoli circa la possibilità di essere considerati sui del nonno

 

D. 28.3.6.1/2 (Ulpianus l. 10 ad Sabinum): Sed si pater eius, qui mortis avi tempore in utero fuit, apud hostes erat, nepos iste patre in eadem causa decedente post mortem avi succedendo testamentum rumpet, quia supra scripta persona ei non obstat: nec enim creditur in rebus humanis fuisse, cum in ea causa decedat, quamquam captivus reversus patris sui iniustum faceret testamentum in eo praeteritus. Sive autem in civitate nepos fuit conceptus sive apud hostes, quoniam datur et partui postliminium, succedendo testamento rumpit.

 

Il padre di un concepito è apud hostes al momento della morte del nonno; se il padre muore in captivitate, il nipote (che nasce dopo la morte del nonno) testamentum rumpet, se il padre torna e non è stato nominato erede, sarà, invece, lui a rumpere il testamento. Il passo affronta il problema di un nipote che nasce postumo[109]: requisito perché possa succedere è che il padre sia morto[110], ma se è stato captus ab hostibus, sintanto che si trova apud hostes, la praeteritio del nipote non provoca ruptio; solo se il padre muore in prigionia, il nipote rompe il testamento.

Nel secondo paragrafo, però, di più difficile comprensione[111], si equipara il caso in cui il nipote sia stato concepito in patria a quello in cui sia stato concepito presso i nemici[112]: in ambedue i casi, tornando in patria, succederebbe al nonno e romperebbe il testamento. Si osserva che nel caso di figlio concepito in captivitate, non essendo i genitori al momento del concepimento legati da iustae nuptiae, il figlio, se il padre non torna, non potrebbe, al suo ritorno in patria, pur godendo del postliminio[113], essere suus del nonno[114]. Per lo Stiegler[115] il passo deve essere interpolato, a meno che non si voglia ritenere che nel testo originario, di cui mancherebbe una parte, non si prendesse più in considerazione la morte del padre apud hostes. Effettivamente la formulazione del § 2 è molto generica e non fa cenno alla morte del padre in prigionia: il padre potrebbe essere tornato prima della moglie e del figlio, ed essere morto prima del nonno. Avremmo, in questo caso, un figlio concepito e nato presso i nemici considerato suus al ritorno in patria, ma, di fronte alle obiettive difficoltà poste dal passo, si rimane nel campo delle ipotesi[116].

Per quanto, poi, concerne la situazione del figlio concepito in captivitate ma partorito in patria, non abbiamo fonti che se ne occupano, anche se il Ratti[117] e la Montañana Casaní[118] citano a tal proposito

 

C. 8.50.8 (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Matronae): Praeses provinciae, ne ulterius in servitutis iugo detinearis, curae habebit: qui pro sollertia tua parum ignorat magis filiorum tuorum statum tueri, quos, postquam redempta es, enixam te esse significas, cum eos, qui post redemptionem nascuntur, ne pignoris quidem vinculo ob pretium, quod pro his datum non est, teneri nullis auctoribus visum est (a. 291).

 

Il passo mostrerebbe, secondo il Ratti, che il postliminio, una volta concesso al figlio concepito e nato in prigionia e ritornato in patria con la madre, dovette a maggior ragione ritenersi spettante al figlio concepito apud hostes e nato in civitate[119]. C. 8.50.8, però, come ho tentato di dimostrare in un precedente studio[120], si riferisce ai figli di una redempta ab hostibus, nati, come espressamente afferma il passo, post redemptionem; se anche si trattasse di figli concepiti in captivate e nati in patria, non si porrebbe né il problema del postliminio né quello della posizione dei figli rispetto ad un eventuale padre, e, dunque, nessun aiuto possiamo trarre dal passo[121] rispetto ai problemi che stiamo esaminando.

 

 

7. – Conclusioni

 

Dall’esame dei passi finora analizzati si ricava l’impressione che i giuristi romani, lungi dal porsi in termini astratti il problema del verificarsi o non verificarsi della capitis deminutio in capo al captivus, abbiano esaminato di volta in volta i problemi posti dalla peculiare situazione della prigionia apud hostes, destinata a risolversi col ritorno o con la morte del captivus, e condizionata, pertanto, da istituti di ius singulare come il postliminium e la fictio legis Corneliae. I giuristi si trovarono spesso di fronte alla necessità di risolvere casi che potevano dare adito a non poche perplessità, come è normale in un sistema casistico; in tema di matrimonio, ad esempio, una volta avvenuta la cattura di uno o ambedue i coniugi, in alcuni casi si producevano, comunque, degli effetti, come la concessione dell’accusatio adulterii iure mariti per una relazione sessuale avvenuta durante il periodo di prigionia della moglie, l’impossibilità per la liberta sposata al patronus captus ab hostibus di contrarre un altro matrimonio, il riconoscimento ai figli concepiti e nati in prigionia della libertà e della condizione di figli legittimi se ritornavano con entrambi i genitori. Non sembra, pertanto, sufficientemente provata la tesi che vuole il matrimonio definitivamente sciolto ad ogni effetto in seguito alla capitis deminutio subita dal captivus al momento della cattura, capitis deminutio che renderebbe la sua volontà priva di rilevanza, ma che non viene espressamente enunciata nelle fonti giuridiche.

In una visione di evidente favore verso il captivus, si sarebbe trattato, probabilmente, di un’affermazione troppo rigida per i giuristi classici, lontani dalle formule astratte, e molto più attenti alla regolamentazione concreta delle varie fattispecie che si venivano a creare in seguito alle mutate condizioni sociali e giuridiche.

 

 



 

[1] Sui rapporti fra postliminium e capitis deminutio si vedano Bechmann, Das Ius postliminii und die lex Cornelia, Erlangen, 1872; Cohn, Zur Lehre von der capitis deminutio, in Beiträge zur Bearbeitung des römischen Rechts, 2, Berlin, 1880, 69 ss.; Maret, Du postliminium et de la loi Cornelia, Grenoble, 1888; Desserteaux, Études sur la formation historique de la capitis deminutio. I. Ancienneté respective des cas et des sources de la capitis deminutio, Dijon, 1909; Id., Evolution et effects de la capitis deminutio, Paris, 1919; Sertorio, La prigionia di guerra e il diritto di postliminio, Torino, 1915; Coli, Capitis deminutio, Firenze, 1922, ora in Scritti di diritto romano, 1, Milano, 1973, 153 ss.; Beseler, Postliminium und Cornelia, in Miscellanea, ZSS, 45, 1925, 192 ss.; Ratti, Studi sulla captivitas, Roma, 1927, ristampato con una nota di Amirante insieme all’articolo Alcune repliche in tema di postliminio, col titolo Studi sulla captivitas e alcune repliche in tema di postliminio, Napoli, 1980; Guarneri-Citati, Reviviscenza e quiescenza nel diritto romano, in Annali Università Messina, 1, 1927, 19 ss. ; Balogh, Der Urheber und das Alter der fiktion des Cornelischen Gesetz, in Studi Bonfante, 4, Milano, 1930, 623 ss.; De Visscher, Aperçus sur les origines du postliminium, in Festschrift Paul Koschaker, Weimar, 1939, 367 ss.; Ambrosino, Il simbolismo della capitis deminutio, in SDHI, 6, 1940, 375 ss.; Gioffredi, Caput, in SDHI, 11, 1945, 301 ss.; Id., Sul ius postliminii, 1. La struttura dell’istituto, in SDHI, 16, 1950, 13 ss.; Id., Pendenza e sospensione dalle fonti romane alla dommatica odierna, in SDHI, 22, 1956, 113 ss., in part. 146 ss.; Id., A proposito di impostazione storica e diagnosi giuridica, in Studi De Francisci, 2, Milano, 1956, 437 ss.; Solazzi, Il concetto del ius postliminii, in Scritti Ferrini, 2, Milano, 1947, 288 ss., ora in Scritti di diritto romano, 4, Napoli, 1963, 565 ss.; Id., La pendenza dei diritti nelle fonti romane, in Scritti Scialoja, 4, Roma, 1953, 405 ss., ora in Scritti di diritto romano, 5, Napoli, 1972, 431 ss.; Id., Il ius postliminii in Gai 1.129, in SDHI, 20, 1954, 318 ss.; Amirante, Captivitas e postliminium, Napoli, 1950; Id., Ancora sulla captivitas ed il postliminium, in Studi De Francisci, 1, Milano, 1956, 517 ss.; Id., Appunti per la storia della redemptio ab hostibus, in Labeo, 3, 1957, 7 ss., 171 ss.; Id., Gai 1.135: appunti per la storia della pendenza, in BIDR, 64, 1961, 109 ss.; Id., Pendenza e prigionia di guerra, in Labeo, 9, 1963, 23 ss.; Id., voce Postliminio (diritto romano), in NNDI, 13, Torino, 1966, 429 ss.; Id., Prigionia di guerra riscatto e postliminium (Lezioni) 1-2, Napoli, 1969-70; Id., voce Quiescenza dei diritti, in EdD, 38, 1987, 136 ss.; Dell’Oro, Osservazioni sulla situazione giuridica del captivus, Milano, 1950; Kaden, Rec. ad Amirante, Captivitas, in Iura, 2, 1951, 253 ss.; Fuenteseca Diaz, Origen y perfiles clásicos del postliminium, in AHDE, 31-32, 1951-52, 300 ss. (vedi ivi anche Rec. ad Amirante, 1380 ss.); Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio, in Iura, 3, 1952, 48 ss.; Bartosek, Captivus, in BIDR, 107-108, 1953, 98 ss. (ma già pubblicato in lingua ceca nel 1948); Bretone, voce Capitis deminutio, in NNDI, 2, Torino, 1958, 916 ss.; Levy, Libertas und civitas, in ZSS, 78, 1961, 142 ss., ora in Gesammelte Schriften, 2, Köln Graz, 1963, 13 ss.; Albanese, Le persone nel diritto romano, Palermo, 1979, 311 ss.; D’Ors, Sobre el edicto de capite minutis, in Estudios Hernandez-Tejero, 2, Madrid, 1992, 127 ss.; Nicosia, Prigionia di guerra e perdita della libertà nell’esperienza giuridica romana, in Captius i Esclaus a l’antiguitat i al món modern, Actes del XIX colloqui internacional del Girea, Napoli, 1996, 39 ss., ora in Silloge, Scritti, 1956-1996, Catania, 1998, 701 ss.; Ricardo Panero Gutiérrez, Capitis deminutio y capite deminutus, in Estudios Yanes, 2, Burgos, 2000, 175 ss.; Cursi, Captivitas e capitis deminutio. La posizione del servus hostium tra ius civile e ius gentium, in Iuris vincula. Studi Talamanca, 2, Napoli, 2001, 297 ss.; D’Amati, Civis ab hostibus captus. Profili del regime classico, Milano, 2004 (Si veda anche il precedente Pater ab hostibus captus e status dei discendenti nei giuristi romani, in Index, 27, 1999, 55 ss.)

 

[2] Per il Coli, Capitis deminutio, cit., 153 ss., l’essenza della capitis deminutio si troverebbe nella permutatio status familiae, alla quale solo eventualmente si aggiungerebbe la perdita della civitas o della libertas. LAmbrosino, Il simbolismo della capitis deminutio, cit., 375 ss., aveva, invece, ritenuto che la capitis deminutio designasse originariamente la decapitazione dei captivi e poi la morte fittizia di coloro che cessavano di essere titolari di rapporti giuridici perché cadevano in potestà altrui. Contra Gioffredi, Caput, cit., 302 nt. 5, per il quale il parallelismo effettuato dall’autore tra manumissio, mancipatio e capitis deminutio non avrebbe base, perché la capitis deminutio è, contrariamente alle prime due, un fatto giuridico; gratuita sarebbe, poi, l’affermazione che capitis deminutio equivalga a «taglio della testa». Il Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio, cit., 48 ss., non ritiene che la perdita della posizione nella familia possa essere il fondamento giuridico di ogni capitis deminutio, che avrebbe indicato originariamente la perdita della libertà e della cittadinanza in caso di interdictio aquae et ignis e di vendita trans Tiberim. L’Albanese, Le persone nel diritto romano, cit., 311 ss., è del parere che la capitis deminutio consistesse, essenzialmente, nella perdita (deminutio) da parte di un civis della precedente posizione giuridica rispetto alla famiglia agnatizia, e, dunque, nell’estinzione di preesistenti vincoli agnatizi e gentilizi. Che l’estinzione dei vincoli agnatizi e gentilizi costituisca il punto essenziale per la capitis deminutio risulta, per l’Autore, da testimonianze esplicite ed implicite: si vedano Gai 1.158, 3.21, 27.51; Tit. Ulp. 27.5 e 28.9; D. 38.7.1; D. 38.8.5; D. 38.16.11; D. 38.17.1.8; I. 3.4.2; 3.5.1; 3.10.1. Altrettanto esplicita, anche se riferita alla capitis deminutio minima in particolare, sarebbe, per l’Autore, la formulazione di Gai 1.163 per cui ius adgnationis corrumpitur. Il Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 77, osserva che la definizione di Gaio della capitis deminutio come prioris status mutatio è troppo generica perché non ogni cambiamento di status costituisce, secondo i romani, capitis deminutio, ma occorre che la status mutatio coinvolga la recisione dei vincoli agnatizi. In questo senso, da ultima, anche la D’Amati, Civis captus ab hostibus, cit., 75, la quale ritiene che, poiché nella servitus che deriva dalla captivitas non si verifica la recisione dei vincoli agnatizi, questa servitus non possa dar luogo ad una capitis deminutio maxima.

 

[3] Alcune fonti addotte dalla dottrina non paiono, peraltro, riguardare la situazione del captivus (vedi Caes. Bell. civ., 2.32.10, Cic. De orat. 1.40.181/182), su altre sono stati avanzati dei dubbi, come Paul-Fest. verb.sign. s.v. deminutus capite (Lindsay, 61): Deminutus capite appellatur, qui civitate mutatus est; ex alia familia in aliam adoptatus; et qui liber alteri mancipio datus est; et qui in hostium potestatem venit; et cui aqua ignique interdictum est. Il Ratti, Studi, cit., 27 nt. 41 e il Dell’Oro, Osservazioni, cit., 11 ss., hanno sostenuto che con et qui in hostium potestatem venit ci si riferisca a chi sia passato volontariamente al nemico e non al captivus, per il quale si userebbe, invece, l’espressione in hostium potestatem pervenit. Ugualmente non attendibile viene considerata dal Ratti la testimonianza di Isid. Orig. 10, 54: captivus dicitur quasi capite deminutus; ingenuitatis enim fortuna ab eo excidit, unde et ab iuris peritis capite deminutus dicitur, in quanto, come non sarebbe affidabile la derivazione etimologica proposta da Isidoro, allo stesso modo potrebbe essere errata l’affermazione relativa alla posizione giuridica del prigioniero. Più dubbiosa la Cursi, Captivitas e capitis deminutio, cit., 308 ss., la quale, però, suggerisce cautela nell’utilizzazione della fonte, comunque tarda. Maggiormente probanti sarebbero, per l’Autrice, Liv. 22.60.15: Liberi atque incolumes desiderate patriam; immo desiderate, dum patria est, dum cives eius estis. Sero nunc desideratis, deminuti capite, abalienati iure civium, servi Carthaginiensium facti e Hor. Carm. 3.5.41: fertur pudicae coniugis osculum/parvosque natos ut capitis minor ab se removisse et virilem torvus humi posuisse vultum..  

 

[4] In questo senso l’Amirante, Captivitas, cit., 41 ss., voce Postliminio, cit., 431. Già il Guarneri Citati, Reviviscenza e quiescenza nel diritto romano, cit., 24 (ma si veda anche Brevi considerazioni agli Studi di Ratti, in Annali Università Messina, 1, cit., 324 ss.) aveva, peraltro, osservato che nel periodo più antico la prigionia di guerra produceva una capitis deminutio maxima e privava il captivus della capacità giuridica, dunque i diritti trasmissibili passavano agli eredi o in mancanza di eredi si estinguevano, quelli intrasmissibili perivano. Il postliminium avrebbe, però, determinato col tempo un mutamento, facendo considerare i diritti del prigioniero in suspenso anziché estinti. Anche per l’Albanese, Le persone, cit., 37 e 316 nt. 14, in origine il captivus subiva la capitis deminutio maxima, e dunque perdeva il ius adgnationis, come ogni altro cittadino ridotto in servitù, ma, in seguito al regime risultante dall’elaborazione delle regole del postliminium e dall’interpretazione della lex Cornelia, la prigionia di guerra non avrebbe più comportato la capitis deminutio maxima. Tuttavia anche in seguito sarebbe rimasta, come traccia della più antica concezione, la frequente equiparazione del captivus al morto, come risulta da una serie di passi in precedenza citati. Anche le distinzioni fra capitis deminutio e captivitas di D. 23.2.45.6, D. 38.2.4.2, D. 38.16.1.4, su cui infra, presupporrebbero, per l’Autore, una precedente equiparazione.

 

[5] La lex Cornelia venne adottata, secondo la dottrina dominante, nell’81 a.C., e la fictio avrebbe considerato morto il prigioniero al momento della cattura, in modo da salvare il testamento in caso di morte in prigionia. In seguito la fictio sarebbe stata estesa anche alla successio ab intestato (Paul. 3.4a.8, Tit. Ulp. 23.5, D. 28.6.28, D. 49.15.22, D. 49.15.10.1). Se, peraltro, in alcuni testi la fictio è espressa con le parole si civis in civitate decessisset (D. 35.2.1.1, D. 38.2.4.1, D. 38.16.1pr.), in altri, tutti di Giuliano, troviamo l’espressione si in hostium potestatem non pervenissent (D. 28.1.12, D. 28.6.28, D. 49.15.22pr.). Si veda, a tal proposito, Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova, 1997, 352 ss.

 

[6] Secondo il Kaden, Rec. ad Amirante, cit., 253 ss., la pendenza sarebbe, invece, stata connessa al postliminium ben prima della lex Cornelia per i rapporti di diritto sacrale e di diritto pubblico, come dimostrerebbero Plin. hist. nat. 18, 2, 6, Liv. 27, 21, 10; 30, 19, 7. Replica l’Amirante, Ancora sulla captivitas, cit., 521 ss., che in. hist. nat. 18, 2, 6, Plinio si limita ad affermare che la qualità di ‘fratello Arvale’ si perde soltanto con la morte e che, perciò, tale honos accompagna anche gli esuli e i prigionieri (quae prima apud Romanos fuit corona, honosque is non nisi vita finitur et exules etiam captosque comitatur). La circostanza che vengano accomunati esuli e prigionieri porrebbe, per l’Autore, «fuori causa la testimonianza di Plinio per quanto riguarda l’effetto sospensivo del postliminium, del quale certo non è a parlare a proposito degli exules». I due testi di Livio pongono, invece, la questione dell’esistenza di una legge che avrebbe vietato di ricoprire magistrature plebee ai figli di patres ancora in vita che avessero ricoperto cariche curuli. Osserva l’Amirante che, a prescindere dalle varie obiezioni proposte in dottrina sull’autenticità della notizia liviana, la questione della pendenza iure postliminii della situazione giuridica dei figli «non sembra affatto essere tirata in gioco da Livio, che si limita a dire patre…vivo». Per la D’Amati, Civis ab hostibus captus, cit., 167 nt. 465, se anche si volesse ritenere che dal testo di Livio si possano trarre elementi a favore della pendenza dei rapporti giuridici del captivus, «il giudizio complessivo sulla ricostruzione di L. Amirante non subisce profonde modificazioni».

 

[7] Anche la D’Amati, Civis ab hostibus captus, cit., 168 s., pur concordando sulla circostanza che il concetto di pendenza dei diritti del captivus non possa essere stato formulato consapevolmente dalla giurisprudenza in un periodo anteriore all’emanazione della lex Cornelia, pone in evidenza l’obiettiva difficoltà della ricostruzione della fase arcaica, vista la mancanza di testimonianze giuridiche a conforto. L’Autrice nota, inoltre, che l’argomento, così impostato, sembra risentire troppo di una moderna concettualizzazione giuridica e non ritiene si possa essere modificata così a fondo la valenza del postliminium come la ricostruzione dell’Amirante porterebbe ad affermare.

 

[8] Si veda Amirante, voce Postliminio, cit., 430: «Probabilmente nell’età più antica, quando la capitis deminutio era soltanto un mero nome per indicare la perdita da parte di un soggetto della propria posizione nell’ambito di un ordinamento giuridico, il prigioniero era capite minutus: e così può spiegarsi come, in un senso certamente non tecnico, questa qualifica gli sia stata conservata anche più tardi nelle fonti letterarie. La giurisprudenza, invece, pur non negando che il prigioniero rimanesse privo fin dal momento della cattura della libertà e della cittadinanza, ha evitato di qualificarlo capite deminutus, sia perché a lui si applicava ormai il postliminium, sia perché la capitis deminutio stessa era stata oggetto di un’elaborazione, che, apparentandola alla poena capitis, escludeva qualsiasi possibile equiparazione sua alla prigionia di guerra».

 

[9] Problema sul quale non mi ero soffermata in un mio precedente studio, Ricerche in tema di redemptio ab hostibus, Cagliari, 1998, in quanto mi occupavo prevalentemente dell’ultimo capoverso del testo, prendendo in esame le limitazioni alla capacità del redemptus determinate dal vinculum pignoris, espressione che è stata considerata giustinianea dalla dottrina dominante. Si veda, invece, per la sua classicità, Mentxaka, Sobre la existencia de un ius pignoris del redentor sobre el cautivo redimido en el derecho clasico, in RIDA, 32, 1985, 273 ss. 

 

[10] Sul concetto di aequitas naturalis si veda, per la dottrina più risalente, Devilla, Aequitas naturalis, in Studi sassaresi, II, serie 14, 1938, 125 ss. Più di recente il Didier, Les diverses conceptions du droit naturel a l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des II et III siècles, in SDHI, 47, 1981, 195 ss., in part. 255 nt. 394, il quale annovera il nostro passo tra quelli nei quali Ulpiano cita l’aequitas naturalis «à propos des initiatives des magistrats, fréquentes en droit hereditaire, qu’Ulpien fait constamment référence»; il Talamanca, L’aequitas naturalis e Celso in Ulp. 26 ad ed. D. 12,4,3,7, in BIDR, 96-97, 1993-4, 1 ss.; lo Schiavone, Giuristi e principe nelle Istituzioni di Ulpiano, in SDHI, 69, 2003, 3 ss., in part. 16, secondo il quale in Ulpiano l’aequitas naturalis diventa una delle chiavi dell’interpretazione giusnaturalistica dei fondamenti dell’editto; il Walstein, Aequitas naturalis e ius naturale, in Aequitas, Giornate in memoria di Paolo Silli, Atti Convegno Trento, 11-12 aprile 2002, a cura di Santucci, Padova, 2006. Possiamo ricordare, inoltre, che in D. 49.15.19pr. (Paulus l. 16 ad Sabinum) si afferma che anche il postliminium è stato introdotto aequitate naturali: Postliminium est ius amissae rei recipiendae ab extraneo et in statum pristinum restituendae inter nos ac liberos populos regesque moribus legibus constitutum… idque naturali aequitate introductum est, ut qui per iniuriam ab extraneis detinebatur, is, ubi in fines suos redisset, pristinum ius suum reciperet.  

 

[11] Se con capitis deminutio magna intendiamo la perdita della libertà e con capitis deminutio minor la perdita della cittadinanza, nel nostro passo si escluderebbe la capitis deminutio minima; occorre, però, stabilire se effettivamente la capitis deminutio magna di D. 38.16.1.4 corrisponda a quella che Gai 1.159 definisce maxima, e la minor alla media. Il Coli, Capitis deminutio, cit., 181, sostiene che nel nostro passo, come in altri, capitis deminutio magna «sia un’espressione invalsa nell’uso dei giuristi per designare in modo abbreviato la maxima e la media c.d.» e che con capitis deminutio minor si intendesse, dunque, la minima. «L’assoluta superfluità dell’inserzione vel-vel e la qualifica di minor in luogo di minima, che è un açpax eièro@menon», osserva l’Autore, «farebbero dubitare che si tratti del balordo errore di un amanuense anziché di una volontaria interpolazione dei commissari. Ma non è da escludere che qualche commissario meno accurato abbia inteso davvero limitare la perdita della qualità di suus alla c.d. maxima (= magna) e alla media».

 

[12] Lo stesso principio è affermato, in riferimento alla possibilità per il figlio di chiedere la bonorum possessio, in D. 38.2.4.2 (Paulus l. 42 ad edictum): Si deportatus patronus sit, filio eius competit bonorum possessio in bonis liberti nec impedimento est ei talis patronus, qui mortui loco habetur. et dissimile est, si patronus apud hostes sit: nam propter spem postliminii obstat liberis suis. Si distinguerebbe nettamente la posizione del figlio del patrono deportato da quella del figlio del patrono captus ab hostibus, in quanto il primo può richiedere la bonorum possessio, il secondo no. La frase nec impedimento est ei talis patronus qui mortui loco habentur è stata, però, considerata interpolata dal Ratti, Studi sulla captivitas, cit., 32 nt. 49, il quale ricorda gli appunti formali avanzati dall’Eisele, Zur Natur und Geschichte der Capitis Deminutio, in Beiträge zur römischen Rechtsgeschichte, Freiburg-Leipzig, 1896, 167 nt. 12: l’ei riguarda il figlio, mentre l’eius riguarda il patrono, il talis non è chiarito dal seguito qui habetur ma si riferisce a deportatus, al posto di patronus sarebbe stato preferibile pater. I compilatori, secondo il Ratti, avrebbero distinto tra prigioniero e capite minutus (mortui loco), in armonia con la loro nuova concezione, mentre in epoca classica il captivus sarebbe stato considerato capite deminutus. Riguardo al rilievo del Ratti per cui «se il patrono è tenuto prigioniero i suoi diritti si estinguono ma non come in seguito alla morte poiché si tien conto della spes postliminii», già il Guarneri-Citati, Reviviscenza e quiescenza nel diritto romano, cit., 26 nt. 2, aveva, però, obiettato che non esistono diverse specie di estinzioni con effetti differenti. Il Cosentini, Studi sui liberti. Contributo allo studio sulla condizione giuridica dei liberti cittadini, 2, Catania, 1950, 139 ss., ritiene il nostro passo genuino, a parte la frase nec impedimento-habetur; la prigionia di guerra, ai tempi di Paolo, teneva in suspenso il patronato e, dunque, la capitis deminutio e la prigionia erano differenti, altrimenti «Paolo non avrebbe potuto opporre l’una all’altra». Il Bretone, voce Capitis deminutio, cit., 918, osserva che in diritto giustinianeo diviene molto più ampia l’equiparazione della capitis deminutio maxima e media alla morte, di cui già si trovano spunti in epoca classica. Tale equiparazione attenuerebbe il rigore degli effetti prodotti in diritto classico dalla perdita della libertà e della cittadinanza e consentirebbe di attribuire agli eredi i beni del deportato. La D’Amati, Civis ab hostibus captus, cit., 81 nt. 232, ritiene, invece, che colui che si trova apud hostes non possa mai essere equiparato ad un morto, e che ciò risulti specialmente da D. 28.3.6.4 (Ulpianus l. 10 ad Sabinum): Quocumque autem modo parentes praecedentes in potestate esse desierint, succedentes liberi, si fuerint instituti vel exheredati, non rumpent testamentum, sive per captivitatem sive per mortem vel poenam, nel quale il sive sive avrebbe una chiara intonazione disgiuntiva, e dunque la captivitas sarebbe prevista in alternativa alla morte e alla servitus poenae. L’argomentazione della D’Amati non sembra convincente, perché affermare che non viene ruptum il testamento sia in caso di captivitas che di morte che di servitus poenae non pone la captivitas in alternativa alla morte e non esclude che il captivus possa essere considerato mortui loco. Occorre, inoltre, considerare che la captivitas viene espressamente equiparata alla morte in una serie di passi (si vedano, ad esempio, D. 24.1.32.14; D. 24.3.56; D. 28.2.29.14; D. 28.3.6.1 e 4; D. 38.7.6; D. 44.3.4; D. 45.1.73.1; D. 45.3.25).

 

[13] La Cursi, La struttura del postliminium nella repubblica e nel principato, Napoli, 1996, 204 s., osserva che lo stile sconnesso di Ulpiano ha destato sospetti di interpolazione.

 

[14] L’Amirante aveva considerato compilatoria tutta la parte del passo che tratta del redemptus (proinde etsi fuerit redemptus, nondum succedunt ante luitionem: sed si interim decesserit, cum placeat eum statu recepto decessisse, nepotibus obstabit), perché dall’affermazione che i nipoti non succedunt ante luitionem si ricaverebbe che succedono post luitionem, il che sarebbe assurdo in quanto, riacquistando il redemptus col pagamento del prezzo la piena capacità, sarebbe lui a succedere e non i figli. Avevo già osservato nel mio precedente lavoro che affermare che i nipoti non succedunt ante luitionem non significa necessariamente che debbano succedere post luitionem: dal passo si ricava che, come i nipoti non succedono quando il padre è apud hostes, così non succedono se è stato redemptus e si trova sottoposto al vinculum pignoris, perché in entrambi i casi esiste ancora la possibilità che succeda il padre, nel primo caso se ritorna in patria, nel secondo se viene meno il vinculum pignoris. Il nondum succedunt ante luitionem desta, comunque, qualche sospetto di interpolazione, in quanto fa pensare che esista una possibilità che in seguito i nipoti succedano, mentre il passo non ne prospetta alcuna.

 

[15] D. 49.15.15 (Ulpianus l. 12 ad Sabinum): Si patre redempto et ante luitionem defuncto filius post mortem eius redemptionis quantitatem offerat, dicendum est suum ei posse existere. nisi forte quis suptilius dicat hunc dum moritur, quasi iure pignoris finito, nactum postliminium et sine obligatione debiti obisse, ut potuerit suum habere. quod non sine ratione dicetur. Nella prima parte del passo si stabilisce che se il figlio offre il pagamento del riscatto dopo la morte del padre, avvenuta durante la sottoposizione al vinculum pignoris, diviene suus, ma nella seconda si prospetta la possibilità che se il redemptus muore, muoia sine obligatione debiti e i figli possano, comunque, essere considerati sui. I figli riacquisterebbero, così, i vincoli di adgnatio senza la necessità di adempiere al pagamento del prezzo del riscatto, al momento della morte del padre. Le due soluzioni sono sicuramente contrastanti, il che ha indotto pressoché tutta la dottrina (si veda, ad esempio, Pampaloni, Persone in causa mancipii nel diritto romano giustinianeo, in BIDR, 17, 1905, 123 ss.; Romano, Redemptus ab hostibus, in RISG, 5, 1930, 3 ss.; Amirante, Appunti per la storia della redemptio ab hostibus, cit., 7 ss.) a ritenere giustinianeo D. 49.15.15 da nisi forte sino alla fine, per una serie di indizi sia formali (nisi forte quis suptilius dicat, quasi iure pignore finito, nactum postliminium, sine obligatione debiti, ut potuerit) sia sostanziali, primo dei quali la contraddizione fra la prima e la seconda parte. Si può notare, a questo proposito, come nel passo dei Basilici corrispondente a D. 49.15.15 (restitutus sulla base del Tipucito) sia riportata esclusivamente la seconda soluzione: Bas. 34.1.11 (Heimbach III, 536: Kai# oàti aèpoqnh@skontov tou^ eèk tw^n polemi@wn aègorasqe@ntov lu@etai to# eèp’ auètw^j eène@curon). Pur avendo io sostenuto nel mio precedente lavoro che i contrasti fra la prima e la seconda parte del passo potrebbero essere dovuti all’esistenza di diverse opinioni fra i giuristi classici, non mi sento oggi di escludere un intervento compilatorio su D. 49.15.15, che, se ammesso, dovrebbe portare alla conseguenza di considerare interpolato anche D. 38.16.1.4, nel quale sembra accolta, sia pur sotto un profilo differente, la soluzione prospettata nella seconda parte di D. 49.15.15. Occorre, comunque, porre in evidenza che i due passi non si occupano, come sembra ritenere la dottrina prevalente, dello stesso caso: in D. 49.15.15 si sta trattando dell’eredità del pater redemptus, quindi della possibilità che egli abbia dei sui, in D. 38.16.1.4 dell’eredità del nonno, e quindi della possibilità che il padre redemptus sia suus del nonno. Due sono, pertanto, i problemi presi in considerazione: se il redemptus possa avere dei sui in D. 49.15.15, se il redemptus possa essere suus in D. 38.16.1.4.

 

[16] In tal senso l’Amirante, Captivitas e postliminium, cit., 27 nt. 2 e 118 nt. 27; Id., Prigionia di guerra, cit., 149 s., per il quale il quod si può avere tutt’al più un significato concessivo e non oppositivo, perché in tal caso Ulpiano avrebbe, piuttosto, scritto sed si come nel paragrafo successivo, D. 38.16.1.5 (Ulpianus l. 12 ad Sabinum): Sed si quis non desiit esse in potestate, sed numquam coepit, ut puta si filius meus vivo patre meo ab hostibus captus est, mox ibi me patre familias facto decesserit, nepotes in eius locum succedent. 

 

[17] Così il Gioffredi, Sul ius postliminii, cit., 13 ss.; Id., Pendenza e sospensione dalle fonti romane alla dommatica odierna, cit., 113 ss., in part. 146 ss.; Id., A proposito di impostazione storica e diagnosi giuridica, cit., 437 ss., per il quale Ulpiano nel periodo quodsi - filius non richiamerebbe un altro caso di capitis deminutio, ma un altro caso in cui si potrebbe pensare che il figlio cessi di essere erede. Per l’Autore il prigioniero non fu considerato capite deminutus perché non era schiavo nell’ordinamento giuridico romano, in quanto la capitis deminutio poggerebbe su un fatto giuridico esterno all’ordinamento e destinato a cessare ove il soggetto torni a farne parte; pertanto verrebbero utilizzate dai giuristi le espressioni pendere e simili, da riferirsi allo stato di incertezza in cui si trovavano i diritti del prigioniero. Il Solazzi, Il concetto del ius postliminii, cit., 565 ss.; Id., La pendenza, cit., 431 ss., concordava col Gioffredi sia sulla considerazione che il romano prigioniero di guerra non fosse servus nell’ordinamento romano, sia sulla considerazione che non fosse capite deminutus, ma dissentiva sull’idea che le espressioni pendere, in pendenti esse, in suspenso esse esprimessero l’idea dell’incertezza, riflettendo, piuttosto, a suo avviso, il concetto giuridico della pendenza, come risulterebbe da una serie di passi in cui sarebbe chiaro il significato propriamente giuridico di pendere (Gai 1.135, Gai 1.186, D. 5.4.3, D. 20.5.12.1, D. 24.1.11.9, D. 32.3.80 e 83, D. 35.2.82, D. 45.1.2.1). Obiettava, però, al Gioffredi il Betti, Falsa impostazione della questione storica dipendente da erronea diagnosi giuridica, in Studi Arangio-Ruiz, 4, Napoli, 81 ss., che è assurdo che i romani considerassero la caduta in prigionia di un civis un fatto “estraneo” al loro ordinamento, perché ciò non solo avrebbe urtato contro la logica del diritto che annovera la captivitas dello straniero fra le fonti della schiavitù, ma avrebbe anche significato che l’ordinamento romano si disinteressava delle conseguenti vicende del civis e dei rapporti che a lui facevano capo.

 

[18] Cursi, Capitis deminutio, cit., 301 s., 318 s. Anche per l’Autrice la tesi del Gioffredi è fondata su un presupposto non condivisibile, ossia l’estraneità della captivitas all’ordinamento romano. La riconducibilità della prigionia alla naturalis ratio o al ius gentium segnalerebbe il suo inserimento nel “sistema sovrannazionale romano”, all’interno del quale opera il diritto di guerra come insieme di norme riconosciute e vigenti presso tutti i popoli; la servitus che discende dalla captivitas sarebbe, allora, verosimilmente iusta o, almeno, non iniusta. Sulla qualifica di iusta o iniusta servitus della prigionia di guerra si è, come noto, a lungo discusso. Per il Volterra, Manomissione e cittadinanza, in Studi Paoli, Firenze, 1955, 695 ss., ora in Scritti giuridici, 2, Napoli, 1991, 395 ss., da Gai 1.11: Ingenui sunt qui liberi nati sunt; libertini, qui ex iusta servitus manumissi sunt, si ricaverebbe che la servitus del captivus non sarebbe iusta perché egli riacquista la libertà senza necessità di alcuna manomissione. Secondo la Cursi, Capitis deminutio, cit., 302 nt. 19, si tratta, però, di un argumentum e silentio che potrebbe prestarsi ad un’interpretazione diametralmente opposta: poiché non solo il Romano catturato dai nemici, ma anche il nemico catturato dai Romani è un captivus e, per riacquistare la libertà, deve essere manomesso, e poiché Gaio contrappone ingenui – evidentemente cittadini romani – e libertini – verosimilmente stranieri resi schiavi e poi liberati – si starebbe riferendo allo straniero catturato dai nemici e poi manomesso, e la captivitas sarebbe una iusta servitus. Il problema posto dal Volterra era, però, evidentemente un altro: se per Gaio i liberti sono coloro che vengono manomessi da una iusta servitus, poiché il captivus (chiaramente romano) non viene manomesso e non diviene liberto, la sua non sarebbe una iusta servitus. Sembra, comunque, eccessivo trarre da un’affermazione generica di Gaio la conclusione che in tutti i casi in cui non c’è manomissione, non possa esistere una iusta servitus. L’Albanese, Le persone, cit., 30 nt. 57, ritiene che la servitù da prigionia di guerra non sia stata considerata iusta servitus, terminologia che allude alla conformità al ius civile, «data la sua fondamentale corrispondenza al ius gentium».

 

[19] Lo stesso argomento può essere opposto, secondo l’Autrice, a chi ritiene che il captivus non possa definirsi capite deminutus sulla base di D. 38.4.1.8 (Ulpianus l. 14 ad Sabinum): Si sit ex patrono filius unus, ex altero duo et uni eorum libertus adsignatus est, videndum, quot partes fiant hereditatis liberti, utrum tres, ut duas habeat is cui adsignatus est, id est suam et fratris, an vero aequales partes fiant, quoniam per adsignationem alius excluditur. Et Iulianus libro septuagensimo quinto scripsit magis esse, ut bessem hic habeat, qui fratrem excludit: quod verum est, quamdiu frater eius vivat vel admitti potuit ad legitimam hereditatem: ceterum si fuerit capite minutus, aequales partes habebunt. Se un patronus ha un solo figlio, l’altro ne ha due e ha assegnato il liberto a uno solo di essi, ci si chiede come vada divisa l’eredità, se in parti uguali, o se in tre parti, di cui una spetterà al primo e due all’altro, che riceverebbe anche la parte che sarebbe spettata al fratello. Secondo Giuliano la soluzione condivisibile è la seconda, ma Ulpiano sembra precisare che questo è esatto quamdiu frater eius vivat vel admitti potuit ad legitimam hereditatem, perché se invece egli ha subito una capitis deminutio, l’eredità dovrà essere divisa in parti uguali. Anche ammettendo, osserva la Cursi, che vel admitti potuit ad legitimam hereditatem, come ritiene il Ratti, Studi sulla captivitas, cit., 34 s., si riferisca al captivus, è possibile ritenere che la condizione del captivus e quella del capite deminutus siano distinte solo rispetto agli effetti, in dipendenza dell’intervento della lex Cornelia e del postliminium; anche in questo caso il captivus potrebbe, pertanto, essere ritenuto capite deminutus.

 

[20] Per la Cursi la differenza fra le due prospettive emerge solo se si sposta il piano del discorso a livello di diritto sovrannazionale: poiché la cattura viene ricondotta nelle sistematiche giuridiche al ius gentium, o alla naturalis ratio, e poiché la coscienza dei Romani circa la validità presso tutti i popoli di norme comuni ispirate alla naturalis ratio porta all’universale riconoscimento del diritto di cattura, con la conseguente riduzione in schiavitù dell’uomo libero, così come i Romani consideravano schiavo il nemico da loro catturato, allo stesso modo dovevano riconoscere il rilievo giuridico della servitus del captivus romano presso i nemici. Pertanto la permutatio di status, da libero a schiavo, non poteva che tradursi nella capitis deminutio del captivus. Diversamente nel caso del captus a latronibus, che rimaneva libero per via della mancanza di una comunità di riferimento, con conseguente impossibilità dell’applicazione delle norme di ius gentium, concepite per regolare i rapporti tra popoli. Queste osservazioni possono contribuire a chiarire, secondo la Cursi, i motivi per i quali, già in età tardo-classica (si veda D. 49.15.12.5) e ancor più in epoca postclassica (Paul. 3.4°.8) e giustinianea (Nov. 22.7), il principio in forza del quale il captivus è servus appare fondato su una subtilius ratio (vedi, a tal proposito, Sertorio, La prigionia di guerra e il diritto di postliminio, Torino, 1915, 152; Ratti, Studi sulla captivitas, cit., 184; Amirante, Captivitas e postliminium, cit., 181): in un’epoca in cui Roma non ha più hostes ma può scontrarsi solo con bande di latrones, le regole di ius gentium non possono più trovare applicazione e l’antico regime della captivitas e della capitis deminutio appare sempre più lontano dalla realtà.

 

[21] I già esaminati Liv. 22.60.15 e Hor. Carm. 3.5.41.

 

[22] In verità queste ultime molto discusse dalla dottrina, come Tit. Ulp. 23.4/5: Inritum fit testamentum, si testator capite deminutus fuerit, aut si iure facto testamento nemo extiterit heres. Si is qui testamentum fecit ab hostibus captus sit, testamentum eius valet, si quidem reversus fuerit, iure postliminii, si vero ibi decesserit, ex lege Cornelia, quae perinde successionem eius confirmat, atque si in civitate decessisset, D. 28.3.6.5 (Ulpianus l. 10 ad Sabinum): Irritum fit testamentum, quotiens ipsi testatori aliquid contigit, puta si civitatem amittat per subitam servitutem, ab hostibus verbi gratia captus, vel si maior annis viginti venum se dari passus sit ad actum gerendum pretiumve partecipandum, Gai Ep. 2.3.5: Alio quoque modo testamenta iure facta infirmantur, si aliquis post factum testamentum capite minuatur, id est aut ab hostibus capiatur, aut pro crimine in exilium deputetur. Similiter et si is qui adoptatus fuerit, testamentum, quod antequam adoptaretur fecerat, non valebit. I passi sono stati interpretati dalla dottrina sia a favore della tesi della capitis deminutio, sia contra. Per quanto riguarda Tit. Ulp. 23.4/5, il Ratti, Studi sulla captivitas, cit., 32 s., aveva ritenuto che nel testo, così come in D. 38.16.1.4, Ulpiano, probabilmente, parlando della capitis deminutio maxima, intendesse riferirsi anche al captivus; per l’Amirante, Captivitas e postliminio, cit., 26 s., nel passo il captivus viene esplicitamente considerato capite deminutus; in senso contrario il Gioffredi, Sul ius postliminii, cit., 34, il quale sostiene che non vi è alcun legame tra l’ipotesi della capitis deminutio, espressa attraverso un’ampia formulazione giuridica, che ammette più casi, e la seconda ipotesi, espressa attraverso una singola fattispecie pratica, la captivitas. Il Solazzi, Il concetto del ius postliminii, cit., 604 s. (v. anche La pendenza dei diritti, cit., 432 nt. 3), osserva che dal passo risulta che, al pari di tutti gli altri diritti privati del captus ab hostibus, anche la testamentifactio è sospesa e non estinta.  Per quanto concerne D. 28.3.6.5 - passo molto discusso sia per quanto riguarda l’aliquid contigit che il si civitatem amittat - il Coli, Capitis deminutio, cit., 164, seguito da buona parte della dottrina (Brasiello, La repressione penale in diritto romano, Napoli, 1937, 426, Ratti, Studi, cit., 33 nt. 51, Solazzi, Il concetto, cit., 604, G. Longo, Postille critiche in tema di captivitas, in Iura, 8, 1957, 29 ss., ora in Ricerche Romanistiche, Milano, 1966, 487 ss., in part. 499, Gioffredi, Sul ius postliminii, cit., 34), aveva sostituito aliquid con capitis deminutio. L’Autore, dopo aver asserito che nessun giureconsulto romano avrebbe affermato che si invalida il testamento «se al testatore capita qualche cosa», osserva che l’esempio addotto (amittere civitatem per subitam servitutem) con l’altro inseritovi (puta – verbi gratia) non è di sapore classico: i compilatori avrebbero espunto la menzione della capitis deminutio sostituendola con un’enumerazione di casi nei quali si verifica la capitis deminutio maxima, enumerazione che prosegue in D. 28.3.6.6, di fattura giustinianea. Più di recente l’Astolfi, I libri tres iuris civilis di Sabino 2, Padova, 2001, 75 s., ritiene, invece, che l’espressione quotiens ipsi testatori aliquid contigit sia plausibile, in quanto Sabino e Ulpiano, che nei frammenti precedenti hanno trattato della rottura del testamento per cause non attinenti alla persona del testatore, nel frammento in esame passano a trattare casi di testamentum irritum per ragioni che attengono alla persona del testatore; non sarebbe, pertanto, necessario mutare aliquid in capitis deminutio. Anche l’esempio ab hostibus verbi gratia captus non sarebbe, per l’Autore, institicio, in quanto Ulpiano lo commenta nel successivo §12: quatenus tamen diximus ab hostibus capti testamentum irritum fieri, adiciendum est postliminio reversi vires suas recipere iure postliminii aut, si ibi decedat, lege Cornelia confirmari. L’argomentazione era stata, in verità, già avanzata dal Ratti, Studi sulla captivitas, cit., 33 nt. 51, il quale osservava che, mentre nei paragrafi successivi al 5 non vi è alcun riferimento al caso della prigionia, l’argomento viene trattato nel §12. Appare, inoltre, strano all’Autore che Giustiniano, il quale tendeva a considerare il captivus un semplice assente, abbia potuto aggiungere al primo posto tra i casi di servitù proprio la prigionia di guerra. Secondo la Cursi, Captivitas, cit., 321 ss., poiché nei Tit. Ulp. 23.4 il giurista individua due sole ipotesi di irritualità del testamento, la capitis deminutio e l’assenza di eredi, e poiché in D. 28.3.6.5 non si fa riferimento alla seconda condizione, l’aliquid (quotiens ipsi testatori aliquid contigit) dovrebbe essere inteso come un richiamo alla prima. Inoltre, l’amissio civitatis non potrebbe essere intesa dogmaticamente che come capitis deminutio e quest’ultima sarebbe richiamata come presupposto dell’invalidità del testamento in altri paragrafi dello stesso frammento di Ulpiano, il 7, l’8 e il 10.  Le due fattispecie della captivitas e della vendita di se stesso del maggiore di venti anni sarebbero casi particolari del più ampio esempio della perdita della cittadinanza per subitam servitutem. Per quanto riguarda Gai Ep. 2.3.5, la base del passo secondo la Cursi sarebbe verosimilmente classica, ma per l’Archi, L’Epitome Gai. Studio sul tardo diritto romano in Occidente, Milano, 1937, ripubblicato, con una nota di lettura di Cannata, in Antiqua, 61, Napoli, 1991, 190 ss., la classicità è quantomeno dubbia: l’elenco dei casi di capitis deminutiones fatta dall’epitomatore non corrisponde affatto a quello gaiano, perché di quelli esposti da Gaio non ne compare alcuno, e al posto di questi troviamo, sullo stesso piano della deportatio, la captivitas, che nelle fonti classiche non sarebbe mai enumerata come caso di capitis deminutio. La non genuinità del passo appare anche, per l’Autore, dalla scissione effettuata tra captivitas, deportatio, poena metalli da un lato e l’antica capitis deminutio minima dall’altro che compare, anche se con altra forma, in Giustiniano, il quale mantiene l’impalcatura dell’istituto della capitis deminutio, ma con una serie di interpolazioni cercherebbe di scindere gli effetti della capitis deminutio magna da quella minima. L’epitomatore del nostro passo mostra, per l’Archi, di essere lontano dal mondo classico, perché non distingue affatto tra i vari gradi di capitis deminutio, separa l’adoptio in modo che, più che rappresentare un caso di capitis deminutio che provoca la rottura del testamento, sembri piuttosto una causa a se stante, pone sullo stesso piano la captivitas e l’exilium pro crimine, qualificandoli come capitis deminutiones. Quanto detto dall’epitomatore troverebbe, invece, corrispondenza nelle nuove idee, come l’Interpretatio a C.Th. 2.19.1: si tamen is ipse germanus non pro crimine suo exilio fuerit deputatus aut per emancipationem successionis vel actionis iura perdiderit. La Cursi, Captivitas, cit., 326 nt. 103, ritiene, però, che le conclusioni dell’Archi non possano essere accolte e avanza l’ipotesi che l’equiparazione del captivus al deportatus («sempre che l’aut che separa l’esempio del captivus da quello del deportatus non spezzi la logica dell’esemplificazione») sia riconducibile ad un intervento compilatorio. Se il passo, nella lettura attuale, sembra, effettivamente provare per la capitis deminutio, occorre osservare anche che i dubbi avanzati dall’Archi sulla sua classicità non appaiono affatto superati.

 

[23] D’Amati, Civis ab hostibus captus, cit., 64 ss.

 

[24] Il Sertorio, La prigionia, cit., 176 ss., affermava che un diritto estinto può risorgere o come diritto nuovo o come diritto diverso, e può risorgere per via di un nuovo evento che si avvera, o in seguito all’intervento della legge, o del magistrato. Nel caso della captivitas, «non una nuova persona risorge, ma la medesima», «non nuovi diritti, ma i medesimi che già esistevano»; la captivitas è considerata come un impedimento all’esistenza della personalità e quindi alla persistenza dei suoi diritti. Col ritorno in patria viene meno questo impedimento e «lo stato antico risorge, ipso iure, come risorgono ipso iure i diritti che erano caduti».

 

[25] Il Ratti, Studi sulla captivitas, cit., 23 ss., ritiene, invece, che prova della capitis deminutio subita dal captivus si possa trovare nell’estinzione dei publica iura, come le cariche militari: una volta tornato, il captivus non ha diritto agli stipendi che gli sarebbero spettati nel tempo in cui si trovava in prigionia (C. 12.35.1 (Imp. Antoninus A. Annaeo militi): Stipendia et donativa temporis, quo apud hostes fuisse te dicis, restitui tibi postliminio regresso restitutoque non iure desideras).

 

[26] In caso di prigionia i rapporti patrimoniali del pater non passano al filius, ma si può nominare un curator bonorum o si può utilizzare nell’interesse del prigioniero la negotiorum gestio. Osserva il Robleda, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, Roma, 1976, 16 ss., che i diritti cessano di appartenere al captivus, ma non passano ad un altro soggetto: se il captivus non è dominus, non c’è ancora un altro dominus, né le res si possono dire semplicemente sine domino. Per quanto riguarda l’istituto pretorio della cura bonorum, il captivus viene equiparato all’assente e all’heres scriptus in attesa di decidere se adire l’eredità in D. 42.5.22.1 (Ulpianus l. 63 ad edictum). In D. 42.4.6.2 (Paulus l. 57 ad edictum) si afferma che al captus ab hostibus viene nominato interim un curator bonorum per non permettere statim la bonorum venditio. Il curator bonorum può essere addirittura nominato per colui che nasce presso i nemici, in quanto tornando potrà godere del postliminio, D. 4.6.15pr. (Ulpianus l. 12 ad edictum): Ab hostibus autem captis postliminio reversis succurritur aut ibi mortuis… Non minus autem ab hostibus capto quam ibi nato, qui postliminium habet, succursum videtur. Per quanto riguarda la negotiorum gestio, in D. 3.5.18.5 (Paulus l. 2 ad Neratium): Dum apud hostes esset Titius, negotia eius administravi, postea reversus est : negotiorum gestorum mihi actio competit, etiamsi eo tempore quo gerebantur dominum non habuerunt si afferma che spetta l’actio negotiorum gestorum a chi concluse dei negozi nell’interesse di Tizio, tornato in patria dopo un periodo di prigionia, nonostante il fatto che al momento della conclusione dei negozi non vi fosse un dominus. In D. 3.5.19 (20) (Ulpianus l. 10 ad edictum): Sin autem apud hostes constitutus decessit, et successori et adversus successorem eius negotiorum gestorum directa et contraria competit, l’actio negotiorum gestorum è concessa anche se il captivus muore in prigionia, dunque se non ritorna in patria e pertanto è impossibile applicare la fictio legis Corneliae. Il passo è particolarmente rilevante perché mostra che non si sta ragionando in termini di pendenza di situazioni giuridiche soggettive che verrebbero riacquistate dal captivus solo al momento del rientro in patria, in quanto il soggetto è morto e dunque non potrebbe riacquistarle. L’Amirante, voce Quiescenza, cit., 141 ss., osserva che i giuristi non adoperano il concetto di pendenza per descrivere la situazione giuridica del patrimonio del prigioniero, anche se egli ne ha perso la titolarità. Pur utilizzando il concetto di pendenza quando trattano degli incrementi ottenuti per mezzo del figlio o del servo, non affermano la pendenza del dominium o dell’obligatio acquistati da questi, non descrivono il rapporto nella sua statica oggettività e guardano direttamente a quando l’acquisto si sarà fissato in capo al prigioniero se ritornato iure postliminii, all’erede, o se, in alcuni casi, si dimostrerà nullo. L’Autore pone in evidenza come venga qualificato pendente l’acquisto stesso o lo stesso fatto acquisitivo (D. 41.3.15pr. (Paulus l. 15 ad Plautium): in pendenti esse usucapionem Iulianus ait, D. 45.3.18.2: res in pendenti erit), senza distinguere se la pendenza significhi possibilità di acquisto in capo all’uno o all’altro soggetto o validità o nullità della fattispecie acquisitiva. Per quanto, riguarda gli acquisti posti in essere dal servo o dal figlio mentre il padre è captus ab hostibus, il Nicosia, L’acquisto del possesso mediante i potestati subiecti, Milano, 1960, 234 ss., osserva che se una compravendita viene posta in essere da uno schiavo che, di fatto, possiede la res, durante il periodo di prigionia del dominus si ha una situazione analoga a quella che si verificava in caso di eredità giacente: manca solo un soggetto capace cui riferire gli effetti giuridici del possesso. Se questa vacanza viene a cessare, iure postliminii, col ritorno del captivus, nulla osta a che gli effetti di quel possesso, che mai era stato interrotto, si verifichino in capo a lui; se, dunque, nel frattempo era decorso il tempo necessario all’usucapione, la cosa si considera acquisita al reversus.

 

[27] La D’Amati, Civis ab hostibus captus, cit., 82 ss., obietta, comunque, alla Cursi che la capitis deminutio non può essere considerata una causa, ma piuttosto un effetto della servitus nella quale il civis è incorso. Si tratterebbe, in ogni modo, di un problema di qualificazione perché la scelta operata, qualunque soluzione si ritenga di adottare, non inciderebbe sul regime giuridico dell’istituto: «sia che si voglia considerare la captivitas come un’ipotesi particolare di capitis deminutio, alla quale ricollegare effetti diversi a causa dell’applicabilità del postliminium e della fictio prevista dalla lex Cornelia, sia che da questa la si voglia distaccare, il regime che ne deriva è, a conto fatti, identico».

 

[28] Albanese, Le persone, cit., 33 ss.

 

[29] Si veda anche Frag. August. 1.20: Ergo si aqua et igne interdicitur patri vel filio, patria potestas tollitur…Velut si pater ab hostibus captus fuerit … erunt filii sui iuris? hoc pleniore diligentia nobis tractandum est e Paul. 2.25.1: Pater ab hostibus captus desinit habere filios in potestate: postliminio reversus tam filios quam omnia sui iuris in potestatem recipit, ac si numquam ab hostibus captus sit.

 

[30] Osserva, peraltro, il Solazzi, Il concetto, cit., 566, che Gaio usa altre volte il verbo recipere in casi nei quali non vi è un amittere, come in 2.98, 2.251-255.

 

[31] L’Ambrosino, Da Giavoleno a Gaio in tema di postliminio, in SDHI, 5, 1939, 202 ss., aveva sostenuto, sulla base di D. 41.2.23.1 (Iavolenus l. 1 epistularum): In his, qui in hostium potestatem pervenerunt, in retinendo iura rerum suarum singulare ius est: corporaliter tamen possessionem amittunt: neque enim possunt videri aliquid possidere, cum ipsi ab alio possideantur: sequitur ergo, ut reversis his nova possessione opus sit, etiamsi nemo medio tempore res eorum possederit, che nel tempo incorrente fra Giavoleno e Gaio si sarebbe passati dalla concezione del postliminio come un retinere a quella di un recipere dopo un periodo di pendenza. Si oppose a quest’idea il Guarino, Sul ius singulare postliminii, in ZSS, 61, 1941, 58 ss., il quale osservava che in un così breve lasso di tempo si sarebbe avuta non tanto un’evoluzione, quanto piuttosto un’ardita riforma, di cui, però, non sarebbe rimasta alcuna traccia negli scritti dei giuristi classici. Inoltre non appare credibile, per l’Autore, che si sia passati col trascorrere dei secoli da una disciplina che realizza il massimo trattamento di favore per il captivus ad una che lo riduce da un originario retinere ad un successivo amittere-recipere. La teoria dell’Ambrosino potrebbe essere confermata se gli autori successivi a Giavoleno parlassero di retinere iura rerum suarum, mentre parlano, invece, di recipere iura, presupponendo, quindi, un amittere. Per il Guarino il passo di Giavoleno è interpolato nella parte in his – est, sia per motivi formali (la cacofonica ripetizione di tre in nel corso di due righe, l’espressione in his…singulare ius est, la violenta rottura sintattica tra il primo e il secondo periodo), che per motivi sostanziali (tra neque enimpossideantur e in his-est vi sarebbe «una insormontabile discrepanza di carattere logico»). 

 

[32] In D. 38.17.2.7 (Ulpianus l. 13 ad Sabinum) si considera, poi, pendente l’ius matris rispetto al figlio sia captus ab hostibus che concepito: Si vero apud hostes est filius vel nasci speratur, pendet ius matris, donec redierit vel nascatur. La posizione del captivus ab hostibus viene più volte nelle fonti accomunata a quella del concepito perché in ambedue i casi acquista rilevanza la spes: spes postliminii per il captivus, spes nascendi per il concepito.

 

[33] Si vedano, tra gli altri, D. 49.15.19.3 (Paulus l. 16 ad Sabinum), D. 49.15.19pr. (Paulus l. 16 ad Sabinum).

 

[34] Per il Solazzi, Il concetto, cit., 566 nt. 2, 634 ss., Id., Il ius postliminii, cit., 679 ss., la frase sed utrum – potest sarebbe dovuta ad un rimaneggiamento. Il Kaser, Rec. a Solazzi, Il concetto, in Iura, 2, 1951, 168 s., parla di un ‘Denkfehler’ gaiano.

 

[35] La dottrina ritiene, infatti, che già in epoca classica la fictio legis Corneliae sarebbe stata estesa dalla successione testamentaria alla successione ab intestato: in questo senso il Bechmann, Das ius postliminii, cit., 84 ss., il Sertorio, La prigionia, cit., 123 ss., l’Amirante, Captivitas, cit., 32 vd. nt.19, la D’Amati, Civis, cit., 176 nt. 492; per il Wolff, The lex Cornelia, cit., 136 ss., l’estensione sarebbe, invece, avvenuta in epoca postclassica.

 

[36] L’Archi, L’Epitome Gai, cit., 192 s., confronta Gai 1.129 con Gai Ep. 1.6.2: Item si ab hostibus pater captus sit, in potestate, quamdiu apud hostes fuerit, filios non habebit. Sed si de captivitate evaserit, iure postliminii omnem, sicut in aliis rebus, ita et in filiis recipit potestatem. L’epitomatore, pur condividendo la sostanza del discorso di Gaio, finemente espressa con pendet ius liberorum propter ius postliminii, non riuscirebbe più a configurarsi altrettanto elegantemente la situazione giuridica: la frase si ab hostibus pater captus sit, in potestate, quamdiu apud hostes fuerit, filios non habebit mostra, infatti, che il concetto del diritto pendente non gli riesce chiaro.

 

[37] L’Urso, Il matrimonio del prigioniero in diritto classico, in SDHI, 58, 1992, 85 ss., in part. 133, osserva che il dubbio di Gaio circa il momento nel quale i figli diventano sui iuris non dovrebbe esistere se tra pendenza e retroattività vi fosse una necessaria relazione. Il postliminium, quindi, con il suo effetto di pendenza non avrebbe sempre, per l’Autore, implicato retroattività, perchè la pendenza non esigerebbe necessariamente la retroattività

 

[38] Si veda, di recente, Nicosia, Prigionia, cit., 47 s.

 

[39] Per il Solazzi, Il concetto, cit., 565 ss., in epoca giustinianea, affermandosi la fictio postliminii, che si potrebbe innestare solo sul dogma della reviviscenza e non su quello della pendenza, si sarebbe passati dalla teoria della pendenza alla teoria dell’estinzione: il captivus perderebbe i suoi diritti al momento della cattura, ma tornando in patria li recupererebbe con effetto retroattivo, perché si fingerebbe che sia stato sempre cittadino. La teoria del Solazzi non sembra, comunque, accolta dalla dottrina successiva: per il Guarneri-Citati, Reviviscenza e quiescenza nel diritto romano, cit., 19 ss., tutto l’indirizzo del diritto giustinianeo contrasta con la tesi del Solazzi che presupporrebbe uno strano ritorno all’antico; nel diritto della Compilazione, per il quale la prigionia non scioglie più neanche il matrimonio, non potrebbe che valere il principio della pendenza.

 

[40] D. 49.15.16 (Ulpianus l. 13 ad Sabinum): Retro creditur in civitate fuisse, qui ab hostibus advenit, D. 49.15.5.1 (Pomponius l. 37 ad Quintum Mucium): …nam si eodem bello is reversus fuerit, postliminium habet, id est perinde omnia restituuntur ei iura, ac si captus ab hostibus non esset, D. 49.15.12.6 (Tryphoninus l. 4 disputationum): Cetera quae in iure sunt, posteaquam postliminio redit, pro eo habentur, ac si numquam iste hostium potitus fuisset.

 

[41] Albanese, Le persone, cit., 36 nt. 79.

 

[42] Sui problemi relativi al matrimonio del captivus si vedano Volterra, La conception du mariage d’aprés les juristes romains, Padova, 1940; Id., Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano, Roma, 1961; Id., Iniustum matrimonium, in Studi Scherillo, 2, Milano, 1972, 441 ss., ora in Scritti giuridici, 3, Napoli, 1991, 177 ss.; Id., voce Matrimonio (dir. rom.), in EdD, 25, 1975, 726 ss.; Id., Precisazioni in tema di matrimonio classico, in BIDR, 78, 1975, 245 ss., ora in Scritti giuridici, 3, cit., 360 ss.; Rasi, Consensus facit nuptias, Milano, 1946; Di Marzo, Dirimitur matrimonium captivitate, in Studi Solazzi, Napoli, 1948, 1 ss.; Orestano, La struttura giuridica del matrimonio romano dal diritto classico al diritto giustinianeo, Milano, 1951; G. Longo, Il requisito della convivenza nella nozione romana di matrimonio, in AUMA, 19, 1955, 270 ss.; Id., Postille critiche in tema di captivitas, cit., 29 ss.; Id., Ancora sul matrimonio romano, in SDHI, 43, 1977, 459 ss.; Id., Riflessioni critiche in tema di matrimonio, in Sodalitas. Scritti Guarino, 5, Napoli, 1984, 2357 ss.; Arias Bonet, En torno a la no reintegracion iure postliminii del matrimonio romano, in AHDE, 25, 1955, 567 ss.; Watson, Captivitas and Matrimonium, in TR, 29, 1961, 247 ss.; Robleda, El matrimonio en derecho romano. Esencia, requisitos de validez, efectos, disolubilidad, Roma, 1970, Id., Sobre el matrimonio en derecho romano, in SDHI, 37, 1971, 344 ss., Id., Matrimonio inexisente o nulo en derecho romano, in Studi Donatuti, 3, Milano, 1973, 1131 ss.; Di Salvo, Matrimonio e diritto romano, in Index, 2, 1971, 376 ss.; Huber, Der Ehekonsens im römischen Recht, Roma, 1977; Urso, Il matrimonio, cit., 85 ss. Per quanto riguarda il matrimonio del captivus in epoca giustinianea si veda Vannucchi Forzieri, Captivitas e matrimonium in Leone Magno (Ep. 159) e in Giustiniano (Nov. 22.7), in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, VII Convegno Internazionale, 1988, 393 ss., e bibliografia ivi citata.

 

[43] In questo senso, tra gli altri, Rasi, Consensus facit nuptias, cit., 112 ss.; Orestano, La struttura, cit., 119 ss.; Amirante, Captivitas e postliminium, cit., 150. Per altri Autori, tra cui il Mitteis, Römische Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, 1, Leipzig, 1908 e il Levy, Verschollenheit und Ehe in Antiken Rechten, in Gedächtnisschrift für E. Seckel, Berlin, 1927, 145 ss., in part. 149, ora in Gesammelte Schriften, 2, cit., 46 ss., la cui teoria appare oggi abbandonata, motivo dello scioglimento del matrimonio sarebbe, invece, l’impossibilità della convivenza. Secondo D’Amati, Civis, cit., 135, alcuni Autori hanno tentato di conciliare i due opposti orientamenti.

 

[44] Il Corbett, The Roman Law of Marriage, Oxford, 1930, 213, afferma che da D. 49.15.14.1 si ricaverebbe che l’operatività del postliminium sarebbe soggetta alla condizione del consenso dell’altro coniuge.

 

[45] Osservava l’Albertario, Di alcuni riferimenti al matrimonio e al possesso in Sant’Agostino, in Studi, I, Milano, 1933, 231 ss., in part. 239, che l’insegnamento di Paolo dirimitur matrimonium … captivitate sarebbe nella legislazione giustinianea un «inerte residuo storico».

 

[46] Si può ricordare che il Kreller, Die Ehe des römischen Kriegsgefangenen, in Juristischen Blätter, 70, 1948, 284 e ivi nt. 3, aveva proposto di sostituire contingente servitute con capitis deminutione.

 

[47] D. 49.15.12.4 è stato considerato dalla maggior parte degli Autori interpolato nel maxime (Bonfante, Corso, 1, Roma, 1925, 241 nt. 1) o nel maxime velit et (Solazzi, Il concetto, cit., 350 s.). G. Longo, Il requisito della convivenza, cit., 270 ss.; Id., Postille critiche, cit., 29 ss., osserva che con le parole tametsi maxime velit et in domo eius sit, i giustinianei hanno inteso utilizzare un punto del commento di Trifonino per sottolineare l’autonoma importanza dell’elemento spirituale nella società coniugale e che non si può argomentare dal passo circa la configurazione del consenso matrimoniale in diritto classico, anche perché non vi si parla di rinnovata prestazione del consenso. Per l’Orestano, La struttura, cit., 119 e ivi nt. 334, il maxime non va riferito solo al velit ma anche al fatto che la donna si trova nella casa del marito; il passo, a suo avviso, non è interpolato perché, se i giustinianei fossero intervenuti su di esso, l’avrebbero piuttosto dovuto eliminare, rappresentando nella compilazione uno stato di diritto ormai superato, in quanto nel diritto giustinianeo la captivitas non produrrebbe più lo scioglimento del matrimonio. Anche per il Watson, Captivitas, cit., 243, è poco probabile che il passo sia stato interpolato, dato che Giustiniano favorirebbe la sopravvivenza del matrimonio.

 

[48] Il Rasi, Consensus, cit., 113, osservava che se il coniuge rimasto in patria avesse continuato a sentirsi sposato, sebbene dal punto di vista giuridico non sussistesse un vincolo matrimoniale, non perdeva la qualità di sposo con tutti i diritti e doveri inerenti, in quanto avrebbe mantenuto volontariamente la spes postliminii: la donna sarebbe stata ancora uxor, naturalmente si velit, pur non essendo in matrimonio. Per l’Orestano, La struttura, cit., 146, non si deve, però, confondere la volontà «quale fatto psichico» con la volontà giuridica: se nel captivus può continuare ad esistere la volontà come fatto psichico, questa volontà non sarebbe produttiva di effetti in quanto mancherebbe la capacità giuridica. A mantenere in vita il rapporto coniugale non bastava la volontà di una sola delle parti, nel nostro caso la moglie, ma occorreva la volontà perdurante di entrambe, e quella del marito non era più una «volontà giuridicamente efficiente».

 

[49] L’Orestano, La struttura, cit., 119 s., ritiene che qualche giurista «in vena di far salvo il matrimonio del captivus» avesse cercato di attribuire valore alla permanenza della donna nella casa maritale, ipotesi contro la quale si sarebbe schierato Trifonino; l’Urso, Il matrimonio, cit., 88, osserva che Trifonino ha voluto sottolineare con forza lo scioglimento del matrimonio, forse contro qualche giurista innovatore. «Cominciava forse già ad avvertirsi», osserva l’Autore, «come un fatto strano da parte di qualche giurista, animato da quella humanitas che caratterizzerà successivamente la legislazione giustinianea, che il matrimonio dovesse sciogliersi ipso iure in seguito alla captivitas, e avrà azzardato la sussistenza del matrimonio quando la moglie non voleva rompere il suo matrimonio e dimostrava esternamente questa sua decisa volontà rimanendo nella casa del marito». Anche la D’Amati, Civis captus, cit., 124 s., ritiene si possa ipotizzare con un certo margine di verosimiglianza l’esistenza di un orientamento – o meglio di un tentativo meno riuscito di qualche altro giurista – in direzione opposta, e la provenienza da un’opera di carattere problematico come i libri disputationum potrebbe confermare il sospetto. Se Trifonino esclude l’esistenza di un matrimonio legittimo, non esclude, comunque, per l’Autrice, ogni rilevanza del rapporto, perché la donna è chiamata uxor, indizio del fatto che «continui ad essere considerata moglie (sebbene iniusta)».

 

[50] Pugliese-Sitzia-Vacca, Istituzioni di diritto romano3, Torino, 1991, 392.

 

[51] D. 23.1.8 (Gaius l. 11 ad edictum provinciale): Furor quin sponsalibus impedimento sit, plus quam manifestum est: sed postea interveniens sponsalia non infirmat, D. 23.2.16.2 (Paulus l. 35 ad edictum): Furor contrahi matrimonium non sinit, quia consensu opus est, sed recte contractum non impedit, D. 25.7.2 (Paulus l. 12 ad legem Iuliam et Papiam): Si patronus libertam concubinam habens furere coeperit, in concubinatu eam esse humanius dicitur, Paul. 2.19.7: Neque furiosus neque furiosa matrimonium contrahere possunt: sed contractum matrimonium furore non tollitur.  

 

[52] Per alcuni Autori, tra cui l’Huber, dal fatto che il matrimonio del furiosus continui dopo l’intervenuta pazzia, nonostante egli sia carente di una cosciente volontà, si potrebbe ricavare che non sempre si esigeva il consenso continuato; per altri, non potendo il furiosus maturare la volontà di sciogliere il matrimonio proprio a causa della pazzia e non potendo esternare tale mutamento di volontà, sarebbe comprensibile che il matrimonio continui, purché, chiaramente, esista la volontà dell’altro coniuge in tal senso. Per il Robleda, Il matrimonio, cit., 134 ss., la demenza non scioglie il matrimonio perché la dissoluzione «exige un acto positivo contrario, el divorcio»; il demente non potrebbe inviare il ripudio, e quindi non potrebbe divorziare. Il Volterra, Precisazioni in tema di matrimonio classico, cit., 254 ss., osservava che, malgrado la demenza di uno dei coniugi, se dal comportamento dell’altro risultava la persistenza della volontà di rimanere uniti in matrimonio, il vincolo coniugale continuava, poiché sussisteva, contrariamente al caso del prigioniero di guerra, il conubium. G. Longo, Ancora sul matrimonio romano, cit., 459 ss., ritiene che nulla autorizzi a ritenere che la volontà del demente di rimanere unito in matrimonio fosse venuto meno.

 

[53] Per il Diliberto, Studi sulle origini della cura furiosi, Napoli, 1984, 103 ss., il furiosus si troverebbe, come il captus ab hostibus, in uno stato di incertezza, determinato dalla possibilità che si verifichi un determinato evento: la guarigione per il furiosus, il ritorno in patria per il captivus. Gli stessi giuristi, d’altra parte, osserva l’Autore, evidenziano l’analogia tra la situazione del pater furens e quello captus ab hostibus in D. 23.4.8 (Paulus l. 7 ad Sabinum): Quotiens patre furente vel ab hostibus capto filius familias ducit uxorem filiaque familias nubit, necessario etiam pactio cum ipsis dumtaxat dotis nomine fieri poterit. Si può pensare, per il Diliberto, che il diritto romano, avendo sin da età risalenti approntato meccanismi giuridici correttivi della situazione del captivus, abbia approntato anche dei meccanismi che consentissero al pater furiosus una reintegrazione sostanziale nei propri diritti, ove fosse risanato, almeno nella misura in cui la stessa reintegrazione spettava al captivus. La pazzia del furiosus sarebbe stata, infatti, guaribile: da D. 27.10.1pr. (Ulpianus l. 1 ad Sabinum) risulta che se il furiosus fosse guarito, sarebbe cessata la potestas su di lui e si sarebbe avuta reviviscenza dei suoi diritti: et tamdiu erunt ambo in curatione, quamdiu vel furiosus sanitatem vel ille (prodigus) sanos mores receperit: quod si evenerit, ipso iure desinunt esse in potestate curatorum. Anche il Guarino, Furiosus e prodigus nelle XII Tavole, in AUCT, 3, 1949, 194 ss., ora in Pagine di diritto romano, 4, Napoli, 1994, 154 ss., richiamava la sostanziale analogia tra il caso del furiosus e quello del captus ab hostibus, ma in senso opposto: il pater, divenendo furiosus, andava incontro alla morte civile, così come il captivus. Il Guarino ritiene, infatti, che la pazzia del furiosus lo rendesse privo della soggettività giuridica, in quanto in età arcaica veniva reputato furiosus solo chi fosse affetto da pazzia grave ed evidente, quindi praticamente inguaribile e definitiva. Non sarebbe stata prevista la possibilità pratica di una guarigione del furor, e relativamente alla familia furiosi si sarebbe aperta la normale successione ab intestato dei sui heredes, mentre la cura degli adgnati e dei gentiles si sarebbe esercitata solo sulla pecunia. Il Volterra, Precisazioni in tema di matrimonio classico, cit., 245 ss., distingueva, invece, tra furiosus e mentecaptus: il furiosus, a differenza del mentecaptus, non sarebbe stato affetto da un male inguaribile, ma solo temporaneo.

 

 

[54] Si deve notare, peraltro, che il Guarino, Furiosus e prodigus, cit., 154 ss., ritiene che il pater furiosus fosse considerato alla stregua del pater defunto o capite deminutus, e pertanto privato anche della capacità giuridica, tanto che si apriva la successione dei sui heredes sulla familia, e veniva nominato il curatore solo per quanto riguarda la pecunia. Non sarebbe stata, infatti, ancora delineata, in epoca decemvirale, la distinzione tra capacità di agire e capacità di diritti e il furiosus, incapace di agire, sarebbe stato, di conseguenza, ritenuto privo della soggettività giuridica.

 

[55] Per motivi di benignitas si concede anche il postliminio al figlio concepito da una statulibera presso i nemici e nato dopo che si è avverata la condizione che, se fosse stata in patria, le avrebbe dato la libertà, D. 40.7.6.1/2 (Ulpianus l. 27 ad Sabinum): Plane si apud hostes eum concepisset et post existentem condicionem edidisset, benignius dicetur competere ei postliminium et liberum eum esse. Il Palma, Benignior interpretatio, Torino, 1997, 5, ritiene che la benignitas, l’humanitas, la caritas costituiscano uno degli standard valutativi utilizzati dai giuristi, a partire dall’età adrianea, di riscrittura, in chiave equitativa, degli istituti di ius civile, più precisamente, valori giuridici adottati dall’interprete nella giustificazione di decisioni non coerenti con l’apparato consolidato delle rationes esistenti. Si veda anche Wubbe, Benignus redivivus, in Symbolae iuridicae et historicae Martino David dedicatae, Leiden, 1968, 237 ss.; Id., Benigna interpretatio als Entscheidungskriterium, in Festgabe Herdlitzka, München-Salzburg, 1975, 295 ss.

 

[56] Per motivi di humanitas si concede la restituzione della dote promessa con una stipulatio nel caso di cessazione del matrimonio nel caso la donna sia stata catturata dai nemici in D. 24.3.56 (Paulus l. 6 ad Plautium): Si quis sic stipuletur a marito: si quo casu Titia tibi nupta esse desierit, dotem dabis? hac generali commemoratione et ab hostibus capta ea committetur stipulatio vel etiam si deportata fuerit vel ancilla effecta: hac enim conceptione omnes hi casus continentur. plane quantum veniat in stipulatione, utrum quasi mortua sit an quasi divortium fecerit? humanius quis id competere dixerit, quod propter mortem convenit. In caso di donazioni effettuate da un coniuge in seguito catturato e morto in prigionia all’altro coniuge, Giustiniano sembra far salve le donazioni per ragioni di humanitas, in C. 5.16.27 (Imp. Iustinianus A. Iohanni pp.): Si unus ex his, qui matrimonio fuerant copulati, in alium donatione facta ab hostibus captus est et in servitutem deductus, et postea ibi morte peremptus, quaerebatur, an huiusmodi liberalitas, quam antea fecit, ex hoc roborari videtur an vacillare: et iterum si donator quidem in civitate Romana constitutus decesserit, mortis autem eius tempore is qui donationem accepit in captivitate degebat et postea reversus est, an videtur et tunc donatio rata haberi. Cum itaque in utroque casu oportet augusto remedio causam dirimi, cum nihil aliud tam peculiare est imperiali maiestati quam humanitas, per quam solam dei servatur imitatio, in ambobus casibus donationem firmam esse censemus (a. 530). Si veda Wubbe, L’humanitas di Justinien, in TR, 58, 1990, 249 ss. Il Crifò, A proposito di humanitas, in Ars boni et aequi, cit., 79 ss. (si veda anche Diritti della personalità e diritto romano cristiano, in BIDR, 3, 1961, 33 ss.) ritiene che nell’humanitas sia senza dubbio possibile riconoscere «lo stesso valore e la stessa funzione espressi dall’aequitas». L’Autore, ricordando l’affermazione del Biondi, Diritto romano cristiano, 2, Milano, 1952, secondo il quale mentre per i i giuristi classici l’humanitas sarebbe solo uno dei motivi, per i postclassici e i giustinianei sarebbe, invece, il motivo generale e prevalente, non ritiene provata l’idea, «certo allettante e possibile», che sia da cogliere un’accentuazione cristiana nelle decisioni giustinianee nelle quali si parla di humanitas senza esplicite indicazioni religiose. Ancora più dubbia sarebbe una caratterizzazione generale di humanitas in tal senso per l’età pregiustinianea.

 

[57] L’accusatio iure mariti vel patris (o iure viri), come è noto, è concessa solo in caso di adulterium, cioè di relazione extraconiugale di una donna unita in iustae nuptiae; il marito e il padre della sospetta adultera possono accusare entro 60 giorni dall’avvenuto divorzio. Decorso inutilmente tale termine, l’accusa diventa accessibile a tutti, compresi il marito e il padre che non abbiano accusato nello spazio di tempo riservatogli, con l’accusatio iure extranei, che può essere intentata, secondo la dottrina dominante, sia per l’adulterium, sia per lo stuprum, cioè qualsiasi relazione sessuale commessa con una virgo, una vidua, un puer. In seguito, con una costituzione di Costantino, C. 9.9.29 (C.Th. 9.7.2) si sovvertì il sistema della lex Iulia: mentre questa concedeva a chiunque, se non veniva esperita nel tempo previsto l’accusa privilegiata, di accusare i colpevoli con l’accusatio iure extranei, Costantino praticamente abolì quest’ultima, concedendola ai soli parenti prossimi. Si veda a tal proposito Venturini, Accusatio adulterii e politica costantiniana, in SDHI, 54, 1988, 66 ss.

 

[58] La lex Iulia de adulteriis coercendis, proposta da Augusto verosimilmente intorno al 18 a.C., mirava a ripristinare la castità dei costumi, pertanto puniva come crimen non solo l’adulterium propriamente detto, cioè quello della donna sposata, ma anche lo stuprum, qualsiasi relazione sessuale con donne nubili o vedove di onorata condizione sociale, che non fossero cioè prostitute, mezzane, libertine, attrici. Secondo il Chiazzese, voce Adulterio (dir. rom.), in NNDI, 1, Torino, 1957, 322 s., proprio per questo motivo sia nel testo della lex Iulia che nei commenti della giurisprudenza classica i termini stuprum e adulterium si troverebbero promiscuamente adoperati. Così Papiniano in D. 48.5.6.1 (l. 1 de adulteriis): Lex stuprum et adulterium promiscue et katacrhstikw@teron appellat, pur precisando che proprie adulterium in nupta committitur, propter partum ex altero conceptum composito nomine: stuprum vero in virginem viduamve committitur, quod Graeci fqora#n appellant. Anche Modestino in D. 50.16.101pr. (l. 9 differentiarum) afferma che nella lex Iulia adulterium e stuprum vengono utilizzati indifferenter: Inter stuprum et adulterium hoc interesse quidam putant, quod adulterium in nuptam, stuprum in viduam committitur. sed lex Iulia de adulteriis hoc verbo indifferenter utitur.

 

[59] Per il Volterra, In tema di accusatio adulterii, in Studi Bonfante, 2, Milano, 1930, 111 ss., in part. 124 nt. 20, il matrimonio era stato ricostituito una volta tornata la donna in patria.

 

[60] Così il Ratti, Studi, cit., 154 s., il quale afferma che nel diritto classico, essendo la prigioniera schiava, non avrebbe potuto commettere adulterio, mentre nel diritto giustinianeo, non provocando più la prigionia né schiavitù né scioglimento del matrimonio, l’adulterio sarebbe stato possibile; il Volterra, Per la storia dell’accusatio adulterii iure mariti vel patris, in Studi Cagliari, 17, 1928, 1 ss., ora in Scritti giuridici, 1, Napoli, 1991, 219 ss.; In tema di accusatio, cit., 122 ss., il quale osserva che l’interpolazione risulta chiara: le gravi contraddizioni, la forma slegata, alcune espressioni come benignius, propria dei bizantini per mutare radicalmente o attenuare una norma classica, mostrerebbero che il passo doveva non concedere ma negare l’accusatio iure viri: non posse eum accusare iure viri, sed iure extranei. Il D’Ercole, Il consenso degli sposi e la perpetuità del matrimonio nel diritto romano e nei Padri della Chiesa, in SDHI, 5, 1939, 18 ss., in part. 36, considera naturale che Giustiniano riconoscesse nel marito il diritto di accusa contro la moglie infedele durante la captivitas, ritenendo non interrotto il matrimonio. L’Urso, Il matrimonio, cit., 124, osserva che se in diritto giustinianeo è punibile il coniuge che, al ritorno del captivus, non vuole ripristinare il matrimonio, non può stupire che sia anche punibile il coniuge prigioniero che ha commesso adulterio durante la prigionia, offrendo così una giusta ragione all’altro coniuge per opporsi alla ricostituzione del vincolo coniugale. La stessa opinione era stata già espressa dal Watson, Captivitas, cit., 256 s. 

 

[61] Il Bandini, Appunti in tema di adulterio, in Studi Ratti, Milano, 1930, 499 ss., proponeva di aggiungere ille prima di apud hostes esset e non prima di iure viri, ritenendo che fosse il marito a trovarsi presso i nemici e che, una volta rientrato a Roma, potesse esercitare l’accusatio iure extranei per stuprum, e non per adulterio. Mentre l’ipotesi che il marito potesse agire non iure viri ma iure extranei era stata avanzata già dal Volterra, quella che a trovarsi presso i nemici fosse il marito e non la moglie rappresenta una novità, riproposta poi, più di recente, dalla De Pascale, Ulpiano equivocato, in Labeo, 42, 1996, 411 ss., la quale ritiene non sia necessario aggiungere ille per specificare che si tratta di captivitas del marito, dal momento che, a suo avviso, il testo renderebbe bene quest’idea anche nella stesura del Digesto. Il Thomas, Accusatio adulterii, in Iura, 12, 1961, 65 ss., in part. 75 ss., proponeva, poi, una modifica del testo nel senso che entrambi i coniugi fossero captivi (cum apud hostes essent).

 

[62] Il Rasi, Consensus, cit., 114 s., osserva che, accogliendo l’ipotesi del Bandini, il passo non affermerebbe nulla di speciale e sarebbe ozioso, in quanto l’accusatio iure extranei spetta a tutti, compresi gli ex mariti, sempre ammesso che il captivus, in quanto schiavo, possa esercitarla. Ma, in ogni caso, se la moglie rimasta in patria congiungendosi con un altro uomo commettesse adulterio, ciò significherebbe che il matrimonio non è stato sciolto. Anche l’ipotesi del Volterra che corregge “non posse eum accusare iure viri”, renderebbe superfluo il passo, che invece, letto serenamente, risulterebbe chiaro: la moglie caduta in captivitate, «per il gioco della spes postliminii, che può essere messa in movimento dal marito rimasto», sebbene il matrimonio giuridicamente non esista, deve rispettare il marito lontano, tanto che a questo si concede benignius l’accusatio iure mariti, sebbene in realtà il vincolo matrimoniale non sussista; si tratterebbe, però, in questo caso, di un diritto e non di un obbligo. 

 

[63] Ankum, La captiva adultera. Problèmes concernent l’accusatio adulterii en droit romain classique, in RIDA, 32, 1985, 153 ss., in part. 190 ss., il quale ritiene che il nostro passo rappresenti un’eccezione alla regola dello scioglimento ipso iure del matrimonio del captivus in epoca classica, così come D. 24.3.10pr. (Pomponius l. 15 ad Sabinum): Si ab hostibus capta filia, quae nupta erat et dotem a patre profectam habebat, ibi decesserit, puto dicendum perinde observanda omnia, ac si nupta decessisset, ut, etiamsi in potestate non fuerit patris, dos ab eo profecta reverti ad eum debeat, e C. 5.18.5 (Impp.Valerianus et Galienus AA. et Valerianus C. Tauro): Si quidem vivit apud hostes uxor tua, nondum frater eius quasi heres dotem repetere potest. si vero diem functa est et hereditatem eius possit vindicare, dotis quoque repetitio ei iure competit, cum in stipulatum deducta sit (a. 259). Per quanto riguarda le presunte interpolazioni del nostro passo, l’Autore osserva che se il passo è difficile da spiegare per il diritto classico, lo è altrettanto per il diritto giustinianeo, in quanto anche in tale epoca, a suo avviso, il matrimonio non continuava durante la prigionia, e respinge decisamente l’ipotesi che si parli di accusatio iure extranei, perché non sarebbero, allora, giustificati né il plane né il benignius. Alcuni giuristi classici, conclude l’Ankum, «ont donné pour des problèmes juridiques précis certains effets à un mariage d’une personne qui est devenue captive, non seulement quand cette personne meurt en captivité, mais aussi quand elle revient à Rome et continue le mariage avec l’époux resté à Rome».

 

[64] Il Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce, 1997, 206 ss., ritiene che la repressione del comportamento della donna avvenga a titolo di adulterium, perché non sarebbe immaginabile un’accusatio iure mariti per il crimen stupri.

 

[65] Il Palma, Benignior interpretatio, cit., 127 ss., ritiene che la genuinità del passo si deduca dalla circostanza che nei §§ 6 e 8 dello stesso frammento Ulpiano discorra di nozze, concubinato, accusatio iure extranei, mentre nel 7, in comparazione, si conceda benignius l’accusatio iure mariti; dall’uso del plane, solido indizio testuale, a suo avviso, di genuinità, utilizzato proprio per introdurre l’opposizione; dall’attestazione nelle fonti di altre eccezioni al principio della dissoluzione del matrimonio del captivus, come D. 24.3.10pr., considerato un’eccezione anche dall’Ankum (vd. nt. 68).

 

[66] Come è noto, la lex Iulia non si applicava in caso di relazioni sessuali con schiave. Si veda D. 48.5.6pr. (Papinianus lib. 1 de adulteriis): Inter liberas tantum personas adulterium stuprumve passas lex Iulia locum habet. quod autem ad servas pertinet, et legis Aquiliae actio facile tenebit et iniuriarum quoque competit nec erit deneganda praetoria quoque actio de servo corrupto.

 

[67] Volterra, Per la storia dell’accusatio adulterii, cit., 7-8 e nt. 1.

 

[68] Mentre il Volterra, Per la storia dell’accusatio adulterii, cit., 221 nt. 2, aveva sostenuto che, pur essendo i due termini stuprum e adulterium nella lex Iulia interscambiabili per via dell’ampia nozione sia dell’uno che dell’altro, adulterium «tenendosi al significato rigoroso della parola» dovrebbe designare unicamente il rapporto extramatrimoniale di una donna unita in iustae nuptiae, il Rizzelli, sostiene, invece, che vi siano ipotesi in cui è ammessa, o perlomeno ventilata, la possibilità di accusare iure extranei non a titolo di stuprum ma di adulterium l’infedeltà femminile all’interno di unioni diverse dalle iustae nuptiae ma essenzialmente monogamiche e stabili o avviate a divenire iustae nuptiae (Coll. 4.5.1, D. 48.5.12.7, D. 48.5.14.3,4,6,7). Si sarebbe avuta, secondo il Rizzelli, una dilatazione della nozione di unione rilevante per la repressione dell’infedeltà coniugale femminile, «non più coincidente con le iustae nuptiae, sino a ricomprendere rapporti eterosessuali, monogamici e tendenzialmente stabili, ma non configuranti iusta matrimonia». Da una serie di passi si ricaverebbe che talvolta «contro il rapporto extraconiugale della donna sposata, se il matrimonio sia iniustum, benchè non venga concessa l’accusa privilegiata, è data però quella extranei», anche se in nessun testo si dice che ciò è stato previsto dalla lex Iulia (D. 48.5.14.1). L’Autore parla di matrimonium iniustum, ma, come è noto, su tale nozione esistono in dottrina opinioni differenti: il Watson, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford, 1967, 27, considera iniustum il matrimonio fra persone che non hanno il conubium, il Volterra, Iniustum matrimonium, cit., 441 ss., pone, invece, in evidenza che o il matrimonium è iustum, perché si possiedono i requisiti (conubium, età, consenso del pater in caso di filii alieni iuris) oppure non esiste. Può anche essere usata l’espressione in matrimonio habere, come in Coll. 4.5, o uxorem ducere come in D. 48.5.30.1, ma il matrimonio sarà legittimo solo se si possiedono i requisiti. Per il Pugliese, Istituzioni, cit., 394, iustum matrimonium è un matrimonio conforme al ius, e non sarebbe conforme al ius se fosse mancato uno dei presupposti richiesti dal diritto, cioè la pubertà, la sanità mentale, il conubium. Più di recente la Baquero, Repudium-divortium. Orien y configuración juriídica hasta la legislaciíon matrimonial de Augusto, Granada, 1987, 52, afferma che sebbene non esistessero cerimonie religiose, il matrimonio era sempre iustum quando la donna «fuese honorable, o bien no existiese ningún impedimento legal para el mismo, come podía ser la prohibición del ius conubii, entre ellos». Per il Rizzelli, Lex Iulia, cit., 190 nt. 82, invece, «il matrimonio invalido perché contratto fra persone di diversa cittadinanza è quello che rappresenta meglio, per così dire, la categoria dei matrimonia iniusta».

 

[69] Per il Guarino, Studi sull’incestum, in ZSS, 63, 1943, 175 ss., la lex Iulia de adulteriis previde, accanto alle fattispecie dell’adulterium e dello stuprum, anche quella dell’incestum, cioè, a parte il caso della vestale, ogni unione sessuale fra persone legate da stretti vincoli di parentela o affinità: il matrimonio incestuoso non è matrimonio, è giuridicamente inesistente e altro non sarebbe se non una species del genus stuprum, qualificato dal fatto che gli agenti non possono, anche volendo, entrare in rapporti matrimoniali o di concubinato.

 

[70] Il Volterra non manca, comunque, di rilevare che non si segue alla lettera il principio classico dell’equiparazione del captivus al servus, perché la captiva, schiava, non potrebbe commettere né adulterio né stupro, ma tale equiparazione, osserva l’Autore, non è spinta in diritto romano fino alle ultime conseguenze, né si può escludere che la norma rappresenti una di quelle interpretazioni benigne della giurisprudenza in tema di accusatio adulterii, come quella presente nel § 2 dello stesso passo: Sed et in ea uxore potest maritus adulterium vindicare, quae volgaris fuerit, quamvis, si vidua esset, impune in ea stuprum committeretur.

 

[71] Rizzelli, Alcuni aspetti dell’accusa privilegiata in materia di adulterio, in BIDR, 89, 1986, 411 ss., in part, 425 ss.

 

[72] L’Autore osserva che nel testo si prendeva, forse, in esame uno specifico caso concreto, dal quale si sarebbe tratta una regola di carattere generale; ci si può, pertanto, domandare se la donna del cui adulterium si discute non si sia per caso trovata presso i nemici in condizione di ostaggio, e dunque di persona libera. Un eventuale rapporto extraconiugale, data la particolare situazione che ne costituirebbe il contesto, non sarebbe stato ritenuto perseguibile agevolmente, e sarebbe, pertanto, comprensibile il benignius. A me pare che se la donna non fosse stata schiava dei nemici, ma ostaggio, il marito avrebbe potuto esercitare a pieno titolo l’accusatio iure viri, senza necessità del benignius, anche perché si specifica che se alla donna è stata usata violenza l’accusatio non è possibile.

 

[73] Il Rizzelli sostiene, contrariamente al Volterra, che in questi casi venga concessa l’accusatio iure extranei non per stupro, ma per adulterio.

 

[74] Si vedano Coll. 4.6: In uxorem adulterium vindicatur iure mariti, non etiam sponsam. Severus quoque et Antoninus ita rescripserunt, D. 48.5.14.3 (Ulpianus l. 2 de adulteriis): Divi Severus et Antoninus rescripserunt etiam in sponsa hoc idem vindicandum, quia neque matrimonium qualecumque nec spem matrimonii violare permittitur, C. 9.9.7pr. (Imp. Alexander A. Herculano): Propter violatam virginem adultam qui postea maritus esse coepit accusator iustus non est et ideo iure mariti crimen exercere non potest, nisi puella violata sponsa eius fuerit (a. 223). Il Volterra, In tema di accusatio, cit., 112 ss., osserva che nel diritto della compilazione la differenza fra accusatio iure mariti e accusatio iure extranei è notevolmente attenuata e la violazione degli sponsali è avvicinata a quella del matrimonio. 

 

[75] In ogni caso, si tratta di un’applicazione della benignitas piuttosto svantaggiosa per la donna. Il Biondi, Il diritto romano cristiano, II, cit., 243; III, Milano, 1954, 157 (si veda anche La pena adulterii da Augusto a Giustiniano, in Studi Sassari, 16, 1938, 63 ss., ora in Scritti, 2, Milano, 1965, 47 ss.) osservava che se la decisione è motivata con ragioni di benignitas, ciò deriverebbe dalla considerazione che tale accusatio sarebbe più favorevole per la donna, nel senso che non verrebbe considerata schiava, e quindi capace. Tale ultima considerazione mi sembra difficilmente condivisibile, in quanto la benignitas sembra riferibile al marito: riguardo alla donna, non solo non vi è benignitas, ma vi è un aggravio della sua posizione. In questo senso già il Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit., 210 nt. 139: «la cosa strana è che la decisione, benevola nei confronti dell’uomo, si rivela particolarmente dura nei riguardi della moglie, non considerata schiava e ritenuta dunque capace di adulterio, per quanto, presumibilmente, alla mercè dei nemici». Come visto in precedenza, il Volterra aveva ritenuto che il benignius sia forma propria dei bizantini per mutare radicalmente o attenuare una norma classica. Per il Palma, è benigno il trattamento più favorevole alla pretesa accusatoria del marito, come risvolto di quel favor matrimonii che le leggi matrimoniali augustee avevano inteso assicurare, introducendo le ipotesi criminali dell’adulterium e dello stuprum.  

 

[76] Parla di ripristino del matrimonio iure postliminii con efficacia retroattiva la Vannucchi Forzieri, Captivitas e matrimonium, cit., 401.

 

[77] Il passo pone, indubitabilmente, una serie di problemi, anche per quanto concerne la seconda parte: sed ita demum adulterium maritus vindicabit, si vim hostium passa non est: ceterum quae vim patitur, non est in ea causa, ut adulterii vel stupri damnetur. La donna non potrà essere condannata se le è stata usata violenza, perchè per la punibilità è necessario il suo consenso ai rapporti sessuali, principio che sembra, peraltro, pacifico, visto che già Salvo Giuliano affermava che non si ha adulterio se non è commesso dolo malo, D. 48.5.44 (Gaius libro tertio ad legem duodecim tabularum): …idque Salvius Iulianus respondit, quia adulterium, inquit, sine dolo malo non committitur. Il Volterra, Intorno a D. 48.5.44, in Studi Biondi, 2, Milano, 1965, 123 ss., ritiene che tale passo, per quanto contenuto in un commento alle XII Tavole, debba essere posto in relazione con le disposizioni della lex Iulia de adulteriis, in quanto il problema posto da Gaio e Giuliano, cioè se l’uomo che si unisce in matrimonio con una donna non divorziata secondo le debite forme sia o meno da considerare adultero, postula che chi sia ritenuto tale venga sottoposto a pena dal magistrato, il che non era possibile al tempo delle XII Tavole, in quanto prima della lex Iulia l’adulterio non era considerato un crimen. Inoltre, secondo l’Autore, D. 48.5.13 (Ulpianus l. 1 de adulteriis) testimonia che il dolus malus come elemento essenziale dell’adulterio era menzionato nel testo della lex Iulia: Haec verba legis ne quis posthac stuprum adulterium facito sciens dolo malo et ad eum, qui suasit, et ad eum, qui stuprum vel adulterium intulit, pertinent. Il Botta, Per vim inferre. Studi su stuprum violento e raptus nel diritto romano e bizantino, Cagliari, 2004, 45 ss., osserva che l’espressione non est in ea causa ut adulterii vel stupri damnetur è da interpretare nel senso che la donna violentata non è punibile per adulterio o per stupro, non che nei suoi confronti sia inammissibile l’accusa. Per la De Pascale, Ulpiano equivocato, cit., 411 ss., la quale ritiene che a trovarsi presso i nemici fosse il marito, l’ultima parte di D. 48.5.14.7 sarebbe, invece, stata aggiunta da un glossatore che avrebbe male inteso l’equivoco dettato ulpianeo. La glossa rivela, per l’Autrice, una certa dose di ingenuità, perché è difficile immaginare come un marito possa arguire l’infedeltà della moglie in stato di schiavitù presso gli hostes.

 

[78] Il Volterra, Sul divorzio della liberta, in Studi Riccobono, 3, Palermo, 1936, 201 ss., ritiene che la lex Iulia et Papia contenesse, riguardo al divorzio della liberta, due norme distinte: divortii faciendi potestas libertae quae nupta est patrono ne esto, quamdiu patronus uxorem eam esse volet e invito patrono liberta, quae ei nupta est, alii nubere non potest. La seconda regola non si applicava nel caso di manomissione fideicommissi causa, nel qual caso la liberta avrebbe facoltà di divorziare. Secondo il Volterra, i bizantini avrebbero tentato di fondere le due norme, «cercando di conciliarle con ardite costruzioni».

 

[79] Si veda anche D. 24.2.11 (Ulpianus. l. 3 ad legem Iuliam et Papiam): Quod ait lex: ‘divortii faciendi potestas libertae, quae nupta est patrono, ne esto’, non infectum videtur effecisse divortium, quod iure civili dissolvere solet matrimonium. quare constare matrimonium dicere non possumus, cum sit separatum. denique scribit Iulianus de dote hanc actionem non habere. merito igitur, quamdiu patronus eius eam uxorem suam esse vult, cum nullo alio conubium ei est. nam quia intellexit legis lator facto libertae quasi direptum matrimonium, detraxit ei cum alio conubium. quare cuicumque nupserit, pro non nupta habebitur. Iulianus quidem amplius putat nec in concubinatu eam alterius patroni esse posse, da cui si desumerebbe che la liberta già moglie del patrono, se divorzia contro la sua volontà, perde il conubium e pertanto la possibilità di passare a nuove nozze. Secondo il Solazzi, Studi sul divorzio, in BIDR, 34, 1925, 295 ss., ora in Scritti, 3, Napoli, 1960, 1 ss., in part. 21 ss., sarebbero interpolati i periodi quare constare matrimonium dicere non possumus, cum sit separatum e quare cuicumque nupserit, pro non nupta habebitur, ma soprattutto il quasi direptum. Per l’Autore la regola classica non sarebbe l’indissolubilità del matrimonio della liberta col patrono, ma l’impossibilità per la liberta che ha divorziato invito patrono di avere un altro marito, come proverebbero anche C. 5.5.1 (Imp. Alexander A. Amphigeni): Liberta eademque uxor tua, si a te invito discessit, conubium cum alio non habet, si modo uxorem eam habere velis, e C. 6.3.9 (Imp. Alexander A. Laetorio): Libertae tuae ducendo eam uxorem dignitatem auxisti, et ideo non est cogenda operas tibi praestare, cum possis legis beneficio contentus esse, quod invito te iuste non possit alii nubere (a. 225).

 

[80] Se, però, il patronus fosse caduto in aliam servitutem, il matrimonio sarebbe, invece, sciolto. Per l’Urso, Il matrimonio, cit., 119, Ulpiano osserverebbe che, se il il matrimonio del patrono caduto in un altro tipo di servitù fosse sciolto senza alcun dubbio, non ci sarebbe motivo per cui non dovrebbe essere sciolto nel caso di servitus per captivitas. L’osservazione non sembra condivisibile: la captivitas, sicuramente causa di servitus, anche se si discute se iusta o iniusta, sembra distinta da Ulpiano dalle altre servitutes le quali, contrariamente ad essa, hanno sicuramente l’effetto di sciogliere il matrimonio.

 

[81] Il Mommsen aveva corretto l’et qui Iuliani sententiam probant in sed; per il Bonfante, Corso, 1, cit., 242 e ivi nt. 3, il passo è interpolato, perché il matrimonio ai tempi di Giuliano non perdurava; il Beseler, Miscellanea, cit., 198, aveva ritenuto il testo interpolato da esse proponatur, sostenendo che la frase putat Iulianus durat matrimonium derivi da una falsa interpretazione di D. 24.2.6. Per il Solazzi, Studi, cit., 25 s., che sospetta delle espressioni conubium habere nubendo, propter patroni reverentiam, non si riesce a capire perché la prigionia di chi ha sposato la propria liberta dovrebbe avere effetti diversi rispetto alla prigionia di qualsiasi altro marito; se anche così fosse, in ogni caso, per l’Autore, Giuliano non avrebbe potuto fondare la sua sententia sulla patroni reverentia, termine che sarebbe giustinianeo. Il Solazzi avanza il sospetto che il passo sia stato rimaneggiato da un commentatore precedente a Triboniano, perché già in C. 5.16.27 si pongono dubbii che non avrebbero motivo di essere se la captivitas avesse sciolto il matrimonio: andrebbe, in ogni caso, poi eliminato il periodo certe – esset matrimonium per via del cambiamento di costruzione e perché la distinzione fra captivitas e servitus non sarebbe classica. Per l’Albertario, L’autonomia dell’elemento spirituale nel matrimonio e nel possesso romano-giustinianeo, in Studi, 1, Milano, 1933, 213 ss., in part. 217 s., il testo è interpolato, sia per il procul dubio dopo il certe, che per il riguardo giustinianeo alla patroni reverentia, ma soprattutto per l’et, che logicamente esigerebbe una soluzione opposta a quella che il testo attribuisce a Giuliano. Per il Rasi, Consensus facit nuptias, cit., 112 s., premesso che durante la captivitas il vincolo matrimoniale non esiste, né, trattandosi di un rapporto meramente personale, può gravare sul coniuge rimasto la spes postliminii, questa sorge, invece, nel caso in cui «il vincolo non è solubile»: così nel caso della liberta sarebbe naturale che su di lei gravi tale spes, compendiata nella reverentia patroni, senza che con ciò venga leso qualche suo diritto. L’Autore ritiene, però, che nel passo originale fosse scritto quasi durare… matrimonium perché in realtà il matrimonio sarebbe sciolto per la captivitas ma sulla liberta graverebbe la reverentia ossia la spes postliminii, «che fa quasi perdurare il vincolo». Anche il Cosentini, Studi sui liberti, 1, cit., 247 ss., si sofferma, in particolare, sull’interpolazione del termine reverentia, che è normalmente adoperato nel senso di deferenza e rispetto, doveri di natura morale ma sanzionati dall’accusatio ingrati, mentre nel nostro passo è richiamato indipendentemente dalle conseguenze penali che avrebbe comportato la trasgressione del dovere che essa comportava. L’Astolfi, La lex Iulia et Papia 4, Padova, 1996, 183, osserva che il patronus è invito non solo se contrario al divorzio, ma anche se non vi può consentire: Giuliano equiparerebbe “arditamente” al patronus invitus il patronus captivus, che non può consentire perché non è più soggetto di diritto. Il frammento, tuttavia, sarebbe interpolato perché, se si ammette che eccezionalmente la liberta non avesse il ius conubii, e quindi non potesse contrarre nuove nozze, non si ammette, invece, che continuasse ad essere unita in matrimonio col patrono captivus: da putat enim il testo sarebbe stato aggiunto o modificato dai compilatori. Il Robleda, El matrimonio en derecho romano, cit., 242 nt. 5., osservava, invece, che risulta difficile accettare l’interpolazione del putat enim Iulianus durare eius libertae matrimonium.

 

[82] Volterra, Sulla D. 23.2.45.6, in BIDR, 75, 1972, 319 ss.

 

[83] L’Urso, Il matrimonio, cit., 118, sembra tener conto solo di quanto affermato dal Volterra in Studi sul divorzio della liberta e non nel successivo “Sulla D. 23.2.45.6”.

 

[84] L’espressione habere conubium, che è stata sistematicamente soppressa nei testi dai giustinianei, e che sarebbe presente nel nostro testo per una svista, è sicuro indizio, per l’Autore, della genuinità: Ulpiano non afferma, come farebbe un giurista del VI secolo o uno moderno, che vi è l’impedimento a che la liberta compia un altro matrimonio legittimo, ma afferma che essa non ha più il conubium con persona diversa dal patrono. Il vereor mostrerebbe quanto Ulpiano sentisse le difficoltà del caso, mentre la considerazione quemadmodum haberet, si mortuus esset permetterebbe di congetturare come nel pensiero del giurista alla liberta non sarebbe rimasta altra soluzione che quella di attendere la morte in prigionia del marito, che le avrebbe conservato il conubium, oppure il suo ritorno, con la possibilità da parte di questi di manifestare la volontà di ricostituire il matrimonio oppure quella di non volerla più come moglie, con la conseguenza stabilita dalle leggi augustee di conservarle ugualmente il conubium. Dall’espressione qui Iuliani sententiam probant dicerent non habituram conubium, si ricaverebbe, per l’Autore, non solo che il testo è classico, ma anche che sulla questione non vi era unanimità di consensi, perché per Giuliano il matrimonio della liberta continua ad esistere durante la captivitas propter patroni reverentiam.

 

[85] D. 24.2.6 (Iulianus l. 62 digestorum): Uxores eorum, qui in hostium potestate pervenerunt, possunt videri nuptarum locum retinere eo solo, quod alii temere nubere non possunt. et generaliter definiendum est, donec certum est maritum vivere in captivitate constitutum, nullam habere licentiam uxores eorum migrare ad aliud matrimonium, nisi mallent ipsae mulieres causam repudii praestare. sin autem in incerto est, an vivus apud hostes teneatur vel morte praeventus, tunc, si quinquennium a tempore captivitatis excesserit, licentiam habet mulier ad alias migrare nuptias, ita tamen, ut bona gratia dissolutum videatur pristinum matrimonium et unusquisque suum ius habeat imminutum: eodem iure et in marito in civitate degente et uxore captiva observando. Anche la prima parte del passo, considerata genuina dal Volterra, non si salva, secondo il Di Marzo, Lezioni sul matrimonio romano, Palermo, 1919, 91 ss., da sospetti, in quanto non esprimerebbe né la dottrina secondo la quale la captivitas scioglie il matrimonio, né la teoria opposta, ma tenterebbe quasi un accomodamento affermando che il matrimonio perdura solo in quanto non è lecito alla donna risposarsi senz’altro. I dubbi si sono appuntati, però, in particolare sulla seconda parte, nella quale si afferma che la moglie potrà contrarre un nuovo matrimonio solo dopo un quinquennio dalla cattura, a meno di non voler causam repudii praestare, il che non può non ricordare, pur essendo la Novella posteriore, il disposto di Nov. 22.7. La Novella, come è noto, proibisce al coniuge rimasto in civitate di risposarsi finché è sicura la sopravvivenza dell’altro coniuge in prigionia, stabilendo, in caso contrario, sanzioni di carattere patrimoniale; se, invece, è incerta l’esistenza in vita della persona catturata, la moglie o il marito devono aspettare un quinquennio prima di contrarre un nuovo matrimonio. Parte della dottrina, tra cui il Ratti, l’Albertario e l’Orestano, ritiene che per Giustiniano il captivus non sarebbe più schiavo, non subirebbe alcuna capitis deminutio e proprio per questo il matrimonio non verrebbe più considerato sciolto, e che molti passi del Digesto, tra cui appunto D. 24.2.6, ma anche D. 49.15.8 (Paulus l. 3 ad legem Iuliam et Papiam): Non ut a patre filius, ita uxor a marito iure postliminii recuperari potest, sed tunc, cum et voluerit mulier et adhuc alii post constitutum tempus nupta non est: quod si noluerit nulla causa probabili interveniente, poenis discidii tenebitur, siano stati interpolati in tal senso. In senso contrario si era espresso l’Amirante, ritenendo che D. 24.2.6 e 49.15.8, anche nella redazione giustinianea, considerino sciolto il matrimonio a causa della captivitas e, più di recente, la Vannucchi Forzieri, Captivitas e matrimonium, cit., 397 ss., la quale osserva che per il coniuge che contrae nuove nozze si stabiliscono solo pene di carattere patrimoniale, mentre le disposizioni per il divorzio sine causa sono molto più articolate e rigorose. A me pare che, pur essendo la posizione di Giustiniano diversa rispetto a quella del diritto classico, egli non affermi in alcun testo che il matrimonio del captivus non si scioglie, ma tenti in ogni modo di far sì che, una volta rientrato uno dei coniugi dalla captivitas, sia possibile ricostituire il matrimonio, sempre, naturalmente, con una nuova manifestazione del consenso, come afferma D. 49.15.8: cum et voluerit mulier et adhuc alii post constitutum tempus nupta non est. Si tenta di impedire un nuovo matrimonio del coniuge in civitate, perché, altrimenti, difficilmente si potrà ricostituire il primo.

 

[86] Il Watson, Captivitas, cit., 247 ss., ritiene che il passo nella sostanza sia genuino e che non vi sia alcun cambiamento di stile: certe etc più il congiuntivo può essere una continuazione dell’opinione di Giuliano in un discorso indiretto, o può darsi che Ulpiano esprimesse la sua opinione o la congiunta opinione di se stesso e di Giuliano; nell’uno e nell’altro caso il congiuntivo potrebbe essere spiegato come ancora dipendente da proponatur. Per l’Autore la ragione del conflitto fra Giuliano e Ulpiano si troverebbe in D. 24.2.11pr., già riportato alla nt. 79, dal quale risulterebbe una disputa fra Ulpiano e Giuliano per effetto della lex Iulia et Papia, come mostrato dalle parole Iulianus quidem amplius putat, perchè l’uso enfatico di amplius e quidem assieme mostrerebbe che Ulpiano non condivide il punto di vista rappresentato: se Giuliano rifiuta alla liberta l’actio rei uxoriae la ragione deve essere trovata nella circostanza che considera il matrimonio ancora esistente, e dunque la liberta non può essere la concubina di un altro patrono. Il punto di vista di Ulpiano è per il Watson che il matrimonio sia sciolto ma la liberta non possa risposarsi.

 

[87] Per l’Autore, secondo Giuliano il matrimonio della liberta non si scioglie con la captivitas del marito patrono perché la liberta non ha il potere di porre fine al matrimonio; per Ulpiano, invece, che ritiene che la liberta possa sempre divorziare, non si può dire che il matrimonio debba automaticamente rivivere al ritorno del marito.

 

[88] Urso, Il matrimonio, cit., 118 ss.

 

[89] L’idea che il vereor ne abbia significato positivo non è condivisibile; si veda, a tal proposito, Traina, Bertotti, Sintassi normativa della lingua latina, Teoria, Bologna, 1985, 380 ss.

 

[90] La proibizione di Giuliano di contrarre matrimonio invito patrono si dimostrerebbe, però, inefficace perché il patrono è ormai schiavo e «non ha più una volontà giuridicamente efficiente né per tenere in vita il matrimonio né per proibire il nuovo e poi perché il matrimonio si è sciolto ipso iure». Il testo, dunque, pur con secondarie interpolazioni, sarebbe un’affermazione dello scioglimento del matrimonio della liberta il cui patrono marito è stato captus ab hostibus; non ci sarebbe, d’altra parte, per l’Autore, «motivo di pensare diversamente perché la captivitas è come la morte».

 

[91] Osserva il Volterra, Sulla D. 23.2.45.6, cit., 4379, che il criterio per cui persiste il rapporto giuridico coniugale costituito con la liberta se il patronus non può validamente esprimere la propria volontà affiora anche in D. 25.7.2 (Paulus l. 12 ad legem Iuliam et Papiam): Si patronus libertam concubinam habens furere coeperit, in concubinatu eam esse humanius dicitur. L’avverbio humanius, uno dei motivi per i quali il passo è stato, per l’Autore ingiustamente, sospettato di interpolazione, è «di uso frequente presso gli scrittori classici»; inoltre, osserva il Volterra, non si vede come si possa attribuire il testo ai giustinianei quando non si accorda con la legislazione del VI secolo in materia di concubinato.

 

[92] Anche se sembra eccessivo sostenere che provino, invece, che al ritorno in patria il matrimonio si ricostituiva iure postliminii, come ritengono il Maret, Du Postliminium et de la loi Cornelia, cit., 54 s., il Corbett, Roman Law of Marriage, cit., 213 s., e il Sertorio, Il diritto di postliminio, cit., 62 s. Tale tesi ha da sempre suscitato molte critiche: il Rasi, Consensus, cit., 117 aveva osservato che la patria potestas, «essendo un diritto di carattere quasi reale», risorge ipso iure, mentre per il matrimonio, che è un rapporto eminentemente personale, non basterebbe il ius postliminii, ma occorrerebbe anche il consenso, naturalmente nei casi in cui il matrimonio non è considerato indissolubile o il coniuge rimasto in patria non ha mutato il proprio pensiero; per l’Orestano, La struttura, cit., 120, è proprio la natura del matrimonio che esclude la configurabilità della pendenza, necessaria per il postliminium. Secondo l’Urso, Il matrimonio, cit., 120, non si può applicare il postliminium perché, sciolto il matrimonio per la captivitas di un coniuge, l’altro può risposarsi e non sarebbe giusto che, una volta tornato l’ex coniuge dalla prigionia, debba abbandonare l’attuale coniuge per ridare vita al precedente matrimonio. L’osservazione mi pare non tenga conto del fatto che anche gli Autori che parlano di ricostituzione del matrimonio iure postliminii sostengono che, comunque, tale postliminio possa operare solo in seguito all’esternazione di un nuovo consenso da parte dei coniugi. 

 

[93] Questi passi sono stati da me esaminati, da un differente punto di vista, in Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, Cagliari, 2001, 129 ss.

 

[94] Il passo è stato considerato interpolato in quanto non richiede espressamente, per concedere il postliminio al figlio, il ritorno con i genitori; i giustinianei l’avrebbero modificato in quanto ai loro tempi si sarebbe concesso il postliminio al concepito in captivitate anche in caso di suo ritorno da solo. Si vedano, in tal senso, Ratti, Studi sulla captivitas, cit., 165, Albertario, Conceptus, cit., 22 nt. 3, il quale propone di eliminare dal passo la frase habere enim eum postliminium nulla dubitatio est, Orestano, La struttura, cit., 128 nt. 355, per il quale le parole apud hostes susceptus filius si postliminio redierit, filii iura habet sarebbero una evidente generalizzazione compilatoria, Amirante, Prigionia di guerra, cit., 172 s., G. Longo, Ancora sul matrimonio romano, cit., 467, il quale ritiene, inoltre, che susceptus al posto di conceptus sia bizantino e che nulla dubitatio est sarebbe tipica espressione generalizzante dei giustinianei. Anche lo Stiegler, Et partui postliminium datur, in Ars boni et aequi, Festschrift für W. Waldstein, Stuttgart, 1993, 331 ss., in part. 341, ha avanzato l’ipotesi che il testo sia stato accorciato in maniera significativa e che perciò avrebbe un carattere generalizzante. A me non pare dimostrato che i giustinianei abbiano concesso il postliminio al concepito in captivitate anche in caso di suo ritorno da solo, dal momento che nei Basilici (Bas. 34.1.25 (Scheltema A IV, 1556), Bas. 34.1.21 (Heimbach III, 538)) si parla ancora di figlio concepito e nato apud hostes considerato in potestate patris se torna con entrambi i genitori, spurius se torna solo con la madre e nella Nov. 36 di Leone si dichiara di abrogare C. 8.50.1, concedendo al nato in captivitate di essere erede, nonostante i genitori non siano tornati in patria.

 

[95] D. 49.15.25 non ha posto, invece, alla dottrina problemi di interpolazione in quanto richiede espressamente che il figlio ritorni con entrambi i genitori o perlomeno con la madre. Osservavo in Nuove ricerche, cit., 139, che, come in C. 8.50.1, non si afferma che è concesso il postliminio, ma che si producono gli stessi effetti che si produrrebbero se questo fosse concesso (quemadmodum iure postliminii reversus sit).

 

[96] L’espressione quasi vulgo quaesitus si spiega in quanto nel paragrafo precedente Ulpiano affermava sed et vulgo quaesiti admittuntur ad matris legitimam hereditatem; il giurista sembra, dunque, estendere il principio anche al concepito in prigionia, che ritorni con la madre, considerandolo quasi vulgo quaesitus.

 

[97] L’Arias Bonet, La no reintegración iure postliminii del matrimonio, cit., 573, ritiene che la parentum restitutio di cui parla la costituzione «no encierra necesariamente la idea del postliminium, y tampoco de las palabras de Marciano puede deducirse nada en este sentido».

 

[98] Arangio-Ruiz, Rec. ad Albertario, Studi, 1, in A.G., 29, 1935, 71 ss., in part. 80.

 

[99] Per il Volterra, Iniustum matrimonium, cit., 453 s., anteriormente al rescritto il nato da genitori captivi era considerato spurio perché fra captivi non esisteva conubium e quindi l’unione fra essi non poteva essere qualificata iustum matrimonium.

 

[100] Nel rescritto si chiedeva forse l’applicazione della fictio legis Corneliae per considerare la figlia legittima e suus heres del padre, ma, come fa osservare la cancelleria imperiale, non essendo essa neppure concepita al momento della cattura del padre, la fictio non può esserle di alcun giovamento.

 

[101] Osserva l’Arangio-Ruiz, Rec. ad Albertario, cit., 80, che la disposizione contenuta in C. 8.50.1 è di ius singolare, frutto di arbitrio legislativo e non desumibile dai principii, tanto che non viene mai ricordata senza citarne la fonte, e senza rilevare che i principii del postliminio vengono violati.

 

[102] Il Van de Wiel, La légitimation par mariage subséquent, de Costantin à Justinien. Sa réception sporadique dans le droit byzantin, in RIDA, 25, 1978, 307 ss., in part. 345, si chiede quando un figlio possa dirsi legittimo, e distingue tre casi, i figli nati prima del matrimonio, che sono illegittimi, i figli concepiti e nati dopo il matrimonio, che sono legittimi, e gli altri casi, tra cui quello dei concepiti prima del matrimonio, ma nati dopo. Le soluzioni giurisprudenziali classiche sono, ad avviso dell’Autore, contrastanti, in quanto per Paolo, in D. 1.5.11 (l. 18 responsorum), il figlio sarebbe illegittimo, mentre diversamente si esprimerebbe Ulpiano in Tit. Ulp. 5.10. Per Giustiniano è sufficiente che il matrimonio esista al momento della nascita, C. 5.27.11 (Imp. Iustinianus A. Iuliano pp.): Nuper legem conscripsimus, per quam iussimus, si quis mulierem in suo contubernio collocaverit non ab initio adfectione maritali, eam tamen, cum qua poterat habere conubium, et ex ea liberos sustulerit, postea vero adfectione procedente etiam nuptalia instrumenta cum ea fecerit filiosque vel filias habuerit, non solum secundos liberos qui post dotem edit sunt iustos et in potestate esse patribus, sed etiam anteriores, qui et his qui postea nati sunt occasionem legitimi nominis praestiterunt (a. 530).

 

[103] Osservavo in Nuove ricerche, cit., 141, che la giurisprudenza tardo-classica esercitava ancora una certa funzione innovativa, estendendo il principio stabilito da C. 8.50.1 per un singolo caso ad una serie di altri casi che con esso presentano delle analogie.

 

[104] Per il Maret, Du Postliminium et de la loi Cornelia, cit., 54 s., se i coniugi sono catturati assieme, quando ritornano in patria il matrimonio «est validé rétroactivement» per effetto del postliminio; il Sertorio, La prigionia di guerra, cit., 62 s., ritiene che il passo costituisca prova dell’opinione per la quale, nel caso i coniugi siano fatti prigionieri assieme e vivano assieme durante la prigionia, al loro ritorno in patria il matrimonio «era considerato essere sempre esistito e continuare a sussistere come se mai fosse stato interrotto»; per il Corbett, The Roman Law of Marriage, cit., 213, si aveva operatività del postliminium, condizionato al consenso del coniuge rimasto in patria; il Solazzi, Attorno ai caduca, in Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, 61, 1942, 71 ss., ora in Scritti, 4, Napoli, 1963, 265 ss., in part. 359, osserva che a Severo e Antonino piacque considerare i genitori «come se fossero uniti in matrimonio anche dopo la cattura». Per il Watson, Captivitas and matrimonium, cit., 244 ss., C.8.50.1 rappresenterebbe un’eccezione alla regola generale del diritto classico per cui il matrimonio termina con la captivitas, in quanto in questo caso ambedue i coniugi sono prigionieri e, dunque, non viene meno la coabitazione. Il matrimonio, pertanto, osserva l’Autore, «was retroactively validated by postliminium if both parties returned»; se i coniugi sono catturati assieme, nessuno dei due avrebbe la capacità per un espresso dissenso. Anche per l’Ankum, La captiva adultera, cit., 203 s., C. 8.50.1, D. 38.17.1.3, D. 49.15.9, D. 49.15.25, rappresenterebbero delle eccezioni alla regola dello scioglimento ipso iure del matrimonio in epoca classica.  

 

[105] Osservava l’Orestano, La struttura, cit., 122 nt. 343, che i termini uxor, cum marito, quasi sine marito, intendono solo mettere in evidenza che prima della captivitas i due erano uniti in matrimonio.

 

[106] Per l’Orestano, La struttura, cit., 129, la semplice reintegrazione del matrimonio non sarebbe bastata ad attribuire al figlio la condizione di legittimo, come non sarebbe bastato il ritorno della madre per attribuire al figlio la condizione di lei. 

 

[107] Per l’esame dell’espressione in rerum natura in riferimento al concepito, mi permetto di rimandare ad un mio studio di prossima pubblicazione sulla rilevanza del concepimento in epoca classica.

 

[108] Per l’esame del passo, sul quale esiste una vastissima letteratura, Sanna, Nuove ricerche, cit., 123 ss., Conceptus pro iam nato habetur e nozione di frutto, in Il diritto giustinianeo fra tradizione classica e innovazione, a cura di Botta, Torino, 2003, 217 ss., e la bibliografia ivi citata. Nel passo vengono trattati insieme il caso del concepito da madre libera, in seguito capta ab hostibus, e il caso del concepito da madre schiava come applicazione del principio qui in utero sunt, in toto paene iure civili intelleguntur in rerum natura esse.

 

[109] Per postumi, come è noto, si intesero, propriamente, i figli e gli ulteriori discendenti nati dopo la morte del paterfamilias, purchè concepiti in vita di questi: D. 38.16.6 (Iulianus l. 59 digestorum): …quia lex duodecim tabularum eum vocat ad hereditatem, qui moriente eo, de cuius bonis quaeritur, in rerum natura fuerit; Gai 3.4: Postumi quoque, qui si vivo parente nati essent, in potestate eius futuri forent, sui heredes sunt; D. 38.16.3.9 (Ulpianus l. 14 ad Sabinum): Utique et ex lege duodecim tabularum ad legitimam hereditatem is qui in utero fuit admittitur, si fuerit editus. In seguito però, in base alla cd. clausola aquiliana (D. 28.2.29pr. (Scaevola l. 6 quaestionum): Gallus sic posse institui postumos nepotes induxit: Si filius meus vivo me morietur, tunc si quis mihi ex eo nepos sive quae neptis post mortem meam in decem mensibus proximis, quibus filius meus moreretur, natus nata erit, heredes sunto) si tenne conto anche dei postumi Aquiliani, cioè i nipoti nati dopo la morte del paterfamilias, dalla cui potestas fosse uscito il filius per morte o interdizione, emancipazione, captivitas. In base, poi, alla lex Vellaea, divenne possibile istituire anche i nati dopo la redazione del testamento in vita del testatore che diventino immediatamente sui del testatore e i già nati al momento della confezione del testamento divenuti sui in seguito per premorienza del pater. Si ritiene, inoltre, che Giuliano abbia esteso con un’interpretazione analogica l’applicazione della lex Vellaea anche ai postumi nati dopo la confezione del testamento e divenuti sui prima della morte del testatore. Si vedano Robbe, I postumi nella successione testamentaria romana, Milano, 1937; ID., voce Postumi in NNDI, 13, 1966, 434 ss.; Sachers, v. Postumi, in PWRE. 22.1, 1953, 956 ss., e, più di recente, Lamberti, Studi sui postumi nell’esperienza giuridica romana, 1, Milano, 1996; 2, Milano, 2001 e bibl. ivi citata; Blanch Nougués, rec. a Lamberti, in SDHI, 65, 1999, 433 ss.; Manfredini, rec. a Lamberti, in Iura, 52, 2001, 262 ss.

 

[110] Poiché aqua et igni interdictio ed emancipatio sono equiparabili alla morte, da D. 28.2.29.5/6 di Scevola sappiamo che il postumo poteva succedere anche in questi casi: Et quid si tantum in mortis filii casum conciperet? quid enim si aquae et ignis interdictionem pateretur? quid si nepos, ex quo pronepos institueretur, ut ostendimus, emancipatus esset? hi enim casus et omnes, ex quibus suus heres post mortem scilicet avi nasceretur, non pertinent ad legem Vellaeam: sed ex sententia legis Vellaeae et haec omnia admittenda sunt, ut ad similitudinem mortis ceteri casus admittendi sint. 6. Quid si qui filium apud hostes habebat testaretur? quare non induxere, ut, si antea quam filius ab hostibus rediret quamvis post mortem patris decederet, tunc deinde nepos vel etiam adhuc illis vivis post mortem scilicet avi nasceretur, non rumperet? nam hic casus ad legem Vellaeam non pertinet.

 

[111] Il passo è stato considerato interpolato dal Ratti, Studi, cit., 164 s., che aveva ritenute giustinianee le parole sive apud hostes e afferma che nel passo originariamente si sarebbe parlato solo del nipote concepito in civitate e nato in prigionia; dall’Albertario, Conceptus, cit., 22 nt. 3, per il quale il testo originario avrebbe affermato: Si autem in civitate nepos fuit conceptus succedendo testamentum rumpit. Concorda col Ratti G. Longo, Ancora sul matrimonio romano, cit., 467.

 

[112] Vengono equiparati il figlio concepito in patria e quello concepito apud hostes da una statulibera in D. 40.7.6.1/2 (Ulpianus l. 27 ad Sabinum): Quid tamen si qua conceperit in servitute, deinde ab hostibus capta peperit ibi post existentem condicionem, an liberum pariat? et interim quidem quin servus hostium sit, nequaquam dubium est: sed verius est postliminio eum liberum fieri, quia, si mater in civitate esset, liber nasceretur. Plane si apud hostes eum concepisset et post existentem condicionem edidisset, benignius dicetur competere ei postliminium et liberum eum esse. Il passo, che non può essere preso in considerazione ai fini del matrimonio perché tratta il caso di una statulibera, che quando ha concepito era schiava e dunque non poteva essere unita in matrimonio, è comunque interessante ai fini del nostro discorso perché, dopo aver affermato nel primo paragrafo che viene concesso il postliminio al figlio della statulibera concepito in patria e partorito apud hostes, dopo che si è realizzata la condizione che avrebbe reso libera la madre se fosse stata in patria, estende benignius nel secondo paragrafo la stessa concessione anche se il concepimento è avvenuto presso i nemici. Ulpiano sembra ragionare sul presupposto che se la madre avesse ottenuto la libertà nel momento in cui le sarebbe spettata, se non fosse stata catturata, il figlio sarebbe stato libero; uguale ragionamento sembra adottato in D. 38.16.1.1 (Ulpianus l. 12 ad Sabinum): Quaeri poterit, si ex ea, quae in fideicommissa libertate moram passa est, conceptus et natus sit, an suus patri extat. et cum placeat eum ingenuum nasci, ut est a divis Marco et Vero et imperatore nostro Antonino Augusto rescriptum, cur non in totum pro manumissa haec habeatur, ut uxor ducta suum pariat? nec mirum sit, ex serva ingenuum nasci, cum et ex captiva rescriptum sit ingenuum nasci. quare ausim dicere, etsi pater huius pueri eiusdem sortis fuerit, cuius mater moram passa in libertate fideicommissa, ipseque moram passus est, suum eum patri nasci exemplo captivorum parentium, cum quibus rediit. ergo sive postea pater eius post moram manumittatur, recipiet eum in potestate, sive ante decesserit, definiendum erit suum existere. Il passo pone dei problemi soprattutto perché sembra considerare suus il figlio di un padre che è morto prima di aver ottenuto la libertà.

 

[113] Si può, peraltro, ricordare che anche in C. 8.50.1 si chiedeva la qualità di legittima per la figlia concepita e nata in prigionia, il cui padre non poteva tornare, perché morto presso i nemici, ma tale richiesta veniva respinta.

 

[114] Requisiti perché il postumo possa succedere sono infatti che sia stato concepito all’interno di un legittimo matrimonio e che nasca entro dieci mesi dalla morte del de cuius.

 

[115] Stiegler, Et partui postliminium datur, cit., 331 ss.

 

[116] Osservavo in Nuove ricerche, cit., 148 s., che il secondo paragrafo potrebbe essere stato interamente aggiunto dai giustinianei, anche perché eliminando, col Ratti, il sive apud hostes, rimane il sive autem in civitate da solo; inoltre, l’ipotesi che il figlio concepito in patria potesse testamentum rumpere era stata già presa in considerazione nel paragrafo precedente. I giustinianei hanno, forse, proceduto ad un’estensione del favor libertatis al figlio concepito apud hostes senza cogliere tutte le implicazioni del passo, che trattava in precedenza di un padre morto in prigionia, il che induce a ritenere che il figlio sia tornato da solo o, tutt’alpiù, con la madre, della quale, comunque, nel passo non si fa cenno.

 

[117] Ratti, Studi, cit., 163 nt.1.

 

[118] Montañana CasanÍ, La situacion juridica de los hijios de los cautivos de guerra, Valencia, 1996, 90.

 

[119] Esprime l’identico concetto, senza citare il Ratti, la Montañana Casaní, La situacion juridica, cit., 90 s.: «Por supuesto si el postliminio se concede al hijo concebido y nacido en prisión, con mayor razón se concederá al hijo cocebido en prisión pero nacido en la ciudad al regreso de la madre, tal y como queda atestiguado en el siguiente texto, C. 8.50.8».

 

[120] Sanna, Nuove Ricerche, cit., 152 ss.

 

[121] Parte della dottrina ha considerato probante in tal senso anche D. 24.1.32.14 (Ulpianus l. 33 ad Sabinum): Si ambo ab hostibus capti sint et qui donavit et cui donatum est, quid dicimus? Et prius illud volo tractare. oratio, si ante mors contigerit ei cui donatum est, nullius momenti donationem esse voluit: ergo si ambo decesserint. quid dicemus, naufragio forte vel ruina vel incendio? et si quidem possit apparere, quis ante spiritum posuit, expedita est quaestio: sin vero non appareat, difficilis quaestio est. et magis puto donationem valuisse et his ex verbis orationis defendimus: ait enim oratio si prior vita decesserit qui donatum accepit: non videtur autem prior vita decessisse qui donatum accepit, cum simul decesserint. proinde rectissime dicetur utrasque donationes valere, si forte invicem donationibus factis simul decesserint, quia neuter alteri supervixerit, licet de commorientibus oratio non senserit: sed cum neuter alteri supervixerit, donationes mutuae valebunt: nam et circa mortis causa donationes mutuas id erat consequens dicere neutri datam condictionem: locupletes igitur heredes donationibus relinquent. secundum haec si ambo ab hostibus simul capti sint amboque ibi decesserint non simul, utrum captivitatis spectamus tempus, ut dicamus donationes valere, quasi simul decesserint? an neutram, quia vivis eis finitum est matrimonium? an spectamus, uter prius decesserit, ut in eius persona non valeat donatio? an uter rediit, ut eius valeat? mea tamen fert opinio, ubi non reverterunt, ut tempus spectandum sit captivitatis, quasi tunc defecerint: quod si alter redierit, eum videri supervixisse, quia redit. Ulpiano, nel trattare della convalida o meno della donazione fra coniugi nel caso entrambi cadano in prigionia, esamina l’Oratio Severi et Antonini, che stabilisce la convalida se il donante muore senza aver revocato la donazione, chiedendosi quale soluzione applicare nel caso i coniugi muoiano nello stesso disastro: se si può stabilire che uno è morto prima, la soluzione è evidente, ma anche se ciò non è possibile, secondo il giurista le donazioni devono essere convalidate. Quando passa ad esaminare il caso dei coniugi caduti assieme in prigionia e morti durante la stessa ma in tempi diversi, Ulpiano si chiede se debbano essere considerati morti al momento della cattura (quasi simul decesserint) o se il matrimonio si debba considerare sciolto in tale momento. Per l’Ankum, La captiva adultera, cit., 204, il testo, genuino, rappresenterebbe una delle eccezioni alla regola dello scioglimento del matrimonio del captivus in epoca classica. La circostanza che Ulpiano si schieri (mea tamen fert opinio) a favore della soluzione di considerare morti i captivi al momento della cattura non sembra deporre, come vorrebbe il Volterra, per lo scioglimento ipso iure del matrimonio, ma per l’applicazione della fictio legis Corneliae. Riguardo all’obiezione del Solazzi che la fictio convalidava solo i testamenti e non si applicava alle donazioni, non si può dire con certezza se una volta applicata la fictio al testamento e in seguito alla successione ab intestato, lo stesso principio non sia stato esteso anche ad altri casi. Sul passo erano stati avanzati molti sospetti di interpolazione dalla dottrina più risalente: così il De Medio, Intorno al divieto di donare tra coniugi nel diritto romano, Modena 1902, il Ratti, Studi, cit., 161 e ivi nt. 3., il Solazzi, Il concetto, cit., 631, il Lauria, Il divieto delle donazioni fra coniugi, in Studi Albertoni, 2, Padova, 1937, 555 nt.131. Già il Dumont, Les donations entre èpoux en droit romain, Parigi 1928, 249 nt.1, aveva, invece, ritenuto il testo contrario alle idee di Giustiniano, perché ammetterebbe lo scioglimento del matrimonio per la caduta in prigionia di uno degli sposi, principio riconosciuto, a suo avviso, solo in diritto classico. Per l’Orestano, La struttura, cit., 133 nt. 368, il passo, pur presentando glosse e interpolazioni, rispecchia il diritto classico, nel quale la prigionia di entrambi i coniugi scioglieva il matrimonio  perché le due soluzioni, nullità o convalescenza ex lege Cornelia delle donazioni, in diritto postclassico non avrebbero avuto senso. Anche l’Urso, Il matrimonio, cit., 91 ss., sembra ritenere genuino il passo, nel quale Ulpiano manifesterebbe la tendenza a salvare le donazioni quando non si urta con le ragioni del divieto. Considera sospettato in genere a torto dalla critica interpolazionistica il nostro passo anche il Lambertini, La problematica della commorienza nell’elaborazione giuridica romana, Milano, 1984, 31 ss. Si veda anche Misera, Ulp. 33 ad sab. D. 24.1.32.14: Ein Juwel überlieferter klassischer Entscheidungsfindung, in The Irish Jurist, 25-27, 90-92, 334 ss.