N. 6 – 2007
– Memorie//Tribunato-plebe
Università di Sassari
Una sententia
di iuris
interpretes sulla inviolabilità
dei tribuni della Plebe*
Sommario: 1. Oggetto, metodo,
finalità dell’indagine. – 2. Liv. 3.55.6-12: esame del
testo. – 3. Tracce
del tribunato della plebe nella scienza giuridica dell’età
repubblicana: C. Sempronio Tuditano e M. Giunio Congo Graccano. – 4. Tra repubblica e principato:
M. Antistio Labeone e C. Ateio Capitone. – 5. La sententia degli iuris
interpretes sulla lex Valeria Horatia
de tribunicia potestate.
Ho
avuto modo di affrontare il tema dell’inviolabilità tribunizia in
un lavoro pubblicato nella metà degli anni Novanta del secolo appena
trascorso[1].
Questo Seminario di studi, organizzato per celebrare il «MMD Anniversario
della Secessione della Plebe al Monte Sacro», mi offre
l’opportunità di riflettere ancora una volta sul tema e di
ridefinire qualche idea già espressa in precedenza. La mia comunicazione,
muove da un passo molto conosciuto di Tito Livio, tratto dal terzo dei suoi ab urbe condita libri (Liv. 3.55.6-12).
Nel testo il grande annalista[2]
menziona – discutendone anche le implicazioni giuridiche – una
“sententia” di alcuni non
meglio identificati iuris interpretes; i quali, a proposito del contenuto
della lex Valeria Horatia de tribunicia
potestate[3], avevano negato sia il fondamento
legislativo della inviolabilità tribunizia, sia il carattere inviolabile
degli edili della plebe[4].
Per quanto riguarda l’inviolabilità degli edili della plebe, al
testo liviano va accostato il contenuto della glossa Sacrosanctum del De verborum
significatu di Sesto Pompeo Festo[5]:
vi si legge un cenno alla dottrina di Catone il Censore, favorevole invece alla
inviolabilità di questi magistrati plebei. Si tratta, quindi, di una
posizione oggettivamente antitetica alla “sententia” degli iuris
interpretes citati da Tito Livio, che tuttavia può costituire una
utile integrazione del quadro di riferimento della nostra discussione.
Come
mostrerò più avanti, questa discussione ripropone anche una
questione di metodo più generale, che riguarda
l’opportunità di un uso sistematico delle cosiddette “fonti
letterarie”[6]
da parte dei giusromanisti contemporanei[7].
Infatti, sul tema della inviolabilità dei tribuni della plebe (tema
assai controverso nella storiografia romanistica contemporanea[8]
e, tuttavia, cruciale per la comprensione della “divisione dei
poteri” nel sistema giuridico-religioso romano[9])
ci soccorrono soprattutto le opere di storiografi ed antiquari; da analizzare
con quello spirito e quel metodo che Santo Mazzarino ha insegnato alle scienze
romanistiche del nostro tempo. Credo che dell’insigne studioso siano da
tutti conosciute quelle acutissime tesi sulla «caratteristica storica del
pensiero giuridico romano», formulate in alcune memorabili pagine del
secondo volume del Pensiero storico
classico[10];
ma, nella prospettiva assunta per questa comunicazione sono da rimeditare,
soprattutto, le pagine da lui scritte «intorno ai rapporti fra
annalistica e diritto»[11].
Dal racconto liviano, emerge un vivido quadro della
“normalizzazione” postdecemvirale, di cui l’annalista presenta
come artefici principali i consoli L. Valerio Potito e M. Orazio Barbato.
Questi, dopo la cacciata dei decemviri
legibus scribundis, si peritarono di ripristinare le prerogative del popolo
e della plebe[12],
presentando ai comizi centuriati tre leggi consolari.
La prima legge vincolava i patres
alle decisioni delle assemblee della plebe:
Liv. 3.55.3: Omnium primum, cum velut in controverso iure esset
tenereturne patres plebi scitis, legem centuriatis comitiis tulere ut quod
tributim plebes iussisset populum teneret; qua lege tribuniciis rogationibus
telum acerrimum datum est.
Ripristinata la precedente legge sulla provocatio soppressa dai decemviri, unicum praesidium libertatis, fu poi sancita una seconda legge
Liv. 3.55.4-5: Aliam deinde consularem legem de provocatione,
unicum praesidium libertatis, decemvirali potestate eversam, non restituunt
modo, sed etiam in posterum muniunt sanciendo novam legem, ne qui ullum
magistratum sine provocatione crearet; qui creasset, eum ius fasque esset
occidi, neve ea caedes capitalis noxae haberetur,
con
la quale si vietava la creazione di magistrati esenti da provocatio ad populum e si comminava di fatto – seppure in
forma indiretta – la pena di morte ai contravventori.
Infine, fu promulgata dai consoli Valerio e Orazio una terza legge:
Liv. 3.55.6-7: Et cum plebem hinc provocatione, hinc tribunicio
auxilio satis firmasset, ipsis quoque tribunis ut sacrosancti viderentur, cuius
rei propre iam memoria aboleverat, relatis quibusdam ex magno intervallo caerimoniis
renovarunt, [7] et cum religione inviolatos eos tum lege etiam fecerunt,
sanciendo ut qui tribunis plebis, aedilibus, iudicibus decemviris nocuisset,
eius caput Iovi sacrum esset, familia ad aedem Cereris, Liberi Liberaeque venum
iret[13].
La terza legge Valeria Orazia prescriveva che ai tribuni della
plebe, agli edili (plebei) e a non meglio definiti «giudici
decemviri» fosse riconosciuta l’inviolabilità, derivante
dalle leges sacratae[14]
(religione, nel testo liviano), anche
per mezzo di una legge popolare: con sanzione per coloro i quali avessero
recato offesa a questi magistrati del caput
consacrato a Iuppiter e dei beni
confiscati e venduti a favore del tempio di Cerere, Libero e Libera[15].
Proprio sul valore e sull’estensione della
inviolabilità sancita da questa legge si dipana, poi, la discussione tra
iuris interpretes: la sententia, di cui Tito Livio dà
conto nel seguito del testo, costituisce appunto una delle opinioni in campo.
Prima di entrare nel vivo, sarà utile evidenziare alcune
presenze del tribunato della plebe nel pensiero giuspubblicistico romano
dell’età repubblicana[16].
Per quanto siano quasi inesistenti i frammenti di giureconsulti,
che trattano di funzioni e prerogative dei tribuni della plebe[17];
tuttavia, permangono nelle fonti tracce di elaborazioni giurisprudenziali
intorno alla massima magistratura plebea, spesso legate alla contingenza della
storia politica.
Così, ad esempio, C. Sempronio Tuditano[18]
nei suoi Magistratuum libri si era
occupato della creazione della magistratura tribunizia ed aveva indagato sul
numero originario dei tribuni della plebe[19].
Stando a quanto viene riferito da Asconio
Ascon. in Cicer. Cornel.,
p. 68 K.: Ceterum quidam non duos tribunos plebis, ut Cicero dicit, sed quinque
tradunt creatos tum esse singulos ex singulis classibus. Sunt tamen qui eundem
illum duorum numerum, quem Cicero, ponant, inter quos Tuditanus et Pomponius
Atticus, Livius quoque noster. Idem hic et Tuditanus adiciunt tres praeterea ab
illis duobus sibi collegas creatos esse. Nomina duorum qui primi creati sunt,
haec traduntur: L. Licinius L. f. Bellutus, L. Albinius C. f. Paterculus[20],
il
giurista aveva sostenuto la tesi che al momento dell’istituzione del
tribunato fossero stati nominati solo due tribuni; ma che già in
età risalente avessero raggiunto il numero di cinque per successive
cooptazioni.
Questo testo offre elementi utili per valutare il pensiero
storico-giuridico di Sempronio Tuditano, in merito alla natura ed alla
struttura del potere dei tribuni della plebe; mentre, «alcuni temi, come
il ius intercedendi e la
possibilità (o l’impossibilità) dell’abrogatio, allora al centro del
dibattito politico, dovevano essere considerati nella sua opera
dall’angolo visuale dell’oligarchia senatoria»[21].
Né è pensabile che il tema della inviolabilità
tribunizia fosse traslasciato da M. Giunio Congo Graccano[22].
Questo giurista trattava del contenuto e della gerarchia dei poteri nella Roma
repubblicana[23]
in una sua opera di almeno sette libri, intitolata De potestatibus; composta con l’intento, neppure tanto
celato, di fornire un supporto storico-giuridico alle teorie politiche dei populares[24].
Il piano dell’opera perseguiva l’esposizione
monografica in ordine decrescente delle singole magistrature: sappiamo per
certo che il settimo libro trattava della questura. In dottrina si è
perciò ipotizzato, che i primi sei esaminassero rispettivamente il
consolato, la censura, la pretura, l’edilità curule,
l’edilità plebea, il tribunato della plebe[25].
Lo stesso titolo dell’opera sarebbe in stretto rapporto con
la prospettiva assunta dal giurista; prospettiva molto diversa da quella di
Sempronio Tuditano in quanto non si rivolgeva alla titolarità del
potere, bensì alla natura ed al contenuto di esso (potestates). Ne conseguivano varie implicazioni, in particolare la
derivazione delle potestates dei
magistrati dalla potestas del popolo
romano; quindi il fondamento popolare dei poteri dei magistrati[26].
In questa linea si colloca, perfettamente, il frammento
sull’origine della questura, l’unico peraltro di cui si sia
conservata l’attribuzione precisa ad un libro (il VII) de potestatibus:
D. 1.13.1 pr. (Ulpianus libro
singulari de officio quaestoris): Origo quaestoribus creandis antiquissima
est et paene ante omnes magistratus. Gracchanus denique Iunius libro septimo de
potestatibus etiam ipsum Romulum et Numam Pompilium binos quaestores habuisse,
quos ipsi non sua voce, sed populi suffragio crearent, refert. Sed sicuti
dubium est, an Romulo et Numa regnantibus quaestor fuerit, ita Tullo Hostilio
rege quaestores fuisse certum est: et sane crebrior apud veteres opinio est
Tullum Hostilium primum in rem publicam induxisse quaestores[27].
Apprendiamo, dunque, da questo frammento dei Digesta Iustiniani, tratto dal liber
singularis de officio quaestoris del giurista Ulpiano[28],
che M. Giunio Graccano riteneva antichissima l’origine della questura e
che ne datava ai primordi dell’organizzazione politica di Roma
l’elezione da parte del popolo[29].
A suo dire, fin dai tempi di Romolo e Numa, i re avevano due
questori, nominati non direttamente dagli stessi re (sua voce), ma mediante il suffragio popolare[30].
Sulla base di questo frammento, ormai da tempo, la dottrina
sostiene la tendenza filopopolare del suo autore[31];
il quale, riconducendo «ai primordi della città la funzione
essenziale dell’assemblea popolare»[32],
prendeva nettamente posizione sulla grave controversia costituzionale –
sorta a seguito della destituzione del tribuno Gaio Ottavio, fatta votare al
concilio della plebe da Tiberio Gracco[33]
– relativa ai contenuti della sovranità popolare e quindi al
rapporto tra magistrati e assemblee.
Sulla stessa linea di salvaguardia del potere popolare in rapporto
all’esercizio dei poteri magistratuali, si colloca anche il frammento
relativo alla controversa facoltà di convocare (e presiedere) il senato
da parte del praefectus urbi Latinarum
causa relictus.
Gell. Noct. Att. 14.8.1: Praefectum urbi Latinarum
causa relictum senatum habere posse Iunius negat, quoniam ne senator quidem sit
neque ius habeat sententiae dicendae, cum ex ea aetate praefectus fiat, quae
non sit senatoria[34].
Nel frammento – che mi pare da ascrivere, ragionevolmente, al
liber I de potestatibus, soprattutto
in considerazione del fatto che la celebrazione delle feriae Latinae[35]
era prerogativa del potere consolare e solo in assenza dei due consoli veniva
nominato un dictator a tale scopo[36]
– M. Giunio Graccano discuteva della facoltà di convocare il
Senato da parte del praefectus urbi
Latinarum causa relictus[37].
Il giurista negava che un tale potere competesse al praefectus feriarum latinarum causa, adducendo
a riprova della sua contraria opinione la constatazione che «ne senator quidem sit neque ius habeat
sententiae dicendae, cum ex ea aetate praefectus fiat, quae non sit senatoria».
Peraltro la tesi di Graccano non fu condivisa in seguito né da Varrone,
né da Ateio Capitone[38].
Per quanto si possa convenire con chi ha sostenuto che la
controversia aveva ormai un interesse teorico[39];
mi pare opportuno cogliere la motivazione profonda del pensiero del giurista:
Graccano, in sostanza, interpretava in senso popolare la tradizione
“costituzionale” romana, negando prerogative più ampie a
quelle magistrature che non fondavano il loro potere sulla potestas populi.
Ma all’interno del suo discorso, tutto volto alla definizione
delle diverse potestates, M. Giunio Graccano
mostrava anche di essere particolarmente attento alla legislazione tribunizia:
ne costituisce riprova un suo frammento, inserito nella glossa festina Publica pondera, in cui viene riportata
una legge tribunizia su pesi e misure ufficiali.
Fest. De verb. sign., v. Publica pondera, p.
Per quanto riguarda l’attribuzione del frammento a uno dei libri de potestatibus, forse quello
dedicato ai tribuni plebis, il testo
verriano presenta difficoltà al momento insuperabili. Tuttavia, non va
sottovalutata l’importanza della testimonianza indiretta che fornisce il
testo dell’altrimenti sconosciuto plebiscito Silio de ponderibus publicis[41].
La trascrizione letterale del plebiscito dall’opera del
giurista, seppure non sufficiente a provare la diretta utilizzazione del de potestatibus da parte di Verrio
Flacco[42],
attesta invece assai bene la serietà del metodo di lavoro di M. Giunio
Graccano; il quale evidentemente aveva la consuetudine di argomentare le tesi
sostenute con dati testuali di documenti legislativi; dunque, proprio tali
documenti dovevano costituire le fonti privilegiate delle sue ricerche
giuridiche e antiquarie.
Infine, un ritorno d’interesse per il tribunato da parte
della scienza giuridica risulta attestato sul finire della repubblica, anzi per
dirla con le parole di Capitone: divo
Augusto iam principe et rem publicam obtinente[43].
Sia M. Antistio Labeone sia C. Ateio Capitone mostrarono un certo interesse per
il tema dei poteri e delle prerogative dei tribuni della plebe.
Dalle Noctes Atticae di
Aulo Gellio conosciamo una controversa interpretatio
di M. Antistio Labeone[44],
relativa alla precisazione dei confini e delle modalità di esercizio del
potere dei tribuni della plebe:
Gell. Noct. Att.
13.12.3-4: Ac deinde narrat, quod idem Labeo per viatorem a tribunis plebi
vocatus responderit: “Cum a muliere”, inquit, “quadam tribuni
plebis adversum eum aditi <in> Gellianum ad eum missisent, ut veniret et
mulieri responderet, iussit eum, qui missus erat, redire et tribunis dicere ius
eos non habere neque se neque alium quemquam vocandi quoniam moribus maiorum
tribuni plebis prensionem haberent, vocationem non haberent; posse igitur eos
venire et prendi se iubere, sed vocandi absentem ius non habere”[45].
Aulo Gellio trascrive letteralmente, come l’aveva letta in quadam epistula Capitonis[46],
una interpretatio labeoniana in
materia di poteri dei tribuni della plebe. Come risulta dal testo, Labeone, che
si trovava nella sua villa del Gelliano, riceve tramite messo un ordine di
comparizione dei tribuni della plebe, i quali, a seguito della denuncia
presentata da una donna contro di lui, gli intimavano di presentarsi a Roma per
rispondere delle accuse. Labeone non si limitò a non obbedire alla
ingiunzione; dettò al messo tribunizio anche le motivazioni che lo
inducevano ad un simile comportamento: gli ordinò, infatti, di riferire
ai tribuni che contestava loro il diritto di vocatio, perché sulla base dei mores maiorum avevano il potere di arrestare (prensio), mentre mancava loro quello di convocare un assente (vocatio)[47].
Dunque, i tribuni della plebe potevano venire ad arrestarlo, ma certo non
avevano nessun diritto di richiamarlo a Roma per comparire davanti a loro.
Saldamente ancorata ai mores
maiorum ed alle Romanae antiquitates
di M. Terenzio Varrone[48],
l’interpretatio del grande
giurista doveva presentarsi agli occhi dei contemporanei – proprio in
ragione dell’oggetto di pertinenza – velatamente polemica nei
confronti delle innovazioni “costituzionali” che avevano
incardinato anche la tribunicia potestas
nel nuovo potere del principe[49].
Mentre per Capitone[50]
il discorso si presenta molto più sfumato. Tuttavia, due dei suoi
frammenti, il primo riguardante un decreto tribunizio:
Gell. Noct. Att. 4.14.1-6: Cum librum IX Atei
Capitonis coniectaneorum legeremus, qui inscriptus est De iudiciis publicis,
decretum tribunorum visum est gravitatis antiquae plenum. Propterea id
meminimus, idque ob hanc causam et in hanc sententiam scriptum est: Aulus
Hostilius Mancinus aedilis curulis fuit. Is Maniliae meretrici diem ad populum
dixit, quod e tabulato eius noctu lapide ictus esset, vulnusque ex eo lapide
ostendebat. Manilia ad tribunos plebi provocavit. Apud eos dixit commessatorem
Mancinum ad aedes suas venisse; eum sibi recipere non fuisse e re sua, sed cum
vi inruperet, lapidibus depulsum. Tribuni decreverunt aedilem ex eo loco iure
deiectum, quo eum venire cum corollario non decuisset; propterea, ne cum populo
aedilis ageret, intercesserunt[51];
il
secondo, le definizioni che il giurista propone di plebe e plebiscito:
Gell. Noct. Att.
10.20.5-6: “Plebem” autem Capito in eadem definitione seorsum a populo
divisit, quoniam in populo omnis pars civitatis omnesque eius ordines
contineantur, “plebes” vero ea dicatur, in qua gentes civium
patriciae non insunt. [6] “Plebisscitum” igitur est secundum eum
Capitonem lex, quam plebes, non populus, accipit[52];
mi
parrebbero dei significativi esempi di questo ritorno d’interesse per il
tribunato da parte della giurisprudenza romana, nell’età di
transizione tra repubblica e principato.
Veniamo all’esame del testo di Tito Livio, o meglio,
all’esame della “sententia”[53]
degli iuris interpretes intorno alla
legge Valeria Orazia che sanciva ut qui
tribunis plebis aedilibus iudicibus decemviris nocuisset eius caput Iovi sacrum
esset. Non a torto un grande studioso quale Santo Mazzarino ha definito
tale sententia: «esempio
classico dell’interpretazione giuridica nell’ambito del diritto
pubblico»[54].
Proprio sul valore e sull’estensione della inviolabilità sancita
da questa legge si aprì, poi, il contrasto dottrinale tra iuris interpretes, di cui Tito Livio
dà conto nel seguito del passo fin qui citato:
Liv. 3.55.8-12: [8] Hac lege iuris interpretes negant quemquam
sacrosanctum esse, sed eum qui eorum cuiquam nocuerit sacrum sanciri; [9]
itaque aedilem prendi ducique a maioribus magistratibus, quod etsi non iure
fiat – noceri enim ei qui hac lege non liceat – , tamen argumentum
esse non haberi pro sacrosancto aedilem; [10] tribunos vetere iure iurando
plebis, cum primum eam potestatem creavit, sacrosanctos esse. [11] Fuere qui
interpretarentur eadem hac Horatia lege consulibus quoque et praetoribus, quia
eisdem auspiciis quibus consules crearentur, cautum esse; iudicem enim consulem
appellari. [12] Quae refellitur interpretatio, quod iis temporibus nondum
consulem iudicem, sed praetorem appellari mos fuerit[55].
Questi iuris interpretes
negavano, dunque, l’estensione della inviolabilità per mezzo della
legge ad altri che non fossero i tribuni della plebe (Hac lege iuris interpretes negant quemquam sacrosanctum esse, sed eum
qui eorum cuiquam nocuerit sacrum sanciri); non senza buone argomentazioni
ed evidenze istituzionali, poiché constatavano quanto era sotto gli
occhi di tutti a proposito degli edili, i quali non godevano di alcuna inviolabilità
rispetto ai magistrati maggiori (aedilem
prendi ducique a maioribus magistratibus)[56].
Riguardo all’inviolabilità degli edili della plebe, al
testo di Tito Livio va accostata almeno un’altra fonte: la glossa Sacrosanctum del De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo.
Fest. De verb. sign., p.
Nella glossa festina si legge un preciso riferimento ad una interpretatio di ius publicum riconducibile alla dottrina di Catone il Censore; il
quale, nella sua orazione «aedilis
plebis sacrosanctos esse»[58],
aderiva ad un’altra prospettiva della dottrina giuspubblicistica romana,
forse di matrice plebea[59],
mostrandosi decisamente favorevole alla inviolabilità degli edili della
plebe[60].
Possiamo così conoscere, grazie alla testimonianza di Festo, gli
elementi di una polemica tra iuris
interpretes sul valore della lex
Valeria Horatia de tribunicia potestate; l’interpretatio di Catone appare, infatti, del tutto inconciliabile
con la “sententia” degli iuris interpretes citati da Tito Livio[61].
Per quanto non sia possibile precisare l’identità di
questi iuris interpretes; sarà
bene, tuttavia, cercare di individuarne almeno l’orientamento
interpretativo. Una cosa mi pare di poter sostenere con sicurezza: gli autori
di cui Tito Livio riferisce la sententia
erano dei giureconsulti, nel senso professionale della parola[62].
Nel corpus liviano, infatti,
espressioni quali iuris consultus o scientia iuris sono sempre usate con forte valenza tecnica:
Liv.
10.22.7: Ea ingenia consularia esse: callidos sollertesque, iuris atque
eloquentiae consultos, qualis Ap. Claudius esset, urbi ac foro praesides
habendos praetoresque ad reddenda iura creandos esse;
Liv.
39.40.5: Ad summos honores alios scientia iuris, eloquentia, alios gloria
militaris provexit; huic versatile ingenium sic pariter ad omnia fuit, ut natum
ad id unum diceres, quodcumque ageret.
Certamente sono da considerare giuristi anche quei periti religionum iurisque publici, di
cui l’annalista cita un responso sui poteri del console suffetto:
Liv. 41.18.16: periti religionum iurisque publici, quando duo
consules eius anni, alter morbo, alter ferro perisset, suffectum consulem
negabant recte comitia habere posse.
Non appare infondata l’ipotesi di Santo Mazzarino, per il
quale negli iuris interpretes liviani sarebbe da vedere il
giurista L. Cincio[63]
(unico giurista citato nell’opera di Livio), «o comunque giuristi
della sua tendenza»; anche perché, l’indizio da lui indicato
per corroborare il riferimento alla dottrina di L. Cincio, cioè la
notizia dell’antica designazione del console come praetor, presenta forti elementi di probabilità, in quanto
davvero «tema essenziale pel giurista»[64].
Se l’identificazione propugnata dal Mazzarino fosse
plausibile, avremmo anche il quadro più generale in cui collocare la sententia degli iuris interpretes;
infatti, i frammenti superstiti di L. Cincio (oltre trenta) rivelano una solida
cultura giuridica ed un campo di interessi che spazia con eguale padronanza
della materia tra ius sacrum, ius publicum, ius privatum[65].
La trama interpretativa del giurista si misurava con i temi più
scottanti dello ius publicum
tardo-repubblicano: quali la potestas
populi, di cui non poteva non occuparsi nel liber de comitiis; o il potere dei magistrati, a cui dovevano
essere dedicati i libri de consulum
potestate. Temi, dunque, legati a quel dibattito sulla definizione dei
rapporti tra poteri dei magistrati e poteri del popolo, che aveva appassionato
la giurisprudenza romana, almeno a partire dall’età dei Gracchi.
Non è dato sapere la collocazione ideologica e politica di Cincio: ma
forse era di tendenza antipopolare. Si presta, infatti, a corroborare questa
supposizione il testo dell’unico frammento dell’opera de comitiis:
Fest. De verb. sign., v. patricios, p.
dove
il giurista, per spiegare il valore del termine patricii, ricorre all’antica identificazione tra ingenui e patricii[66].
Torniamo alla “sententia”.
Gli iuris interpretes, stando al
resoconto liviano, negavano che in virtù della terza lex Valeria Horatia alcuno fosse
inviolabile[67],
ma ritenevano che essa stabilisse semplicemente di doversi considerare sacer chi avesse recato offesa ad uno
dei magistrati menzionati nella legge[68];
con l’eccezione dei tribuni, la cui innegabile inviolabilità
fondava le sue radici sul vetus ius
iurandum della plebe, al tempo della prima secessione. Dalla sententia degli iuris interpretes citati
da Tito Livio emerge, non solo che il problema della qualificazione giuridica
della tribunicia potestas consisteva
essenzialmente nella questione della inviolabilità, ma soprattutto che
era proprio la condizione di sacrosancti,
fondata sul vetus ius iurandum plebis
del
Di fronte alla chiarezza con cui gli iuris interpretes configurano il fondamento del potere tribunizio
come «unilaterale imposizione della plebe», risultano maggiormente
incomprensibili le ragioni di fondo (ideologiche e metodologiche) che hanno
impedito finora alla dottrina romanistica di orientarsi verso questa ipotesi[69].
L’esito di questa interpretatio
iuris publici perveniva soprattutto alla negazione della
inviolabilità degli edili plebei[70];
contro i quali valevano entrambi i metodi interpretativi usati da quei
giuristi: sia «il procedimento per via dell’analisi
"grammaticale" (etimologica)»[71],
che portava gli iuris interpretes ad
intendere sacrosanctus equivalente a iure iurando, e dunque a fondare
l’inviolabilità proprio sullo ius
iurandum; sia l’argomento basato sulla osservazione dei mores maiorum in materia di ius magistratuum: ponevano, cioè,
a giustificazione della loro dottrina la constatazione (eminentemente pratica)
che aedilem prendi ducique a maioribus
magistratibus; la qual cosa, nonostante non
iure fiat, costituisce invero una innegabile dimostrazione del fatto che non haberi pro sacrosancto aedilem[72].
Non sembra riferibile agli stessi iuris interpretes, di cui finora abbiamo discusso, l’altra
interpretazione giuridica riferita da Tito Livio a proposito della terza lex Valeria
Horatia (3.55.11-12)[73].
Questi altri giuristi, richiamandosi al fatto che col termine iudices si designavano talvolta anche i
supremi magistrati cittadini, sostenevano che la citata legge avesse provveduto
a rendere inviolabili anche i consoli ed i pretori, questi ultimi quia eisdem auspiciis quibus consules
crearentur. Sul punto abbiamo il netto rifiuto dell’annalista, il
quale argomenta la sua opinione (o di altri iuris
interpretes), ricorrendo alle
risultanze della scienza antiquaria sullo ius
publicum (magistratuum), da cui
risultava che ai tempi dell’antica legge Valeria Orazia nondum consulem iudicem, sed praetorem
appellari mos fuerit.
* Comunicazione presentata al Seminario di Studi Conflitto e costituzione romana,
organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università
di Sassari e dalla Sezione di Roma “Giorgio La Pira”
dell’ITTIG-CNR (Sassari, 11-12 dicembre 2006), in occasione del MMD Anniversario della Secessione della
plebe al Monte Sacro.
[1] F. Sini, Interpretazioni
giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia (A proposito di
Liv. 3, 55, 6-12), in Ius Antiquum
- Drevnee Pravo 1, (Moskva) 1996, 80
ss.; ripubblicato in formato elettronico in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e
Tradizione Romana 2 (Marzo
2003) = < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Tribunato.htm
>.
[2] G. Scherillo, Il diritto pubblico romano in Tito Livio, in Aa.Vv., Liviana, Milano 1943, 79 ss., sottolineava, a ragione, la notevole
rilevanza dei libri ab urbe condita
del grande annalista, quale fonte privilegiata per la conoscenza della
complessa materia dello ius publicum
in età repubblicana; nello stesso senso, C. St. Tomulescu, La
valeur juridique de l’histoire de Tite-Live, in Labeo 21, 1975, 295 ss. Più in generale: R. Bloch, Tite-Live et les premiers siècles de Rome, Paris 1965; D. Gutberlet, Die erste Dekade des Livius als Quelle zur gracchischen und
sullanischen Zeit, Hildesheim-Zürich-New York 1985; G. Forsythe, Livy and Early Rome. A
Study in Historical Method and Judgment, Stuttgart 1999.
[3]
Sugli aspetti più generali della legge, con ampia rassegna di fonti e
della bibliografia precedente, vedi G.
Rotondi, Leges publicae populi
Romani, Milano 1912 [rist. Hildeshem
- Zürich - New York 1990], 204 s.; D.
Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik. Text und Kommentar,
in Zusammenarbeit mit S. von der Lahr, Darmstadt 1994, 218 ss. Per una
discussione su contenuti e implicazioni giuridiche di essa, vedi invece G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano 1932, 42 ss.; Id., I
fasti dei tribuni della plebe, Milano 1934, 30; H. Siber, Die
plebejischen Magistraturen bis zur lex
Hortensia, in Festschrift der
Leipziger Juristenfakultät für A. Schultze, Leipzig 1936, 36 ss.;
C. Gioffredi, Il fondamento della “tribunicia
potestas” e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo
(“sacrosanctum-lex sacrata-sacramentum), in Studia et Documenta Historiae et Iuris 11, 1945, 42 ss.; J. Bayet, L’organisation plébéienne et les leges sacratae, in J. Bayet-G. Baillet (a cura
di), Tite-Live. Histoire romaine, Livre III,
Paris 1962, 145 ss.; R. M. Ogilvie,
A Commentary on Livy. Books 1-5,
Oxford 1965, 502 s.; Id., Early Rome and the Etruscans, London
1976, qui citato in trad. it.: Le origini
di Roma, Bologna 1984, 134 s.; S. Mazzarino,
Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, in La critica del testo. Atti del Secondo Congresso Internazionale della
Società Italiana di Storia del Diritto, I, Firenze 1971, 442 ss.;
J.-CL. Richard, Les origines de la plèbe romaine.
Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéien, Rome
1978, 573 ss.; P. Marottoli, Leges sacratae, Roma 1979, 25 ss.; S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana, I, Milano 1981, 205 ss.; G. Lobrano,
Il potere dei tribuni della plebe,
Milano 1982, 123 s.; G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici
e storiografici sull’età delle XII Tavole, Bologna 1984, 303
ss.; P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla
storia di Roma (509-339 a.C.), Milano
1987, 347 s.; F. Fabbrini,
Sulla regola auspicium imperiumque, in Società e diritto nell’epoca decemvirale. Atti del
convegno di diritto romano. Copanello 3-7 giugno 1984, Napoli 1988, 330 s.;
L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei iudicia populi, Padova 1989, 34 s.; Id., “Iuris interpretes” e inviolabilità magistratuale,
in Seminarios Complutenses de Derecho
Romano XIII, 2001, 37 ss.; P.
Cerami, Potere ed ordinamento
nell’esperienza costituzionale romana, 3a ed., Torino 1996, 116 s.
[4] Su questa
magistratura plebea vedi, fra gli altri, W.
Soltau, Die ursprüngliche
Bedeutung und Competenz der aediles plebis,
in Historische Untersuchungen A. Schaefer
gewidmet, Bonn 1882, 98 ss.; P. M.
Pineau, Histoire de
l’édilité romaine, Bordeaux 1893; G. De Sanctis, Le origini dell’edilità plebea,
in Rivista di Filologia e di Istruzione
Classica 10, 1932, 433 ss. [= Id.,
Scritti minori, V, Roma 1983, 147
ss.]; H. Siber, Die plebejischen Magistraturen bis zur lex Hortensia, cit., 7 ss.; D. Sabbatucci, L’edilità romana: magistratura e sacerdozio, in Atti dell’Accademia Nazionale dei
Lincei. Memorie della Classe di Scienze morali storiche e filologiche,
[serie VIII] 6, 1955, 255 ss.; M. Q. Lupinetti,
Liv., 3.6.9, Dion. Hal., 6.95.3-4 e
l’origine dell’edilità plebea, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 13, 1969, 285 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2ª ed., Napoli 1972, 345
s.; J.-Cl. Richard, Édilité plébéienne et
édilité curule: à propos de Denys d’Halicarnasse,
Ant. Rom. VI 95.
[6]
L’usuale distinzione tra i diversi «mezzi di cognizione del diritto
romano», nonché la definizione più generale di fonti
primarie e secondarie, in A. Guarino,
L’esegesi delle fonti del diritto
romano, a cura di L. Labruna, I, Napoli 1968, 285 ss. Questa distinzione,
seppure con diverse denominazioni, si presenta peraltro comune a storici e
giuristi: cfr., fra i primi, A. Rosenberg,
Einleitung und Quellenkunde zur
römischen Geschichte, Berlin 1921, 1 ss.: «Die
Primärquellen»; 113 ss.: «Die Historiker»; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 3 s.; K. Christ, Römische Geschichte: Einführung, Quellenkunde, Bibliographie,
3ª ed., Darmstadt 1980, 35 ss.; fra i giuristi basterà inoltre
citare, per tutti, C. W. Westrup,
Introduction to Early Roman Law, IV e
V. Sources and Methods,
London-Copenaghen 1950-1954 (IV, 9 ss.: «Primary sources»; V, 17
ss.: «The Ancient Roman Tradition»); L. Wenger, Die Quellen des
römischen Rechts, Wien 1953, 46. Maggiori approfondimenti
sull’importante questione metodologica della «gerarchia delle
fonti», in F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, 143 ss.;
nello stesso senso, cfr. ora R. Fiori, Homo
sacer. Dinamica
politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, 2
ss.
[7]
Quale esempio di utilizzazione in senso giuridico di tali fonti, mi permetto di
citare F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico",
Sassari 1991; ma vedi anche O.
Diliberto, La struttura del
votum alla luce di alcune fonti
letterarie, in Studi in onore di A.
Biscardi, IV, Milano 1983, 297 ss.; G.
Luraschi, Foedus nell’ideologia
virgiliana, in Atti del III Seminario
Romanistico Gardesano. Promosso
dall’Istituto Milanese di Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi.
22-25 Ottobre 1985, Milano 1988, 279 ss.
[8] Non
è possibile dar conto in maniera esauriente della bibliografia in tema
di sacrosanctitas tribunizia,
né discutere le diverse soluzioni prospettate sul fondamento del potere
dei tribuni della plebe; vedi, pertanto, con varie soluzioni: L. Lange, Römische Alterthümer, I, 3a ed., Berlin 1876, 590 ss.; Id., De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura eiusque origine
commentatio, Lipsiae 1883, 40 ss.; E. Herzog,
Die lex sacrata und das sacrosanctum, in Neue
Jahrbücher für Philologie 113, 1876, 139 ss.; Id., Geschichte
und System der römischen Staatsverfassung, I, Leipzig 1884 [rist. an.
Darmstadt 1965], 146 ss.; E. Cuq,
Les institutions juridiques des Romains,
I, Paris 1881, 114 ss.; F. Stella
Maranca, Il tribunato della plebe
dalla lex Hortensia alla lex Cornelia, Lanciano 1901 [rist. an., con nota di lettura di G.
Boulvert, Napoli 1982 (Antiqua, 20)], 33 ss.; R. Rosenberg, Studien zur
Entstehung der Plebs, in Hermes
48, 1913, 364 ss.; V. Groh,
Potestas sacrosancta dei tribuni della plebe, in Studi in onore di S. Riccobono, II,
Palermo 1936, 1 ss.; F. Altheim,
Lex sacrata. Die Anfänge der plebeischen Organisation, Amsterdam 1940,
25; C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia postestas e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo
(“sacrosanctum - lex sacrata - sacramentum”), cit., 37 ss.; A. Dell’Oro, La formazione dello Stato patrizio-plebeo, Milano-Varese 1950, 87
ss.; R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza
romana arcaica, Torino 1967, 262 ss. Ma ormai, sul tema sono veramente
fondamentali gli studi di G. Lobrano,
Fondamento e natura del potere tribunizio
nella storiografia giuridica contemporanea, in Index 3, 1972, 235 ss.; Id.,
Il potere dei tribuni della plebe,
cit., 56 ss.
Più in generale sul tribunato vedi
anche: J. Bleicken, Das Volkstribunat der klassischen Republik,
München 1955; Id., Das römische Volkstribunat. Versuch
einer Analyse seiner politischen Funktion in republikanischer Zeit, in Chiron 11, 1981, 87 ss.; R. T. Ridley, Notes on the Establishment of the Tribunate of the Plebs, in Latomus 27, 1968, 535 ss.; S. Mazzarino, Sul tribunato della plebe nella storiografia romana, in Helikon 11-12, 1971-1972, 99 ss.; J. Ellul, Réflexion sur la révolution, la plèbe et le
tribunat de la plèbe, in Index
3, 1972, 155 ss.; G. Grosso, Appunti sulla valutazione del tribunato
della plebe nella tradizione storiografica conservatrice, in Index 7, 1977, 157 ss.; K. M. Girardet, Ciceros Urteil über die Entstehung des Tribunates als Institution
der römischen Verfassung (rep. 2, 57-59), in Bonner Festgabe J. Straub, Bonn 1977, 179 ss.; Y. Thomas, Cicéron, le Sénat et les tribuns de la plèbe,
in Revue Historique de Droit
Français et Étranger 55, 1977, 189 ss.; L. Perelli, Note sul tribunato della plebe nella riflessione ciceroniana, in Quaderni di Storia 10, 1979, 285 ss.; J.
L. Halperin, Tribunat de la plèbe et haute plèbe (493-218 av. J.-C.), in Revue
Historique de Droit Français et Étranger 62, 1984, 161 ss.
[9] Sull’espressione
«sistema giuridico-religioso», cfr. P. Catalano, Linee del
sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 30 ss., in part. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, II.16,1, Berlin-New York 1978, 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema
romano, Torino 1990, 57; G. Lombardi,
Persecuzioni, laicità,
libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla Dignitatis Humanae, Roma 1991, 34 s. Per la
validità del concetto di «ordinamento giuridico», vedi
invece R. Orestano: Diritto. Incontri e scontri, Bologna
1981, 395 ss.; Id., Le nozioni di ordinamento giuridico e di
esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, 959 ss., in part.
964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano,
Bologna 1987, 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed
ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, cit., 10 ss.; e
solo parzialmente da A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5a
ed., Napoli 1990, 56 s.
[11] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di
critica testuale, cit., 441 ss.
[12] Liv.
3.55.1-2: Per interregem deinde consules
creati L. Valerius M. Horatius, qui extemplo magistratum occeperunt. Quorum
consulatus popularis sine ulla patrum iniuria nec sine offensione fuit;
quidquid enim libertati plebis caveretur, id suis decedere opibus credebant.
Cfr. per tutti F. de
Martino, Storia della costituzione
romana, I, cit., 312 ss.; S. Tondo,
Profilo di Storia costituzionale romana.
Parte prima, cit., 202 ss.; G.
Crifò, Lezioni di storia
del diritto romano, Bologna 1996, 69 ss. Di carattere fortemente critico si
presenta, invece, la ricostruzione generale della «restaurazione valeria
orazia» delineata da P. Zamorani,
Plebei genti esercito. Una ipotesi sulla
storia di Roma (509-339 a.C.), cit., 342 ss.
[13]
Numerosi studiosi analizzano, in vario modo, questo passo di Tito Livio: vedi,
fra gli altri G. Niccolini, Il tribunato della plebe, cit., 42 ss.;
Id., I fasti dei tribuni della plebe, cit., p 30; V. Groh, Potestas sacrosancta dei tribuni
della plebe, cit., 1 ss.; G. Nocera,
Il potere dei comizi e i suoi limiti,
Milano 1940, 71 ss.; C. Gioffredi,
Il fondamento della tribunicia potestas e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo, cit., 42 ss.;
G. De Sanctis, Storia dei Romani, II (Torino 1907),
rist. an. dell’edizione 1960, Firenze 1988, 28; J. Bayet, L’organisation plébéienne et les leges sacratae, cit., 145 ss.; R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, cit., 502 s.; Id., Le origini di Roma, cit., 134 s.; S. Mazzarino, Intorno ai
rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di critica testuale,
cit., 442 ss.; J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine.
Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéien, cit.,
573 ss.; S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana,
I, cit., 205 ss.; G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit.,
123 s.; G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici
e storiografici sull’età delle XII Tavole, cit., 303 ss.; P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana,
cit., 116 s.; P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla
storia di Roma (509-339 a.C.), cit.,
347 s.; F. Fabbrini, Sulla regola auspicium imperiumque,
cit., 330 s.; L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio
dei iudicia populi, cit., 34 s.; Id., “Iuris interpretes” e inviolabilità magistratuale,
cit., 37 ss.; B. Albanese, Sacer esto,
in Bullettino dell’Istituto di
Diritto Romano 91, 1988 [ma 1992], 163 s.; R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa,
cit., 315; O. Licandro, In magistratu damnari. Ricerche sulla
responsabilità dei magistrati romani durante l’esercizio delle
funzioni, Torino 1999, 120 ss.
[14] Cfr.
Fest. De verb. sign., v. Sacratae leges, p. 422 L.: Sacratae
leges sunt, quibus sanctum est, qui[c]quid adversus eas fecerit, sacer alicui
deorum † sicut † familia pecuniaque. Sunt qui esse dicant sacratas,
quas plebes iurata in monte Sacro sciverit. Cic. Pro M. Tullio 47: Atque ille
legem mihi de XII tabulis recitavit, quae permittit ut furem noctu liceat
occidere et luci, si se telo defendat, et legem antiquam de legibus sacratis,
quae iubeat impune occidi eum qui tribunum pl. pulsaverit; Cic. De domo 43: Vetant
leges sacratae, vetant XII tabulae leges privatis hominibus inrogari. Id est
enim privilegium. Nemo umquam tulit; Cic.
Pro Sestio 65: cum et sacratis legibus et XII tabulis sanctum esset ne cui privilegium
irrogari liceret, neve de capite nisi comitiis centuriatis rogari. 79: Itaque fretus sanctitate tribunatus, cum se
non modo contra vim et ferrum, sed etiam contra verba atque interfationem
legibus sacratis esse armatum putaret; Cic. De prov. cons. 46: si
patricius tribunus plebis fuerit, contra leges sacratas. Liv. 2.33.3: Sunt qui duos tantum in Sacro monte creatos
tribunos esse dicant, ibique sacratam legem latam. Quanto
alla vastissima bibliografia moderna sulle leggi sacrate vedi, senza alcuna
pretesa di completezza: G. Niccolini,
Il tribunato della plebe, cit., 40
ss.; G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti,
cit., 70; C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia postestas e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo, cit., 37 ss.;
U. von Lübtow, Das
römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Berlin 1955, 92 s.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine,
Paris 1963, 224 ss.; R. Orestano,
I fatti di normazione
nell’esperienza romana arcaica, cit., 262 ss.; M. Balzarini,
[15] M. Sordi, Il santuario di Cerere, Libero e Libera e il tribunato della plebe,
in Contributi dell’Istituto di
storia antica, IX, 1983, 127-139.
[16]
Sulle caratteristiche più generali del pensiero giuridico romano in tema
di ius publicum, rinvio al saggio di
G. Nocera, Il pensiero pubblicistico romano, in Studi in onore di Pietro de Francisci, II, Milano 1956, 557 ss.;
ma, soprattutto, al libro di V.
Giuffrè, Il «diritto
pubblico» nell’esperienza romana. Appunti di parte generale del
corso, Napoli 1977; mentre, per l’analisi dei giuristi di ius publicum e delle loro opere è
da vedere anche il saggio di A. Heuss,
Zur Thematik republikanischer
«Staatsrechtslehre», in Festschrift
für Franz Wieacker zum 70. Geburtstag, Göttingen 1978, 72 ss.
[17] D.
1.2.2.20 (Pomponius libro singulari
enchiridii); D. 1.2.2.34 (Pomponius libro
singulari enchiridii); D. 1.15.1 (Paulus libro singulari de officio praefecti vigilum).
[18]
Sulla carriera politica del giurista, vedi F.
Münzer, v. Sempronius (nr. 92), in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, II A,
Stuttgart 1923, coll. 1441 s.; T. R. S.
Broughton, The Magistrates of the
Roman Republic, I, New York 1951, 470, 489, 498, 504; per altre referenze,
con particolare riferimento alle sue opere di carattere storico e giuridico,
vedi H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, editio
altera, I, Stutgardiae 1914 [rist. an. 1967], CCI ss.; M. Schanz - C. Hosius, Geschichte
der römischen Literatur, I, 4ª ed., München 1927 [rist.
1966], 197; H. Bardon, La littérature latine inconnue, I.
L’époque républicaine, Paris 1952, 105 s. Sostiene
invece che tutti i frammenti di Tuditano provengano dai Magistratuum libri C.
Cichorius, Das Geschichtswerk des
Sempronius Tuditanus, in Wiener
Studien 24, 1902, 588 ss., per il quale non risulterebbe sufficientemente
fondata su dati testuali l’ipotesi della composizione da parte di
Tuditano anche di un’altra opera, di carattere marcatamente
storiografico, intitolata Annales;
all’impostazione del Cichorius, da ultimo, mi pare dia una cauta adesione
M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2a ed., Napoli 1982, 55.
[19] I
frammenti giuridici di C. Sempronio Tuditano sono stati raccolti da F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896
[rist. an. Roma 1964], 35 s.; Ph. E.
Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, editio sexta, I, Lipsiae
1908 [rist. an. Leipzig 1988], 9 s.; mentre H. Peter, Historicorum
Romanorum reliquiae, I, cit., 143 ss., oltre i frammenti ex magistratuum libri, raccoglie anche i
frammenti provenienti dall’opera storica di Tuditano, gli Annales.
[20] Cfr.
F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt,
I, cit., 36 fr. 5; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae,
I, cit., 9 fr. 4; H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I,
cit., 144 fr. 5.
[22]
Fonti su questo personaggio: Lucil. Carm. 595-
[23] Cic.
De leg. 3.48-49: [Atticus] Quam ob rem, si
de sacrorum alienatione dicendum putasti, quom de religione leges proposueras,
faciendum tibi est, ut magistratibus lege costitutis de potestatum iure
disputes. Marcus - Faciam
breviter, si consequi potuero; nam pluribus verbis scripsit ad patrem tuum M.
Iunius sodalis perite meo quidem iudicio et diligenter. I frammenti sono
raccolti in F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt,
I, cit., 37 ss.; Ph. E.
Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 10 ss. Per i
frammenti di più immediato interesse grammaticale, vedi anche H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, I, Lipsiae 1907 [rist. an. Roma 1964], 120 s.
[24] R. A. Bauman,
Lawyers in Roman republican politics: a
study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC,
München 1983, 292. Cfr. anche H. Bardon,
La lettérature latine inconnue,
I, cit., 145.
[25] Cfr.
C. Cichorius, Untersuchungen zu Lucilius,
Zürich-Berlin 1908, 126; M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit., 14.
[26] P. Catalano, La divisione del potere in Roma repubblicana, in P. Catalano - G. Lobrano, Il problema
del potere in Roma repubblicana, Sassari 1974, 19 s. [= Id., La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone),
in Studi in onore di Giuseppe Grosso,
VI, Torino 1974, 678]: «La prospettiva di Giunio Graccano è
diversa da quella di Sempronio Tuditano soprattutto perché non guarda
alla titolarità del potere studiato (magistratus)
bensì alla sua natura, al suo contenuto (potestas). Ciò doveva avere varie implicazioni. In primo
luogo le potestates magistratuali
erano, così, studiate congiuntamente alla potestas populi, ed era quindi più facile porre in evidenza
la derivazione di quelle da questa, cioè il fondamento popolare dei
poteri dei magistrati».
[27] P.
F. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, cit., 37 fr. 1; O.
Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889, fr. 2252 (Ulpiano).
Sempre al libro VII de potestatibus,
gli editori attribuiscono anche il seguito del passo di Ulpiano: D. 1.13.1.1 (=
Ulpianus libro singulari de officio
quaestoris): Et a genere quaerendi
quaestores initio dictos et Iunius et Trebatius et Fenestella scribunt;
dove si riferisce l’etimologia della parola quaestor, organicamente collegata nel pensiero di Graccano alla
funzione del magistrato, a quel genus
quaerendi, che caratterizzava la natura stessa della questura. Sul valore
etimologico del frammento, vedi L. Ceci,
Le etimologie dei giureconsulti romani,
Torino 1892, 66 fr. 3; P. F. Bremer,
Op. cit., 37 fr. 2; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, cit., 120 fr. 1.
Su questa etimologia, cfr. anche altre fonti: Varr. De ling.
Lat. 5.81; Fest. De verb. sign. p.
[28] Per
quanto riguarda caratteristiche e ricostruzione del quadro complessivo del liber singularis de officio quaestoris
di Ulpiano, vedi brevemente F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana,
trad. it. a cura di G. Nocera, con presentazione di P. De Francisci, Firenze
1968 [rist. 1975], 444; quanto alla precisazione della «natura
dell’opera», con una ampia e puntuale analisi dei frammenti
superstiti, vedi invece A.
Dell’oro, I libri de
officio nella giurisprudenza romana,
Milano 1960, 98 ss.; resta naturalmente indispensabile O. Lenel, Palingenesia
iuris civilis, II, cit., coll. 992.
Più in generale, sulla complessa figura del giurista, anche
in rapporto alla sua produzione letteraria, cfr. P. Frezza, La cultura
di Ulpiano, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 34, 1968, 363 ss.;
G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del
giurista, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, 708
ss. (su cui, però, vedi i rilievi di M. Talamanca, Per la
storia della giurisprudenza romana, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano 80, 1977, 236 ss.); T. Honoré, Ulpian, Oxford 1982; A.
Schiavone, Linee di storia del
pensiero giuridico romano, Torino 1994, 221 ss.; V. Marotta, Ulpiano e
l’impero, Napoli 2004.
[29]
Nello stesso senso di D. 1.13.1, vedi Joann. Lyd. De magistr. 1.24 (con la discussione sul testo di J. Caimi, Burocrazia e diritto nel de magistratibus di Giovanni Lido, Milano 1984, 151 ss.).
[30]
Questa posizione fu, comunque, del tutto isolata e sovente rifiutata
espressamente dalla storiografia successiva: cfr. Tacit. Ann. 11.22.4; Plut., Publ. 12.3.
[31] J. Rubino,
Untersuchungen über römische
Verfassung und Geschichte, Cassel 1839, 320 e n. 1; L. Mercklin, De Iunio Gracchano commentatio, I, diss. Dorpat 1840, 34 ss.; M. Hertz, De Luciis Cinciis, Berolini 1842, 92 n. 74a; C. Cichorius, Untersuchungen zu Lucilius, cit., 125 s.
[33] I
problemi costituzionali dell’età graccana sono stati analizzati,
con il consueto approfondimento, da F. De
Martino, Storia della costituzione romana, II, 2a ed., Napoli 1973, 459 ss.;
per il quadro più generale del contesto storico, cfr. anche R. F. Rossi, Dai Gracchi a Silla, Bologna 1980, con particolare riferimento a
34-146.
[34] F.
P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., 39 fr. 10; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae fragmenta,
I, cit., 12 fr. 10.
[35] Per
quanto riguarda gli aspetti giuridici di tali feriae e del culto di Iuppiter
Latiaris, rinvio al lavoro di P. Catalano,
Linee del sistema sovrannazionale romano,
cit., 169 ss.
[36]
Sulla figura del dictator Latinarum
feriarum causa, vedi B. Bruno,
v. Dictator, in Dizionario epigrafico di antichità romane, II.2, rist. an.
Roma 1961, 1773; ma soprattutto G. I. Luzzatto,
Appunti sulle dittature imminuto iure.
Spunti critici e ricostruttivi, in Studi
in onore di Pietro de Francisci, III, Milano 1956, 416 ss.; e G. Nicosia, Sulle pretese figure di dictator
imminuto iure, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo,
VII, Milano 1987, 558.
[37]
Più in generale sul praefectus
urbi, vedi Th. Mommsen, Römisches
Staatsrecht, I, 3ª ed., rist. Graz 1952, 661 ss.; W. Kunkel-R. Wittmann, Staatsordnung und Staatspraxis der
römischen Republik. 2. Die Magistratur, [Handbuch der
Altertumswissenschaft, X.3.2.2] München 1995, 274 ss.
[38] Cfr. Gell. Noct. Att. 14.8.2: M. autem Varro
in IIII epistolicarum quaestionum et Ateius Capito in coniectaneorum [CON]IIII
ius esse praefecto senatus habendi dicunt; deque ea re adsensum esse <se>
Capito Tuberoni contra sententiam Iunii refert: ‘Nam et tribunis’
inquit ‘plebis senatus habendi ius erat, quamquam senatores non essent
ante Atinium plebiscitum’. F.
P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.1,
Lipsiae 1898 [rist. an. Roma 1964], 285 fr. 4; Ph. E. Huschke-E.
Seckel-B Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae,
I, cit., 63 fr. 4; W. Strzelecki,
C. Atei Capitonis fragmenta, Lipsiae 1967, cit., 3 fr. 2.
[40] C. G. Bruns,
Fontes Iuris Romani Antiqui, pars prior. Leges
et negotia, editio sexta cura Th. Mommseni et
O. Gradenwitz, Friburgi in
Brisgavia et Lipsiae 1893, 46, fr. 3; F.
P. Bremer, Iurisprudentiae
Antehadrianae quae supersunt, I, cit.,
39 fr. 11; Ph. E. Huschke-E.
Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquiae, cit., 12 fr. 11; S. Riccobono, Fontes Iuris
Romani Antejustiniani, pars prima. Leges, 2ª ed., Florentiae 1941, 79, fr. 1). Un’accurata
revisione della glossa è stata compiuta nel recente lavoro di J. D. Cloud, A lex de ponderibus publicis (Festus p.
[41] Per
quanto riguarda la datazione della lex
Silia de ponderibus publicis, la dottrina più risalente si mostrava
in genere assai dubbiosa: così, ad esempio, il Rudorff, Römische
Rechtsgeschichte, I, Leipzig 1857, 92, pensava al
[42] F. Bona, Contributo allo studio della composizione del de verborum
significatu di Verrio Flacco, Milano
1964, 100.
[44] Sul
grande giurista, a parte A. Pernice,
Labeo. Römisches Privatrecht im
ersten Jahrunderte der Kaiserzeit, 2 voll., Halle
Frammenti in O. Lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae 1889, coll. 501 ss.; F. P. Bremer, Iurisprudentia
Antehadrianae quae supersunt, II.1, cit., 9 ss.; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 55 ss.; H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, I, cit., 557
ss.
[45] Ph. E.
Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 68 fr. 19; W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, cit., 7 fr.
9.
[46] Gell. Noct.
Att. 13.12.1-2: In quadam epistula
Atei Capitonis scriptum legimus Labeonem Antistium legum atque morum populi
Romani iurisque civilis doctum adprime fuisse. “Sed agitabat”,
inquit, “hominem libertas quaedam nimia atque vecors usque eo, ut divo
Augusto iam principe et rem publicam obtinente ratum tamen pensumque nihil
haberet, nisi quod iussum sanctumque esse in Romanis antiquitatibus
legisset”.
[47] Sui
due istituti nei rapporti tra magistrati, vedi ora C. Cascione, Appunti
su ‘prensio’ e ‘vocatio’ nei rapporti tra
‘potestates’ romane, in Au-delà des frontières. Mélanges de droit romain
offerts à Witold Wołodkiewicz, édités par M. Zabłocka et
J. Krzynówek, J. Urbanik, Z. Sluzewska, Varsovie 2000, I, 161 ss.
[48]
Gell. Noct. Att. 13.12.5-6: Cum hoc in ea Capitonis epistula legissemus,
id ipsum postea in M. Varronis rerum humanarum uno et vicesimo libro enarratius
scriptum invenimus, verbaque ipsa super ea re Varronis adscripsimus: "In
magistratu" inquit "habent alii vocationem, alii prensionem, alii
neutrum: vocationem, ut consules et ceteri, qui habent imperium; prensionem,
tribuni plebis et alii, qui habent viatorem; neque vocationem neque prensionem,
ut quaestores et ceteri, qui neque lictorem habent neque viatorem. Qui vocationem
habent, idem prendere, tenere, abducere possunt, et haec omnia, sive adsunt,
quos vocant, sive acciri iusserunt. Tribuni plebis vocationem habent nullam,
neque minus multi imperiti, proinde atque haberent, ea sunt usi; nam quidam non
modo privatum, sed etiam consulem in rostra vocari iusserunt. Ego triumvirum
vocatus a P. Porcio tribuno plebis non ivi auctoribus principibus et vetus ius
tenui. Item tribunus cum essem, vocari neminem iussi nec vocatum a conlega
parere invitum".
A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M.
Terenzio Varrone, Milano 1973, 82 fr. 411; vedi anche128 s.
[50]
Sulla figura e sull’opera del giurista C. Ateio Capitone, da vedere P. Jörs, v. C. Ateius Capito,
in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, II, Stuttgart 1896, coll. 1904 ss.; M.
Schanz-C. Hosius, Geschichte der
römischen Literatur, II, 4ª ed., München 1935 [rist. 1967],
384 s.; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der
römischen Juristen, 2a ed., Graz-Wien-Köln 1967, 114 s.; R. A. Bauman, Lawyers and politics in the early Roman Empire. A
study of relations between the Roman jurists and the emperors from Augustus to
Hadrian, München 1989, 25 ss.
Per la ricostruzione completa dei frammenti del grande
giureconsulto augusteo, vedi ora il fondamentale lavoro di W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, cit., VII ss., 3 ss. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis,
I, cit., coll. 105 s., attribuisce a Capitone cinque frammenti, nel seguente
ordine: D. 8.2.13.1 (= Proculo, Libro
secundo epistularum); D. 23.2.29 (= Ulpiano, Libro tertio ad legem Iuliam et Papiam); D. 24.3.44 pr. (= Paolo, Libro quinto quaestionum), dove legge Capito in luogo del Cato dei mss.; Fest. De ver. sign., v. Reus, p.
[51] F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.1, cit., 283 fr.
1; Ph.
E. Huschke-E. Seckel-B Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae,
I, cit., 62 fr. 1; W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, cit., 5
fr. 5.
[52] F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae
quae supersunt, II.1, cit., 287 fr. 14 e 15; Ph. E. Huschke - E.
Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae
reliquiae, I, cit., 69 fr. 23; W. Strzelecki,
C. Atei Capitonis fragmenta, cit., 15
fr. 25.
[53] F.
P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae
quae supersunt, II.2, Lipsiae 1901 [rist. an. Leipzig 1985], 530 fr. 1,
colloca il passo liviano negli Addenda,
fra le «Reliquiae sententiae, quae non responsa dicuntur».
[54] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di
critica testuale, cit., 442.
[55]
Penetrante analisi interpretativa del contesto liviano, che forse però
sottovaluta la portata “sistematica” della sententia degli iuris interpretes, in P. Marottoli, Leges
sacratae, cit., 31 ss. Non così invece, più di recente, O. Licandro, In magistratu damnari. Ricerche sulla responsabilità dei
magistrati romani durante l’esercizio delle funzioni, cit., 120 ss.; L. Garofalo, “Iuris interpretes” e inviolabilità magistratuale,
cit., 37 ss.
[56]
Intorno alle motivazioni di siffatta interpretatio,
mi pare limitativa la spiegazione proposta da P.
Cerami, Potere ed ordinamento
nell’esperienza costituzionale romana, cit., 123.
[57] Cfr.
M. T. Sblendorio Cugusi (a cura di), M.
Porci Catonis Orationum reliquiae,
Introduzione, testo critico e commento filologico, Torino 1982, 119 fr. LXXIII.
[58] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 3a ed., Leipzig 1887, 486 n. 2,
come data dell’orazione pensava all’anno
[59]
Sulla risalenza della interpretatio iuris
publici di matrice plebea, mi permetto di rinviare ad un mio precedente
lavoro: F. Sini, A quibus iura
civibus praescribebantur. Ricerche sui
giuristi del III secolo a.C., Torino (1992) 1995, 76 ss., con particolare
riferimento all’attività giurisprudenziale di P. Sempronio Sofo e
ad una sua interpretatio iuris publici sulla questione «ubi duae contrariae leges sunt, semper
antiquae obrogat nova».
Sulla figura di questo importante giurista plebeo (a parte il
vecchio lavoro di F. D. Sanio, Varroniana in den Schriften der
römischen Juristen, Leipzig 1867, 148 s.) vedi in particolare F. Münzer, v. Sempronius (nr. 85), in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft, II A, Stuttgart 1923, coll. 1437 s.; T. R. S. Broughton, The
Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 167; W. Kunkel, Herkunft und
soziale Stellung der römischen Juristen, Weimar 1952, 5 s.; F. Wieacker, Die römischen Juristen in der politischen Gesellschaft des zweiten
vorchristlichen Jahrhunderts, in Sein
und Werden im Recht. Festgabe für Ulrich von Lübtow, Berlin 1970,
190; Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung,
Jurisprudenz und Rechtsliteratur, München 1988, 534 s.; F. D’Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza della repubblica,
Napoli 1978, 9; Id., Giuristi e sapienti in Roma arcaica,
Roma-Bari 1986, 88 ss.; infine per quanto riguarda il ruolo politico di P.
Sempronio Sofo, basterà vedere in particolar modo F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste 1962 [rist.
an. Roma 1968], 149 ss.; e da ultimo R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in
their political setting, 316-82 BC, cit., 66 ss.
[60]
Nello stesso senso, fra i moderni, cfr. Th.
Mommsen, Römisches
Staatsrecht, II, cit., 472 ss.; E. De
Ruggiero, v. Aedilis, in Dizionario Epigrafico di Antichità
Romane, I, rist. Roma 1961, 214 s.; P. M. Pineau, Histoire de l’édilité romaine, cit., 9 ss.; P. Willems, Le droit public romain, 7a ed., Louvain 1910, 267. Sul testo
di Catone menzionato da Festo vedi, con interessanti osservazioni, G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, cit., 71 ss.; C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia
potestas e i procedimenti normativi
dell’ordine plebeo, cit., 42 ss.; J. Bayet, L’organisation
plébéienne et les leges
sacratae, cit., 145 ss.; R. santoro,
Potere ed azione nell’antico
diritto romano, in Annali del
Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 30, 1967, 489
ss.; S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e
diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., 442 ss.; A. Piganiol, Les attributions militaires et les attributions religieuses du tribunat
de la plèbe, ora in Id.,
Scripta varia, II, Bruxelles 1973,
267 ss.; J.-CL. Richard, Les origines de la plèbe romaine,
cit., 573 ss.; P. Marottoli, Leges sacratae, cit., 125 s.; S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana. Parte prima, cit., 207; G.
Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storiografici sull’età
delle XII Tavole, cit., 304 s.; P.
Cerami, Potere ed ordinamento
nell’esperienza costituzionale romana, cit., 118 s.; L. Garofalo, Il processo edilizio, cit., 35 s.; B. Albanese, Sacer esto, cit., 165.
[61]
Estremi della controversia in G. Poma,
Tra legislatori e tiranni. Problemi storici
e storiografici sull’età delle XII Tavole, cit., 304 s., la
quale ipotizza anche l’età in cui si svolse (primi decenni del II
secolo a.C.). Nello stesso senso si veda già P. Frezza, Preistoria e
storia della lex publica, in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano 59-60, 1956, 502.
[62]
Seguo, pur consapevole dei rischi, la terminologia, ormai classica, di F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., 34 ss.; 200 ss. Cfr. G. Nocera, Iurisprudentia. Per una storia del pensiero giuridico
romano, Roma 1973, 10 s.; M. Bretone,
Storia del diritto romano, Roma-Bari
1987, 153 ss.
[63]
Vissuto presumibilmente nell’ultimo secolo della repubblica (G. Wissowa, v. L. Cincius, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, III.2, Stuttgart 1899, coll. 2555 s.), L. Cincio
viene considerato da una parte della vecchia dottrina un poligrafo non
giurista: così P. Krüger,
Geschichte der Quellen und Litteratur des
römisches Rechts, Leipzig 1888, 69 n. 83 (= Id., Histoire des
sources de droit romain, trad. franc. di M. Brissaud, Paris 1894, 92 n. 2);
H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I, cit., CV; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der
römischen Literatur, I, cit., 175 s.; F. Bona, Contributo allo
studio della composizione del «de verborum significatu» di Verrio
Flacco, cit., 158; e da ultimo F. Wieacker,
Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz
und Rechtsliteratur, I, cit., 570; ma in altro senso già L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., 71; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., 252; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae,
I, cit., 24; e più di recente M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit., 16; V. Giuffrè, La letteratura de re militari. Appunti per una storia degli ordinamenti
militari, Napoli 1974, 38 ss. [= Id.,
Letture e ricerche sulla “res militaris”, II, Napoli 1996,
242 ss.].
[64] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di
critica testuale, cit., 443 s.
[65]
Basta scorrere soltanto i titoli delle sue opere, per percepire l’eco dei
molteplici interessi presenti nella riflessione del giurista: scrisse un liber de fastis, un liber de comitiis, un liber
de consulum potestate; almeno sei de
re militari libri, almeno due de
officio iurisconsulti libri, e ancora un liber de verbis priscis e dei Mystagogicon
libri. I frammenti di tali opere sono raccolti in L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., 71 ss.; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., 252 ss.; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, cit., 371 ss.; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler,
Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae,
I, cit., 24 ss.
[66] Per
una breve, valutazione dell’opera del giurista, con critica alla scelta
omissiva di O. Lenel nella Palingenesia
iuris civilis, vedi F. Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur.
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., 64 ss.
[67]
Utili riflessioni in S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana.
Parte prima, cit., 205 ss., in part. 207.
[68]
Insiste molto sul valore di questa legge Valeria Orazia come
«modello» G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti,
cit., 72.
[69] Al
riguardo, mi pare da condividere l’analisi prospettata a suo tempo da G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit., 60-61: «A
condizionare gli studi in materia di fondamento giuridico della tribunicia potestas è la scelta
ermeneutica, a monte dello schema interpretativo – e da esso presupposta
–, consistente nella formulazione del problema esclusivamente come
ricerca del procedimento normativo rilevante per l’’ordinamento
pubblico romano’ (civitas, populus o, come più sovente e
‘scopertamente’ si è detto, ‘stato’) e che abbia
potuto quindi validamente costituire fondamento giuridico del tribunato e del
suo potere in tale ambito (inteso o come l’unico ambito possibile o,
comunque, come l’unico rilevante per la ricerca di ‘diritto
pubblico romano’, rispetto a quello eventualmente rappresentato
dall’’ordinamento particolare’ della plebe). è così che il solo
quesito rimasto aperto – negli angusti limiti testé indicati
– è quello della individuazione delle forme storiche ‘in
concreto’ assunte da tale postulata manifestazione di volontà».
Cfr. anche 61-62; 121 ss.
[71] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di
critica testuale, cit., 443.
[72] Cfr. J. Bayet,
L’organisation
plébéienne et les leges
sacratae, cit., 151 s.: «Lorsqu’il s’agit des
édiles de la plèbe, même ambiguïté, mais plus
lucide, entre fonction plébéienne religieusement
protégée et magistrature d’État. Tite-Live
connaît et affirme la loi de 449, qui les déclare sacro-saints,
seuls sans doute avec les tribuns; et c’était aussi l’avis
de Caton l’Ancien. Cependant, des juristes le niaient, sur erreur
philologique, nous l’avons vu, mais aussi parce qu’ils avaient des
exemples d’édiles saisis et emprisonnés sur l’ordre
de magistrats supérieurs. Mais cette expérience ne peut dater que
d’une époque – sensiblement postérieure –
où l’édilité était entrée dans la
chaîne des magistratures régulières».