N. 6 – 2007 –
Memorie//Tribunato-plebe
Università
di Verona
Il giuramento sul Monte Sacro
La
società romana fu fondata da un patto fra i cittadini e fra i cittadini
e i loro dei. Il ‘contrat social’ dev’essere stato sancito
quando
Tribuni
della plebe ed edili erano i magistrati di quella società romana che si
era costituita sul Monte Sacro e per questo la concezione del tribunato come
magistratura negativa costituisce solo una parte della realtà: il
tribunato era tale solo nei confronti delle magistrature nate dal giuramento
repubblicano del 509, mentre era una magistratura legiferante e giudiziaria se
la consideriamo nell'ottica della società nata dal giuramento plebeo del
494.
Roma
ebbe due Fori, nei quali si legiferava e si eleggevano i magistrati: il Foro
propriamente detto, dove si riunivano gli arcaici comizi curiati e poi i comizi
tributi, e il campo Marzio, dove si riunivano i comizi centuriati. Da
ciò appare evidente la centralità dell'attività politica
della plebe. Anche a Capua e probabilmente altre città campane c'erano
due Fori in epoca repubblicana[3].
Cicerone[4]
sostiene che la plebe elesse i primi tribuni riunita per curie. Egli
probabilmente immaginava una votazione avvenuta nel Comizio, secondo le
più antiche suddivisioni politiche dei Romani, cioè le curie. Livio[5],
per parte sua, sostiene che il pontefice massimo presiedette i comizi che
elessero i tribuni dopo il Decemvirato, dopo anni in cui il tribunato era stato
soppresso. E' possibile che la tradizione non avesse conservato il ricordo del
magistrato che aveva presieduto quei comizi, certamente tributi, e a Livio o a
qualche antiquario che lo precedette dev'essere sembrato verosimile che il
pontefice massimo, in quanto depositario del diritto, privo degli auspici e
dell'imperium, avesse creato i tribuni, in assenza di precedenti
magistrati della plebe. Lo stesso imbarazzo si nota nella tradizione sulla
presidenza dei comizi per l'elezione dei primi consoli dell'era repubblicana.
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La
tradizione sulla secessione e sulle origini del tribunato giustappone in realtà
due tradizioni, che rispecchiano due diversi punti di vista: da un lato la
plebe è concepita come la massa dei poveri e la secessione risulta
motivata dai debiti che opprimevano i plebei, e in particolare i plebei
arruolati nelle legioni, mentre, d'altro lato, la secessione risulta la causa
della creazione del tribunato, cioè della somma magistratura plebea. Inoltre
alla secessione risulta legato il giuramento sul Monte Sacro, e dunque alla
costituzione della nuova societas, che si esprimeva attraverso l'assemblea
delle tribù, riunite sotto la presidenza dei tribuni. Sembra che la
plebe sia vista in due modi diversi: o è la massa dei poveri, o è
il movimento politico e sociale che si organizza in modo democratico. Probabilmente
entrambe le concezioni contengono elementi di verità e forse risalgono a
differenti giudizi nei confronti del tribunato nell'epoca in cui la
storiografia romana redasse la storia del tribunato delle origini.
La
maggioranza degli storici ai quali attinsero Livio e Dionisio di Alicarnasso, i
nostri principali autori in materia, è rappresentata da annalisti che
scrissero tra l'epoca dei Gracchi e la fine della repubblica, epoca in cui la
figura del tribuno della plebe era al centro della riflessione politica sia dei
populares che degli optimates[6]. Se noi vogliamo
valutare criticamente quale fosse stato il ruolo del tribunato arcaico,
possiamo solo cercare di capire come la storiografia romana ha operato e come
ha giudicato. Vedere nei tribuni i presidenti di un'assemblea, quella delle
tribù, che varò le più importanti leggi della costituzione
romana, significava, in qualche modo, avallare il ruolo che era stato rivestito
dai Gracchi, in quanto legislatori, presidenti della plebe riunita nei comizi. Riconoscere
invece nei tribuni i difensori dei plebei di fronte agli eccessi e ai soprusi
dei magistrati, che per definizione erano patrizi, era un modo per proporre una
visione riduttiva dei poteri tribunizi.
L'intervento
della storiografia tardo-repubblicana su una più antica storia delle
origini del tribunato è evidente dalla discrasia fra le premesse della
secessione e i risultati. I lettori di Livio si aspettano che alla fine della
secessione venisse varata una legge per cancellare i debiti o per rendere meno
duro il regime dei prestiti fra privati, oppure per assegnare terre ai poveri. Invece
il lettore si trova di fronte a un inatteso spostamento della problematica: i
debiti sembrano dimenticati e, al posto loro, si parla dell'organizzazione
politica della plebe attraverso la creazione delle sue magistrature. Se
dovessimo immaginare come la storiografia avesse operato, dovremmo supporre che
i presupposti della secessione fossero stati drasticamente semplificati e
privati di ogni motivazione politica e istituzionale nel moto plebeo. Nel 495
le tribù erano state portate a 21[7],
dopo che i Romani avevano vinto i Latini presso il lago Regillo. Apparentemente
dunque l'economia agraria romana avrebbe dovuto essere in espansione, e le
tribù, d'altro canto, avrebbero potuto assumere un maggiore ruolo
politico, come era nei desiderata della plebe repubblicana. Esse, peraltro,
erano in numero dispari, in modo che avrebbero adeguatamente potuto servire
alle consultazioni legislative. Ma la storiografia romana di fine II secolo e
di I a.C., in grande maggioranza di origine senatoriale, non avrebbe potuto
riconoscere negli antichi tribuni gli organizzatori di un'assemblea legislativa
democratica, senza con ciò coonestare l'operato di Tibero e Caio Gracco,
di Lucio Apuleio Saturnino e di Caio Mario.
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Poste
queste necessarie premesse, possiamo passare ad alcune considerazioni sulla
natura e sul ruolo del tribunato e, in generale, delle magistrature della plebe
romana.
Correva
l'anno 494 a.C. e di recente Roma aveva sconfitto i Latini nella battaglia del
lago Regillo. L'anno prima era giunta da Cuma, la città greca in
Campania, la notizia che Tarquinio il Superbo era morto in esilio. Le
tribù territoriali erano state portate a 21, dopo avere annesso e
organizzato il territorio portato via ai Latini con la guerra. La giovane
repubblica romana sembrava avviata al successo, ma Tito Livio e gli altri
storici ci informano che allora i ricchi e la classe dei patrizi cominciarono a
prevaricare nei confronti della plebe.
La
costituzione repubblicana, promossa nel 509 da Lucio Giunio Bruto, implicava
che i poteri, le funzioni, i culti, i luoghi che riguardavano tutti i cittadini
fossero del popolo. La regola generale era chiara, ma restava ancora da
definire come ciò sarebbe avvenuto.
Nel
494 emerse il problema gravissimo della disuguaglianza economica. Gli autori
antichi descrivono la crudeltà degli usurai (foeneratores), che
facevano capo al patriziato, e la misera condizione dei plebei, indebitati,
imprigionati e in ogni modo vessati dai loro ricchi creditori. Sicuramente la
narrazione degli storici tardo-repubblicani è viziata da anacronismi che
rinviano a situazioni di età graccana e post-graccana, ma certamente
essa si fondava su una antica tradizione storica romana, secondo la quale i
plebei un tempo erano, in maggioranza, poveri, mentre i patrizi erano molto
ricchi. Una monarchia assoluta, una tirannide o un ferreo regime oligarchico
possono funzionare molto bene anche in presenza di forti divari economici tra i
sudditi, ma una repubblica fatalmente ne soffre, perché essi minano il
principio di uguaglianza, che sta sempre alla base, in una forma o in un'altra,
della repubblica. Se una persona è troppo povera e la sua povertà
le impedisce di fruire di ciò che è pubblico, allora l'idea di
“pubblico” comincia a perdere il suo senso. Se una persona è
troppo ricca e potente fatalmente si impadronisce di molta parte di ciò
che dovrebbe essere pubblico, per cui la res publica tende a diventare
piuttosto res privata.
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L'ideologia
della repubblica romana si serviva di alcuni termini fondamentali per definire
i comportamenti politici negativi e quelli che invece andavano ricercati. Superbia
fu il concetto che definiva il comportamento anti-repubblicano, in quanto
tipico di monarchi (il Superbus per antonomasia in primis) e non di
cittadini di una repubblica. L'ideologia della plebe attribuì ai patrizi
più tracotanti l'accusa di essere superbi[8],
mentre libertas era il concetto che esprimeva la condizione che i plebei
ambivano ad ottenere[9].
Superbia è un termine che indica tutto ciò che emerge
troppo da un determinato livello. Una persona troppo potente, troppo ricca,
troppo elevata contrastava con l'ideale di uguaglianza, che aveva creato la
repubblica. Non solo la liberté, ma anche l'égalité
stava infatti alla base della repubblica. In latino l'uguaglianza si chiamava aequitas,
che indicava ciò che è piatto, livellato, uniforme, uguale, come
la superficie del mare (aequor), sulla quale nulla può ergersi
troppo in alto. Aequum è ciò che vale allo stesso modo per
tutti; una legge equa procura il bene di tutti i cittadini, una iniqua procura
vantaggi solo ad alcuni.
Ciò
cui mirava la plebe attraverso l'istituzione delle sue magistrature era il
raggiungimento dell'aequitas e l'annullamento della superbia. Se
consideriamo le cose in questa ottica il duplice ruolo dei tribuni potrà
riapparire composto in un'unica idealità. Da un lato infatti i tribuni
avevano il compito di limitare i poteri dei consoli, per cui il loro potere
è stato definito come negativo, ma, d'altro lato, essi si rivelano
essere i principali legislatori della storia romana, visto che la maggioranza
delle leggi repubblicane sono dei plebisciti proposti dai tribuni e approvati
dal popolo. E questa loro attività non risale certo all'età dei
Gracchi, ma copre gran parte della storia repubblicana: basti pensare alla lex Canuleia o alle Liciniae Sextiae[10].
L'intercessio
tribunizia e le leggi (definite dapprima plebisciti, ma parimenti entrati in
vigore come leggi) erano due forme attraverso le quali veniva limitata e
indirizzata l'attività dei magistrati: la prima permetteva di bloccare
quei provvedimenti e quelle norme che erano ritenute lesive della libertas
dei plebei e fortemente contrarie all'ideale di aequitas, mentre le
seconde, le leggi tribunizie, stabilivano come i magistrati avrebbero dovuto
comportarsi. E tali leggi tribunizie, stando alla tradizione, in genere avevano
posto fine a situazioni lesive della libertas plebea e dell'aequitas
repubblicana. Non è quindi il caso di guardare esclusivamente all'uno o
all'altro aspetto che caratterizza il tribunato della plebe, né, men che
meno, di svalutarne uno a favore dell'altro, perché entrambi sono
storici ed entrambi si sono rivelati fondamentali della vita politica della
plebe e, possiamo dire, di tutta la Romanità.
L'aspetto
negativo dell'attività tribunizia, quello che blocca l'azione del
magistrato, coinvolge il tribuno nella sua singola persona, mentre
l'attività legislativa coinvolge non solo il tribuno, ma tutta la plebe,
organizzata secondo le sue strutture anagrafiche territoriali. Le due
attività dei tribuni hanno avuto la capacità di formare la
mentalità politica dei Romani. Infatti, se Roma non è cresciuta
come una repubblica oligarchica, dove i pieni diritti politici sono privilegio
dei ricchi, ma come un organismo in cui anche i poveri hanno diritti e dove,
anzi, viene presentato a modello il contadino-soldato, che spinge l'aratro sui
suoi campicelli quando non conduce i legionari alla battaglia.
[1] Sul giuramento nelle storie costituzionali
europee cf. P. Prodi, Il
sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale
dell'Occidente, Bologna 1992.
[2] Res gestae divi Augusti 5: Iuravit
in mea ver[ba] tota Italia. Si veda la successiva serie di giuramenti da
parte delle città delle province orientali dell'impero: P. Herrmann, Untersuchungen zu
seiner Herkunft und Entwicklung, Göttingen 1968.
[6] Cf. L. Thommen, Das Volkstribunat der
späten römischen Republik, (“Historia”
Einzelschriften 59), Stuttgart 1989.
[7] Liv. II.21.7 (in un brano di origine non
annalistica, ma, probabilmente derivata dagli annali pontificali o da altro
archivio della repubblica).
[8] Per es. Liv. II.24.2; 27.1; 30.5; 56.7;
III.9.2; 11.13 (discorso di A.Verginio contro la tracotanza dei Decemviri: omnes
Tarquinios superbia exsuperat) ecc.
[9] Cf. C.
Wirszubski, Libertas. Il concetto politico di libertà a Roma
tra Repubblica e Impero, Roma-Bari, rist. 1957 (ma 1950).