ds_gen N. 6 – 2007 – Contributi

 

MATTONEmanuale giuridico e insegnamento del diritto nelle università italiane del XVI secolo

 

Antonello Mattone

Università di Sassari

 

 

Sommario: 1. Il peso della tradizione. – 2. Mos gallicus e mos italicus negli ordinamenti didattici delle facoltà di diritto. – 3. L’istituzione della cattedra di Pandette. – 4. Bartolismo e umanesimo, due soluzioni inconciliabili?. – 5. Dal trattato didattico al “manuale” giuridico. – 6. Libri e “scartafacci”. – 7. Censura e testi giuridici. – 8. Edizioni di fonti, repertori e nuove aperture disciplinari.

 

 

 

1. – Il peso della tradizione

 

Nel 1588 nell’«edition nouvelle» dei suoi Essais Michel de Montaigne criticava l’imperatore Giustiniano per aver pensato di «frenare con la moltitudine delle leggi il potere dei giudici, delimitando la loro funzione: non si accorgeva che c’è tanta libertà e ampiezza nella interpretazione delle leggi quanta nella fabbricazione  di esse [...]. Infatti il nostro spirito non trova davanti a sé, quando verifica il sentimento altrui, un campo meno spazioso di quando esprime il proprio, e come se ci fosse meno animosità e asprezza nel glossare che nell’inventare. Vediamo quanto s’ingannasse. Infatti abbiamo in Francia più leggi di tutto il resto del mondo insieme, e più di quante ne occorrerebbero per governare tutti i mondi di Epicuro»[1].

Montaigne aveva studiato diritto nelle università di Tolosa e di Bordeaux, era stato consigliere alla Cour des Aides di Périgueux e dal 1557 al 1570 membro del Parlamento di Bordeaux. Proprio l’esperienza diretta aveva fatto scrivere a questo «maestro del dubbio»[2] pagine profonde e amare sulla giurisprudenza del proprio tempo: «Avete visto dei fanciulli mentre cercano di ridurre a un certo volume una massa di argento vivo? Più lo premono e lo impastano e più si studiano di costringerlo a modo loro, più irritano la libertà di quel generoso metallo: esso sfugge ai loro sforzi e va sminuzzandosi e sparpagliandosi al di là di ogni previsione. È la stessa cosa qui – afferma Montaigne –, poiché, suddividendo quelle divisioni, si insegna agli uomini di accrescere i dubbi; ci si mette sulla strada di estendere e diversificare le difficoltà, le si allungano, le si disperdono [...], si fa fruttificare e proliferare il mondo d’incertezza e di vertenze [...]. “Difficultatem facit doctrina”. Dubitavamo già su Ulpiano, ridubitiamo ancora su Bartolo e Baldo. Bisognava cancellare la traccia di quell’innumerevole varietà di opinioni, non ornarsene e stordirne la posterità»[3].

Intellettuale di formazione umanistica, Montaigne si rendeva conto di tutte le contraddizioni di un sistema basato su un esasperato particolarismo giuridico, in cui il costante richiamo alle auctoritates degli antichi giureconsulti, spesso opposte o contraddittorie, ai vecchi statuti, alle raccolte di consuetudini, alle sentenze dei tribunali supremi, ai bandi e alle ordinanze regie, al diritto romano e a quello canonico, portava alla confusione assoluta e alla paralisi, terreno nel quale i causidici trovavano gli argomenti e i pretesti per rendersi indispensabili[4].

Una settantina d’anni prima Thomas More, umanista e giurista di lunga esperienza, aveva polemizzato contro un sistema giuridico complicato e cavilloso, contraddistinto da un «gran cumulo di aggrovigliatissime leggi» e dall’interminabile corso dei processi. Nell’isola di Utopia – aveva immaginato – gli abitanti hanno «pochissime leggi, perché di più non ne servono a gente educata in quel modo. Perciò il maggior difetto che essi imputano agli altri popoli è che le caterve di volumi degli interpreti del diritto restano pur sempre insufficienti. Considerano poi estrema ingiustizia il fatto che esistano uomini tenuti a rispettare norme o troppo numerose per poterle scorrere attentamente da cima a fondo, o troppo oscure perché qualsiasi persona possa capirle. In conseguenza non ammettono avvocati che trattino con sottigliezza le cause o discettino astutamente sulle norme»[5].

Un altro utopista, Tommaso Campanella, immaginerà ne La città del sole un mondo fondato sull’amore, il lavoro, la giustizia fraterna nel quale «le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci son scritte tutte le quiddità delle cose in breve: che cosa è Dio, che cosa è angelo, che cosa è mondo, stella, uomo, ecc., con gran sale, e d’ogni virtù la deffinizione. E li giudici d’ogni virtù hanno la sedia in quel loco, quando giudicano, e dicono: “Ecco, tu peccasti contro deffinizione: leggi”; e così poi lo condanna o d’ingratitudine o di pigrizia o d’ignoranza; e le condanne son certe vere medicine, più che pene, e di soavità grande»[6].

L’idea di un ritorno alle origini del diritto e alla semplificazione delle leggi aveva affascinato anche l’utopista tedesco Kaspar Stiblin, che nel suo Commentariolus de Eudaemonensium Republica (Basilea, 1550) aveva scritto: «Lo studio delle leggi e del diritto civile è fiorentissimo nella scuola di Eudomone», ma non vi sono ammessi né Bartolo, né Baldo, né il Panormita, né «gli altri commentatori tanto faticosi quanto barbari», e solo si attende (secondo i dettami del metodo umanistico) a interpretare il puro testo del Corpus iuris[7].

La polemica contro i legisti, contro i giureconsulti avidi e tortuosi, accomunava, nel XVI secolo, umanisti e utopisti. Nessuno è «altrettanto vanaglorioso» quanto i giuristi, «mentre rotolano senza tregua il sasso di Sisifo – aveva già scritto Erasmo da Rotterdam nell’Elogio della stoltezza (1509) –, elaborando una serie di leggi, tutte col medesimo spirito a qualunque cosa si riferiscano, ed accumulano chiose su chiose, opinioni su opinioni, in modo che il loro studio sembri il più difficile di tutti»[8].

Eppure il Cinquecento si caratterizza nel suo complesso come un secolo di grandi, positive novità nell’ambito dell’insegnamento universitario del diritto. Un momento “alto”, soprattutto se lo si paragona alla decadenza degli studi, specie italiana, del secolo successivo. La polemica tra i sostenitori del metodo umanistico e della lettura del “nudo testo” e i difensori del bartolismo e del cosiddetto mos italicus di insegnamento delle materie giuridiche ebbe indubbiamente riflessi positivi, con l’istituzione delle prime cattedre di Pandette, sui vetusti ordinamenti universitari. Lo sviluppo delle magistrature e della giurisprudenza dei tribunali supremi favorì la nascita di nuovi ambiti disciplinari, come ad esempio il diritto criminale, che furono recepiti nei piani di studio delle facoltà giuridiche.

Nel Cinquecento si assiste inoltre alla piena affermazione del libro giuridico. Nel 1548 Konrad Gesner (1516-1565), umanista e naturalista svizzero, genio multiforme e poliedrico, segnalava nella dedica al tipografo veneziano Tommaso Giunti del libro XIX delle sue Pandectae, a proposito del De Iurisprudentia indici tres, la posizione di assoluta preminenza che avevano le discipline giuridiche nel campo bibliografico[9]. Si può senz’altro affermare che nel XVI secolo, con le Institutiones iuris canonici (1560) di Giovanni Paolo Lancellotti, nacque la manualistica giuridica di ambito universitario. La vasta messe di commentarii, parafrasi, sintesi, delucidazioni delle Istituzioni giustinianee, pubblicate nel corso del Cinquecento (Aldobrandini, Baron, Mysinger von Frundeck, Schneidewein, Wesenbeck, etc.), costituisce anch’essa un indubbio contributo alla formazione del libro di testo universitario[10].

Nella gran parte delle università italiane ed europee della prima metà del Cinquecento i piani di studio e i metodi di insegnamento del diritto rimanevano ancora legati agli schemi ereditati dai modelli didattici medievali che prevedevano l’alternarsi di lecturae “ordinarie” e “straordinarie” e avevano come scopo l’illustrazione e la spiegazione del Corpus Iuris Civilis e di quello canonico. Resisteva inoltre la vecchia divisione del Digesto in tre parti (Digesto Vecchio, Nuovo e Inforziato) attuata dai glossatori. Le lezioni ordinarie di diritto civile riguardavano le lecturae del Digesto Vecchio e del Codice; quelle di diritto canonico il Decretum di Graziano e le Decretali; le lezioni straordinarie di civile erano quelle sull’Inforziato, sul Digesto Nuovo e sul cosiddetto Volumen (le Institutiones, l’Authenticum e i Libri feudorum). L’insegnamento veniva impartito secondo il metodo scolastico: il professore esponeva un’interpretazione della legge, cui opponeva le altre interpretazioni contrastanti per concludere con le proprie osservazioni personali o, più frequentemente, richiamando la communis opinio dominante sul passo esaminato. Si trattava del cosiddetto mos italicus iura docendi[11]. D’altra parte, come ha osservato Francesco Calasso, la «giurisprudenza medievale italiana dominava il pensiero giuridico di tutta l’Europa»[12].

L’organizzazione didattica della maggior parte delle università era ispirata a questo collaudato modello: la circolazione di maestri e studenti a livello europeo era favorita dai medesimi ordinamenti didattici e dagli stessi programmi dei corsi. Negli anni 1526-1550, ad esempio, lo Studio di Bologna aveva 26 tra professori e lettori di diritto civile (così ripartiti: 5 per il Digesto Vecchio, 14 per il Nuovo, 1 per il Volumen, 2 per gli Instituta, 2 per l’Authenticum e 2 per i Libri feudorum), 16 docenti di diritto canonico e 1 di arte notarile, suddivisi in letture ordinarie e straordinarie, corsi mattutini e serali[13]. In genere le letture ordinarie si tenevano la mattina e quelle straordinarie di pomeriggio. Nell’anno accademico 1566-67 a Torino, Studio di recente “restaurato” dal Senato di Piemonte, le letture delle discipline giuridiche erano dieci: quattro di mattina (3 di «ragione civile», 1 di canonico) e sei di sera (2 di civile, 2 di istituzioni, 1 di diritto feudale, 1 di diritto criminale)[14].

A Padova, università che alla fine del Quattrocento aveva soppiantato Bologna nell’autorevolezza degli studi legali, i corsi giuridici ruotavano intorno a quattro letture ordinarie fondamentali: due per il diritto civile – una «de mane» e l’altra «de sero» – e due per il diritto canonico – anch’esse una mattutina e l’altra pomeridiana[15]. Ognuna delle lecturae era tenuta contemporaneamente da due docenti che “leggevano” nello stesso orario i medesimi libri del Corpus iuris civilis e di quello canonico. Per il diritto civile al mattino si leggevano ad anni alterni il Digesto Vecchio e il Codice; al pomeriggio il Digesto Nuovo e l’Inforziato. Si prevedeva che tutto il Digesto e tutto il Codice venissero letti integralmente nel giro di quattro anni. La cattedra che dal 1493 era stata dichiarata principalis ceteris omnibus Gymnasii, era quella di ius civile della mattina, detta anche di «ragion civile»: essa attirava il maggior numero di studenti e non si limitava all’esposizione del “nudo” testo romanistico, ma prevedeva anche la lettura delle glosse e la spiegazione dell’apparatus per fornire ai giovani il vasto commento delle interpretazioni dottrinali che erano la magna pars del diritto vigente[16]. A Padova svolgeva inoltre un’importante funzione il Collegio dei giuristi, cui si rivolgevano per i pareri non solo i privati ma anche gli Stati, i principi e l’imperatore: in alcune cause emanava sentenze come una sorta di tribunale di appello[17].

Nel 1585 il canonico romagnolo Tomaso Garzoni, a proposito De’ dottori di legge civile o giureconsulti o leggisti, scrive con spirito classificatorio nel suo ponderoso trattato La piazza universale di tutte le professioni del mondo che «le leggi comprese ne’ nove libri del Codice sono [...] tremila e seicento e otto; il Digesto vecchio ne contien duemila e novecento vintiotto; l’Inforziato due mila e duecento trentaquattro, il Digesto novo due mila e novecento ottanta tre, i tre libri del Codice meschiati nel libro del Volume novecento cinquanta e quattro, che farebbero in tutto somma di dodici mila e settecento e sette»[18]. Secondo le testimonianze del tempo i docenti si attardavano spesso a commentare poche leggi, esasperando il commento con futili e dannose subtilitates e rallentando ad libitum la lettura delle fonti. Alcuni erano soliti impiegare tre mesi per spiegare una sola rubrica e finivano così per commentare non più di quattro-sei leggi all’anno[19].

L’insegnamento era basato soprattutto sull’oralità: gli studenti assistevano alle lezioni, prendevano appunti, partecipavano alle dispute e alle opposizioni, finalizzate spesso ad approfondire casi pratici, con esercitazioni volte a memorizzare i principi giuridici, ripetendo ad alta voce regulae iuris e brocardi. Nelle lezioni il testo romanistico restava sullo sfondo, alla Glossa si accennava in termini generici: lo sforzo maggiore del docente era concentrato sull’«interpretazione analogica» dei giuristi del XIV-XV secolo e, in particolare, delle soluzioni proposte nelle raccolte dei consilia e delle decisiones dei tribunali supremi. Nella commedia Scolastica (Venezia, 1546) di Lodovico Ariosto (completata dal fratello Gabriele) si ironizza sul fatto che lo studente non voglia più leggere «testi, né chiose a Baldi, Cini o Bartoli» come si usava nelle università del tempo[20].

Non esistevano manuali o libri di testo universitari modernamente intesi. Gli studenti più poveri studiavano in genere sugli «scartafacci» degli appunti presi a lezione, quelli più ricchi potevano permettersi l’acquisto di libri necessari per integrare le lecturae o per approfondire gli argomenti. D’altra parte lo sviluppo dell’arte tipografica e l’ampliamento del mercato editoriale avevano notevolmente ammortizzato il costo dei volumi.

Nel 1520 il venticinquenne studente tedesco Bonifacius Amerbach, figlio di un celebre tipografo di Basilea, che aveva già studiato diritto con Zasius nell’Università di Friburgo in Brisgovia, iscrivendosi alla facoltà giuridica di Avignone dove insegnava Alciato sentì la necessità di acquistare, all’inizio dei corsi, «utrumque Corpus iuris civilis et canonici» sicuramente glossati, le «interpretationes Bartoli Sassoferrati et Ranieri Arsendi» ed il commento di «Felini Sandei In Decretales»[21]. Certo, Amerbach non fa testo: veniva da una famiglia benestante e colta, dato il mestiere paterno aveva di sicuro una gran disponibilità di libri, era inoltre seriamente intenzionato ad approfondire gli studi giuridici e ad intraprendere la carriera di magistrato o di professore nella sua città natale. Un altro studente di famiglia nobile, il giovane Carlo Borromeo, iscritto alla facoltà di diritto di Pavia, scriveva nel 1553 al padre «mi bisogna comprar la Summa d’Azzone, quale costerà uno scuto, et un Decio de regulis iuris»[22].

L’artigianato librario mostrò di essere in grado di rispondere positivamente alla crescente domanda di fonti romanistiche che veniva dalle aule universitarie (e non solo da esse). Soltanto in Italia vennero stampate dal 1515 al 1578 9 edizioni del Codex (7 a Venezia, 2  a Torino), dal 1501 al 1591 18 edizioni del Digesto (13 a Venezia, 4 a Torino, 1  a Firenze), dal 1501 al 1599 53 edizioni delle Institutiones (48  a Venezia, 4  a Torino, 1  a  Toscolano, presso Brescia) – l’opera più pubblicata per la sua ampia utilizzazione didattica –, dal 1512 al 1591 10 del Volumen (8 a Venezia, 2 a Torino). Il Corpus iuris canonici col Decretum di Graziano ebbe in Italia dal 1514 al 1600 19 edizioni a stampa (15  a Venezia, 2  a Torino, 2  a Roma). Se si considera che le tirature oscillavano in media tra le 1.000 e le 3.000 copie si può supporre, con larga approssimazione, che nel corso del XVI secolo furono stampati dai 200 ai 300.000 esemplari del Corpus iuris civilis e di quello canonico[23].

Il modello italiano della suddivisione delle discipline e dei corsi e dell’organizzazione della didattica della facoltà di diritto venne ripreso e fatto proprio dalla maggior parte degli statuti delle università europee. Gli statuti dello Studio di Avignone del 1503, ad esempio, prevedevano che il Corpus iuris civilis venisse letto secondo il sistema italiano: nelle letture “ordinarie” mattutine si commentavano alternativamente Codex e Digesto Vecchio; di pomeriggio Digesto Nuovo e Inforziato; nelle letture “straordinarie” venivano analizzati le Institutiones, le Novellae e il Volumen. Venivano invece trascurati i Libri feudorum[24]. Alciato, che pure aveva insegnato nella città francese, definì lo Studio avignonese «pistrinum Accursianorum», un mulino di glossatori, e nel 1523 da Milano, chiese scherzosamente ad Amerbach, che vi studiava, se i corsi bartolisti lo impegnassero troppo («et cum Bartolo luctatus es?»)[25].

Nelle università spagnole del Cinquecento, da Salamanca – uno dei centri culturali europei più vivaci nel campo della teologia e del diritto – a Lérida, da Valencia a Alcalá de Henares, da Valladolid a Huesca, da Siviglia a Granada, sino agli Studi di nuova fondazione nelle Indie (dove erano sorte le università di Santo Domingo, Lima, Città del Messico, Charcas, Santa Fe di Bogotà, Quito), imperavano incontrastati il metodo didattico tradizionale e il bartolismo[26]. D’altra parte la monarchia di Filippo II, con la dilatazione delle istituzioni amministrative e di quelle giudiziarie in Spagna e nelle Indie, aveva bisogno non di filologi umanisti ma di letrados con una conoscenza pratica del diritto, indispensabile per esercitare le funzioni di magistrato nelle Audiencias, di burocrate nei Consejos o nei viceregni, di amministratore civico o del patrimonio regio[27]. Non a caso per la fondazione della Università di Città del Messico nel 1551 vennero, diciamo così, “esportati” i collaudati ordinamenti didattici dello Studio di Salamanca che, a loro volta, si ispiravano al modello bolognese. Nei corsi messicani di diritto furono istituite quattro cattedre ordinarie: una di Canoni, una di Decreti, una di Codice e una di Istituzioni[28].

Anche l’Università di Napoli costituiva un bastione di quel tradizionalismo giuridico di cui – come ricordava Pietro Giannone – era paladino lo «stile spagnolesco»[29]. Rispetto ad altre università (Padova, Bologna, Pavia, Pisa, Roma, Torino) che si erano mostrate in qualche modo aperte alle suggestioni della scuola culta e ai propositi di rinnovamento delle correnti umanistiche, lo Studio napoletano, legato ai canoni didattici del mos italicus, si proponeva finalità essenzialmente pratiche e si presentava come una vera e propria “fabbrica” di doctores destinati alle carriere burocratiche, alle magistrature e al mondo forense[30]: «Non c’è Palazzo di Giustizia, il cui chiasso dei litiganti e dei loro accoliti superi quello dei tribunali di Napoli – avrebbe scritto Montesquieu nel 1729 – [...]. Ci sono 50.000 di questi causidici e vivono bene. Lì si vede la lite calzata e vestita»[31].

La riforma attuata nel 1614-16 dal viceré conte di Lemos, modellata sull’organizzazione didattica e di governo degli Statuti di Salamanca del 1561, accentuò ulteriormente la vocazione emintenemente pratica dei corsi giuridici dello Studio partenopeo[32]: «La nostra giurisprudenza non cambiò sembiante – ha commentato Giannone –, ed i professori così nelle cattedre come nel foro, de’ quali era il numero cresciuto, seguitavano i vestigi de’ loro maggiori»[33].

Il movimento umanistico col suo rigoroso metodo storico-filologico finì per sovvertire il chiuso mondo delle università. Le innovazioni introdotte dagli umanisti nel campo della filosofia, della teologia, del diritto, della medicina, delle scienze naturali suscitarono sovente la risentita reazione di vasti settori del mondo accademico. L’editoria giuridica italiana del XVI secolo esprime nel complesso il diffuso conservatorismo dei piani di studio delle facoltà di diritto, ancora legate ai vecchi ordinamenti didattici e chiuse verso il rinnovamento. Si trattava della riproposizione, pure in un contesto storico mutato, di un vetusto metodo di insegnamento basato su una lettura delle fonti romanistiche filtrate attraverso un apparato di auctoritates e su un frequente ricorso alla communis opinio doctorum e, in particolare, a quella dei commentatori civilisti del XIV-XV secolo[34]. Il «filosofeggiare» di questa scuola giuridica aveva portato talvolta ad «esiti eccessivi», con il conseguente, «progressivo distacco dal testo giustinianeo»: si era infatti affermata una concezione del diritto nella quale la «legge romana» trovava applicazione soltanto attraverso la «lente deformante dell’opinione del commentatore» e si esprimeva nell’uso crescente (addirittura dilagante tra Quattro e Cinquecento) dell’argomento ab auctoritate, cioè di un tipo di argomentazione che fondava il «valore di una tesi sull’autorevolezza di precedenti enunciazioni»[35].

Nel corso del XVI secolo il mos italicus appariva a molti legato agli schemi più tradizionali dell’interpretazione giuridica e sclerotizzato nella riproposizione di glosse e commenti, spesso superati, tipici del sistema del diritto comune “vecchia maniera”. I testi romanistici, integrati dagli iura propria e dalle leggi locali, venivano utilizzati oltre che per l’insegnamento, per risolvere i problemi posti dall’applicazione pratica del diritto e per la soluzione di casi concreti, favorendo la proliferazione di opere a stampa di casistica e di ambito forense (consilia, allegationes, decisiones, quaestiones), infarcite di sovrabbondanti citazioni delle opinioni dei giuristi più autorevoli. Tuttavia, questo metodo di insegnamento era, soprattutto in Italia, perfettamente congeniale alle esigenze di formazione pratica del giurista, chiamato a districarsi tra le fonti romanistiche, la tradizione statutaria e la vastissima produzione di testi e pareri dei giureconsulti medievali e moderni. Era quindi inevitabile che un metodo, nonostante tutto per molti aspetti ancora vitale, venisse difeso ad oltranza dai giuristi pratici e dagli ambienti forensi inclini alla conservazione.

È contro questo sistema che nel 1435 si era scagliato Lorenzo Valla – «vero iniziatore della polemica contro gli interpreti medievali»[36] –, durante il suo insegnamento della retorica nello Studio pavese, accusando Bartolo di essere il dissipatore del patrimonio classico del diritto e contro i giuristi moderni che pedissequamente continuavano a rifarsi a lui. Il rinnovamento umanistico della scienza giuridica nasceva non soltanto al di fuori delle aule universitarie ma addirittura contro i metodi tradizionali di insegnamento del diritto romano da parte di docenti, privi spesso d’un minimo di cultura storica e letteraria. La conoscenza filologica della lingua latina agevola la comprensione e l’interpretazione del diritto, afferma Valla nelle Elegantiae: «Quale sia del resto l’importanza dell’inter­pretazione dei termini lo attestano sommamente i libri stessi dei giuristi – afferma –, che sono sempre impegnati in questo. Così ci fossero rimasti tutti o almeno non avessimo, contro il divieto di Giustiniano, i loro successori! I nomi di questi ci sono anche troppo noti [...], uomini che a stento intendono la quinta parte del diritto civile, e che accecati dal velo della loro ignoranza asseriscono che chi ricerca l’eloquenza non può divenir dotto di diritto civile, come se quei giuristi antichi si fossero espressi rozzamente al modo di costoro, o non fossero stati del tutto egregi in quella scienza»[37].

Nelle Elegantiae, opera trasgressiva e rivoluzionaria, che incontrò grandissima fortuna nell’Europa cinquecentesca (una settantina di edizioni italiane e straniere soltanto nella prima metà del secolo grazie al loro uso scolastico come manuale di livello superiore), Valla, con il quasi fanatico rifiuto della tradizione giuridica medievale dei glossatori e dei commentatori del Digesto, voleva gettare le basi per la costruzione di un latino letterario che, espressione di un umanesimo aulico e sublime, includesse e magari superasse la stessa grandezza della civiltà classica[38]. In questa prospettiva si colloca il De verborum significatione (1443) di Maffeo Vegio (1406-1458), un’opera nata all’interno dell’ambiente intellettuale pavese e con motivazioni culturali assai simili a quelle del Valla: il trattatello determinava infatti il valore di molti termini del Digesto, riportando per ogni parola i passi corrispondenti e le relative fonti e proponendo un metodo nuovo per la spiegazione di molte espressioni dell’antica giurisprudenza. Come per Valla anche per Vegio l’inizio della decadenza degli studi giuridici era da addebitare all’opera codificatoria di Triboniano (e, quindi, di Giustiniano) e a quella dei successivi interpreti medievali, Cino, Bartolo e altri che, «tamquam Apollinis oracula, observamus»[39]. Come ha notato Domenico Maffei, con gli scritti filologico-eruditi di Valla e Vegio viene «gettato il seme dell’antitribonianismo che si confonde poi con quello della polemica contro la giurisprudenza medievale», destinato ad avere notevole fortuna nel Cinquecento con la critica al sistema del jus commune e la nascita dei diritti “patri”[40].

Un altro contributo rilevante al rinnovamento degli studi giuridici venne dalla storiografia umanistica con i suoi rigorosi metodi filologici, l’uso di un latino curato ed elegante, la cosciente sensibilità laica, il gusto erudito ed antiquario: nella Declamatio (1440) sulla falsa donazione di Costantino Valla aveva inaugurato una nuova metodologia critica nell’analisi delle fonti; Gasparino Barsizza (1359-1431) nel De nominibus magistratuum Romanorum libellus aveva affrontato la tematica delle magistrature; Pier Candido Decembrio (1392-1477), cui Valla aveva dedicato il suo scritto antibartolista, aveva composto il De muneribus Romanae rei publicae affrontando le questioni relative al diritto pubblico romano; Flavio Biondo (1388-1463) nella Roma triumphans (1459) aveva tracciato un nitido quadro delle antichità giuridiche romane, servendosi di un vasto materiale filologico, epigrafico e numismatico; un modesto epigono del Biondo, Giulio Pomponio Leto (1425-1497), col trattatello De Romanorum magistratibus sacerdotiis iurisperitis et legibus (1483 circa), aveva tentato di trattare senza apporti innovatori il tema delle leggi e dei giureconsulti; Marco Antonio Sabellico (1436 circa - 1506), professore di eloquenza e storiografo ufficiale della Repubblica di Venezia, nel De Praetoris officio libellus (1491 circa) aveva analizzato il ruolo e le funzioni del pretore romano[41].

A proposito dell’incidenza degli studia humanitatis sulla cultura quattrocentesca Eugenio Garin ha posto in evidenza che «si sono scartabellati lessici e documenti universitari per stabilire che cosa gli umanisti intendevano quando si dicevano “umanisti”, quali fossero gli insegnamenti che impartivano, e quali titoli avessero le cattedre di maestri celebrati». A suo avviso il limite principale di questi tentativi di interpretazione è stato quello di «prendere come punto di riferimento l’assetto delle scuole universitarie, senza rendersi conto che era proprio l’università medievale che era messa in discussione e cadeva in discredito, mentre cultura e ricerca si cercavano altri centri, o avviavano la costruzione di altre strutture»[42].

 

 

2. – Mos gallicus e mos italicus negli ordinamenti didattici delle facoltà di diritto

 

In una celebre pagina del secondo libro di Gargantua et Pantagruel (1534), François Rabelais, umanista e scienziato, si fa gioco del catalogo della «magnifica» biblioteca parigina di Saint-Victor. È una satira estrosa e graffiante della cultura ufficiale del tempo, ma nello stesso tempo rivela una conoscenza diretta delle letture in voga e dei testi usati o consigliati nelle università. Si inizia con un’irriverente presa in giro dei libri giuridici: Bragheta iuris; Pantofla decretorum; «Dei Piselli al lardo, cum commento»; Praeclarissimi juris utriusque doctoris Maestro Pallotti Grattadenarii, De Glossae Accursianae inetiis gabbolandis, Repetitio enucidiluculidissima; «M.N. Rostocostogambadasina, De Mostarda post prandium servienda, lib. quatuordecim, apostilati da don Vaurillon»; «Il Coglionamento dei promotori»; De Calcaribus removendis, decades undecim, per D. Albericum de Rosata; Justinianus, De bigottis tallendis e via dicendo[43]. Si trattava della beffarda parafrasi di un catalogo di libri giuridici assai famosi e celebrati che potevano essere consultati nelle biblioteche dei Collegi e degli Studi di mezz’Europa: mentre un buon numero dei titoli elencati sono puramente scherzosi e immaginari, gli altri si riferiscono ad opere e ad autori realmente esistenti (la Glossa accursiana, Giustiniano, Alberico da Rosate, etc.).

Nel XVI secolo il pensiero di Bartolo da Sassoferrato costituiva il punto di riferimento imprescindibile per la formazione del giurista nelle università italiane, straniere ed in quelle del nuovo mondo americano. «Nullus bonus iurista nisi bartolista», diceva un celebre aforisma, che confermava l’autorità assoluta della opinio Bartoli[44]. Non a caso negli Studi italiani vennero istituite apposite cattedre finalizzate alla lettura e all’approfondi­mento dell’opera del grande giurista marchigiano, ai cui scritti si guardava come ad una summa della sapienza giuridica civilistica: nello Studio di Napoli si stabilì nel 1507 l’attivazione di una cattedra di «testo, glosse e Bartolo»[45]; nel 1544 venne creata a Padova, per desiderio degli studenti, una cattedra destinata alla «lectura textus, Glossae et Bartoli», che doveva seguire passo passo, per integrarle, le lezioni dei docenti ordinarii; così pure a Torino nel 1570, a Perugia nel 1586 e a Bologna dove nel 1587 fu acceso un corso di «repetitiones Bartoli»[46]. La cattedra l’anno successivo aveva già ben quattro titolari a causa dell’alta frequenza studentesca. Nel Seicento il corso Repetitionum Bartoli, articolato in quattro anni, fu essenzialmente finalizzato alla formazione pratica degli studenti[47]. Gli statuti dello Studio di Messina (1597) raccomandavano ai docenti di diritto di «fondare le lectioni loro sopra Bartolo». L’insegnamento delle materie giuridiche prevedeva la lettura del Digesto Infortiato, di quello Nuovo, di quello Vecchio e del Codice, insieme alla «lectura del de pheudis [...] e della statuta»[48].

Nel 1591 il Senato di Milano consigliava i professori dello Studio di Pavia di limitarsi nelle lezioni all’esposizione degli antichi interpreti, in particolare i glossatori, Bartolo e Baldo, e di astenersi dal richiamo degli autori più recenti[49]. Nell’Università di Catania, come anche nei due Studi del Regno di Sardegna, Cagliari (1626) e Sassari (1634), le lezioni tenute nelle facoltà di diritto restavano saldamente ancorate agli schemi e ai metodi tradizionali dell’insegnamento[50]. «Le letture di Bartolo, il quale tutti gl’altri meritamente precede – scriveva nel 1604 Annibale Roero a proposito dei corsi giuridici pavesi –. Onde in alcuni paesi per statuto regio è stabilito, che ove sono discordanti le opinioni de’ Dottori, prevaglia quella di Bartolo, come del maggiore di tutti gli altri»[51].

In Spagna, ad esempio, dal XV secolo la Corona aveva imposto legislativamente la prevalenza dell’opinione di Bartolo su quella di ogni altro dottore: l’opinio del giurista italiano acquisiva di conseguenza il valore di norma sussidiaria[52]. In una prammatica del 1427 il re Giovanni II di Castiglia stabiliva infatti che non si potesse allegare nei giudizi «opinión ni determinación, ni decisión ni derecho, ni autoridad ni glosa de qualquier doctor» se non quelle di Giovanni d’Andrea e «Bartulo, ni otrosi de los que fueren de aquì adelante». Anche una prammatica dei Re Cattolici del 1499 confermava agli avvocati il divieto di allegare altre autorità dottrinali fuorché «en canones a Juà Andrés, y en leyes a Barto», specificando che «en defecto de Barto» si potesse soltanto «alegar Baldo»[53]. Una delle poche voci discordi era quella dell’umanista Elio Antonio de Nebrija, professore nelle Università di Siviglia, Salamanca e Alcalà, che in un trattatello edito a Salamanca nel 1506, il Lexicon iuris civilis adversus quosdam insignes Accursii errores, sferrava un duro attacco alla tradizione giuridica medievale e alla Glossa, di cui sottolineava impietosamente tutti gli errori, auspicando un nuovo metodo filologico nell’indagine delle fonti romanistiche[54].

«Viene el pleito a disputaçión: / Alli es Bartolo e Chino, Digesto, / Juan Andres e Baldo, Enrique, do son / más opiniones que uvas en cesto...»[55], recita uno spiritoso Dezir del XV secolo a proposito di una «pugna» tra il diritto comune e quello consuetudinario. Un giurista di formazione umanistica come l’aragonese Antonio Agustín, già allievo bolognese di Alciato, constatava con una punta di disgusto che i professori di Salamanca insegnavano secondo il metodo della vecchia scuola del mos italicus bartolista[56]. Le facoltà spagnole di diritto aderivano infatti ai metodi del mos italicus e del bartolismo: a Salamanca, ad esempio, secondo gli statuti del 1564 e del 1594, l’insegnamento delle materie giuridiche era imperniato esclusivamente sulla lettura e sull’esegesi del Corpus giustinianeo e del Corpus iuris canonici, integrati dai testi dei commentatori e, in particolare, da quelli di Bartolo alla cui autorità, esplicitata spesso in regole generali e in “brocardi”, ci si inchinava. Nei corsi si potevano comunque richiamare, pur marginalmente, per le inevitabili concordanze pratiche, le leyes della Corona di Castiglia (Siete Partidas, Leyes de Toro, Nueva Recopilación, etc.)[57]. Dalle leggi lusitane emanate da Alfonso V nel 1446 alle Ordenaçoes Filipinas (1603) per il Portogallo si prescriveva che «se guarde a opinião de Bartolo, porque sua opinião commummente he mais conforme á razão» (cioè al diritto romano)[58]. In Italia il duca di Urbino, Francesco Mario II della Rovere, nelle costituzioni del 26 febbraio 1616, per «levare a’ giudici e professori di legge l’incertezza nella quale molte volte si trovano» indicava che «nelle cause tanto civili, quanto criminali non si possa [...] valersi nel sententiare et allegare in iure, di altro, che del semplice testo, Glosa et leture di Bartolo, Baldo, Paolo di Castro, Alessandro, Iasone et Imola...»[59].

Nel corso del XVI secolo vennero pubblicate in tutta Europa 512 edizioni delle opere di Bartolo, di cui ben 332 a Lione e 93 a Venezia. La prima, autorevole edizione delle Lecturae di Bartolo al Corpus iuris venne stampata a Venezia dal marzo del 1476 al marzo del 1478 dal tipografo Nicolas Jenson in undici volumi in folio di complessive 1.684 carte e in caratteri romani, differenziati nel corpo per il testo romanistico e per il commento del giurista marchigiano: l’opera, destinata secondo gli intendimenti di Jenson soprattutto al pubblico degli studenti, si abbatté con «l’impeto della valanga» sull’editoria giuridica veneziana ed europea[60].  L’edizione di riferimento è quella curata dal giurista veneziano di origine greca Tommaso Diplovatazio che, a differenza delle spiegazioni dogmatiche allora in uso, annotò i testi bartoliani non solo da giurista, ma anche da storico e da filologo: i nove tomi dei Commentaria e dei Consilia vennero pubblicati a Venezia da Battista De Tortis tra il 1516 e il 1529[61]. Altra edizione dei Commentaria di Bartolo, anch’essa veneziana, è quella stampata nel 1570 da Giunti in undici tomi in folio in caratteri romani su due colonne, che ebbe una vasta circolazione europea (fu ristampata nel 1590 e nel 1596). Si segnalano inoltre l’Opera quae nunc extant omnia, curata da Pieter Cornelis van Brederode, in 11 tomi stampati nel 1588-89 a Basilea «ex officina Episcopiana»[62].

La più antica edizione di un commento di Baldo è perugina: la Lectura super sexto libro codicis, anteriore all’autunno 1472, stampata da alcuni tipografi tedeschi che avevano costituito una società con Matteo degli Ubaldi jr.. La famiglia del giurista perugino svolse in principio un ruolo decisivo nell’edizione e nella commercializzazione delle opere di Baldo: Sigismondo degli Ubaldi curò infatti il De materia statutorum, un’antologia di testi baldeschi. Per l’edizione dei Consilia, stampati a Milano da Leonhard Pachel nel 1493, la famiglia degli Ubaldi fornì i codici manoscritti del loro antenato. Jenson pubblicò a Venezia i commentari di Baldo al Codex[63] in sei volumi in folio, scaglionati tra il novembre 1480 e il marzo 1481, in un’edizione assai pregevole simile a quella di Bartolo. Nel XVI secolo vennero pubblicate 175 edizioni – di cui 92 in Italia e ben 83 nella sola Venezia – delle opere di Baldo, la cui autorevolezza era seconda solo a quella di Bartolo e spesso lo si richiamava in via suppletiva. Tra le opere di Baldo le letture esegetiche dei tre libri del Digesto, del Codice e delle Istituzioni costituiscono con i 126 titoli oltre la metà dei testi pubblicati, cui si aggiungono le 11 edizioni dei commenti ai Libri feudorum, le 10 dei Consilia, le 8 dei commentari alle Decretali e rispettivamente delle 2 del Tractatus de quaestionibus et tormentis e del Super statutis regulae generales. Le edizioni di riferimento sono quelle di Venezia (Giunti, 1577), Lione (Compagnie des libraires, 1585) e ancora Venezia (Giunti e Giorgio Varisco, 1615-16).

Tra gli altri esponenti della scuola dei commentatori le opere di Francesco Accolti, noto come Francesco Aretino, i commenti alla seconda parte del Digesto vecchio, dell’Infortiato, del Codice, delle Decretali, hanno 44 edizioni, quelle di Paolo di Castro, autore di estesi commentari e di apprezzati consilia, 41 edizioni, quelle di Alessandro Tartagni, con i commenti al Digesto, i Consilia e le sue glosse a Bartolo vennero incorporate nei testi bartoliani, un centinaio di edizioni, quelle di Angelo Gambiglioni 34 edizioni, di cui 17 del De maleficiis, la più popolare e diffusa trattazione di diritto e procedura penale, e 16 degli In Institutiones Iustiniani commentarii, quelle di Bartolomeo Cipolla 48 edizioni (31 italiane), di cui 11 delle Cautelae e 10 dei Consilia criminalia, quelle di Giason del Maino (1435-1519), doctor totius Italiae notissimus, professore negli Studi di Pisa e di Pavia, autore di una vasta produzione esegetica, 111 edizioni, fra cui si distingue la Lectura super titulum de actionibus Institutionum (Venezia, 1550), con 17 edizioni cinquecentesche, e, infine, quelle di Filippo Decio (1454-1535), professore in varie università italiane e francesi, commentatore dei libri del Digesto, del Codice e delle Decretali, uno degli ultimi esponenti di una figura di giurista esperto non solo nell’esegesi dei testi giustinianei, ma versato (come mostravano i suoi celebri Consilia sive responsa, Venezia, 1508, 5 edizioni) anche nell’attività pratica: le sue opere conobbero 93 edizioni cinquecentesche (69 italiane), tra cui si segnalano la Lectura super Decretalibus, con 14 edizioni, e i Commentaria in titulum de regulis iuris (Lione, 1523), destinati soprattutto alla didattica universitaria, con 32 edizioni[64].

Alla tradizione didattica del mos italicus si oppose con vigore, ai primi del Cinquecento, una metodologia di insegnamento fortemente innovativa che, sulla base dell’umanesimo giuridico, si proponeva di applicare l’analisi storico-filologica allo studio del diritto: in Francia, dove la scuola dei Culti aveva ampi riconoscimenti, assunse la denominazione di mos gallicus iura docendi[65]. Un ruolo importante nel rinnovamento della cultura giuridica venne svolto dal milanese Andrea Alciato che, non trovando rispondenza nel mondo accademico italiano al suo nuovo metodo di studio del diritto, si trasferì in Francia dove, insieme al giurista-filologo Guillaume Budé, diede vita, alla fine degli anni trenta del Cinquecento, alla scuola umanistica dell’Università di Bourges che, con l’insegnamento di Jacques Cujas, raggiunse l’apice della sua fama[66].

Immaginando gli studi di Pantagruele nella facoltà di diritto di Bourges, Rabelais nel Gargantua approfittò dell’occasione per sferrare un duro attacco ai vecchi sistemi di insegnamento del mos italicus: Pantagruele affermava infatti che «i libri di legge gli sembravano una belle veste d’oro, trionfale e preziosa a meraviglia, che fosse stata ricamata di merda: Perché – diceva – non c’è al mondo libri così belli, ornati ed eleganti, come i testi delle Pandette; ma quel che ci han ricamato sù, cioè la glossa di Accursio, è così sucida, infame e volgare, che non vi si trovano se non porcherie e trivialità»[67].

Nel giro di pochi anni le università francesi di Montpellier, Poitiers, Bourges, Valence, Tolosa, Cahors ed Avignone contesero agli Studi italiani il primato nell’insegnamento delle materie giuridiche. Gli Statuti dell’Università di Strasburgo (16 marzo 1568) prevedevano, ad esempio, nell’insegnamento del diritto un misurato richiamo alle istanze della scuola culta: oltre, naturalmente, ai testi giustinianei e alle glosse di Azzone e di Piacentino, si suggeriva ai professori di utilizzare i Paratitla di Zasius (Ulrich Zasy) e le opere di Appelus (Johann Apel), Conrad Lagus, Vigelius (Nicolaus Vigel) e Wesembecius (Matthaus Wesenbeck)[68]. Nel 1621 gli statuti strasburghesi raccomandavano ai professori di tenere presente, nelle proprie lezioni, il diritto “moderno”, «adhuc in usu et exercitio». Nel 1634 gli stessi statuti prescrivevano che il professore di Pandette dovesse concentrare la sua esegesi su argomenti utili, legati alla prassi, adeguando i testi «ad praesentis saeculi usum»[69].

Budé (Budaeus, 1468-1540), che affermava di non riconoscere come vera e legittima amante se non Dama Filologia, pubblicò nel 1508 le sue Annotationes in XXIV libros Pandectarum che, rifiutando le interpretazioni medievali e i metodi di indagine tipici del bartolismo italiano, propugnavano lo studio del diritto romano secondo una prospettiva storica: era il primo organico contributo storico-filologico all’analisi delle fonti romanistiche e una sorta di vero e proprio manifesto dell’umanesimo giuridico francese e dell’indirizzo della scuola dei Culti. Le Annotationes, sostenendo la necessità di mettere da parte la glossa e i commenti, suscitarono infatti una profonda impressione negli ambienti culturali del tempo: la polemica umanistica contro gli indirizzi del mos italicus e la critica filologica sui fraintendimenti e gli errori nell’interpretazione del Digesto da parte dei giuristi medievali lo portavano da un lato ad approfondire lo studio del diritto classico al di là della compilazione giustinianea, riscoprendo gli antichi giureconsulti e le quasi dimenticate XII Tavole, e dall’altro a rivendicare con forza le potenzialità di una scientia juris tutta “francese”[70].

Anche nell’Epistola de ratione iuris docendi discendique iuris (1544) di François Le Duaren (Duarenus, 1509-59), considerata non a torto uno dei testi di riferimento della scuola culta, il mos italicus e il bartolismo imperante venivano definiti «corruptissima iuris interpretandi consuetudo». Professore a Bourges dal 1538 al 1547 e dal 1550 al 1559, Duaren pubblicò alcuni argomenti affrontati nelle lezioni universitarie come nel De in litem iurando (Lione, 1542), in cui poneva in rilievo i difetti e le incongruenze della metodologia dei bartolisti, sottolineando l’importanza della cultura storica e filologica nella formazione del giurista. Nel trattato De sacris ecclesiae ministeriis ac beneficiis (Parigi, 1551) applicò i metodi della scuola culta al diritto canonico, riscuotendo notevoli riconoscimenti negli stessi ambienti ecclesiastici. Non si stancava mai di raccomandare agli studenti la buona conoscenza del latino, indispensabile per intraprendere gli studi giuridici e necessaria per l’analisi diretta dei testi romanistici, al di là delle glosse e dei commenti degli interpreti successivi[71].

A metà del secolo, però, nella scuola culta, si delineano due divergenti ipotesi di studio e di insegnamento delle materie giuridiche: da un lato una tendenza razionalistica che, pur partendo da presupposti umanistici, si poneva il problema di fare i conti con la tradizione nell’ipotizzare un’intera sistematizzazione del diritto; dall’altro, una corrente che riproponeva con maggiore veemenza la polemica antibartoliana e, assai lontana dalla prassi, finiva per esasperare la critica filologica. L’impianto sistematico emerge nelle opere di giuristi come François Connan (Connanus, 1508-51), allievo di Alciato a Bourges, alto magistrato e membro del Conseil du Roi, autore dei Commentariorum iuris civilis libri X (pubblicati postumi a Parigi nel 1553), nei quali aveva tentato la costruzione di un sistema del diritto civile sulla falsariga delle Institutiones giustinianee e, soprattutto, come Hugues Doneau (Donellus, 1527-91), anch’egli ugonotto, allievo di Duaren a Bourges: qui divenne professore nel 1551, ma costretto ad emigrare per le sue idee religiose, insegnò ad Heidelberg, a Leida e ad Altdorf, nel cantone svizzero di Uri. Nei Commentarii juris civilis (Francoforte sul Meno, 1589-90) realizzò un’esposizione sistematica del diritto privato attraverso un impianto logico che disponeva in ordine il materiale contenuto nei testi giustinianei in relazione ai princìpi del diritto naturale e delle genti. Il suo metodo dommatico (considerato difettoso dal punto di vista scientifico dagli studenti di Altdorf giacché si discostava dal mos italicus) entrò comunque in conflitto sia col filologismo di Cujas (con cui Doneau ebbe peraltro aspre polemiche), sia con le correnti di studio del droit coutumier[72].

Jacques Cujas (Cujacius, 1522-90), definito non a torto da Arangio Ruiz come il «principe dei romanisti», insegnò nelle università di Tolosa (1547), Cahors (1554-55), Valence (1557-59), Bourges (1559-60), Torino (1566-67), di nuovo Valence (1567-75) ed infine, ancora a lungo, a Bourges (1575-90), che divenne il centro della vera scuola filologica cuiaciana. Cujas era una sorta di “artista” del nudo testo: odiava le glosse e i commenti che lo soffocavano, detestava i bartolisti («verbosi in re facili, in difficili muti, in angusta diffusi») e possedeva una straordinaria sensibilità giuridica insieme a raffinati strumenti critico-filologici; approfondì non soltanto l’esegesi del Corpus iuris, individuandone le interpolazioni, ma si dedicò anche allo studio delle fonti extragiustinianee e fu tra i primi a prendere in considerazione quelle bizantine, come emerge dal Basilikon liber LX quo juris civilis tituli LXX (Lione, 1564).

La maggior parte delle sue opere è consacrata allo studio esegetico delle fonti nel tentativo di ricondurre i testi dei giuristi romani al loro ambito originario, risolvendo tutti i problemi di carattere storico, filologico, linguistico e giuridico. L’immensa opera lasciata da Cujas, da cui emerge una straordinaria intelligenza critico-filologica, non è altro che il riflesso del suo insegnamento universitario e la redazione scritta delle sue lezioni, preparate con estrema cura, che seguivano un rigoroso ordine logico: lettura del testo, esegesi critica, correzioni e integrazioni, suo recupero filologico. Soltanto alla fine dell’esposizione. Cujas azzardava un’interpretazione definitiva, conforme al contesto storico dell’opera in questione[73]. La sua produzione rifletteva soprattutto il campo delle antichità giuridiche, ma proprio con le profonde e penetranti esegesi dei singoli passi – ed in ciò sta l’importanza di Cujas – contribuì in modo decisivo, secondo Koschaker, «alla esatta comprensione delle fonti del diritto romano dal punto di vista storico»[74].

Un discorso a parte merita François Hotman (Hotomanus, 1524-90), giurista ugonotto, personalità vivace e polemica, scrittore brillante e fine filologo, professore nelle università di Parigi (1546), Losanna (1550), Strasburgo (1556), Valence (1563), Bourges (1567), come successore di Cujas, e Ginevra (1572). Autore di una vasta opera giuridica, di lecturae e commentarii dovuti in gran parte all’attività di docente, la sua fama è legata però alla Francogallia, sive tractatus de regimine regum Galliae et de iure successionis (Ginevra, 1573, tradotta in francese nel 1574 e rielaborata nel 1586): nella ricerca delle radici storiche delle Leggi fondamentali e degli Stati generali e nella valorizzazione delle tradizioni “nazionali” della monarchia di Francia, Hotman individuava l’origine del costituzionalismo e della limitazione dei poteri del sovrano nelle antiche assemblee dei Galli e dei Franchi[75]. Si trattava di una sorta di manifesto politico del “partito protestante” francese volto a fissare i termini delle proprie rivendicazioni e a porre i vincoli dell’assolutismo monarchico. Fu una delle opere più lette in Francia nel XVI secolo, il cui successo è paragonabile, in qualche misura, a quello del Contrat social di Rousseau nel Settecento[76].

Nell’Antitribonian, apparso postumo nel 1603 ma redatto nel 1567, Hotman, in una operazione scopertamente funzionale alla valorizzazione del diritto “nazionale” francese, sviluppò una polemica radicale contro la compilazione giustinianea: ne negava il valore intrinseco e la dichiarava inutile per la realtà politica e sociale della monarchia. In sostanza, dietro l’antitribonianesimo si celava una sorta di non tanto nascosto antiromanesimo che faceva da fondamento all’auspicio che il cancelliere Michel de L’Hospital, che aveva favorito la stesura del libello e chiamato il giurista ugonotto nell’Università di Bourges, istituisse una commissione di giureconsulti preposta alla raccolta di tutto il diritto patrio francese: la compilazione, redatta in forma chiara e intelligibile in lingua volgare, avrebbe dovuto riguardare tanto la materia pubblicistica, quanto quella privatistica[77].  Tuttavia in Francia vi furono giuristi di formazione bartolista (Jean Ferrault, Claude Seyssel, Barthélemy Chasseneuz, André Tiraqueau, Pierre Rebuffi, Charles Du Moulin) che rinnovarono i vecchi metodi con l’apertura alle istanze umanistiche e ai problemi del tempo e altri, come Jean de Coras (Corasius), che cercarono una via intermedia tra il mos gallicus e il mos italicus, e università, come Orléans e Angers, che rimasero sostanzialmente ancorate alla tradizione.

Da buon umanista che aveva studiato il diritto romano, anche Rabelais nel Gargantua volle spezzare una lancia a favore della scuola dei Culti immaginando che Pantagruele, che nelle «gran dispuste che aveva sostenuto pubblicamente contro tutti» si era «rivelato sapiente oltre la capacità dei tempi nuovi», venisse chiamato a giudicare una causa complessa e «difficile da trattare» tra il «signor Baciaculo, querelante» e il «signor Nasapeti, convenuto», «pendente» presso il Parlamento di Parigi. I magistrati lo pregarono di voler «spulciare e districar quel processo, per farne poi una relazione [...] in precisi termini legali», affidandogli «tutti i sacchi e le scartoffie della causa, che ce n’era da caricare quattro asini». «Io sono sicuro – diceva Pantagruele ai magistrati – che voi e tutti quelli per le cui mani è passato il processo, ci avrete macchinato quanto avete potuto, per Pro et Contra; e caso mai la loro lite fosse stata patente e facile da giudicare, l’avrete oscurata con le sciocche e dissennate ragioni e inette opinioni di Accursio, Baldo, Bartolo, de Castro, de Imola, e Ippolito, e il Panormo, e Bertacchino, e Alessandro, e Curzio, e tutti quegli altri vecchi mastini, che non hanno mai inteso neanche tre righe delle Pandette, ma eran come buoi da macello, ignoranti tutto quel che è necessario pel buon intendimento delle leggi. Giacché (ormai è ben certo), essi non avevano nessuna conoscenza della lingua Greca né Latina, ma solo della Gotica e Barbarica [...]. Come dunque avrebbero quei vecchi trasognati potuto intendere il testo di quelle leggi – si domandava –, loro che non avevano mai neppure guardato un libro in buon Latino, come è chiaramente dimostrato dal loro stile, che è stile da spazzacamini, da sguatteri o cucinieri, ma non certo da giureconsulti?»[78].

I giuristi francesi della scuola culta si posero concretamente il problema dello studio e dell’insegnamento del diritto nelle facoltà giuridiche. Nell’Epistola de ratione docendi discendique iuris del 1544, Duaren spiegò quale atteggiamento i giuristi-umanisti dovevano tenere nei confronti della codificazione guistinianea e della tradizione romanistica medievale. Il Corpus juris civilis gli appariva come un’opera umana, non più un complesso di principi indiscutibili ed eterni, il cui valore dogmatico e autoritario aveva profondamente influenzato i giuristi medievali. Nel Digesto ravvisava una serie di norme e di dottrine che dovevano costituire la base di ogni educazione giuridica: le istituzioni giustinianee rappresentavano, ad esempio, un insieme di princìpi generali assai utili per la formazione del giurista e assai facili da memorizzare per gli studenti. Il contenuto delle Pandette e del Codice gli apparivano distribuiti senza ordine e senza logica. Sarebbe stato necessario, a suo avviso, riordinare con razionalità i titoli del Digesto per considerarli analiticamente in un insieme organico di concetti. Era dunque compito del docente sviluppare un’elaborazione logica delle materie; da parte sua lo studente avrebbe dovuto fissare nella mente, tamquam in tabula, i concetti fondamentali, attraverso i quali, poi, non avrebbe avuto difficoltà ad orientarsi nei singoli problemi  particolari[79].

Nel breve discorso programmatico pronunciato nell’Università di Bourges il 16 ottobre 1585, De ratione docendi juris, Cujas esaltò la maestria dei giuristi classici, il valore del loro pensiero, la superiorità della giurisprudenza romana nel campo dell’ars juris, riaffermando con vigore l’importanza del metodo umanistico nello studio e nell’insegnamento del diritto[80]. In polemica con Duaren e con gli altri giuristi che non riuscivano a vedere una distribuzione razionale negli argomenti trattati dal Digesto, Cujas, nei Paratitla in libros quinquaginta Digestorum (Colonia, 1570), aveva voluto dimostrare, attraverso una scrupolosa ricerca, l’intima e razionale connessione che esisteva tra i titoli delle Pandette. Di conseguenza i professori di diritto avrebbero dovuto rifarsi sempre all’ordo juris del Digesto, che era la parte più preziosa della compilazione giustinianea, l’unica a riproporre il pensiero dei grandi giuristi romani. Questa concezione – diciamo così – “integralistica” del filologismo, che non ammetteva compromessi, spinse Cujas a polemizzare non soltanto con i bartolisti e i seguaci del mos italicus, ma anche con gli esponenti della scuola culta come Duaren, Hotman e Bodin, considerato nel 1577, un «causidicus quidam, qui nuper de republica vernacula lingua scripsit», a proposito della traduzione francese (1576) de Les six livres de la Republique[81].

Tra il XVI e il XVII secolo iniziò così a prender forma un droit civil commun della Francia, grazie a quei giuristi che studiarono le centinaia di coutumes, valorizzate dalla prassi e dalla giurisprudenza, specie del Parlamento di Parigi, e in stretta connessione col diritto romano. Fra loro Charles Du Moulin (Molinaeus, 1500-1566), con i Commentarii in consuetudines Parisienses (Parigi, 1539), Guy Coquille (Conchyleus, 1523-1603), con le sue Institutions au droit françois (pubblicato postumo nel 1607), il magistrato Etienne Pasquier (1529-1615), moderato simpatizzante della scuola culta, con le sue Recherches de la France (pubblicate postume nel 1621), una sorta di manifesto del “nazionalismo” giuridico francese, e Antoine Loisel (1536-1617), allievo di Cujas, avvocato nel Parlamento di Parigi, con le Institutes coustumières (Parigi, 1607)[82].

In questo ambito, in coincidenza col processo di centralizzazione dei poteri monarchici e con le prime esperienze di unificazione linguistica e amministrativa, tipiche del Grand Siècle, sarebbe maturata l’istituzione nel 1679, presso l’Università di Parigi, della cattedra di diritto francese[83]. Un insegnamento che, nella spiegazione delle ordonnances e delle coutumes, si caratterizzò per la netta affermazione di autonomia rispetto alla tradizione del diritto comune: nel 1682 François De Launay (1612-1693), il primo professore chiamato a ricoprirne la cattedra, nelle sue lezioni al Collège de France poteva affermare, a proposito del diritto romano: «il n’y a pas de chose plus étrange dans le monde que de voir un peuple obligé à suivre des lois qu’il n’entend pas»[84].

In Spagna, in particolare a Salamanca, erano previste lecturae ed esercitazioni didattiche – che si tenevano per lo più in castigliano – affidate a licenciados o a giovani baccellieri su casi pratici con esplicito riferimento alle leggi e ai fueros del Regno. Certo, lo studio del diritto patrio occupava una posizione oggettivamente marginale rispetto al diritto comune, ma comunque non era ignorato del tutto.

Nel 1589 Pedro Simón Abril (1530 circa - 1590 circa), cattedratico di humanitates a Saragozza, editore di testi di autori latini e traduttore di molte opere classiche in castigliano, rilevava diversi errori nel metodo di insegnamento del diritto e delle altre scienze, attribuendoli in particolare all’uso del latino in luogo della lingua volgare. Duramente critico nei confronti della compilazione giustinianea e della didattica universitaria fondata sul mos italicus e sulla communis opinio, esaltava viceversa il diritto regio e in particolare le Siete Partidas, che avevano il pregio di essere redatte in castigliano, di essere esposte in maniera chiara e di configurarsi come una normativa esaustiva. Proponeva pertanto di usare soltanto il diritto regio e di insegnare quello nelle università. Si rivolgeva a Filippo II perché si facesse promotere di una riforma degli studi giuridici: il sovrano però, approvando gli statuti di Salamanca, riproponeva i moduli tradizionali del mos italicus e del bartolismo[85].

Anche se non formalmente in una cattedra apposita, nell’Olanda del Seicento sin dagli anni trenta si affermò l’insegna­mento del diritto patrio, che poteva disporre dell’Inleidinge tot de Hollandsche Rechtsgeleertheyd di Hugo Grozio (Institutiones juris hollandici, nella successiva traduzione latina), un manuale in volgare redatto intorno al 1620 e pubblicato nel 1631, nel quale l’autore, raccogliendo le consuetudini, la legislazione e la giurisprudenza, guardava soprattutto alla prassi. In Italia invece, sino al Settecento, i curricula e i programmi dell’insegnamento delle materie giuridiche in università come Padova, Bologna, Roma, Torino, Pisa, rimasero nel complesso appiattiti sui modelli tardo-medievali, evitando ogni apertura nei confronti dei diritti locali[86].

 

 

3. – L’istituzione della cattedra di Pandette

 

In Italia il più autorevole esponente dell’umanesimo giuridico cinquecentesco fu Andrea Alciato, raffinato filologo, esperto di epigrafia latina e di storia antiquaria, professore nelle università di Avignone (1518-21), Bourges (1529-33), Pavia (1533-37), Bologna (1537-41), Ferrara (1542-46) e di nuovo nello Studio pavese dal 1546 al 1550, anno della sua morte. Rispetto ai suoi colleghi francesi, si mostrava meno iconoclasta nei confronti della tradizione medievale e del bartolismo: in più occasioni riconobbe l’apporto fondamentale offerto dall’una e dall’altro alle necessità di una scienza giuridica aderente al reale, ma nel contempo rifiutava il metodo scolastico diffuso negli Studi italiani. Insomma, apprezzava Bartolo, lodandone le intuizioni e l’acume, ma detestava gli epigoni bartolisti. Il suo insegnamento universitario prevedeva infatti la lettura diretta dei testi romanistici, spesso dimenticati a favore dell’apparato di glosse e commenti, l’approccio filologico alla fonte, l’indipendenza di giudizio anche rispetto agli interpreti e ai dottori più famosi, la limitazione del ricorso all’autorità degli autori medievali, l’eliminazione delle citazioni sovrabbondanti, la corretta conoscenza del latino umanistico[87].

Le opere di Alciato, a conferma della sua grande influenza nella scienza e nella didattica giuridica, ebbero nel Cinquecento 187 edizioni: nelle Dispunctiones (Milano, 1518), 11 edizioni sino al 1543, affrontò con estrema perizia filologica la questione della restituzione dei termini greci omessi nel Corpus iuris giustinianeo; il De verborum significatione (Lione, 1530), la più conosciuta delle sue opere di diritto, che distingueva la giurisprudenza dall’oratoria, ebbe 16 edizioni sino al 1589; ampia popolarità, anche per l’attualità dell’argomento, ebbe il De singulari certamine seu duello tractatus (Parigi, 1541), dichiaratamente critico nei confronti del duello, con 3 ristampe latine, 4 edizioni in traduzione italiana (Duello, Venezia, 1544, 1545, 1552, 1562), 2 in francese (Le livre du duel, entrambe Parigi, 1550) e 2 in spagnolo (De la manera del desafio, Anversa, 1550 e 1558). Molti titoli di Alciato sono i testi delle sue lezioni universitarie, come il De verborum obligationibus del Digesto, pubblicate a Lione nel 1519, appena terminato l’anno accademico avignonese, o il De praesumptionibus delle Decretali (Lione, 1538) e lo stesso De verborum significatione, sistematico commento delle duecentoquarantasei leggi che compongono il titolo omonimo del Digesto, i Commentarii ad rescripta principum (Lione, 1530), che raccolgono le lezioni sul Codice giustinianeo tenute a Bourges nel 1529-30, e così via[88]. Una sua opera umanistica, gli Emblemata, dedicata a Konrad Peutinger, una raccolta di soggetti allegorici e di simboli di cui veniva dato in versi latini il significato, editi nel 1531 a Basilea da Steyner, conobbe oltre centosettanta edizioni tra il XVI e il XVII secolo[89].

Nei Parergon iuris libri III – 11 edizioni, dalla prima di Basilea nel 1538 (seguono nello stesso anno altre due edizioni a Lione) all’ultima lionese del 1554 –, collezione di frammenti di erudizione e di critica giuridica, Alciato rivolge un severo attacco alla tradizione italiana della giurisprudenza pratica e ai pareri legali, esprimendo un giudizio profondamente negativo sulla proliferazione di raccolte di consilia a stampa: «La pubblicazione di tanti pareri mostra mente non sana e ambizione smoderata – afferma –. Si trova il patrono egregio e di gran nome nella necessità di dar parere sui casi più vari, nei quali talora il cliente è dalla parte della ragione, talora del torto. Accade qualche volta che non sia abbastanza chiaro il punto di diritto, e mentre la cosa è fra l’incudine e il martello, capiti il litigante liberale che provochi con lauto onorario lo zelo dell’avvocato; sebbene niente o poco diano, e allora il patrono non li stimi degni di difenderli con molto lavoro. Come potrà uno in casi così diversi pubblicare tutto, quasi fosse messo insieme con eguale diligenza? [...]. Quanto più uno ha ingegno acuto, tanto più è peccatore pericoloso – osserva Alciato –. Preferirei i pareri del Barbazia, di Giasone, del Parisio a quelli del Socino e del Decio. I primi di mente più ristretta, ogni volta che male consigliano [...] lo fanno con sì rozzi argomenti, che subito si può vedere ove sia il marcio. Ma il Decio o Bartolomeo Socino, d’ingegno acuto, peccano così velatamente e cautamente da far cadere in inganno anche gli esperti [...]. Misero e inesperto quel giudice che si appoggia a pareri di tal genere piuttostoché ai dogmi esposti nell’ordinaria sede dei dottori!»[90].

Nelle università dell’area tedesca il diffondersi dell’umanesimo giuridico e la coeva affermazione della Riforma protestante diedero un duro colpo alla vecchia tradizione didattica di impianto scolastico: un contributo notevole all’introduzione del mos gallicus in Germania venne da Ulrich Zasy (Zasius), professore di Pandette presso l’Università di Friburgo, considerato da Claudio Cantiuncula (Claude Chansonnette), docente a Basilea, già dal 1520 membro, insieme a Budé e ad Alciato, di quella triade che in Francia, in Italia e nei paesi tedeschi era destinata a rinnovare profondamente lo studio e l’insegnamento del diritto («triumviratus constituenda rei pandectariae»)[91]. Zasius insegnava il diritto romano secondo metodo umanistico e nei suoi corsi criticava con veemenza il mos italicus, i glossatori e i bartolisti: «Ite Accursiani, ite Bartolistae – affermava nell’Intellectus iuris (Basilea 1526) –, et violanda textus claros et faciles implete mundum erroribus!»[92].  Le opere di Zasius, anch’esse legate in qualche modo alle lezioni universitarie di Friburgo, ebbero nel corso del Cinquecento 94 edizioni. Nel prologo dell’Intellectus singulares (Basilea, 1526, sette ristampe cinquecentesche successive) Zasius esplicitava il suo credo umanistico, affermando che la verità del diritto derivava dal riscontro delle fonti e non dall’autorità dei doctores[93]. Il nuovo metodo si affermò soprattutto nelle università di Basilea, Friburgo, Tubinga e Heidelberg.

Le opere della scuola dei Culti ebbero un buon successo editoriale a livello europeo, tenendo anche conto che molte sedi universitarie si mostrarono sostanzialmente ostili nei confronti dell’umanesimo giuridico. Gli scritti di diritto e di humanitates di Budé ebbero 113 edizioni, di cui 22 del De asse et partibus libri quinque (1515), un trattato sull’esatto significato delle parole usate presso gli antichi per indicare il valore delle monete e delle misure, e 20 delle Annotationes in Pandectas. Le opere di Cujas ebbero 80 edizioni, di cui 16 dei Paratitla in libros quinquaginta Digestorum (1570), quelle di Duaren 24 edizioni, quelle di Doneau 21 edizioni, di cui 7 dei Commentarii de iure civili, quelle di Hotman 65, di cui 5 della Franco-Gallia.

D’altra parte le università del Cinquecento, a differenza di quelle medievali, non dovevano più formare giuristi con una visione universalistica del jus commune, ma operatori del diritto essenzialmente pratici, uomini del foro, ufficiali regi, amministratori civici, procuratori feudali, causidici. Non vi era una grande domanda per un metodo di insegnamento che privilegiasse le grandi questioni filologiche dei testi romanistici: il diritto giustinianeo, filtrato dalle intermediazioni medievali, veniva studiato in funzione delle esigenze concrete, con un’ottica che dava ampio risalto all’autorità dei giuristi e alla letteratura forense (consilia, decisiones, allegationes, quaestiones)[94].

Nel 1566-67, durante il suo semestre di insegnamento torinese, Cujas ebbe modo di visitare alcune università italiane e di definire i professori di diritto suoi colleghi, miseri, blaterones e desipientes: alcuni di essi non si rendevano nemmeno conto di ciò che spiegavano, spandendo dalla cattedra, senza sollevare mai la testa, gli occhi fissi sui fogli degli appunti, un inutile «vaniloquio dialettico»; altri erano totalmente impreparati e si limitavano a compendiare in modo pedissequo le leggi romane; altri ancora conoscevano a mala pena un solo argomento del corso «rubacchiato» ai vari giureconsulti. Un quadro sconfortante, ma in qualche misura anche realista[95].

Uno studente tedesco, tal Gottifridus Conratterus, iscritto nella facoltà di giurisprudenza di Padova nel 1577-78 che, non a torto, è stata considerata come «il Gotha del mos italicus», o meglio, come ha scritto Biagio Brugi, una «scuola di giurisprudenza pratica illuminata dalla teoria»[96], ci descrive il metodo didattico imperante nell’ateneo veneto: «Gl’Italiani – scrive – nel trattare e discutere le controversie del nostro diritto hanno quest’uso, che, dopo aver proposto qualche questione, disputano tanto a favore della tesi affermativa, come della negativa [...]. Ovvero se l’una e l’altra opinione abbia qualche colore di verità, s’appigliano a sottili distinzioni, affinché in tal modo si eviti la correzione dei testi; i quali, a primo aspetto, sembrano fra loro contraddittori». Questo metodo gli appare però zeppo di difetti: «È certo – osserva – che con questa maniera d’insegnare si genera supina infingardaggine nell’animo dei dottori [...]. Né ciò fa meraviglia, poiché spesso accade ai dottori medesimi di non sapersi districare negli stupefacenti libirinti delle dispute che portano in campo [...]. Taccio che in tal modo gli animi dei singoli discepoli sembran tratti e ammaestrati in veri inganni e vere frodi [...]. Né per certo l’effetto di questi inutili cavilli e di queste dispute altro può essere [...] che da cose evidentemente vere, mediante piccolissimi mutamenti, la disputa sia tratta a cose evidentemente false»[97].

Nel 1567 le autorità accademiche della Sapienza di Roma chiesero a Marc-Antoine Muret (1526-1585), umanista di gran nome e prestigio, docente di Filosofia morale, di insegnare il Digesto «alla francese», cioè con il metodo storico-filologico del mos gallicus. Era giunto a Roma preceduto da una gran fama: celebre professore di retorica (fra i suoi allievi il giovane Montaigne), autore di versi latini e francesi e di una tragedia, Julius Caesar, editore e commentatore di testi classici (Orazio, Catullo, Cicerone, Properzio, etc.). Durante il suo insegnamento parigino era stato accusato di eresia e di sodomia e rinchiuso allo Châtelet; liberato grazie all’interessamento di autorevoli protettori, dovette abbandonare la capitale. Colpito anche a Tolosa dall’accusa di costumi depravati fu arso in effigie, mentre raggiungeva l’Italia. A Ferrara fu segretario del cardinale Ippolito d’Este, con l’appoggio del quale venne chiamato a Roma da Pio IV nel 1563. Nel corso dell’insegnamento romano di diritto volle laurearsi in utroque nello Studio di Macerata, dove conseguì i gradi il 29 marzo 1572[98]. Era noto che Muret era uno dei più fieri avversari della tradizione italiana e del bartolismo, ma le autorità pontificie, con l’istituzione della cattedra di Ad Pandectas enucleandas volevano sperimentare spazi separati di insegnamento secondo i diversi metodi didattici[99]. Le lezioni di Muret – che sarebbero state pubblicate dall’autore – cercavano di offrire, grazie alle conoscenze erudite e all’acume filologico, un’immagine “veritiera” della legislazione giustinianea. Esse richiamarono un gran numero di studenti a scapito, ovviamente, dei corsi più tradizionali[100]: la loro eco si spinse sino alla lontana Padova, dove gli studenti tedeschi che frequentavano i corsi di diritto si adoperarono dapprima per ottenere il trasferimento di Muret nello Studio veneto e, poi, per l’istituzione di una cattedra di Pandette[101]. Nel 1572, però, l’esperienza didattica di Muret si concluse  bruscamente: i colleghi romani, quelli che a suo avviso insegnavano «magno fastu» «inezie» invise pure agli studenti, si rivolsero direttamente al pontefice perché fosse impedita la prosecuzione di quelle lezioni che rischiavano di indurre la gioventù a ripudiare la dottrina di Bartolo. Le autorità trasferirono Muret alla cattedra di retorica, con l’offerta di un salario più che doppio: il docente francese declinò di conseguenza l’offerta padovana[102]. La cattedra di Pandette verrà riattivata alla Sapienza soltanto nel 1658[103].

Eppure l’ambiente giuridico romano non era del tutto refrattario al rinnovamento umanistico. Nel 1566 aveva iniziato i suoi lavori la commissione ideata da Pio IV per l’emendazione del Decretum di Graziano. I Correctores Romani terminarono l’opera nel 1582: nella premessa all’edizione a stampa, pubblicata nella tipografia del Popolo Romano, il pontefice spiegava le finalità della revisione delle concordanze e delle discordanze del Decretum[104]. Oltre l’editio princeps si segnalano dodici edizioni del Decretum emendatum, dal 1584 al 1600. Ai lavori presero parte alcuni giuristi, fra i quali spiccavano Antonio Agustín, allievo di Alciato a Bologna, uno dei massimi esponenti dell’umanesimo giuridico spagnolo, assai critico nei confronti del mos italicus imperante nelle università iberiche (nel 1586, ormai vescovo di Tarragona, avrebbe chiarito nel De emendatione Gratiani  i criteri filologici adottati nella revisione romana), e Cesare Costa, professore alla Sapienza, autore dei Variarum ambiguitatum iuris libri tres (Napoli, 1573), un esempio di letteratura di impianto umanistico funzionale alle esigenze della Chiesa post-tridentina[105].

L’esigenza di un modo nuovo di concepire e di studiare il diritto iniziava ad essere condivisa non più da ristretti circoli umanistici ma anche dagli studenti delle materie giuridiche, specialmente quelli stranieri che frequentavano le università italiane, desiderosi di seguire corsi più aderenti all’originario dettato romanistico, meno infarciti di pesanti citazioni delle auctoritates di dottori e legulei. Contro auctoritates e opinioni comuni si erano scagliati gli umanisti: Zasio, valutandone soprattutto le degenerazioni, nella sua Responsorum iuris seu Consiliorum opus (postuma, Basilea, 1538), le considerava false («communis opinio ergo falsa») e fonte di confusione.

Su esplicita richiesta degli studenti «tedeschi e di altri scolari oltremontani» venne prevista, all’interno del piano di riforma dell’Università di Siena (1589), l’istituzione di una cattedra di Pandette che prescriveva al lettore il rigoroso riferimento al testo della legge e vietava ogni ricorso alla Glossa, a Bartolo e agli altri interpreti medievali[106]. Nel 1591 la cattedra di Pandette venne istituita anche nello Studio di Pisa: l’insegnamento fu affidato al marsigliese Jacques Vias, che non possedeva però una preparazione filologica capace di approfondire l’esegesi del testo. Due anni dopo la cattedra veniva soppressa[107].

Già dal 1533 l’olandese Wiggle van Aytta van Zwichem (Viglius Zuichemius, 1507-1577) di formazione umanista, professore di Istituzioni a Padova, illustrava il puro testo, anticipando di una quarantina d’anni l’insegnamento delle Pandette[108]. Nel 1578 la Natio germanica chiese ed ottenne l’istituzione a Padova di una cattedra ordinaria di Pandette, per la quale il Senato veneziano deliberò che le lezioni venissero tenute «eodem modo quo fit in publicis Germaniae Gymnasiis», cioè more gallico. La cattedra, attivata nello stesso anno, fu affidata al dottor Angiolo Matteazzi, vicentino (1535-1600), giurista erudito e di buona cultura, che iniziò le lezioni con un gran numero di studenti leggendo «testualmente» le Pandette, ma decadde ben presto: alcuni decenni dopo il suo successore, l’udinese Marc’Antonio Ottelio, venne accusato di aver abbandonato l’interpretazione diretta del testo («non explicat Pandectas») e di aver reintrodotto, in modo surrettizio, il detestato mos italicus. Dal 1607 il professor Taddeo Pisone Socia leggeva more gallico da  una cattedra di ius civile[109]. A Pavia venne attivata nel 1609.

Anche a Bologna la cattedra, istituita nel 1588, ebbe vita stentata: affidata gratuitamente ad un giovane, Alessandro Maggi, ebbe un profilo modesto e fu soppressa nel 1592. Riattivata nel 1606, fu ricoperta da Claudio Achillini, giurista d’ingegno e didatta abile e apprezzato, col lauto stipendio di 300 scudi. Ma, dopo tre anni, Achillini preferì trasferirsi nello Studio di Ferrara per insegnare nel più prestigioso corso “primario” di diritto civile. L’insegnamento venne mantenuto acceso per tutto il secolo, ma dal numero esiguo dei titolari se ne intuisce la modesta fortuna e s’intravede la scarsa presa presso gli studenti di un impianto meramente esegetico assai lontano dalla prassi[110]. Anche nell’Uni­versità di Pavia, agli inizi del Seicento, si affianca ai corsi tradizionali il nuovo insegnamento delle Pandette che resterà acceso fino agli anni sessanta del Settecento: il primo professore, nel 1609, è il milanese Angelo Stefano Garoni, segretario del Senato, che lo terrà per un decennio[111].

Insomma, l’ambiente accademico italiano si mostrava nel complesso refrattario alle novità. Anche alcuni giuristi assai innovativi nei loro ambiti di studio, come Tiberio Deciani nel campo penalistico o Alberico Gentili, nel terreno del nascente diritto “internazionale”, si rivelarono convinti “conservatori” nella loro intransigente riproposizione del mos italicus: il primo nella Apologia pro iuris prudentibus qui responsa sua edunt (1579), composta durante il suo insegnamento padovano, il secondo nel De iuris interpretibus dialogi sex, redatti durante la sua docenza ad Oxford, sono accomunati nel duro attacco ai propositi di rinnovamento della scuola culta[112]. 

Deciani, che aveva comunque una formazione umanistica, scrisse l’Apologia come orgogliosa e appassionata risposta al Parergon di Alciato, che aveva aspramente criticato la giurisprudenza consulente e i giuristi autori di responsa e consilia («an publicae utilitati conducant juris consultorum responsa quae vulgo consilia vocant», si era domandato). Il professore patavino considerava al contrario il consilium come uno strumento essenziale per l’applicazione del diritto, sia perché dalla prassi emergevano sempre nuove istituzioni che non erano contemplate dalle antiche leggi, sia perché il giurista consulente era costretto a verificare costantemente nella realtà le spesso astratte elaborazioni teoriche. Insomma, Deciani rivendicava con forza il ruolo di un giurista che, assoluto padrone di tutti gli aspetti “tecnici” del diritto, riuscisse, al di là delle astrattezze filologiche della scuola culta, a coniugare felicemente teoria e prassi, sostenendo che non poteva essere definito giureconsulto chi non sapeva decidere una controversia[113].

A conclusioni non dissimili giungeva pochi anni dopo Alberico Gentili (1552-1608) nei suoi celebri De iuris interpretibus dialogi sex (Londra, 1582). Gentili si era laureato nel 1572 solo in diritto civile a Perugia, Studio saldamente ancorato alla tradizione del mos italicus. Dopo alcune esperienze di avvocato e di amministratore locale aveva abbandonato l’Italia per le sue idee religiose, trasferendosi definitivamente a Londra nel 1580: membro del Collegio dei dottori, dal 1581 iniziò a tenere lezioni di civil law nel St. John’s College di Oxford, università nella quale venne nominato nel 1587 regius professor[114]. I Dialogi nascevano all’interno del rinnovato interesse per il diritto romano, tipico dei fermenti assolutistici dell’età elisabettiana, il cui insegnamento era stato ripristinato nelle università inglesi[115]. In questo ambito il mos italicus, per il suo impianto sistematico e nel contempo per la sua duttilità, si presentava, rispetto al filologismo erudito dei Culti, come lo strumento più idoneo per soddisfare le esigenze della pratica e integrare un diritto eminentemente giurisprudenziale come la common law.

Si sbaglierebbe a considerare i Dialogi come una mera difesa, in parte anche datata, del vecchio contro il nuovo: Gentili non era affatto chiuso alle istanze umanistiche e apprezzava le opere e, soprattutto, le posizioni equilibrate di Alciato, Viglio Zuichemo, Zasio, Doneau e Agustín. La sua critica è rivolta soprattutto contro i Culti francesi, specie quelli della seconda generazione, come Cujas, Duaren e Hotman, sulle cui affermazioni spesso e volentieri ironizza, ridicolizzandone le posizioni. Si trattava, a suo avviso, di eruditi, insaziabili ricercatori di manoscritti, divenuti giuristi loro malgrado, convinti di conoscere tutta la scienza del diritto e di percorrere tutto lo smisurato regno dell’antichità soltanto per aver rinvenuto qualche dimenticato testo di legge: quando trovavano in un libro il nome di Bartolo o di Baldo lo gettavano via inorriditi. Rintuzzando le intemperanze dei novatori, Gentili difendeva con convinzione l’autonomia della scienza giuridica contro le “invasioni” spesso inconcludenti e pretestuose dei filologi e degli storici. Si poteva infatti essere un buon giurista, affermava, senza conoscere il latino («absque latinae linguae cognitione exquisitori»), il greco, la storia e la filologia[116].

Finalizzati ad orientare gli studenti nell’attività pratica e ad indicare al ceto forense gli strumenti logici che venivano negati dai fautori del mos gallicus ed erano invece l’essenza del diritto, i Dialogi di Gentili, nella vigorosa difesa del bartolismo e della tradizione italiana, intendevano valorizzare la figura del giurista formato non sui classici o sui grammatici, ma sulle opere di quei maestri che, pur essendosi espressi in un latino barbaro e rozzo, erano stati nondimeno acutissimi ed esperti nella prassi e nelle controversie[117]. Gentili distingueva tra interpretatio etymologica e interpretatio analogica: la prima era orientata esclusivamente ad una critica filologica del testo; la seconda svolgeva un ruolo creativo nell’adat­tamento e nell’interpretazione evolutiva delle norme romane alle esigenze della prassi[118]. Lo stesso Gentili, in un’opera di poco successiva, ribadendo la piena validità del regime normativo fondato sul diritto comune, avrebbe affermato che soltanto i passi glossati del Corpus iuris avevano valore come fonte di diritto positivo[119].

In realtà, come ha osservato Piano Mortari, nell’Apologia di Deciani e nei Dialogi di Gentili affiora lo stesso «senso storico umanistico presente nelle indagini» dei seguaci della scuola culta, che dalla «constatazione dell’insufficienza attuale dei precetti del diritto romano trassero ragioni per sostenere la sua eliminazione come fonte di diritto positivo»[120]. Ovviamente a questo problema Deciani e Gentili davano una risposta diametralmente opposta a quella dei giuristi del mos gallicus, i quali avevano trasformato il diritto romano in diritto storico[121]. I due giureconsulti italiani erano invece assertori della necessità della trasformazione continua dei principi e degli istituti romanistici attraverso l’opera creatrice dell’interpretazione giuridica.

 

 

4. – Bartolismo e umanesimo, due soluzioni inconciliabili?

 

Mos gallicus o mos italicus? La storiografia otto-novecentesca ha spesso accentuato in chiave nazionalistica la contrapposizione tra le due tradizioni giuridiche[122]. In questi ultimi decenni è emersa una lettura più problematica: Jean-Louis Thireau, ad esempio, ha posto in evidenza come una corrente, sicuramente maggioritaria, dei giuristi della prima metà del XVI secolo si mostrasse sostanzialmente favorevole ad una «conciliazione» tra il metodo umanista e quello bartolista. All’umanesimo li avvicinava soprattutto il «gusto della libertà» e la lettura dei testi senza le intermediazioni delle auctoritates o i condizionamenti della communis opinio; il mos italicus diventava invece necessario nell’attività pratica e nella soluzione di numerosissimi problemi concreti. Nell’insegnamento, poi, si registrava un oggettivo accordo tra le due scuole sia nella piena accettazione degli ordinamenti didattici universitari, sia nell’utilizzazione delle regole della dialettica giuridica[123].

Emblematico è a questo proposito il caso di Alciato, che nella sua lunga carriera accademica insegnò il diritto secondo il metodo umanistico ma anche secondo il mos italicus. Il 23 aprile 1529 Alciato doveva illustrare nell’Università di Bourges la seconda parte del Digestum novum e, in particolare, il titolo più importante il De verborum obligationibus. Poiché per spiegare quel titolo non si poteva prescindere dai responsa di Bartolo e degli altri commentatori quattrocenteschi, decise di fare lezione secondo il metodo tradizionale che aveva appreso a Pavia e a Bologna dai suoi maestri Giason del Maino e Carlo Ruini e che già aveva sperimentato ad Avignone nell’anno accademico 1518-19, quando aveva letto quella stessa parte del Digesto, subito pubblicata da Sacco a Lione (Lectura super secunda parte Digesti novi in titulo de verborum obligationibus, 1519). Ma dopo poche settimane dall’inizio del corso, gli studenti francesi e tedeschi che erano accorsi numerosi a Bourges per ascoltare le lecturae del celebre maestro iniziarono a disertare le lezioni. Alciato se ne lamentò, chiedendone la causa: gli studenti risposero di essere rimasti delusi per l’abbandono del metodo che gli aveva dato una meritata fama e osservarono che il sistema tradizionale si esauriva nel riferire e confutare le opinioni di diversi interpreti senza costrutto alcuno: sarebbe bastato, a loro avviso, un breve ed efficace sunto – esposto in un latino chiaro e scorrevole – che avrebbe favorito la spiegazione di una ventina di leggi in un anno, invece delle quattro o sei nelle quali spesso si consumava l’intera trattazione[124].

Alciato, in principio titubante, finì per accogliere l’istanza degli studenti. Anche se il metodo nuovo – disse – gli sarebbe costata una maggiore fatica, giacché così non si trattava soltanto di esporre gli argomenti dei diversi giureconsulti, ma di mirare direttamente al nocciolo del problema, mettendo in campo un’unica ragione capace di ridimensionare tutte le opposizioni. Così nell’autunno del 1530 iniziò a Bourges, dinanzi a un uditorio di seicento studenti, le lezioni col nuovo metodo umanistico ispirato ai caratteri della «latinità» e della «brevità» (latine breviterque de iure disserendo). Leggeva il testo e glossava le parole o le frasi ritenute più  importanti; la concisione non gli impediva tuttavia l’esame delle opinioni e delle citazioni degli antichi interpreti, di Bartolo, di Baldo, dei commentatori, dei consulenti e dei decisionisti. Individuava subito l’opinione dominante, non tanto sulla base del numero dei giuristi che la professavano quanto sulla qualità e il valore degli aderenti. Condannava la prolissità dei longa enthymemata e l’abuso della retorica, considerando la brevità e l’essenzialità il pregio maggiore delle lezioni universitarie[125].  Gli importava infatti fornire «receptioris sententiae rationem». Negli anni accademici 1530-33 Alciato a Bourges (dove percepiva l’importante salario di 1.200 ducati) commentò la prima parte del Codice, la seconda parte del Digesto vecchio, la prima parte dell’Infor­ziato e la seconda parte del Digesto nuovo secondo il metodo umanistico. Questo stesso metodo didattico ripropose a Pavia (1533-34), Bologna (1540-41) e Ferrara (1543-44), dove nella prolusione ai corsi criticò i colleghi che seguivano il sistema delle repetitiones e delle trattazioni di tipo monografico. Ad Avignone, Studio nel quale aveva insegnato sino al 1522 e dove, dopo la sua partenza, era stato reintrodotto il mos italicus, uno studente, Hieronimus Lopis, dichiarò nel 1532 il suo aperto dissenso per il metodo didattico vigente, nel quale non trovava «nullum bonorum studiorum exemplum»[126].

Nell’autunno del 1533 Alciato, chiamato alla cattedra ordinaria di diritto civile dello Studio di Pavia, teneva le lezioni in concorrenza con Gianfrancesco Sannazari della Ripa (1480 circa - 1535), con il quale aveva insegnato ad Avignone nel 1518-21. Ripa, che ricopriva la stessa cattedra “de mane”, bartolista convinto, era un vero e proprio maestro del mos italicus e seppe reggere brillantemente il confronto diretto col più illustre e acclarato collega, attirando nel suo corso un gran numero di studenti[127]. Antonio Agustín, studente a Bologna, trovava il metodo tradizionale di Pietro Paolo Parisio superiore a quello dello stesso Alciato[128].

Guido Panciroli (1522-1599), profondo conoscitore della tradizione italiana, inaugurando le sue lezioni a Torino il 3 novembre 1570, faceva intendere che nel suo corso avrebbe spiegato more gallico il titolo de iure dotium[129]. Bonifacius Amerbach (1495-1562), umanista, amico di celebri intellettuali come Erasmo e Zasio, allievo di Alciato, professore e rettore dell’Università di Basilea, giurista nel quale passioni filologiche e interessi pratici si trovarono spesso in radicale conflitto, mantenne una posizione intermedia tra i difensori del mos gallicus e i fautori del mos italicus: nella sua lezione Defensio interpretum iuris civilis criticò i Culti che disprezzavano le opere dei glossatori e dei commentatori, ma nel contempo riconobbe l’utilità dello studio umanistico delle fonti. Le sue lezioni richiamavano costantemente la storia e la filosofia greco-romana, tanto che risultavano, spesso, secondo i testimoni, assai ostiche per gli studenti[130].

Zasio era anche un “asso” nella conoscenza della letteratura del mos italicus, altrimenti non sarebbe stato in grado di stabilire, secondo Koschaker, «quel felice legame tra diritto romano e diritto tedesco» che aveva realizzato nel Freiburger Stadtrecht, gli statuti municipali di Friburgo (1520), comprendenti norme di diritto civile, criminale e pubblico, città nella quale egli in qualità di segretario comunale aveva esercitato un’attività pratica[131]. Dopo essere stato uno dei primi sostenitori della filologia umanistica, Zasio, in vecchiaia, ne rifiutò le pretese più radicali: anzi nei suoi Responsa sive consilia (pubblicati postumi nel 1538-39) diede un notevole contributo allo sviluppo in Germania di una specifica letteratura finalizzata alla prassi[132].

Di certo la severa critica di Zasio dell’absyntsthius Accursianus iniziava a penetrare nelle università tedesche. La polemica luterana contro la Chiesa di Roma e il diritto canonico medievale portò inoltre, con la riforma degli studi realizzata da Melantone nell’Università di Wittenberg in Sassonia (1518), ad un’apertura verso l’umanesimo giuridico[133]. Johannes Apel (Apellus, 1486-1536), professore di diritto civile nello Studio sassone e principale esponente dell’umanesimo di Wittenberg, nell’ambito della scienza giuridica e nelle cariche pubbliche, pur disdegnando la giurisprudenza pratica e i testi dei consiliatores, nella sua opera di metodologia, ricca di spunti polemici, Isagoge per dialogum in quattuor libros Institutionum D. Iustiniani Imperatoris (pubblicata postuma a Bratislava, 1540, stampata spesso anche col titolo Dialogus de studio iuris recte instituendo), utilizzando la forma dialogica rivolgeva una critica acuta al sistema tradizionale delle istituzioni civili e ai giureconsulti medievali, invitando gli studenti a fuggire la glossa come si fugge un fumo soffocante o un’erba velenosa o come il marinaio si tiene alla larga dalla risacca delle scogliere[134].

Il metodo umanistico non soppiantò nelle università europee (ad eccezione, ovviamente, di alcune francesi) il mos italicus, ma più spesso gli si collocò accanto. Ad un confronto diretto tra i due indirizzi si giunse nel 1555 a Lipsia, quando il professore di quello Studio, Melchior von Ossé, difese in una sua relazione al principe elettore – che aveva esplicitamente preso le parti delle antiche consuetudini, dei textus coi loro apparati, delle soluzioni contenute nella Glossa e nei commentatori – il mos italicus contro il suo collega Pierre Lorioz, un umanista moderato chiamato da Bourges[135].

Se nella prima metà del Cinquecento si assiste ad una coesistenza e ad una com­plementarietà, soprattutto nel mondo universitario, dei due sistemi, nel­la seconda metà del secolo si verifica invece da un lato (in particolare in alcune università francesi) una profonda e radicale frattura e dall’altro, soprattutto nell’area tedesco-olandese, ad un nuovo interscambio tra le due tradizioni, umanistica e pratica. È soprattutto con l’insegnamento di professori come Cujas e, in misura minore, Doneau, che inizia in Francia un doppio movimento di separazione tra la didattica universitaria e la pratica giuridica, da un lato, e tra l’università e il mondo giudiziario dall’altro. Questa differenziazione provocò un irrigidimento delle posizioni culturali e scientifiche del mos gallicus e una radicalizzazione polemica che, abbandonando ogni forma di compromesso o di accomodamento col bartolismo, portava ad una rottura definitiva con la tra­dizione.

Il disegno della seconda generazione dei Culti puntava all’afferma­zione di una concezione del diritto profondamente diversa da quella medievale e alla sostituzione del labirinto delle opinioni discordanti delle auctoritates, con un insieme di regole semplici e razionali, in una parola il Digesto senza le interpretazioni successive. Per ottenere questo risultato, che avrebbe dovuto facilitare la conoscenza del diritto e recare certezza nell’ambito giuridico, i giuristi-umanisti svilupparono l’esegesi dei testi come peraltro avevano già fatto i glossatori, ma con mezzi e strumenti incomparabilmente più raffinati, che investivano la filologia, la storia, la conoscenza delle lingue antiche. Cujas, in particolare, affrontò lo studio sistematico delle interpolazioni del Corpus iuris, spesso accompagnato da un’accesa polemica contro Giustiniano e il suo giurista Triboniano[136].

Nel 1880 Roderich von Stintzing si poneva la domanda se mai si sarebbe giunti ad una recezione del diritto romano qualora i glossatori fossero stati degli umanisti. Ovviamente, a questa domanda volutamente provocatoria lo storico tedesco dava una risposta negativa[137]. Il quesito aiuta però a mettere in chiaro alcuni punti. La fase tarda del mos gallicus, come ha messo in luce Thireau, era destinata a «degenerare» in storicismo puro, nel quale «il diritto romano non era più studiato come un sistema giuridico in vigore ma come un diritto morto, come vestigia archeologica» del passato[138]. Era stato abile Hotman nel suo Antitribonian ad evitare di naufragare tra Scilla e Cariddi, prendendo partito a favore dei bartolisti o dei cujaciani: da un lato un ammasso di commentatori indigesti, dall’altro infinite e noiose discussioni erudite e grammaticali. Hotman osservava divertito che nelle università del tempo si affrontavano due specie di fazioni di legisti: quelli che venivano definiti Scarabocchiatori, Bartolisti e Barbari e quelli che si autoconsideravano Umanisti, Purificati e Grammatici. La prospettiva indicata da Hotman per superare quelle ormai sterili diatribe era dar vita al diritto “nazionale” con un nuovo “codice” di leggi che consentisse l’accantona­mento del diritto romano[139].

Anche nei corsi ancorati alla tradizione riusciva tuttavia a filtrare qualche novità. Ce lo conferma ne Lo scolare Annibale Roero, studente di giurisprudenza a Pavia dal 1596 al 1602, a proposito degli argomenti delle lezioni sulle materie ordinarie: se da un lato il lettore insegna a «veder i lochi con la somma d’Azone, o di studiar con Bartolo le cento leggi sopra le quali egli diffusamente scrive», dall’altro è invogliato a «fare studio sopra i puri testi col metodo Vegelio» (Nikolaus Vigel), cioè con l’esegesi delle pure fonti del diritto romano[140]. Insomma, nei corsi pavesi, nonostante gran parte della preparazione giuridica degli studenti fosse ancora basata sulle opere dei grandi commentatori, e in particolare di Bartolo, «chiaro lume de’ giureconsulti», non si disdegnava di ricorrere, seppur in via suppletiva, a qualche testo dei Culti e soprattutto al De verborum significatione di Alciato, che era stato una delle glorie dell’università lombarda. Roero compila un lungo elenco di opere che circolavano nelle aule dello Studio pavese: i commentari canonistici di Giovanni d’Andrea, del Panormita, di Felino Sandei, di Filippo Decio, le Regulae iuris di Dino Rossoni del Mugello e quelle di Decio, il Topicorum seu de locis legalibus liber (1516) di Nicolas Everaerts (Everardus), professore a Lovanio, uno dei più celebri trattati di dialettica legale del tempo; e accanto ad essi i manuali consigliati, come «l’instituta di Teofilo, perché è una parafrasi di quella di Giustiniano» (testo anonimo attribuito al giurista bizantino Teofilo, vissuto nel VI secolo), e opere di chiarimento dei testi romanistici come «lo scholie del Misingero», cioè l’Apotelesma sive corpus perfectum scholiorum ad quatuor libro Institutionum iuris civilis (1555) di Joachim Mynsinger von Frundeck (Mynsingerus), seguace del metodo umanistico di Zasius, e «i commentarii de l’Oinotimo, [...] utilissimi a chi di già i termini possiede», cioè In quattuor Institutionum imperialium Iustiniani imperatoris commentarii (pubblicati postumi nel 1571) di Johan Schneidewin (Oinotomus)[141]. Roero indicava tra i commentatori civilisti, oltre, ovviamente, Bartolo, le opere di Giason del Maino, utilissime per il foro, di Paolo di Castro, «perché spiega con tale facilità le leggi, che a principianti apporta grande giovamento», di Alessandro Tartagni, Filippo Decio e Gianfrancesco Sannazaro della Ripa. Riteneva utile, però, non trascurare la scienza giuridica francese: «Ti esorto – diceva, rivolgendosi agli studenti pavesi – a prenderti qualche Oltremontano, fra quali farai scelta del Duareno, atteso che più de gl’altri è ordinato, facile e sottile»[142].

 

 

5. – Dal trattato didattico al “manuale” giuridico

 

Nel XV-XVI secolo, in coincidenza con la proliferazione delle sedi universitarie, si affermò un particolare genere letterario, quello dei trattati pedagogici che affrontavano il complesso problema dell’insegnamento del diritto e dei metodi didattici funzionali all’apprendimento delle materie giuridiche. Già nel Medioevo erano stati redatti trattatelli di precetti educativi, ammonizioni moralistiche e regole pratiche per la corporazione universitaria (Martino del Cassero da Fano, Baldo, Battista Sambiagi, Simone da Borsano)[143]. Nel 1467 Giovanni Battista Caccialupi (1420 circa-1496), professore di diritto civile nello Studio di Siena, autore di Lecturae e Consilia, componeva il De modo studendi et vita doctorum tractatus, che sarebbe stato stampato a Venezia nel 1472 da Giovanni da Colonia e da Vindelino da Spira: destinato, con le sue 30 edizioni, ad una discreta fortuna, il trattato, concepito probabilmente come una sorta di premessa al corpo di Institutiones, resta, come è stato osservato, se non del tutto estraneo, certo ai margini della cultura umanistica, anche per la piena adesione al pensiero dei commentatori. Raccomandava infatti agli studenti di studiare Odofredo, Iacopo Bottrigari, Bartolo, Baldo e Alberico da Rosciate. L’interesse dell’opera sta nella breve storia dei giureconsulti da Irnerio, a Bartolo («quia bartolista optimus iurista censendus est»), a Baldo, ai maestri perugini dell’autore: insomma, il De modo studendi si caratterizza come un «manuale metodologico e scolastico», scritto da un giurista nel latino dei giuristi, che recuperava il passato e le auctoritates dei maestri in funzione del presente[144].

Nel 1476 appare a Padova il De modo studendi in iure libellus di Giovanni Giacomo Can (1425 circa-1494), professore di diritto canonico e civile, il primo manuale, secondo Dionisotti, «scritto, bene o male, nella nuova lingua, nel latino degli umanisti, non più in quello dei giuristi»; tuttavia, rispetto al trattatello del suo collega senese, l’opuscolo di Can ha un respiro molto più limitato, giacché si concentra soprattutto sui sistemi di insegnamento del diritto in vigore nello Studio di Padova[145].

Uno dei contributi più interessanti al tema della didattica giuridica e, insieme, la più convinta difesa del mos italicus è rappresentata dal De methodo ac ratione studendi libris tres (Lione, 1541) del giurista piemontese Matteo Gribaldi Moffa (morto nel 1564), aderente alla Riforma e caposcuola dell’antitrinitarismo italiano ed europeo, professore di diritto civile a Valence, Tolosa, Grenoble, Padova e Tubinga[146]. In un notissimo distico («Premitto, scindo, summo, casumque figuro, / Perlego, do causas, connoto et obiicio») Gribaldi riassume efficacemente il metodo del mos italicus e delle sue forme logiche fissate dalla tradizione. Il giurista, infatti, dopo aver determinato l’argomento della sua trattazione (praemitto) e dopo averlo diviso nelle sue parti costitutive (scindo), espone, in sintesi, il contenuto del testo esaminato (summo), accompagnandolo con un caso pratico (casumque figuro); quindi rilegge il testo delucidato dalla critica (perlego), aggiungendovi le causae, ossia le rationes dubitandi et decidendi, per giungere infine alla formulazione della regola generale contenuta nella legge o relativa ad essa (connoto), a cui deve far seguire, per controprova, i contraria e le oppositiones (obiicio).

Il collaudato metodo scolastico riproposto dal giurista piemontese è diretto essenzialmente a ricavare il motivo della legge e la regola generale, e volto a ricondurre così tutte le norme ai principi generali (loci communes), punto di arrivo e, insieme, punto di partenza per altre interpretazioni. Nel difendere il mos italicus Gribaldi respinge la tesi che esso consista unicamente in un affastellamento di decisiones e in una vocazione eminentemente compilatoria, di cui peraltro critica le degenerazioni presenti in tante opere giuridiche del tempo. Esorta gli studenti a concentrarsi nello studio del diritto per emulare e superare i grandi maestri del passato, raccomandando di leggere «paucos et idoneos auctores», individuati nella tradizione italiana del commento («Bartolus et Baldus, Paulus, Tartagnus, Iason»), ma riconosce nel contempo il rinnovamento degli studi attuato dai giuristi umanisti («Budaeus, Zasius et Alciatus, viri immortalitate digni»)[147].

Si sbaglierebbe a considerare la Methodus gribaldiana come l’espressione del più acceso conservatorismo o della più vieta riproposizione di moduli didattici in gran parte superati. In realtà, come ha efficacemente dimostrato Diego Quaglioni rivalutando quest’opera, Gribaldi, eretico e perseguitato sia dai cattolici che dai luterani, era un uomo dei tempi nuovi, che tentava di «ricongiungere l’eredità scientifica del “bartolismo” con le nuove acquisizioni del movimento umanistico», nell’esigenza di «conservare ai nuovi sviluppi della scientia iuris quella base razionalistica che era il portato migliore» della tradizione giuridica italiana[148]. La Methodus ebbe una buona circolazione europea e una discreta fortuna (12 edizioni dal 1541 al 1587, 9 a Lione e 3 a Venezia)[149].

Peraltro a Padova, università assai sensibile ai dibattiti metodologici sui temi della didattica giuridica, era apparso una decina d’anni prima il Tractatus de ratione studendi che segnava invece un’apertura verso i temi dell’umanesimo giuridico. L’aveva scritto il giurista vercellese Gerolamo Cagnolo (1491-1551), professore di diritto civile nello Studio di Torino dal 1518 al 1536 e dal 1544 titolare della cattedra mattutina di ius civile. Nel De regulis iuris (Venezia, 1546), che raccoglieva le lezioni del corso patavino, emergeva, secondo Brugi, un’impostazione, se non in tutto, «in parte alciatea»[150].

La strada già tracciata dalla Methodus gribaldiana sarebbe stata sostanzialmente ripercorsa nel secolo successivo dal trattato De ratione studendi in utroque iure (Roma, 1627) del milanese Girolamo Lampugnani (morto nel 1644), lettore alla Sapienza di Roma, pubblicato in appendice ad un «compendio» delle istituzioni giustinianee, finalizzato all’esposizione del corpus iuris e del relativo apparato ordinario di glosse, riproponeva le linee sostanziali del vecchio metodo scolastico[151]. Di stampo dichiaratamente umanistico è la prolusione letta nel 1585 nell’Università di Heidelberg, De iuris civilis difficultate ac docendi methodo, dal giurista vicentino Giulio Pace da Beriga (Pacius, 1550-1637), formatosi alla scuola patavina, dove ebbe maestri, fra gli altri, Menochio e Panciroli, professore anche a Ginevra, Montpellier, Padova e Valence. Giurista di vasti interessi culturali, studioso di filosofia e commentatore delle opere logiche di Aristotele, esegeta delle fonti giustinianee, autore di un significativo trattato (Tractatus de contractibus et rebus creditis, seu de obligationibus..., Spira, 1596) sulla natura giuridica del contratto, considerato come conventio cum causa, Pace scrisse anche testi destinati all’insegnamento universitario e all’appren­dimento del diritto, come l’efficace Synopsis iuris civilis (Lione, 1588) e la Iuris quo utimur epitome secundum ordinem institutionum imperialium digesta (Spira, 1589). Nella prolusione del 1585, Pace attuava una disamina delle cinque metodologie di studio del diritto affermatesi dal Medioevo, dalle Summae di Piacentino e Azzone, volte a sistemare le leggi, alle glossae di Accursio, finalizzate all’interpretazione dei testi romanistici, dalle opere di Bartolo e Baldo con le loro esigenze eminentemente pratiche alle correnti umanistiche con le loro preccupazioni storico-filologiche, sino al metodo di Alciato e Zasio – che l’autore dichiarava di preferire – che riusciva a coniugare lo studio e l’esegesi dei classici con la pratica giuridica. Osservava inoltre che i giuristi avevano voluto difendere l’autonomia della scienza giuridica dal confronto con le altre discipline chiudendola entro delimitati confini, simili a cancelli («hi omnes intra iuris civilis quasi cancellos ab aliis, disciplinis abstinuerunt»): si trattava ora, secondo Pace, di allargare l’ambito delle cognizioni necessarie al giurista, aprendo appunto quei «cancelli» entro cui i giureconsulti medievali si erano chiusi[152].

Nella seconda metà del Cinquecento iniziava a maturare l’esigenza di disporre di veri e propri manuali delle materie giuridiche, semplici e chiari nell’esposizione, necessari sia per la didattica universitaria che per il foro. Tanto i bartolisti, con l’eccessivo monografismo dei temi e la ridondanza di citazioni contrapposte, quanto i Culti con l’attenzione predominante per le questioni linguistiche e filologiche, non erano riusciti a dare una risposta convincente a una domanda ormai largamente sentita. Già Gribaldi nella Methodus aveva posto il problema dell’individuazione di axiomata iuris, necessari per la semplificazione della didattica giuridica, e tre anni dopo Duaren aveva invocato nel De discendi iuris la necessità della ricerca di theoremata universalia indispensabili per la razionalizzazione e la classificazione metodica del diritto. Louis Le Caron (Charondas, 1536-1617) nell’opera giovanile De restituenda et in artem redigenda iurisprudentia (Parigi, 1553) e, soprattutto, Jean De Coras (Corasius, 1513-1572), professore a Valence e magistrato del Parlamento di Tolosa, nel De iure civili in artem redigendo (Lione, 1560) avevano espresso l’esigenza di ridurre il diritto a scienza compendiosa nel disegno di un’elaborazione sistematica del sapere giuridico[153].

Nell’estate del 1563, mentre si concludevano i lavori del Concilio di Trento, Giovanni Paolo Lancellotti (1522-1590), dal 1548 professore di diritto civile e poi di canonico nello Studio di Perugia, licenziava per la stampa i suoi Institutionum iuris canonici libri quatuor, pubblicati a Venezia nel medesimo anno dal tipografo Comin da Trino. Si trattava del primo manuale vero e proprio di diritto modernamente inteso, basato sull’innova­tiva e sistematica divisione della materia canonistica in quattro libri, dedicati, secondo lo schema romanistico di matrice giustinianea, il primo alle persone in Ecclesia, il secondo alle res sacrae nelle loro articolate classificazioni, dai sacramenti ai beni patrimoniali, il terzo al processo in civilibus, il quarto al diritto criminale sostanziale e processuale.

Nella lettera dedicatoria l’autore spiega, con una punta di amarezza, di aver tentato di far approvare dalla Santa Sede la sua trattazione sistematica del diritto canonico per una pubblicazione ufficiale da affiancare al Corpus iuris canonici, rinnovato dal Concilio tridentino, e alle Decretali. Nel 1555 il testo lancellottiano era stato sottoposto ad una commissione di revisori appositamente costituita da Paolo IV. Lo stesso Lancellotti si era trasferito a Roma per seguirne il lavoro, accogliendo suggerimenti e proposte. Ma la novità dell’esposizione ed alcune teorie avevano suscitato perplessità e riserve sull’opportunità di un’approvazione ufficiale. Infine una nuova commissione nominata nel 1559 da Pio IV , accogliendo le resistenze degli ambienti curiali, era riuscita a bloccare il progetto[154].

Rientrato a Perugia Lancellotti aveva deciso di pubblicare le Institutiones in un’edizione privata premiata da un grande successo (ben 20 edizioni dal 1563 al 1599, 8 a Lione, 5 a Venezia, 2 a Roma, 1 a Basilea, Anversa, Parigi e Francoforte), destinato a non interrompersi nemmeno nei secoli successivi (13 edizioni dal 1606 al 1679 e 12 dal 1702 al 1779)[155]. Nel 1566 a Basilea il celebre editore Michael Isingrin pubblicava il testo delle Institutiones corredato dalle note marginali del giurista cortonese Ludovico Alfieri (morto nel 1594) che rinviavano alle norme del Corpus iuris canonici. Nello stesso anno un editore di gran fama, Cristophe Plantin, pubblicava ad Anversa le Institutiones con le annotazioni del giurista fiammingo Hieronimus Elen. Infine nel 1570 venne pubblicata a Venezia, a spese di Marco Amadori, libraio-editore romano, presso la tipografia di Nicolò Bevilacqua, una nuova edizione arricchita da un cospicuo apparato di glosse – che finivano per raddoppiare la consistenza di circa 600 pagine del grosso volume in 4° – redatte dallo stesso Lancellotti (ma non inserite, probabilmente per ragioni economiche, nell’edizione del 1563), revisionate dal perugino Francesco Mancini e da Roberto Lancellotti, suo fratello minore e giurista lui stesso (morto nel 1583 ed autore di un trattato processualistico, De attentatis et innovatis lite et appellatione pendente..., Roma, 1576), alla luce dei recentissimi canoni conciliari[156]. Nello stesso 1563, stimolato anch’esso dal clima del Concilio tridentino, veniva pubblicato un altro manuale, le Institutiones iuris canonici di Marco Antonio Cucchi (1506-1567), professore di diritto canonico prima a Pavia e poi a Roma, membro della commissione pontificia dei Correctores Romani (la commissione che doveva preparare la nuova edizione del Decretum e delle Decretali), di dimensione più contenuta e con una suddivisione delle materie assai diversa dall’opera lancellottiana, destinato comunque, con le sue 10 edizioni dal 1563 al 1589, ad ottenere minore successo[157].

Per uno strano paradosso, nel 1669 un professore dell’Università di Wittenberg, il luterano Caspar Ziegler (1621-1690), curava un’edizione delle Institutiones di Lancellotti che, arricchita da un’ampia messe di note, diventava un’arma d’accusa contro la Chiesa di Roma, rea di aver tradito la purezza originaria dello «ius decretalium». Anche un grande giurista come Christian Thomasius (1655-1728) pubblicava ad Halle fra il 1715 e il 1717 una nuova edizione commentata del Lancellotti con dotte ed equilibrate annotazioni, testimonianza della diffusione e dell’autorevolezza del manuale lancellottiano anche presso il mondo accademico protestante[158].

Diverso è ovviamente il caso dell’ambito civilistico. Qui il manuale esisteva per davvero, ed era rappresentato dalle Institutiones giustinianee che avevano costituito e costituivano il testo base per l’apprendimento del diritto. Da Padova a Città del Messico, da Bologna a Cracovia, da Salamanca ad Heidelberg, da Coimbra a Lipsia, gli studenti delle facoltà giuridiche continuavano ad imparare i primi rudimenti del diritto sulle pagine delle Institutiones. Esse avevano comunque necessità di un adeguamento alle esigenze semplificatorie dei tempi: nel Medioevo il corso di Istituzioni aveva una funzione meramente propedeutica alle altre, più importanti materie giuridiche, un corso secondario appannaggio in genere di docenti alle prime esperienze didattiche o addirittura di giovani non ancora laureati; ora, grazie al movimento umanista, il corso di Istituzioni acquisiva una dignità nuova, si caratterezzava come il momento iniziale della formazione del giurista e rivolgendo un’attenzione particolare alla lettura del de regulis iuris del Digesto assumeva una collocazione ben determinata nel quadro dell’insegna­mento giuridico in riferimento al «diritto privato»[159]. Appaiono in questo periodo “compendi giuridici ragionati” capaci di offrire un quadro completo delle dottrine romanistiche riassunte in un insieme logico facilmente accessibile per gli studenti o per i pratici, anche se in genere questi tentativi, finalizzati soprattutto all’attività didattica, non si discostavano dal modello giustinianeo, ma anzi ne riproponevano sia lo schema generale, che la suddivisione delle materie[160].

Claude Chansonette (Claudius Cantiuncula, 1490-1549), giurista e umanista, durante il suo insegnamento dal 1517 al 1523 nello Studio di Basilea, nel De ratione studii legalis Paraenesis (Basilea, 1522) indicava come base per la «classificazione dei precetti» la partizione adottata nelle Institutiones giustinianee, delle quali compilò anche una Paraphrasis articolata in tre libri (Haguenau-Norimberga, 1533-38)[161]. Nel 1538 Silvestro Aldobrandini (1499-1558), professore a Pisa, poi cancelliere delle Riformagioni della Repubblica fiorentina, auditore generale e consigliere del duca d’Urbino e, infine, avvocato consistoriale a Roma, pubblicava a Venezia le Institutiones iuris civilis, un’edizione glossata a fini esplicativi delle istituzioni giustinianee, finalizzata essenzialmente alla didattica: le sue 38 ristampe sino al 1599 mostrano il favore del mondo universitario e soprattutto degli studenti[162]. In una prospettiva diversa si colloca Éguinaire Baron (Eguinarius, 1495 circa-1550), professore nell’Università di Bourges negli anni successivi all’insegnamento di Alciato, con i suoi Institutionum civilium ab Iustiniano Caesare editarum libri IIII (Poitiers, 1546) che si accostano alle istituzioni giustinianee attraverso due esposizioni separate, la prima delle quali costituisce un vero e proprio commentario del manuale e la seconda affronta la trattazione di ogni singolo istituto attraverso la comparazione col jus patrium francese[163].

Destinato alla didattica universitaria è anche l’Isagogicus di Marco Mantua Benavides (1489-1582), professore di ius civile e dal 1572 di diritto canonico nell’Università di Padova, giurista legato al mos italicus, autore di consilia e di diversi scritti di diritto civile, penale, pubblico e pontificio, che dettò questo trattatello al proprio allievo Gerolamo Ermolao nelle ferie scolastiche del 1544 per istruirlo sul modo di sciogliere tutti i nodi e le apparenti antinomie dei testi giuridici[164].

Un testo assai diffuso nelle aule universitarie italiane e straniere – come ci conferma anche Roero ne Lo scolare – era il Topicorum seu de locis legalibus liber (Lovanio, 1516), più noto come Topica, dell’olandese Nicolaas Everaerts (Nicolaus Everardi, 1462 circa-1532), professore dal 1492 di ius civile nell’Università di Lovanio, consigliere e poi, dal 1528, presidente del Gran Consiglio di Malines, l’organo giudiziario supremo dei Paesi Bassi[165]. Giurista di impianto tradizionale, legato alle vecchie categorie medievali dei genera e delle species, autore di Responsa sive consilia (Lovanio, 1554, postumi), Everaerts affronta nei Topica il problema dell’argomenta­zione giuridica per rendere accessibili agli studenti, come ai futuri giudici e avvocati, le complesse dottrine presenti nella glossa e nei testi dei commentatori giuridici. L’opera tratta dei loci o positiones, cioè dei fondamenti da cui si evincono gli argomenti per difendere o discutere un caso, desuendoli dalla compilazione giustinianea, dal diritto naturale e dalle auctoritates. Everaerts continuò a lavorare alla sua opera, che ampliata e modificata, fu pubblicata postuma dai figli col nuovo titolo di Loci argumentorum legales (Lovanio, 1552). La prima edizione dei Topica comprende 100 loci, la seconda 131. I loci hanno spesso un carattere generale e comprendono regole di dialettica giuridica: ad esempio, il locus ab ordine (come si può dedurre l’ordine di successione, l’ordine cronologico e l’ordine di distribuzione nel diritto?), il locus a genere ad speciem (come passare dal generale al particolare?), i loci a minori e a maiori, e via dicendo; altri sono funzionali alla comprensione del diritto vigente, come ad esempio il locus a feudo ad emphyteusim (sono applicabili anche all’enfiteusi le regole relative ai feudi?). Con il loro stile chiaro e succinto e la puntuale spiegazione degli argomenti legali, i Topica esercitarono una considerevole influenza nella pratica giuridica e nella didattica universitaria sino alla fine del XVII secolo[166].

In Germania il diffuso particolarismo del XVI secolo, in mancanza di un diritto “patrio” di derivazione monarchica, rafforzò la posizione preminente del diritto romano rispetto agli altri ordinamenti concorrenti, come la tradizione statutaria, gli iura propria e le consuetudini[167]. Ciò spiega, rispetto alle altre realtà europee, l’affermazione di una letteratura romanistica in lingua tedesca, non rivolta, nel suo insieme, né ai giuristi di professione né agli studenti universitari, i quali attingevano direttamente alle fonti e alla trattatistica giuridica in latino, ma alla gran massa dei lettori – mercanti, artigiani, amministratori civici – che non conoscevano il latino. La versione tedesca delle Institutiones (Ingolstadt, 1549, postuma) del magistrato bavarese Andreas Perneder (1500 circa-1543) ebbe una larghissima diffusione, come la traduzione delle istituzioni giustinianee (Basilea, 1519) ad opera del poeta luterano strasburghese Thomas Murner (1475 circa-1537). Il progetto dell’umanista Sebastian Brant (1457-1521), il celebre autore di Das Narrenschiff (1494, La nave dei folli), popolare poema satirico, di tradurre in tedesco l’intero Corpus Juris Civilis (che avrebbe dovuto costituire il corrispettivo profano della traduzione luterana della Bibbia) non andò in porto[168].

Nelle università tedesche di questo secolo si assiste alla fioritura di opere destinate alla didattica, sia sotto forma di commentari e di esposizioni della compilazione giustinianea, che di compendio delle istituzioni, si avvicinavano per taluni aspetti al modello di un vero e proprio “manuale” giuridico, modernamente inteso. Rientrano in questo schema la Practica actionum forensium (Colonia, 1544), che presenta un’esposizione globale del diritto privato, ordinato secondo il disegno del Digesto in sette classi di actiones, opera di Johann Oldendorp (1488 circa-1567), professore nelle università di Greifswald, Francoforte sull’Oder, Rostock, Colonia, amministratore civico a Lubecca, fondatore della tradizione del diritto naturale protestante, autore anche di altri lavori didattici[169]. Le Enarrationes in quattuor Institutionum libros (Francoforte, 1542) di Melchior King (1504-1571), professore di Decretali a Wittemberg, alto burocrate e magistrato, costituiscono una sorta di vera e propria introduzione allo studio del diritto[170].

Vengono pubblicate in questa fase alcune opere di impianto diverso, ma accomunate da chiari intenti di sintesi, destinate soprattutto alla prassi, al foro e alla didattica universitaria, come il Lexicon iuris civilis (Lione, 1545) di Jakob Spiegel (1483-1547), i Libri dialecticae legalis quinque (Lipsia, 1531) di Christoph Hegendorff (1500-1540) e gli Apotelesma sive corpus perfectum scholiorum ad quatuor libros Institutionum iuris civilis (Basilea, 1555) di Joachim Mynsinger von Frundeck (Mynsingerus, 1514-1588), allievo di Zasio e professore a Friburgo, di formazione umanistica, uno dei primi esponenti, insieme ad Andreas Gail (1525-1587), della «cameralistica» tedesca[171]. Gli Apotelesma, con le 32 edizioni apparse sino al 1691, ebbero uno straordinario successo editoriale, segno dell’apprezza­mento che il testo di Mynsinger aveva ottenuto nel foro e nelle aule universitarie europee[172]. In questa prospettiva si colloca anche la Iuris civilis absolutissima methodus (Basilea, 1561), destinata ad un buon successo editoriale (6 edizioni sino al 1628), anche per la innovativa partizione del diritto proposta, di Nikolaus Vigel (Vigelius, 1529-1600); allievo di Baudouin e di Oldendorp, professore, sino al 1594, nell’Università di Marburg, egli si occupò anche di diritto penale e pubblico negli Institutionum iuris publici libri III (Basilea, 1568) e approfondì le questioni relative alla pratica forense e alla sistematica giuridica in particolare nel trattatello, che riprendeva l’opera del 1561, Partitiones iuris civilis (Basilea, 1571)[173]. Di impianto – diciamo così – “premanualistico” sono i Commentaria alle Institutiones, in quattro tomi (Francoforte, 1599), di Johann Harprecht (1560-1639), professore nell’Università di Tubinga, giurista con una forte vocazione pratica, e il Commentarius in Institutiones iuris civilis a Iustiniano compositas (Francoforte, 1598) di Hermann Wöhl (Vulteius, 1555-1634), dal 1581 professore di Istituzioni a Marburg[174].

In questo ambito gli apporti più significativi sono però gli In quattuor Institutionum imperialium domini Iustiniani libros commentarii (postumi, Strasburgo, 1571) di Johann Schneidewein (Oinotomus, 1519-1568), professore dal 1551 nello Studio di Wittenberg che dichiarava esplicitamente di voler seguire una via intermedia tra il mos italicus e la scuola culta, e gli Institutionum Iustiniani libri IIII (Basilea, 1572) di Matthaeus Wesenbeck (Wesenbecius, 1531-1586), anch’egli professore a Wittenberg dal 1569 alla morte. Seguace del metodo umanistico, allievo del giurista fiammingo Gabriel van der Muyden (Mudaeus, 1500-1560), professore di Digesto a Lovanio e assertore del mos gallicus, che si era cimentato col problema della sistematizzazione del diritto romano, Wesenbeck pubblicò i Paratitla in Pandectarum iuris civilis libros quinquaginta (prima edizione non autorizzata Basilea, 1563, seconda edizione rivista e ampliata Basilea, 1568) e gli In Codicis Iustinianei libri XII commentaria (Basilea, 1576). Assai apprezzata nel mondo universitario del tempo fu la sua De compositione iuris, introduzione al testo giustinianeo, in cui gli argomenti erano presentati nel loro ordine e connessione, summatim et generatim (per generi e per specie), nel rispetto dell’esatta tripartizione della materia che solo intelletti «smaniosi di novità» ritenevano di poter abbandonare. Su questa base lo studente doveva poi procedere (dopo aver memorizzato le Istituzioni che esponevano non solo gli elementi ma l’intero corpo della giurisprudenza) allo studio delle Pandette per acquisire «generalem iuris cognitionem»[175].

In sostanza i commentari cinquecenteschi alle istituzioni aprirono la strada al celebre In quattuor libros Institutionum imperialium commentarius academicus et forensis (Leida, 1642) di Arnold Vinnen (Vinnius, 1588-1657), opera di grande successo, tradotta spesso nelle lingue locali, testo di riferimento per l’insegnamento in molte università europee del XVIII secolo, e all’Istituta civile di Giambattista De Luca (1614-1683), redatta in italiano, che, per quanto assai meno importante, ebbe tra il 1733 e il 1781 sette edizioni, un testo «di impronta pratico-forense» che si caratterizzava come un riuscito «manuale istituzionale»[176].

Il vero, primo, organico manuale universitario di diritto sarebbe stato concepito dal 1619 in poi nel corso delle lezioni tenute nella facoltà di giurisprudenza di Ginevra da Jacques Godefroy (Jacobus Gothofredus, 1587-1652), figlio del grande Denis, filologo, giurista, amministratore civico ed uomo di governo, epigono dell’umanesimo giuridico ed erede della tradizione culta francese[177]: il suo Manuale iuris seu parva iuris mysteria (Ginevra, 1632), è un modello di umanesimo elegantemente didattico, destinato al successo, come dimostrano le sue 14 edizioni.

Il Manuale era in realtà concepito come una sorta di trilogia manualistica: la prima parte, rivolta essenzialmente a studenti privi di nozioni giuridiche, prevedeva un’introduzione storica al diritto (historia); la seconda raccoglieva le sententiae e le regulae iuris compendiate dalle sette parti del Digesto giustinianeo (florilegium sententiarum iuris); la terza, destinata agli studenti più avanti nel corso, illustrava le fonti del diritto: XII Tavole, Lex Iulia et Papia, i Libri tres iuris civilis di impostazione scolastica di Masurio Sabino (series librorum et titulorum in Digestis et in Codice); l’ultima parte, purtroppo perduta, era dedicata all’analisi dei casi controversi[178].

 

 

6. – Libri e “scartafacci”

 

Nel novembre del 1561 un giovane studente sardo, Giovanni Francesco Fara, si iscriveva nella facoltà giuridica dello Studio pisano. Erano passati diciotto anni da quando l’Università di Pisa era stata riformata dal granduca Cosimo I, che aveva anche tentato, peraltro senza successo, di chiamarvi il grande Alciato. L’obiettivo era infatti quello, in linea con le equilibrate posizioni del celebre giurista milanese, di offrire un corso di studi che, pur accogliendo la scienza giuridica della tradizione italiana dei commentatori, non fosse del tutto chiusa alle istanze dell’umanesimo giuridico e della scuola culta[179]. A Pisa Fara ebbe come maestri Pietro Calefati, Gerolamo Papponi, Antonio Ciofi, Camillo Plauzio Pezone: soprattutto quest’ultimo incise sulla sua formazione giuridica guidandolo, dopo la laurea conseguita nell’agosto 1567, nella stesura del Tractatus de essentia infantis, in cui, analizzando lo fonti romanistiche attraverso una esegesi diretta e testuale, mostrava un’aperta adesione al metodo umanistico[180]. Durante la frequenza nello Studio pisano Fara, che apparteneva ad una famiglia agiata (il padre era notaio civico di Sassari), acquistò un gran numero di libri a stampa e manoscritti: essi rappresentano il nucleo iniziale della sua cospicua biblioteca – formata da oltre mille titoli, di cui il 60% era costituito da testi di diritto –, che continuò ad arricchirsi anche negli anni successivi, quando il giovane giureconsulto ritornò definitivamente nella sua città natale e abbracciò la carriera ecclesiastica, divenendo nel 1591 vescovo di Bosa. Nella biblioteca di Fara figurano le opere dei Culti, quali le Dispunctiones, i Paradoxa, il Duello di Alciato, le Annotationes di Budé, gli scritti di Cujas, Zasius, Azpilcueta, Covarrubias, Agustín, e di altri giuristi contemporanei di orientamento umanistico: egli possedeva però anche le edizioni dei maggiori esponenti del mos italicus (Menochio, Decio, Paolo di Castro, Cipolla, Bartolomeo Sozzini, Giason del Maino, etc.), segno che per la maggior parte dei giuristi del tempo il bartolismo e la scuola dei culti non costituivano affatto due tradizioni opposte o inconciliabili[181].

Negli otto anni di frequenza (1599-1607) nella facoltà di diritto di Salamanca per lo studente fiorentino Girolamo da Sommaia il manuale universitario era quasi inesistente: studiava infatti leggi e canoni sugli appunti presi a lezione. Sommaia si era iscritto nella prestigiosa facoltà castigliana per conseguire il baccellierato in utroque iure. Il suo diario, relativo agli anni 1603-07, è un documento straordinario non soltanto sulla vita universitaria ma anche sul clima culturale, sulla circolazione dei libri, sulla sensibilità religiosa e sui costumi del suo tempo[182]. L’autore è uno studente di agiate condizioni economiche che aveva preso in affitto una casa dove invitava spesso compagni, amici e influenti membri della società locale, e che frequentava eruditi e letterati, fra i quali Ambrosio Alemán e Lorenzo Ramírez con cui scambiava volentieri libri e impressioni. Nel 1604 il giovane e promettente giurista Juan Solórzano Pereira (nel 1606 otterrà l’insegnamento della prima cattedra di leggi) gli fece leggere in anteprima il suo trattato sul parricidio («Parlai a Solórzano del suo libro de Parricidijs»)[183]. Appassionato di teatro, buon conoscitore delle lingue – parlava correttamente lo spagnolo e il francese e studiava l’inglese –, esperto giocatore d’azzardo (a «primiera» e a «picchetto» vinceva talvolta somme consistenti), Sommaia era molto devoto e partecipava regolarmente a tutte le cerimonie religiose, annotando il contenuto delle prediche o delle lezioni universitarie di teologia. Tuttavia ciò non gli impediva di frequentare con assiduità ragazze compiacenti («A dolcitudine con la Serrana. reales 6», «A Petrona per dolcitudine. reali 8», etc.). Si confessava non soltanto dei propri peccati sessuali ma anche delle letture eterodosse: «Confessai con fra Lamberto – scrive il 10 novembre 1606 – ventiuna fornicazione. Baci. Il Bodino. Il Machiavello. Le scritture di Benetia»[184]. Sommaia leggeva anche altri testi che circolavano clandestinamente a Salamanca, come le Relaciones dell’ex segretario di Filippo II, Antonio Pérez, portatori di una dura critica alla pratica di governo assolutistica, di cui fece copiare numerosi brani[185]. Mostrava inoltre uno spiccato interesse per i trattati sul governo, come L’istruzione di Carlo V a Filippo II, gli Avvertimenti di Scipio di Castro a Marco Antonio Colonna, l’Utopia di Tommaso Moro, il De Rege di Juan de Mariana, acquistato nel 1604 insieme al De ponderibus et mensuris del medesimo autore per 8 reali. Sulla vita culturale salamantina vegliava però attento il Santo Offizio: «Mandò la Inquisition recoger il quarto tomo del padre [Francisco] Suarez sopra la terza parte di Santo Tomás»[186], annotava nel proprio diario il 1° aprile 1606.

Pur frequentando le biblioteche dei Collegi di Salamanca per le fonti di diritto romano e canonico, Sommaia poteva, grazie alla sua disponibilità di denaro, acquistare anche numerosi libri. Nel 1605, ad esempio, comprava per 154 reali d’argento l’opera di Bartolo «in 10 capi di Venetia» (sicuramente l’edizione giuntina), per 242 reali un «Derecho civil», per 187 reali un «Derecho canonico di Venecia» in 4 tomi e per 165 reali «Las [Siete] Partidas in 4 tomi»[187]. Ma la sua vera passione erano i libri – diciamo così – extrauniversitari: i classici latini e greci, le relazioni di viaggi, i volumi di storia, particolarmente spagnola, gli autori del Rinascimento italiano e, soprattutto, opere di letteratura. A Salamanca ebbe modo di leggere, acquistandoli o scambiandoli, i testi più significativi della letteratura spagnola contemporanea come «le poesie di Don Luys de Gongora», il «sueño» di Francisco de Quevedo, la Celestina di Fernando de Rojas, le opere teatrali di Lope de Vega e, nel 1605, la prima parte del Don Quijote di Miguel de Cervantes appena stampata e non ancora inquadernata («Al detto [Gómez] Don Quixote de la Mancha sciolto, et l’inquaderna Gaspar de la Alva»)[188].

Rispetto al benestante e gaudente Sommaia, lo studente castigliano Gaspar Ramos Ortiz aveva un tenore di vita molto più modesto, di fatto privo di divertimenti, di laute cene e di ragazze enamoradas. Era giunto a Salamanca nel giugno del 1568 dal villaggio di Masueco a dorso di un mulo, accompagnato dal padre, piccolo proprietario rurale, per iscriversi alla facoltà di diritto nella speranza di intraprendere una carriera burocratica nella quale si erano distinti due zii paterni, uno come magistrato dell’Audiencia di Charcas nelle Indie e l’altro come corregidor di Vilvestre. Amministratore oculato e scrupoloso delle proprie risorse, Ramos dovette fare i conti con le ingenti spese per l’alloggio, il vitto, l’abbigliamento e l’acquisto dei libri necessari. Gli statuti salmantini del 1561 prescrivevano che gli studenti del primo anno frequentassero esclusivamente le lezioni di Instituta e del Codice per acquisire i rudimenti del diritto. Per questo motivo Ramos comprò alcuni libri indispensabili per il corso: un testo de «derecho civil» e un volume di «Instituta pequeña», per 143 reali d’argento, un Teofilo per 5 reali e mezzo, le «leyes de Toro» per 12 maravedí e un libro di Francesco Balbi. I libri e le spese vive per la frequenza incidevano più del 12,5% sul modesto bilancio di Ramos che, nel 1569, decise di abbandonare gli studi proprio a causa delle difficoltà economiche. La sua vita universitaria era durata appena quattordici settimane. Nell’ottobre del 1569 sposava a Valladolid donna Maria Lasso de Chaves, figlia del licenciado Lasso de San Vicente, esponente della piccola e agiata hidalguía castigliana: in seguito venne assunto come segretario dalla duchessa di Bibona[189].

Non tutti gli studenti avevano i mezzi per acquistare i libri usati nei corsi o necessari per un ulteriore affinamento della propria cultura giuridica. Anzi, la maggior parte di coloro che frequentavano le università studiava sugli appunti manoscritti delle lezioni dei maestri o dei lettori. Nel 1534 il Senato milanese, cui era affidata la gestione dell’Università di Pavia, vietava ai docenti la dettatura del corso durante  le lezioni per evitare che «li ingenii de’ scolari e dottori novelli se opprimano», con una «commissione del tempo di leggere e de non dare in scritto». Il provvedimento venne sottoposto al giudizio («acciò che non habbiano da dolersene») dei due professori più illustri dello Studio, l’Alciato e il Ripa[190]. Nel 1591 il Senato rinnovava agli studenti dello Studio pavese il divieto di annotare per iscritto le lezioni dei docenti: il provvedimento mirava stavolta a tutelare i professori per l’inesatta o arbitraria diffusione del loro pensiero, distorto sovente da allievi poco preparati[191]. La disposizione rimase di fatto inapplicata. Ce lo conferma Roero, che ne Lo scolare riconosce l’utilità degli appunti scritti presi durante le lezioni: «pure io ti ammetterei lo scrivere alle scole [...]: perché, se dopo aver hudita la lettione, l’haverai in iscritto, anderai a vedere i lochi [cioè le fonti e le citazioni], farai le induttioni, e nulla te ne sfuggirà»[192]. Le lezioni erano spesso turbate dal rumoreggiare della scolaresca preoccupata soprattutto di scrivere: Alciato si lamentò dell’indisciplina degli studenti pavesi, che interrompevano spesso le sue lezioni[193]. Il metodo di studio dominante negli atenei italiani faceva ampio ricorso all’oralità, alla capacità di apprendere «bene e sanamente» alle lezioni, alla memoria, alla ripetizione quotidiana delle nozioni apprese, alla conoscenza eminentemente pratica degli argomenti necessari per «far le induttioni, nelle quali sta la forza delle leggi»[194]. Non deve quindi stupirci il fatto che in questo collaudato meccanismo il libro a stampa avesse una funzione marginale, di fatto sussidiaria al manoscritto di uso privato e all’oralità.

Nell’Università di Perugia, ci racconta nel 1602 un autorevole testimone come Alberico Gentili che in quella sede si era laureato trent’anni prima, gli «studenti ricevono dai dottori al termine di ogni lezione la indicazione del tema che sarà trattato prossimamente, e degli scrittori interpreti e dove questi si possono reperire, affinché siano letti prima della lezione che segue, e ad un tempo sia esaminato ciò che poi verrà esposto e brevemente vi sia rivolta la loro attenzione, onde i dottori abbiano poi pochissimo da esporre di cui i discepoli non abbiano in precedenza preso conoscenza: utilissimo metodo di studio – conclude Gentili –, poiché non è sufficiente che gli uditori ascoltino con tutta attenzione il professore, ove già non abbiano precedentemente conosciuta la materia»[195].

In tutte le università europee, del resto i corsi universitari si basavano prevalentemente sulla trasmissione orale del sapere e sugli appunti delle lezioni, prescindendo in parte dal manuale a stampa. A Salamanca, ad esempio, la pratica della dettatura delle lezioni («debent scribere quae dicemus») venne introdotta dal domenicano Francisco de Vitoria, cattedratico di teologia dal 1526 al 1546, uno dei principali esponenti della seconda scolastica spagnola, che l’aveva già praticata alla Sorbona di Parigi, dove aveva conseguito il baccellierato e fatto le prime esperienze di insegnamento. Le Relectiones di Vitoria, fra cui quella assai celebre De iure belli (1539), circolarono manoscritte nelle mani degli studenti e dei professori sino alla prima edizione a stampa di Lione del 1557 e a quella salmantina del 1567[196]. In principio la dettatura del corso era una soluzione che permetteva agli studenti dotati che non avevano mezzi per acquistare i libri di testo di disporre di un compendio e di uno schema logico su cui preparare l’esame. Tuttavia ben presto questa pratica degenerò: gli studenti si dedicavano esclusivamente a trascrivere la lezione e a riportare gli argomenti del corso senza capire o memorizzare le tematiche trattate; molti si accontentavano di studiare sugli appunti presi da amici o, addirittura, da servitori; e si era affermato un commercio delle “dispense”. Gli statuti salmantini del 1561 tentarono di regolare questo problema limitando notevolmente questa pratica: «Yten ordenamos – si legge nel titolo XXI,1 degli statuti – que los lectores de quelquier facultad que sea no lean por cartapacio ni quaderno ni papel alguno ni dictando»[197]. Nel 1568 il Consiglio del re stigmatizzava «los daños e inconvenientes» della dettatura delle lezioni e ricordava ai docenti che la funzione del corso era «la ynteligencia de los textos y glosas» che si spiegavano.

Le autorità accademiche di Salamanca verificavano il rispetto degli statuti, la qualità e la regolarità dello svolgimento dei corsi, il puntuale richiamo dei testi attraverso periodiche visitas de cátedras con dei testigos che seguivano le lezioni delle diverse discipline stilando dettagliate informazioni. Il dottor Nuño de Acosta, portoghese, titolare nel 1575 della cattedra serale di Canoni, spiega il corso «de modo que – si legge nel verbale della visita – este testigo no puede escribir su leçión [...] no lee ditando ni dando theoricas e lee muy de priesa»: le allegazioni, le glosse o le «remysiones las dize una vez» soltanto e quando gli studenti gli chiedono di ripeterle «no quiere volver a repetirlas». A proposito della visita del corso del dottor Rafael Rodriguez de Carvajal, canonista, il testimone riferisce che «lee in voce y en latin y explica en romanze [in castigliano] y escribe como se puede acomodar como un quarto de ora poco más o menos»[198].

Proibizioni e limitazioni della dettatura, accolte con ostilità dalla gran parte di maestri e allievi, rimasero in gran parte inapplicate. I fautori della dettatura sostenevano che essa costituiva una conferma della serietà del docente, obbligato così a predisporre con cura e metodo l’argomento della lezione; la dettatura – si sosteneva – evitava errori o ambiguità che potevano essere fraintesi in materie tanto delicate come quelle teologiche. Luis de León, professore di teologia, nel 1598 illustrava le Sacre Scritture «in scriptis». Pedro de Herrera, anch’egli teologo, spiegava le teorie di Giovanni Duns Scoto con un’abbondante dettatura. Gli statuti del 1594 recepirono queste istanze: nel corso di cánones e leyes 3/4 d’ora della lezione dovevano essere tenute a «viva voce» con l’illustrazione del testo romanistico, delle fonti canoniche, della Glossa, di Bartolo, «sacando en limpio la verdadera y común doctrina»; il restante 1/4 d’ora poteva essere dato «in scriptis», con una «breve theórica en la qual resuelva qual es la verdadera y común opinión, y el principal texto». Lo stesso procedimento era adottato nelle facoltà di arti e di medicina, dove la dettatura doveva offrire «una breve resolución de la verdad y fundamento principal». Nel corso di teologia il rapporto era invertito: un 1/4 d’ora era dedicato alla «viva voce» e 3/4 alla dettatura, con la possibilità di «dar a escrivir a los oyentes» ciò che sarebbe stato spiegato[199].

Anche Sommaia studiava leggi e canoni sugli appunti presi a lezione. Lo studente fiorentino partecipava inoltre attivamente alla vita universitaria salmantina, assistendo regolarmente alle disputas e alle conclusiones pubbliche di diritto e di teologia, che costituivano uno straordinario esercizio dialettico e un modo davvero eccezionale per memorizzare o per approfondire i temi dibattuti: «Lesse il maestro Herrera di opposizione, argomentò Curiel – scriveva sul proprio diario il 27 novembre 1604 –. Lesse Curiel di ostentatione et Solórzano, et altri molti»: cioè, all’interpretazione del teologo Pedro de Herrera si oppone don Luis Cudiel y Peralta, professore di diritto, e a questi il collega Solórzano Pereira. Sommaia assisteva anche alle disputas della facoltà di arti: «Lesse d’oppositione alla cattedra di prima di grammatica – scrive il 21 ottobre 1603 – il maestro Pigna [Paulo Piña Caldeira, docente di latino], sopra un capitolo dell’Eleganze del Valla [...] arguì il maestro Bustamante [Baltasar de Bustamente, anch’egli professore di latino]». Si cimentava spesso in prove didattiche («Lessi le lettioni di baccellieri et le provrai»), si procurava le “dispense” dei corsi («Don Iuan Bodeckero mi dette molte scritture de Auxiliis della università»), assisteva all’esame di baccellierato («Udii don Francesco Ciaccone leggere de probationibus capitolo di baccelliere. Lesse famosamente»), confrontava con i colleghi i programmi dei corsi («Parlai a Monleone sopra il titolo capitolo II De Concessione prebendae Concilii Lateranensis»), si faceva prestare i testi («Mi prestò il titolo De Tutelis uno studiante criado de don Luys Cid»). Le sue letture di libri di diritto erano occasionali e spesso eterodosse (Tiraqueau, Mariana, Bodin); per il resto la sua cultura giuridica canonistica e romanistica si basava sugli «scartafacci» degli appunti delle dettature e sul manoscritto privato, talvolta acquistato da terzi («Al licenciado Velazquez per la materia de testibus in 22 fogli» e per altre scritture, «reali 96»)[200].

Il volume di Francisco Bermúdez de Pedraza (1585-1655), professore di diritto e a più riprese rettore dell’Università di Granada, Arte legal para estudiar jurisprudencia, pubblicato a Salamanca nel 1612, con le numerose considerazioni sulla didattica giuridica, non è poi così diverso nelle sue finalità pratiche da Lo scolare di Roero: il metodo indicato era infatti un bartolismo integrato da letture antiquarie, fondato su regulae iuris generali, sillogismi, induzioni, assiomi, brocardi e continui richiami alle auctoritates[201]. Bermúdez è un assertore convinto del metodo induttivo: la vera interpretazione delle leggi, sostiene, non consiste nell’assemblare le opinioni di diversi dottori, ma nel domandarsi quali siano le reali intenzioni del legislatore. Il giurista non deve essere un semplice causidico: di qui la necessità di conoscere la ragione delle leggi come fondamento della scienza giuridica: «¿Qué le aprovecherá – si domanda – saber mil leyes, si ignora su razón y causa? [...]. Con los años de Matusalén no alcançará la jurisprudencia quien la fundaré en solamente memoria de textos [...]. El que supiere solamente la decisión de una ley, sabrá decidir un caso; pero el que supiere su razón, deciderá con ella cien mil».

La scienza giuridica, inoltre, si configura nella sua molteplicità come concordante: lo studente «ha de sacar la solución y concordia de los contrarios», giacché «todos los textos por contrarios que parezcan tienen concordia». Per ottenere le concordanze bisognerà considerare il significato letterale di ogni legge: «ninguna cosa hay más util – spiega Bermúdez –, ni más delectable, que reduzir a breves reglas el sentido y alma de las leyes. Estudio que exercita mucho el ingenio, delcitándolo con su brevedad». La capacità del giurista deve consistere nell’individuare le regulae iuris e i principi generali dai casi particolari[202]. Il canonista Diego Espino forniva agli studenti dettagliati piani di studio delle materie giuridiche: bisognava studiare, a suo avviso, sei ore al giorno, due la mattina sul Digesto, due il pomeriggio sul Codice, due la sera sulle Decretali. Il Digesto andava studiato con l’apparato tradizionale delle glosse di Accursio e con l’aiuto dei commenti di Bartolo, Baldo e Paolo di Castro[203].

Ai primi del Seicento l’Università di Salamanca viveva ancora del riflesso della grande stagione cinquecentesca che aveva visto la scuola teologico-giuridica salmantina, con docenti come Vitoria, Melchor Cano, Domingo de Soto, Pedro de Sotomayor nelle materie teologiche e Diego de Covarrubias y Leyva, Martín de Azpilcueta, Antonio Gómez, Pedro de Peralta, Manuel de Acosta in quelle giuridiche, dare un contributo di estremo rilievo ai grandi dibattiti del tempo, dal diritto naturale a quello internazionale, dalla polemica sulla conquista e sull’evangelizzazione delle Indie all’elaborazione di un «diritto patrio» castigliano[204]. I trattati dei giuristi salmantini ebbero una capillare circolazione europea: delle opere civilistiche e canonistiche di Covarrubias (1512-1577) si fecero 60 edizioni nel corso del secolo. Le sue Opera omnia (Lione, 1568) ebbero 24 edizioni complete e più di 30 parziali; quelle di Azpilcueta (1492-1586), il Doctor Navarro, ben 137 edizioni, di cui 47 dell’Enchiridion sive manuale confessariorum et poenitentium (Coimbra, 1549) e 8 del Tractado de las rentas de los beneficios ecclesiasticos (Valladolid, 1566)[205].

L’editoria giuridica del Cinquecento, che – non dimentichiamo – era destinata soltanto in parte alle aule universitarie, attraversava una fase ricca di contraddizioni. Si trattava di un’attività frenetica, soggetta ad una sempre crescente domanda di un pubblico di magistrati, avvocati, burocrati, studenti e docenti universitari. Nel Parergon Alciato confessa di esser stato a lungo assillato dai tipografi per la pubblicazione dei suoi Consilia: «Più volte mi chiesero le tipografie di conceder loro i pareri che son solito dare a quanti a me ricorrono e di seguire in ciò l’esempio del Decio – racconta –. Il quale, fissato un prezzo a fogli, consegnava i pareri al tipografo, perché, dopo averli uniti insieme, li pubblicasse di lustro in lustro»[206].

Spesso erano gli studenti che raccoglievano i testi delle lezioni dei docenti per destinarli alla pubblicazione: nel 1589 gli «scolari» padovani trascrissero il corso di diritto civile di Angelo Matteazzi e lo presentarono al maestro quando il volume era già pronto per la stampa. È difficile credere, comunque, che il testo venisse preparato ad insaputa del docente. Dall’opera emerge un corso organico, razionalmente suddiviso nei vari argomenti: il metodo giustinianeo d’insegnamento del diritto; il soggetto della giurisprudenza; le parti e i titoli delle Pandette; il patto nudo; il rigor iuris, l’arbitrium e le actiones arbitrariae; la giustizia; l’usucapione e la prescrizione; l’origine del diritto e delle leggi con un elenco di giureconsulti; l’ordine e il metodo del diritto civile; la materia delle leggi; la consuetudine; la potestà del Principe rispetto delle leggi; il diritto dei veneziani sul mare Adriatico[207].

Lo sviluppo del mercato editoriale stimolò inevitabilmente un fiorente commercio del libro usato. Spesso, per far fronte ai debiti di gioco o ai loro «capricci», gli studenti impegnavano presso gli usurai «i testi civili per sei testoni, l’instituta per quattro gazette, il Porzio per una da otto, l’Aretino per un mocenigo, Bartolo – scriveva il canonico Garzoni – va a spasso per il ghetto [gli usurai erano in gran parte ebrei], Baldo passeggia sotto la loggia dei librari, e tutti i libri s’accordano di fare una rassegna per caminare alla volta di Cuccagna»[208].

L’autorevolezza di Bartolo, Baldo e degli altri commentatori in un’epoca di piena espansione del mercato librario e del “consumo” di opere di diritto produsse nei primi decenni del secolo il fenomeno delle falsificazioni editoriali. Era inevitabile che il progressivo dilatarsi della domanda portasse a vere e proprie contraffazioni di testi a fini eminentemente speculativi, fenomeno non ignoto agli stessi contemporanei: Giason del Maino indicava già una serie di opere «quae attribuuntur Bartolo, et tamen non sunt Bartoli»[209]. Risultano ad esempio apocrifi due trattatelli: il De tabellionibus, dedicato al notariato, pubblicato a Venezia nel 1491 da Goffredo da Trani (ma già quattro anni dopo considerato dubbio nell’edizione veneziana di Battista de Tortis, annotata da Bernardino da Landriano) e le Differentiae inter leges Romanorum et leges Longobardorum (in realtà opera del giurista duecentesco Andrea da Barletta) inserite nella raccolta Leges Longobardorum, curata dal giureconsulto barese Giovanni Battista Nenna ed edita a Venezia nel 1537 «da Domenico Giglio e fratelli». Nel 1541 fu pubblicato da Aurelio Pinzi, sempre a Venezia, un volume pseudobartoliano, Contrarietates iuris civilis Romanorum et iuris Longobardorum, curato dal magistrato ravennate Giulio Ferretti (morto nel 1546), che affermava di aver rinvenuto lo scritto «in antiquo libro» in cui «plures alii Bartholi tractatus descripti sunt»[210].

Nel XV secolo la produzione editoriale aveva la possibilità di un’ampia scelta del materiale da pubblicare: la «massa immensa della letteratura giuridica medievale» era a disposizione dei tipografi-editori degli incunaboli. Nelle edizioni quattrocentesche si «travasavano» anche le attribuzioni «vere e false» già presenti nella tradizione manoscritta; nel Cinquecento, invece, l’editore manipolava spesso il manoscritto originale e indicava deliberatamente nelle stampe un autore che spesso non ne era l’effettivo compilatore (è il caso di Pierre de Belleperche, scambiato con Jacques de Revigny)[211].

Domenico Maffei ha scoperto che Bonifacio Vitalini, che si credeva l’autore trecentesco dei Commentarii in Clementinas constitutiones, in realtà non è mai esistito (l’opera era una compilazione più antica) e che Iacopo di Belviso non aveva mai composto la Practica che dal 1515 circolava sotto il suo nome (l’aveva composta il giurista provenzale Jourdain Brès). Una truffa ancora più clamorosa fu la pubblicazione nel 1513 della Practica Baldi, cioè della Practica iudiciaria di Baldo degli Ubaldi, la cui fama garantiva una penetrazione capillare nel mercato: l’opera era in realtà la Compendiosa di Tancredi da Corneto[212]. L’officina delle falsificazioni era a Lione, uno dei grandi centri dell’editoria giuridica cinquecentesca, e vedeva attivamente impegnati il dottor Celse-Hugues Descousu, la cui vita era «tutta fondata sull’imbroglio», e il suo degno socio Jean Thierry[213]; alle loro spalle c’era il dotto Nicolas Boyer, non disinteressato fornitore abituale dei manoscritti: «la loro attività – ha scritto Maffei – seminò l’editoria del primo Cinquecento di molte vittime, per lo più indifese», di fatto impossibilitate a replicare perché scomparse da molto tempo[214].

Quando i falsari tentarono nel 1516 di appropriarsi della redazione delle consuetudini di Borgogna, il vero autore, Barthélemy de Chasseneuz (1480-1541), non tardò a denunciare la contraffazione[215]. L’operazione editoriale era assai astuta: assegnare ad acclarati giureconsulti, come Baldo o Belvisi, famosi per lo più per i loro trattati teorici, opere eminentemente pratiche, come quelle processual-penalistiche dello pseudo-Baldo e dello pseudo-Vitalini. La falsificazione prendeva le mosse dalle quaestiones provenienti non di rado dalle dispute universitarie e da quelle summae quaestionum che, a fini scolastici, cucivano insieme frammenti di testi di autori diversi[216]. Si inserisce in questo contesto anche il falso consilium di Bartolo, Mulier striga, contraffatto probabilmente dal giurista novarese Giovanni Battista Piotti (morto nel 1576), sia per magnificare la nobiltà della propria famiglia, sia per portare acqua al mulino dello zelo inquisitorio del tempo che, in contrasto con i prudenti pareri in tema di stregoneria di alcuni giureconsulti, e in particolare di Alciato, aveva tutto l’interesse ad accentuare una forma di severo controllo religioso su ogni ambito della “devianza”[217].

Lo stesso Alciato fu vittima di una truffa editoriale: nel 1536 venne stampato a Colonia da Melchior Neuss l’apocrifo Iudiciarii processus compendium; l’anno seguente furono pubblicate a Lione, ad insaputa dell’autore, alcune lezioni universitarie come commentario della rubrica del Digesto «Si certum petatur»[218]. Il nipote del grande Andrea, Francesco Alciati, erede e successore dello zio nella cattedra pavese, pensò bene di sfruttare la fortuna editoriale dell’illustre parente, favorendo nel 1554 la pubblicazione a Lione, nella tipografia di Sébastien Griphe, del Parergon, opera di grande successo (ristampato altre due volte nel medesimo anno), e nel 1561, sempre a Lione, presso Pierre Fradin, dei Responsa, da lui riordinati in nove libri, anch’essi molte volte ristampati[219].

 

 

7. – Censura e testi giuridici

 

L’imponente crescita della produzione editoriale cinquecentesca e la nuova, ampia circolazione del libro negli anni della Riforma con la diffusione di idee eterodosse o ereticali avevano allarmato le gerarchie ecclesiastiche che dovettero constatare la difficoltà della Chiesa romana di arginare efficacemente «questa peste»: Roberto Bellarmino si era augurato che almeno per qualche tempo la stampa cessasse del tutto[220]. La chiesa postridentina aveva dovuto imparare a difendersi dai libri e a combatterli, facendo «dell’inaccessibilità del suo sapere per la massa dei credenti» un «obiettivo fondamentale della propria strategia magistrale», escludendo di fatto i laici dalle questioni religiose attraverso l’uso esclusivo del latino e i «condizionamenti della censura preventiva»[221]. L’obiettivo era infatti quello di erigere barriere difensive contro le opere degli avversari, specie dei protestanti, stabilendo una sorveglianza centralizzata della produzione editoriale. Le imposizioni censorie diedero un colpo durissimo, per esempio, alla fiorente industria veneziana del libro, che con i suoi 493 fra tipografi, editori, librai stampava il 30-40% dei libri pubblicati in Italia e aveva ormai acquisito un ruolo di leader nel mercato editoriale europeo: dal 1542 al 1550 i periodici roghi di libri proibiti, in piazza San Marco e a Rialto (soltanto in quello del 1559 vennero bruciati dai 10 ai 12.000 volumi), proiettarono una luce sinistra su un’attività che aveva raggiunto livelli d’avanguardia e costituiva una fonte di ricchezza per l’economia della Repubblica. La grande stagione della stampa veneziana era ormai prossima alla fine[222].

Il mondo universitario fu il primo a trovarsi al centro delle attenzioni censorie: tesi erronee o teorie eterodosse venivano spesso enunciate non soltanto nella facoltà di Teologia, dove spesso filtravano le idee della Riforma, ma anche in quelle di diritto, dove talvolta si  contestavano le prerogative pontificie, in quelle di filosofia ed arti, dove iniziava a circolare la cosmologia copernicana e si attenuava la presa dell’aristotelismo, perfino in quelle di medicina, dove venivano guardatE con sospetto la rivoluzione anatomica vesaliana e le prime ricerche sulla circolazione sanguigna. D’altra parte erano state le stesse università – non a caso il primo Index librorum prohibitorum (1544) era stato elaborato dalla facoltà teologica della Sorbona di Parigi, cui fece seguito quello di Lovanio (1546) – a farsi sostenitrici dell’ortodossia cattolica, ad attuare una rigida vigilanza e a promuovere la persecuzione censoria nei confronti delle idee e dei libri[223]. L’università era stata tradizionalmente il luogo della libera circolazione dei docenti e degli studenti, delle idee e dei libri: ora questo non sarebbe più stato possibile che in minima parte, con il conseguente effetto della “regionalizzazione” o, peggio, della “localizzazione” degli Studi.

Il mondo universitario diventava così «un luogo dove i libri vivevano una vita grama e stentata, sempre insidiata da sguardi malevoli – ha scritto Adriano Prosperi –. Bastava che l’occhio di un passante si posasse sulla scansia di una stanza di un professore e cogliesse al volo un titolo sospetto perché l’inquisitore ne fosse avvertito»[224]. E il clima di sospetto finì per coinvolgere anche chi professava le idee dei libri: per coloro che non si piegavano all’ortodossia dominante non restava altra scelta che il silenzio o la via dell’esilio. I giuristi francesi di fede ugonotta, François Hotman, Hugues Doneau, Denis Godefroy, dopo la notte di San Bartolomeo del 1572 – nel corso della quale venne assassinato a Tolosa Jean de Coras, magistrato ed ex-professore di Digesto –, furono costretti a rifugiarsi a Ginevra e nelle città tedesche; Alberico Gentili dovette abbandonare l’Università di Perugia col giovane fratello Scipione (che sarebbe diventato allievo di Doneau e professore di diritto ad Altdorf) e rifugiarsi a Lubiana, a Tubinga e ad Heidelberg[225]; Giulio Pace per la sua fede calvinista lasciò Padova nel 1576 per trasferirsi a Ginevra[226]. E gli esempi potrebbero continuare.

Un caso emblematico è quello di Matteo Gribaldi Moffa, una delle “glorie” della facoltà di Giurisprudenza di Padova. Il fatto che l’illustre professore, di cui si sospettava l’adesione alla Riforma, non andasse a messa non passò inosservato. Qualcuno lo fece notare agli inquisitori che poterono contare sulla collaborazione di un «caro collega», il novarese Tornielli, invidioso per l’alto numero di studenti che frequentavano le lezioni di Gribaldi. Le autorità venete erano consapevoli che con l’allontanamento di Gribaldi avrebbero perso un illustre giurista, un importante punto di riferimento didattico invidiato da altre università. Gli offrirono «summos honores» per farlo assistere a una messa: Gribaldi preferì non tradire le proprie convinzioni religiose, e nell’aprile del 1555 lasciò Padova per andare a insegnare a Tubinga[227]. La repressione inquisitoriale nelle facoltà di diritto, forse per il carattere tendenzialmente “asettico” dei programmi di studio romanistici e canonistici, fu comunque molto più blanda di quella che colpì i corsi teologici e di humanitates, le facoltà di arti e filosofia e la stessa medicina.

Nel 1542 venne istituita la Congregazione del Sant’Uffizio dell’In­quisizione e nel 1559 (in realtà il 30 dicembre 1558), dopo una lunga e travagliata gestazione decennale, fu emanato da Paolo IV il primo “indice romano” dei libri proibiti, che condannava la lettura dei testi della Riforma e gli scritti di Lutero, Melantone, Zwingli, Calvino, Agrippa von Nettesheim, Valdés, Vergerio, Münster, Savonarola, Hus, delle Centuriae di Magdeburgo, del Beneficio di Cristo, delle Bibbie volgarizzate, ma anche delle opere eterodosse di Erasmo, Machiavelli, Aretino, Poggiolini, Boccaccio, Berni, Doni, Pulci, Della Casa, Rabelais e di tanti altri. Si trattava del primo Indice della Chiesa Universale, cioè valido per tutti i fedeli cattolici: in tutto le proibizioni erano 1.107; in appendice comparivano due liste particolari quella delle Bibbie e dei Nuovi Testamenti proibiti, in genere traduzioni in volgare (43 edizioni), e quella dei tipografi e degli editori (61 nomi in tutta Europa) compromessi con la pubblicazione e la diffusione dei testi della Riforma. Condannava inoltre i libri che non recassero nel frontespizio il nome dell’autore o dello stampatore, quelli editi senza il permesso delle autorità religiose, quelli pubblicati da tipografi eretici e infine quelli di magia e astrologia. In realtà l’Indice era uno strumento sostanzialmente inutilizzabile, che nella sua logica centralistica non aveva tenuto nel debito conto le differenti situazioni periferiche e l’attività specifica della facoltà teologica della Sorbona, di quella di Lovanio e dell’Inquisizione spagnola. Tutte le opere che potevano suscitare inquietudini intellettuali venivano condannate: Machiavelli per l’anticurialismo e il latente ateismo, il Decameron perché immorale, Gargantua perché osceno, i sonetti del Petrarca perché troppo «carnali», Erasmo per le idee eterodosse e per la satira del clero, e via dicendo. A partire dal 1559, ha osservato a questo proposito Prosperi, «la storia della lettura in Italia e in Spagna lascia le librerie per entrare nel confessionale»[228]. Nel 1564 venne promulgato il cosiddetto Indice Tridentino che, pur riconfermando le proibizioni, mitigava l’intransi­genza del provvedimento precedente delegando ai singoli vescovi, che avrebbero valutato le specificità locali, il controllo sulla produzione editoriale[229].

Il primo Index librorum prohibitorum apparso in Italia era stato pubblicato a Venezia nel 1549 ad opera del nunzio pontificio Giovanni Della Casa con la collaborazione dell’inquisitore locale e dei Savi all’Eresia – magistratura secolare veneziana preposta ad affiancare e a controllare l’operato del Santo Uffizio –:comprendeva 150 interdizioni,  un terzo delle quali riguardava l’intera produzione di un autore. L’Index suscitò forti opposizioni sia da parte di stampatori e librai, che vedevano in esso una forte limitazione al commercio librario e un duro colpo per uno dei settori più fiorenti dell’economia cittadina, sia da parte del Senato, che temeva ripercussioni negative sull’Università di Padova a causa dell’alto numero di iscritti «oltremontani» proveniente dai paesi della Riforma, che avrebbero sicuramente abbandonato lo Studio patavino con gravi effetti sulla vita economica della Repubblica. L’Index venne perciò immediatamente ritirato, stessa sorte subì il nuovo Index veneziano edito nel 1554, che contava ben 600 interdetti, fatto ritirare, per le forti proteste, l’anno dopo[230].

Nei decenni successivi alla conclusione del Concilio di Trento si assiste dunque al «trionfo politico e religioso» dell’Inquisizione romana, «nucleo dell’azione e dell’identità stessa della Chiesa» della Controriforma. Insomma, il «disciplinamento postridentino fu essenzialmente volto – secondo Massimo Firpo – a imporre un’ortodossia e un’ortoprassi, a controllare credenze e comportamenti, a reprimere deviazioni e dissensi, a promuovere devozione e conformismo». Il «primato dell’obbedienza alla norma teologica e all’autorità ecclesiastica», accantonati i propositi di riforma istituzionale e religiosa della Chiesa, si concentrò soprattutto «nella lotta contro l’eresia, allargandone via via l’ambito al sapere filosofico e scientifico, alla pericolosa creatività e alla spregiudicata fantasia di artisti e letterati»[231].

È stato osservato che la generazione di intellettuali nati all’inizio del secolo, in un clima di relativa libertà, avvertì le proibizioni dell’Indice come qualcosa di contingente e transitorio, faticando non poco ad accettarne i divieti, nei cui confornti mostrò un atteggiamento sostanzialmente distaccato. All’opposto le generazioni nate dopo il Concilio Tridentino interiorizzarono le disposizioni dell’Indice al punto da sentirne la trasgressione come un peccato[232].

Professori e studenti universitari mal sopportavano, ad esempio, di doversi privare dei loro libri o vederli danneggiati da censure ed espurgazioni. La barriera che la Congregazione dell’Indice intendeva innalzare contro la diffusione delle infezioni ereticali passava in mezzo ai propri scaffali e alle proprie collezioni librarie. Spesso si dovevano sottoporre agli inquisitori i catologhi dele bibioteche private, sottolineando i libri eterodossi: così, ad esempio, nel 1585 (probabilmene dopo la pubblicazione dell’Indice spagnolo del 1584) il giurista ed ecclesiastico sardo Fara consegnava all’Inquisi­zione il catalogo manoscritto della propria biblioteca, precisando che il nome di Erasmo ne era stato despunctum e aggiungendo un significativo ojo (occhio, attenzione) per la sezione dei Tractatus contra haereses et practica Sanctissimae Inquisitionis[233]. Gli effetti di questo stato d’animo sulla vita universitaria, sulla ricerca scientifica, sulla produzione intellettuale sono facilmente intuibili: l’attività degli autori e degli editori ne fu negativamente condizionata, con forme di autocensura e di supina accettazione delle regole imposte.

L’attenzione censoria si indirizzava soprattutto alle opere teologiche, a quelle filosofiche e scientifiche: ma anche le più asettiche materie giuridiche non sfuggivano al rigido controllo dell’Indice, che aveva proibito quegli autori che avevano teorizzato la liceità del prestito ad interesse o giustificato il ricorso al duello e quei testi che avevano posto in discussione i fondamenti del potere temporale dei papi – come la De falso credita et ementita Constantini donatione dissertatio di Lorenzo Valla – o ridimensionavano le prerogative ecclesiastiche, come appunto Marsilio da Padova con il suo Defensor pacis, Enea Silvio Piccolomini (e poi papa Pio II) per i De Gestis Concilii Basiliensis Commentarium, Niccolò Tedeschi (abbas Panormitanus) per il De concilio Basileensi, il De Monarchia di Dante Alighieri con il commento di Andrea Alciato (edito a Basilea nel 1559), Jean de Montholan per la Collaboratio divinorum et papalium canonum (edita a Parigi da Henri Estienne nel 1520), i Consilia e le Opera omnia di Hieronymus Schurff, il commentario De legibus ecclesiasticis atque civilibus dell’imperatore Costantino di Fran­çois Baudoin (Balduinus), pubblicato a Basilea nel 1556, la Practica nova iudicialis del pavese Giovanni Pietro Ferrari (da espurgare nei giudizi anticlericali), persino il trattato De Schismate del cardinale Francesco Zabarella, che doveva essere censurato in alcune parti. Vi era poi la schiera dei giuristi che avevano aderito alla Riforma, fra cui primeggiava Ulrich Zäsi (Zasius)[234]. Le proteste degli ambienti universitari portarono a qualche attenuazione dei divieti. Nel luglio del 1559 il Collegio dei giuristi dell’Università di Pisa, professando la propria ortodossia religiosa, domandava di poter utilizzare quegli autori proibiti, le cui opere erano di uso corrente: «quantunque esse opere in sé non contenessero cosa contro la religione – scrivevano –. Ne torna non piccol danno non solo per perdere quanto si è speso nelle opere spartate di tali autori, ma perché ne’ volumi de’ trattati, et delle repetitioni che sono di grossa spesa vi sono inserte molte cose del Zasio o d’altri che a torle bisogna vituperar tutti quei volumi»[235]. Nell’Instructio circa indicem del febbraio 1559 il supremo inquisitore, cardinal Michele Ghislieri, permetteva ai docenti di diritto di tenere i testi di Zasio e di Du Moulin, opere di uso assai diffuso nelle università, ai medici di poter consultare i testi botanici di Fuchs, agli umanisti di servirsi del Thesaurus linguae latinae di Robert Estienne: si trattava di una prima moderatio dei furori censori che intendeva venire incontro alle esigenze degli ambienti universitari[236]-

Il Concilio di Trento, conclusosi nel 1564, pur confermando gli antichi privilegi delle università, impose un rigido controllo sull’insegnamento rendendo obbligatoria per i docenti e gli studenti la professione di fede (solo l’Università di Padova per l’alto numero di studenti tedeschi che si iscrivevano ai suoi corsi riuscì a sottrarsi a quest’obbligo), attuando un’occhiuta sorveglianza sulle tipografie e sul commercio librario, proibendo la pubblicazione anonima di opere teologiche, decidendo la fondazione di seminari per la formazione del clero, imprimendo nuovo impulso agli studi teologici e filosofici e quindi, indirettamente, alle stesse istituzioni universitarie[237].

Nel 1571, considerando che le autorità locali si erano dimostrate lente e inefficaci nella prevenzione e nella circolazione delle opere proibite, Pio V diede vita ad una nuova Congregazione dell’Indice incaricata del controllo dell’ortodossia dei testi destinati alla stampa. Nello stesso anno venne pubblicato ad Anversa il primo Index expurgatorius che comprendeva 210 opere di 102 autori, divise in sei sezioni: teologia, diritto, medicina, filosofia, matematica e umanità (per ognuno dei titoli venivano elencati i passi da cancellare). Nel 1584 venne edito in Spagna un Index librorum expurgatorum, voluto dall’Inquisitore generale Gaspar Quiroga, che comprendeva 146 opere di 80 autori[238].

A Roma intanto si progettava la pubblicazione di un nuovo catalogo dei libri proibiti: i lavori incominciati nella primavera del 1584 si interruppero per la morte di Gregorio XIII. Ripresi nel 1587 si conclusero con la redazione di un Indice stampato ma mai pubblicato ufficialmente. Un altro testo, del 1593, di cui ci restano almeno due versioni a stampa, non ricevette l’autorizzazione pontificia anche per le reazioni negative da parte di numerosi ecclesiastici, intellettuali, librai e la ferma opposizione politica della Repubblica di Venezia[239].

In effetti l’Index del 1593 operava un duro giro di vite nei confronti della cultura italiana del tempo. Venivano sottoposte a censura molte delle più importanti opere letterarie del XVI secolo: dalle Satire di Ariosto al Libro del cortegiano di Baldassar Castiglione, dalle Rime di Veronica Franco ai Madrigali di Alessandro Striggio, dalle Novelle del Firenzuola agli scritti dell’Aretino, di Guicciardini, di Francesco Berni, di Francesco Sansovino, di Alessandro Piccolomini, ed altri. Anche i testi scientifici non passavano inosservati: erano infatti censurati i Libri tres chirurgiae e le Opera omnia di Theophrastus Paracelsus (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim), Commentarii in sex libros De causis plantarum Theophrasti di Giulio Cesare Scaligero, la Magia naturalis di Giovanbattista Della Porta, i Capricci medicinali di Leonardo Fioravanti, la Brevis cometarum explicatio di Benedictus Aretius (Marty). Un accanimento particolare era riservato alle commedie (Calisto y Malibrea, Palau, Naharro Torres, Cardoini, Gelli, etc.) e al Gargantua di Rabelais. Fra le opere teologiche di ambito cattolico spiccano le Relectiones theologicae di Francisco de Vitoria. Fra la trattatistica giuridico-politica, oltre Machiavelli e Du Moulin, vediamo sottoposte a censura le opere di Bodin e i Politicorum sive Civilis doctrinae libri sex di Giusto Lipsio[240].

Nella primavera del 1596 il papa emanava il cosiddetto Indice clementino, «culmine del tentativo romano di disciplinamento delle coscienze attraverso la proiezione del libro»[241], che esercitava un controllo capillare non solo su tutta la produzione editoriale ma anche su tutto il patrimonio librario esistente. Esso si presentava come un «supplemento» a quello del 1564 ed «oscillava a fatica fra inflessibilità e moderazione»[242]. Riprendeva in pieno il catalogo pubblicato trentadue anni prima e inseriva numerosi titoli che si trovavano già negli Indici non pubblicati del 1590 e del 1593: in tutto 1.143 condanne per 682 autori, delle cui opere veniva vietata la lettura integrale. Alle regole dell’Indice tridentino Clemente VIII aggiunse precise direttive che dovevano essere seguite nella proibizione, la correzione e la pubblicazione dei libri: primato dell’Index romano e della censura esercitata dalla Congregazione dell’Indice; riconoscimento del diritto di potestà censoria per le autorità religiose nazionali e diocesane; diritto dei vescovi, degli inquisitori e delle università di concedere l’autorizzazione a leggere e a possedere opere proibite; procedure cui avrebbero dovuto sottoporsi gli autori per l’approvazione di un’opera e per la concessione dell’imprimatur; controllo dell’esercizio del mestiere di stampatore, editore, libraio e lavoratore di tipografia.

L’istruzione clementina (de correctione librorum) fissava anche i criteri per l’espurgazione dei testi, nella convinzione che alcune opere – come, ad esempio, gli scritti giuridici di Zasio o gli Adagia e i Colloquia di Erasmo, adottati come libro di testo nelle classi di retorica di mezz’Europa – potessero essere utilizzati anche nel mondo cattolico espungendo, in modo più o meno radicale, i brani controversi e le affermazioni eterodosse. Nell’Instructio si parlava anche di eventuali “aggiunte” e “spiegazioni” ai testi da espungere, indicati con la formula «donec corrigantur» o «donec expurgantur»: si prefigurava in sostanza un sistema più che di cancellazioni di sostanziali interventi correttivi. Ovviamente la correzione riguardava sia il testo che il paratesto. Talvolta lo zelo espurgatorio sfociava nel grottesco. Il frate Gerolamo Malipiero si impegnò in una riscrittura del Canzoniere del Petrarca, ricavandone un Petrarcha spirituale, che tra il 1536 e il 1587 ebbe ben 8 edizioni: il termine «donna» vi veniva trasformato in un meno carnale «Madonna». Certo, il Canzoniere non sarebbe mai finito all’Indice, tranne che per tre sonetti antiavignonesi, considerati perciò antipapali: bastava cancellarli o, al limite, bastava strappare le pagine corrispondenti dalle diverse edizioni in commercio. Il Decamerone per il suo tono scanzonato, per le ricorrenti allusioni sessuali, per la satira nei confronti di suore e badesse, di frati e di abati, sconci e dissoluti, arrivò ripetutamente nel laboratorio dei censori, corretto prima da Ludovico Dolce (1541) e da Girolamo Ruscelli (1552), successivamente «riassettato» dal benedettino Vincenzo Borghini (1573) e pesantemente stravolto e manipolato da Leonardo Salvati (1582)[243]. Con l’edizione espurgata del 1584 anche il Cortegiano di Castiglione subì un pesante rifacimento[244].

Spesso erano gli stessi librai o gli editori, che per paura di veder sequestrate le opere, curavano essi stessi l’espurgazione dei brani sospetti, cancellandoli con l’inchiostro, incollandovi sopra nuove, corrette versioni a stampa, rivestendo, con braghe e bikini, le incisioni dei personaggi mitologici ignudi[245]. L’espurgazione si rendeva talvolta necessaria per far circolare volumi che altrimenti sarebbero stati condannati all’oblio: i nipoti di Machiavelli, e in particolare Niccolò di Bernardo, canonico fiorentino, tentarono in tutti i modi di far pubblicare un’edizione espurgata degli scritti del loro antenato (per il Principe era peraltro disponibile una traduzione latina dissimulata, De regnandi peritia (Napoli, 1523), di Agostino Nifo)[246]. Come osservava nel 1615 Paolo Sarpi, qualsiasi modifica apportata al pensiero di un autore era più grave della sua completa proibizione: «li scritti [...] sono stati con aggiunte, detrazioni ed altre alterazioni mutati in sensi contrari alla sententia dell’autore; e chi ha conservato delle stampe vecchie e le confronta con quelle moderne, vede che li libri adesso parlano in contrario di quello che gli autori scrissero»[247].

Ma un vero e proprio Indice espurgatorio, cioè interamente dedicato alle sole opere da correggere con l’indicazione dei passaggi da cancellare o modificare, tardava ad essere pubblicato, anche per le oggettive difficoltà della sua elaborazione. Nel 1607 veniva pubblicato a Roma il primo ed unico volume di un Indicis librorum espurgandorum in studiosorum gratiam confecti tomus primus, curato dal domenicano Giovanni Maria Guanzelli, che esaminava solo 53 opere di 50 autori[248].

Rispetto ai precedenti, l’Index del 1596 evita di censurare i testi letterari contemporanei (ad eccezione degli osceni Priapea di Nicolò Franco) e riduce notevolmente il numero delle opere di carattere scientifico che sottopone a revisione: condannate fra queste tutte le opere di Gerolamo Cardano, il De natura rerum di Bernardino Telesio, la Chronologia di Gerhard Kremer (Mercator), il De sanitate tuenda di Johannes Katzsch, il De incantationibus di Pietro Pomponazzi, il De inventoribus rerum libri tres di Polidoro Vergilio (Vergilius), i Commentarii a Galeno e a Ippocrate del medico tedesco Janus Cornarius (Johann Hagenbut), il Sommario di tutte le scientie di Domenico Delfino, le Opera omnia di Leonhard Fuchs, le Opera omnia di Konrad Gesner, il Theatrum vitae humanae e le Opera omnia di Theodor Zwinger e quelle (compresi gli studi botanici) di Otto Brunfels. Si trattava di un grave danno per il mondo universitario, giacché dalla Germania provenivano le opere più aggiornate, bloccate dai censori che, a prescindere dal contenuto, spesso non valutato, si insospettivano per il solo luogo di stampa.

Nutrita la schiera dei giuristi (oltre, naturalmente, la riconferma della condanna di Machiavelli e, in particolare, dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e degli scritti di Marsilio da Padova) con il De libertate ecclesiae Gallicanae e il De sacris ecclesiae ministeriis di François Duaren, le Opera omnia di Johannes Thomas Freige, le Opera omnia e il Brutum fulmen di François Hotman, la Dialectica legalis di Christoph Hegendorff, la Universa sacerdotiorum materiam paraphrasis (da espungere) di Jean de Coras, la Sphaera civitatis (da espungere) di John Case, la Iustitia Britannica di William Cecil barone di Burghley, la Iuris utriusque traditio methodica di Conradus Lagus (Haas), la dura critica al meccanismo inquisitoriale spagnolo, Sanctae inquisitionis hispanicae artes di Raimundo Gonzáles de Montes (Gonsalvius Montanus). L’Indice del 1596 condanna la Apologetica defensio contra Ioannem Eckium e le Opera omnia (da espungere) di Zasio. Sono inoltre proibiti, perché di area protestante, i Commentarii in quatuor libros Institutionum Iustiniani di Schneidewein, le Opera omnia e i Paratitla in Pandectarum iuris civilis di Wesenbeck, le opere di Johannes Oldendorp, dalle Actionum forensium progymnasmata alla Collatio iuris civilis et canonici, testi assai diffusi nelle aule universitarie anche dei paesi cattolici[249].

Le università non ebbero possibilità di opporsi agli Indici papali. D’altra parte non era facile far capire a un professore di diritto che non poteva leggere Zasio, Mynsinger, Wesenbeck, o a un medico che non poteva consultare Gesner, Fuchs o Paracelso solo perché si trattava di autori appartenenti all’area protestante. Si cercarono pertanto, sia a livello corporativo che individuale, forme di compromesso, concessioni speciali, dispense. A Bologna il gesuita Francesco Palmio intercedeva a favore di Ulisse Aldovrandi che chiedeva per la «sua profession» di poter tenere una lista di libri proibiti: si trattava – spiegava – di un «publico professore di philosofia» che «con le sue lettioni dà molte utilità a questa università»[250].

Un altro illustre medico, Girolamo Mercuriale, professore a Padova, nel 1595 si rivolgeva al cardinal Santoro per domandare un trattamento di favore in fatto di libri: «Io mi ritrovo – scriveva – una libreria assai copiosa, dove sono molti libri, di medicina, di philosofia et humanità, et anco di theologia»[251]. Per Mercuriale la consultazione delle opere pubblicate nei paesi protestanti era stata un vero e proprio calvario, testimonianza emblematica di come le proibizioni censorie impedissero la circolazione delle idee e il progresso delle scienze. Il 1° novembre 1572, il medico e libraio veneziano Girolamo Donzellini scriveva a Theodor Zwinger famoso naturalista di Basilea, spiegandogli che Mercuriale desiderava ricevere la seconda edizione del Theatrum vitae humanae, stampata da Froben l’anno precedente, indispensabile per i suoi studi di medicina. Nel 1574 il cardinale Guglielmo Sirleto comunicava al professore padovano la proibizione inquisitoriale di leggere o consultare libri proibiti provenienti d’Oltralpe. Ma, tramite le relazioni commerciali che univano Venezia al mondo tedesco, Mercuriale poté, grazie al contrabbando librario e a dispetto delle imposizioni censorie, entrare in possesso di una copia del Theatrum e stabilire proficui contatti con Zwinger e con l’ambiente scientifico basilense[252]. Spesso i divieti venivano aggirati: a Venezia non era difficile, durante le perquisizioni inquisitoriali, scovare  fra gli scaffali dei librai le opere giuridiche di Du Moulin o di Hegendorff, gli Adagia e gli altri testi di Erasmo[253]. Ma alla lunga, come ha osservato Prosperi, nonostante le attenuazioni e le dispense «furono proprio gli argomenti dell’Inquisizione a prevalere» e nel mondo universitario «l’intolleranza ebbe la meglio»[254].

Un discorso a parte meritano Charles Du Moulin (Molinaeus) e Jean Bodin, vere bestie nere del furore censorio, due autori che comparvero ripetutamente insieme negli Indici romani (1590, 1593, 1596), con una frequenza inferiore soltanto a quelle del tanto detestato Machiavelli[255]. Le opere di Du Moulin circolavano ampiamente nelle università: nel 1566 Gabriele Paleotti, canonista e cardinale, vescovo di Bologna, osserva che nella città «essendo terra di studio, ci serano infiniti che l’additioni del Molineo in iure [...] et simile sorte de’ libri che hanno li scolari»[256]. Nello stesso anno, durante un trasferimento di studenti dall’Università di Pisa a quella di Bologna, vennero perquisiti i bagagli: vi furono trovati e sequestrati libri giuridici, tra cui «testi canonici con l’additioni del Molineo», segno del favore che i suoi trattati canonistici incontravano a vari livelli nel mondo universitario[257].

La biografia di Du Moulin è ricca di vicissitudini dovute al suo egocentrismo e al suo spirito polemico e talvolta aggressivo. Dopo lunghi anni dedicati all’avvocatura e allo studio, a 53 anni decise di dedicarsi all’insegnamento: fu professore nelle università di Tubinga, Strasburgo, Dôle, Besançon, Parigi ed Orléans. Nel 1542 aderì al calvinismo, ma dopo alcuni anni, si allontanò dal protestantesimo (restando però sempre antipapale) per riabbracciare in punto di morte la fede cattolica, seppur in un’ottica erasmiana. Il suo motto, «ego qui nemini cedo, ne a nemini doceri possum», esprime assai bene la spregiudicatezza del suo pensiero e l’acume delle sue critiche, spesso durissime, al sistema della giurisprudenza del tempo[258]. Le Additiones e i trattati dell’«empio» Molinaeus furono sempre presenti negli Indici (a partire da quello inquisitoriale del 1557, ripreso in quello del 1559 e in quelli successivi): l’autore fu collocato nella prima classe, cioè tra gli scrittori di cui venivano condannate tutte le opere, anche quelle future[259]. Il motivo della censura era dovuto soprattutto alla sua ostilità nei confronti della Chiesa romana che emerge in modo particolarmente esplicito nelle Annotationes seu additiones in Corpus iuris canonici... Decretum divi Gratiani (Lione, 1554), un’edizione importante con un vasto apparato di note, l’indicazione delle false Decretali e la numerazione dei canoni, ad eccezione delle paleae. Si trattava di un’opera destinata all’insegnamento canonistico, che rivelava la cultura umanistica del giurista francese e, nel contempo, il suo attaccamento alla tradizione, inficiata però da quei passi ritenuti ingiuriosi nei confronti del Papato, accusato a più riprese di aver alterato i testi della Chiesa primitiva. Anche il Commentarius ad edictum Henrici II, contra parvas datas et abusus curiae Romanae (Lione, 1552), tradotto in francese nel 1554, tendeva a fissare dal punto di vista di un convinto gallicanista i confini tra potere temporale e potere ecclesiastico, con la rivendicazione in chiave patriottica dei diritti della monarchia di Francia[260].

L’opera più celebre di Du Moulin sono senza dubbio i Commentaria alle consuetudini parigine (Parigi, 1539), in cui l’autore, grazie alla sua formazione bartolista che lo portava a considerare il diritto romano sotto un’angolazione essenzialmente pratica, valorizzava gli elementi giuridici patri nella prospettiva di una raccolta unitaria ed uniforme del droit coutumier[261]. La sua celebre Oratio de concordia et consonantia consuetudinum Franciae (Parigi, 1555) disegnava il progetto di una “codificazione” delle consuetudini francesi. Du Moulin aveva però anche una profonda conoscenza della tradizione romanistica, come è confermato da alcuni trattati civilistici di grande attualità per esempio (quello sul commercio e le usure) e dell’Extricatio labyrinthi dividui et individui (Lione, 1562), sulla divisibilità e indivisibilità delle obbligazioni, considerato da alcuni come il suo capolavoro[262].

Le opere dei trattatisti italiani (Decio, Tartagni, Dino del Mugello) erano assai richieste per l’insegnamento e la pratica forense ma, anche per l’ampia diffusione dell’editoria lionese, non si trovavano in commercio che le edizioni con le additiones e le annotationes – come affermavano le autorità inquisitoriali – «maledicti Caroli Molinaei», per cui i giuristi erano costretti ad utilizzare loro malgrado questi volumi, nonostante il divieto censorio[263]. Lo stesso valeva per l’accurata edizione del Decretum di Graziano e delle Decretales. Come ha osservato Rodolfo Savelli, il caso di Du Moulin assume connotati esemplari nella storia della politica censoria, «sia perché lo sforzo di ripulire testi da lui editi e glossati portò in effetti a risultati concreti, sia perché il giudizio sulle sue opere fu sempre oscillante tra una condanna recisa e una benevola (e curiosa) tolleranza»[264]. Dal 1562 in poi iniziò la sistematica opera di occultamento del nome del giurista parigino e la sua sostituzione con quello dei curatori (Giovanni Battista Ziletti o Nicola Antonio Gravazio), di cancellazione dei frontespizi dei suoi trattati, di ripulitura dei testi e di espurgazione delle glosse[265]. Emblematico è a questo proposito il caso del giurista marchigiano Gaspare Cavallini (1530 circa-1589) che dal 1574 al 1576 fece stampare a Venezia tre trattati di Du Moulin, quello sulle usure, quello de evictionibus e il geniale dividui et individui: il nome del francese veniva sostituito con il suo, dando adito ad un’interminabile querelle sull’attribuzione delle opere. Non sono del tutto chiare le ragioni del plagio, forse favorito dagli ambienti curiali e in particolare dal cardinal Paleotti, perché la nuova “identità” permetteva comunque una circolazione italiana degli innovativi trattati del grande giurista francese[266].

In quegli anni la Congregazione dell’Indice calava i suoi divieti e la sua attività censoria su tutte le manifestazioni della vita culturale. Travalicando il terreno squisitamente religioso, la Controriforma tridentina colpiva la filosofia, la medicina, le scienze e, in misura minore, anche il diritto. Così nelle facoltà giuridiche del mondo cattolico si affermarono progressivamente il conformismo e il richiamo alla tradizione, col conseguente decadimento, tipico del XVII secolo, della qualità dell’insegnamento e della ricerca[267].

Nel 1593 veniva pubblicata a Roma la Bibliotheca selecta del gesuita mantovano Antonio Possevino (1533-1611), studioso, diplomatico, rettore di importanti collegi: un testo che, con le sue ampie trattazioni tematiche, tracciava in qualche misura le direttive “ideologiche” del nuovo Index romano del 1596[268]. L’opera, una «straordinaria summa della cultura controriformistica»[269], nacque in una sorta di confronto/scontro con la Bibliotheca universalis (1545) dello scienziato luterano tedesco Conrad Gesner (1516-1565). L’estrema e pericolosa libertà di scelta individuale propugnata da Gesner spinge Possevino a comporre, in opposizione a quella Bibliotheca universalis, una Biblioteca selecta, cioè un’opera dichiaratamente selettiva, un ben organizzato e «chiuso recinto culturale»[270], un catalogo immodificabile per l’ortodossia cattolica militante. La genesi di questo imponente lavoro ha una lunga gestazione: l’idea di mettere a punto una grande sintesi bibliografica aveva preso corpo già dal 1574 quando, lavorando a Roma come segretario del generale della Compagnia Everardo Mercuriano, Possevino aveva fondato la biblioteca e l’archivio della Curia generalizia; a Padova negli anni ottanta, quando era professore nel collegio gesuitico, dove era stato «relegato» sia per il parziale insuccesso delle sue missioni diplomatiche sia per la sua indole «caratteriale ed energica», non sempre sopportata dai vertici della Compagnia[271], nel riorganizzare la biblioteca aveva avuto l’occasione di sfogliare – come racconta il gesuita francese Jean Dorigny – l’opera di «un certo Gesnerus», provando un vivo «dolore» nel vedere che in essa venivano indicati un’«infinità di volumi perniciosi» per la fede e per la morale. Nel 1550 era apparsa La Libraria del fiorentino «dottore in libris» Anton Francesco Doni: volendo «dare cognizione di tutti i libri stampati volgari», l’opera, che si differenziava nettamente per la soggettività delle scelte dal metodo classificatorio e sistematico dell’opera gesneriana, era incappata nelle censure inquisitoriali[272]. Comprendendo appieno l’importanza della Bibliotheca universalis e di sicuro apprezzandone il metodo, Possevino pensò in principio ad una risposta della Compagnia, lavoro collettaneo di padri gesuiti esperti nelle singole discipline – come ricorda nella dedica al papa Clemente VIII –: interpellò, fra gli altri, Francesco Turriano (Francisco Torres) per la patristica e Cristopher Clavius per la matematica[273]. Ma il progetto fallì e Possevino si dedicò da solo a questo immane lavoro. La Bibliotheca selecta, una volta ultimata, venne analizzata nelle singole sezioni da specialisti della materia e il testo ulteriormente ritoccato sulla base dei pareri formulati per iscritto dagli esperti[274]. Dopo la revisione teologica finale, attuata da un collegio di nove esaminatori, l’opera venne infine approvata e nel 1593 i due grossi tomi furono stampati nella tipografia vaticana, diventando di fatto, come ha osservato Romeo De Maio, il «modello pressoché ufficiale della cultura della Controriforma»[275].

I due grossi tomi della Bibliotheca selecta affrontano gli argomenti più disparati[276]: in principio, come avverte l’autore, egli aveva intenzione di intitolare la sua opera Bibliotheca Principum ac Nobilium proprio per segnalare che vi si indicavano gli ambiti culturali formativi nei vari campi del sapere alle élites dirigenti e ai futuri governanti[277]. Il primo libro è strettamente legato a questo progetto: non a caso sarebbe stato ripubblicato cinque anni dopo in traduzione italiana col significativo titolo di Cultura degl’In­gegni. In esso Possevino espone un ambizioso programma che prevedeva l’educazione della nobiltà nei collegi della Compagnia, la promozione della conoscenza della dottrina cristiana presso i ceti subalterni attraverso le scuole primarie, la necessità di contrastare con la propaganda il flusso delle eresie provenienti dai paesi protestanti[278]. La stampa e il libro diventavano quindi il terreno privilegiato per combattere questa battaglia, utilizzando «le candide et prudenti censure», la correzione e la «purgazione» delle opere sospette – necessaria per «togliere il sinistro sentimento et intelligenza, l’eresie e le dishonestà et le cose oscene» –, e per fronteggiare «i mezi tenuti da Satanasso per turbar la coltura degl’ingegni negli studi»[279].

Della Bibliotheca selecta sono state date valutazioni discordi. Luigi Balsamo, ad esempio, sottolinea che la sua «matrice dogmatica» la configura come «una vera opera anti-Gesner a cominciare dalla metodica: nel contrapporre un modello enciclopedico rigidamente delimitato, quello della dottrina cattolica controriformistica, essa diventa strumento di controllo rigoroso dell’informazione bibliografica e della circolazione libraria mirando a costituire [...] una memoria collettiva selezionata in funzione di un preciso programma pedagogico»[280]. All’opposto, Alfredo Serrai, pur riconoscendo che Possevino possedeva «tutti i caratteri del paradigma tipico-gesuita» come «difensore strenuo, ma anche fanatico dell’ortodossia», sostiene che, «per quanto sembri paradossale», egli «è un prosecutore di Gesner, e certamente un suo epigono od un suo emulatore»[281]. Secondo Albano Biondi si tratta in primo luogo di «un’impresa bibliografica» che, negli obiettivi e nella «volontà progettuale, affianca Possevino ai Baronio o ai Bellarmino, nell’intento di racchiudere in una cornice compattamente cattolica tutto un settore dell’esperienza umana»[282].

Certo, la volontà di Possevino di confrontarsi e di competere con Gesner è evidente: ma è proprio nel metodo che i due grandi apparati bibliogra­fici divergono radicalmente; il metodo gesneriano deriva da un impianto classificatorio di matrice scientifico-naturalistica, mentre quello posseviniano è legato ancora ad una visione aristotelica, rivolta sostanzialmente verso il passato. Ad esempio, nel libro XII, dedicato alla giurisprudenza, pubblicato a parte nello stesso 1593 dalla Tipografia Apostolica Vaticana col titolo Christiana methodus ad Iurisprudentiam, Possevino si rivela non soltanto un bibliografo informato, ma anche un trattatista non convenzionale, che si confronta con tematiche – per questa parte si servì dell’aiuto e dei pareri di Guido Panciroli, professore nelle università di Torino e poi di Padova, studioso aperto al metodo umanistico, e del giurista Antonio Massa, conosciuto a Roma, autore di un apprezzato trattato Contra l’uso del duello (Venezia, 1555) –, come l’origine del diritto, il rapporto tra le leggi e la morale, il metodo di studio delle istituzioni giustinianee, il dibattito cinquecentesco tra giureconsulti italiani e ultramontani, e via dicendo[283].

Si sbaglierebbe a considerare quello di Possevino un apporto scarsamente originale alla scienza giuridica. Egli intende riaffermare il carattere sovranazionale della sua opera («non ad Italos tantum, sed ad alios Bibliothecam esse conditam. Si enim isti in Italia non leguntur, leguntur alibi, et quidam cum fructu»), ma evita di cadere nella trappola “patriottica”, prendendo posizione nella controversia tra mos italicus e mos gallicus. La sua conoscenza della giurisprudenza culta appare ampia e puntuale, con i richiami alle opere di Alciato, Budé, Connan, Duaren, Cujas, Hotman: «Num vero Ultramontani iurisperiti – afferma – (expurgati quidem prius, si quos continebant errores) legendi sunt post antiquos»[284]. Valuta positivamente le istanze di rinnovamento degli umanisti, e ammettendo che in Italia vi era il prevalente predominio dei pratici, fa propria la necessità della conoscenza del greco e della filologia per lo studio del diritto. Sconsiglia la lettura dei lessici e dei commentari alle Istitutiones, assai diffusi nelle università, dei giuristi luterani come Mynsinger, Schneidewein, Wesenbeck, proponendo in alternativa i commenti di area cattolica di Aldobrandini e di Viglius (Wigle von Aytta). Anche nell’accostarsi al corpus giustinianeo il gesuita lombardo predica prudenza, soprattutto quando ci si imbatte in argomenti delicati quali «de divortio, de concubinato, de nuptiis, de adoptione, de patria potestate, de religiosis, de iureiurando», nel qual caso bisogna tenersi più stretti al diritto canonico e ai deliberati del Concilio tridentino. Ritiene infatti che il diritto civile, depurato della sua laicità, vada sottoposto ai valori della dottrina cristiana e alle indicazioni del diritto canonico e dei sinodi ecclesiastici. Insomma, Possevino propone una cultura giuridica espurgata e ricondotta, pur con le caute aperture umanistiche, nell’alveo dell’intransigenza censoria controriformista.

Lo spirito polemico dell’«Aristarco cattolico» si infiamma nella cernita censoria della letteratura giuridica del tempo: c’è l’aperta condanna per gli autori considerati radicalmente anticristiani, come Machiavelli, Bodin, François De la Noue per i suoi Discours politiques et militaires (costoro «nostro tempore a catholica fide secedentes fontem naturalis atque evangelicae legis [...] foedarunt»), e per coloro che si mostrano tiepidi sul potere del pontefice, come Duaren o Godefroy (Gotofredus), o l’ammissione per coloro, come Zasius, Hotman o Cantiuncula, che possono essere consultati previa espurgazione[285]. Ma il vero nemico, una sorta di Anticristo, continuava ad essere Du Moulin, cui toccava una condanna senza possibilità di appello per la pericolosità delle sue tesi, capaci di corrompere e «infettare» le menti degli studenti e dei docenti («cum iam in Italia Molinaeus, ac plerique alii professorum et studiosorum mentes infecerint, certe ad Theologos potissimum pertinet, ut insonent buccina et proditores Ecclesiae prodant»)[286].

La Bibliotheca Selecta ebbe una grande fortuna editoriale, sia nelle due edizioni riviste e arricchite di Venezia (1603) e di Colonia (1607), sia nelle numerose edizioni parziali[287]. Già all’indomani della sua pubblicazione l’opera venne inviata nei collegi e nelle università dell’Europa cattolica. Ad essa si uniformarono i cataloghi, le letture “consigliate” e le proibizioni censorie. Come Gesner anche Possevino ebbe epigoni ed imitatori: fra questi si distingue il gesuita francese Claude Clément, insegnante di antichità classiche nel Collegio di Madrid, secondo cui i libri particolarmente pericolosi, empi, magici, eretici ed osceni dovrebbero essere condannati al rogo e andrebbero rinchiusi in un «carcere», cioè destinati ad essere custoditi in luogo sicuro e, quindi, sottratti ai lettori comuni, quelli letterari, scientifici, o politici degni di censura, primo fra tutti Machiavelli[288].

Nel 1606 Possevino pubblicava a Venezia tre tomi di un Apparatus Sacer, sorta di prosecuzione della Bibliotheca Selecta destinata all’am­bito religioso, nel quale era particolarmente versato: un repertorio bibliografico di straordinaria ricchezza, con l’indicazione delle opere manoscritte e a stampa di circa ottomila autori cristiani in un impianto erudito e dottrinale dogmaticamente militante[289]. L’opera usciva a Venezia proprio nel momento in cui si scatenava la cosiddetta «guerra delle scritture» suscitata dalla controversia per l’Interdetto.

Pochi anni dopo Paolo Sarpi, nel trattato Sopra l’officio dell’Inqui­sizione (1613), riflettendo sulla potenza dei libri e della stampa, poteva scrivere: «La materia de’ libri par di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo, che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati»[290].

 

 

8. – Edizioni di fonti, repertori e nuove aperture disciplinari

 

I primi tentativi di rivisitazione critica dei testi giuridici romani e in particolare del Corpus iuris civilis di Giustiniano nascono all’interno del dell’umanesimo giuridico, che si poneva l’obiettivo di restituire queste fonti nella loro forma originale. L’attenzione degli umanisti non poteva non concentrarsi sulla Littera florentina, il celebre manoscritto del VI secolo conservato prima a Pisa e poi a Firenze. Il contributo più significativo della fine del XV secolo agli studi giuridici è senza dubbio quello di Angelo Poliziano (1454-1494), volto a realizzare un apparato critico-filologico al Corpus iuris, cui doveva poi seguire un’edizione critica del testo giustinianeo attraverso il raffronto della Littera florentina, considerata (ma a torto) l’edizione originale delle Pandette, con il testo che veniva normalmente adoperato sin dall’epoca dei glossatori, la Littera bonomiensis, pieno di inesattezze e di alterazioni, che era stato ampiamente diffuso attraverso le stampe quattrocentesche. Poliziano si era dedicato allo studio delle Pandette nei suoi ultimi anni di vita, gettando le linee generali del progetto di un’edizione critica della Littera florentina: il suo iniziale lavoro, pubblicato nella Miscellaneorum Centuria prima (Firenze, 1489), espressione della straordinaria cultura e dell’acume critico dell’umanista toscano, venne considerato a ragione come uno degli stimoli più originali per la nascita della filologia moderna. Poliziano, che si era avvalso della consulenza giuridica di Bartolomeo Socini, di cui aveva altissima stima, si era reso pienamente conto della propria sostanziale impreparazione nell’ambito del diritto e della difficoltà di affrontare con i soli strumenti filologici una materia tanto complessa. Progettava di realizzare un più approfondito riscontro del codice e un commento sistematico: la sua morte precoce interruppe quest’opera grandiosa[291].

Il progetto venne ripreso da Ludovico Bolognini (1446-1508), professore di diritto civile nell’Università di Bologna, che nel 1490 chiese di poter effettuare la collazione del manoscritto e negli anni 1501-07 tentò di pubblicare un’edizione critica della Florentina[292]. Le motivazioni di Poliziano erano soprattutto di natura filologica; Bolognini era mosso invece da fini esegetici, nell’intento di eliminare ogni corruttela dal testo giustinianeo risalendo all’«archetipo» fiorentino. Solo che il giurista bolognese era privo di quei raffinati strumenti critico-filologici di cui era all’opposto dotato il grande umanista toscano: l’ideale sarebbe stato poter disporre di uno studioso che, come ha puntualizzato Calasso, fosse insieme «giurista, storico e filologo»[293].

L’opera di Budé, soprattutto le sue Annotationes in Pandectas (1508), e l’insegnamento universitario di Alciato e di Zasio spingevano per un ritorno critico ai testi del Corpus iuris giustinianeo e delle altre fonti romanistiche. Un apporto innovativo alla conoscenza delle leggi e delle istituzioni romane venne dato da opere di ispirazione erudita come i Libri de Historia iuris civilis et pontificii (Valence, 1515) del giurista francese Aymar du Rivail (Rivallius, 1490 circa-1560), che aveva affinato la sua preparazione umanistica nell’Università di Pavia negli anni in cui vi studiava Alciato (il trattato si distingue soprattutto per lo studio e l’acuta interpretazione delle XII Tavole), e i Geniales dies (Roma, 1522) dell’umanista e giureconsulto napoletano Alessandro D’Alessandro (1461-1523), un’esauriente storia del diritto pubblico romano dalla monarchia all’impero, poggiata su una ricca messe di fonti e con la minuziosa descrizione degli istituti e delle magistrature[294]. Nel 1550 venivano pubblicati a Mantova i Fasti consulares ac triumphi acti a Romulo rege usque ad Tiberium Caesarem del modenese Carlo Sigonio (1520-1584), professore di “humanità” a Venezia, Padova e Bologna, cui avrebbe fatto seguito il De antiquo iure populi Romani (Venezia, 1560), opere di erudizione umanistica che mostravano una spiccata sensibilità per l’elemento giuridico come fattore di sviluppo delle istituzioni e della società[295]

Il giovane giurista tedesco Gregor Meltzer (Haloander, 1501-1531) fu il primo a pubblicare un’edizione completa del Corpus Iuris priva di glosse e senza la tradizionale suddivisione medievale tipica delle stampe precedenti: per l’edizione dei Digestorum seu Pandectarum libri quinquaginta, apparsa a Norimberga, sua città natale, nel 1529, impiegò un anno; nel maggio seguirono le Istituzioni; il Codex fu stampato nel settembre del 1530 e le Novellae nella primavera del 1531. Un’impresa condotta con baldanza, addirittura con furore giovanile. Haloander fu il primo a mettere a frutto la Littera florentina, se non mediante uno studio diretto sul manoscritto originale, di difficile consultazione per i limiti imposti dalla Signoria di Firenze, almeno con il confronto delle copie tratte dagli appunti del Bolognini e indirettamente anche della collazione effettuata dal Poliziano[296]. Le edizioni haloandrine, così ambiziose ma al tempo stesso così riuscite, suscitarono una profonda impressione presso i contemporanei[297]. Per taluni aspetti – la conoscenza delle fonti, l’uso delle iscrizioni, la sistemazione cronologica delle costituzioni imperiali, la classificazione delle Novellae – si trattava di un lavoro indubbiamente pionieristico. L’edizione del Corpus iuris di Norimberga fu nettamente superiore a tutte le altre pubblicate nella prima metà del Cinquecento, e come tale fu apprezzata da Alciato (con alcune riserve), Cujas e specialmente da Agustín. Insomma, i giuristi, almeno quelli più colti e aperti alle novità, e i professori universitari nei loro corsi non potevano ormai più prescindere dalla consultazione delle edizioni haloandrine, che costituirono un evento davvero rivoluzionario nella storia editoriale del diritto giustinianeo[298].

Alla strada aperta da Haloander fece seguito nel 1548 l’edizione del Digesto pubblicata a Basilea da Herwagen: curata da Viglio (Wiggle van Aytta), si giovava del contributo di Alciato, cui si deve la traduzione latina (forse sulla base del codice fiorentino) dei frammenti greci di Modestino nel titolo de excusationibus[299]. Nel 1556-58 l’editore lionese Ugo dalla Porta pubblicava i testi giustinianei corredandoli sia della Glossa, per accontentare i pratici e i tradizionalisti, sia delle varianti della Littera florentina, per venire incontro alle esigenze dei dotti, ma essi presentavano inevitabilmente numerose incongruenze tra il testo e l’apparato[300]. Nel 1569 Antoine Le Conte (Contius, 1517-1586), professore a Bourges, dava alle stampe a Lione presso la Compagnie des libraires i testi giustinianei arricchiti dalle fonti greche edite da Agustín e Cujas, al quale si deve inoltre la pubblicazione di testi fondamentali come il Basilikon liber LX (Lione, 1566), i Codicis Theodosiani libri XVI (Lione, 1566) e l’edizione delle Institutiones, rimasta famosa per la sua maestria filologica (Parigi, 1585)[301].

Il tributo più rilevante dell’editoria giuridica italiana alla tradizione umanistica è senz’altro l’editio princeps della Littera florentina curata nel 1553 da Lelio Torelli e da suo figlio Francesco per i tipi di Lorenzo Torrentino tipografo del granduca Cosimo I di Toscana[302]. Considerata non a torto come un vero e proprio «monumento dell’arte tipografica» per la bellezza dei caratteri, la freschezza della stampa, la qualità della carta, la composizione elegante dei volumi, gli ampi margini del testo, essa era destinata a restare insuperata sino allo scrupoloso lavoro filologico di Theodor Mommsen, pubblicato a Berlino nel 1870[303].

L’iter editoriale delle Pandette è stato particolarmente lungo e complicato. Già dal 1541 Torelli aveva studiato il prezioso manoscritto, esemplandolo per intero e scoprendo che, per colpa dell’antico rilegatore, gli ultimi due fogli della Littera florentina erano stati invertiti: ciò aveva determinato l’errato ordine dei frammenti (da 118 a 200 del De diversis regulis iuris antiqui), seguito da tutti i manoscritti della cosiddetta Littera bononiensis, cioè il testo giustinianeo utilizzato dai glossatori medievali[304].  Si trattava di una scoperta davvero sensazionale nella storia delle Pandette, che riaffermava con forza l’indispensabile funzione del metodo filologico umanistico nello studio delle materie giuridiche. Durante un soggiorno fiorentino nell’autunno-inverno 1541-42 il giovane giurista spagnolo Antonio Agustín, con la collaborazione di Jean Matal, poté compiere un’accurata analisi dell’antico codice e realizzare un’attenta e completa collazione con l’edizione di Haloander, giungendo alla conclusione che tutti i manoscritti del Digesto erano soltanto copie della Littera florentina e riconoscendo espressamente a Torelli la priorità e il metodo della scoperta[305]. Torelli, che a Firenze aveva conosciuto Agustín, spinse lo spagnolo a recarsi a Venezia per studiare i codici greci che il cardinale Bessarione aveva lasciato alla Republica di San Marco: il viaggio fu estremamente fruttuoso, perché Agustín vi trovò molte Novellae che mancavano all’edizione di Haloander[306].

Nel 1543 Torelli comunicava al suo amico spagnolo di aver terminato la collazione delle Pandette. Si poneva ora la necessità di individuare un tipografo all’altezza di un non facile compito come la pubblicazione del Digesto giustinianeo[307]. Nel corso degli anni quaranta e nei primi cinquanta vennero presi in considerazione vari stampatori: Tommaso Giunta di Venezia, Robert Estienne di Parigi, Froben di Basilea per la sua autorevolezza nell’edizione dei manoscritti antichi, il fiorentino Francesco Priscianese, attivo a Roma, Sébastien Gryphe di Lione[308]. Il granduca Cosimo nutriva però diverse perplessità sulla pubblicazione: sia per gli alti costi tipografici, sia perché la Littera era l’antico simbolo delle libertà repubblicane di Firenze. Ma nel 1546, proprio nel momento di maggior stallo, Torelli venne nominato alla carica di primo segretario dello Stato mediceo e, grazie al peso del suo nuovo incarico, riuscì a convincere il granduca a farsi mecenate e promotore della pubblicazione di un’opera che gli avrebbe dato grande prestigio in tutta Europa. Così nel 1547 Torelli stipulava con il mercante di libri brabantino Laurens Leenaertsz van der Beke (Lorenzo Torrentino), in rappresentanza di Cosimo I, un contratto per la creazione a Firenze di una tipografia granducale con un privilegio decennale, l’esenzione parziale dalle gabelle e il monopolio (fatta eccezione per le opere giuridiche) dell’importazione dei libri dalla Francia e dalla Germania[309]. Il segretario fiorentino metteva così il Torrentino in una posizione analoga a quella in cui Venezia aveva posto Aldo Manuzio, quando gli aveva assicurato i codici greci della biblioteca del cardinale Bessarione. Dal 1547 al 1560 Torrentino pubblicò 253 titoli tra i quali, oltre i Digestorum seu Pandectarum libri quinquaginta, le Vite del Vasari, il Pimandro, trattato ermetico di Mercurio Trismegisto, l’Historia d’Italia del Guicciardini, la Cronica di Giovanni Villani, le Historiae di Paolo Giovio e la Concordia ecclesiastica del domenicano Paolino Bernardini, un’opera apertamente filosavonaroliana[310].

Ma, nonostante il notevole sforzo finanziario del granduca e l’impegno ultracedennale di Torelli, le Pandette fiorentine ebbero una limitata circolazione, risultando di fatto un’edizione assai rara[311].

La prima edizione comprendente tutte le compilazioni giustinianee, destinata a sopravvanzare quella del Torrentino, significativamente intitolata Corpus Iuris Civilis, è dovuta a Denis Godefroy (Gothofredus, 1549-1622), uno degli ultimi esponenti della grande scuola culta francese. Giurista ed umanista di apertura europea, Godefroy fu allievo a Parigi di François Bauduin (Balduinus) e studiò nelle università di Lovanio, Colonia, Strasburgo – dove nel 1591 ottenne la cattedra di Pandette –, Heidelberg e di nuovo a Strasburgo, dove rimase sino alla morte. L’edizione compendiava in un’opera sistematica tutti gli apporti dell’umanesimo giuridico, da Haloander ad Agustín, da Budé a Cujas, a Torelli. La sua recensio dei testi giustinianei, che attingeva dalla Florentina e non ignorava la Bonomiensis (con l’inserimento dei Libri feudorum), pose fine alle incertezze su gran parte dei problemi critico-filologici che erano stati a lungo discussi  dai giuristi. La Littera Gothofrediana, accettata, senza la necessità di un atto formale di imposizione, dalle università e dai tribunali di tutt’Europa come la fonte giuridica di assoluta autorevolezza, si impose in breve tempo – come ha osservato Francisco J. Andrés – come la nuova vulgata dell’usus modernus Pandectarum[312].

Il Corpus Iuris privo della glossa venne pubblicato a Lione (ma stampato a Ginevra) nel 1583 e subito ripubblicato a Venezia nel 1583-84 dalla Compagnia dell’Aquila, a Francoforte nel 1587 dalla tipografia di Johan Wechel per conto di una società editoriale composta da Sigmund Feyrabend, Heinrich Track e Peter Vischer[313].

Per tutta la seconda metà del secolo però, prima del Corpus Iuris gotofrediano, si continuò a pubblicare ancora la vecchia vulgata con l’apparato di commenti di Accursio, meglio noto come magna glossa: in tutto 23 edizioni dal 1561 al 1591. Nell’editoria giuridica cinquecentesca l’anco­raggio al passato e alla tradizione finiva per prevalere sulle novità. Il pubblico dei giureconsulti era fondamentalmente conservatore. Nel XV secolo aveva inizialmente osteggiato il libro a stampa a favore del manoscritto; ora guardava con diffidenza qualsiasi innovazione, come mostra, ad esempio, la preferenza per i libri di grande formato (in folio, in 4° e in 8°). Quando nel 1525 il tipografo Alessandro Paganino di Tuscolano sul Lago di Garda stampò, con un’operazione indubbiamente azzardata, un’edizione delle Istituzioni di Giustiniano in 24°, il libro venne accolto male dal mercato e la sua commercializzazione risultò sostanzialmente fallimentare[314]. I formati piccoli del testo giustinianeo si imposero soltanto nell’ultimo trentennio del secolo, come le Istituzioni in 16° nel 1574 a Ginevra da Jean Crispin, ancora le Istituzioni in 16° stampate a Parigi nel 1580 da Jean Poupy, l’edizione completa del Digesto, del Codice, delle Novelle, degli  Editti e delle Istituzioni in undici volumi in 16° pubblicata nel 1581 a Lione da Guillaume Rouillé, le Istituzioni col commento di Denis Godefroy stampate nel 1597 a Ginervra in 16° da Jacob Stoer[315].

Nella seconda metà del Cinquecento, peraltro, sia gli orientamenti della scienza giuridica sia, di riflesso, la stessa produzione editoriale iniziano a volgersi verso un’impostazione eminentemente pratica. «È il “sapere giuridico” che verrà cambiando – ha osservato Riccardo Orestano –: da un lato accentuerà le sue componenti “pratiche”, dall’altro, uscendo dal chiuso delle aule universitarie, vedrà larga partecipazione di “forensi”, magistrati e avvocati»[316]. Si andava spegnendo la polemica tra la scuola culta e i bartolisti: la radicatissima tradizione del commento, che aveva evitato di essere soppiantata negli Studi dai modelli oltremontani e dall’istituzione di alcune cattedre di Pandette, non aveva alcuna intenzione di porre in discussione il proprio «statuto metodologico» e, d’altra parte, il cosiddetto mos italicus si trovava in piena sintonia con l’esigenza di un’interpretazione del diritto in funzione della pratica. Il particolarismo istituzionale, tipicamente italiano, insieme all’assenza di una forte monarchia, aveva impedito, a differenza di quanto era avvenuto in Francia e in Spagna, l’affermazione di un diritto, diciamo così, “nazionale”[317]. Biagio Brugi, a proposito dei giureconsulti italiani del XVI secolo, aveva colto il mutamento della sensibilità culturale, ma aveva anche posto in evidenza gli aspetti innovativi della crisi del diritto comune: «Nelle lezioni e nelle opere loro il testo è sullo sfondo, la Glossa in un piano che via via si fa remoto; nel più prossimo si accumula tutto il lavoro d’interpretazione analogica dei giuristi del secolo XV e XVI, in un col frutto ricavato dai consigli loro e dalle decisioni dei tribunali maggiori. Sotto la grande uniformità – conclude Brugi – spiccano varie tendenze individuali; le dottrine degl’instituti giuridici acquistano una propria fisionomia; molte di esse, appunto nel secolo XVI, la loro moderna figura»[318].

Nel corso del Cinquecento si sviluppa così un filone di opere giuridiche volte all’esposizione, più o meno sistematica, di nuovi ambiti del diritto e di istituti particolari. Certo, i trattati monografici cinquecenteschi erano in larga misura gli eredi di una forma letteraria ampiamente diffusa nel Medioevo, come le summae di singoli titoli o di determinati temi del corpus giustinianeo, o come le raccolte di quaestiones[319]. La monografia si presenta ora come trattazione autonoma e completa di una materia specifica individuata secondo esigenze provenienti dalla pratica, capace di consentire ai giuristi, agli uomini del foro, ai magistrati, ai burocrati di individuare, in maniera più agevole rispetto ai vecchi commentaria espressione dell’insegnamento universitario, dottrine e risoluzioni concrete sui vari problemi giuridici.

Lo sviluppo della stampa e la dilatazione del mercato editoriale favorirono ulteriormente la produzione di trattati, ad esempio nell’ambito del diritto criminale. Il Cinquecento è infatti un secolo assai fecondo per le scienze penalistiche: ciò è dovuto sia ad una maturazione della dottrina, che inizia ad affrancarsi dall’ambito civilistico, sia all’affermazione di un diritto criminale di Stato, che matura grazie all’espansione degli apparati giudiziari in cui vengono recepiti i caratteri nuovi di un «diritto penale ordinamentale». È appunto il cosiddetto Stato moderno, come ha osservato Mario Sbriccoli, ad appropriarsi della «potestà punitiva» e della «giustizia penale egemonica» in un quadro in cui il Principe provvede a promuovere la riforma dei vecchi statuti medievali, a garantire la promulgazione di nuove organiche compilazioni, a sollecitare lo studio e l’insegnamento del diritto criminale nelle università[320]. Non è un caso che lo studio autonomo e l’insegnamento universitario del diritto criminale si siano affermati proprio nel XVI secolo, acquistando una dimensione autonoma, di dottrina e di studio, dal diritto romano: sin dal 1509 veniva insegnato a Bologna, dal 1540 a Padova, dal 1567 a Perugia, dal 1574 alla Sapienza di Roma, dal 1578 a Pavia e dal 1585-86 a Torino[321].

Il punto di riferimento della trattatistica penale cinquecentesca è rappresentato dalle opere di tre giuristi, Giulio Claro, Tiberio Deciani e Prospero Farinacci, la cui autorevolezza in materia resterà un costante punto di riferimento lungo tutta l’età moderna sino alle riforme ispirate alle teorie dell’illuminismo giuridico[322]. L’editoria si mostrò particolarmente attenta a questo nuovo ambito disciplinare che suscitava una domanda sempre crescente, che proveniva, più che dalle aule universitarie, dal mondo del foro e delle magistrature. Ad esempio, le opere di Ippolito Marsili (1451-1529), il primo professore di diritto criminale nello Studio bolognese, ebbero 71 edizioni italiane, 10 della celebre Practica causarum criminalium (1526-29), detta Averolda, e 9 dei Consilia criminalia. Giulio Claro (1525-1575), allievo pavese di Alciato, dal 1556 magistrato del Senato di Milano e dal 1565 reggente nel Consiglio d’Italia a Madrid, nel 1568 pubblicava come quinto libro delle Sententiae la parte penalistica, la celebre Practica criminalis, definita non a torto la «bibbia penalistica cinquecentesca», che sino al 1672 avrebbe avuto ben 45 edizioni[323]. Anche il Tractatus criminalis di Tiberio Deciani (1509-1582), pubblicato postumo nel 1590 a Venezia dal tipografo Francesco De Franceschi, considerato non a torto la «prima esposizione sistematica di diritto penale», nasce al di fuori delle aule universitarie come il frutto di una lunga maturazione e di una nuova riflessione nei confronti della materia criminale, filtrata attraverso un approccio umanistico: si tratta di un’opera di forte organicità articolata in tre parti (la prima dedicata ai principi generali, la seconda ai singoli delitti, la terza alla prassi e al foro), destinata però ad avere una circolazione limitata, con quattro edizioni italiane tra il 1590 e il 1614[324]. All’opposto la poderosa Praxis et theorica criminalis di Prospero Farinacci (1544-1618), luguleio abile e senza scrupoli, «mago dello scibile penalistico», secondo Franco Cordero, ma «confusamente blaterante», che trae alimento direttamente dalla pratica forense, sia dalla sua esperienza di avvocato, spesso al centro delle cronache giudiziarie romane (famosa la sua difesa dei fratelli Cenci, vicenda immortalata nella celebre novella di Stendhal), sia da quella di magistrato nei tribunali pontifici, ispirata ai collaudati procedimenti scolastici del mos italicus e del tardo bartolismo[325]. La Praxis venne pubblicata in otto volumi dal 1598 al 1614, spesso con titoli diversi (Variorum quaestionum et communium opinionum criminalium, liber primus, secundus, quintus etc.) o come monografie separate sui singoli argomenti della vasta trattazione (De reo confesso; Furti materia; Tractatus de haeresi, etc.), in ben 38 edizioni, fra cui si segnalano quella veneziana degli eredi di Lucantonio Giunti (1604-13) e quella lionese di Cardon e Cavellat (1613-21)[326].

Fra gli altri cultori della scienza penalistica bisogna ricordare il milanese Egidio Bossi (circa 1488-1546), giurista oggi ampiamente rivalutato dalla storiografia, autore dei Tractatus varii (pubblicati postumi nel 1562) dedicati alla procedura e alla trattazione dei principali reati, che conobbero una buona diffusione (17 edizioni, di cui 12 italiane, 4 lionesi, 1 basileense) sino al 1588. La Practica criminalis (1547) di Marco Antonio Bianchi (1498-1548) ebbe 6 edizioni, la Practica causarum criminalium (1548) di Ludovico Careri 8 edizioni, il Tractatus criminalis (1549, rivisto nel 1568) di Jacopo Novelli (notizie dal 1556 al 1586) ben 21 edizioni, la Practica criminalis dialogice contesta (1553) di Pietro Follerio (morto intorno al 1590), giurista napoletano, 13 edizioni sino al 1644 e, infine, la Theorica et praxis interrogandorum reorum (1590) di Flaminio Cartari (1531-1593), magistrato della Rota genovese, 10 edizioni italiane sino al 1618[327]. Si tratta di opere eminentemente pratiche, assai lontane dalle astrazioni delle aule universitarie, scritte soprattutto da magistrati mossi dall’intento di suggerire ai giudici e agli avvocati la consuetudo practicandi e di illustrare l’«infinita casistica» processuale, «reato per reato, ipotesi per ipotesi, circostanza per circostanza, senza tralasciare – come osserva Mario Sbriccoli – varianti, teorie altrui, argomenti contrari da aggirare, accorgimenti da prendere e limiti, soprattutto limiti, da non valicare»[328].

Insomma, nel XVI secolo la trattatistica giuridica si va sempre più adeguando alle esigenze della prassi, mostrandosi attenta alle istanze provenienti dalla vita sociale e sensibile alla necessità di dare soluzioni giuridiche concrete ad ambiti sin allora poco approfonditi o appena sfiorati dalle teoriche precedenti, se non addirittura ignorati o snobbati dal tradizionalismo accademico. Rientrano in questa prospettiva Roberto Maranta (morto intorno al 1534-35), giurista napoletano, autore di un fortunato Tractatus de ordine iudiciorum, detto pomposamente Speculum aureum et lumen advocatorum (scritto nel 1520-25, ma pubblicato postumo nel 1545), che proprio per la sua stretta aderenza alla “domanda” del mondo forense ebbe sino al 1650 23 edizioni, di cui alcune all’estero (Lione 1557, 1567, 1573; Francoforte, 1575; Colonia 1650); Giambattista Asini (morto nel 1585), professore per undici anni nello Studio pisano, autore di una Practica aurea, seu processus iudiciarius (1569-71), 8 edizioni sino a quella di Francoforte del 1629; Giuseppe Mascardi, canonista ligure, cui si deve la raccolta di Conclusiones probationum (1584-88), che aveva lo scopo di elaborare una sistemazione della materia probatoria, con 14 edizioni sino a quella di Francoforte del 1661; Francesco Mantica (1534-1614), professore a Padova, poi magistrato a Roma e, infine, cardinale, autore di due trattati di materia successoria e contrattuale, il Tractatus de coniuncturis ultimarum voluntatum (1579) e le Vaticanae lecubrationes de tacitis et ambiguis conventionibus (1607), il primo con 15 edizioni anche estere (Ginevra 1631, 1645, 1669, 1695, 1737; Lione, 1592), il secondo con 8 edizioni, di cui 6 all’estero[329].

Il più illustre dei giuristi pratici fu senza dubbio il pavese Giacomo Menochio (1532-1607), professore a Mondovì, Padova e a Pavia, alto magistrato del Senato milanese, ampiamente sopravvalutato dai contemporanei, che lo considerarono un novello Bartolo – Cordero gli riconosce comunque il merito di aver visto «come l’intero metabolismo legale sia riconducibile a tecniche giudiziarie» –, autore di una poderosa raccolta di Consilia  – 1.286 responsi – sul ius commune, diritto feudale e diritto criminale, in tredici volumi stampati a Venezia da Francesco Ziletti (1575-92), che raccolgono i frutti della sua attività professionale di consulente, e di una serie di trattati su temi prevalentemente civilistici e processualistici, in una quarantina di edizioni[330].  Il consilium, o parere del giurista, era un’eredità del Medioevo e rappresentava la forma attraverso la quale il diritto comune (la fonte primaria di tutti i consilia) si inseriva nella pratica giudiziaria. La fase culminante della letteratura consulente è il periodo compreso tra il XIV e il XV secolo[331]: ma anche nel Cinquecento si assiste ad un’ampia circolazione europea delle raccolte a stampa dei consilia, come quelle di Filippo Decio (15 edizioni cinquecentesche), Giason del Maino (5 edizioni), Aimone Cravetta (9 edizioni), Pietro Paolo Parisio (6 edizioni), Marco Antonio Natta (14 edizioni), Giovanni Nevizzano (5 edizioni), Guido Panciroli (1 edizione), Tiberio Deciani (5 edizioni), e così via. È stato calcolato che le raccolte di consilia pubblicate in Europa tra il XVI ed il XVIII secolo  siano almeno 400, di cui circa 125 di autori italiani[332].

Uno degli ambiti dottrinali destinati a rimanere sempre vivo nel corso dei secoli XVI-XVII, nonostante il progressivo affievolirsi della presa sociale delle istituzioni feudo-vassallatiche altomedievali e i limiti posti alla giurisdizione baronale dallo Stato moderno, è quello della feudistica: la materia veniva tradizionalmente insegnata in alcune università all’interno delle discipline romanistiche, attraverso i cosiddetti Libri feudorum, in altre godeva di una piena autonomia, grazie all’istituzione di apposite cattedre come a Napoli nel 1512, a Padova nel 1544, a Torino nel 1580 o a Messina nel 1597[333]. Si trattava anche in questo caso di un’esigenza eminentemente pratica, di una domanda proveniente dal mondo forense impegnato in lunghe controversie di successione feudale e da quello delle magistrature per i numerosi conflitti giurisdizionali che spesso sorgevano tra le diverse curie[334].

Accanto alle tematiche ancorate al passato, si delineano nel XVI secolo anche altre specialità giuridiche proiettate verso il futuro, come, ad esempio, il diritto mercantile e delle assicurazioni, stimolato dall’ampliarsi quasi planetario delle relazioni economiche e dai commerci internazionali che poneva ai giuristi nuovi quesiti e aspettava nuove risposte. Risale al 1553 la pubblicazione del primo trattato scientifico di diritto commerciale, il De mercatura seu mercatore, edito a Venezia da Paolo Manuzio, di Benvenuto Stracca (1509-1578), patrizio di Ancona che aveva studiato a Bologna, faceva l’avvocato, ricopriva diverse cariche pubbliche. Il trattato, che rivela una buona ed aggiornata cultura giuridica, affronta diversi argomenti come l’esercizio della mercatura, i contratti, il commercio marittimo, i casi di cessazione dell’attività, il fallimento, la giurisdizione commerciale[335]. L’opera ebbe 15 edizioni sino al 1669 (di cui 7 a Lione e 1 ad Amsterdam), il Tractatus de assecurationibus et proxenetis, edito a Venezia nel 1569, ebbe, sino al 1751, 6 edizioni. Era un filone, manifestamente extrauniversitario, che si sarebbe ulteriormente sviluppato nel XVII secolo con il trattato De commerciis et cambio (1619) di Sigismondo Scaccia (1564 circa-1634), con 7 edizioni seicentesche, col Tractatus de cambiis (1641) di Raffaele Della Torre (1579-1666) ed il Liber singularis de usuris (1636) di Onorato Leotardi.

Al genere pratico appartiene anche la straordinaria produzione editoriale di raccolte (dalle stime effettuate sarebbero circa 400) di decisioni e sentenze di grandi tribunali (sotto questo termine si unifica l’indicazione di organi giudiziari assai diversi fra loro, Audiencias, Rote, Senati, Parlements) – che già dal XV secolo assumono il nome di decisiones ad imitazione di quella della Rota romana –: esse offrivano ai giudici, agli avvocati, ai burocrati un vastissimo repertorio di soluzioni concrete per un’ampia gamma di controversie[336]. Certo, anche la letteratura decisionista era essenzialmente curiale, tuttavia non restava del tutto avulsa dal mondo universitario, in cui il metodo didattico fondato sul mos italicus faceva ampio ricorso nelle esercitazioni scolastiche alle auctoritates, ai consilia e, talvolta, alle stesse fonti giurisprudenziali. Ad esempio, le Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani di Matteo D’Afflitto (1448-1528), stampate nel 1509, ebbero 12 edizioni cinquecentesche, 6 seicentesche e 1 settecentesca; la raccolta delle decisiones napoletane di Antonio Capece (morto nel 1545 circa), pubblicata nel 1541, ebbe 9 edizioni cinquecentesche; quella di Tommaso Grammatico (1473-1556), stampata a Venezia nel 1547, ebbe 9 edizioni nel corso del XVI secolo; le Decisiones Sacrae Rotae Romanae di Guglielmo Cascadori (morto nel 1528), pubblicate a Venezia nel 1540, ebbero 9 edizioni cinquecentesche e 2 seicentesche; le Decisiones Sacri Senatus Pedemontani di Ottaviano Cacherano (morto nel 1580), pubblicate a Torino nel 1569, ebbero 6 edizioni cinquecentesche (di cui 2 a Francoforte e 1 a Lione) e 3 seicentesche[337]: l’elenco potrebbe continuare a lungo.

In effetti la prima metà del XVI secolo conosce la pubblicazione di diversi repertori bibliografici relativi al diritto: l’Inventarium librorum in utroque iure (Lione, 1522) di Giovanni Nevizzano, con la sua ampia serie di argomenti (Textus et lecture in iure civili et feudis; Singularia et cautele; Repertoria; Decisiones; Consilia diversa et extravagantia, etc.), costituiva uno strumento di lavoro utilissimo sia per il giurista, che per il libraio[338]. Si ricordano inoltre l’Index librorum in utroque iure (1525) dello spagnolo Luis Gómez, le Iurisconsultorum vitae (1536) di Bernardino Rutilio, gli Indices dominium scriptorum in iure (1539) del tedesco Johann Fichard, la Nomenclatura doctorum in utroque iure (1543) di Bernhard Gassner, l’Index librorum omnium iuris civilis et pontificii (Venezia, 1559) di Giovanni Battista Ziletti, indubbiamente la bibliografia più ricca e informata, l’Elenchus omnium auctorum sive scriptorum in iure tam civile quam canonico (1574) di Johann Wolfgang Freymon[339].

Si distingue in questo ambito il De claris iureconsultis di Tommaso Diplovatazio (1468-1541), avvocato, magistrato e amministratore civico a Pesaro, che si trasferì poi a Venezia, dove esercitò l’avvocatura e collaborò con l’industria tipografica, preparando edizioni, additiones e vitae di giuristi. Nel De claris iureconsultis (1511) – la sua opera più famosa, un piccolo capolavoro del genere bio-bibliografico con le vitae legisti e l’elenco delle loro opere –, Diplovatazio ha infatti ricostruito la storia della scienza giuridica medievale, partendo dalle biografie e dagli scritti dei protagonisti e gettando nuova luce su un’età fino ad allora caratterizzata da una tradizione storiografica confusa[340]. In questa prospettiva si colloca anche il De claris legum interpretibus (apparso postumo nel 1637) di Guido Panciroli, che costituisce il primo vero e proprio studio di storia della storiografia giuridica: giurista di cultura umanista, durante il suo insegnamento torinese Panciroli aveva curato per il tipografo Niccolò Bevilacqua l’edizione dei Commentaria al Codice e al Digesto di Giason del Maino (1573), i Consilia e i Commentaria di Bartolo (1577), e durante la docenza padovana aveva fatto da consulente per la Bibliotheca selecta (1593) di Possevino e, soprattutto, per la grande collezione veneziana dei Tractatus Universi Iuris (1583-86) dello Ziletti[341]. Era considerato dagli studenti, insieme al Gribaldi, uno dei più apprezzati e rappresentativi professori di diritto dello Studio patavino[342].

La domanda di trattazioni su temi specifici viene ampiamente recepita dall’editoria giuridica: a Venezia una società formata dagli eredi di Lucantonio Giunti, dai Giolito, da Comin da Trino e da Federico Torresani si consorziava per la pubblicazione, negli anni 1548-50, di una raccolta di Tractatus omnes de cognitione iuris et interpretatione verborum in 18 volumi. Quasi contemporaneamente, nel 1548-49, veniva pubblicata a Lione dal tipografo Georges Regnault un’altra gigantesca raccolta di trattati in 17 tomi[343].

Il Cinquecento si chiude con una “titanica” impresa editoriale, i Tractatus Universi Iuris, pubblicati a Venezia tra il 1583 e il 1586 in 18 tomi, per un totale di 25 volumi in folio fra cui un dettagliatissimo indice, da una società, la Compagnia dell’Aquila («ad signum Aquilae se renovantis»), composta da un pool di tipografi-editori ed animata da Francesco Ziletti, figlio di Giovanni Battista. Era una raccolta generale di circa un migliaio di trattati medievali e moderni – anche se sotto questo genere letterario, assai diffuso nel XVI secolo, si designavano testi del passato come quaestiones, consilia, commentaria, summae –, destinati ad illustrare ogni tema del diritto (dai feudi alla nobiltà, dal duello all’omicidio, dal potere degli ecclesiastici a quello del papa, etc.) allo scopo di offrire una sistemazione completa della dottrina giuridica precedente, aggiornandola con i contributi più recenti che, diciamo così, sulle varie problematiche isolavano una serie di opinioni relativamente “certe”[344]. Con il loro enorme apparato l’opera rappresenta, secondo Alfredo Serrai, «probabilmente il più notevole sforzo di organizzazione concettuale del Cinquecento di cui si abbia avuto una manifestazione tipografica»[345]. Rispetto alle collezioni precedenti i Tractatus si caratterizzano per un’indubbia organicità e per un accurato lavoro di scelta e di selezione dei testi. Non a caso alla raccolta del materiale avevano collaborato due professori dello Studio di Padova, Menochio e Panciroli, grazie anche al rilevante apporto, per la collazione delle edizioni di riferimento, della biblioteca di Luigi Balbi. Oltre a Bartolo e Baldo, i due docenti patavini suggeriscono l’inserimento di autori più recenti sino ai loro contemporanei, esponenti di spicco della Scuola Culta, quali Alciato, Cuiacio, Duaren, Zasius, Doneau, o spagnoli come Covarrubias. In fondo l’insegnamento universitario cinquecentesco, e in particolare quello padovano, con le sue finalità eminentemente pratiche, volto alla formazione degli uomini del foro, delle magistrature e dell’amministrazione, non era poi così lontano dallo spirito dei Tractatus Universi Iuris e dal programma culturale di Ziletti: insomma, il giurista aveva finalmente a disposizione  una straordinaria raccolta di letteratura giuridica, con più di quattrocento autori, glossatori, commentatori, esponenti del mos italicus e del mos gallicus, scrittori moderni che, con la loro dottrina, fornivano contributi fondamentali per la comprensione (e la risoluzione) di tutta una articolata serie di temi specifici, che pareva, realmente, comprendere, per riprendere il titolo, l’universo delle conoscenze e delle istanze della società di fine Cinquecento.

 

 



 

[1] Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini, II, Milano, Mondadori, 1970 (I ediz. Milano, Adelphi, 1966), 1423-1424.

 

[2] La definizione è di Giovanni Macchia, La letteratura francese, I, Dal Medioevo al Settecento, Milano, Mondadori, 1987, 511. Cfr. inoltre le belle pagine di Giacomo Debenedetti, Quaderni di Montaigne, Milano, Garzanti, 1986, 10-14.

 

[3] Montaigne, Saggi cit., II, 1425-1426.

 

[4] Nel libro II, cap. XII, dei Saggi cit., I, 774, Montaigne aveva sottolineato questo concetto: «Ho sentito parlare di un giudice che quando trovava un aspro conflitto tra Bartolo e Baldo, e qualche argomento molto controverso, segnava in margine al suo libro: Questione per l’amico; volendo dire che la verità era così imbrogliata e dibattuta che in una causa simile egli avrebbe potuto favorire quella delle parti che gli sarebbe parso meglio. Dipendeva solo dalla mancanza d’ingegno e di dottrina che egli non potesse mettere dappertutto: Questione per l’amico. Gli avvocati e i giudici del nostro tempo trovano in ogni causa cavilli sufficienti per volgerla come loro sembra meglio. In una scienza così vasta che dipende dall’autorità di tante opinioni e con un oggetto tanto arbitrario, non può non nascere una confusione estrema di giudizi».

 

[5] Thomas More, Utopia (1516), a cura di Luigi Firpo, Napoli, Guida, 19903, 246-247 (si tratta dell’edizione originale edita a Lovanio nel 1516 da Martens). Cfr. inoltre Luigi Firpo, Sfiducia nel diritto e riforma delle leggi nell’utopismo del Cinquecento, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche, Atti del primo congresso internazionale della Società italiana di storia del diritto, Firenze, Olschki, 1966, 459-467; Id., Utopismo, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, dir. da Luigi Firpo, III, Umanesimo e Rinascimento, Torino, Utet, 1987, 821: «Qualunque norma positiva – ha osservato Firpo – viene guardata con diffidenza e la critica della congerie caotica dei bandi principeschi e delle allegazioni dei giureconsulti si estende fino ad investire ogni norma formale, dal Corpus iuris giustinianeo, su, fino al decalogo mosaico. Quello che si vuole è restaurare la giustizia nei tribunali, istituire un corpo vulgato e piano di leggi semplificate e renderlo indiscriminatamente operante».

 

[6] Tommaso Campanella, La città del sole, a cura di Adriano Seroni, Milano, Feltrinelli, 19913, 66. Cfr. Luigi Firpo, Lo Stato ideale della Controriforma, Bari, Laterza, 1957, 288-290. L’opera scritta in italiano in due redazioni (1602 e 1611), e in latino in altre due redazioni (1613 e 1631), fu pubblicata a Francoforte nel 1623 col titolo Civitas Solis idea reipublicae philosophica come Appendix politica alla Realis philosophia epilogistica.

 

[7] Kaspar Stiblin, Commentariolus de Eudaemonensium Republica, in Coropaedia sive de moribus et vita virginum sacrarum, Basileae, per I. Oporinus, 1550 (rist. anast. Regensburg, S. Roderer, 1994), riprodotto anche in Luigi Firpo, Kaspar Stiblin utopista con il testo originale del “De Eudaemonesium Republica” e la bibliografia dell’autore, Torino, s.n., 1959, 97.

 

[8] Erasmo da Rotterdam, Elogio della stoltezza, a cura di Cristina Baseggio, con un saggio di Hugh Trevor-Roper, Milano, Tea, 1988, 85. L’edizione originale dell’opera apparve a Parigi nel 1509 dai torchi di Gilles de Gourmont.

 

[9] Konrad Gesner, Pandectarum sive partitionum universalium libri XXI. Ad lectores secundus hic bibliotecae nostrae tomus, Tiguri, apud Christophorum Fraschonerum, 1548, epist. dedic. Cfr. inoltre Alfredo Serrai, Conrad Gesner, a cura di Maria Cochetti con una bibliografia delle opere a cura di Marco Menato, Roma, Bulzoni, 1990, 99-100; Massimo Ceresa, Giunti (Giunta), Tommaso, in Dizionario biografico degli italiani, LVII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001, 101-104.

 

[10] Cfr. in generale Luigi Balsamo, Il libro per l’università nell’età moderna, in Le Università dell’Europa. Le scuole e i maestri. L’età moderna, a cura di Gian Paolo Brizzi e Jacques Verger, Milano, Silvana editoriale, 1995, 45-65.

 

[11] Sull’impianto didattico cfr. soprattutto Manlio Bellomo, Saggio sull’Università nell’età del diritto comune, Roma, Il Cigno Galileo Galilei, 1996 (I ediz. Catania, Giannotta, 1979), 205-245, a cui si rinvia.

 

[12] Francesco Calasso, Medioevo del diritto, I, Le fonti, Milano, Giuffrè, 1954, 178.

 

[13] Cfr. Umberto Dallari, I rotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio di Bologna dal 1384 al 1799, II, Bologna, Regia Tipografia dei fratelli Merlani, 1889, 90-92, 229-233 ss.; Grendler, The universities of the Italian Renaissance cit., 453-456; Luigi Simeoni, Storia dell’Università di Bologna, II, L’età moderna (1500-1888), Bologna, Zanichelli, 1940, 39-42.

 

[14] Cfr. Mario Chiaudano, I lettori dell’Università di Torino ai tempi di Emanuele Filiberto (1566-80), in L’Università di Torino nei secoli XVI e XVII, Torino, Giappichelli, 19722, 73; Annamaria Catarinella, Irene Salsotto, Andrea Merlotti, Le istituzioni culturali, in Storia di Torino, 3, Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato (1536-1630), a cura di Giuseppe Ricuperati, Torino, Einaudi, 1998, 529-537.

 

[15] Cfr. Annalisa Belloni, Professori giuristi a Padova nel secolo XV. Profili bio-bibliografici e cattedre, Frankfurt am Main, Klostermann, 1986, 88-104; Ead., L’insegnamento giuridico nelle università italiane, in Luoghi e metodi di insegnamento nell’Italia medioevale (secoli XII-XIV), a cura di Luciano Gargan e Oronzo Limone, Galatina, Congedo editore, 1989, 146-148.

 

[16] Cfr. Biagio Brugi, La scuola padovana di diritto romano nel secolo XVI, Padova, Tipografia Sacchetto, 1888, 5 ss.

 

[17] Cfr. Melchiorre Roberti, Il Collegio padovano dei dottori giuristi. I suoi consulti nel secolo XVI. Le sue tendenze, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 35 (1903), 171-249.

 

[18] Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, a cura di Paolo Cherchi e Beatrice Collina, I, Torino, Einaudi, 1996, 180. Cfr. Ottavia Niccoli, Garzoni Tomaso, in Dizionario biografico degli italiani, LII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1999, 449-453.

 

[19] Cfr. Biagio Brugi, Come gli italiani intendevano la culta giurisprudenza, in Per la storia della giurisprudenza e delle Università italiane. Nuovi Saggi, Torino, Utet, 1921, 115-117.

 

[20] Lodovico Ariosto, La Scolastica, commedia non meno piacevole che ridicolosa, in Vinetia, appresso Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1562, 9.

 

[21] Die Amerbachkorrespondenz, II, Die briefe aus den Jahren 1514-1524, ed. Alfred Hartmann, Basel, Verlag der Universitatsbibliothek, 1943, n. 743, rr. 58-60; cfr. anche Belloni, L’insegnamento giuridico in Italia cit., 142, e Pascal Pichonnaz, Bonifacius Amerbach, in Juristas universales, II, Juristas modernos. Siglos XVI al XVIII: da Zasio a Savigny, Rafael Domingo ed., Madrid-Barcelona, Marcial Pons, 2004, 166-168, con relativa bibliografia.

 

[22] Carlo Marcora, Le lettere giovanili di San Carlo (1551-1560), «Memorie storiche della diocesi di Milano», 14 (1967), 423.

 

[23] I dati sono tratti dall’Istituto Centrale per il Catalogo Unico (d’ora in poi ICCU), Edit, 16.

 

[24] Cfr. Marcel Fournier, L’Université d’Avignon (XIIIe-XVe siècle), in Les universités françaises et l’enseignement du droit en France au Moyen Âge, Paris, Larose et Forcel, 1892, 659 (rist. anast. Aalen, Scientia Verlag, 1970).

 

[25] Gian Luigi Barni, Le lettere di Andrea Alciato giureconsulto, Firenze, Le Monnier, 1953, n. 33, r. 10; e Belloni, L’insegnamento giuridico cit., 142.

 

[26] Cfr. Richard L. Kagan, Universidad y sociedad en la España moderna, Madrid, Editorial Tecnos, 1981, 119-1129; Mariano Peset, Enrique Gonzáles Gonzáles, Las facultades de leyes y cánones, in La Universidad de Salamanca, dir. Manuel Fernández Álvarez, II, Atmosfera intelectual y perspectivas de investigación, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1990, 25-41; Agueda Rodríguez Cruz, La estructura universitaria salmanticense, modelo de la hispanoamericana, in Historia de las universidades hispanoamericanas, I, Bogotà, Instituto Caro y Cuervo, 1973, 36-83, 99-139; Ramon González Navarro, Felipe II y las reformas constitucionales de la Universidad de Alcalá de Henares, Madrid, Sociedad estatal para la Conmemoración de los centenarios de Felipe II y Carlos V, 1999, 102-103; Amparo Felipo, La Universidad de Valencia durante el siglo XVI (1499-1611), Valencia, Universitat de Valencia, 1993, 176-184; Id., La Universidad de Valencia durante el siglo XVII (1611-1707), Valencia, Generalitat Valenciana, 1991, 219-240; Mariano Peset, Le università spagnole e portoghesi, in Le università dell’Europa. Dal Rinascimento cit., 221-239.

 

[27] Cfr. Paz Alonso Romero, Universidades y administración de la monarquía, in Felipe II un monarca y su época. La monarquía hispánica, Madrid, Sociedad estatal para la Conmemoración de los centenarios de Felipe II y Carlos V, 1998, 235-241; Mariano Peset, La monarchie absolue et les universités espagnoles, in «CRE-Information», n. 72, 1985, 75-104.

 

[28] Cfr. Emma Montanos Ferrín, Felipe II y la Universidad de Mexico, «Rivista internazionale di diritto comune», 7 (1997), 77-117; Mariano Peset, José Luis Peset, Le università ispaniche in America, in Le università dell’Europa cit., Dal rinnovamento scientifico all’età dei Lumi, 171-179.

 

[29] Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, a cura di Antonio Marongiu, VI, Milano, Marzorati, 1971 (XXXV, 2), 275-280. Cfr. anche le considerazioni di Giuseppe Ricuperati, L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli, Ricciardi, 1970, 202-217.

 

[30] Cfr. Nino Cortese, Il governo spagnuolo e lo Studio di Napoli, in Cultura e politica a Napoli dal Cinquecento al Settecento, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1965, 33-119; Id., Lo Studio di Napoli nell’età spagnuola, Napoli, Ricciardi, 1924, 89-127; Carlo De Frede, Studenti e uomini di legge a Napoli. Contributo alla storia della borghesia intellettuale del Mezzogiorno, Napoli, L’arte tipografica, 1957; Ileana Del Bagno, Legum doctores. La formazione del ceto giuridico a Napoli tra Cinque e Seicento, pres. di Raffaele Ajello, La città dei dottori, Napoli, Jovene, 1993.

 

[31] Montesquieu, Viaggio in Italia, a cura di Giovanni Macchia e Massimo Colesanti, Roma-Bari, Laterza, 1990, 215.

 

[32] Cfr. Cortese, Il governo spagnolo cit., 69-73; Giuseppe Galasso, Storia del Regno di Napoli, II, Il Mezzogiorno spagnolo (1494-1622), Torino, Utet, 2006, 970-971; Ileana del Bagno, Il Collegio napoletano dei dottori. Privilegi, decreti, decisioni, Napoli, Jovene, 2000, 73-84; José Maria Garcia Marín, Teoría política y gobierno en la Monarquía Hispánica, Madrid, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, 1998, 143-169, sulla formazione delle élites dominanti con un’interessante comparazione tra la realtà spagnola e quella napoletana; Vittor Ivo Comparato, Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti dell’ideologia del magistrato nell’età moderna, Firenze, Olschki, 1974, 245-288, sulla ricaduta delle riforme del Lemos.

 

[33] Giannone, Istoria civile cit., VI, 279.

 

[34] Sull’insegnamento del diritto nell’età moderna cfr. Helmut Coing, Die juristische Facultät und ihr Lehrprogram, in Handbuch der Quellen und Literatur der neuren europäischen Privatrechtsgeschichte, I, Mittelalter (1100-1550), hrsg. von Helmut Coing, München, C.H. Beck, 1973, II, 1, 3-69; Id., L’insegnamento del diritto nell’Europa dell’Ancien Régime, «Studi senesi», serie III, 19 (1970), n. 2, 181-193; Franz Wieacker, Storia del diritto privato moderno con particolare riguardo alla Germania, pres. di Umberto Santarelli, I, Milano, Giuffrè, 1980 (II ed. Göttingen, Vendenhoek & Ruprecht, 1967), 127-130, 305-321; Annalisa Belloni, L’insegnamento giuridico in Italia e in Francia nei primi decenni del Cinquecento e l’emigrazione di Andrea Alciato, in Università in Europa: le istituzioni universitarie dal Medio Evo ai nostri giorni. Strutture organizzazione funzionamento, a cura di Andrea Romano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995, 137-158; Italo Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, 54-69, 233-239; Andrea Romano, Daniela Novarese, L’insegnamento del diritto da Alciato a Grozio, in Le università dell’Europa. Le scuole e i maestri cit., 149-167; Paul F. Grendler, The universities of the Italian Renaissance, Baltimore & London, The Johns Hopkins University Press, 2002, 430-473, con aggiornata bibliografia; Ennio Cortese, Contenuti e metodi dell’insegnamento: il diritto nei secoli XI-XV, e Italo Birocchi, Contenuti e metodi dell’insegnamento: il diritto nei secoli XVI-XVIII, entrambi in Storia delle Università in Italia, a cura di Gian Paolo Brizzi, Piero Del Negro, Andrea Romano, II, Messina, Sicania, 2007.

 

[35] Ennio Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Il basso medioevo, Roma, Il Cigno Galileo Galilei, 1995, 454; cfr. anche Domenico Maffei, Gli inizi dell’umanesimo giuridico, Milano, Giuffrè, 1956, 156-176.

 

[36] Maffei, Gli inizi dell’umanesimo cit., 37.

 

[37] Lorenzo Valla, Prefazione al terzo libro delle Eleganze, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di Eugenio Garin, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, 613. Cfr. Vincenzo De Caprio, Elegantiae di Lorenzo Valla, in Letteratura italiana. Le Opere, dir. da Alberto Asor Rosa, I, Dalle origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1991, pp 647-679, con relativa bibliografia. Cfr. Mario Speroni, Lorenzo Valla a Pavia: il libellus contro Bartolo, «Quellen und Forschungen aus italianieschen Archiven und Bibliotheken», 59 (1979), 454-467; inoltre Mariangela Regoliosi, L’Epistola contra Bartolum del Valle, in Filologica umanistica. Per Gianvito Resta, a cura di Vincenzo Fera e Giacomo Ferraù, II, Padova, Libreria Antenore, 1997, 1501-1571.

 

[38] Cfr. Mariangela Regoliosi, Nel cantiere di Valla. Elaborazione e montaggio delle “Elegantiae”, Roma, Bulzoni, 1993, 1-35, e il classico lavoro di Eugenio Garin, L’Umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1952, 62-69.

 

[39] Cfr. Matteo Vegio, De verborum significatione, in Opera novis et argumentis et scholiis illustrata, Brixiae, apud Damianum Turlinum, 1564, e in Opera, I, Laudae, ex Typographia Pauli Bertoeti, 1613. Cfr. Maffei, Gli inizi dell’umanesimo cit., 41-44. Su Vegio cfr. Luigi Raffaele, Matteo Vegio: elenco delle opere, scritti inediti, Bologna, Zanichelli, 1909; W.S. Maguinnes, Maffeo Vegio continuatore dell’Eneide, Milano, Vita e Pensiero, 1968, passim.

 

[40] Maffei, Gli inizi dell’umanesimo cit., 42. Cfr. Mario Speroni, Il primo vocabolario giuridico-umanistico: il “De verborum significatione” di Matteo Vegio, «Studi Senesi», 88 (1976), 7-43. Sulla cultura giuridica nello Studio pavese del Quattrocento cfr. Gigliola di Renzo Villata, Scienza giuridica e legislazione nell’età sforzesca, e Agostino Sottili, L’Università di Pavia nella politica culturale sforzesca, entrambi in Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti con gli Stati italiani del tempo (1450-1530), Milano, Cisalpino-Goliardica, 1982, rispettivamente 65-145, 519-580.

 

[41] Cfr. Eduard Fueter, Storia della storiografia moderna, trad. it. di Altiero Spinelli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1970 (I ediz. München-Berlin, Olenburg, 1936), 39-50, 130-144; Denys Hay, Storici e cronisti dal Medioevo al XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 1981 (I ediz. London, Methuen & co., 1977), 93-115; Maffei, Gli inizi dell’umanesimo cit., 109-118; Eugenio Garin, La storia nel pensiero del Rinascimento, in Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari, Laterza, 1954, 192-210; gli atti del convegno (Messina, 22-25 ottobre 1987) La storiografia umanistica, I, Messina, Sicania, 1992.

 

[42] Eugenio Garin, Il filosofo e il mago, in L’uomo del Rinascimento, a cura di Eugenio Garin, Roma-Bari, Laterza, 1988, 177; Id., Leggi, diritto e storia nelle discussioni dei secoli XV e XVI, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche cit., 417-435.

 

[43] François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, a cura di Mario Bonfantini, I, Torino, Einaudi, 1953, 222-227. Cfr. il Catalogue de la bibliothèque de l’abbaye de Saint-Victor au seizième siècle rédigé par François Rabelais, commenté par le bibliophile Jacob et suivi d’un Essai sur les bibliothèques immaginaires par Gustave Brunet, Paris, J. Techener, 1862; Le Catalogue de la bibliothèque de Saint-Victoire de Paris de Claude de Granduc (1514), édition de Gilbert Ouy et de Veronika Gerz-von Buren, Paris, Éditions du CNRS, 1983, secondo cui ai tempi di Rabelais la biblioteca possedeva 1.049 manoscritti incatenati a 52 leggii. Sugli orizzonti culturali di Rabelais cfr. l’ancora fondamentale studio di Lucien Febvre, Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais, Torino, Einaudi, 1978 (I ed. Paris, Albin Michel, 1942).

 

[44] Cfr. Francesco Calasso, Bartolismo, in Enciclopedia del diritto, V, Milano, Giuffrè, 1959, 71-74, e, dello stesso, L’eredità di Bartolo, ora in Storicità del diritto, Milano, Giuffrè, 1966, 317-337; la fortuna cinquecentesca di Bartolo era dovuta anche a fatto che nel suo pensiero il diritto romano veniva a costituire una sorta di «parte generale» riguardo al diritto statutario, e di conseguenza serviva ad “illuminare” quest’ultimo: C. Karsten, Die Lehre vom Vertrage bei den italienischen Juristen, Rostock, Werther’s Verlag, 1882, 150; cfr. anche Bruno Paradisi, La diffusione europea del pensiero di Bartolo, in Bartolo da Sassoferrato. Studi e documenti per il VI centenario, I, Milano, Giuffrè, 1962, 395-472; Diego Quaglioni, Il pubblico dei legisti trecenteschi: i “lettori” di Bartolo, in Scritti di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei, Padova, Antenore, 1991, 181-201. «L’opinione di Bartolo – ha osservato Paolo Grossi a proposito dell’interpretatio –, cioè di quello che è ritenuto il più autorevole giurista del diritto comune, non ha assolutamente carattere normativo; ha invece carattere normativo la interpretatio Bartoli come congiunzione fra un testo autoritativo e una costruzione dottrinale, fra momento di validità e momento di effettività»: Paolo Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995, 227.

 

[45] Cortese, Lo Studio di Napoli cit., 4.

 

[46] Cfr. Francesco Calasso, Bartolo da Sassoferrato, in Dizionario biografico degli italiani, VI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1964, 665; Dallari, Rotuli dei lettori legisti e artisti cit., II, XI.

 

[47] Cfr. Simeoni, Storia dell’Università di Bologna cit., II, 105.

 

[48] I Capitoli dello Studio della Nobile città di Messina, a cura di Daniela Novarese, pref. di Andrea Romano, Messina, Sicania, 1993, 41-42, 46. Cfr. Andrea Romano, «Primum ac Prototypum Collegium Societatis Iesu» e «Messanense Studium Generale». L’insegnamento universitario a Messina nel Cinquecento, in Studi e diritto nell’area mediterranea in età moderna, a cura di Andrea Romano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1993, 144-145; Daniela Novarese, Istituzioni politiche e studi di diritto fra Cinque e Seicento. Il Messanense Studium generale tra politica gesuitica e istanze egemoniche cittadine, Milano, Giuffrè, 1994, 189-207, sull’insegnamento del diritto nello Studio messinese.

 

[49] Cfr. Biagio Brugi, I giureconsulti italiani del secolo XVI, in Per la storia della giurisprudenza cit., 105.

 

[50] Su Catania cfr. Giuseppe La Mantia, L’Università degli Studi di Catania e le pretensioni di Messina e Palermo, «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», serie II, 12 (1934), 304 ss.; Giuseppina Nicolosi Grassi, “Audiencia” e “quietitudine” alle lezioni di Cosimo Nepita nello Studio di Catania, «Rivista internazionale di diritto comune», 1 (1990), 183-191. Sulle università sarde cfr. Raimondo Turtas, La nascita dell’università in Sardegna. La politica culturale dei sovrani spagnoli nella formazione degli Atenei di Sassari e di Cagliari (1543-1632), Sassari, Università di Sassari, Dipartimento di Storia, 1988, 75-94; Id., Scuola e Università in Sardegna tra ’500 e ’600. L’organizzazione dell’istruzione durante i decenni formativi dell’Università di Sassari (1562-1635), Sassari, Centro interdisciplinare per la Storia dell’Università di Sassari, 1995, 99-108, 322-323.

 

[51] Annibale Roero, Lo scolare, dialoghi ne’ quali con piacevole stilo a pieno s’insegna il modo di fare eccellente riuscita ne’ più gravi studij e la maniera di procedere honoratamente, Pavia, ad instantia di Gio. Battista Vismara, s.d. (ma 1604), 14. Su Roero cfr. Giulio Vismara, Vita di studenti e studio del diritto nell’Università di Pavia alla fine del Cinquecento, ora in Scritti di storia giuridica, 3, Istituzioni lombarde, Milano, Giuffrè, 1987, 147-215.

 

[52] Cfr. a questo proposito Antonio García y García, Bartolo de Saxoferrato y España, in Derecho comun en España. Los juristas y sus obras, Murcia, Universidad de Murcia, 1991, 99-128.

 

[53] Cfr. Jesús Lalinde Abadía, Iniciación histórica al derecho español, Barcelona, Editorial Ariel, 1983, 133.

 

[54] Elio Antonio de Nebrija, Lexicon iuris civilis adversus quosdam insignes Accursii errores..., Lugduni, excudebat Joannes Barbous, alias Le Normand, 1537. Nell’Italia del Cinquecento ebbe una buona diffusione il Vocabolarium utriusque iuris, Venetiis, apud Hieronymum Scotum, 1547, ristampato a Venezia nel 1575 da Michele Bonelli e poi sempre nella città lagunare in altre 8 edizioni nel 1581, 1584, 1589, 1597, 1599, 1606, 1612 e 1622. Cfr. Dennis E. Rhodes, Le edizioni italiane delle opere di Nebrija, in «La Bibliofilia», (2004), n. 3, 277-289; Catalogo de la exposición bibliográfica de Elio Antonio de Nebrija, Luis Maria Plaza Escudero coord., Barcelona, Diputación provincial de Barcelona. Biblioteca Central, 1950, ad indicem. Su Nebrija giurista cfr. Piero Fiorelli, Vocabolari giuridici fatti e da fare, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 84 (1947), 293-327; Antonio García y García, Las anotaciones de Elio Antonio de Nebrija a las Pandectas, «Anuario de historia del derecho español», 35 (1965), 557-564. Nebrija era stato dal 1465 collegiale del Collegio di San Clemente a Bologna. Il suo umanesimo giuridico era quindi di matrice italiana: era anche a conoscenza dei progetti per un’edizione critica delle Pandette accarezzati da Angelo Poliziano negli anni novanta del Quattrocento. Nebrija aveva una limitata cultura giuridica ma avvertiva nel contempo la necessità di nuovi metodi di lettura e di interpretazione delle fonti romanistiche secondo i criteri della filologia umanistica.

 

[55] Codices operum Bartoli a Saxoferrato recensiti, a cura dell’Istituto per la storia dei postglossatori e commentatori dell’Università di Roma, II, Antonio García y García, Iter Hispanicum, Firenze, Olschki, 1973, VIII. I versi anonimi sono tradizionalmente attribuiti al poeta Juan de Mena (1411-1456).

 

[56] Vincente Beltrán de Heredia, Ruiz de Alegria, Bulario de la Universidad de Salamanca (1219-1549), III, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1966, 557-560.

 

[57] Cfr. Luis Enrique Rodríguez-San Pedro Bezares, La Universidad Salmantina del Barroco, periodo 1598-1625, II, Regimen docente y atmosfera intelectual, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 1986, 506-511; Francisco Javier Alejo Montes, La Universidad de Salamanca bajo Felipe II: 1575-1598, Valladolid, Consejería de Educación y Cultura, 1998, 116-121.

 

[58] Ordenaçoes Filipinas, Lisboa, Pedro de Craesbeeck, 1603, lib. III, tit. LXIV. Cfr. anche Mário Jùlio de Almeida Costa, História do direito portoguês, Coimbra, Almedina, 1989, 288-293.

 

[59] Antonio Marongiu, Legislatori e giudici di fronte all’autorità dei giuristi, in Studi di storia e di diritto in onore di Enrico Besta, III, Milano, Giuffrè, 1939, 456-457.

 

[60] Gesamtkatalog der Wiegendrucke, Leipzig, Karl W. Hiersemann, 1928, nn. 3525, 3605, 3616, 3617, 3631, 3941, 3509, 3549, 3550, 3566, 3569; Federico Carlo de’ Savigny, Storia del diritto romano nel Medio Evo, tradotta da Emanuele Bollati, II, Torino, Gianini e Fiore, 1857, 642-651; Martin Lowry, Nicolas Jenson e le origini dell’editoria veneziana nell’Europa del Rinascimento, Roma, Il Veltro editrice, 2002 (I ediz. Oxford, Blackwell, 1991), 222-223, 374-379.

 

[61] Il primo e il secondo tomo dei Commentaria sono dedicati al Digestum Vetus, il terzo e il quarto all’Infortiatum, il quinto e il sesto al Digestum Novum, il settimo e l’ottavo al Codex, il nono comprende i Consilia, le Quaestiones e il Tractatus. L’edizione anastatica dei Commentaria editi da De Tortis è stata pubblicata da Il Cigno Galileo Galilei, Roma, 1996.

 

[62] Paolo Camerini, Annali dei Giunti, I, Venezia, 2, Firenze, Sansoni antiquariato, 1963, n. 728, 39-40; Catalogue of books printed on the continent of Europe from the beginning of printing to 1600 in the library of the Max-Planck-Institut für Europäische Rechtsgeschichte, Frankfurt am Main, compiled by Douglas J. Osler, Frankfurt am Main, Klostermann, 2000, nn. 264-272, 71-73; Index Aureliensis. Catalogus librorum sedecimo saeculo impressorum, III, Aureliae Aquensis, Fondation Index Aureliensis, 1968 (d’ora in poi IA), 236-297, per un dettagliato quadro delle edizioni cinquecentesche.

 

[63] Cfr. Vincenzo Colli, Le opere di Baldo dal codice d’autore all’edizione a stampa, in VI Centenario della morte di Baldo degli Ubaldi 1400-2000, a cura di Carla Frova, Maria Grazia Nico Ottaviani, Stefania Zucchini, Perugia, Università degli Studi, 2005, 83-85; Id., Incunabula operum Baldi de Ubaldis, «Ius Commune», 26 (1999), 241 ss.; Lowry, Nicolas Jenson cit., 274-275, 382; Kenneth Pennington, The Consilia of Baldus de Ubaldis, «Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis», 56 (1988), 85-92; Id., Baldus de Ubaldis, «Rivista internazionale di diritto comune», 8 (1997), 35-61; la rivista «Ius Commune», 27 (2000), ha dedicato un numero monografico a Baldo in occasione del sesto centenario della morte; Cristina Danusso, Baldo e i “Libri Feudorum”, in “Panta rei”. Studi dedicati a Manlio Bellomo, a cura di Orazio Condorelli, II, Roma, Il Cigno Edizioni, 2004, 69-88; Ludovicus Hain, Repertorium bibliographicum in quo libri omnes ab arte typographica inventa usque ad annum MD typis expressi ordine alphabetico, I, Berlin, Josef Altmann, 1925, nn. 2271-2338; ICCU.

 

[64] ICCU. Giason del Maino pubblicò con glosse e additiones la Lectura super Institutionum del professore pavese Cristoforo Porco (morto nel 1483): Excellentissimi iuris utriusque doctoris domini Christophori Porci insignis lectura super primo, secundo et tertio Institutionum cum additionibus Iasonis de Mayno..., Tridini, per Ioannem Iolitum, 1509. Dell’opera di Porco furono stampate 19 edizioni sino al 1585. Le opere complete di Giason del Maino furono pubblicate a Torino da Niccolò Bevilacqua nel 1573 e a Venezia nel 1590 dalla Società dell’Aquila.

 

[65] La bibliografia sull’argomento è vastissima. Cfr. comunque in particolare Roberto Abbondanza, Culti (Scuola dei), in Enciclopedia del diritto, XI, Milano, Giuffrè, 1962, 464-470; Myron P. Gilmore, Humanists and Jurists. Six studies in the Renaissance, Cambridge, Cambridge University Press, 1963; Guido Kisch, Humanistic Jurisprudence, «Studies in the Renaissance», 8 (1961), 71-87; Francisco Carpintero, “Mos italicus” “mos gallicus” y el humanesimo racionalista. Una contribución a la historia de la metodologia jurídica, «Ius Commune», 6 (1977), 108-171, e soprattutto Hans Erich Troje, Die Literatur des gemeinen Rechts unter dem Einfluss des Humanismus, in Handbuch der Quellen cit., II, 1, Neuere Zeit, 615-754, cui si rinvia.

 

[66] Cfr. Vincenzo Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese. Lineamenti generali, Napoli, Liguori, 1990, 195 ss.; Belloni, L’insegnamento giuridico in Italia e in Francia cit., 137-158, ha giustamente confutato l’opinione secondo cui, mentre in Italia all’epoca di Alciato si continuava ad insegnare secondo il mos italicus, in Francia, al contrario, si fosse già repentinamente affermato il metodo storico-filologico del mos gallicus.

 

[67] Rabelais, Gargantua cit., I, 216. Cfr. anche Enzo Nardi, Rabelais e il diritto romano, «Studi urbinati», 12 (1963), 39 ss.

 

[68] Marcel Fournier, Les statuts et les privilèges des universités françaises depuis leur fondation jusqu’en 1798, IV, Paris, L. Larose editeur, 1894 (rist. anast. Bologna, Forni, 1969), 144-145; cfr. anche Laurence W.B. Brockliss, Le contenu de l’enseignement et la diffusion des idées nouvelles, in Histoire des universités en France, sous la direction de Jacques Verger, Toulouse, Privat, 1986, 231-239.

 

[69] Fournier, Les statuts cit., IV, 418-419.

 

[70] Cfr. a proposito di Budé e della scuola culta francese gli studi di Vincenzo Piano Mortari, Diritto romano e diritto nazionale in Francia nel secolo XVI, Milano, Giuffrè, 1962, 31 ss.; Id., Itinera juris. Studi di storia giuridica dell’età moderna, Napoli, Jovene, 1991, 69-78, 113-140, 367-398; Michel Reulos, L’influence des juristes humanistes sur l’évolution du droit en France (enseignement et pratique) au XVIe siècle et au début du XVIIe siècle, in La formazione storica del diritto moderno in Europa, I, Firenze, Olschki, 1977, 281-288; Pierre Legendre, La France et Bartole, in Bartolo da Sassoferrato cit., I, 133-172; David O. Mc Neil, Guillaume Budé and humanism in the Reign of Francis I, Genève, Droz, 1975, 771-791; Manlio Bellomo, L’Europa del diritto comune, Roma, Il Cigno Galileo Galilei, 19915, 220-223; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 12-14, 23-41; Douglas J. Osler, Budaeus and Roman law, «Ius commune», 13 (1985), 195-212; Domenico Maffei, Les débuts de l’activité de Budé, Alciat et Zase, in Pédagogues et juristes, Congrès du Centre d’Études Supérieures de la Renaissance de Tours (été 1960), Paris, Vrin, 1963, 93-106; Id., Gli inizi dell’umanesimo cit., 128-130, e il vecchio studio di Louis Delaruelle, Guillaume Budé (1468-1540). Les origines, les débuts, les idées maîtresses, Paris, Champion, 1907; Petra Nagel, Budé (Budaeus), Guillaume, in Juristen. Ein biographisches Lexikon. Von der Antike bis zum 20. Jahrhundert, hrg. von Michael Stolleis, München, Beck, 1995, 104-106; José Luis de los Mozos, Guillaume Budé, in Juristas universales cit., II, 97-100, con bibliografia aggiornata.

 

[71] Cfr. Vincenzo Piano Mortari, La sistematica come ideale umanistico dell’opera di Francesco Connano, in La storia del diritto nel quadro delle discipline storiche cit., 521-531; Wilfrid Vogt, Franciscus Duarenus, 1509-1559: sein didanctisches Reformprogramm und seine Bedeutung für die Entwicklung der Zivilrechtsdogmatik, Stuttgart, Kohlhammer, 1971; Jochen Otto, Duaren (Duarenus), François, in Juristen cit., 179-180; Ana Mohíno, François Le Duaren, Manuel Jesús Rodríguez Puerto, François Connan, entrambi in Juristas universales cit., II, 185-188, 183-185.

 

[72] Cfr. Arnout Philip Theodor Eyssel, Doneau, sa vie et ses ouvrages. L’École de Bourges: synthèse du droit romain au XVIe siècle, son influence jusqu’à nos jours, Dijon, Veuve Decailly, 1860 (rist. anast. Genève, Slatkine, 1970); Roderich von Stintzing, Hugo Donellus in Altdorf, Erlangen, Verlag Eduard Besold, 1869; Robert Feenstra, Donello e Grozio: l’influenza dei loro «sistemi» sull’evoluzione del diritto privato in Europa, «Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti», 58 (1989), 16-30; Jean-Louis Thireau, Hugues Doneau et les fondaments de la codification moderne, «Droits», 26 (1997), 81-100; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 28-35; Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese cit., 233-239, 368-374; Ernst Holthöfer, Doneau (Donellus) Hugo, in Juristen cit., 175-177; Juan Miguel Albuquerque, Hugues Doneau, in Juristas universales cit., II, 232-238, con bibliografia aggiornata.

 

[73] Cfr. a questo proposito Esteban Varela, Jacques Cujas, in Juristas universales cit., II, 223-224; oltre il vecchio studio di Ernst Peter Johann Spangenberg, Jacob Cujas und seine Zeitgenossen, Leipzig, Hartknoch, 1822; Pierre Mesnard, La place de Cujas dans la querelle de l’humanisme juridique, «Revue historique de droit français et étranger», serie IV, 28 (1950), 521-537; Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese cit., 358-365; Hans Erich Troje, Graeca leguntur. Die Aneignung des byzantinischen Rechts und die Entstehung eines humanistichen Corpus iuris civilis in der Iurisprudenz des 16 Jahrhunderts, Köln-Wien, Böhlau, 1971, 109 ss.; Jochen Otto, Cujas (Cujacius), Jacques, in Juristen cit., 146-147. Le sue Opera omnia vennero pubblicate a Parigi nel 1584, a Francoforte nel 1595 e a Colonia nel 1596.

 

[74] Paul Koschaker, L’Europa e il diritto romano, intr. di Fancesco Calasso, Firenze, Sansoni, 1962, 193.

 

[75] François Hotman, Franco-Gallia, ed. an. della trad. francese del 1574, a cura di Antoine Leca, Aix-en-Provence, Presses Universitaires d’Aix-Marseille, 1991. Cfr. Nicola Matteucci, Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Torino, Utet, 1978, 34-42; Étienne Blocaille, Étude sur François Hotman. La Francogallia, Dijon, Imprimerie Jobard, 1902 (rist. anast. Genève, Slatkine, 1970); Beatrice Reynolds, Proponents of limited monarchy in sixteenth century France: Francis Hotman and Jean Bodin, New York, Columbia University Press, 1931; Pierre Mesnard, Il pensiero politico rinascimentale, a cura di Luigi Firpo, I, Bari, Laterza, 1963 (I ediz. Paris, Vrin, 1951), 507-521; Mario D’Addio, Il tirannicidio, in Storia delle idee politiche cit., III, 558-561.

 

[76] Rafael Domingo, Vicente Domínguez, François Hotman, in Juristas universales cit., II, 227-228; Rodolphe Dareste de la Chavanne, Hotman d’après de nouvelles lettres des années 1561-63, «Revue historique», 97 (1908); André Lemaire, Les Lois fondamentales de la Monarchie Française d’après les théoriciens de l’Ancien Régime, Paris, Albert Fontemoing éditeur, 1907, 92-111, sull’influenza culturale della Franco-Gallia; Denis Richet, Lo spirito delle istituzioni. Esperienze costituzionali nella Francia moderna, a cura di Francesco Di Donato, Roma-Bari, Laterza, 2002 (I ediz. Parigi, Flammarion, 1973), 127-129.

 

[77] Cfr. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 37-41; Donald R. Kelley, François Hotman. A revolutionary ordeal, Princeton, Princeton University Press, 1973, 192 ss.; Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese cit., 289-296; Jean-Louis Ferrary, À propos d’un texte de François Hotman. Les juristes humanistes et l’édition du Corpus iuris civilis glosé, in A Ennio Cortese cit., II, 86-104; Jochen Otto, Hotman (Hotomannus), François, in Juristen cit., 293-294.

 

[78] Rabelais, Gargantua cit., I, 241-242. Rabelais richiamava fra gli altri i giuristi Paolo di Castro, Giovanni Nicoletti da Imola, Ippolito Marsili, Niccolò Tedeschi detto il Panormita, Giovanni Bertacchino, Alessandro Tartagni e Franceschino Corti.

 

[79] François Duaren, De docendi discendique iuris ratione ad Andream Guillartum epistola..., Lug­duni, Sebastien Gryphius, 1547, passim; cfr. anche Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese cit., 254-256, e soprattutto Jean-Louis Thireau, L’enseignement du droit et ses méthodes au XVIe siècle. Continuité ou rupture?, «Annales d’histoire des Facultés de droit et de la science juridique», 1985, n. 2, 29-33.

 

[80] Jacques Cujas, De ratione docendi juris. Oratio habita in scholis Biturgum, Lutetiae, apud Fed. Morellum, 1594 (I ediz., Argentorati, excudebat Antonius Beltramus, 1585).

 

[81] Margherita Isnardi Parente, Introduzione a Jean Bodin, I sei libri dello Stato, I, a cura di Margherita Isnardi Parente, Torino, Utet, 1964, 13-14.

 

[82] Sul droit coutumier e sul droit civil français la bibliografia è assai vasta. Cfr. fra gli studi consultati Vittorio De Caprariis, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione, I, (1559-1572), Napoli, ESI, 1959, 153-301; Piero Craveri, Ricerche sulla formazione del diritto consuetudinario in Francia (sec. XIII-XVI), Milano, Giuffrè, 1969, 183-208; Vincenzo Piano Mortari, Potere regio e consuetudine redatta nella Francia del Cinquecento, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1 (1972), 131-175; Jean-Louis Thireau, L’alliance des lois romaines avec le droit français, in Droit romain, jus civile et droit français, sous la direction de Jacques Krynen, Toulouse, Presses de l’Université des Sciences Sociales de Toulouse, 1999, 347-374; Id., Le comparatisme et la naissance du droit français, «Revue d’histoire des Facultés de droit et de la science juridique», 10-11 (1990), 173-174; Jacques Krynen, Le droit romain, «droit commun de la France», «Droits», 38 (2003), 21-35, e nello stesso numero Jean-Louis Thireau, Droit national et histoire national: les recherches érudites des fondateurs du droit français, 37-51; Jacqueline Moreau-David, La coutume et l’usage en France de la rédaction officielle des coutumes au code civil: les avatars de la norme coutumière, «Revue d’histoire des Facultés de droit et de la science juridique», 18 (1997), 133 ss.; per un quadro d’insieme cfr. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 105-114; Jean-Marie Carbasse, Introduction historique au droit, Paris, Presses Universitaires de France, 2002, 187-250.

 

[83] Cfr. Italo Birocchi, Insegnamento e pratica del diritto nel Seicento giuridico francese, in “Panta rei” cit., I, 275-310, a cui si rinvia anche per la bibliografia aggiornata.

 

[84] Cit. in Alfred De Curzon, L’enseignement du droit français dans les Universités de France au XVIIe et XVIIIe siècles, «Nouvelle revue historique du droit français et étranger», 42 (1919), 309; Christian Chène, L’enseignement du droit français en pays de droit écrit (1679-1793), Genève, Droz, 1982, 1-17. De Launay ha lasciato un ampio commento alle Institutions coutumières di Antoine Loisel nell’edizione parigina del 1688. Cfr. anche Jacques Verger, Les universités françaises et le pouvoir politique du Moyen Age à la Révolution, in I poteri politici e il mondo universitario (XIII-XX secolo), a cura di Andrea Romano e Jacques Verger, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1994, 30-33.

 

[85] Cfr. Pedro Simón Abril, Apuntamientos de como se deben reformar las doctrinas y la manera de enseñarlas, para reducirlas a su antigua entereza y perfeción, en Madrid, en casa de Pedro Madrigal, 1589. Cfr. anche Romano, Novarese, L’insegnamento del diritto cit., 165.

 

[86] Cfr. Italo Birocchi, La formazione dei diritti patrî nell’Europa moderna tra politica dei sovrani e pensiero giuspolitico, prassi ed insegnamento, in Il diritto patrio tra diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX), a cura di Italo Birocchi e Antonello Mattone, Roma, Viella, 2006, 65-68.

 

[87] Cfr. Roberto Abbondanza, Alciato Andrea, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1960, 69-77; Maffei, Gli inizi dell’umanesimo cit., 128, secondo cui «gli assunti fondamentali della filologia umanistica vanno a costituire saldamente la struttura di un nuovo indirizzo metodologico nel campo stesso del diritto»; Cortese, Il diritto nella storia cit., II, 471-475, il quale ritiene che rappresentare Alciato «in veste di maître à penser denigratore di commenti e di consilia sarebbe una forzatura»; Douglas Osler, Andreas Alciatus (1492-1550) as philologist, in A Ennio Cortese, scritti promossi da Domenico Maffei, e raccolti a cura di Italo Birocchi, Mario Caravale, Emanuele Conte, Ugo Petronio, III, Roma, Il Cigno Edizioni, 2001, 1-7; Hans Erich Troje, Alciats Methode der Kommentierung des “Corpus iuris civilis”, in Der Kommentar in der Renaissance, hrsg. von August Buck und Otto Herding, Boppard, H. Boldt, 1975, 47-61; Pietro Vaccari, Andrea Alciato, in Scritti in memoria di Aldo Giuffrè, I, Milano, Giuffrè, 1967, 829-857 e i più vecchi studi di Hans de Giacomi, Andreas Alciatus, Basel, Oppermann, 1934; Paul Emile Viard, André Alciat, 1492-1550, Paris, Societé anonyme du Recueil Sirey, 1926; Ernst von Moeller, Andreas Alciat (1492-1550). Ein Beitrag zur Entstehungsgeschichte des modernen Jurisprudenz, Breslau, Marcus, 1907; ed anche R. Rodríguez Ocaña, Andrea Alciato, in Juristas universales cit., II, 147-150 con bibliografia aggiornata. Cfr. inoltre Marco Cavina, Gli eroici furori. Polemiche cinque-seicentesche sui processi di formalizzazione del duello cavalleresco, in Duelli, faide e rappacificazioni. Elaborazioni concettuali, esperienze storiche, a cura di Marco Cavina, Padova, Cedam, 2001, 121; Id., Il duello giudiziario per il punto d’onore. Genesi, apogeo e crisi nell’elaborazione dottrinale italiana (sec. XIV-XVI), Torino, Giappichelli, 2003, 106-110, secondo cui si trattava di un’opera «intimamente ambigua» che evitava «proclami troppo intransigenti». Le sue posizioni critiche che emergevano negli ultimi capitoli, «dove le dimostrazioni prettamente giuridiche si riducevano in termini angusti e facevano luogo ad ammonizioni ed incitamenti di natura umanistica». Cfr. anche Id., Il sangue dell’onore. Storia del duello, Roma-Bari, Laterza, 2005, 55-57.

 

[88] Cfr. IA, I, 293-312; Abbondanza, Alciato cit., 72-73.

 

[89] Cfr. Henry Green, Andrea Alciati and his books of emblems. A biographical and bibliographical study, London, Trubner & co., 1872. Cfr. anche l’opera manoscritta di epigrafia: Andrea Alciati, Mediolanensis I.C. antiquae inscriptiones veteraq. monumenta patriae (rist. anast. Milano, Cisalpino-Goliardica, 1973).

 

[90] Cit. e tradotto in Biagio Brugi, Un biasimo e un’apologia dei pareri legali dei nostri antichi professori, in Per la storia della giurisprudenza e delle università italiane. Nuovi saggi, Torino, Utet, 1921, 99-100. A proposito della condanna della giurisprudenza consulente, la cui produzione era diventata un’«ondata gigantesca», Cortese, Il diritto nella storia cit., II, 471, ha osservato che era «espressione tipica del vecchio metodo dialettico giunto all’ultimo stadio, quello non solo della totale subordinazione agli interessi del foro, ma addirittura dell’arrendevolezza al tornaconto delle parti».

 

[91] Il riferimento è a Claudius Cantiuncula, Topica legalia, Basileae, Cratander, 1520, sul «triumviratus ille pulcherrimus, apud Gallos Budaeus, Zasius apud Germanos, ac apud Italos Andreas Alciatus». Cfr. Hans Peter Ferslev, Claudius Cantiuncula: die didaktischen Schriften, Köln, Rechtswiss. Fak., 1967. Sull’insegnamento del diritto nelle università tedesche del Cinquecento cfr. Helmut Coing, Bartolus und der usus modernus Pandectarum in Deutschland, in Bartolo da Sassoferrato cit., I, 25-45; Id., Europäisches Privatrecht 1500 bis 1800, I, Älteres Gemeines Recht, München, Verlag C.H. Beck, 1985, 7-48; Id., Die juristische Fakultät cit., 59-61; Wieacker, Storia del diritto privato cit., I, 226-246; Guido Kisch, Humanism und Jurisprudenz. Der Kampf zwischen «mos italicus» und «mos gallicus» an der Universität Basel, Basel, Helbing & Lichtenhahn, 1955; Id., Die Anfänge der Juristischen Fakultät der Universität Basel, 1459-1529, Basel, Helbing & Lichtenhahn, 1962; Id., Claudius Cantiuncula, ein Basler Jurist und Humanist des 16. Jahrunderts, Basel, Helbing & Lichtenhahn, 1970; Aldo Mazzacane, Scienza, logica e ideologia nella giurisprudenza tedesca del secolo XVI, Milano, Giuffrè, 1971, 31-61; Id., Teorie delle scienze e potere politico nelle sistematiche tedesche del secolo XVI, in La formazione storica del diritto moderno cit., I, 288-316; Laetitia Boehm, Le università tedesche nell’età della riforma umanistica, della Riforma protestante e del confessionalismo, in Le università dell’Europa. Dal Rinascimento alle riforme religiose cit., 173-195; Bellomo, L’Europa del diritto comune cit., 232-237, e soprattutto Karl Heinz Burmeister, Das Studium der Rechte im Zeitalter des Humanismus im deutschen Rechtsbereich, Wiesbaden, Guido Pressler, 1974, cui si rinvia.

 

[92] Uldaricus Zasius, Intellectus iuris civilis singulares... tertio iam excusi et ipsius etiam additionibus locupletati, Friburgi Brisgoviae, excudebat Johannes Faber Emmeus, 1539, 41. Cfr. Hans Thieme, Les leçons de Zasius, in Pédagogues et juristes cit., 31-38.

 

[93] Cfr. oltre il classico studio di Roderich von Stintzing, Ulrich Zasius. Ein Beitrag zur Geschichte der Rechtswissenschaften in Zeitalter der Reformation, Basel, Schweighauser, 1857 (rist. an. Darmstadt, Wissenschäftliche Buchgeselleschaft, 1961), Steven Rowan, Ulrich Zasius. A jurist in the German Renaissance 1461-1535, Frankfurt am Main, Klostermann, 1987, 232-245, con l’elenco dettagliato delle edizioni; Karl Heinz Burmeister, Ulrich Zasius (1461-1535), in Humanismus im deutschen Südwestern: Biographische Profile, Paul Gerhard Schmidt hrsg., Sigmaringen, J. Thorbecke, 1993, 105 ss.; Steffen Bressler, Ulrico Zasio, in Juristas universales cit., II, 89-92; Berhard Pahlmann, Jan Schröder, Ulrich Zasius, in Deutsche und Europäische Juristen aus neun Jahrhunderten. Eine biographische Einführung in die Geschichte der Rechtswissenschaft, hrsg. von Gerd Kleinheyer und Jan Schröder, Heidelberg, C.F. Müller, 1996, 455-459.

 

[94] Cfr. Biagio Brugi, Come insegnavano gli antichi professori italiani, in Per la storia della giurisprudenza e delle università italiane. Saggi, Torino, Utet, 1915, 50-61; Grendler, The universities of the Italian Renaissance cit., 441-447, e per un quadro più ampio Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 82-85; Romano, Novarese, L’insegnamento del diritto cit., 149-155; Belloni, L’insegna­mento giuridico in Italia e in Francia cit., 137-158; Coing, L’insegnamento del diritto cit., 181-186; Jean-Louis Thireau, L’enseignement du droit et ses méthodes au XVIe siècle. Continuité ou rupture?, «Annales d’histoire des Facultés de droit et de la science juridique», 10-11 (1990), 153-191.

 

[95] Jacques Cujas, Paratitla in Libros quinquaginta Digestorum seu Pandectarum imperatoris Iustiniani, Coloniae, Johann Gymnich, 1577, epist. dedic.; cfr. inoltre Chiaudano, I lettori dell’Università di Torino ai tempi di Emanuele Filiberto (1566-1580) cit., 81, 87; Biagio Brugi, Disegno di una storia letteraria del diritto romano dall’età di mezzo ai tempi nostri con speciale riguardo all’Italia, in Per la storia della giurisprudenza e delle università italiane. Saggi cit., 18.

 

[96] Giorgio Zordan, Giurisprudenza, in L’Università di Padova. Otto secoli di storia, a cura di Piero Del Negro, Padova, Signum, 2001, 147; Biagio Brugi, L’Università dei giuristi di Padova nel Cinquecento, saggio di storia della giurisprudenza e delle Università italiane, «Archivio Veneto Tridentino», 1 (1922), 89.

 

[97] Cit. in Brugi, Come insegnavano cit., 51, 59-60. «False furono le accuse, specialmente nel secolo XVI, contro il mos italicus, che ora, possiamo dirlo – scrive Brugi –, era un’esagerazione del buon metodo antico. Leggendo un libro sullo stesso disegno delle lezioni, era possibile riflettere un poco per orientarsi, aiutati dal richiamo alla sedes materiae e da minuti indici: ma la lezione orale non dava tregua all’intelletto. La prolissità del maestro, il soffermarsi su tutto ciò che era stato detto, impediva di svolger molta materia. Si consumava dallo scolare carta e inchiostro senza costrutto alcuno, perché il pensiero annegava nel mare dialettico, né lo sorreggeva, naufragando, l’esempio dei casi: eran casi impossibili» ( 59).

 

[98] Sandro Serangeli, Atti dello Studium Generale Maceratense dal 1551 al 1579, Torino, Giappichelli, 1999, 224-225.

 

[99] Sulla vicenda cfr. Emanuele Conte, Umanisti e “bartolisti” tra i colleghi romani di Marc-Antoine Muret, «Rivista internazionale di diritto comune», 4 (1993), 171-190, con relativa bibliografia; I maestri della Sapienza di Roma dal 1514 al 1787: i rotuli e altre fonti, a cura di Emanuele Conte, I, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1991, 68.

 

[100] Marc-Antoine Muret, Commentarius in quattuor titulos e libro primo Digestorum iuris civilis, Ferrariae, apud Victorium Baldinum, 1581, opera di grande interesse per la ricostruzione delle XII Tavole e per i commenti ai frammenti di Gaio e Pomponio, dedicati alla storia dell’antico diritto romano, conservati nel primo libro del Digesto: cfr. Oliviero Diliberto, Bibliografia ragionata delle edizioni a stampa della legge delle XII Tavole, Roma, Robin edizioni, 2001, 99-100. Dall’orazione inaugurale del corso romano (Orationes (or. XXIII), Venetis, apud Hieronymum Polum, 1583, 113) si comprende quanto Muret fosse entusiasta del metodo proposto da Alciato e da Budé. Prometteva inoltre agli studenti di mantenersi fedele allo spirito dei testi di Labeone, Paolo, Gaio, Marcello, Ulpiano e agli altri iuris antistites.

 

[101] Cfr. Biagio Brugi, Marco Antonio Mureto e la cattedra di Pandette nello Studio di Padova, «Atti e memorie della regia Accademia di scienze, lettere e arti di Padova», 32 (1916), estratto. Gli studenti tedeschi scrissero affermando di desiderare le lezioni «sive ius civile interpretationem, sive quae cum hoc coniuncta sunt de optimo civitatis statu».

 

[102] Cfr. la biografia di Charles Dejob, Marc-Antoine Muret. Un professeur français en Italie dans la seconde moitié du XVIe siècle, Paris, E. Thorin, 1881, 176-187; sull’antibartolismo di Muret cfr. anche Paolo Grossi, La categoria del dominio utile e gli homines novi del quadrivio cinquecentesco, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 9 (1990), 212, ora in Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano, Giuffrè, 1992, 249-250.

 

[103] Il titolare dell’insegnamento sarà «D. Carolus Selvagus Thurius, professus per annos quatuor»: I maestri della Sapienza cit., I, 339. Secondo Filippo Maria Renazzi, Storia dell’Università degli Studi di Roma, II, Roma, Pagliarini, 1804 (rist. anast. Bologna, Forni, 1971), 177-178, nessuno «aveva osato dipartirsi dall’inveterato sistema, dal metodo e dalle dottrine introdotte dagli interpreti della scuola bartoliana». Cfr. inoltre Emanuele Conte, Accademie studentesche a Roma nel Cinquecento. De modis docendi et discendi in iure, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, 14-17.

 

[104] Cfr. Decretum Gratiani emendatum et notationibus illustratum una cum glossis, Gregorii XIII pontifici maximi iussu editum, Romae, in aedibus Populi Romani, 1582. Sui lavori della commissione e sui criteri adottati cfr. il severo giudizio di Troje, Graeca leguntur cit., 72-86, 153, 178-181, e Id., Die Literatur des gemeinen Rechts unter dem Einfluss des Humanismus cit., 664-667, per un orientamento bibliografico ed anche Aldo Adversi, Saggio di un catalogo delle edizioni del Decretum Gratiani posteriori al secolo XV, «Studia Gratiana», 6 (1959), 286-451, in particolare le 413-421.

 

[105] Cfr. Antonio Agustín, De emendatione Gratiani dialogorum libri duo, Tarracone, apud Philippum Mey, 1587; Francis de Zulueta, Don Antonio Agustín, Glasgow, Jackson, 1939; Pier Silverio Leicht, Rapporti dell’umanista e giurista spagnolo Antonio Agostino con l’Italia, «Atti della R. Accademia d’Italia», classe scienze morali e storiche, serie VII, 2 (1941), 375-384, ora in Scritti vari di storia del diritto italiano, II, 1, Milano, Giuffrè, 1948, 264-273; ed inoltre Stephan Kuttner, Antonio Agustín and the Correctores, «Traditio», 24 (1968), 505 ss.; Id., De Gratiani opere noviter edendo, «Apollinaris», 20 (1948), 118-119; Id., Antonio Agustín’s edition of the compilationes antiquae, «Bulletin of medieval canon law», n.s., 7 (1977), 1-14; Arturo Bernal Palacios, Antonio Agustín y su «Recollecta in iure canonico», «Revista española de derecho canónico», 45 (1988), 487-534; Tomás Gómez Pinán, Antonio Agustín (1517-1586), su significación en la ciencia canonica, «Anuario de historia del derecho español», 5 (1928), 346-388; Francisco Cuena, Antonio Agustín, in Juristas universales cit., II, 212-216, per una bibliografia aggiornata e l’elenco completo delle altre opere canonistiche. Cfr. Cesare Costa, Variarum ambiguitatum iuris libri tres, Neapoli, apud Horatium Salvianum, 1573; su Costa cfr. Emanuele Conte, Università e formazione giuridica a Roma nel Cinquecento, «La Cultura», 2 (1985), 328-346; Id., Umanisti e “bartolisti” cit., 179-180; oltre il profilo biografico di Enrico Stumpo, Costa Cesare, in Dizionario biografico degli italiani, XXX, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1984, 167-169.

 

[106] Cfr. in generale Danilo Marrara, Lo Studio di Siena nelle riforme del granduca Ferdinando I (1589 e 1591), Milano, Giuffrè, 1970, e in particolare Mario Ascheri, La scuola giuridica senese in età moderna, in L’Università di Siena, 750 anni storia, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1991, 136.

 

[107] Cfr. Giovanni Cascio Pratilli, L’Università e il Principe. Gli Studi di Siena e di Pisa tra Rinascimento e Controriforma, Firenze, Olschki, 1975, 168; Enrico Spagnesi, Il diritto, in Storia dell’Università di Pisa cit., I, 1, 244-245.

 

[108] Durante la docenza padovana Zuichemius aveva composto gli Instituta Theophilou anticessores. Institutiones iuris civilis in Graecam linguam per Theophilum antecessorem olim traductae, ac fusissime planissimeque explicatae, Parisiis, Chrestien Wechel, 1534, cioè l’edizione critica della Paraphrasis greca delle Institutiones di Giustiniano del bizantino Teofilo (morto nel 534), 5 edizioni sino al 1580. Del giurista olandese vanno ricordati anche i Commentaria in decem titulos Institutionum Iuris Civilis..., Lugduni, Nicolaus Petit, 1534, con 9 edizioni successive sino al 1591.

 

[109] Cfr. Atti della Nazione germanica dei legisti nello Studio di Padova, a cura di Biagio Brugi, I, Venezia, Deputazione veneta di storia patria, 1912, 344; Biagio Brugi, Origine e decadenza della cattedra di Pandette nelle nostre Università, in Per la storia della giurisprudenza e delle università italiane. Nuovi saggi, Torino, Utet, 1921, 140 ss.; Zordan, Giurisprudenza cit., 148.

 

[110] Cfr. Dallari, Rotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio bolognese dal 1384 al 1799 cit., II, XI; Simeoni, L’età moderna (1500-1800) cit., 105; Emilio Costa, La cattedra di Pandette nello Studio di Bologna nei sec. XVII e XVIII, «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», 1 (1909), 181 ss.

 

[111] Cfr. Maria Carla Zorzoli, La facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia (1535-1796), in Studi di storia del diritto, I, Milano, Giuffrè, 1996, 377-378.

 

[112] Cfr. a questo proposito Antonio Marongiu, Tiberio Deciani (1509-1582) lettore di diritto, consulente e criminalista, «Rivista di storia del diritto italiano», 7 (1934), 173-202; Enrico Spagnesi, Tiberio Deciani e il diritto giurisprudenziale. Per l’interpretazione dell’Apologia, in Tiberio Deciani (1509-1582). Alle origini del pensiero giuridico moderno, a cura di Marco Cavina, Udine, Forum, 2004, 315-331; Id., Deciani Tiberio, in Dizionario biografico degli italiani, XXXIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1987, 538-542; Michele Pifferi, Generalia delictorum. Il Tractatus criminalis di Tiberio Deciani e la “parte generale” di diritto penale, Milano, Giuffrè, 2006, 37-49; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 261-267; Biagio Brugi, I dialoghi di Alberico Gentili intorno agli interpreti delle leggi, in Per la storia della giurisprudenza e delle università italiane. Saggi cit., 78-88; Guido Astuti, Mos italicus e mos gallicus nei dialoghi “de iuris interpretationibus” di Alberico Gentili, in «Rivista di storia del diritto italiano», 10 (1937), n. 1, 149-207, n. 2, 229-347; Alberico Gentili, scritti e discorsi di Pietro De Francisci, Giorgio Del Vecchio, Amedeo Giannini, Arrigo Solmi, Roma, Anonima Romana editoriale, 1936; Cesina Herminia Johanna var der Molen, Alberico Gentili and the development of international law, Amsterdam, H.J., Paris, 1937; Diego Panizza, Alberico Gentili giurista ideologo nell’Inghilterra elisabettiana, Padova, La Garangola, 1982; Alberico Gentili giurista e intellettuale globale, Atti del convegno (25 settembre 1983), Milano, Giuffrè, 1988; Angela De Benedictis, Gentili Alberico, in Dizionario biografico degli italiani, LIX, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1999, 245-251; Carlo Venturini, Alberico Gentili, in Juristas universales cit., II, 290-292, per ogni ulteriore bibliografia.

 

[113] Tiberio Deciani, Apologia pro iuris prudentibus, qui responsa sua edunt. Imprimenda adversus dicta per Alciatum Parergon, lib. XII, cap. ult., Francofurti, apud Ioan. Wechelum, 1589 (I ediz. Venetiis, apud Hieronymum et Ioannem Zenarios, 1579). L’Apologia venne inserita successivamente nei Responsorum d. Tiberii Deciani Utinensis, clarissimi ac celeberrimi iuris utriusque consultissimi comitis..., Utini, Giovanni Battista Natolini, 1594 (ediz. successive Francoforte 1596, Venezia 1602). Secondo Brugi, Un biasimo e un’apologia cit., 105, «in alcuni punti del libro il Deciani è originale; ma in parecchi altri» emerge un atteggiamento eccessivamente favorevole ai Consilia: «Così in certo qual modo quest’Apologia prende il carattere di una collettiva risposta dei consulenti italiani al loro Aristarco».

 

[114] Cfr. Brian P. Levack, Law, in The history of University of Oxford, IV, Seventeenth-century Oxford, edited by Nicolas Tyacke, Oxford, Clarendon Press, 1997, 562-563, sull’insegnamento di Gentili ad Oxford.

 

[115] Cfr. Brian P. Levack, The civil law, theories of absolutism and political conflict in the late sixteenth and early seventeenth-century England, in The historical renaissance: new essays on Tudor and Stuart literatur and culture, Chicago, University of Chicago Press, 1988, 29-48; Id., The civil lawyers in England 1603-1641. A political studies, Oxford, Clarendon Press, 1973, 4-6.

 

[116] Alberico Gentili, De iuris interpretibus dialogi sex, a cura di Guido Astuti, pref. di Salvatore Riccobono, Torino, Istituto giuridico della Regia Università, 1937, 47-65, 82-83.

 

[117] «La nostra scuola – ha osservato Biagio Brugi – era di teoria e di pratica ad un tempo; gli scolari non volevano digressioni storiche [...]; il professore francese sul tipo di Bourges somigliava a un romanista di oggi; l’italiano era un civilista»: Brugi, I Dialoghi di Alberico Gentili cit., 86.

 

[118] Gentili, De iuris interpretibus cit., 169: «Lex semper loquitur, Quincte – si rivolge Gentili al suo interlocutore Quinto nel quarto dei Dialogi, sul tema «Dialectica studia non prodesse consulto iuris et interpreti» –, et ipsa est norma sapientissima, quae tempora, quae mores observat diligentissime. Quid ergo, si et illud tento, non ex aetate Iustiniani Caesaris accipiendas suas leges, sed apte ex hac nostra? Certe ita mihi suasum est, et placent maxime mei interpretes, qui ad sua tempora accomodarunt leges Iustiniani: nam dubium non est, quod si ille hodie viveret, nec faceret omnino aliter».

 

[119] Alberico Gentili, Disputationes tres: I, De libris Iuri Canonici; II, De libris Iuris Civilis; III, De Latinitate veteris Bibliorum versionis mala accusata, Hanoviae, apud Guil. Antonium, 1605, 54; cfr. anche Panizza, Alberico Gentili cit., 134-137.

 

[120] Piano Mortari, Gli inizi del diritto moderno in Europa cit., 304.

 

[121] Cfr. a questo proposito Salvatore Riccobono, Mos italicus e mos gallicus nella interpretazione del Corpus Iuris Civilis, in Acta Congressus Juridici Internationalis Romae 12-17 novembris 1934, 2, Romae, apud custodiam Institutum utriusque juris, 1935, 377-394, secondo cui gli umanisti, nell’intento di far emergere il contenuto originario delle parti classiche del Corpus iuris, non avevano tenuto conto delle variazioni più tarde che avevano «modernizzato» il diritto classico, ma anzi lo avevano condannato, finendo per insegnare «un diritto romano arcaico che non si adattava al presente». Giudizio ampiamente superato dalla storiografia più recente.

 

[122] Cfr. i vecchi studi di Luigi Chiappelli, La polemica contro i legisti nei secoli XIV, XV e XVI, «Archivio giuridico», 26 (1881), 296-322; Antonio Pertile, Storia del diritto italiano, II, 2, Storia del diritto pubblico e delle fonti, a cura di Pasquale Del Giudice, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1898, 425-435; Francesco Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano. Le fonti. Leggi e scienza, Città di Castello-Roma-Torino-Firenze, Lapi-Loescher, 1908, 699-708; e soprattutto Arrigo Solmi, Storia del diritto italiano, Milano, Società editrice libraria, 1908, 660-663. «Ma nella ferragine delle opinioni, nella abbondanza dei trattati, la scienza del diritto romano ha bisogno – ha scritto Solmi – di trovare un orientamento, fissando le regole del processo razionale; e questo orientamento non poteva essere dato che da un metodo analitico, il quale solo avrebbe consentito di volgere il dettato della legge romana verso la coscienza giuridica dei tempi nuovi. Questo spiega le regole e il favore dell’insegnamento more italico, ormai obbligato a una serie di forme logiche tradizionalmente fissate, che, pur consentendo una certa larghezza di interpretazione, giovavano tuttavia a restringere l’arbitrio» ( 663). In relativa controtendenza, Brugi, I giureconsulti italiani del secolo XVI cit., 99, ha affermato che delle «lotte degli umanisti contro i legisti fu esagerato e frainteso il valore; quelli rappresentavano tendenze allora fatalmente inattuabili. E i così detti culti romanisti, in ispecie francesi, erano fautori di una tendenza che degradava il diritto romano ad una pura erudizione o, anche si può dire, ad una specie di fredda filosofia del diritto». Maffei, Gli inizi dell’umanesimo cit., 16-17, ritiene che «tanta parte della storiografia sull’umanesimo giuridico, oltre che superficiale risulta affatto inutile e non rappresenta poi, in realtà, che uno strascico della polemica tra seguaci del mos gallicus e seguaci del mos italicus [...]; talvolta sembra che non si sia ancora spenta l’eco di quei contrasti, e che il conflitto sia ancora in atto e non sia perciò possibile procedere a una serena valutazione storica». Assume come punto di partenza questo orientamento Troje, Graeca leguntur cit., 402 ss., per capovolgere l’interpretazione corrente: cioè nei giuristi umanisti più che l’interesse per la ricostruzione, tramite la storia, del diritto romano classico si sarebbe affermata la dogmatica del diritto giustinianeo, ricostruito attraverso gli apporti filologici, in particolare delle fonti bizantine. Cfr. anche la recensione di Mario Ascheri, Un contributo sulla giurisprudenza umanistica, «Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis», 42 (1974), 138-146, ora in Id., Diritto medievale e moderno. Problemi del processo, della cultura e delle fonti giuridiche, Rimini, Maggioli, 1991, 146-155.

 

[123] Thireau, L’enseignement du droit cit., 29-31. In questa linea anche Piano Mortari, Itinera juris, cit., 69-78, 113-123, 367-372, e Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 7-12.

 

[124] Cfr. Biagio Brugi, Come gli Italiani intendevano la culta giurisprudenza, in Per la storia della giurisprudenza e delle università italiane. Nuovi saggi, Torino, Utet, 1921, 115-118; Roberto Abbondanza, La vie et les oeuvres d’André Alciat, in Pédagogues et juristes cit., 97-101; Belloni, L’insegnamento giuridico in Italia cit., 143-144.

 

[125] Andrea Alciato, De verborum significatione, libri quatuor. Eiusdem in tractatum eius argumenti veterum iureconsultorum commentaria, Lugduni, apud Sebastianum Gryphium, 1530, epist. dedic.: «Sed cum quaelibet ars sua habet vocabula, nobis necessario nostris utendum». Cfr. Brugi, Come gli italiani cit., 115-118; Roberto Abbondanza, Premières considérations sur la métholologie d’Alciat, in Pédagogues et juristes cit., 107-118; Gian Luigi Barni, Notizie del giurista e umanista Andrea Alciato su manoscritti non glossati delle Pandette, «Bibliotheque d’Humanisme et Renaissance», 20 (1958), 25-35, sulle ricerche filologico-giuridiche del giurista lombardo.

 

[126] Cfr. Belloni, L’insegnamento giuridico cit., 144-146.

 

[127] Cfr. Mario Ascheri, Un maestro del “mos italicus”: Gianfrancesco Sannazari della Ripa (1480-1535), Milano, Giuffrè, 1970, 33-37, 87-92; Gian Paolo Massetto, La cultura giuridica civilista, in Storia di Pavia, III, 2, Dal libero Comune alla fine del Principato indipendente 1024-1535, Pavia, Banca Regionale Europea - Banco del Monte di Lombardia, 1990, 522-525. Durante la frequenza avignonese Bonifacius Amerbach, in una lettera a Zasio del 13 luglio 1520, aveva giudicato Ripa più versato nella scienza giuridica dello stesso Alciato («in juribus superior»): Die Amerbachkorrespondenz cit., II, n. 743, rr. 46-49.

 

[128] Cfr. Emilio Costa, Andrea Alciato allo Studio di Bologna, «Atti della Deputazione di Storia patria per le Romagne», serie III, 21 (1903), 32.

 

[129] Brugi, I giureconsulti italiani del secolo XVI cit., 109.

 

[130] Cfr. Hans Thieme, Die beiden Amerbach: ein Basler Juristennachlass der Rezeptionseit, in L’Europa e il diritto romano. Studi in memoria di Paolo Koschaker, I, Milano, Giuffrè, 1954, 137 ss.; Guido Kisch, Bonifacius Amerbach, in Studien zur humanistichen Jurisprudenz, Berlin, de Gryter, 1972, 127 ss.; Hans Erich Troje, Bonifacius Amerbach als juristichen Gewissen der Blasler Rats, dargestellt anhand von dresseiner Gutachen, «Zeitschrift für Neuere Rechtsgeschichte», 19 (1997), 1 ss.

 

[131] Koschaker, L’Europa e il diritto romano cit., 203. Il riferimento è a Nüwe Stattrechten und Statuten der loblichen Statt Fryburg im Pryszgow gelegen, Basel, Adam Petri, 1520 (rist. anast. Aalen, Scientia Verlag, 1968). Cfr. Roderich von Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft, I, München, 1880 (ed. an. Aalen, Scientia Verlag, 1978), 685; Wieacker, Storia del diritto privato cit., I, 289-290; Hans Thieme, L’oeuvre juridique de Zasius, in Pédagogues et juristes cit., 39-47; Rowan, Ulrich Zasius cit., 123-134; Wendt Nassall, Das Freiburger Stadtrecht von 1520, Berlin, Duncker & Humblot, 1989; Steffen Bressler, Gesetzliche Erbfolge, testament und Pflichtteil im Freiburger Stadtrecht, «Forum Historiae Iuris», 3 (2000), rivista on line; Id., Ulrico Zasio cit., 89-92. Sul rapporto tra Riforma protestante e insegnamento del diritto cfr. i saggi compresi in Lutheran Reformation and the law, edited by Virpi Mäkinen, Leiden-Boston, Brill, 2006.

 

[132] Cfr. Wieacker, Storia del diritto privato cit., I, 253-254.

 

[133] Cfr. Johann Georg Theodor Muther, Aus dem Universitäts und Gelehrtenleben im Zeitalter der Reformation vorträge, Amsterdam, B. Schippers, 1966 (I ediz. Erlangen 1866), 230 ss., 435 ss.; Ernst Wolfang Böckenförde, Geschichte der Rechts und Staatsphilosophie, Tubingen, Mohr Siebeck, 2002, 371 ss.

 

[134] Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 287-291; Wieacker, Storia del diritto privato cit., I, 228, 236-237; Percy García Cavero, Johann Apel, in Juristas universales cit., II, 130-132.

 

[135] Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 123-125; Otto Stobbe, Geschichte der deutschen Rechtsquellen, II, Leipzig, Duncker & Humblot, 1860, 26-28 (rist. anast. Arlen, Scientia Verlag, 1965); Koschaker, L’Europa e il diritto romano cit., 192. Nel suo testamento politico scritto nel 1556 von Ossé auspicava «dei maestri che insegnassero come avevano insegnato gli antichi eccellenti maestri Bartolo e Baldo», perché allora nello Studio di Lipsia si sarebbero educati giuristi inadatti alla prassi e alle esigenze forensi: Wieacker, Storia del diritto privato moderno cit., I, 242.

 

[136] Cfr. Thireau, L’enseignement du droit cit., 32-35; Legendre, La France et Bartole cit., 154-170; e il più vecchio Jacques Flach, Cujas, les Glossateurs et les Bartolistes, «Nouvelle revue d’histoire de droit français et étranger», 1888, 205-227, e in generale Luigi Palazzini Finetti, Storia della ricerca delle interpolazioni nel Corpus iuris giustinianeo, Milano, Giuffrè, 1953.

 

[137] Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 113.

 

[138] Thireau, L’enseignement du droit cit., 33; cfr. anche Piano Mortari, Diritto romano e diritto nazionale cit., 67 ss., 99 ss., 126 ss.; Riccardo Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, Il Mulino, 1987, 202-207.

 

[139] François Hotman, Antitribonian ou discurs d’un grand et renommé Iurisconsulte de notre temps, sur l’estude des loix..., Paris, chez Ieremie Perier, 1603 (ed. anast. a cura di Henri Duranton, Saint-Étienne, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 1980), 156 ss. Cfr. Schupfer, Manuale di storia cit., 704-705; Jacques Krynen, Voluntas domini regis in suo regno facit ius. Le roi de France et la coutume, in El dret comú i Catalunya, ed. Aquilino Iglesia Ferreirós, Barcelona, Fundació Noguera, 1998, 59-89.

 

[140] Roero, Lo scolare cit., 45. Il riferimento è all’opera di Nikolaus Vigel, Methodus universi iuris civilis absolutissima, nunc denuo ab authore ipso recognita…, Basileae, ex officina Oporiniana, 1586. Cfr. Alejandro Guzmán, Nikolaus Vigel, in Juristas universales cit., II, 238-240, per ogni ulteriore bibliografia.

 

[141] Ivi, 18. Cfr. Vismara, Vita di studenti e studio del diritto cit., 190-197; ed anche per i giuristi tedeschi Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 309 ss., 485 ss.; Wieacker, Storia del diritto privato cit., I, 254. Cfr. in generale Zorzoli, La facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia (1535-1796) cit., 371-375.

 

[142] Ibidem.

 

[143] Cfr. Domenico Maffei, La biblioteca di Giminiano Inghirami e la “Lectura Clementinarum” di Simone da Brossano, in Proceedings of the Third International Congress of Medieval Canon Law, Strasbourg, 3-6 sett. 1968, edited by Stephan Kuttner, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1971, 235-236; Id., Dottori e studenti nel pensiero di Simone da Borsano, «Studia Gratiana», 15 (1972), 229-250, secondo cui il suo proemio alla lectura sulle Clementine con la trattazione specifica su dottori e studenti ha costituito l’archetipo (ampiamente saccheggiato) del De modo studendi di Caccialupi. Cfr. in generale su queste tematiche Thomas Edward Morissey, The art of teaching and learning law. A late medieval tract, «History of Universities», 8 (1989), 27-74.

 

[144] Cfr. Giuliana D’Amelio, Caccialupi, Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli italiani, XV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1972, 790-797; Carlo Dionisotti, Filologia umanistica e testi giuridici fra Quattro e Cinquecento, in La critica del testo, Atti del secondo congresso internazionale della società italiana di storia del diritto, I, Firenze, Olschki, 1971, 193-194; Domenico Maffei, Giovanni Battista Caccialupi biografo, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Kanonistische Abteilung», 83 (1997), 393-399; Paolo Nardi, Giovanni Battista Caccialupi a Siena: giudice delle Riformazioni e docente nello Studio, «Studi Senesi», serie III, 46 (1997), 83-124.

 

[145] Cfr. Dionisotti, Filologia umanistica cit., 194-195; Belloni, Professori giuristi a Padova cit.,  61-62, 65, 72, 259-263, per i dati biografici e le opere. A proposito della didattica patavina Can critica nelle materie canonistiche l’abitudine di tralasciare la parte più “spirituale” dei canoni a vantaggio delle Decretali e lamenta la mancanza nei corsi civilistici della Lectura feudorum, della Lectura Authenticorum e della Lectura Trium-librorum. Ritiene inoltre che la dialettica di derivazione aristotelica non sia necessaria per il giurista e deride di conseguenza la insolentia dyalecticorum. Secondo Mario Ascheri, Giuristi, umanisti e istituzioni del Tre-Quattrocento, in Diritto medievale e moderno cit., 122, si tratta di «un’operetta modesta che ha il merito d’una forma avvicinabile a quella apprezzata dagli umanisti e di un contenuto oggi utile per ricostruire il sistema di insegnamento in uso ai suoi tempi nello Studio padovano».

 

[146] Per la sua biografia cfr. Diego Quaglioni, Gribaldi Moffa, Matteo, in Dizionario biografico degli italiani, LIX, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2002, 345-349, cui si rinvia. Cfr. anche per le sue posizioni religiose gli studi di Delio Cantimori, Matteo Gribaldi Moffa chierese e l’Università di Tubinga, «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 35 (1933), 492-504; Id., Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Firenze, Sansoni, 19672, 203-211; Francesco Ruffini, Il giureconsulto chierese Matteo Gribaldi Moffa e Calvino, «Rivista di storia del diritto italiano», 1 (1929), 208-269; Antonio Rotondò, Calvino e gli antitrinitari italiani, «Rivista storica italiana», 80 (1968), 759-784; il vecchio lavoro di Cesare Nani, Di un libro di Matteo Gribaldi Mofa, «Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino», serie II, 35 (1884), 1-30 dell’estratto; Diego Quaglioni, La cultura giuridico-politica tra Quattro e Cinquecento, in Storia di Torino, II, Il basso Medioevo e la prima Età Moderna, a cura di Rinaldo Comba, Torino, Einaudi, 1997, 639-642.

 

[147] Matteo Gribaldi Moffa, De methodo ac ratione studendi libri tres, Venetiis, D. Giglio, 1559, ff. 27-29. Gribaldi aveva voluto scrivere un trattatello ad uso dei propri studenti di Tolosa e confessava candidamente di non aver avuto molto tempo a disposizione per organizzare ed elaborare compiutamente il proprio pensiero, essendo stato costretto dall’insistenza degli scolari e dell’editore a redigere la prima parte in soli otto giorni e a pubblicare questo frutto del suo ingegno – come scrive nell’Epistola dedicatoria «Tholosani legum auditoribus» –, «precox sane atque abortivum». Si tratta quindi di un testo dichiaratamente scolastico e ciò, in fondo, costituisce il suo pregio. Per l’analisi di quest’opera cfr. l’esauriente e approfondito studio di Diego Quaglioni, Tra bartolisti e antibartolisti. L’Umanesimo giuridico e la tradizione italiana nella Methodus di Matteo Gribaldi Moffa, in Studi di storia del diritto medioevale e moderno, a cura di Filippo Liotta, Bologna, Monduzzi, 1999, 185-212. Cfr. inoltre Troje, Graeca leguntur cit., 63-88; Adriano Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, I, Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, Giuffrè, 1979, 142-143; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 236-237.

 

[148] Quaglioni, Tra bartolisti cit., 211. Quaglioni ricorda che Gribaldi fu tra i primi a formulare il programma che si sintetizza nella formula «ius in artem redigere», cioè nella riduzione del diritto a scienza compendiosa e metodica, in anticipo con le tesi di Louis Le Caron e Jean de Coras.

 

[149] Cfr. ICCU.

 

[150] Brugi, La scuola padovana di diritto romano cit., 74-75. Cfr. Aldo Mazzacane, Cagnolo, Gerolamo, in Dizionario biografico degli italiani, XVI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1973, 334-335; Quaglioni, La cultura giuridico-politica cit., 637-638. Paolo Grossi, Ricerche sulle obbligazioni pecuniarie nel diritto comune, Milano, Giuffrè, 1960, 99, 227, 435, ha rivalutato la «finezza di analisi dogmatica» del giurista piemontese.

 

[151] Girolamo Lampugnani, Compendium introductionis ad Iustinianeas Institutiones. Et de ratione studendi in utroque iure, Romae, typis Francisci Corbelletti, 1627. Lampugnani riprendendo Gribaldi raccomandava: «Continua, Premitte, et Divide, Contrahe, Finge / Obijce, Confirma, Solve et Lege, Magna notato, / Estende, et Stringe, quod fert occasio, Deduc, / Haec faciens rite textus et iura docebis». Cfr. Orestano, Introduzione allo studio cit., 95; Romano, Novarese, L’insegnamento del diritto cit, 150-151. L’opera, agli inizi del Settecento, era ancora diffusa nell’ateneo romano: cfr. Maria Rosa Di Simone, La “Sapienza” romana nel Settecento, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1980, 77-78.

 

[152] Il testo della prolusione fu inserito nel volume De Iuris Methodo libri duo, Spirae, apud Bernardum Albinum, 1597, che raccoglie gli argomenti del corso tenuto nello Studio di Ginevra nel 1596. Cfr. Antonio Franceschini, Giulio Pace da Beriga e la giurisprudenza dei suoi tempi, «Memorie del Regio Istituto veneto di scienze, lettere ed arte», 27 (1903), n. 2, 12 ss.; Alain Dufour, Un adepte italien de l’humanisme juridique a Genève. Julius Pacius de Beriga (1550-1635) et son “De Iuris Methodo” (1597), in Genève et l’Italie, par Luc Monnier, Genève, Droz, 1969, 113-147; Orestano, Introduzione allo studio cit., 93-94, 622; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 238, e soprattutto Id., Causa e categoria generale del contratto. Un problema dogmatico nella cultura privatistica dell’età moderna, I, Il Cinquecento, Torino, Giappichelli, 1997, 195-208.

 

[153] Cfr. Vincenzo Piano Mortari, Diritto logica metodo nel secolo 16, Napoli, Iovene, 1978, 211-216; Id., L’ordo iuris nel pensiero dei giuristi del secolo XVI, in La sistematica giuridica. Storia, teoria e problemi attuali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1991, 277-294; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 112-113; A. London Fell, Origins of legislative sovereignity and the legislative State, I, Corasius and the Renaissance systematization of Roman Law, II, Classical, Medieval and Renaissance foundations of Corasius’ systematic methodologie, Königstein, Athenäeum, 1983; Enrique V. de Mora Quirós, Louis Le Caron (Charondas), e Francisco J. Andrés, Jean de Coras, entrambi in Juristas universales cit., II, 257-260, 209-212. Cfr. inoltre Birocchi, Causa e categoria generale del contratto cit., 95-136, 178-189, sul problema della sistematizzazione giuridica.

 

[154] Nell’Institutionum iuris canonici commentarium (Perusiae, ex officina Andreae Brixiani, 1560) Lancellotti narrò le peripezie dell’opera, denunciando le difficoltà opposte al suo innovativo e ambizioso “manuale”. Cfr. Lorenzo Sinisi, Nascita e affermazione di un nuovo genere letterario. La fortuna delle Institutiones iuris canonici di Giovanni Paolo Lancellotti, «Rivista di storia del diritto italiano», 77 (2004), 53-95, che costituisce il lavoro di riferimento. Cfr. inoltre Raissa Teodori, Lancellotti, Giovanni Paolo, in Dizionario biografico degli italiani, LXIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2004, 300-301; Maria Gabriella Caria, Le Institutiones iuris canonici di Giovanni Paolo Lancellotti (1522-1590): status quaestionis e nuove ricerche in corso, «Studi Urbinati», 69 (2001-02), 9-16; Jean Gaudemet, Les sources du droit canonique VIIIe-XXe siècles, Paris, Les éditions du cerf, 1993, 196-197; Jesús Miñambres, Giovanni Paolo Lancellotti, in Juristas universales cit., II, 225-226.

 

[155] ICCU. Già dal 1566 il giurista-editore veneziano Giovanni Battista Ziletti considera il manuale di Lancellotti come una delle opere di riferimento di portata generale in ambito canonistico («Institutiones Iuris Canonici per Iohannem Paulum Lancellottum perusinum»): Giovanni Battista Ziletti, Index librorum iuris pontificii et civilis, Venetiis, apud Bernardinum Ziletum et fratres, 1566, c. 10v. Nel 1583 il parmense Giulio Cesare Tinti, Tabulae sive introductiones in Institutiones Iuris Canonici in IIII libros distinctae..., Ferrariae, excudebat Victorius Baldinus, 1583, pubblicava una raccolta di schemi grafici tesi a sintetizzare i contenuti del manuale lancellottiano per facilitare la memorizzazione didattica del testo.

 

[156] Cfr. Sinisi, Nascita e affermazione cit., 60-62.

 

[157] Cfr. Marco Antonio Cucchi, Institutiones iuris canonici super ab ispo auctore et recognitae Intersertis etiam opportune Sacri tridentini Concilii constitutionibus, Papiae, apud Hieronimum Bartholum et Constantinum Soncinum socios, 1563. Su Cucchi cfr. Simona Negruzzo, Theologiam discere et docere. La facoltà teologica di Pavia nel XVI secolo, Milano, Cisalpino, 1995, 143; Caria, Le Institutiones cit., 28-34.

 

[158] Cfr. Caspar Ziegler, Jus canonicum notis et animadversionibus accademicis ad Johanni Pauli Lancellotti..., Wittenbergae, typis Mattaei Henckelii, 1669; Giovanni Paolo Lancellotti, Institutiones iuris canonici cum notis variorum praecipue arcana dominationis papalis, episcopalis et clericalis in Ecclesia Romana detegentibus, Halae Maydeburgicae, in officina libraria Reugeriana, 1715-1717, quattro volumi. Cfr. a questo proposito Sinisi, Nascita e affermazione cit., 69-74.

 

[159] Cfr. Coing, L’insegnamento del diritto cit., 184-185; Id., Die juristische Facultat cit., 36; Romano, Novarese, L’insegnamento del diritto cit., 161.

 

[160] Cfr. Stintzing, Geschichte der deutsche Rechtswissenschaft cit., I, 390-395; Troje, Die Literatur des gemeinen Rechts unter dem Einfluβ des Humanismus cit., 627-655; Aldo Mazzacane, Sistematiche giuridiche e orientamenti politici e religiosi nella giurisprudenza tedesca del secolo XVI, in Studi di storia del diritto medioevale e moderno cit., 213-252; Orestano, Introduzione allo studio cit., 582-584.

 

[161] Cfr. Claudius Cantiuncula, Paraphrasis in librum institutionum Iustiniani imperatoris, Hagenoae, ex officina Seceriana, 1533; Paraphrasis in secundum librum institutionum imperialium Iustiniani imperatoris, Hagenoae, excudebat Petrus Brubachius, 1534; Paraphrasis in tertium librum institutionum Iustiniani imperatoris, Norimbergae, apud Johannem Petreium, 1538; ristampate insieme col titolo Paraphrasis in libros tres priores institutionum Iustiniani imperatoris, Lovanii, typis Servatii Sasseni, 1549 (ristampe Lione 1550 e Lovanio 1562). Cfr. Ferslew, Claudius Cantiuncula cit.; Mazzacane, Sistematiche giuridiche cit., 219; Javier Fajardo, Claude Chansonette, in Juristas universales cit., II, 140-142, con elenco delle opere e recente bibliografia.

 

[162] Cfr. Silvestro Aldobrandini, Institutiones iuris civilis. Habes lector in novissima hac Institutionum imperialium editione textum ac glosas quam emendatissimas una cum additionibus..., Venetiis, eredi di Lucantonio Giunta, 1538. Cfr. anche Elena Fasano Guarini, Aldobrandini, Silvestro, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1960, 112-114.

 

[163] Cfr. Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese cit., 239-252; Erst Holthöfer, Baron de Kerlouan, in Juristen cit., 64-65; Gérard Guyon, Eguiner Baron, in Juristas universales cit., II, 155-157; Italo Birocchi, Gli sforzi per una nuova sistematica nel giusnaturalismo culto: il problema della partizione del diritto, in El dret comú i Catalunya, Actes del X Simposi (2-3 juny 2000), edició d’Aquilino Iglesia Ferreirós, Barcelona, Associació Catalana d’Historia del Dret, 2001, 69-70.

 

[164] Cfr. Marco Mantua Benavides, Isagogicus per quam brevis modus ad tollendos fere quoscumque licet inexplicabiles argumentorum nodos, Venetjis, apud Gabrielem Giolitum de Ferrarjis, 1544. Cfr. la voce anonima Mantova Benavides, Marco, in Novissimo Digesto Italiano, X, Torino, Utet, 1964, 188, con l’elenco delle opere.

 

[165] Cfr. l’esaustiva voce di Jan Hallebeek, Nicolaas Everaerts, in Juristas universales cit., II, 92-94, cui abbiamo abbondantemente attinto, ed inoltre Robert Feenstra, Everaerts (Everardi) Nicolaas, in Juristen cit., 194, e Otto Maria Dominicus Franciscus Vervaart, Studies over Nicolaas Everaerts (1462-1532) en zijn Topica, Arnhem, Gouda Quint, 1994, che costituisce oggi l’opera di riferimento e a cui si rinvia anche per la ricca bibliografia.

 

[166] I Topica vennero ristampati a Bologna nel 1528, a Venezia nel 1539, a Parigi nel 1543, a Basilea nel 1543, a Venezia nel 1544, a Lione nel 1545 e 1546. Dei Loci argumentorum legales furono stampate numerose edizioni, fra cui si distingue quella curata da Denis Godefroy (Strasburgo, 1603). Postuma venne pubblicata anche la Nomenclatura legum, Lovanij, excudebat Servatius Sessenus, 1551; opera concepita per il corso di studio legale del proprio figlio Adrian, comprende una raccolta di 247 opinioni giuridiche in forma di disputa che danno lo spunto all’autore per una rassegna sugli argomenti dei glossatori e dei commentatori medievali. Per il suo stile succinto e chiaro la Nomenclatura godette di un buon credito presso i contemporanei, anche se restava legata ad una concezione assai tradizionale della didattica giuridica.

 

[167] Cfr. a questo proposito Klaus Luig, Il diritto patrio in Germania, in Il diritto patrio tra diritto comune e codificazione cit., 91-100; Mazzacane, Sistematiche giuridiche cit., 213-234.

 

[168] Andreas Perneder, Institutiones. Aussung und Anzaigung etlicher geschriben kayserlichen und des heyligen Reichs Rechte, Ingolstadt, Weissenhorn, 1549, e l’opera feudistica, Der Lehenrechte kurze und eigentliche Verdentschung, Ingolstadt, Weissenhorn, 1544; Thomas Murner, Instituten ein warer Ursprung und Fundament der keyserlichen rechtens, Basel, Adam Petri, 1519. Altre traduzioni tedesche delle Institutiones furono quelle di Ortholf Fuchsberger, Justinianischer Instituten warhaffte dolmetschung, Ingolstadt, Weyssenhorn, 1541, e di Justin Göbler, Keyserlicher und des H. Reichs Rechten die vier Bücher der Instituten und Unterweisung Keysers Justiniani, Frankfort, Egenolff, 1552. Göbler è autore anche di un commento alla Carolina edito a Basilea nel 1543. Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 151-154; Wieacker, Storia del diritto privato cit., I, 252-253; Helmut Coing, Römisches Recht in Deutschland, in Ius Romanum Medii Aevii, auspice Collegio antiqui iuris studiis provehendis, V, 6, Milano, Giuffrè, 1964, paragrafo 50.

 

[169] La Practica, revisionata nel 1544, venne ripubblicata col titolo Actionum forensium progymnasmata, interpretatio item, complectens universi iuris cognitionem, in classem septem distincta..., Lugduni, Sebastien Gryphius, 1545, che ne accentuava la dimensione “scolastica”. In questa direzione anche gli altri testi “manualistici” stampati e distribuiti in tutta Europa da editori lionesi quali Sébastien Gryphe e Guillaume Rouillé: Loci communes iuris civilis, Lugduni, Sebastien Gryphius, 1545; Variarum lectionum libri ad iuris civilis interpretationem, Lugduni, Sebastien Gryphius, 1546; Lexicon iuris, seu epitome definitionum et rerum, Lugduni, Guiullaume Rouille, 1549; Topicorum legalium, hoc est: locorum seu notarum ex quibus argumenta et rationes legitime probandi sumuntur..., Lugduni, Sebastien Gryphius, 1555. Su Oldendorp (che si era laureato a Bologna nel 1515) cfr.: Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 311-338, assai ricco di informazioni; Wieacker, Storia del diritto privato cit., I, 430-432; Klaus Luig, Oldendorp Johann, in Neue Deutsche Biographie, XIX, Berlin, Dunke & Humblot, 1998, 514-518; Jochen Otto, Oldendorp, Johann, in Juristen cit., 462-463; Percy García Cavero, Johann Oldendorp, in Juristas universales cit., II, 137-140; Mazzacane, Sistematiche giuridiche cit., 238-241.

 

[170] Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 305-308; Bernhard Pahlmann, Melchior Kling, in Deutsche und Europäische Juristen cit., 231-234; Francisco J. Andrés, Melchior Kling, in Juristas universales cit., II, 180-183, entrambi con buona bibliografia.

 

[171] Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 485-494; Heirich Schreiber, Joachim Mynsinger von Frundeck, Freiburg, Gross, 1834; Jochen Otto, Mynsinger von Frundeck, Joachim, in Juristen cit., 449-450.

 

[172] ICCU. Anche l’opera “cameralistica” di Mynsinger, Singularium observationum iudicii imperialis camerae (uti vocant) centuriae quatuor iam primum in lucem emissae, Basileae, Nicolaeus Episcopius, 1563, ebbe un buon successo con 11 edizioni sino al 1691.

 

[173] Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 425-440; Michael Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland, I (1600-1800), Münich, Beck, 1988, 74-75; Alfred Söllner, Die Literatur zum gemeinen und partikularen Recht in Deutschland, Österreich, den Niederlanden und der Schweiz, in Handbuch der Quellen cit., II, 1, 506-509, 516-518, 533-538; Jan Schröder, Recht als Wissenschaft, Münich, Beck, 2001, 32 ss.; Aldo Mazzacane, Contrasti di scienza e rivalità accademiche in una lite del secolo XVI, «Ius Commune», 3 (1970), 10-32; Id., Umanesimo e sistematiche giuridiche in Germania alla fine del Cinquecento: “equità” e “giurisprudenza” nelle opere di Hermann Vultejus, «Annali di storia del diritto», 12-13 (1968-69), 257-319; Alejandro Guzmán, Nikolaus Vigel, in Juristas universales cit., II, 238-240, con elenco completo delle opere.

 

[174] Su Harprecht cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 144-145. Le sue Opera omnia, in sei tomi, furono pubblicate a Tubinga nel 1627-30 e a Francoforte nel 1637. Su Vulteius cfr., oltre gli studi di Mazzacane, Contrasti cit., 10 ss., e Umanesimo cit., 257 ss.; Id., Teorie delle scienze e potere politico nelle sistematiche tedesche del secolo XVI, in La formazione storica del diritto moderno cit., I, 315-316; Id., Sistematiche giuridiche cit., 247-252; Birocchi, Causa e categoria generale cit., 170-178; Alejandro Guzmán, Hermann Wöhl, in Juristas universales cit., II, 301-303, con l’elenco delle opere e bibliografia aggiornata.

 

[175] Cfr. Johann Schneidewein, In quattuor Institutionum imperialium domini Iustiniani libros, commentarii..., Argentorati, excudebat Theodosius Rihelius, 1571. Cfr. Stintzing, Geschichte cit., I, 351 ss.; Matthãus Wesembeck, Institutionum domini Iustiniani, sacratissimi principis Libri IIII, Basileae, per Eusebium Episcopium, 1585, coll. 21-26. Cfr. Mazzacane, Sistematiche giuridiche cit., 219-220; Wieacker, Storia del diritto privato cit., I, 246; Piano Mortari, Diritto logica metodo cit., 290-293; Mario Montorzi, Echi di Baldo in terra di Riforma. Matthäus Wesenbeck e gli spazi forensi d’una simplex difinitio dominii, in A Ennio Cortese cit., II, 403-413; Margreet Ahsmann, Wesenbeck, Matthaeus, in Juristen cit., 651; Javier Barrientos Grandon, Matthaeus Wesenbeck, in Juristas universales cit., II, 246-248 con bibliografia aggiornata.

 

[176] Su Vinnius cfr. Robert Feenstra, Cornelius Jan Dirk Waal, Seventeenth-century Leyden lawprofessors and their influence on the development of the civil law. A study of Bronchorst, Vinnius and Voet, Amsterdam-Oxford, North-Holland, 1975, 27 ss.; su De Luca cfr. Aldo Mazzacane, De Luca Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli italiani, XXXVIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1990, 340-347, e soprattutto Italo Birocchi, L’Istituta civile di Giambattista De Luca, in Amicitiae pignus. Studi in ricordo di Adriano Cavanna, a cura di Antonio Padoa Schioppa, Gigliola di Renzo Villata, Gian Paolo Massetto, I, Milano, Giuffrè, 2003, 87-119.

 

[177] Cfr. Orestano, Introduzione allo studio del diritto cit., 194; Jacques Godefroy (1587-1652) et l’humanisme juridique à Genève, Actes du colloque, ed. par Bruno Schmidlin et Alfred Dufour, Bâle, Helbing & Lichtenhahn, 1991; Ernst Holthöfer, Godefroy Jacques, in Juristen cit., 240-242; Rosa Mentxaka, José Angel Tamayo, Jacques Godefroy, in Juristas universales cit., II, 347-352. Sull’insegnamento giuridico ginevrino cfr. Charles Borgeaud, Histoire de l’Université de Genève: l’Academie de Calvin, 1559-1798, Genève, Gerog & Co., 1900, 368 ss.; Jacques Godefroy fu un notevole esegeta, il suo commentario al Codex Theodosianus (Lipsia, 1616) appare «ancor oggi insostituibile», Wieacker, Storia del diritto privato cit., I, 243, come i Fragmenta Duodecim Tabularum, sui nunc primum tabulis restitua, Heidelbergae, typis Johannis Lancelloti, 1616, cfr. Diliberto, Bibliografia ragionata cit., 127-129.

 

[178] Jacques Godefroy, Manuale iuris seu parva iuris mysteria, Genevae, sumpt. Ioannis Ant. [et] Samuel De Tournes, 1665 (8 edizioni sino al 1672, stampate dalla medesima tipografia).

 

[179] Cfr. Danilo Marrara, L’età medicea (1543-1737), in Storia dell’Università di Pisa, I, 1, 1343-1737, a cura della Commissione rettorale per la storia dell’Università di Pisa, Pisa, Pacini editore, 1993, 79-83; Spagnesi¸ Il diritto cit., 239-244; Roberto Abbondanza, Tentativi medicei di chiamare l’Alciato nello Studio di Pisa (1542-1547), «Annali di storia del diritto», 2 (1958), 361-403; Antonio Marongiu, I professori dell’Università di Pisa sotto il regime granducale, in Studi in onore di Lorenzo Mossa, II, Padova, Cedam, 1961, 595-596; Raffaele Del Gratta, Scritti minori, Edizioni Ets, Pisa, 1999, 1-21, 48-49.

 

[180] Cfr. Giovanni Francesco Fara, Tractatus de essentia infantis, et proximi pubertati, Florentiae, apud Iuntas, 1567; I Giunti tipografi editori di Firenze 1497-1570. Annali, a cura di Decio Decia, Renato Delfiol, Luigi Silvestro Camerini, Firenze, Giunti Barbera, 1978, n. 51, 271. L’opera, col nuovo titolo Tractatus, sive nova opinio de essentia infantis, venne inserita nel Tractatus Universi Iuris, VIII, 2, Venetiis, Compagnia dell’Aquila, 1584, ff. 388-405. Su Fara giurista cfr. Antonello Mattone, Giovanni Francesco Fara giureconsulto e storico del XVI secolo, in A Ennio Cortese cit., II, 320-348. Sulla circolazione del libro giuridico e sulle biblioteche dei giuristi si rinvia all’approfondito studio di Rodolfo Savelli, Giuristi francesi, biblioteche italiane. Prime note sul problema della circolazione della letteratura giuridica in età moderna, in Manoscritti, editoria e biblioteche dal medioevo all’età contemporanea. Studi offerti a Domenico Maffei per il suo ottantesimo compleanno, a cura di Mario Ascheri, Gaetano Colli, con la collaborazione di Paola Maffei, III, Roma, Roma nel Rinascimento, 2006, 1239-1270.

 

[181] L’inventario della biblioteca è in Enzo Cadoni, Raimondo Turtas, Umanisti sassaresi del ’500. Le «biblioteche» di Giovanni Francesco Fara e Alessio Fontana, Sassari, Edizioni Gallizzi, 1988, 63 ss.; cfr. anche Massimo Firpo, Umanisti sassaresi del Cinquecento, «Quaderni di Sandalion», n. 6, 1990, 27-32; Mattone, Giovanni Francesco Fara cit., 337-341.

 

[182] Nell’estate del 1604 Sommaia tenne le dieci lezioni pubbliche, previste dagli statuti dello Studio per ottenere il baccellierato in leggi, e nell’autunno dello stesso anno si iscrisse ai corsi superiori conseguendo, nel settembre del 1606, la laurea in utroque sotto la guida del dottor Juan de León, titolare della prima cattedra di diritto canonico, ma già pensionato. Rientrato a Firenze nell’estate del 1607 esercitò l’avvocatura, iscrivendosi nella facoltà di diritto dell’Università di Pisa dove ottenne nel maggio 1612 una seconda laurea in utroque. Nello stesso anno venne nominato referendario della Segnatura della Cancelleria Apostolica di Roma. Ma il «labirinto politico» romano non era fatto per lui, e poco tempo dopo ritornò a Firenze. Nel 1614 il granduca, dopo avergli assegnato l’onorificenza di cavaliere di Santo Stefano, lo nominò all’ufficio di Provveditore dello Studio pisano, una carica amministrativa che prevedeva la supervisione del calendario delle lezioni, della disciplina, delle vertenze tra allievi e maestri, la selezione dei testi e la censura dei libri stampati. Nel frattempo veniva ordinato sacerdote. Tra il 1632 e il 1633 dovette risolvere la delicata questione del processo inquisitoriale contro Galileo Galilei, cui Sommaia era legato da amicizia e stima profonda, e della pretesa papale di sospensione del suo salario. Morì a Pisa nel 1635 all’età di sessantadue anni. Cfr. Angelo Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, Pisis, excudebat Cajetanus Mugnainus, II, 1792, 37, III, 7 (rist. anast. Bologna, Forni, 1971); Marrara, L’età medicea cit., passim.

 

[183] Diario de un estudiante de Salamanca, ed. George Haley, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1977, 159. Cfr. l’opera di Juan Solórzano Pereira, Diligens et accurata de Parricidii crimine Disputatio, Salamanca, Artus Taberniel, 1605, pubblicata l’anno successivo nella città spagnola. Cfr. Maria Paz Alonso Romero, Ius commune y derecho patrio en la Universidad de Salamanca durante los siglos modernos. Trayectoria docente y métodos de enseñanza de Antonio Pichardo Vinuesa, Juan de Solórzano Pereira..., in El derecho y los juristas en Salamanca (siglos XVI-XX). En memoria de Francisco Tomás y Valiente, coords. Salustiano de Dios, Javier Infante, Eugenia Torisano, Salamanca, Ediciones de la Universidad de Salamanca, 2004, 102-110, con relativa, aggiornata bibliografia; Ead., Derecho patrio y derecho común en la Castilla moderna, in Il diritto patrio cit., 111-114. Per un profilo biografico di Solórzano cfr. il saggio introduttivo di Miguel Angel Ochoa Brun, Vida obra y doctrina de Juan Solórzano Pereira, a Juan Solórzano Pereira, Politica indiana («Biblioteca de Autores Españoles», 252), Madrid, Ediciones Atlas, 1972; Ana Barrero, Juan de Solórzano y Pereira, in Juristas universales cit., II, 322-324, con bibliografia aggiornata cui si rinvia, ed inoltre Manlio Bellomo, Al di là dell’obbligazione contrattuale in Juan Solórzano y Pereira, «Rivista internazionale di diritto comune», 14 (2003), 205-214.

 

[184] Ivi, 568. Si tratta de Los Seis Libros de la Repubblica di Jean Bodin, forse nella traduzione spagnola di Añastro Usanza, edita a Torino nel 1590: cfr. a questo proposito Martim de Albuquerque, Jean Bodin na península ibérica. Ensaio de história das ideias políticas e de dereito público, Paris, Fundação Calouste Gulbekian, 1978, 119 ss. Per le opere di Machiavelli lo stesso Sommaia scrive l’8 aprile 1606, nel proprio diario ( 489), di aver ricevuto «una Commedia dell’Aretino et i Discorsi, et Arte militare del Machiavello». Le «scritture» di Venezia sono le repliche all’interdetto pontificio del 1606.

 

[185] Si tratta del volume Relaciones de Antonio Pérez, secretario de Estado, que fue, del Rey de España don Phelippe II, Paris, s.n. [ma Robinot], 1598. La Relación di Perez circolava in Spagna clandestinamente, come emerge da una denuncia agli inquisitori di Barcellona del 1609 secondo cui nelle librerie della città si vendevano le opere dell’ex segretario di Filippo II: le ispezioni ordinate consentirono di rinvenire anche i libri di Machiavelli. Cfr. Juan Blasquez Miguel, La Inquisición en Cataluña: el tribunal del Santo Oficio de Barcelona 1427-1820, Toledo, Arcano, 1990, 82-83.

 

[186] Ivi, 487. Il riferimento è all’opera di Francisco Suarez, Commentaria ac disputationes in tertiam partem divi Thomae, Lugduni, sumptibus Cardon, 1592. Sommaia si riferisce probabilmente all’edizione veneziana del 1606. La censura venne posta dall’Indice in difesa di Suarez, giacché l’editore, Giovanni Battista Ciotti, aveva modificato i paragrafi che erano in contrasto con la politica della Repubblica di San Marco.

 

[187] Ivi, 421.

 

[188] Ivi, 491, 341, 585, 434.

 

[189] Luis Enrique Rodríguez-San Pedro Bezares, Universidad moderna y promoción jurídica. El diario salmantino de Gaspar Ramos Ortiz (1568-1569), in Universidades españolas y americanas. Epoca colonial, prologo de Mariano Peset, Valencia, Generalitat Valenciana, 1987, 457-477. Il riferimento è alle Leyes de Toro, glossate da Antonio Gomez, probabilmente nell’edizione salmantina del 1555 (più volte ristampata), e all’opera dell’emiliano Francesco Balbi, La verdadera relación de todo lo que el año de 1565 ha sucedido en la isla de Malta..., Alcalà de Henares, en casa de Juan de Villanueva, 1567 (ristampa Barcelona, por Pedro Reigner, 1568). Cfr. in generale Luis Cortés Vázquez, La vida estudiantil en la Salamanca clasica, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 1989, 16-45.

 

[190] Cit. in Dante Bianchi, Vita di Andrea Alciato, «Bollettino della Società Pavese di Storia Patria», 2 (1912), n. 2, 174-175. La dettatura poteva essere giustificata, si legge nel provvedimento, «cum pauci libri et nullae lecturae impressae essent nunc vero totius orbis librorum et lecturarum maxima copia scatet et quod statim lectura uniuscuiusque mediocrissimi lectoris imprimitur, ex scripto cum scolasticis agere supervacaneum nobis videtur». Insomma, il “manuale” giuridico a stampa iniziava ad affacciarsi nelle aule universitarie. Cfr. a questo proposito anche Ascheri, Un maestro del “mos italicus” cit., 90-91.

 

[191] Cfr. Memorie e documenti per la storia dell’Università di Pavia e degli uomini più illustri che v’insegnarono, II, Documenti, Pavia, Stabilimento tipografico successori Bizzoni, 1877, doc. n. 22, 20.

 

[192] Roero, Lo scolare cit., 44; cfr. Vismara, Vita di studenti cit., 179-181.

 

[193] Cfr. Abbondanza, Alciato cit., 73.

 

[194] Roero, Lo scolare cit., 38-41. Roero raccomanda la sistemazione degli appunti presi durante la giornata per riordinare in un «scartafaccio» le nozioni indispensabili per la preparazione dell’esame: «Nel primo – spiega – scriverai le cose pertinenti alla materia dei giudicii; nel secondo riporrai le spettanti alla materia dei contratti; nel terzo noterai le estrate della materia delle ultime volontà; nel quarto fiderai le cose cavate da i titoli a tutti communi, come sono quelli del regulis iuris, de verborum significatione, de rebus dubiis, de condicionibus et demontrationibus et de legibus con alcuni altri simili; indi scriverai le conclusioni o sia le regole, che farai elletta di scrivere, sotto le lettere rubricate» ( 43).

 

[195] Alberico Gentili, Lodi delle Accademie di Perugia e di Oxford, a cura di Giuseppe Ermini, Perugia, Libreria universitaria, 1968, 26-27. Cfr. Giuseppe Ermini, Storia dell’Università di Perugia, Bologna, Zanichelli, 1947, 418 ss.; Oscar Scalvanti, L’esame di laurea di Alberico Gentili nell’Ateneo di Perugia (1572), «Annali dell’Università di Perugia», nuova serie, 8 (1898), 37 ss.

 

[196] Cfr. Vicente Beltrán de Heredia, Los manuscritos del maestro fray Francisco de Vitoria, Madrid, Santo Domingo el Real, 1928, 20-26, Carlo Galli, Introduzione a Francisco de Vitoria, De iure belli, a cura di Carlo Galli, Roma-Bari, Laterza, 2005, V-XVII. Per ogni ulteriore approfondimento bibliografico aggiornato cfr. Antonio Truyol Serra, Francisco de Vitoria, in Juristas universales cit., II, 121-127. Su Vitoria e la prima generazione di teologi e giuristi cfr. anche Jaime Brufau Prats, La escuela de Salamanca ante el descubrimiento del Nuevo Mundo, Salamanca, Editorial San Esteban, 1989, 121-149. Sul sistema delle dettature cfr. Demetrio Iparraguirre, Quelques aspects de l’enseignement dans les universités espagnoles à l’époque de la Renaissance, in Pédagogues et juristes cit., 78-79.

 

[197] Estatutos hechos por la muy insigne Universidad de Salamanca, Salamanca, en casa de Juan Maria Terranova, 1561, tit. XXI, 1.

 

[198] Cfr. Alejo Montes, La Universidad de Salamanca bajo Felipe II cit., 116-118; Maria Paz Alonso Romero, Del «amor» a las leyes patrias y su «verdadera inteligencia»: a proposito del trato con el derecho regio en la Universidad de Salamanca durante los siglos modernos, «Anuario de historia del derecho español», 67 (1997), 1, 544-545.

 

[199] Cfr. Kagan, Universidad y sociedad cit., 241-256; Maria Paz Alonso Romero, Universidades y administración de la monarquía, in Felipe II. La monarquía hispánica, Madrid, Sociedad estatal para la Conmemoración de los centenarios de Felipe II y Carlos V, 1998, 235-241. Alejo Montes¸ La Universidad de Salamanca bajo Felipe II cit., 212-218; Rodríguez-San Pedro Bezares, La Universidad Salmantina del Barrocco cit., II, 262-334.

 

[200] Diario de un estudiante de Salamanca cit., 231, 234, 301, 409, 184, 185, 349, 545.

 

[201] Cfr. Francisco Bermúdez de Pedraza, Arte legal para estudiar la jurisprudencia, Salamanca, en la emprenta de Antonio Ramirez, 1612, rudimentos 16-21. L’opera venne ristampata col titolo Arte legal para el estudio de la jurisprudencia, nuevamente corregido y añadido en esta segunda edición, con declaración de las rubricas de los diez y seis libros del emperador Iustiniano, Madrid, por Francisco Martínez, a costa de Domingo Gonçalez, 1633; nello stesso anno pubblicava anche i Paratitla y exposición a los titulos de los quatro libros de las Instituciones de Iustiniano, Madrid, en la imprenta de Francisco Martínez, 1633. Cfr. anche Rafael Gibert, Historia del derecho español, Granada, Universidad de Granada, 1968, 260-261, con notizie biografiche; Iparraguirre, Quelques aspects de l’enseignement dans les universités espagnoles cit., 82-83; José Delgado Pinto, Un traité de didactique juridique au XVIIe siècle. El “Arte legal para estudiar la jurísprudencia” di Francisco Bermúdez de Pedraza, in Le Raisonnement juridique, legal reasoning, die juridische argumentations, ed. by Hubert Hubien, Bruxelles, E. Bruylant, 1971, 195-201.

 

[202] Bermúdez de Pedraza, Arte legal cit., rud. 16-18.

 

[203] Cfr. Diego Espino, Quaderno de las leyes de Toro, y nuevas decisiones hechas y ordinadas en la ciudad de Toro sobre las dudas de derecho que continuamente salian y suelen ocurrir en estos Reynos, en que avia mucha diversidad de opiniones, Salamanca, Diego Cussio, 1605 (edizioni precedenti 1559, 1591 e 1599). Cfr. a questo proposito in generale Aldo Mazzacane, El jurista y la memoria, in Pasiones del jurista. Amor, memoria, melancolía, imaginación, ed. Carlos Petit, Madrid, Centro de Estudios Constitucionales, 1997, 95-100.

 

[204] Cfr. Rodríguez-San Pedro Bezares, La Universidad Salmantina del Barroco cit., II, 511-514; La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno, a cura di Paolo Grossi, Milano, Giuffrè, 1973; Michel Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, intr. di Francesco D’Agostino, Milano, Jaca Book, 1986 (I ediz. Paris, Editions Montchretien, 1975), 295-349; Francisco Tomás y Valiente, Manual de historia del derecho español, Madrid, Tecnos, 19834, 298-324, per un quadro generale; José Antonio Maravall, I pensatori spagnoli del «secolo d’oro», in Storia delle idee politiche cit., III, 611-693, con ulteriore bibliografia; Antonio García y García, El iusnaturalismo suareciano, in Il problema del diritto naturale nell’esperienza giuridica della Chiesa, a cura di Mario Tedeschi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1993, pp 145-154.

 

[205] IA, II, 508-527. L’Enchiridion venne tradotto in italiano: Manuale de’ confessori e penitenti, traduzione italiana di fra’ Nicola di Guglinisi, Venezia, Giolito, 1569. Lo stesso frate tradusse il Comentario risolutorio de usuras, Salamanca, A. de Portinariis, 1556, col titolo Commentarii risolutori delle usure, de’ cambi, della simonia, della difesa del prossimo e del furto notabile, Torino, presso gli heredi del Bevilacqua, 1579 (la stessa traduzione fu riedita nel 1585 a Venezia da Giolito). Cfr. Eloy Tejero, Martín de Azpilcueta, in Juristas universales cit., II, 150-155, con elenco dettagliato delle opere e bibliografia aggiornata.

 

[206] Cit. e tradotto in Brugi, Un biasimo e un’apologia cit., 97.

 

[207] Angelo Matteazzi, De via et ratione artificiosa iuris universi libri duo, Venetiis, apud Paulum Meietum, 1591. Il ruolo degli studenti nella pubblicazione dell’opera è esplicitato dallo stesso Matteazzi nella dedica a Iacopo Foscarini procuratore di San Marco. Cfr. anche Biagio Brugi, Un corso sistematico di un nostro professore del secolo XVI, in Per la storia della giurisprudenza e delle università italiane. Nuovi saggi cit., 150-169, per un ulteriore approfondimento sui temi del corso.

 

[208] Garzoni, La piazza universale cit., II, 1168.

 

[209] Giason del Maino¸ In secundam Digesti Novi partem commentaria..., Venetiis, apud Iuntas, 1521, c. 163 v.; cfr. anche Gaetano Colli, «Attribuuntur Bartolo et tamen non sunt Bartoli». Prolegomeni ad una bibliografia analitica dei trattati giuridici pubblicati nel XVI secolo, «Il Bibliotecario», 1996, n. 1, 145-154.

 

[210] Cfr. Antonio Era, Due trattati attribuiti a Bartolo: “De Tabellionibus” e “Contrarietates iuris civilis Romanorum et iuris Longobardorum”, in Bartolo da Sassoferrato cit., II, 217-225.

 

[211] Domenico Maffei, Manoscritti ed editoria giuridica nel Cinquecento. Appunti e proposte, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza della Università di Macerata», 34 (1982), 1605-1610, ora in Studi di storia delle università e della cultura giuridica, Goldbach, Keip Verlag, 1995, 343-348; Gaetano Colli, Per una bibliografia dei trattati giuridici pubblicati nel XVI secolo, II, Bibliografia delle raccolte, indici dei trattati non compresi nei Tractatus Universi Iuris, Roma, Viella, 2003, 22-29, con esaustiva, aggiornata bibliografia cui si rinvia.

 

[212] Cfr. Arrigo Solmi, Di un’opera attribuita a Baldo, in Contributi alla storia del diritto comune, Roma, Società editoriale del «Foro Italiano», 1937, 417-450.

 

[213] Cfr. Domenico Maffei, Giuristi medievali e falsificazioni editoriali del primo Cinquecento. Iacopo di Belviso in Provenza?, Frankfurt am Main, Klostermann, 1979, 37-40, 66-70; cfr. anche la recensione di Ennio Cortese, «Studi medievali», serie III, 22 (1981), 246-259, ora in Scritti, a cura di Italo Birocchi e Ugo Petronio, II, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 1999, 1445-1458.

 

[214] Maffei, Giuristi cit., 57.

 

[215] Si tratta dei Commentaria in consuetudines Ducatus Burgundiae, Lugduni, in aedibus Jacobi Mareschal, sumptibus Symonis Vincentii, 1517. Dell’opera vi sono altre 13 edizioni cinquecentesche sino al 1590 (IA, VII, 386-390), con una traduzione francese, Le grand coustumier de Bourgogne, Paris, F. Regnault, 1534. I Commentaria, nei quali Chasseneuz non esitava a definire il diritto romano estraneo alle tradizioni giuridiche francesi, per il rapporto tra diritto consuetudinario e diritto comune ebbero una buona circolazione: li troviamo, ad esempio, nella biblioteca (sezione «In iure Municipali») dell’ecclesiastico e giurista sassarese Fara («Bartolomeus Cassaneo, In consuetudinem Burgundiae»): Cadoni, Turtas, Umanisti sassaresi del ’500 cit., 129. E anche in quella del magistrato dell’Audiencia il cagliaritano Monserrat Rossellò (morto nel 1613), «Bartholamaei (a Cassaneo) Commentaria in consuetudines Burgundiae, Lugduni 1543»: Umanisti e cultura classica nella Sardegna del ’500, 3, L’inventario dei beni e dei libri di Monserrat Rossellò, a cura di Enzo Cadoni e Maria Teresa Laneri, II, Sassari, Gallizzi, 1994, 314, n. 682.

 

[216] Cfr. Cortese, Scritti cit., II, 1447-1448.

 

[217] Cfr. Mario Ascheri, Streghe e “devianti”: alcuni “consilia” aprocrifi di Bartolo da Sassoferrato, in Scritti di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei cit., 203-234; Id., Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo. Lezioni e documenti, Torino, Giappichelli, 2003, 142-148.

 

[218] Cfr. Abbondanza, Alciato cit., 73-74.

 

[219] Cfr. Nicola Raponi, Alciati, Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1960, 65-67. Sui Responsa cfr. Marco Cavina, Indagini intorno al “mos respondendi” di Andrea Alciato, «Rivista di storia del diritto italiano», 57 (1984), 221. Le Opera omnia di Alciato in cinque tomi in folio vennero pubblicate a Basilea da Thomas Guarin nel 1582.

 

[220] «Molto reverendo padre – scriveva il 26 luglio 1614 il cardinale Bellarmino, consultore della Congregazione romana del Sant’Uffizio, agli inquisitori delle singole province –, questi miei illustrissimi signori della Sacra Congregazione dell’Indice, vedendo che di giorno in giorno va sempre più crescendo il numero de’ libri infetti e perniziosi che specialmente nelle parti straniere e più che altrove in Francfort, si stampavano e si vendono, già che permette Dio, per gli peccati, che non si possa rimediare che colà né si vendino, né si stampino, hanno pensato di ovviare almeno che simil peste de’ libri non infetti queste nostre parti d’Italia»: Antonio Rotondò, Nuovi documenti per la storia dell’Indice dei libri proibiti (1572-1638), «Rinascimento», n.s., 3 (1963), 196.

 

[221] Gigliola Fragnito, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2006, 7-8, 189. Cfr. anche la recensione di Massimo Firpo, «Rivista storica italiana», 118 (2006), 723-730.

 

[222] Cfr. Paul F. Grendler, L’Inquisizione romana e l’editoria a Venezia 1540-1605, Roma, Il veltro editrice, 1983 (I ediz. Princeton, Princeton University Press, 1977), 107 ss.. Due secoli dopo, i Riformatori dello Studio di Padova, in una relazione del 3 agosto 1765 sulla stampa, si rendevano pienamente conto che nel XVI si era definitivamente chiusa una stagione dell’editoria universitaria veneziana: «l’arte rimase priva – si legge nel testo – di tutti que’ libri ch’erano segnati dall’Indice; o se alcuni ne adoprò, gli ebbe così alterati e mutilati che ben presto negli altri paesi s’estinse il credito delle nostre edizioni, né mai più si riebbero»: cit. in G. Sforza, Riflessi della Controriforma nella Repubblica di Venezia, «Archivio Storico Italiano», 93 (1935), 12.

 

[223] Cfr. James K. Farge, Orthodoxy and Reform in Early Reformation France. The Faculty of Theology of Paris, 1500-1543, Leyden, Brill, 1985; Id., L’université e le parlement. La censure à Paris au XVIe siècle, in Censures. De la Bible aux larmes d’héros, Paris, Centre George Pompidou, 1987, 88-95; l’Index parigino comprendeva una lista di 230 libri in latino e in francese, che aumentarono progressivamente nelle sei edizioni successive, sino a quella del 1556, che conteneva 528 testi vietati, in genere trattati teologici ed opere legate alla Riforma. Cfr. inoltre Index de l’Université de Paris 1544, 1545, 1547, 1549, 1551, 1556, par Jesus Martínez de Bujanda, Francis M. Higman, James K. Farge, avec l’assistance de René Davignon et Ela Stanck, Index de l’Université de Louvain 1546, 1550, 1558, par Jesus Martínez de Bujanda, Léon-E. Halkin, Patrick Pasture et Geneviène Glorieux, entrambi Sherbrooke-Genève, Centre d’Études de la Renaissance-Librarie Droz, rispettivamente 1985 e 1986 («Index des livres interdits», dir. Jesus Martínez de Bujanda, I et II).

 

[224] Adriano Prosperi, Anime in trappola. Confessione e censura ecclesiastica all’Università di Pisa tra ’500 e ’600, «Belfagor», 44 (1999), n. 3, 275.

 

[225] Cfr. De Benedictis, Gentili, Alberico cit., 245-246, e Ead., Gentili, Scipione, in Dizionario biografico degli italiani, LIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1999, 268-269; Arlette Jouanna, Les temps de guerres de religion en France (1559-1598), in Histoire et dictionnaire des guerres des religions, Paris, Laffont, 1998, 254 ss.; Salvatore Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana, 1992, 447 sui Gentili.

 

[226] Cfr. Franceschini, Giulio Pace da Beriga cit., 13 ss.

 

[227] Cfr. Ruffini, Il giureconsulto chierese Matteo Gribaldi Mofa cit., 34; Prosperi, Anime in trappola cit., 265, il quale opportunamente osserva che Francesco Ruffini, «un raro, eccezionale maestro non solo degli studi sulla libertà religiosa ma della pratica morale della libertà di coscienza», meditò «sulle avventure di un suo grande predecessore», come Gribaldi, sul «rifiuto che oppose al giuramento fascista di fedeltà al regime».

 

[228] Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996, 231.

 

[229] Cfr. Index de Rome 1557, 1559, 1564. Les premiers index romains et l’index du Concile de Trente, par Jesus Martínez de Bujanda avec l’assistance de René Davignon et Ela Stanek («Index des livres interdits» dir. J.M. de Bujanda, VIII), Sherbrooke-Genève, Centre d’Études de la Renaissance-Librairie Droz, 1990, 261-707; Thesaurus de la littérature interdite au XVIe siècle. Auteurs, ouvrages, éditions, par J.M. de Bujanda avec l’ass. de René Davignon, Ela Stanek, Marcella Richter («Index des livres interdits», dir. J.M. de Bujanda, X), Sherbrooke-Genève, Centre d’Études de la Renaissance-Librarie Droz, 1996. Cfr. Vittorio Frajese, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma, Brescia, Morcelliana, 2006, 39 ss. sullo «sviluppo istituzionale» dell’Indice, cui si rinvia anche per un’ulteriore bibliografia aggiornata. Sulla censura ecclesiastica vi è una consistente bibliografia: oltre il vecchio studio di Franz Heinrich Reusch, Der Index der verbotenen Bücher, Bonn, Neudruck der Ausg., 1883 (rist. anast. Aalen, Scientia Verlag, 1967), e il penetrante saggio di Antonio Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, in Storia d’Italia, V, I documenti, 2, Torino, Einaudi, 1973, 1397-1492; Id., Editoria e censura nel Cinquecento, in La stampa in Italia nel Cinquecento, a cura di Marco Santoro, I, Roma, Bulzoni, 1992, 72-88. Fra i lavori più recenti, cfr. l’ottima sintesi di Mario Infelise, I libri proibiti da Gutenberg all’Encyclopédie, Roma-Bari, Laterza, 1999; Id., Note sulle origini della censura di Stato, in Filippo II e il Mediterraneo, a cura di Luigi Lotti e Rosario Villari, Roma-Bari, Laterza, 2003, 223-240; Ugo Rozzo, Linee per una storia dell’editoria religiosa in Italia (1465-1600), Udine, Arti Grafiche Friulane, 1993, 69-119; Id., Biblioteche e censura: da Conrad Gesner a Gabriel Naudé, «Bibliotheca. Rivista di studi bibliografici», 2003, n. 2, 33-70; Id., La letteratura italiana negli “Indici” del Cinquecento, Udine, Forum, 2005; La censura libraria nell’Europa del XVI secolo, a cura di Ugo Rozzo, Udine, Forum, 1997; Nicola Longo, La letteratura proibita, in Letteratura Italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, V, Le questioni, Torino, Einaudi, 1986, 978-998; Bruno Neveu, L’erreur et son juge. Remarques sur les censures doctrinales à l’epoque moderne, Napoli, Bibliopolis, 1993; Georges Minois, Censure et culture sous l’Ancien Régime, Paris, Fayard, 1995, 43-103; Censura ecclesiastica e cultura politica in Italia tra Cinquecento e Seicento, a cura di Cristina Stango, Firenze, Olschki, 2001; Church censorship and culture in early modern Italy, edited by Gigliola Fragnito, Cambridge, Cambridge University Press, 2001; Libro e censure, a cura di Federico Barbierato, intr. di Mario Infelise, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2002; Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, pres. di Adriano Prosperi e Albano Biondi, Ferrara-Modena, Edizioni Panini, 1987; Hubert Wolf, Storia dell’Indice. Il Vaticano e i libri proibiti, Roma, Donzelli, 2006 (I ediz. München, Beck, 2006), 9-38; Jesus Martínez de Bujanda, L’inquisition, l’Index et l’imprimerie, in L’Inquisizione, Atti del simposio internazionale (Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998), a cura di Agostino Borromeo, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2003, 607-631.

 

[230] Cfr., Grendler, L’Inquisizione romana cit., 131-134; Marino Zorzi, Dal manoscritto al libro, in Storia di Venezia, diretta da Alberto Tenenti e Ugo Tucci, IV, Il Rinascimento, politica e cultura, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996, 910-941; Andrea Del Col, Il controllo della stampa a Venezia e i processi di Antonio Brucioli (1548-1559), «Critica storica», 17 (1980), 457-510; Michele Jacoviello, Proteste di editori e librai veneziani contro l’introduzione della censura sulla stampa a Venezia (1543-1555), «Archivio Storico Italiano», 151 (1993), 27-56; Federico Barbierato, Index librorum prohibitorum, in Libro e censure cit., 117; Index de Venise 1549, Venise et Milano 1554, par Jesus Martínez de Bujanda, Paul F. Grendler avec l’ass. de René Davignon et Ela Stank, Sherbrooke-Genève, Centre d’Études de la Renaissance-Librarie Droz, 1987 («Index des livres interdits», dir. Jesus Martinez de Bujanda, III).

 

[231] Massimo Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa ed Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2006, 511-515.

 

[232] Cfr a questo proposito Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, 73 ss.

 

[233] Cfr. Firpo, Umanisti sassaresi del Cinquecento cit., 28-29.

 

[234] Index de Rome cit., passim. Cfr. inoltre Vittorio Frajese, Le licenze di lettura e la politica del Sant’Uffizio dopo l’Indice Clementino, e Ugo Baldini, Le congregazioni romane dell’Inquisizione e dell’Indice e le scienze, dal 1542 al 1615, tutti in L’Inquisizione e gli storici: un cantiere aperto, Atti del seminario, Roma, 24-25 giugno 1999, Roma, Accademia dei Lincei, 2000, rispettivamente 179-220, 329-364.

 

[235] Prosperi, Anime in trappola cit., 270.

 

[236] Index de Rome cit., 46-49.

 

[237] Cfr. Hubert Jedin, Storia del Concilio di Trento, IV, Il terzo periodo e la conclusione, 2, Superamento della crisi per opera di Morone, chiusura e riconferma, Brescia, Morcelliana, 1981 (I ed. Freiburg, Verlag Herder, 1975), 55, 347-348.

 

[238] Cfr. Ugo Rozzo, Indice espurgatorio, in Il libro religioso cit., 167-170, e Gigliola Fragnito, Aspetti e problemi della giustizia espurgatoria, in L’Inquisizione e gli storici cit., 161-178.

 

[239] Cfr. Thesaurus de la littérature interdite cit., 27-29; Grendler, L’Inquisizione romana cit., 335-361.

 

[240] Cfr. Index de Rome 1590, 1593, 1596, par Jesus Martínez de Bujanda, Ugo Rozzo, Peter G. Bietenholz, Paul F. Grendler («Index des livres interdits», dir. Jesus Martínez de Bujanda, IX), Sherbrooke-Genève, Centre d’Études de la Renaissance-Librairie Droz, 1994, 353-423, e l’introduzione storica, 271-304; Antonio Rotondò, Cultura umanistica e difficoltà dei censori. Censura ecclesiastica e discussioni cinquecentesche, in Le pouvoir et la plume, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1982, 15-50; Thesaurus de la littérature cit., 49 ss.; Giuseppe Fumagalli, Di alcune edizioni sconosciute o rarissime dell’Indice dei libri proibiti, «Rivista delle biblioteche», 1 (1888), 27-28; Vittorio Frajese, La Congregazione dell’Indice negli anni della concorrenza con il Sant’Uffizio (1593-1603), «Archivio italiano per la storia della pietà», 14 (2001), 207-255; Id., Nascita dell’Indice cit., 131-147.

 

[241] Federico Barbierato, Index librorum prohibitorum, in Libro e censure cit., 123. Cfr. anche Ugo Rozzo, Dieci anni di censura libraria (1596-1606), «Libri & Documenti», 9 (1983), n. 1, 43-61. Più in generale cfr. Vittorio Frajese, La revoca dell’Index sistino e la Curia romana, «Nouvelles de la République des Lettres», 1 (1986), 15-49; Id., Nascita dell’Indice cit., 166-194; Paolo Simoncelli, Documenti interni alla Congregazione dell’Indice 1571-1590: logica e ideologia dell’intervento censorio, «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea», 35-36 (1983-84), 187-215, sui prodromi dell’Index sistino; e infine l’ampio quadro offerto da Rotondò, Nuovi documenti per la storia cit., 145-211. Più in generale cfr. Dominique Julia, Letture e Controriforma, in Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, Roma-Bari, Laterza, 1995, 277-313.

 

[242] Grendler, L’inquisizione romana cit., 362; Gigliola Fragnito, L’applicazione dell’Indice dei libri proibiti di Clemente VIII, «Archivio Storico Italiano», 159 (2001), 107-149.

 

[243] Cfr. Federico Barbierato, Espurgazione, in Libro e censure cit., 100-102; Ugo Rozzo, L’espurgazione dei testi letterari nell’Italia del secondo Cinquecento, in La censura libraria cit., 219-227; Id., La letteratura italiana negli Indici cit., 11-71; Nicola Longo, Prolegomeni per una storia della letteratura italiana censurata, «Rassegna della letteratura italiana», 68 (1974), 402-419; Id., Fenomeni di censura nella letteratura italiana del Cinquecento, in Le pouvoir et la plume cit., 275-284; Id., La letteratura proibita, in Letteratura italiana cit., V, 965-999; Gigliola Fragnito, Censura ecclesiastica e letteratura d’evasione nel Cinquecento, in Scuola di Dottorato in studi storici dell’Università di Torino, Intellettuali e politica, Torino, Aragno, 2006, 75-92.

 

[244] Cfr. Vittorio Cian, Un episodio della storia della censura in Italia nel sec. XVI. L’edizione spurgata del “Cortegiano”, «Archivio Storico Lombardo», 14 (1887), 661-724.

 

[245] Cfr. Luigi Firpo, Correzioni d’autore coatte, in Studi e problemi di critica testuale, Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i testi di lingua, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961, 143-167. Cfr. gli esempi delle censure iconografiche compresi in Inquisizione e Indice nei secoli XVI-XVIII. Testi e immagini delle raccolte casanatesi, a cura di Adriana Cavarra, Roma, Biblioteca Casanatense-Aisthesis, 1998, 18-136.

 

[246] Cfr. Peter Godman, From Poliziano to Machiavelli. Florentine Humanism in the High Renaissance, Princeton, Princeton University Press, 1998, 303 ss.; più in generale Luigi Firpo, La prima condanna di Machiavelli, Torino, SPE, 1967 (estratto dall’«Annuario dell’Università degli Studi di Torino», aa. 1966-67).

 

[247] Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, 594.

 

[248] Indicis librorum expurgandorum in studiosorum gratiam confecti tomus primus..., Romae, ex Typographia R. Camerae Apostolicae, 1607; cfr. Gigliola Fragnito, «In questo vasto mare de’ libri proibiti et sospesi tra tanti scogli di varietà e controversie»: la censura ecclesiastica tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento, in Censura ecclesiastica e cultura politica cit., 30-31; Rozzo, Indice espurgatorio cit., 168-169; Frajese, Nascita dell’Indice cit., 351-368. Sulla censura e l’espurgazione dei testi di diritto cfr. i fondamentali studi di Rodolfo Savelli, Allo scrittoio del censore: fonti a stampa per la storia dell’espurgazione dei libri di diritto in Italia tra Cinque e Seicento, «Società e Storia», 26 (2003), n. 100-101, 293-330; Id., The censoring of law books, in Church, censorship and culture cit., 223-253; Id., La censura dei libri di diritto nella seconda metà del Cinquecento, in A Ennio Cortese cit., III, 226-250, a cui ovviamente si rinvia per ogni ulteriore approfondimento.

 

[249] Ivi, 447-739, e l’introduzione storica, 304-319; cfr. anche Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura cit., 1469.

 

[250] Cfr. Mario Scaduto, Lainez e l’Indice del 1559. Lullo, Sabunde, Savonarola, Erasmo, «Archivum historicum Societatis Jesu», 24 (1935), 20.

 

[251] Cit. in Prosperi, Anime in trappola cit., 267.

 

[252] Cfr. Rotondò, La censura ecclesiastica cit., 1449-1450; Id., Studi e ricerche di storia ereticale del Cinquecento, I, Torino, Giappichelli, 1974, 277-294, sull’ambiente culturale di Basilea; Grendler, L’Inquisizione romana cit., 263.

 

[253] Cfr. Grendler, L’Inquisizione romana cit., 261.

 

[254] Prosperi, Anime in trappola cit., 264.

 

[255] Thesaurus de la littérature interdite cit., rispettivamente 90, 159-161. Cfr. Rodolfo Savelli, Da Venezia a Napoli: diffusione e censura delle opere di Du Moulin nel Cinquecento italiano, e Artemio Enzo Baldini, Jean Bodin e l’indice dei libri proibiti, entrambi in Censura ecclesiastica e cultura politica cit., 101-154, 79-100; Luigi Firpo, Ancora sulla condanna di Bodin, «Il Pensiero Politico», 14 (1981), 171-186.

 

[256] Paolo Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), II, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1967, 238. Paleotti è autore di un trattato giuridico, De nuptiis spuriisque filiis, Bononiae, apud Anselmum Giaccharellum, 1550. Paleotti si riferisce con ogni probabilità alle Additiones ad commentarios Dini (Muxellani) in regulis iuris pontificii, Lugduni, Jean Frellon, 1545, o alle Additiones ad Philippum Decium in Regulis iuris, Lugduni, Jean Frellon, 1545.

 

[257] Cfr. Prosperi, Anime in trappola cit., 272.

 

[258] L’opera di riferimento è quella di Jean-Louis Thireau, Charles Du Moulin (1500-1566). Etude sur les sources, la méthode, les idées politiques et économiques d’un juriste de la Renaissance, Genève, Droz, 1980, 49-50. Cfr. la recensione al Du Moulin di Thireau di Domenico Maffei, «Tijdschrift voor rechtsgeschiedenis», 51 (1983), 410-412, che accentua ulteriormente la formazione umanistica del giurista francese. Cfr. inoltre Franz Gamillscheg, Der Einfluβ DumOulins auf Die Entwicklung des Kollisionsrecht, Berlin, Mohr, 1955; Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese cit., 270-276; Donald Reed Kelley, «Fides historiae» : Charles Dumoulin and the Gallican view of history, «Traditio», 22 (1966), 347-402; Jochen Otto, Du Moulin (Molinaeus), Charles, in Juristen cit., 181-182; Antonio Pau, Charles Dumoulin, in Juristas universales cit., II, 174-177, per ogni bibliografia ulteriore.

 

[259] Cfr. Thesaurus de la littérature interdite cit., 159-161.

 

[260] Posizioni ribadite anche nel In regulas Cancelleriae Romanae hactenus in regno Franciae usus receptas commentarius analyticus, Parisiis, apud Hadrianum Perier, 1599, e addirittura accentuate nel Conseil sur le faict du Concile de Trente..., Lyon, Charles Du Moulin, 1564.

 

[261] Cfr. Charles Du Moulin, Commentariarum in consuetudines parisienses, prima pars et secunda pars, Parisiis, apud Poncetum Le Preux, 1539 (altre edizioni 1554, 1559, 1575, 1576 tre edizioni). Cfr. IA, ad nominem, e Thireau, Charles Du Moulin cit., 114 ss.; Piano Mortari, Cinquecento giuridico cit., 270-271; Id., Potere regio e consuetudine cit., 131 ss.; René Filhol, La rédaction des coutumes en France aux XVe et XVIe siècles, in La rédaction des coutumes dans le passé et dans le présent, sous la direction de John Gilissen, Bruxelles, Editions de l’Institut de Sociologie de l’Université Libre de Bruxelles, 1962, 63-78; D. Gaurier, La revendication d’un droit national contre le droit romain, «Revue internationale des droits de l’antiquité», 41 (1994), supplement, 39-40.

 

[262] Cfr. Charles Du Moulin, Tractatus commerciorum et usurarum, Parisiis, apud Ioan Lodoicum Tiletanum, 1546, tradotto in francese nel 1547. Nel XVI secolo il Tractatus conobbe altre 9 edizioni (IA). Cfr. a questo proposito Rodolfo Savelli, Diritto romano e teologia riformata: Du Moulin di fronte al problema dell’interesse del denaro, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 23 (1993), 291-324, cui si rinvia.

 

[263] Cfr. Savelli, Allo scrittoio del censore cit., 298.

 

[264] Savelli, Da Venezia a Napoli cit., 110.

 

[265] Cfr. Antonio Era, Carlo Dumoulin e Nicola Antonio Gravazio, «Rivista di storia del diritto italiano», 7 (1934), n. 2, 388-407.

 

[266] Cfr., oltre il vecchio studio di Alessandro Lattes, Carlo Dumoulin e Gaspare Caballino, «Archivio giuridico», serie IV, 11 (1926), 7-19, Jürgen Becker, Cavallini (Caballino), Gaspare, in Dizionario biografico degli italiani, XXII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1979, 773-774; Paolo Colliva, Due studiosi cinquecenteschi delle “Constitutiones” dell’Albornoz: Virginio de’ Boccacci e Gaspare Cavallini da Cingoli, in Storiografia e storia. Studi in onore di Eugenio Dupré Theiseider, II, Roma, Bulzoni, 1974, 858, ha evidenziato il ruolo del Paleotti. Per il punto sul dibattito e le nuove acquisizioni cfr. ora Savelli, Da Venezia a Napoli cit., 119-132. Le opere di Du Moulin, tra contraffatte ed espurgate ebbero 79 edizioni cinquecentesche (IA). Le Opera omnia del giurista francese vennero pubblicate, in tempi di gallicanesimo imperante, in tre volumi a Parigi nel 1612 nell’Officina Nivelliana di Sebastien Cramoisy, sempre in tre volumi a Parigi nel 1638 dalla vedova di Nicolas Buon e quella, indubbiamente migliore, stampata nel 1681 a Parigi in cinque tomi da Jean Cochart.

 

[267] Cfr. le belle pagine, ancora attuali, di Luigi Firpo, Filosofia italiana e Controriforma, Torino, Edizioni di Comunità, 1951 (estratto da «Rivista di filosofia», 1950-51), 1-55.

 

[268] Per la biografia di Possevino e per l’analisi della Bibliotheca selecta cfr. il recente, approfondito studio di Luigi Balsamo, Antonio Possevino S.J. bibliografo della Controriforma e diffusione della sua opera in area anglicana, Firenze, Olschki, 2006. Secondo Vittorio Frajese, La revoca dell’Index sistino e la curia romana (1588-1596), «Nouvelles de la République des Lettres», 1 (1986), 32, l’opera di Possevino era pensata e composta «in stretta connessione con l’Index librorum prohibitorum del quale costituiva un’integrazione».

 

[269] Savelli, Da Venezia a Napoli cit., 141.

 

[270] Firpo, Vittore Soranzo cit., 517.

 

[271] Luciano Canfora, Convertire Casaubon, Milano, Adelphi, 2002, 127.

 

[272] Anton Francesco Doni, La Libraria, a cura di Vanni Bramanti, Milano, Longanesi & C., 1972, 61; Giovanna Romei, Doni Anton Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, XLI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1992, 158-166, e le stimolanti osservazioni di Amedeo Quondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, dir. Alberto Asor Rosa, II, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, 620-631; sulle bibliografie cinquecentesche cfr. anche Lodovica Braida, Stampa e cultura in Europa tra XV e XVI secolo, Roma-Bari, Laterza, 2000, 113-117.

 

[273] Cfr. Vita del Padre Antonio Possevino della Compagnia di Gesù già scritta in lingua francese dal padre G. Dorigny della medesima compagnia ora tradotta nella volgare lingua italiana, I, Venezia, Remondini, 1759, 72-76. La traduzione è del gesuita Nicolò Ghezzi. Sull’attività di fondatore e di organizzatore di collegi cfr. Laszlò Lukács, Die nordischen päpstlichen Seminarien und P. Possevino 1577-1587, «Archivum historicum Societatis Jesu», 24 (1955), 33-94.

 

[274] Gli esaminatori erano: Giovanni Azorio (Juan Azor) per la teologia, Roberto Bellarmino per gli aspetti controversistici, Bernardino Rosignoli per la filosofia, Cristhopher Clavius per la matematica, Paolo Piccolomini per la giurisprudenza, Vincenzio Buerio per la medicina, i professori del Collegio Romano per la letteratura (humaniora).

 

[275] Romeo De Maio, I modelli culturali della Controriforma. Le biblioteche dei conventi italiani alla fine del Cinquecento, in Riforme e miti nella Chiesa del Cinquecento, Napoli, Guida, 1973, 360; cfr. anche Barbara Mahlmann-Bauer, Antonio Possevino’s Bibliotheca Selecta. Knowledge as a weapon, in I Gesuiti e la Ratio studiorum, a cura di Manfred Hinz, Roberto Righi, Danilo Zardin, Roma, Bulzoni, 2004, 313-355; Candida Carella, Antonio Possevino e la biblioteca «selecta» del principe cristiano, in Bibliothecae Selectae: da Cusano a Leopardi, a cura di Eugenio Canone, Firenze, Olschki, 1993, 507-516.

 

[276] Un’approfondita analisi del contenuto dell’opera è in Albano Biondi, La Bibliotheca Selecta di Antonio Possevino. Un progetto di egemonia culturale, in La «Ratio studiorum». Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, a cura di Gian Paolo Brizzi, Roma, Bulzoni, 1981, 43-75; in Balsamo, Antonio Possevino cit., 55-88, e in Alfredo Serrai, Storia della bibliografia cit., IV, Cataloghi a stampa. Biblioteche teologiche. Biblioteche filosofiche. Antonio Possevino, a cura di Maria Grazia Ceccarelli, Roma, Bulzoni, 1993, 713-750. Una comparazione tra l’opera di Gesner e quella di Possevino è stata fatta da Helmut Zedelmaier, Bibliotheca universalis und Bibliotheca selecta, Köln-Weimar-Wien, Böhlau Verlag, 1992, a cui si rinvia.

 

[277] Antonio Possevino, Bibliotheca selecta qua agitur de ratione studiorum in historia, in disciplinis, in salute omnium procuranda, I, Romae, ex typographia Apostolica Vaticana, 1593, 7.

 

[278] Antonio Possevino, Coltura degl’Ingegni, Vicenza, appresso Giorgio Greco, 1598, 98-111. Cfr. a questo proposito le acute osservazioni di Leandro Perini, Editori e potere in Italia dalla fine del secolo XV all’Unità, in Storia d’Italia. Annali, 4, Intellettuali e potere, a cura di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, 811-813; Balsamo, Antonio Possevino cit., 64-72.

 

[279] Ivi. Il primo tomo della Bibliotheca selecta, destinato alla fondazione della cultura religiosa cattolica, prosegue con il metodo per lo studio della Sacra Scrittura o «Theologia positiva» (libro II), con l’iniziazione alla «Theologia scholastica» (libro III), con la «Theologia catechetica» (libro IV), con la descrizione della milizia di Cristo, cioè gli ordini regolari e militari (libro V); il secondo gruppo di libri (VI-XI) affronta i temi missionari e quelli della lotta alle eresie. Il secondo tomo è dedicato alle discipline «humanae» e Possevino sviluppa temi monografici sulla giurisprudenza (libro XII), sulla filosofia (libro XIII), sulla medicina (libro XIV), sulla matematica, con la musica, l’astrologia, l’architettura, la cosmografia e la geografia (libro XV), sulla metodica e sull’uso ragionato della storia (libro XVI), sulla poesia e sulla pittura (libro XVII), sulla retorica e l’arte dello scrivere (libro XVIII). Insomma, una grande opera enciclopedica e tematica che intendeva affrontare, indicando le letture e gli autori “ammessi”, tutti gli ambiti del sapere.

 

[280] Balsamo, La bibliografia cit., 38-39; Id., How to doctor a bibliography: Antonio Possevino’s practice, in Church censorship cit., 50-78; Id., Antonio Possevino cit., 59-64.

 

[281] Serrai, Storia della bibliografia cit., IV, 715-716.

 

[282] Albano Biondi, Aspetti della cultura cattolica post-tridentina. Religione e controlli sociali, in Intellettuali e potere cit., 297.

 

[283] Savelli, Da Venezia a Napoli cit., 141, ha osservato che la parte dedicata al diritto della Bibliotheca selecta «non ha attirato l’attenzione degli storici; eppure conserva un’eloquente testimonianza degli orientamenti presenti nella Compagnia di Gesù»; anche Id., Giuristi francesi, biblioteche italiane cit., 1251.

 

[284] Possevino, Bibliotheca selecta cit., II, p.56. Cfr. anche Balsamo, Antonio Possevino cit., 75-77; Savelli, La censura dei libri di diritto cit., 243-344, Id., Da Venezia a Napoli cit., 141.

 

[285] Possevino, Bibliotheca selecta cit., II, 1-60. Su Panciroli cfr. Brugi, La scuola padovana di diritto romano nel secolo XVI, Padova, Tipografia F. Sacchetto, 1888, cap. VIII; Aldo Bacchi Andreoli, Alcuni studi intorno a Guido Panciroli, Reggio Emilia, Tipografia Calderini, 1903. Il diritto viene esposto anche attraverso tabelle e specchi diagrammatici. L’estratto ebbe nello stesso 1593 due edizioni a Roma, una in folio e l’altra in ottavo. Cfr. a questo proposito anche Biondi, Aspetti della cultura cattolica cit., 44, 62-64.

 

[286] Possevino, Bibliotheca selecta cit., II, 55.

 

[287] Balsamo, Venezia e l’attività cit., 93, ha contato un totale di 25 edizioni, tra complete e parziali. Cfr. anche Serrai, Storia della bibliografia cit., IV, 737-738.

 

[288] Cfr. Claude Clément, Musei sive Bibliothecae tam privatae quam publicae extructio, instructio, cura, usus libri IV..., Lugduni, sumptibus Jacobi Prost, 1635, 455.

 

[289] Cfr. Antonio Possevino, Apparatus Sacer ad scriptores veteris, et novi testamenti. Eorum interpretes, Synodos, et Patres Latinos, ac Graecos..., Venetiis, apud Societatem Venetam, 1603. Cfr. a questo proposito Serrai, Storia della bibliografia cit., IV, 750-760, che rivaluta ampiamente l’Apparatus.

 

[290] Paolo Sarpi, Sopra l’officio dell’Inquisizione, in Opere cit., 592, cit. anche in Rotondò, La censura ecclesiastica cit., 1473. Cfr. inoltre Vittorio Frajese, Sarpi scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna, Il Mulino, 1994, 337-366, a proposito dell’ardua battaglia di Sarpi contro la potenza ecclesiastica e le imposizioni censorie.

 

[291] Calasso, Medioevo del diritto cit., I, 599. Cfr. anche Dionisotti, Filologia umanistica cit., 1971, 196-198; Vittore Branca, Poliziano e l’Umanesimo della parola, Torino, Einaudi, 1983, 82-189.

 

[292] Cfr. i vecchi studi di Lodovico Frati, Lodovico Bolognini, «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», 1 (1908), 2, 126 ss.; e di Lino Sighinolfi, Angelo Poliziano, Ludovico Bolognini e le Pandette fiorentine, «La Bibliofilia», 24 (1922), 165-202, teso a valorizzare il ruolo di Bolognini rispetto a quello di Poliziano, smentito decisamente da Dionisotti, Filologia umanistica cit., 197-204, ed inoltre cfr. Severino Caprioli, Bolognini, Ludovico, in Dizionario biografico degli italiani, XI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1969, 337-352; Id., Indagini sul Bolognini. Giurisprudenza e filologia nel Quattrocento italiano, Milano, Giuffrè, 1969, 205-269.

 

[293] Calasso, Medioevo del diritto cit., I, 600; Id., Umanesimo giuridico, in Introduzione al diritto comune, Milano, Giuffrè, 19702, 181-205; Paul Koschaker, L’Europa e il diritto romano, intr. di Francesco Calasso, Firenze, Sansoni, 1962 (I ediz. München-Berlin, Beck, 1958), 185-213.

 

[294] Su du Rivail cfr. Jean-Louis Ferrary, Naissance d’un aspect de la recherche antiquaire. Les premiers travaux sur les lois romaines de l’Epistula ad Cornelium de Filelfo à l’Historia iuris civilis d’Aymar du Rivail, in Ancient history and the Antiquarian. Essays in memory of Arnaldo Momigliano, London, Warburg Institut, 1995, 32-72; Domenico Maffei, Alessandro d’Alessandro giureconsulto umanista (1461-1523), Milano, Giuffrè, 1956; Mauro de Nichilo, D’Alessandro (Alessandri), Alessandro, in Dizionario biografico degli italiani, XXXI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1985, 729-732; Giancarlo Vallone, Alessandro e Antonino d’Alessandro, in Scritti di storia e di diritto cit., 319-352. Dell’opera di d’Alessandro si contano 36 edizioni sino al 1673. Su entrambi cfr. Oliviero Diliberto, La palingenesi decemvirale: dal manoscritto alla stampa, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di Michel Humbert, Pavia, Iuss Press, 2005, 487-493; Id., Bibliografia ragionata cit., 47-52.

 

[295] Cfr. oltre Feuter, Storia della storiografia cit., 169-171; William Mc Cuaig, Carlo Sigonio. The changing world of the late Renaissance, Princeton, Princeton University Press, 1989, 174-250.

 

[296] Cfr. Hans Erich Troje, Gregor Haloander, in Juristas universales cit., II, 177-180; Id., Graeca leguntur cit., 401 ss.; Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 180-209; Wolfang Kaiser, Digesten. Überlieferung, in Der neue Pauly Enzyklopädie der Antike, 13, Stuttgart-Weimar, Verlag J.B. Metzler, 1999, 848-849; il vecchio Emilio Costa, Storia delle fonti del diritto romano, Milano-Torino-Roma, Fratelli Bocca, 1909, 143-148.

 

[297] «Venit in manus meas – scriveva il 1° agosto 1528 Amerbach al suo amico e maestro Alciato, analizzando il lavoro di Meltzer fresco di stampa – Pandectarum nostrarum volumen Gregorii Haloandri cura et archetypi Florentini (ita enim praefatur) aliorumque veterum codicum fidem castigatum»: Die Amerbachkorrespondez cit., III, n. 1369; cfr. anche Bernhard Pahlmann, Bonifacius Amerbach, in Deutsche und Europäische Juristen cit., 24-27; Guido Kisch, Bonifacius Amerbach: Gedenkrede anlässlich der 400. Wiederkehr seines Todestages, Basel, Helbing & Lichtenhahn, 1962.

 

[298] Cfr. Cornel A. Zwierlein, Reformation als Rechtsreform. Bucers Hermeneutik der lex Dei und sein humanisticher Zugriff auf das römische Recht, in Martin Bucer und das Recht, Beiträge zum internationalen Symposium vom 1. bis 3. mars 2001, hrsg. von Christoph Strohm, Genève, Librairie Droz, 2002, 53-69, ha posto in evidenza come gli studi civilisti del teologo Bucer fossero ispirati direttamente dai criteri editoriali-umanistici di Haloander.

 

[299] Pandectarum seu digestorum Iustiniani imp. libri quinquaginta non solum ad editionem Gregorii Haloandri diligenter collati sed et Andrea Alciati iureconsultorum nostra aetate decoris consilio iudicioque in quam plurimis locis feliciter recogniti..., Basileae, apud. Io. Hervagium, 1548. Alciato si era potuto giovare del testo di Antonio Agustín, Emendationum et opinionum libri IV. Una cum eiusdem Ad Modestinum sive de excusationibus liber singularis, Venetiis, expensis Haeredum Lucaeantonij Iuntae, 1543.

 

[300] Cfr. Cortese, Il diritto nella storia cit., II, 469; Osler, Catalogue of books cit., I, nn. 1033-1038, 266-268.

 

[301] Cfr. Osler, Catalogue of books cit., I, nn. 1051-1054, 272-273; Costa, Storia delle fonti cit., 146-147; Piano Mortari, Itinera juris cit., 192; Id., Cinquecento giuridico francese cit., 358-365; Troje, Die Literatur des gemeinen Rechts cit., 647-655.

 

[302] Cfr. Digestorum seu Pandectarum libri quinquaginta ex Florentinis Pandectis repraesentati, Florentiae, in officina Laurentii Torrentini ducalis typographi, 1553.

 

[303] Cfr. Theodor Mommsen, Praefatio a Digesta Iustiniani Augusti, I, Berolini, apud Weidmannos, 1870. Cfr. inoltre Giovanni Gualandi, Per la storia dell’editio princeps delle Pandette fiorentine di Lelio Torelli, e Franz Wieacker, Mommsens Digestorum editio maior: Aspekte und Aporien, entrambi in Le Pandette di Giustiniano cit., rispettivamente 143-198, 199-214; Mario Ascheri, Firenze dalla Repubblica al Principato: la motivazione della sentenza e l’edizione delle Pandette, in Tribunali, giuristi e istituzioni dal Medioevo all’età moderna, Bologna, Il Mulino, 1989, 66-68, secondo cui la pubblicazione delle Pandette non deve essere valutata alla stregua di un «semplice recupero antiquario», ma si deve interpretare come un «intervento editoriale [...] omologo rispetto a quelli della linea antimedievalistica culta francese che andava ormai sfociando in aperto nazionalismo giuridico».

 

[304] Sui rapporti tra la Littera florentina e quella bononiensis cfr. Hermann Kantorowicz, Über die Entstehung der Digestenvulgata. Ergänzungen zu Mommsen, Weimar, H. Böhlaus, 1910; Pietro Pescani, De Digestorum archetypo, in Studi in onore di E. Betti, III, Milano, Giuffrè, 1962, 587-628; Id., Studi sul Digestum vetus, «Bollettino dell’istituto di diritto romano», 84 (1981), 159-250; Troje, Graeca leguntur cit., 41-49; Elias Anvery Lowe, Paleographical Papers 1907-1965, edited by Ludwig Bieler, Oxford, Clarendon Press, 1972, I, 187-202, II, 251-274; oltre, ovviamente, Mommsen, Praefatio cit., LXIII ss.; e M.C. Vicario, Il manoscritto Laurenziano delle Pandette: appunti per una ricognizione codicologica, in Justiniani Augusti, Pandectarum Codex Florentinus, I, a cura di Alessandro Corbino e Bernardo Santalucia, Firenze, Olschki, 1988, 11-21.

 

[305] Agustín, Emendationum et opinionum iuris civilis cit., lib. I, cap. I, passim. L’umanista spagnolo dedicò alla Littera florentina anche il De nominibus propriis tou Pandektos Florentini, Tarraconae, Philippus Mey, 1579, dove incluse un registro palingenetico dei frammenti del Digesto, l’edizione delle costituzioni greche del Codice insieme all’Epitome Iuliani delle Novelle (Constitutionum Graecarum Codicis Iustiniani collectio et interpretatio, Ilerde, Petrus Roburius, 1567), e il De legibus et senatus-consultis liber, Romae, ex typ. D. Basal, 1583. Cfr. anche Domenico Maffei, Nota minima su Antonio Agustín e Jean Matal, in Studi di storia delle università cit., 375-382. Cfr. inoltre Peter Landau, Agustín (Augustinus) Antonio, in Juristen cit., 21-23; Cuena, Antonio Agustín cit., 212-216, con bibliografia aggiornata. Cfr. anche Jean-Louis Ferrary, Saggio di storia della palingenesi delle Dodici Tavole, in Le Dodici Tavole cit., 514-519, e i saggi compresi in Antonio Agustín between Renaissance and Counter-Reform, edited by Michael H. Crawford, London, Warburg Institute, 1993.

 

[306] Cfr. Leicht, Rapporti dell’umanista e giurista spagnolo cit., 270.

 

[307] Cfr. Corrispondence de Lelio Torelli avec Antonio Agustín et Jean Matal (1542-1555), ed. par Jean Louis Ferrary, Como, New Press, 1992.

 

[308] Sui rapporti tra i due studiosi cfr. anche Gualandi, Per la storia dell’editio princeps cit., 181-198, con documenti inediti, e Cándido Flores Sellés, Epistolario de Antonio Agustín, Salamanca, Ediciones de la Universidad de Salamanca, 1980; Id., Escritos inéditos de Antonio Agustín, «Bulletin of medieval canon law», n.s., 9 (1979), 84-88.

 

[309] Cfr. Godefridus Joannes Hoogewerff, L’editore del Vasari: Lorenzo Torrentino, in Studi vasariani, Atti del Convegno internazionale per il IV centenario della prima edizione delle Vite del Vasari, Firenze, 16-19 settembre 1950, Firenze, Sansoni, 1952, 99-101, con il testo del contratto; Gualandi, Per la storia cit., 178-180; Berta Maracchi Bigiarelli, Il privilegio di stampatore ducale nella Firenze medicea, «Archivio storico italiano», 123 (1965), 304-370, in particolare le 304-308.

 

[310] Sull’attività di Torrentino cfr. Perini, Editori e potere cit., 788-798; Claudia di Filippo Bareggi, Giunta, Doni, Torrentino: tre tipografie fiorentine tra repubblica e principato, «Nuova rivista storica», 58 (1974), 326-348; ed i vecchi studi di Domenico Moreri, Annali della Tipografia fiorentina di Lorenzo Torrentino impressore ducale, Firenze, Francesco Daddi, 1819, ediz. anast. a cura di Mario Martelli, Firenze, Le Lettere, 1989, e di Giuseppe Ottino, Di Bernardo Cennini e dell’arte della stampa in Firenze nei primi cento anni dell’invenzione di essa, Firenze, Tipografia Galileiana, 1871, 65.

 

[311] Cfr. a questo proposito Ernst Peter Johann Spangenberg, Einleitung in das römisch-Justinianeische Rechtsbuch oder Corpus Iuris Civilis Romani, Hannover, bei den Brüdern Hahn, 1817, 797.

 

[312] Cfr. Francisco J. Andrés, Denis Godefroy, in Juristas universales cit., II, 284-287; Hartmut Nitschke, Dionysus Gothofredus, in Deutsche und Europäische Juristen cit., 160-163, entrambi con bibliografia aggiornata. Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 386-389; Troje, Graeca leguntur cit., 151 ss.; Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese cit., 365-368; Id., Itinera juris cit., 191-194.

 

[313] Iustinianus Corpus Iuris... commentariis Dionys. Gothofredi I.C. illustrati, Lugduni, in officina Barthol. Vincentii, excudebat Iacobus Stoer, 1583, 3 volumi in 4°. Cfr. Osler, Catalogue of books printed cit., I, nn. 1086-1088, 282, e nn. 1090-1094, 283-286, per le altre edizioni.

 

[314] Cfr. Angela Nuovo, Alessandro Paganino (1509-1538), Padova, Antenore, 1990, 38, 74-77, 135, 179-180.

 

[315] Cfr. Osler, Catalogue of books printed on the continent of Europe cit., I, nn. 1076-1085, 1112-1114, 116, 1123-1124.

 

[316] Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano cit., 91.

 

[317] Cfr. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 233-243; Adriano Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, I, Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, Giuffrè, 1979, 193-216; Ascheri, Introduzione al diritto moderno e contemporaneo cit., 98-104; Bellomo, L’Europa del diritto comune cit., 225-229; Gian Paolo Massetto, La trattatistica, in Bibliotheca Senatus Mediolanensis. I libri giuridici di un Grande Tribunale d’ancien régime, a cura di Graziella Buccellati e Anna Marchi, direzione scientifica Antonio Padoa Schioppa, Gigliola di Renzo Villata, Milano, Università degli studi di Milano, 2002, 99-138.

 

[318] Brugi, I giureconsulti italiani del secolo XVI cit., 104-105.

 

[319] Cfr. a questo proposito Ennio Cortese, Il rinascimento giuridico medievale, Roma, Bulzoni, 1992, 71-75; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 240-241.

 

[320] L’espressione è di Mario Sbriccoli, Giustizia negoziata, giustizia egemonica. Riflessioni su una nuova fase degli studi di storia della giustizia criminale, in Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna, a cura di Marco Bellabarba, Gerd Schwerhoff, Andrea Zorzi, Bologna-Berlin, Il Mulino-Duncker & Humblot, 2001, 345-364; Pifferi, Generalia delictorum cit., 6-11.

 

[321] Le notizie sono tratte da Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 82; Chiaudano, I lettori cit., 169; Coing, Die juristiche Fakultät cit., 41-42, sull’insegnamento penalistico.

 

[322] In generale sul diritto penale cinquecentesco cfr. Franco Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Roma-Bari, Laterza, 1983, 289-358; Mario Sbriccoli, Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di Maurizio Fioravanti¸ Roma-Bari, Laterza, 2002, 163-184; Ettore Dezza, Accusa e inquisizione dal diritto comune ai codici moderni, I, Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, Giuffrè, 1979, 146 ss.; Birocchi¸ Alla ricerca dell’ordine cit., 253-269; fra i saggi meno recenti cfr. Antonio Marongiu, La scienza del diritto penale nei secoli XVI-XVII, in La formazione storica del diritto moderno cit., I, 407-429; Italo Mereu, Storia del diritto penale nel ’500. Studi e ricerche, I, Napoli, Morano, 1964. Cfr. inoltre Renée Martinage, La dottrina penale in Europa nel XVI secolo, Mario Sbriccoli, Lex delictum facit. Tiberio Deciani e la criminalistica italiana nella fase cinquecentesca del penale egemonico, entrambi in Tiberio Deciani cit., 75-89, 91-119.

 

[323] Cordero, Criminalia cit., 263. Sul giurista alessandrino cfr. Aldo Mazzacane, Claro Giulio, in Dizionario biografico degli italiani, XXVI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1982, 141-146; Ernst von Moeller, Julius Clarus aus Alessandria, der Kriminalist des 16. Jahrhunderts, der Rat Philipps II (1523-1575), Breslau, Schletter, 1911; Gian Paolo Massetto, Saggi di storia del diritto penale lombardo (secc. XVI-XVIII), Milano, Led, 1994, 11-227; Carlo Venturini, Giulio Claro, in Juristas universales cit., II, 229-232.

 

[324] Cfr., oltre il vecchio studio di Marongiu, Tiberio Deciani cit., e il profilo biografico di Spagnesi, Deciani Tiberio cit., 538-542, soprattutto i due contributi di Sbriccoli, Lex delictum facit cit., ed Ettore Dezza, Sistematica processuale e recupero del principio accusatorio nel Tractatus criminalis di Tiberio Deciani, entrambi in Tiberio Deciani (1509-1592) cit., rispettivamente 91-119, 156-175; ed il recente Pifferi, Generalia delictorum cit., 93-262.

 

[325] Cfr. Aldo Mazzacane, Farinacci Prospero, in Dizionario biografico degli italiani, XLV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1995, 1-5; Cordero, Criminalia cit., 339-406, con penetranti giudizi; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 267-269.

 

[326] I dati proposti da Nicolò Del Re, Prospero Farinacci, giureconsulto romano (1544-1618), «Archivio della Società romana di storia patria», 98 (1975), 183-186, relativi a 7 edizioni, non coincidono con quelli dell’ICCU cui si fa riferimento.

 

[327] Su Bossi cfr. Gigliola di Renzo Villata¸ Egidio Bossi, un criminalista milanese quasi dimenticato, in Ius mediolani. Studi di storia del diritto milanese offerti dagli allievi a Giulio Vismara, Milano, Giuffrè, 1996, 365-616. Nell’IA sono segnalate 9 edizioni. Cfr. inoltre Maria Teresa Napoli, Follerio Pietro, in Dizionario biografico degli italiani, XLVIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1997, 560-562; e nella stessa opera, XX, 1977, Aldo Mazzacane, Cartari Flaminio, 786-788.

 

[328] Sbriccoli, Giustizia criminale cit., 174, e 173-178, sulle diverse «practicae criminales»; cfr. Giorgia Alessi, Il processo penale. Profilo storico, Roma-Bari, Laterza, 2001, 71-83.

 

[329] Su Maranta cfr. le notizie biografiche in Domenico Maffei, Prospero Rendella giureconsulto e storiografo, in Studi di storia delle università cit., 458-460; Marco Nicola Miletti, Maranta, Roberto, in Dizionario biografico degli italiani, di imminente pubblicazione; Filippo Liotta, Asini Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, IV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1962, 397-398.

 

[330] Jacopo Menochio, Consiliorum sive responsorium libri XIII, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, 1575-92; Cordero, Criminalia cit., 338. Cfr. inoltre Luigi Franchi, Memorie biografiche di Giacomo Menochio, in Contributi alla storia dell’Università di Pavia, Pavia, Tipografia cooperativa, 1925, 325-354; Cesare Beretta, Jacopo Menochio giurista e politico, «Bollettino della Società pavese di storia patria», n.s., 43 (1991), 245-277; Chiara Valsecchi, L’istituto della dote nella vita del diritto del tardo Cinquecento: i Consilia di Jacopo Menochio, «Rivista di storia del diritto italiano», 67 (1994), 205-282; Gigliola di Renzo Villata, Tra leggi e scienza giuridica nella Milano d’ancien régime, in Bibliotheca Senatus Mediolanensis cit., 88-89. Bibliografia ulteriore in Martín Serrano-Vicente, Jacopo Menochio, in Juristas universales cit., II, 248-250; Ernst Holthöfer, Menocchio Jacopo, in Juristen cit., 423-424.

 

[331] Cfr. Guido Kisch, Consilia: Eine Bibliographie der juristischen Konsielensammlugen, Basel-Stuttgart, Helbing & Lichtenhahn, 1970; Mario Ascheri, I consilia dei giuristi medievali per un repertorio-incipitario computerizzato, Siena, Il Leccio, 1982; Gérard Giordanengo, Consilia feudalia, e Vincenzo Colli, Consilia dei giuristi medievali e produzione libraria, entrambi in Legal Consulting in the Civil-Law tradition, edited by Mario Ascheri, Ingrid Baumgärtner, Julius Kirshner, Berkeley, The Robbins Colletion, 1999, rispettivamente 143-172, 173-225: a quest’ultimo si rinvia per la dettagliata ricognizione delle stampe quattrocentesche.

 

[332] Cfr. Savigny, Storia del diritto romano nel Medioevo cit., II, 571-572; Mario Ascheri, I giuristi consulenti d’ancien régime, in Tribunali giuristi cit., 185-209; Id., Introduzione storica al diritto moderno cit., 38-44; Id., Le fonti e la flessibilità del diritto comune: il paradosso del consilium sapientis, in Legal consulting in the civil law tradition cit., 11-53; Consilia in späten Mittelalter. Zum historischen Aussagewert einer Quellengattung, hrsg. von Ingrid Baumgärtner, Simmaringen, Jan Thorbecke, 1995; l’elenco delle raccolte a stampa dei consilia è in Mario Ascheri, Diritto medievale e moderno. Problemi del processo, della cultura e delle fonti giuridiche, Rimini, Maggioli, 1991, 234-236; Chiara Valsecchi, La letteratura consiliare, in Bibliotheca Senatus Mediolanensis cit., 153-164. Come è stato sottolineato, «la giurisprudenza consulente, oltre ad essere solidale con il movimento che assegna alla communis opinio un posto di rilievo e in un certo senso il primato tra le fonti, fornirà poi alla communis opinio stessa la principale sua sostanza»: Luigi Lombardi Vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, Giuffrè, 1967, 124.

 

[333] Cfr. Cristina Danusso, Le fonti dottrinali feudistiche, in Bibliotheca Senatus Mediolanensis cit., 139-152. In particolare lo Studio messinese, con l’insegnamento di Mario Giurba, docente dal 1597, autore delle apprezzate Repetitiones de successione feudorum..., Messanae, typis Io. Francisci Bianco, 1635, acquisì autorevolezza nell’ambito feudistico: cfr. Novarese, Istituzioni politiche e studi di diritto cit., 194 ss., ed anche Maria Teresa Napoli, Giurba, Mario, in Dizionario biografico degli italiani, LVII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2001, pp.112-116.

 

[334] Nella feudistica cinquecentesca si distinguono i Consilia feudalia (8 edizioni) e la Summa super usibus feudorum (2 edizioni) del giurista astigiano Alberto Bruno (1467 circa-1541 circa), le Repetitiones feudales (6 edizioni) del giureconsulto beneventano Bartolomeo Camerario (1497-1564), il Tractatus feudorum (7 edizioni) del pavese Franceschino Corti (1470 circa-1533), il Super feudis (5 edizioni) del padovano Jacopo Alvarotti, il De concessione feudi tractatus (4 edizioni) del giurista siciliano Pietro De Gregorio (morto nel 1534 circa), il De subfeudis (3 edizioni) del napoletano Marino Freccia (1503-1566), il De feudis tractatus (2 edizioni) del catanese Niccolò Intriglioli (1562-1604), i Consilia feudales (2 edizioni) del napoletano Sigismondo Loffredo (morto nel 1539), il Theatrum feudale (3 edizioni) del napoletano Camillo Della Ratta, le Repetitiones feudales (1 edizione) del giurista partenopeo Giovanni Antonio Lanaro (morto nel 1590). Continuavano inoltre ad essere stampate le opere feudistiche dei giuristi medievali: ad esempio, gli In usus feudorum commentaria di Andrea d’Isernia (morto nel 1316) ebbero 6 edizioni cinquecentesche.

 

[335] Un dettagliato profilo biografico è quello di Luigi Franchi¸ Benvenuto Stracca giureconsulto anconitano del secolo XVI, Roma, Loescher, 1888; cfr. anche Alessandro Lattes, Lo Stracca giureconsulto, «Rivista di diritto commerciale», 7 (1909), 624-649; gli atti del convegno Benvenuto Stracca nel quarto centenario della morte, Ancona, Camera di Commercio Industria e Artigianato, 1981; Vito Piergiovanni, Courts and the development of commercial law at beginning of the Modern Age, in The Courts and the development of commercial law, edited by Vito Piergiovanni, Duncker & Humblot, Berlin, 1987, 14-16; Id., La giustizia mercantile, in Il diritto fra scoperta e creazione. Giudici e giuristi nella storia della giustizia civile, Atti del Convegno internazionale della Società Italiana di storia del diritto, Napoli, 18-20 ottobre 2001, a cura di Maria Gigliola di Renzo Villata, Napoli, Jovene, 2003, 420-423. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 246-253; Javier Fajardo, Benvenuto Stracca, in Juristas universales cit., II, 191-193, per ogni ulteriore approfondimento bibliografico.

 

[336] Cfr. Mario Ascheri, I “grandi tribunali” d’ancien régime e la motivazione della sentenza, in Tribunali, giuristi cit., 85-183; Angela Santangelo Cordani, La giurisprudenza dei Grandi Tribunali, in Bibliotheca Senatus cit., 165-178; i classici studi di Gino Gorla, Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, Giuffrè, 1981; Cavanna, Storia del diritto moderno cit., I, 155-171; i saggi compresi in Grandi tribunali e Rote nell’Italia di Antico Regime, a cura di Mario Sbriccoli e Antonella Bettoni, Milano, Giuffrè, 1993; Rodolfo Savelli¸ Tribunali, «decisiones» e giuristi: una proposta di ritorno alle fonti, in Origini dello Stato. Processo di formazione statale in Italia fra Medioevo e Età moderna, a cura di Giorgio Chittolini, Anthony Molho, Pierangelo Schiera, Bologna, Il Mulino, 1994, 397-421; Ugo Petronio, I Senati giudiziari, in Il Senato nella storia. Il Senato nel Medioevo e nella prima età moderna, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1997, 355-453; Id., Senato (diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, XLI, Milano, Giuffrè, 1989, 1151-1164; Marco Nicola Miletti, Tra equità e dottrina. Il Sacro Regio Consiglio e le «decisiones» di V. De Franchis, Napoli, Jovene, 1995; Id., Stylus judicandi. Le raccolte di «decisiones» del Regno di Napoli in età moderna, Napoli, Jovene, 1998; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 85-93, con il punto sul dibattito storiografico.

 

[337] I dati sono tratti da Mario Ascheri, Indice delle raccolte di giurisprudenza, in Tribunali, giuristi cit., 2111-231, Miletti, Stylus iudicandi cit., 271-315, per le raccolte napoletane. Su Matteo D’Afflitto cfr. in particolare Giancarlo Vallone, Le “decisiones” di Matteo D’Afflitto, Lecce, Milella, 1988.

 

[338] Giovanni Nevizzano, Inventarium librorum in utroque jure, Lugduni, s.n.t., 1522. L’opera più importante di Nevizzano è la Sylva nuptialis liber sex, Asti, Franciscus de Silva, 1518, seconda edizione rifatta, Lugduni, Vincentius de Portonariis, 1524 (ristampe Lione 1526, 1540, 1545, 1549, Francoforte 1647). La Sylva è stata rivalutata dalla storiografia: la sua Quaestio quomodo posset resecari tanta librorum multitudo venne valutata positivamente, in particolare per la sua esigenza di una semplificazione dell’ordinamento ed è stata considerata da Calasso addirittura come una sorta di «vero procorrimento della codificazione, tanto più importante in quanto pensato in Italia e in quel secolo». Cfr. Francesco Calasso, Il concetto di «diritto comune», in Introduzione al diritto cit., 85; Carlo Lessona, La Sylva Nuptialis di Giovanni Nevizzano. Contributo allo studio del diritto italiano, Torino, Tipografia Locatelli, 1886; Quaglioni, La cultura giuridico-politica cit., 636.

 

[339] Cfr. Gaetano Colli, Le edizioni dell’Index librorum omnium iuris civilis et pontificii di Giovanni Battista Ziletti. Sulle tracce dei libri giuridici proibiti nella seconda metà del XVI sec., in Manoscritti, editoria, biblioteche cit., I, 205-244.

 

[340] È probabile che l’opera di Diplovatazio richiamasse un analogo trattato di Baldo, già perduto nel XVI secolo. Cfr. Tommaso Diplovatazio «De claris iuris consultis», I, hrsg. von Hermann Kantorowicz und Fritz Schulz, Berlin-Leipzig, Vereinigung Wissenschaftlicher, 1919; Tomae Dilovatatii “Liber de claris iuris consultis”. Pars posterior, a cura di Hermann Kantorowicz, Fritz Schultz e Giuseppe Rabotti, Bononiae, Institutum Gratianum, 1968, 1-140. Cfr. Enrico Besta, Tommaso Diplovatazio e l’opera sua, «Nuovo Archivio Veneto», n.s., 3 (1903), n. 4, 261-361; Mario Ascheri, Saggio sul Diplovatazio, Milano, Giuffrè, 1971, 100-109; Aldo Mazzacane, Diplovatazio, Tommaso, in Dizionario biografico degli italiani, XL, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1991, 249-254; Id., Diplovataccio (Diplovatazio), Tommaso, in Juristen cit., 172-173; José Miguel Viejo-Ximénez, Tomás Diplovatacio, in Juristas universales cit., II, 101-105.

 

[341] Cfr. Guido Panciroli, De claris legum interpretibus. Libri quatuor, Venetiis, Marco Antonio Brogiollo, 1637, ristampa Lipsiae, apud Jo. Fri. Gleditschii B. filium, 1721; Bacchi Andreoli, Alcuni studi intorno a Guido Panciroli cit., 38 ss.

 

[342] Così scriveva da Padova nel febbraio 1554 a Basilea lo studente tedesco Georg Tanners: «Sumus [...] eodem studiorum genere consociati. Audimus quotidie D. Grybaldum et D. Gujdum Pancirolum praestantes jurisconsultos, cum insigni rhetore D. Francisco Robortello, frequentissimo auditorio publice et privatim docentes», Roderich von Stintzing, Georg Tanners Briefe an Bonifacius und Basilius Amerbach, 1554-1567, Bonn, G. Georgi, 1879, 22.

 

[343] Queste raccolte, anche per le tirature limitate, vennero soppiantate nel mercato del libro giuridico dai Tractatus curati da Ziletti. Cfr. Alfredo Serrai¸ Storia della bibliografia, III, Vicende ed ammaestramenti della Historia Literaria, a cura di Maria Cochetti¸ Roma, Bulzoni, 1991, 438-452; ed inoltre Giuliana D’Amelio¸ Una rara raccolta di “Tractatus” nella Biblioteca della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, «Studi economico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari», 48 (1973-74), 71-75, sulla raccolta veneziana del 1548-50; Troje, Graeca leguntur cit., 86-89; Cortese, Il diritto nella storia medievale cit., II, 444; Balsamo¸ La bibliografia cit., 24-25.

 

[344] Cfr. Gaetano Colli, Per una bibliografia dei trattati giuridici pubblicati nel XVI secolo. Indici dei Tractatus Universi Iuris, Milano, Giuffrè, 1994, XI-XX; Serrai, Storia della bibliografia cit., III, 453-454; Ascheri¸ Introduzione storica cit., 98-99; Massetto, La trattatistica cit., 108-111. Nel primo tomo dei Tractatus emergono anche nuove sensibilità metodologiche, sia per lo studio storico del diritto romano (la Historia iuris civilis di Aymarus Rivellinus o il De historia iuris civilis romani libri tres di Valentinus Forster), sia per il problema dell’interpretazione, con scritti, più aderenti alla problematica della didattica universitaria, che affrontano il corretto methodus studendi, come quelli di Jean de Coras (Corasius), De iure civili in artem redigendo, di Joachim Hopper, De iuris arte, di Lodovico Pelleo, Confutatio eorum qui ius civile artis aut scientiae titulo non esse donandum asservere.

 

[345] Serrai, Storia della bibliografia cit., III, 454.