N. 6 – 2007 – Contributi

 

LA COMUNITÀ DI NATIONES DELL'ALTO MEDIOEVO e la  soluzione

delle controversie intersoggettive

 

Luisa Bussi

Università di Sassari

 

Sommario: Parte prima. I Regna barbarici. 1. La transizione. – 2. Fra subordinazione e coordinamento. – 3. I Regna barbarici quali soggetti di una nuova comunità. – 4. Prassi barbariche relative a soluzioni pacifiche di controversie. – 5. La politica teodoriciana. – 6. La coscienza della appartenenza ad una comunità di diritto. – 7. Decentramento e autonomia. – 8. La funzione della nobiltà. – 9. Il periodo longobardo. – 10. La soluzione delle controversie in età franca. Parte seconda. Il ruolo della Chiesa. 1. L'interposizione della Chiesa e i Regna barbarici. – 2. Il periodo goto. – 3. La Chiesa e i Longobardi. – 4. L'interposizione della Chiesa nella successione dell'Impero carolingio.

 

 

Parte Prima

I Regna barbarici

 

1. – La transizione

 

Con la decadenza, entro i confini dell'Impero romano si stabiliscono, dapprima singolarmente[1], poi massicciamente, popolazioni barbariche le quali infine, in sostituzione dell'antica organizzazione giuridica che ruotava intorno a Roma, instaurarono una pluralità di Regna  i cui rapporti intersoggettivi – vuoi quelli reciproci, vuoi quelli con l'impero d'Oriente – tendono ad una nuova definizione.  Al momento della caduta della pars Occidentis, già da tempo l'Impero non mostrava una struttura politica unitaria[2]. Le sue due partes si configuravano già come entità politiche distinte che, pur asserendosi parte di un complesso unitario, lo erano, però, quasi esclusivamente su di un piano ideale. Al principio di una normazione comune, anche unilaterale, si era sostituito quello di una normazione concordata, basata, quindi, al fine della estensione a tutto l'Impero, su una fonte pattizia la cui natura - per una parte della dottrina - sarebbe già definibile più come internazionalistica che come interna[3]. Per la verità, vivaci forze centrifughe si erano fatte evidenti già da tempo. Da quando i provinciali avevano cominciato a identificare Roma piuttosto con i suoi esattori che con le sue legioni, ciascuno aveva intravisto la possibilità di concludere una sua personale pace con i Barbari[4]. E' possibile, come fu sostenuto a suo tempo, che ciò abbia significato il riaffiorare di singole consuetudini e diritti locali di contro alla ratio unificatrice romana, soprattutto là dove questa aveva incontrato maggiore resistenza[5], in un rafforzarsi delle autonomie e dei particolarismi provinciali che si radicava già nel rinvio che lo stesso diritto romano consentiva alle consuetudines loci e che si alimentò anche della tendenza a scegliere i funzionari nei ceti dirigenti locali ed in specie dell'abitudine invalsa, soprattutto dopo Claudio, alla istituzione di eserciti stanziali lungo i confini dell'Impero, costituiti in proporzione crescente con soldati di mestiere reclutati fra i provinciali e i Barbari d'oltre confine. Nei quali quindi venne ad essere attratto il potere effettivo[6]. Il Santini[7] rileva, infatti, come fosse in atto un processo di frazionamento non solo nelle due partes imperii, ma anche nelle grandi Praefecturae (Illiricum, Oriens, Italia, Gallia) in cui ciascuna pars era divisa, e che erano suddivise a loro volta in diocesi e, ulteriormente, in provincie[8]. Ad esse sovrintendevano rispettivamente i praefecti praetorio, investiti nel loro distretto di un autonomo potere amministrativo, i vicarii, sostituti dei prefetti stessi, i praesides; cui si aggiungevano, nelle provincie di confine, i duces o comites rei militaris[9]. Se tutto il potere  era nella voluntas imperatoris, il massimo dell' accentramento, che veniva così realizzato in via di principio, di fatto recava in sè le premesse della sua frantumazione perchè, nonostante l'unicità ideale dell'Impero, i due Imperatori governavano insieme ai quattro diversi apparati burocratici delle prefetture del pretorio, nonchè insieme a quelli delle diocesi. Certo è che nelle Variae di Cassiodoro si trova ormai quello che può apparire tanto un lamento quanto una presa d'atto della situazione venutasi a creare: "Unicuique civi urbs sua respublica est"[10].

 

 

2. – Fra subordinazione e coordinamento

 

La dottrina  non è peraltro concorde nell' ammettere la sussistenza di una comunità internazionale nell'alto Medioevo nè nello stabilire quando sia avvenuto il salto di qualità per il quale si possa parlare di personalità giuridica internazionale a proposito delle diverse etnie barbariche.

Da alcuni si è dato maggior peso agli elementi di continuità che legano il tardo Impero con l'età barbarica. Così le ricerche del Santini[11], pongono l'accento sul fatto che sin dai tempi di Diocleziano si era abituati a distinguere fra autorità civili e autorità militari e che, già con Aureliano, nelle zone di confine era stata istituita la carica di dux ai cui poteri militari si univano ampie funzioni amministrative. L'occupazione di una provincia romana da parte dei Barbari non avrebbe significato dunque altro, in buona parte dei casi, se non la sostituzione del dux con il rex barbaro, dei comites civitatis romani con altri barbari. Esisterebbe, insomma, una continuità storica fra le circoscrizioni amministrative romane e quelle dei regna barbarici. In questo senso, il Santini riprende una tesi del Vaccari[12], che si era occupato del rapporto fra gli stanziamenti barbarici e le divisioni territoriali romane, osservando come l'ambito territoriale dei regni (poi ducati) barbarici, trovasse corrispondenza nelle precedenti ripartizioni amministrative dell'Impero. Le circoscrizioni provinciali romane, inoltre, non avrebbero offerto solo il quadro territoriale, ma anche gli strumenti amministrativi per il governo interno. Nella stessa ottica si pone Vincenzo Bellini: a un attento esame, le cosiddette invasioni non sarebbero state che un inacerbirsi di posizioni separatiste, che avrebbero tratto la loro forza dall'elemento barbarico già penetrato nell'Impero e, in maniera più o meno completa, già inquadrato nelle strutture costituzionali e amministrative[13]. Il Werner va più in là: soprattutto a seguito della loro cristianizzazione, alle popolazioni extramediterranee sarebbero state estese le strutture istituzionali romane[14]. Per il Cortese, se da un lato Odoacre esercitò certamente i poteri con pienezza, lo fece nel rispetto di Roma e il suo regnum si collocò intra  e non extra  imperium[15].

I Germani, insomma, si "romanizzano"; ma l'utilizzazione di schemi amministrativi romano-bizantini (attuata del resto anche dagli Arabi successivamente[16]), la progressiva recezione, da parte loro, di istituti di diritto romano non vale tuttavia, di per sè, a risolvere positivamente o negativamente il problema dell'emergenza di nuovi soggetti internazionali dal seno dell'Impero. Non risolve, di per sè, tale problema nemmeno il fatto che siano stati rari gli esempi di conquista violenta, e ancora più rari quelli in cui tale conquista non abbia cercato, almeno a posteriori, il riconoscimento da parte dell'Impero; o il fatto che i Barbari cercassero di intromettersi nella politica interna di quest'ultimo – come dimostra il sostegno offerto dai Vandali ad Olibrio. Il punto decisivo è un altro. Ed è di stabilire in che misura essi fossero in grado di porsi come potentati autonomi, e in che misura, viceversa, restassero in uno stato di più o meno stretta soggezione rispetto all'Impero. Tale problema presenta due aspetti. Il primo riguarda la valutazione delle nationes barbariche come tali; il secondo, il livello attinto da queste nationes nel loro costituirsi in regna all'interno di quelli che erano stati i territori dell'Impero. Il primo aspetto richiede di addentrarsi nella storia istituzionale e politica delle popolazioni barbariche in via di stanziamento; il secondo di valutare quanto l'assunzione di una qualifica concessa dall'Impero d'Oriente  equivalesse, da parte dei re barbarici, al riconoscersi soggetti alla sua signoria, e fino a qual punto, invece, essa non fosse assunta con altri intendimenti: come espressione di uno stato di buone relazioni o, secondo la tesi di Caravale[17], allo scopo di impadronirsi della res privata principis  nei territori da loro acquisiti. Sino a qual punto, cioè, i rapporti fra i Regna barbarici e l'Impero di Costantinopoli fossero di subordinazione formale ovvero, al contrario, di coordinazione, non necessariamente  paritaria, fra entità politiche indipendenti.

Molto scettico sulla possibilità di riconoscere nei rapporti inter se dei re barbarici sia pur l'abbozzo di una vera e propria collettività interstatuale caratterizzata da rapporti costanti e giuridicamente organizzati fra Stati sovrani è Cortese[18], per il quale fino a Paolo Orosio e Isidoro di Siviglia, l’universalità dell’Impero rimane un dato incontroverso, teso a “racchiudere entro un involucro ideale il brulichio delle tante individualità del mondo”[19]. Da questo punto di vista si pone anche Amory[20]: la tarda antichità non conosce alcuna vera “rottura” né sprofonda  in alcun “germanesimo”. Anche per Vincenzo Bellini le <nazioni> barbariche non esistono in realtà al di fuori dell'Impero ed è solo incontrandosi con esso che acquistano il loro carattere nazionale[21]. Come nella testimonianza di Tacito, così nelle fonti del Basso Impero l'organizzazione politica barbarica conserverebbe pur sempre una forma confederale[22]. Prevarrebbero, quindi, in questa ottica, gli elementi che militano contro la sussistenza di una reale autonomia dei Regna  barbarici e, prima ancora, delle nationes germaniche, vuoi a causa dell'immaturo livello delle istituzioni di queste, vuoi a causa del fatto che quelli avrebbero continuato pur sempre a dipendere dall'Impero[23].

D'avviso diverso è il Paradisi, per il quale il mondo germanico possedeva ab immemorabili un diritto internazionale, del quale farebbe testimonianza Cesare, che nel De bello gallico attesta una prassi consolidata così di alleanze e dedizioni, come di formazioni di vaste confederazioni e clientele internazionali[24]. Anche Vismara propende verso questo modo di vedere, e il  quadro sembra confermato dalla ricostruzione che Obolensky fa  della pressione dei Barbari sui Balcani[25]: benchè ai Regna barbarici non possa essere attribuita la natura di Stati, non per questo è consentito escludere  che essi possano essere considerati quali soggetti rilevanti sul piano internazionale, tanto più se si tiene conto che il concetto di soggetto di diritto internazionale non si identifica con lo Stato “persona” contemporaneo[26].

Evidentemente, indicazioni più chiare potranno derivare da un esame delle fonti[27] volto a stabilire se e sino a qual punto i Regna  barbarici si ponessero di fatto, sul piano “internazionale”, come soggetti capaci di autonomia e  indipendenza[28]. Fra gli storici italiani, lo Scovazzi[29] si dedicò a suo tempo a ricercare i lineamenti originari degli ordinamenti germanici. Poichè la presunzione dell'influenza del diritto romano era suscettibile di inficiare ogni conclusione ad essi relativa, la ricerca si volse con particolare attenzione alle tradizioni di quelle popolazioni sulle quali tale influenza era stata minore. L'esito di tali ricerche lascia intravvedere, seppur embrionale e tendenzialmente anarchico, un livello di organizzazione sufficiente a far pensare alle formazioni politiche formate dai Barbari come a potentati capaci di esprimere, sul piano  internazionale, una volontà e una azione autonome.

Quanto all'effettiva indipendenza dall'Impero raggiunta dai Regna, occorre distinguere, nelle fonti stesse, fra elementi di giudizio apparentemente contraddittori. Se Paolo Orosio scrive:

 

"...quam feliciter Roma vincit, tam infeliciter quicquid extra Roma est vincitur"[30],

 

se in Giovanni Lido sembra essere presente una differenziazione fra Imperium e Regnum intesa come subordinazione di questo a quello[31], per Salviano:

 

"Timebantur Romani veteres, nos timemus: vectigalia illi solvebant populi barbarorum, nos vectigales barbaris sumus"[32].

 

Sembra essersi fatta strada, cioè, la coscienza di un decisivo capovolgimento di rapporti, giustificato, nella visione di Salviano, dalla corruzione di Roma, contrapposta alla purezza di costumi dei Barbari, i quali quindi non hanno solo conquistato le provincie romane, ma hanno anche maggior diritto a dominarle:

 

"Ac primum a solo patrio effusa est in Germaniam primam, nomine barbaram, dicione Romanam: post cuius primum exitum arsit regio Belgarum, deinde opes Aquitanorum luxurantiumet post haec corpus omnium Galliarum, sed paulatim id ipsum tamen, ut dum pars clade caeditur, pars exemplo emendaretur"[33].

 

D'altronde, secondo la narrazione del Giordanes, i Visigoti, già sudditi di Roma, avendo ottenuto la Mesia ad colendum dall' imperatore Valente quasi murum regni sui contra caeteras gentes, mediante un foedus con il quale essi si impegnavano a divenire cristiani, scontenti poi del trattamento loro riservato dai duchi romani:

 

"Coeperunt ...jam non ut advenae et peregrini, sed ut cives et domini possessoribus imperare, totasque partes septentrionales usque ad Danubium suo jure tenere"[34].

 

La testimonianza ci dà la misura della trasformazione in atto. Perchè se i termini advenae e peregrini richiamano la condizione dei dediticii, quel suo jure cui lo storico affida tutto il peso del mutamento, non può significare se non l'indipendenza del regno visigoto.

In effetti, l'Impero basava ormai la sua sicurezza su di una serie di rapporti bilaterali le cui premesse erano profondamente diverse dal passato. Originariamente questi accordi con i potentati barbari avevano lo scopo di assicurare a Roma  la loro collaborazione militare[35]. Presto, però, ebbero quello di allontanare la loro minaccia. In vista di ciò, Bisanzio si adattava spesso a pagare alte somme di denaro, che se per un verso, nell'ottica bizantina, ci si poteva illudere rientrassero nel quadro di una abile diplomazia[36], in quella barbarica, invece, erano viste come un tributo che dimostrava l’inferiorità di chi lo elargiva[37].

Lo stesso istituto del foedus, stipulato dal rex barbaro con Roma – foedus con il quale questa, in cambio di viveri e sussidi otteneva la fornitura di milizie nonchè la difesa della regione ove la popolazione relativa era insediata –, comportava di necessità il porsi di entrambe le parti sul piano internazionale[38]. Di accordi di questo tipo si rintracciano esempi sin nell'alto Impero. Secondo buona parte della dottrina, anzi, sarebbe stato proprio il foedus stipulato con Roma a provocare, all'interno della comunità barbarica, una estensione dei poteri del rex, estensione che, attraverso l'istituto della tuitio, doveva esser gravida di conseguenze istituzionali. Ora, è ben vero che spesso, nelle formazioni politiche barbariche, regalità e unità politica appaiono come due concetti interdipendenti[39], nonchè fortemente caratterizzati in senso sacrale. Ma questo non giustifica la conclusione che i Barbari abbiano formati dei potentati significativi sul piano politico solo sotto l'influenza di Roma, perchè è altrettanto vero, da un lato, che l'istituto della regalità era ben conosciuto dai Germani, per quanto esso attingesse, come sembra, a connotati del tutto peculiari[40] e per quanto le turbolenze connesse alle migrazioni possano averne provocato il rafforzamento e la diffusione; dall'altro che, al fine di stabilire se i potentati barbarici rilevassero a livello internazionale, non è importante vedere quali forme istituzionali tali potentati si dessero al loro interno, bensì quanto fossero capaci di esprimere delle forme autonome e originarie di organizzazione, quali che esse fossero. Non solo, insomma, prendendo in considerazione i Regna barbarici, bisogna evitare di pensare che essi abbiano teso ad assumere le caratteristiche di uno Stato nel senso moderno del termine; bisogna badare altresì al livello al quale si sarebbe determinata quella che oggi chiamiamo personalità giuridica internazionale. Come vedremo meglio in seguito, infatti, portato del germanesimo sarà una concezione decentrata del potere, che pone in primo piano l'unità di stirpe, con i forti legami di tutela reciproca che essa comporta.  Negli enti politici barbarici, la connessione con il territorio si precisa solo a fatica: il re barbarico è ancora un rex gentium. E' in questa qualità che egli si propone come eventuale soggetto di rilievo internazionale, parte, cioè,  di una comunità che poteva essere tale in quanto  già si riconosceva in talune norme fondamentali di convivenza. Ma anche nella concezione di Cicerone la civitas non è che un coetus multitudinis juris consensu et utilitati communione sociatus[41]: cioè non è ricordato  alcun elemento reale[42]. Ricimero non dispone di un territorio, tuttavia si comporta come il vero sovrano di quello che resta dell'Impero d'Occidente, benchè poi salvi il principio della legittimità accordandosi con l'imperatore d'Oriente per la nomina degli ultimi imperatori-fantoccio. Quando Ricimero muore, un altro barbaro, il burgundione Gundobado, assume a Roma il potere effettivo; ma, chiamato a salire sul trono burgundo, è quest'ultimo che preferisce, lasciando il suo posto a quell'Oreste che porrà sul trono Romolo Augustolo. Sostenere che se la giustificazione di fatto del potere regale è fondata sulle forze barbariche, quella di diritto è fondata sul riconoscimento dell'Impero[43] è possibile solo ponendosi da un'ottica interna al sistema romano-bizantino. Esiste, però, un'ottica esterna ad esso. A monte del riconoscimento c'era, per l'appunto, la situazione di fatto, l'effettività. Per questo, nella pace del 442, Genserico viene riconosciuto da Valentiniano III quale sovrano del regno vandalo da lui costituito nell'Africa settentrionale; ed Eurico guadagna nel 475 la piena indipendenza per il regno goto della Gallia meridionale[44].

 

 

3. – I Regna barbarici quali soggetti di una nuova comunità

 

Certo, quelli barbarici non sono potentati caratterizzati dal contrassegno della stabilità; anzi, la principale difficoltà che essi pongono per una chiara comprensione del quadro generale è data dal continuo riemergere, al loro interno,  di tratti confederali[45], mentre, al loro esterno, l'Impero di Bisanzio si propone sempre come qualitativamente superiore e tende ancora a lungo a far corrispondere nuovamente a tale pretesa un riscontro concreto. Ancora con Eraclio esso si presenta come l'Impero trionfatore sui particolarismi, tanto da indurre il re franco Dagoberto a rendergli omaggio[46]. D'altra parte, nelle fonti si trova frequente riferimento a  principes terrae capaci di manifestare, nelle trattative fra l'Impero e i potentati barbarici, una volontà autonoma[47]. Si può dire, perciò, che il livello organizzativo dei popoli che la migrazione degli Unni farà riversare nell'Impero era bensì lontano dalle forme costituzionali  di quest'ultimo, e dalla potenza da esso  dispiegata, ma nella sua essenza non talmente diverso da impedire che essi lo fronteggiassero su di un piano che, dalla subordinazione formale, tendeva ad una  potenziale parità.  Franchi, Sassoni, Alamanni, Burgundi e Turingi; e poi Svevi, Quadi e Marcomanni, e infine Vandali, Goti e Longobardi, per non parlare di Alani, Sabidi, Utiguri, Kutiguri, Anti, Gepidi e soprattutto Slavi e Avari, prima di riversarsi nell'Impero d’Occidente o minacciare anche quello d’Oriente,  esprimevano già forme monarchiche o federative di organizzazione politica[48] capace di porsi sul piano “internazionale” esprimendo una volontà autonoma e una azione agile e pronta, capace di utilizzare anche gli strumenti della diplomazia[49].

Gli stessi Unni, nel V secolo, non sono più quali li aveva descritti Ammiano Marcellino[50]. Recentemente, essi avevano subito l'influenza politica della monarchia persiana[51]. Erano quindi venuti in contatto con strutture organizzative avanzate[52], giungendo a comporre, insieme  alle altre stirpi che ad essi si erano unite,  un regno potente, che aveva il suo centro sul Tibisco, ed  estendendosi dalle steppe del Ponto sino alla Germania meridionale, esprimeva una propria organizzazione interna, tale da consentirgli  anche di porsi in relazione con gli altri potentati, usando non solo della violenza bellica, ma anche dei modi e delle forme grazie alle quali più poteri possono entrare in relazione[53]. Tant’è che l’imperatore di Bisanzio è ben lieto, nel 449, di pervenire con Attila a un trattato  che il capo unno giura di rispettare, evacuando i territori e non insistendo sulla restituzione dei transfughi alla condizione che da parte dei Romani non ne siano accolti più altri.

In definitiva, la comunità di popoli del quinto secolo sembra già volersi proporre come l'erede di quella dominata dalla potenza romana, e assumere l'uniformità istituzionale fornita da quest'ultima come fondamento di una coscienza societaria che, pur senza rinnegare la precedente, tende a porsi tuttavia su basi diverse.  Si tratta di una comunità in tumultuosa trasformazione, i cui dati, già di difficile qualificazione, sono suscettibili di mutare repentinamente, e perciò non è facile riconoscervi i tratti di una vera e propria Comunità internazionale, proprio in quanto non è facile intendere gli elementi costanti della prassi internazionalistica, nè discernere  ciò che rileva solo dal punto di vista interno, da ciò che, invece, rileva dal punto di vista internazionale, ovvero quanto è di natura privatistica da quanto è di natura pubblicistica. E questo vuoi per la personalizzazione accentuata dei rapporti politici, vuoi anche per via dell'amplissimo spazio che comunque nei diritti germanici è lasciato all'autotutela[54].

Per molto tempo sembra sussistere una discrepanza fra teoria e realtà. A molti  contemporanei di parte romana, che solo a poco a poco si adattavano ai tempi nuovi, e coglievano le caratteristiche spirituali dei vari gruppi nazionali barbari, le controversie fra questi parevano prive di rilievo internazionale: dei diverbi che non potevano  assurgere al rango di storia vera[55]. D'altra parte, le legazioni inviate a Costantinopoli dai re barbarici insediatisi nella pars Occidentis erano nella maggior parte dei casi affidate a senatori[56]. E' probabile, quindi, che questa circostanza abbia conferito alle trattative delle sfumature non del tutto corrispondenti alla situazione reale sebbene, anche  all'interno della cultura dell'Impero, traendo respiro dalle dottrine agostiniane, non mancasse di affacciarsi una nuova morale politica, tendente a rivalutare l'elemento particolare di fronte all'universale.

Difficile, ad esempio, è valutare la portata delle alleanze che si instaurano fra l'Impero e i Barbari in questo periodo. Anche adesso Roma stabilisce rapporti di amicitia e di societas. L'instaurarsi di questi rapporti, tuttavia, non sembra implicare più, nei fatti, l'egemonia romana. Ad esempio, da Procopio sappiamo che, profilandosi una guerra fra Longobardi e Gepidi, questi, non ignorando che Giustiniano aveva con gli altri un patto di alleanza, cercano di farselo amico e alleato[57]. Nella circostanza, tuttavia, per quanto decisivo potesse essere l'atteggiamento bizantino per far pendere la bilancia nell'uno o nell'altro verso, non sembra che la ricerca dell'alleanza romana implichi la rinuncia ad una autonoma conduzione dei rapporti reciproci nè da parte dei Gepidi, nè da parte dei Longobardi.  Basti pensare al fatto che Audoino, proprio come amico e alleato dei Romani, in premio della amicitia pretende da Giustiniano la consegna di Ildigisalo che, da lui spossessato, si era rifugiato a Bisanzio[58]. Come acutamente ebbe a notare Paradisi[59], esiste anche un punto di vista non imperiale, cioè un punto di vista non corrispondente alla sottomissione e alla assimilazione degli Stati germanici da parte dell'Impero, ma invece espressione di una realtà più complessa. Guardata dalla parte dei Germani, la posizione dell'Impero appare ormai utopistica. Lo schema dei rapporti internazionali per il quale era sempre implicita la superiorità di Roma, non aveva più alcuna attualità. D'altronde, se l'Impero interviene nelle questioni interne dei potentati barbarici, spesso i Barbari  sono capaci di intervento nelle questioni interne dell'Impero.  Nella seconda metà del V secolo, Ricimero provvede a nominare diversi imperatori successivi, fra cui Maggiorano, Livio Severo, Olibrio; anche l'imperatore Glicerio sarà sostanzialmente imposto da Gundobado, che era re dei Burgundi nonchè patricius romanorum[60].

Il sesto secolo si apre, perciò, su un quadro già sufficientemente chiaro. Esiste un passo di Procopio, dal quale a tale proposito si possono trarre indicazioni illuminanti. Procopio lamenta l'effetto rovinoso della guerra gotica, a causa della quale sarebbero stati sacrificati inutilmente uomini e danaro in grande quantità, sarebbe andata distrutta l'Italia, e messi al sacco e devastati l'Illirico e la Tracia. Per quanto concerne la Gallia, egli dice, già al principio della guerra i Goti ne avevano ceduto tutta la parte da essi posseduta ai Franchi, pensando di non poter resistere a un tempo su due fronti. Non avendo potuto impedire che ciò avvenisse, Giustiniano pensò fosse opportuno confermare i Franchi nel loro possesso, affinchè questi, mettendosi in guerra, non gli procurassero altri guai. Da parte dei Franchi, tuttavia, il desiderio di ottenere il riconoscimento dell'Impero sembra connesso, stando al nostro storico, più a considerazioni di opportunità politica che non  a un bisogno di legittimazione: "Perchè i Franchi non pensavano di poter ritenere con sicurezza il possesso della Gallia, se l'Imperatore non vi aveva apposto il suo suggello". Certo è, ad ogni modo, che a partire da questo momento essi detengono la Gallia jure proprio: "Dopo di che avvenne – ci dice Procopio - che i re germani si impadronirono di Marsiglia, colonia focese, e di tutti i paesi del litorale, come pure di quel mare. E ora se ne stanno in Arles allo spettacolo delle corse del circo e battono moneta d'oro dalle miniere delle Gallie, non già, com'era loro costume, con l'effigie dell'Imperatore, ma con la loro"[61]. Quest'ultimo fatto appare allo storico del tutto inusitato, tanto che rileva come persino il re di Persia, uso a battere moneta secondo il suo volere, non batta però moneta d'oro, e questo non perchè gliene manchi la materia prima, ma perchè una tale moneta non avrebbe corso nei commerci neppure fra i Barbari stessi. Ciò equivale a dire che la moneta romana serviva come strumento degli scambi internazionali, e la sua utilizzazione non aveva necessariamente implicazioni di natura politica, come ne aveva invece, di natura economica[62].

Certo, se anche il Digesto precisa la alterità politica dei “foederati[63], i rapporti che Bisanzio intratteneva con essi non venivano posti su un piano paritario. Nel linguaggio diplomatico ciò emergeva chiaramente: all’Imperatore  ci si riferiva come al “padre” del re barbaro; al primo spettava il titolo di basileus, mentre al secondo – anche in greco - quello di rex. D’altro canto, se abbandoniamo la pregiudiziale della pariteticità come condizione imprescindibile per ammettere l’esistenza di una comunità internazionale, il riconoscimento del diverso rango dell’Impero d’Oriente non comporta se non la conseguenza della qualificazione di quella dell’età di transizione come una comunità i cui soggetti erano caratterizzati da una condizione giuridica differenziata.

Ben diverso era, infatti, il linguaggio che veniva usato nei rapporti dell’Impero di Bisanzio con la Persia. L’imperatore Arcadio, per assicurarsi la pace e una pacifica successione, dovette - nel 408 - accettare che il re persiano  assumesse il titolo di padrino del proprio figlio e successore Teodosio II. E’ peraltro nota la “adozione” politica del giovane Cosroe II, da parte dell’imperatore Maurizio, adozione che ebbe influenza nella contesa successione persiana. Anche in periodi di forte tensione, il linguaggio diplomatico si richiamava alla “amicitia”  del sovrano persiano con quello bizantino Solo nei primi decenni del VII secolo i rapporti si inasprirono, sfociando in un conflitto aperto, la qual cosa favorì l’espansione dell’Islam[64].

 

 

4. – Prassi barbariche relative a soluzioni pacifiche di controversie

 

Insomma,  l'emergere di nuovi potentati sul proscenio della storia euro-mediterranea si può ammettere non abbia significato all’inizio quello sconvolgimento che tradizionalmente ad esso si attribuiva, ma certamente comportò una progressiva modificazione  della struttura entro la quale si articolavano i rapporti reciproci. Una  modificazione il cui segno più evidente stava nel venir meno del principio unificatore e coordinatore rappresentato dall'Impero di Roma.

I rapporti internazionali conoscevano peraltro ancora gli stessi strumenti usati nel passato: foedus, amicitia e deditio in fidem, e si avvalevano di una esperta diplomazia, protetta dal principio, generalmente riconosciuto, della inviolabilità degli ambasciatori[65]. Dalla famosa ambasceria di Teodosio il giovane ad Attila, di cui si è già fatto cenno innanzi, emerge il sussistere di una prassi diplomatica, sia pur non continuativa e volta a scopi straordinari, come la conclusione di un'alleanza o il mutamento di uno schieramento, ma comunque anche destinata alla soddisfazione di interessi di più ordinaria portata, quali potevano essere lo scambio dei transfughi (disertori barbari rifugiatisi a Bisanzio contro schiavi fuggiti senza pagare il riscatto) o l'istituzione di fiere regolate da norme riconosciute da entrambe le parti[66].

Generalmente i trattati erano orali, ma i più importanti ricevevano una forma scritta. Le trattative venivano condotte il più delle volte in una località posta al confine fra i due Stati – se confinanti –mediante ambasciatori  ad hoc  muniti di pieni poteri per trattare e concludere l’accordo. Così nella pace conclusa fra Giustiniano e Cosroe I del 562. Qui l’art. 12 del trattato rinviava alla fides e a formule di condanna contro chi lo avesse violato; l’art. 13 prevedeva la ratifica del trattato da parte dei due monarchi.

Tra le norme che già si delineano come destinate a regolare la vita di relazione non mancano quelle che prevedono mezzi di composizione pacifica delle controversie. Sappiamo  di un Onegesio, della corte di Attila, che Prisco stesso cerca di convincere ad assumere una ambasceria presso la corte di Bisanzio prospettandogli la possibilità che l'imperatore bizantino lo accetti quale arbitro delle controversie fra Bizantini e Unni[67], e dello stesso Teodosio che svolge opera di pacificatore fra i diversi  gruppi politici degli Acatziri[68]. Il ricorso a mezzi pacifici di soluzione delle controversie, in particolare il ricorso alla intromissione di un terzo, ci viene attestato anche da altre fonti, le quali ci parlano di funzionari imperiali che fungono da mediatori nelle contese fra le popolazioni barbariche. Così da Idazio, che, in qualità di vescovo partecipò di persona all'accordo sappiamo che:

 

"Regresso Censorio ad palatium Hemericus (il re svevo) pacem cum Gallaecis quos praedabantur assidue, sub intervento episcopale datis sibi reformat obsidibus"[69].

 

Similmente, nel 438[70], si ha una interposizione degli inviati Censorio e Fratimundo; la pace è poi direttamente stipulata con le popolazioni locali.

Ma uno degli esempi più significativi, è probabilmente quello offerto dalla controversia fra i Longobardi e i Gepidi, i quali cercano, ciascuno per sè, l'alleanza o almeno la non ostilità di Roma. L'ambasceria che i Longobardi inviano a Bisanzio tende a far rilevare come i Gepidi, pur essendo amici e alleati dei Romani, e avendo di conseguenza ricevuto da loro ripetuti donativi, tuttavia ne abbiano invaso molti territori non appena la potenza gota, per loro pericolosa, era divenuta meno temibile[71]. L'ambasceria dei Gepidi, dal canto suo, onde addossare la responsabilità della crisi agli avversari, asserisce esser stato dai Gepidi già offerto ai Longobardi di risolvere la controversia con un giudizio, e il volersi sottoporre a un giudizio non è di chi attende a violenze[72]. Giustiniano, nella circostanza, calcola gli sia più conveniente appoggiare i Longobardi. Secondo Procopio, saputo che l'esercito romano si approssimava, i Gepidi provvidero allora a risolvere altrimenti la propria controversia con i Longobardi, sicchè le due popolazioni, contro le aspettative dell'imperatore bizantino (evidentemente interessato più a fomentare che a sopire la discordia) conclusero la pace fra di loro[73].

Lo stesso Giustiniano manda un legato al re dei Franchi Teobaldo, allo scopo di promuovere una comune  alleanza contro Totila. Il legato, certo Leonzio, ricorda anzitutto al re franco che  l'imperatore in tanto aveva manifestato l'intenzione di combattere i Goti, in quanto aveva avuto dai Franchi, con ricchi donativi, la promessa che si sarebbero associati con lui nell'impresa come amici e alleati. Che viceversa essi non solo non avevano mantenuto la promessa, ma si erano impadroniti di un regno che era stato conquistato dai Bizantini con grande profusione di denaro e di uomini. Nelle parole del legato non manca un accenno al pericolo rappresentato da un ingiusto possesso. La replica di Teobaldo, però, è molto interessante, vuoi come prova della esistenza ed autocoscienza di una comunità internazionale della quale l'Impero bizantino non era che uno dei soggetti, anche se più degli altri potente; vuoi come indice ulteriore di quanto fosse frequente e diffuso fra i Barbari il ricorso a mezzi non bellici di soluzione delle controversie intersoggettive. Nella replica di Teobaldo c'è anzitutto il rifiuto a ritirarsi dall'accordo con i Goti. Inoltre, ciò che può essere riguardato come un rinvio al principio della effettività, è presente l'obiezione che i territori di cui parla Leonzio sono stati occupati dai Franchi non già prendendoli dai Romani, bensì da Totila, che già ne era in possesso. Che, del resto, ben si poteva rimettere a dei giudici di pronunciarsi intorno a tali cose: perchè se fosse risultato che i Franchi si erano impossessati di qualcosa che apparteneva ai Romani, ne sarebbe stata fatta immediata restituzione. Che anzi a tale fine sarebbero stati inviati senza indugio ambasciatori a Bisanzio[74]. Purtroppo di questa ambasceria Procopio non ci fornisce altre informazioni, se non che Teobaldo, rimandato indietro Leonzio, avrebbe spedito il franco Leotardo con altri tre in ambasceria presso Giustiniano, e che costoro, giunti a Bisanzio, avrebbero compiuto il proprio mandato.

Anche nel famoso pactum di Andelot fra Gontrano, Childeberto e Brunechilde, di cui riferisce Gregorio di Tours, e che è stato ricostruito dal Pertz[75], si fa cenno ad uno scandalum cui si vuole porre rimedio con tale accordo, e al fatto che l'accordo stesso è stato possibile mediantibus sacerdotibus atque proceribus. Il pactum è un vero e proprio accordo di spartizione di territori e competenze, con il quale le parti si impegnano anche ad azioni ed omissioni di interesse reciproco. E d'altra parte, per valutarne appieno il significato, converrà ricordare che in un precedente edictum Gontrano aveva  affermato essere stata a lui commessa la facultas regnandi dalla auctoritas superni regis[76]: la legittimità del regno si era, cioè, ormai svincolata dal riconoscimento di Bisanzio, rifugiandosi nel concetto di sacralità regia.

 

 

5. – La politica teodoriciana

 

Un indizio significativo per rispondere al problema di come si ponga, in questo periodo, il problema della soluzione pacifica delle controversie internazionali, è rinvenibile nella politica di Teodorico. Di questi già è da discutere se egli giustifichi più il suo potere  in Italia sulla base di una delega imperiale, come aveva fatto Odoacre[77]; giacchè, da quando si stabilisce in Italia, egli non sembra proporsi più semplicemente come un rex gothorum ma semplicemente come un rex[78] che, secondo la cronaca di Agnello ravennate regnavit romanorum more[79]. Secondo l'Astuti, le espressioni formali di ossequio all'autorità della legge romana da parte dei sovrani goti, da Teodorico ad Atalarico, si accompagnarono ad una legislazione edittale sostanzialmente innovativa, e soprattutto non impedirono la conservazione del diritto consuetudinario dei Goti nella pratica e nella relativa tutela giudiziaria[80]. Sappiamo dalle istruzioni date da Teodorico a Sunhivad, nell'affidargli il governo del Sannio, come dovesse valere il principio per cui:

 

"... si quod negocium Romano cum Gothis est aut Gotho emersit aliquod cum Romanis legum consideratione definies, nec permittimus indiscreto jure vivere quos uno voto volumus vindicare"[81],

 

passo che dall'Astuti viene interpretato alla luce del principio, altrove formulato:

 

"ut unusquisque sua jura serventur, et sub diversitate judicum una justitia complectatur universi"[82].

 

Non sembrano espressioni di chi si ritiene soggetto ad altro sovrano.

Anche Teodorico si serve, per le missioni più importanti, di senatori. Alla fine del 525 egli invia una legazione a Costantinopoli, di cui fanno parte per l’appunto anche due senatori, insieme al papa Giovanni I. La legazione doveva trattare con l'imperatore Giustino I la questione ariana in Oriente, e cioè la restituzione delle chiese, una volta ariane, all'antico culto. Sappiamo di un Agapito, di cui Cassiodoro elogia le doti diplomatiche e che svolge una missione assai difficile – ma non ne conosciamo il contenuto – per cui occorreva un legato prudentissimo:

 

"...qui possit contra sublimissimos disputare et in conventu doctorum sic agere ne susceptam causam tot erudita possit ingenia superare"[83].

 

Ma, esauritosi lo scisma laurenziano, Teodorico aveva in mano la situazione politica in Italia. Egli agiva in pieno accordo con Ormisda, come specifica per ben tre volte la Vita di Ormisda nel Liber pontificalis. Sta di fatto che, con l'accorta lungimiranza del suo governo e con i suoi successi politici, egli si era conquistato non soltanto presso i re minori, come quelli degli Eruli, dei Varni e dei Turingi, ma anche presso i maggiori come quelli dei Vandali, dei Burgundi, dei Visigoti, una autorità indiscussa. Grazie a questa, egli ha esercitato per molti anni una notevole influenza sulla loro politica estera. Richiesto o non richiesto, egli impartisce consigli, ammonisce e minaccia, interviene[84].

Nella sua azione politica si può ravvisare addirittura il tentativo di relizzare un disegno bilanciato di rapporti internazionali[85], teso a favorire la costituzione di una rete di vincoli familiari al vertice dei nuovi potentati.

La politica dei matrimoni dinastici usata come strumento di equilibrio non era nuova. Come si è visto[86], essa era stata già conosciuta dai faraoni[87], e largamente praticata in epoca ellenistica[88]. Tale politica ricompare ora, nello sfaldarsi dell'antico Impero, non solo nei rapporti dei potentati barbarici fra di loro, ma anche in quelli fra di essi e l'Impero di Bisanzio. Se il poligamo Attila sceglie le mogli Reka ed Ecska fra le Unne, è con Crimilde che, nel 453, egli stringe il suo ultimo matrimonio, col quale evidentemente pensa di attrarre nella propria sfera di interessi anche il mondo germanico, dopo che era sfumata l'unione con la principessa bizantina Onoria[89], sorella di Valentiniano III (matrimonio al quale, nelle richieste di Attila si sarebbe dovuta accompagnare, in dote, la metà dell'Impero d'Occidente. Da Teodorico, prossimo ormai al processo di patrimonializzazione del potere pubblico, proprio dell'età nuova, tale strumento sembra coscientemente utilizzato come avviamento di una base sociale omogenea nella nascente comunità internazionale post-romana, come ad esempio nella lettera che il re goto scrive a Trasamundo, re dei Vandali:

 

"Quamvis a diversis regibus expetiti pro solidanda concordia aut neptes dedimus aut filias deo nobis inspirante coniunximus, nulli tamen aestimamus nos aliquis simile contulisse, quam quod germanam nostram, generis Hamali singulare praeconium vestrum fecimus esse coniugium: feminam prudentiae vestrae parem quae non tantum reverenda regno, quantum mirabilis possit esse consilio"[90].

 

La prassi continuerà con i Longobardi[91]. Lo stesso Giordane sottolinea il valore politico delle nozze di Audoino con una principessa degli Eruli[92].

 

 

6. – La coscienza della appartenenza ad una comunità di diritto

 

Teodorico utilizza ripetutamente lo strumento della mediazione, come nella lettera al re visigoto al quale chiede di astenersi da azioni belliche sintanto che non venga inviata da Teodorico stesso una ambasceria al re franco ed espletato così un tentativo di stabilire la pace. Assai interessante, da questo punto di vista, è quanto possiamo desumere da Idazio. Il quale ci dice come:

 

“Per augustum Avitum Fronto comes legatus mittitur ad suevos. Similiter et a rege Gothorum Theoderico, quia fidus Romano esset imperio, legati ad eosdem mittuntur ut tam secum quam cum Romano imperio, quia uno essent paris foedere copulati, iurati foederis promissa servarent”[93].

 

Dal passo si deduce, quindi, che Teodorico non si è qui semplicemente  allineato alla politica romana, come si potrebbe desumere dal termine fidus e che, se nei confronti dell'Impero d'Oriente egli non vuole assumere una posizione ostile, non sembra nemmeno porsi in un atteggiamento che possa riassumersi in termini di subordinazione. Qui il re goto sembra avere svolto una azione diplomatica di concerto con l'Impero, invitando gli Svevi alla osservanza degli impegni assunti nei confronti di entrambi con un foedus, rafforzato da giuramento. Dal  passo, dunque, traspare la compresenza di soggetti diversi egualmente capaci di diritto. Quel paris foedere cui fa riferimento il passo non sembra lasciare dubbi. Un  ulteriore indizio della verosimiglianza di tale interpretazione può essere visto nel fatto che il re goto assunse le vesti di pacificatore anche  fra l'Impero d'Oriente e la  Chiesa di Roma[94].

La posizione politica di Teodorico si chiarisce ulteriormente anche tenendo conto di quanto nella società germanica contasse l'organizzazione familiare. E' per l'appunto in nome di questi vincoli familiari che, in occasione della controversia fra Alarico e Luduin re dei Franchi, Teodorico si interpone in veste di mediatore affinchè essa sia risolta senza ricorso alle armi. Infatti, in quella, del gruppo di lettere in cui si sostanzia l'azione diplomatica, diretta nel 507 ad Alarico si legge:

 

"Sustinete...ut litem vestram amicorum debeant amputare judicia. Inter duos enim affinitate coniunctos non optamus aliquid tale fieri unde unum minorum contingat forsitan inveniri"[95].

 

Così Teodorico esorta  a risolvere la controversia fra Alarico e il re dei Franchi rationabiliter per mezzo di amicis mediis. Si direbbe addirittura che voglia allontanare qualunque sospetto di intervento dalla propria interposizione, perchè invita Gundobado ad assumersene lui l'ufficio:

 

"Aliqua vero a praesertim gerulis litteram sermone vobis commisimus intimanda, ut sic prudentia vestra cuncta componat, quemadmodum consuevit deo juvante perficere, unde solet diligentissime cogitare"[96].

 

Ciò che  pare particolarmente degno di nota è per l'appunto il fatto che, nella lettera ad Alarico, l'invito ad amputare litem per via di judicia amicorum, viene collegato con il fatto che si accenni ad una comunità  i cui membri sono collegati da vincoli di parentela, che sono al tempo stesso la prova del reciproco riconoscimento. Ritengo si possa dire che sia implicita qui l’idea della appartenenza ad una stessa comunità giuridica.  Ma tale idea diventa esplicita nella epistola Uniformi,s inviata ai re degli Eruli, dei Turingi e dei Guarni ove la proposta di una mediazione per la soluzione dei conflitti in atto prefigura, addirittura, l'ipotesi di un intervento collettivo contro il renitente:

 

"Et ideo vos... legatos vestros una cum  meis et fratris nostri Gundibadi regis ad Francorum regem Luduin destinate, ut aut se de Wisigotorum conflicto considerata aequitate suspendat et leges gentium quaerat aut omnium patiatur incursum qui tantorum arbitrium iudicat esse timendum"[97].

 

E’ difficile non riconoscere nelle espressioni sopra riportate l’affiorare di una comunità di potentati e di uno jus ad essa riferito. Da qualche studioso si è voluto vedere qui il rinvio alle leges di tutti i Germani disposti ad intervenire[98]. Più verosimilmente, vi si potrebbe semmai riconoscere un accenno esplicito a norme, consolidate dall'uso, regolanti le crisi delle relazioni fra le stirpi, o fra unioni di stirpi, talchè quel leges gentium quaerat potrebbe essere interpretato come l'invito a chiedere l'applicazione di tali norme, vale a dire l'invito a ricorrere ad un arbitrato piuttosto che alle armi: una alternativa, questa, ben conosciuta dai diritti germanici[99]. Ma non si vede perchè non si possa invece vedere nelle leges citate l’affiorare di norme di condotta “internazionale” fra le quali trovava posto la previsione del necessario deferimento alla mediazione di una controversia suscettibile di turbare tutta la comunità delle genti. E questo corpo di norme potrebbe anche rinviare allo ius gentium tramandato dal mondo antico, se ad esso si attribuisse quel senso traslato che sarà raccolto da Isidoro di Siviglia.

Naturalmente, l'accoglimento dell'invito di Teodorico era puramente volontario, sebbene si profili una spontanea adesione dei regni più piccoli alla potenza riconosciuta come la più autorevole, ciò che ha fatto parlare di una egemonia del regno ostrogoto, sia pur debolmente sviluppata[100]. E' significativo che nella prima delle Variae, il Regno di Teodorico e l'Impero bizantino hanno la stessa denominazione di res publica. Anche il Senato usa, rivolgendosi all'Imperatore, l'espressione in utraque respublica.

Lo stesso Giustiniano manda un legato al re dei Franchi Teobaldo, allo scopo di promuovere una comune  alleanza contro Totila. Il legato, certo Leonzio, ricorda anzitutto al re franco che  l'imperatore in tanto aveva manifestato l'intenzione di combattere i Goti, in quanto aveva avuto dai Franchi, con ricchi donativi, la promessa che si sarebbero associati con lui nell'impresa come amici e alleati. Che viceversa essi non solo non avevano mantenuto la promessa, ma si erano impadroniti di un regno che era stato conquistato dai Bizantini con grande profusione di denaro e di uomini. Nelle parole del legato non manca un accenno al pericolo rappresentato da un ingiusto possesso. La replica di Teobaldo, però, è molto interessante, vuoi come prova della esistenza ed autocoscienza di una comunità internazionale della quale l'Impero bizantino non era che uno dei soggetti, anche se più degli altri potente; vuoi come indice ulteriore di quanto fosse frequente e diffuso fra i Barbari il ricorso a mezzi non bellici di soluzione delle controversie intersoggettive. Nella replica di Teobaldo c'è anzitutto il rifiuto a ritirarsi dall'accordo con i Goti. Ma, ciò che può essere riguardato come un rinvio al principio della effettività, c'è l'obiezione che i territori di cui parla Leonzio sono stati occupati dai Franchi non già prendendoli dai Romani, bensì da Totila, che già ne era in possesso. Che del resto, ben si poteva rimettere a dei giudici di pronunciarsi intorno a tali cose, perchè se fosse risultato che i Franchi si erano impossessati di qualcosa che apparteneva ai Romani, ne sarebbe stata fatta immediata restituzione. Che anzi a tale fine sarebbero stati inviati senza indugio ambasciatori a Bisanzio[101]. Purtroppo di questa ambasceria Procopio non ci fornisce altre informazioni, se non che Teobaldo, rimandato indietro Leonzio, avrebbe spedito il franco Leotardo con altri tre in ambasceria presso Giustiniano, e che costoro, giunti a Bisanzio, avrebbero compiuto il proprio mandato.

L'equilibrio fra i potentati barbarici perseguito da Teodorico venne spazzato via prima dalla politica di Clodoveo, poi dalla guerra gotica. Ma fu probabilmente proprio quest'ultima che, trattando i territori italici come terra di conquista, pose per questi il suggello definitivo alla rottura col passato. Nel prologo delle leggi di Astolfo, l'originarietà del dominio longobardo è affermata senza possibilità di equivoco, dacchè si parla di traditum nobis a Domino populum romanorum[102]. Sta di fatto che, negli ultimi decenni del secolo VII, si sarebbe avuto un riconoscimento de jure del regno longobardo anche da parte di Bisanzio[103].

Anche nel famoso pactum di Andelot (587) fra Gontrano (re di Borgogna), Childeberto II (re d’Austrasia) e Brunechilde, di cui riferisce Gregorio di Tours, e che è stato ricostruito dal Pertz[104], si fa cenno ad uno scandalum cui si vuole porre rimedio con tale accordo, e al fatto che l'accordo stesso è stato possibile mediantibus sacerdotibus atque proceribus. Il factum, sancito da un giuramento[105], è un vero e proprio accordo di spartizione di territori e competenze, con il quale le parti si impegnano anche ad azioni ed omissioni di interesse reciproco. E d'altra parte, per valutarne appieno il significato converrà ricordare che in un precedente edictum Gontrano aveva  affermato essere stata a lui commessa la facultas regnandi dalla auctoritas superni regis[106]: la legittimità del regno si era, cioè, ormai svincolata dal riconoscimento di Bisanzio, rifugiandosi nel concetto della sacralità regia.

 

 

7. – Decentramento e autonomia

 

E' necessario chiarire a questo punto un altro elemento che sin qui - e proprio nella misura in cui esso è rimasto velato dal persistere, pur smembrate nei vari Regna, delle strutture amministrative romane - non è emerso con sufficiente evidenza, mentre invece pur essendo gravido di conseguenze sull'assetto generale della comunità internazionale, vale a dire la concezione della cosa pubblica propria del germanesimo.

Il carattere più evidente del complesso della esperienza giuridica germanica è la connessione fra piena capacità giuridica e attitudine all'uso delle armi: chi è sui juris deve anche essere capace di portare ad effetto il diritto[107]. La civitas, il Land sono, nella mentalità germanica, una associazione di uomini liberi, di uomini, cioè, in grado di definire da sè il proprio diritto e di difenderlo combattendo. All'interno di questa associazione esiste la pace, come situazione in cui la violenza non deve essere esercitata perchè non è stato offeso il diritto. Ma la parola tedesca Friede appartiene etimologicamente alla stessa radice di Freund, amico, e di Frei, libero. Pace, dunque, è la situazione di una associazione umana i cui membri sono fra di loro amici, e che nei confronti del mondo esterno sono liberi[108]. Tale concetto racchiude in sè quello della protezione, della sicurezza che gli amici rappresentano l'uno per l'altro, dell'aiuto e dell'assistenza che si prestano. Il responsabile di un misfatto diviene nemico di quello il cui diritto ha violato, ma può divenire nemico della collettività, nella misura in cui questa si faccia carico della protezione di quel soggetto. Chi trasgredisce le leggi della collettività ne perde la pace e la relativa protezione, viene bandito e in questa condizione può venire ucciso[109]. L'autotutela, tuttavia, la vendetta, la faida, è possibile all'interno della associazione: si tratta di un uso della forza delle armi nella lotta per il diritto, che non pone in discussione l'esistenza della associazione stessa, e nemmeno si trova di fronte all'alternativa di essere o guerra nel senso del diritto internazionale contro un nemico esterno, ovvero delittuoso uso del potere, sollevazione, rivolta, alto tradimento[110]. Anzi, poichè il fondamento stesso del diritto sta in un ordinamento metagiuridico che lo legittima, ecco che  la vendetta, la faida, diviene nello stesso tempo oggetto di un dovere morale, tendendo alla restaurazione dell'ordine violato.  Donde una visione contrattualista della cosa pubblica. Chi non ha la capacità di difendere da solo il proprio diritto deve affidarsi a chi effettivamente può farlo, al più forte e capace, porsi sotto la sua tutela e, da un lato, non assumere iniziative che contrastino con essa, dall'altro essere pronto a coadiuvarlo in ogni circostanza. Così la difesa del proprio diritto da parte del potente  si estente a tutti quelli che sono posti sotto la sua tuitio e l'organizzazione della cosa pubblica si connette strettamente con l'organizzazione militare.

In questa ottica, si comprende come  la figura del rex appaia inizialmente priva di caratteristiche stabili, perchè al rex vengono riconosciuti quei poteri - e solo quei poteri - che sono necessari e sufficienti a contrastare un pericolo sovrabbondante le singole forze o a provvedere a necessità straordinarie[111]. Ma si comprende anche come l'esperienza giuridica dei Germani non conosca lo Stato come portatore di interessi propri, e come la vera comunità politica che riaffiora continuamente alla ribalta in tal senso, sebbene poi tenda ad associarsi su base volontaristica in unità politiche maggiori, sia in realtà una comunità molto più piccola ove l'unità del dominio è caratterizzata dal rapporto diretto fra dominante e dominati[112].

 

 

8. – La funzione della nobiltà

 

Emerge, cioè, in primo piano, la funzione della nobiltà, che rappresenta, per la comprensione dei problemi relativi alle istituzioni medievali, un interesse pari a quello rappresentato dalla regalità. Essa propone, tuttavia, numerosi interrogativi. Il primo è quello che concerne la sua origine e la sua posizione iniziale. Non si può affermare con certezza se la nobiltà medievale discenda dai principi di cui si legge in Cesare e Tacito, dagli ausiliari dei re barbari o dai rappresentanti delle famiglie senatoriali gallo - romane. Molto scettico al riguardo si dichiarava, ad esempio, il Bognetti benchè poi ammettesse la possibilità di un rapporto di continuità fra gli antichi principi germanici e i duchi del periodo longobardo[113]. Benchè non neghi la presenza di "grandi" apparentemente tendenti a sfuggire a ogni soggezione, una parte della dottrina, basandosi su una interpretazione restrittiva dei documenti, fa notare come non vi sia traccia di un Wergeld superiore  per i nobili nella legge salica, nessuna concessione di immunità ai nobili merovingi, dunque nessuna nobiltà[114]. Secondo Bergengruen, fra i Franchi Sali non sarebbe rimasta che una sola famiglia della antica nobiltà, quella dei Merovingi, i quali avrebbero creato una Dienstadel[115]. Anche per lo Schmid, l'epoca franca non conoscerebbe che una sola famiglia nobile, quella del re. Il resto della aristocrazia altro non sarebbe che una Hausadel da lui creata[116].

Mostra viceversa di credere a una continuità biologica e ideologica dalla Uradel alla Nobilitas degli inizi del Medioevo e degli stessi Regna nati dalle migrazioni del IV e del V secolo il Mitteis[117]. Ancora più deciso è il Dannenbauer[118]. I nobili o principi di Tacito nascono come aristocrazia rispettata ed ascoltata distinguendosi per sangue - segno di origine divina - dal resto della popolazione, e caratterizzandosi per un diverso status[119]. Essi, infatti, hanno diritto a un Comitatus[120], la cui esistenza si lega a proprietà sfruttate da non liberi soggetti alla loro autorità[121]. Come il Dominus del XI secolo, il cui districtus deborda i possedimenti, essi beneficiano dei doni degli abitanti della regione che non sono loro sottoposti, ma ai quali assicurano la loro protezione; anche se è dubbio se questa estensione, con la conseguente trasformazione della Hausherrschaft in Grundherrschaft si sia realizzata prima dell'epoca franca. Per il Werner (che dal canto suo, in uno studio per molti versi affascinante, parla di continuità delle stesse strutture del potere pubblico) la nobiltà romana si sarebbe fusa con le élites barbariche, la qual cosa sarebbe dimostrata dalla continuità dell’uso del cingulum  che la caratterizzava[122]. Ed in effetti, già dall’età dei Severi, la maggior parte dei governatori delle provincie aveva conseguito lo jus gladii[123]. Dunque Werner crede nella continuità della nobilitas: egli la riconnette  alla sopravvivenza di quella romana, che non dappertutto attraversa le vicende drammatiche che caratterizzano la penisola italiana.

Anche il Genicot, che ha fatto del tema della nobilitas il punto focale di molte ricerche, aderisce alla tesi della continuità. Questo studioso, però, tende a credere che la  situazione dei potentes del IV secolo non differisse troppo da quella dei principes della Germania. Il loro status si riassumeva in una parola: libertà. Il Genicot ammette che, a seguito delle migrazioni, tale  condizione, che faceva di ogni Germano libero un anarchico e di un gruppo di Germani una <Confederazione> abbia potuto smorzarsi. Tuttavia i nobili si sarebbero pur sempre distinti dai semplici liberi obbligati a obbedire a un funzionario, incorporati a quadri amministrativi, mediatizzati. Questa nobiltà, pronta ad aprire i suoi ranghi ai discendenti delle antiche famiglie senatoriali romane[124], avrebbe sempre mantenuto i suoi attributi maggiori che la distinguevano dall'ignobile vulgus: immunità e diritto a un seguito armato. Il principe germanico e il suo erede concettuale – se non di sangue – il nobile dell'Alto Medioevo, è immunista perchè è autenticamente libero nella persona e nei beni patrimoniali, per i quali egli non deve nulla a nessuno, dominandovi sovranamente. Egli governa dunque su coloro che sono installati sui suoi domini e che li coltivano per suo conto o per sè stessi. E' il nobile che conosce e appiana le loro controversie[125]. E poichè il concetto di iudex e judicium sarebbe estraneo alla terminologia tedesca originaria[126], i potentes sono a lungo degli assertores pacis[127]. Da questo punto di vista, nella costruzione o ricostruzione dell'organizzazione statuale, il feudalesimo avrebbe svolto un ruolo più positivo che negativo, perchè la Treue e l'omaggio sarebbero stati il mezzo per eccellenza di unire i grandi in una compagine caratterizzata da interessi comuni.

E' vero che un elemento distingueva i re germani dagli altri semplici capi di aggregazioni personali temporanee, ed era lo Heil: la virtù sacra di avere e infondere fortuna, che si riteneva emergesse in alcune famiglie[128]. La Chiesa farà leva su questa tradizione, e se ne approprierà trasformandola e consolidandola. Ma questo fattore, che può per altro verso essere visto come il lievito di assetti futuri, non è produttivo in via immediata di un potere regale unitario e compatto. Anche la nobiltà, del resto, non solo il re, partecipa al crisma ereditario, anche il diritto della nobiltà trae origine dall'ambito magico. La schiatta reale non è che una delle tante famiglie nobili del popolo: la più nobile di tutte; ma vi sono anche altre famiglie che non derivano la propria autorità dal re, ma la esercitano per diritto proprio[129], in quanto compaiono a capo di un seguito. Ciò che eleverà i sovrani molto al di sopra della folla e rispetto agli altri potenti, finirà con l’essere per molto tempo più che la loro posizione giuridica, la loro consacrazione da parte del Vescovo: ciò è detto molto chiaramente da Incmaro in una lettera indirizzata a Carlo il Calvo: è all'unzione, atto squisitamente spirituale, e non già alla sua potenza terrena che egli deve la sua dignità regale[130].

Una esemplificazione di questo modo di vedere le cose la si può vedere in  un episodio, riferito da Gregorio di Tours, ove un certo Munderiso "qui se parentem regium adserebat", comincia a congregare un suo populus, sostenendo:

 

"...Quid mihi et Theuderico regi? Sic enim mihi solium regni debetur ut ille. Egrediar et collegam populum meum, atque exegam sacramentum ab eis, ut sciat Theudoricus quia rex sum ego, sicut et ille, et egressus coepit seducere populum dicens: Princeps ego sum. Sequimini me et erit vobis bene. Sequebatur autem eum rustica moltitudo, ut plerumque fragilitati humanae convenit, dantes sacramentum fidelitatis et honorantes eum ut regem"[131].

 

 

9. – Il periodo longobardo

 

Dalle fonti, la cui sobrietà pur lascia permanere una notevole incertezza su molti aspetti, un elemento appare relativamente chiaro: la riluttanza dei Longobardi a costituire unità politiche compatte. Di essi sappiamo da Paolo Diacono non solo che per dieci anni non si diedero un rex; sappiamo pure che i ducati di Spoleto e di Benevento seppero mantenere una autonomia tanto ampia da porre molti interrogativi circa la natura della loro connessione con il resto del Regnum: non era forse venuta meno l'unità della nazione, ma certo questa consentiva, con le altre popolazioni,  la conduzione di una politica di convivenza autonoma e contrastante con quella regale. Gli esempi sono molti e significativi. Uno è l'arbitrato di Gallese, di cui si dirà più oltre, e su cui giustamente attira l'attenzione il Bertolini. Un altro è il pactum al quale, nel 740, si richiamava Gregorio III in una delle lettere indirizzate a Carlo Martello per ottenerne l'intervento in Italia. Il pactum avrebbe avuto come contraenti, da un lato, la Chiesa di Roma e il suo populus peculiaris, dall'altro i duchi di Spoleto e Benevento. Questi ultimi si impegnavano a non inviare propri contingenti all'esercito regio nel caso di una mobilitazione generale indetta da Liutprando e Ildeprando[132]. Sebbene la regalità longobarda si fosse rafforzata proprio a contatto con la romanità, il rapporto fra accentramento e autonomia non era molto cambiato da quando, durante l'interregno, ciascuno dei dodici duchi aveva inviato un proprio rappresentante prima all'Imperatore, pacem et patrocinium petentes, quindi a Childeberto di Austrasia e Gontrano di Borgogna:

 

"...ut patrocinium et defensionem Francorum habentes, duodecim millia solidorum annis singulis, his duobus regibus in tributa implerent...".

 

Il Chronicon di Fredegario, che ci informa dell'episodio, precisa che l'accordo venne firmato e che dopo ciò i duchi longobardi:

 

"...integra devocione patrocinium eligunt Francorum. Nec mora, post permissum Gunthrammi et Childeberti Autharium ducem super se sublimant in regnum".

 

Il re avrebbe assolto puntualmente all'obbligo di pagare il tributo che i duchi si erano impegnati a versare ai Franchi, mentre invece un altro Autari, con il suo ducato, si sarebbe votato alla dictio dell'Imperatore[133].

Questo modo di vedere le cose era proprio di una personalizzazione della politica, che, pur affiorata - come si è visto -  già in età romana, è il vero tratto caratteristico dell'età sopraggiunta, e, diffondendosi anche in ambienti non germanici, spiega come nelle fonti cronachistiche non si faccia differenza fra il pettegolezzo e l'alta politica, fra i contrasti "familiari" e quelli, per così dire, "statuali", fra la giustizia e la ritorsione e fra questa e la guerra. Nell’editto di Rotari viene fissato il prezzo delle diverse compositiones – sin qui lasciato  ai limiti stabiliti dalla consuetudine ed alla trattativa delle parti – offrendo il quale si poteva evitare la vindicta. Il termine vindicta[134], peraltro, sta a indicare tanto l'azione giudiziaria, quanto – come vindicta sanguinis – la realizzazione coattiva della giustizia. Ma in questo senso il linguaggio medievale usa il termine anche per indicare l'affermazione della propria giustizia mediante l'uso delle armi.

Alarico irrompe in Roma perchè:

 

"...dolens tantam multitudinem Gothorum a Romanis extinctam, in vindictam sanguinis suorum proelium agit obsessamque impetu magnae cladis irrumpit...",

 

anche se, grazie alla mediazione del Papa, promette:

 

"...ut si ingrederetur urbem, quicumque Romanorum in locis Christi invenirentur in eis agere jure belli non liceret"[135].

 

Di Cunimondo, il cui cranio, secondo la tradizione, servirà di coppa ad Alboino, Paolo Diacono spiega che venne a guerra con i Longobardi per "...vindicare veteres Gepidorum iniurias" e che a tal fine "...rupto cum Langobardis foedere, bellum potius quam pacem elegit". A sua volta, Rosmunda "vendica"  il padre con la congiura di palazzo che porterà alla morte Alboino[136]. Ma è difficile scindere il significato tecnico del termine da quello, per così dire, traslato, anche in una fosca vicenda che coinvolse profondamente la politica romana, quella della uccisione di Sergio, figlio del primicerio Cristoforo, ove gli judices militiae cum universo populo, ritrovatone il corpo:

 

"...eundem almificum pontificem deprecati sunt ut vindictam atque emendationem fieri praecepisset de tanto inaudito piaculo"[137].

 

E ancora, mentre Carlo Magno, già invischiato nelle questioni italiane, rinvia la figlia a Desiderio suscitandone la vendetta, similmente si comporta Desiderio, accogliendo la vedova e gli orfani di Carlomanno e chiedendone l'unzione regale al Papa.

D'altra parte, l'evoluzione di questi elementi era destinata a rompere dall'interno la struttura tendenzialmente paritaria della comunità internazionale del tempo, sfociando in quello che sarà l'assetto feudale dell'Europa a partire dal X secolo. Così l'esercito di Desiderio non è ancora schierato contro i Franchi, che diversi dei maggiorenti delle zone di Rieti e di Spoleto, a quanto racconta il biografo di Adriano:

 

"...ad beatum Petrum confugium facientes praedicto sanctissimo Hadriano papae se tradiderunt et in fide ipsius principis apostolorum atque praedicti sanctissimi pontificis iurantes, more romanorum tonsorati sunt"[138].

 

Una visione confederale dello "Stato" è d’altra parte rilevabile anche nella formulazione dei capitoli stabiliti a Coblenza fra i discendenti della dinastia carolingia.  Al cap. X , quale fine del Regnum, si vuole il commune salvamentum, la restitutionem Sanctae Dei Ecclesiae,  ma anche l'honorem regium  e la pacem populi commissi nobis. Di questo popolo si dichiara aver richiesto l'assenso affinchè

 

"...non solum non sint nobis contradicentes, et resistentes ad ista exequenda, verum etiam sic sint nobis fideles et obedientes, ac veri adjutores atque cooperatores vero consilio et sincero auxilio ad ista peragenda quae premisimus, sicut per rectum unusquisque in suo ordine et statu suo Principi et suo seniori esse debet"[139].

 

Mentre al cap. III si stabilisce un obbligo di assistenza reciproca fra i pares da assolversi consilio et auxilio acciocchè regnum, fideles, prosperitatem atque honorem regium debite valeat obtinere. E al capitolo quarto si stigmatizza la tyrannica consuetudo con la quale irreverentes homines pax et tranquillitas regni perturbari solent. Contro ogni perturbatore si commina il bando: non solo nessuno, all'interno del Regno, deve dare loro ricetto, ma si stabilisce altresì che omnes in commune, in cuius regnum venerit, illum persequantur[140].

 

 

10. – La soluzione delle controversie in età franca

 

E' peraltro evidente che, in una visione così carente di quelle tensioni centripete cui gli odierni sistemi giuridici sono improntati, fosse normale il ricorso al terzo pacificatore. La stessa giustizia regale, se si eccettua quella che si esercita immediatamente sul publicum regio, è intesa come "composizione"[141], anzi, la stessa lex sembra essere volta al conseguimento della pace, presentandosi come la sostituzione di una pace derivante dall'accettazione della composizione stabilita dal rex alla faida lasciata alle parti[142]. Lo Scovazzi ricorda diversi tipi di istituti processuali germanici fortemente caratterizzati in senso volontaristico, come quello dei racinburgii, che egli indica come progenitori degli scabini di tradizione carolingia, chiamati dalle parti in causa non tanto a giudicare a stretto rigore di legge, quanto a ridurre i termini della controversia in uno degli schemi offerti dalla tradizione[143]; o come i cosiddetti "giuramenti d'uguaglianza" grazie ai quali la decisione di una controversia veniva rimessa ad una delle parti in causa dall'altra, che presumeva di riuscire soccombente, dietro giuramento di reciprocità, cioè di non chiedere, in una controversia futura, un trattamento più favorevole[144], mentre d'altra parte, il concetto stesso di faida, di "vendetta" implica già, di per sè, quello di "restaurazione" di un ordine turbato, dunque rinvia ad un istituto regolato nella sostanza e nella procedura[145]. Così, da un lato, primo e fondamentale presupposto di ogni faida legittima, come di ogni guerra legittima, è l'esistenza di un fondamento giuridico che tende al ristabilimento dell'ordine violato; d'altro lato, con tutto il suo corredo di saccheggi, distruzioni e massacri, la faida pretende sempre di essere una executio juris.

Il rapporto strettissimo fra la bellandi potestas presupposta dalla faida e la struttura dello "Stato" medievale fu messa in luce nella maniera più evidente da Otto Brunner, il quale tese a dimostrare l'assenza di una vera e propria differenza qualitativa fra la guerra intesa come faida, come contrapposizione di parti all'interno di uno stesso regno, e guerra intesa come conflitto fra principi sovrani nella comunità internazionale[146] dell'età di mezzo. E in effetti, già nelle Etimologie di Isidoro di Siviglia, a leggerle in controluce, non si trova una distinzione chiarissima fra bellum (justum o iniustum) rilevante sul piano internazionale e bellum civile. Bellum civile – si dice – è quello che viene combattuto fra i cives appartenenti alla stessa civitas, come Cesare e Pompeo[147]. Ma se ci si interroga su cosa Isidoro di Siviglia intenda per civitas, si rinviene, rivestito di panni ciceroniani, un concetto molto ristretto della stessa: dopo una lunga digressione storica, nella quale egli dà conto del sorgere delle più famose e importanti città, Isidoro di Siviglia conclude:

 

"Civitas est hominum multitudo societatis vinculo adunata, dicta a civibus, id est ab ipsis incolis urbis [pro eo quod plurimorum conciscat et contineat vitas]”[148].

 

Non a caso, il bellum civile viene qui appaiato al tumulto, che è anche quod civili seditione concitatur. Questo viene considerato più grave della guerra, perchè nella guerra si fanno valere le vacationes, nel tumulto no[149]. Guerra, dunque, sino alla fine del Medioevo, significa conflitto, differenza di opinioni che può venire decisa tanto con le armi quanto in giudizio. Tale giudizio può essere concordemente rimesso ad un terzo, un <amico> comune che tenta anzitutto di avvicinare le posizioni contrastanti con una conciliazione. Così si legge infatti negli Annali di Incmaro, quando, alla morte di Carlo:

 

"Hludovicus, frater eius, Italiae vocatus imperator, Provinciam venit et quos potuit ipsius regni primores sibi conciliavit. Hoc audito, Lotharius illuc pergit et mediantibus inter eos domesticis et amicis illorum placitum, quo simul redeant et de ipso regno apud se tractent Hludovicum, Italiam, Hlotarius in regnum suum revertitur"[150].

 

Le vicende successorie carolingie, con il loro complesso intrecciarsi di interventi diplomatici offrono in proposito molti importanti spunti di riflessione. Per il momento basti notare che qui ad esercitare la funzione conciliativa sono i domestici,  gli amici, i proceres, come nell' arbitrato del settimo secolo fra Clotario II re di Neustria e suo figlio Dagoberto. Nel 625, Dagoberto, che aveva già ricevuto dal padre il governo del regno di Austrasia, chiese al padre le città e le provincie che ne erano state staccate, avendo Clotario trattenuto la foresta delle Ardenne, le montagne dei Vosgi, l'Auvergne, il Poitou e la Touraine. Nella grave controversia che sorse fra i due:

 

"Electis ab his duobus Regibus duodecim Francorum proceribus, ut eorum disceptatione haec finiretur intentio: inter quos et dominus Arnulfus, Pontifex Mettensis, cum reliquis Episcopis eligitur, qui benignissime, ut sua erat sanctitas, inter Patrem et Filium pro pacis loquebatur concordia. Tandem a Pontificibus, vel sapientissimis viris proceribus, Pater pacificatur cum Filio, reddensque ei solidatum, quod adspexerat ad regnum Austrasiorum, hoc tantum exinde, quod circa Ligerem vel in Provinciae partibus situm erat, suae ditioni retinuit"[151].

 

 

Parte seconda

il ruolo della chiesa

 

1. – L'interposizione della Chiesa e i Regna barbarici

 

Assai spesso, ad esser richiesti o ad assumersi spontaneamente l'ufficio di missioni di  pace sono  religiosi, nella persona dei suoi esponenti di spicco, ovvero di individui più o meno legati funzionalmente con la Chiesa di Roma.

Esemplari sono, a questo proposito, le ambascerie – tramandateci da Ennodio – di Epifanio[152], vescovo di Pavia, molto stimato da Teodorico, che ne fece un proprio consigliere. Sappiamo così di un conflitto fra Antemio e Ricimero, ormai in preparativi di guerra, appianato dai buoni uffici di Epifanio, la cui intromissione è provocata da Ricimero, nonché sulla base di una evidente convenienza politica, anche su richiesta di una delegazione di nobili liguri. E' interessante vedere quanto ci dice Ennodio in proposito. Essendo in conflitto Ricimero e Antemio, la suddetta delegazione si reca da Ricimero a chiedere la pace giacchè:

 

..."nutabat status periclitantis Italiae et adfligebatur ipsis discriminibus gravius dum expectabat futura discrimina".

 

Ricimero, per momentanea convenienza, mostra di essere favorevole a riconciliarsi con il suo avversario, ma obietta di non vederne il modo:

 

"Quis est qui Galatam concitatum revocare possit et principem?".

 

La delegazione risponde che occorre solo l'assenso di Ricimero, che la persona c'è; e decantano le capacità di Epifanio. Ricimero manifesta la propria accettazione ed Epifanio, a sua volta, cede alla richiesta di assumersi l'incarico di pacificatore sicchè :

 

"...ad Ricimerum porrexit a quo simul visus et electus est".

 

Così Epifanio "accompagnato da fama di santità" si reca a Roma, ove convince Antemio a desistere dai preparativi di guerra[153].

          Sappiamo pure di un'altra interposizione del vescovo ticinese fra l'imperatore Nepote e il re dei Visigoti Eurico la quale valse a condurre entrambi ad un  trattato di pace che, se riconosceva le conquiste sino allora fatte da Eurico e l'indipendenza del suo regno, poneva tuttavia un freno alla sua espansione e concedeva respiro all'Imperatore, le cui forze erano ormai esauste. Anche qui vale la pena di rileggere quanto dice l'estensore della cronaca dell'episodio. Eurico, nell'aderire alle proposte di Epifanio, avrebbe dichiarato:

 

"Facio ergo...quae poscis, quia grandior est apud me legati persona quam potentia destinantis";

 

aggiungendo:

 

"...fallunt qui dicunt Romanos in linguis scutum vel spicula non habere: inveni hominem qui me armatum possit espugnare sermonibus"[154].

 

Lo stesso Ennodio, vescovo di Pavia, retore e corrispondente di Boezio, sarebbe stato sovente incaricato delle più delicate missioni in Oriente, sia da Teodorico, sia dal Papa.

Da queste  testimonianze balza agli occhi, anzitutto, la sempre più accentuata riluttanza a voler riconoscere il ruolo sovraordinato dell'Imperatore romano, poi la veste neutrale del negoziatore di pace, garantita dalla sua fama di santità e infine l'impostazione non autoritativa della interposizione mediatrice, efficace in quanto basata sull'invito a reciproche concessioni e avvalorata dalla posizione guadagnata in quel tempo, anche presso coloro che professavano fede diversa, dagli esponenti della Chiesa di Roma.

La presenza di religiosi nella prassi diplomatica dell’“età di transizione” è comunque molto rilevante. Nella comunità di popoli costituitasi al declinare della potenza romana, un importante fattore associativo suscettibile di rimodularne i caratteri, va ricercato proprio  nella religione cristiana, nonostante le ricorrenti eresie che laceravano il corpus dei fedeli[155]. In via di principio essa significò, soprattutto all'inizio, una esaltazione della prudente tolleranza e del ripudio della  violenza. Infatti, in tal senso si esprimevano ripetutamente le Scritture[156]. Ne doveva conseguire naturalmente che i suoi rappresentanti si proponessero come garanti della pace e della giustizia e che il Capo della Cristianità si proclamasse grande pacificatore. Nel progressivo sfaldarsi della organizzazione imperiale romana, la Chiesa mostra di guardare con favore lo stabilirsi di una pluralità di Regna in posizione di parità fra di loro, propugnando al contempo, come principio superiore delle relazioni internazionali, il rispetto di quanto vi poteva essere di diverso nelle diverse nazioni, nonchè la solidarietà fra tutti i popoli cristiani senza limiti territoriali. Ripetutamente S. Agostino riprende il tema della eccessiva grandezza dell'Impero, la cui esistenza, necessariamente autoritaria, non ha evitato le guerre perchè non ha potuto evitare che continuassero a sussistere nazioni ad esso esterne e con esso confliggenti[157], e mostra di considerare più auspicabile l'esistenza di molti piccoli regni contenti di una vicinanza amorevole[158] e di una ordinata concordia in rapporti di buon vicinato, come famiglie di una stessa civitas. All'uomo, destinato a morire, non doveva importare eccessivamente il vivere sotto un sovrano anzicchè sotto un altro, se comunque quello che lo comandava non lo costringeva ad azioni empie ed ingiuste[159]. Ancor più incisivamente Paolo Orosio nota come le fortune di Roma siano cresciute sulla disgrazia altrui e sulla miserabilis vastatio multarum ac bene institutarum gentium[160].

E' da dire, tuttavia, che anche in questa visione che ne svaluta la funzione politica, Roma viene difesa come veicolo del Cristianesimo, struttura ideale nella quale i diversi popoli possono riconoscersi in un comune sentire[161]. Nello stesso S. Agostino, d'altra parte, è presente anche l'idea della necessità della soggezione ad un superiore ordinamento di giustizia, perché:

 

"Remota itaque justitia quid sunt regna alia nisi magna latrocinia et latrocinia nisi parva regna?"[162].

 

L'attitudine della Chiesa nei confronti della morale, peraltro, non è più quella dello Stato pagano ove, come ha rilevato Sini: «Il solo principio religioso accettato e rispettato…era il principio politeistico e multireligioso: sua cuicue civitati religio, Laeli est nostra nobis»[163]. Il popolo dei Cristiani, ora, conosce una sola verità, e di questa verità è depositaria la Chiesa. Ogni regione straniera è la loro patria, mentre nella loro patria essi abitano come ospiti[164]. Già dagli Apologisti si fa strada nel Medioevo europeo l'idea di una società religiosa, distinta e diversa da quella civile, composta di tutti coloro che un giorno gioiranno della vista di Dio[165]. A fronte di questa comunione perde spessore lo Stato come tale, nonchè, paradossalmente, la sussistenza di una etica politica laica distinta e sovraordinata alla semplice effettività[166]. L'universalismo della Chiesa doveva favorire il particolarismo politico.

Si comprende agevolmente come, fra le diverse e contrastanti pretese e per effetto del costante incremento della sua importanza politica, alla Chiesa venga riconosciuto quel ruolo di guardiana della pace che essa reputa competerle per elezione e che costituisce la premessa per l'esercizio di un'autorevole ed efficace opera di interposizione nel campo delle relazioni internazionali[167].

L'assunzione di questo compito comincia a profilarsi prestissimo. Già in epoca romana i Vescovi erano andati assumendo un sempre maggiore rilievo nelle pubbliche istituzioni. La episcopalis audientia aveva  acquistato caratteristiche particolari, che la differenziavano dall'arbitrato normale del diritto postclassico, proprio in considerazione del particolare prestigio dell'arbitro[168].

Per vero, Gesù Cristo aveva rifiutato il ruolo di arbitro nelle contese di interesse[169], ma S. Paolo aveva  esortato i Cristiani a comporre pacificamente le liti davanti a qualcuno dei loro fratelli[170]. Può darsi che originariamente l'arbitrato del vescovo si fosse posto in antitesi con la giustizia resa dai Pagani: la Chiesa aveva creato degli organismi appositi affinchè i Cristiani non ricorressero a giudici che, in quanto infedeli, erano perciò stesso  anche ingiusti[171]. Prima di Costantino quegli organi il cui scopo ultimo, come si è detto, era la pacificatio e la  conciliatio dei dissentientes, attraverso la mediazione del sacerdote o del vescovo, furono dal potre civile considerati con sospetto. In un secondo tempo, però, furono legalizzati[172], e divenuto il Cristianesimo religione ufficiale dell'Impero, gli Imperatori cristiani riconobbero ai vescovi una giurisdizione elettiva concorrente con quella laica, poteri di sorveglianza sui magistrati laici, nonchè una funzione di difesa degli interessi delle classi più povere contro i possibili abusi[173]. L'episcopalis audientia venne quindi regolata da costituzioni imperiali. Una Costituzione di Costantino del 318, inserita nel Codice teodosiano, stabilì che  le parti potessero di comune accordo sottoporre le loro contese al vescovo anche quando la lite fosse pendente dinanzi ad un magistrato dell'Impero[174]. La singolarità dell'arbitrato del vescovo (a prescindere dall’applicazione della lex christiana invece della lex romana[175]su cui la dottrina non è concorde), venne poi a risiedere nel fatto che era sufficiente che una sola delle due parti lo adisse:

 

“etiamsi alia pars refragatur. Multa enim quae in iudicio captiosa praescriptionis vincula non patiuntur, investigat et publicat sacrosanta religionis auctoritas”[176].

 

Tale possibilità si fondava su una norma del 333, posta in essere da una costituzione di Costantino e nota come Sirmondina I[177], che non venne poi accolta nel Codice Teodosiano, ove si manifestò invece una tendenza a restringere la giurisdizione del vescovo nelle cause civili[178].  Sulla materia sarebbe tornata nel 452, con intenti limitatori, una novella di Valentiniano III, la quale "ne ulterius querella procedat", avrebbe stabilito "habeat  episcopus licentiam iudicandi, praeeunte tamen vinculo compromissi"[179]. In tal senso si sarebbe attestato anche il Codice giustinianeo[180]. Le sentenze del vescovo venivano eseguite, dopo aver ottenuto l'exequatur del giudice secolare per opera di un funzionario imperiale[181]. Ma la caratteristica più rilevante dell’attività del Vescovo in questa veste era che egli, anche in ottemperanza a norme canoniche[182], si preoccupava anzitutto di rappacificare le parti, cioè si comportava  anzitutto come mediatore, come amichevole compositore, e solo in un secondo momento come arbitro.

 

 

2. – Il periodo goto

 

La dominazione gota non si discosta da questa tendenza. Fra i rescritti di Cassiodoro si trova un editto di Atalarico con cui si conferisce al vescovo di Roma il diritto di arbitrare contese fra laici e religiosi. In base ad esso, chi aveva una causa contro un membro del clero romano poteva appellarsi alla sentenza del pontefice, e solo nel caso in cui questi avesse respinto la querela, il processo passava nelle mani dell'autorità laica. Chi non obbediva al verdetto del Papa era punito con una ammenda di 10 libbre d'oro[183]. Dal canto suo, una disposizione di Clotario stabiliva, addirittura:

 

"Si judex aliquem contra legem iniuste damnaverit, in nostri absentia ab episcopis castigetur ut quod perpere judicavit, versatim melius discussione habita, emendare procuret"[184].

 

E' difficile dire sino a qual punto, sotto i Longobardi, il vescovo abbia mantenuto gli stessi poteri ovvero abbia prevalso la funzione di amichevole compositore. Secondo il Salvioli è per l'appunto in questa veste che sarebbe stato invocato dai Romani, perchè conosceva il loro diritto e perchè essi non volevano sottostare a procedure che non erano loro congeniali[185]. L'invasione dei Longobardi portò innegabilmente, in un primo tempo, forte disordine nella organizzazione ecclesiastica, e non solo nei territori da loro stabilmente conquistati. Sembra, però, che sia da escludere che vi sia stata oppressione religiosa da parte dei Longobardi ariani. Anzi, in un secondo momento, i Vescovi tornano ad introdursi lentamente nel nuovo stato politico e sociale[186], tanto che Astolfo stabilisce la nota regola dell'intervento di un messo vescovile insieme a un missus regis, a un missus judicis e a tre uomini di indubbia fede nelle permute con persone ecclesiastiche[187]. E' d'altra parte  significativo che  nella raccolta di Benedetto Levita, insieme ad altre norme volte ad attribuire particolare valore all'admonitio del vescovo in caso di lite[188], farà la sua ricomparsa esplicita la Sirmondina I in un falso capitolare attribuito a Carlo Magno[189], e ad essa si richiameranno anche altre collezioni canoniche[190] sino al Decretum grazianeo[191]. Nella stessa raccolta di Benedetto Levita, peraltro, sono contenute altre norme che lasciano  comprendere meglio come, anche nella tendenza delle falsificazioni, quella del Vescovo fosse una funzione  intesa più in senso conciliativo che giurisdizionale:

 

"Studendum est episcopis ut dissidentes fratres magis ad pacem quam ad judicium cohortentur"[192].

 

La prassi si allargò quindi alle relazioni che, come abbiamo visto, nell'ambito di quella che si avvia ad essere la comunità parziale cristiano-occidentale, si configurano già come relazioni fra potentati autonomi; e qui, se al momento gli organi della Chiesa non erano in grado di imporre alcunchè con la forza, in compenso, come ministri del culto, godevano di un potere morale effettivo, che non rimaneva senza rispondenza nelle cose politiche. Come conoscitori delle colpe segrete di ciascuno e dispensatori di perdono, essi soggiogavano le coscienze, e quando nell'uomo era più forte la coscienza del cristiano, perchè ormai il dissidio era posto, essi soli avevano il potere di determinarlo a prendere un partito piuttosto che un altro[193].

Dappertutto, nelle situazioni di crisi si ricorreva ai Vescovi, considerati come gli unici possibili intermediari fra il nuovo potere e l'antico. E nei momenti di straordinario pericolo è sempre un rappresentante della Chiesa, spesso lo stesso Papa, di propria iniziativa o per esplicita richiesta, a interporre i propri uffici contro il pericolo della guerra. Così, quando su Roma pende la minaccia della spada di Alarico, è il pontefice Innocenzo I a recarsi da Onorio, a Ravenna, per discutere le condizioni del condottiero barbaro[194]. Visto l'insuccesso delle trattative, questi marcia nuovamente contro Roma, inviando però ad Onorio una delegazione di vescovi italiani per fargli sapere che, se si fosse ostinato a continuare la guerra, sarebbero stati preda della fiamma e della furia saccheggiatrice dei Barbari i monumenti più insigni della illustre città. Parrebbe che, in questa occasione, i vescovi  abbiano prestato i propri buoni uffici con discreti risultati, dal momento che sappiamo come Alarico si sia mostrato disposto ad abbassare le sue pretese, la cui enormità aveva travolto il prestigio e la vita di Stilicone, accontentandosi della cessione del Norico, di un carico di grano e di un trattato di allenza con l'Impero.  E' ancora un pontefice, Leone I, che accompagnando gli uomini più in vista della città - come il console Gennadio Avieno, e il capo del Senato Trigezio, ex prefetto del pretorio in Italia - nel 452 svolge opera di mediatore fra l'Imperatore e Attila. Questi, che minaccia di distruggere l'intera città di Roma, viene raggiunto a Governolo  e si convince a ritirarsi al di là del Danubio, promettendo di addivenire ad  accordi di pace, purchè l'Imperatore gli assicuri un tributo. Nella notizia che ne danno le fonti, è fatto cenno espresso di una accettazione della mediazione [195]. Pochi anni dopo (455) è Genserico a marciare contro Roma, ed è ancora una volta Leone  che intercede perchè le vite degli abitanti siano risparmiate [196].

Alcune volte l'interposizione papale viene espressamente richiesta dall'autorità temporale. Nel 563, quando l'imperatore Giustino pubblicò l'editto di persecuzione contro gli Ariani, Teodorico convocò il Papa a Ravenna e lo incaricò di recarsi a Costantinopoli:

 

"Hic vocitus est a rege Theodorico Ravenna; quem ipse rex rogans misit in legationem Constantinopolim ad Iustinum imperatorem orthodoxum, quia eodem tempore Iustinus imperator, vir religiosus... religionis Christianae voluit hereticos extricare...Eodem tempore Iohannes papa, egrotus infirmitate, cum fletu ambulavit et senatores exconsules cum eo, id est Theodorus, Importunus, Agapitus excons. et alius Agapitus patricius. Qui hoc accipientes in mandatis legationum ut redderentur ecclesias hereticis in partes Orientis: quod si non omnem Italiam ad gladio perderet..."[197].

 

Come si vede, è questo un caso in cui l'esito positivo della mediazione contrastava con gli interessi del mediatore. Difatti, secondo quanto sappiamo dal Liber pontificalis:

 

"...beatus Iohannes papa cum senatores suprascriptos cum grandem fletum rogaverunt Iustinum Augustum ut legatio acceptabilis esset in conspectu eius"[198];

 

è quindi comprensibile come, sebbene Giustino abbia riservato al Pontefice  tutti gli onori che spettavano alla sua persona, al  mediatore abbia fatto solo delle concessioni apparenti, sicchè  egli non raggiunse - o non volle raggiungere - gli obiettivi più importanti della sua missione, tant'è che al suo ritorno Teodorico lo imprigionò assieme a tutta la legazione[199].

 

 

3. – La Chiesa e i Longobardi

 

La discesa dei Longobardi in Italia trova un papato ormai saldo nella propria posizione politica e nella propria prassi cancellieresca. Con i Longobardi, se la funzione formalmente giurisdizionale dei Vescovi sembra arretrare, in compenso cresce a dismisura la loro importanza politica. Presto re e duchi longobardi si servono dei vescovi (alcuni dei quali, dal nome, rivelano la loro nazionalità longobarda) per affidare loro la definizione di importanti controversie. Così Teodoro e Tachipert, vescovi di Città di Castello, sono successivamente giudici di una controversia fra Siena e Arezzo[200]. Certo è che la pace del 599 fra i Longobardi e Bisanzio è il frutto dell'azione politica e del prestigio personale di papa Gregorio il Grande. Del 595 è una lettera di Gregorio I a Severo, scolastico e consigliere dell'Esarca, volta a fargli sapere che Agilulfo non ricusava di venire ad un trattato di pace, insistendo: "...ut exarchus ad hoc sine mora consentiat", o altrimenti preveda la possibilità che si addivenga a una pace speciale[201]. Dell'ottobre del 598, è una lettera nella quale il Papa, riconoscendosi petitor et medius della pace fra l'esarca e Agilulfo, tratta i termini della sua sottoscrizione. Particolarmente interessante è che in tale occasione i messi di Agilulfo, che giurano la pace riservandone tuttavia al re la ratifica "si sibi in quoquam excessum non fuerit", avrebbero chiesto al Papa di sottoscrivere anch'egli la pace quale garante; ma questi:

 

"recordantes eorum quae Agilulfus Basilio, viro clarissimo, per nos in Beati Petri dixisse fertur injuriam, quamvis hoc penitus idem Agilulfus negaverit, a subscriptione tamen abstinere praevidimus, ne nos, qui inter eum et exarchum petitores sumus et medii, si quid forte clam sublatum fuerit, falli in aliquid videamur et nostra ei promissio in dubium veniat"[202]. 

 

Nella prassi diplomatica della cancelleria romana erano dunque chiari gli stretti confini entro i quali si doveva mantenere  chi voleva assumere la funzione di mediatore.

Nelle trattative di pace con Agilulfo, il Papa si servì di un abate di nome Probo. In tale occasione, come nota il Gregorovius, non si parlò di senatori, nè si accennò a una qualunque funzione politica del senato di Roma[203].

Anche nei territori bizantini si era profilata la tendenza ad una autonomia molto spinta, che si nutriva di interessi locali e che si esprimeva in organismi cittadini e regionali molto più attenti alla difesa di questi che non di quelli di Bisanzio. Sta di fatto che nel Liber pontificalis, all'inizio della vita di Giovanni VIII, leggiamo dell'arrivo a Roma dell'esarca d'Italia Teofilatto, dell'accorrere in furia della militia totius Italiae in rivolta contro di lui, della pronta mediazione del Papa che valse a sedare, senza ingiurie all'esarca, tumultuosam eorum seditionem. Approfittando di questi frangenti, Gisulfo invade la Campania, e poichè nella città nullus extitisset qui ei potuisset resistere, il Papa, usando solamente sacerdoti e apostolica donaria, lo allontana da Roma, liberandone altresì i prigionieri[204]. Viene dal Bertolini ascritta al riconoscimento del regno longobardo da parte di Bisanzio la particolare clausola del giuramento pronunciato a Roma, all'atto della consacrazione, per mano del Papa, dei vescovi di diocesi che, ricomprese nella provincia romana, si trovavano soggette al dominio longobardo. Tale formula impegnava quei vescovi ad adoperarsi con tutte le loro forze "ut semper pax quam Deus diligit inter rem publicam et nos, hoc est gentem Langobardorum conservetur"[205]. Ma ormai il problema non era più, da tempo, quello del rilevare o non rilevare dei regna barbarici sul piano internazionale. Infatti, dalla formazione di questi Regna aveva preso l'avvio un pullulare di posizioni separatiste che rendeva la politica internazionale estremamente instabile, intricata e incerta[206]. In questa situazione, la politica di una istituzione dagli interessi costanti come la Chiesa, doveva divenire decisiva, anche perchè in questo campo il suo ruolo veniva ormai generalmente riconosciuto.

Nel 742, quando Liutprando, attaccando l'Emilia e la Pentapoli, si accingeva ad assediare Ravenna, l'esarca Eutichio, alle cui lettere si erano unite quelle dell'arcivescovo di Ravenna Giovanni e delle altre città minacciate, aveva chiesto al Pontefice di intervenire come mediatore. La cronaca che il Liber pontificalis ci dà della missione, è anche uno spaccato del cerimoniale riservato ad una ambasceria cui si voleva manifestare un particolare gradimento[207]. Dapprima Zaccaria cercò di ingraziarsi il re longobardo con ambascerie e doni:

 

"Missa igitur legatione apud iamdictum regem Langobardorum salutaria illi praedicavit. Cuius sancti viri ammonitionibus inclinatus, praenominatas IIII quas a ducatu Romano abstulerat civitates reddere promisit"[208].

 

Poi, non avendo ottenuto alcun frutto, si mise in viaggio per raggiungerlo di persona:

 

"Dumque isdem rex protraheret dilationem ad reddendam iuxta suam promissionem iamfatas IIII civitates, praenominatus pontifex... ex hac Romana civitate cum sacerdotibus et clero, perrexit fiducialiter et audaciter ad ambulandum in loco Teramnensium urbis ubi in finibus Spolitinis ipse resedebat rex".

 

Il re, saputo del suo arrivo fin da quando il Papa aveva raggiunto Orte, gli manda incontro Grimoaldo, il quale conduce Zaccaria a Narni, ove nel frattempo il re invia i suoi duchi con scorta d'onore. Questi accompagnano la legazione a Terni, ove, dinanzi alla porta della basilica di S. Valentino:

 

"Isdem rex cum reliquos optimates et exercitu suo sanctum virum suscepit, factaque oratione, mutua salutatione sibi et persolventes, dum divinis cum fuisset commonitus conloquiis inpensaque caritate, ab eadem ecclesie egressus in eius obsequium dimidium fere miliarium perrexit".

 

Il giorno successivo:

 

"...iterum convenientes, divina perfusus gratia, Deo placitis ammonitionibus eum est adlocutus, praedicans ei ab hostili motione et sanguinis effusione quiescere et ea quae pacis sunt semper sectare. Cuius piis eloquiis flexus, in constantia sancti viri et ammonitione admiratus, omnia quaequmque ab eo petiit per gratia Spiritus sancti obtinuit, et praedictas IIII civitates quas ipse ante biennium per obsessione facta pro praedicto Trasimundo duce Spolitino abstulerat, eidem sancto cum eorum habitatoribus redonavit viro"[209].

 

Quali argomenti, in sostanza, siano stati effettivamente usati nei colloqui fra il Papa e il Re longobardo non sappiamo, se si esclude l'accenno, riferito dal Liber pontificalis, alla necessità di astenersi dall'effusio sanguinis. Certo, Liutprando aveva avuto modo di vedere, proprio nell'anno in cui era rimasto solo sul trono di Pavia, alla morte del padre Ansprando, come solo la mediazione del papa Costantino I avesse posto fine al sanguinoso combattimento sulla via Sacra fra i sostenitori del duca Cristoforo, contro gli uomini che volevano imporre il duca Pietro inviato a prenderne il posto da un Imperatore, Filippico, di cui i Romani contestavano la legittimità perchè hereticus[210]. Sta di fatto che, dopo lungo tergiversare, il re si arrese all'eloquenza del Papa, restituì all'Impero greco le terre conquistate, e per quanto riguardava Cesena e il territorio circostante, che erano appunto oggetto delle trattative, ne tenne in pegno una parte, promettendo di restituirle appena fossero tornati da Costantinopoli i messi incaricati di trattare la pace con l'Imperatore[211]. Più tardi, il trono longobardo passò nelle mani di Rachi, duca del Friuli, e lo stesso Zaccaria ottenne dal nuovo Re la firma di una tregua ventennale valida per tutta l'Italia[212]. Quando nel 749 Rachi violò il trattato di pace assediando Perugia, Zaccaria tornò da lui come un tempo era andato da Liutprando, e pochi giorni dopo Rachi, non solo rinunciava alle sue mire su Perugia, ma dichiarava di voler deporre la corona e insieme con Tassia, la sua sposa romana, e sua figlia Rotrude, lasciava gli abiti principeschi sulla tomba di Pietro per ricevere dalle mani del Papa la veste dei penitenti.

Anche Stefano II venne invitato a trattare con Astolfo da Costantino V[213]. La sua abilità è subito evidente nel modo in cui riesce a convincere Astolfo ad un accordo che evidentemente non corrispondeva ai suoi piani:

 

"Inter haec vero dum magna persecutio a Langobardorum rege Aistulfo in hac Romana urbe vel subiacentibus ei civitatibus extitisset et vehemens eiusdem regis sevitia inmisceret, ilico isdem beatissimus papa, tertio apostolatus ordinationis suae mense, disponens suum germanum, sanctissimum scilicet Paulum diaconum, atque Ambrosium primicerium, plurimis cum muneribus ad eundem Langobardorum Aistulfum regem ob pacis ordinandum atque confirmandum foedera misit.

Quia praelati viri ad eum coniungentes, imperitis muneribus, quasi facilius eadem pro re apud eum inpetrantes, in quadraginta annorum spatia pacti foedus cum eo ordinantes confirmaverunt"[214].

 

Astolfo dovette essere ben presto scontento dell'impegno assunto:

 

"At vero isdem protervus Langobardorum rex, antiqui hostis invasus versutia, ipsa foedera pacis post poene IIII menses, in periurii incidens reatu, disrupit; multas iamfato sanctissimo viro vel cuncto populo Romano ingerens contumelias, varias illi minas dirigens"[215].

 

Ma nel 772 sappiamo che il papa Adriano I riceve Teodicio, duca di Spoleto, e Tunnone, duca di Ivrea, inviati da Desiderio amicitiae conciliandae causa. Questi, al Papa che dubitava della sincerità del Re, confirmant sub vinculo sacramenti quod eorum rex omnes justitias, quas Stephano papae non fecerat, pontifici...perficiat et in vinculo Charitati insolubili connexione cum eo fore permansurum"[216].

Non erano, però, solo le controversie fra l'Imperatore e il Re longobardo quelle che venivano all'attenzione del pontefice. Un episodio molto interessante è l'arbitrato per il castrum di Gallese, che subiva continui attacchi provenienti dal ducato spoletino. Gregorio III, secondo quanto ci attesta il Liber Pontificalis:

 

"potuit causam finire et in compage sanctae reipublicae atque corpore Christo dilecti exercitus Romani annecti praecepit"[217].

 

Sull'episodio ha attirato l'attenzione il Bertolini, notando la finezza tecnica dei termini adoperati, che danno notizia di un atto stilato, nelle debite forme, dalla cancelleria pontificia. Oggetto dell'atto era la controversia relativa al castrum di Gallese; parti della controversia, da un lato, il duca Trasamondo II, che ne rivendicava l'appartenenza al suo ducato; dall'altro, l'exercitus Romanus, che ne proclamava la spettanza al ducato romano. Le due parti, dopo essersi disputato Gallese, anche ricorrendo alle armi, avevano convenuto di rimettersi al giudizio di un arbitro, scelto di comune accordo nella persona del Papa. Gregorio III pose termine alla controversia compensando il Duca con una somma di denaro per la rinuncia alle sue pretese e pronunciando una sentenza che, a conclusione della controversia, aggiudicava il Castrum alla compages dell'exercitus romanus.

L'episodio è particolarmente significativo, perchè mette a fuoco i tratti salienti della realtà politica del momento: un ducato del Regnum Langobardorum e un ducato dell'Impero bizantino che, venuti a conflitto per una controversia di confine, per tutta la sua durata, dalla fase in cui si erano combattuti, a quella dei negoziati conclusivi, tengono fuori della contesa così il re longobardo di Pavia come l'esarca bizantino di Ravenna. Un Papa che, accolta la richiesta delle parti, esercita funzione di arbitro fra quelli che appaiono come due potentati capaci di agire in nome e per conto proprio, e pronuncia una sentenza da entrambe le parti accettata come valida[218].

E ancora, nel 756, essendo morto Astolfo per una caduta da cavallo durante una battuta di caccia, Desiderio, allora duca di Toscana, mise insieme le forze necessarie per impadronirsi del regno. Allora Rachi, fratello di Astolfo, che si era fatto monaco a Montecassino, uscì dal convento a capo di un altro esercito per contrastarlo. Desiderio ricorse allora a Stefano II, promettendo che, qualora avesse vinto, avrebbe restituito a Roma e alla Chiesa le città che essa reclamava. Il Papa, consultatosi con l'abate Fulrado, spedì con accurate istruzioni i diaconi Paolo e Cristoforo a Desiderio, e il prete Stefano a Rachi. Il risultato della sua interposizione fu che Rachi tornò in convento, e i Longobardi riconobbero re Desiderio.

 

 

4. – L'interposizione della Chiesa nella successione dell'Impero carolingio

 

Dunque, in capo alla Chiesa in generale e al pontefice in particolare sembra essersi consolidata ormai una prassi secondo la quale la sua interposizione veniva normalmente accettata, quando non serviva a giustificare ripiegamenti politici rispondenti a più complesse esigenze strategiche. Ma il decentramento e la polverizzazione della politica internazionale avevano favorito una crescita della Chiesa quale centro di un potere politico per il quale, ora, esse rappresentavano, nello stesso tempo, un pericolo. La stessa translatio imperii, preparata dal viaggio di Stefano per il regno dei Franchi, nel 757, forse con la falsificazione costantiniana appena uscita dalla cancelleria ecclesiastica, può essere riguardata nell'ottica dell'esigenza della Chiesa di contrastare quel pericolo e costituire una affermazione definitiva così della posizione superlativa del Pontefice rispetto agli altri Vescovi come dell’unità della Chiesa.

Il re, infatti, comincia a rivendicare una titolarità dei gratia del suo regno, come emerge chiaramente da quanto scrive Eginardo:

 

"Pippinus, missa Romam legatione, Zachariam papam interrogat de regibus Francorum ex antiqua Merovingicarum stirpe descendentium, qui reges quidem dicebantur, sed potestas regni tota apud maiorem domus habebatur, excepta quod cartae et privilegia regis nomine scribebantur et ad Martis campum, qui rex dicebatur, plaustro bubus trahentibus vectus, atque in loco eminenti sedens, semel in anno a populis visus, publica dona sollemniter sibi oblata accipiebat"[219].

 

Quali che siano state in questa occasione le motivazioni politiche del papato, è certo che esso affermò inequivocabilmente, come principio della politica internazionale, il principio di effettività:

 

"Zacharias Papa ex auctoritate sancti Petri apostoli mandat populo Francorum ut Pippinus, qui potestate regia utebatur, nominis quoque dignitati frueretur. Ita Hildericus rex, qui ultimus Meroingorum Franci imperavit, depositus et in monasterium missus est. Pippinus vero in civitate Suessionum a Sancto Bonifacio archiepiscopo in regem unctus, regni honore sublimatus est"[220].

 

D'altra parte, l'interposizione della Chiesa veniva adoperata anche fra i grandi poteri che ormai si fronteggiano a eguale titolo:

 

"Imperator, Amalharicum, Trevirensem Episcopum et Petrum abbatem monasterii Nonantulas propter pacem cum Michaele Imperatore confirmandam Constantinopolim misit. Hludovicum filium coronavit[221].

 

Un contributo importante, alla definizione del quadro tratteggiato, viene dalle tumultuose vicende che accompagnarono la successione di Ludovico il Pio. Ludovico aveva, nell'817, convocato nel palazzo imperiale un sacrum conventum, una assemblea generale che devote ac fideliter discutesse il progetto della  ordinatio Imperii da lui presentato in vista delle utilitates da raggiungere per tutti. Il principio doveva essere quello della unitas, che non negava l'esistenza di singoli reges purchè Imperio subiecti. La figura dell'Imperatore era indispensabile ad perpetuam pacem del popolo cristiano[222]. Fulcro e strumento di tale unità e pace era la continuità dinastica, che infatti venne in tale contesto regolata. Cionondimeno, nella patrimonializzazione del potere ormai affermatasi[223], la compagine territoriale dell’Impero viene appunto divisa alla stregua di un patrimonio. Il secondo matrimonio di Ludovico con Giuditta di Baviera, alla morte di Irmingarda (3 ottobre 818), dando luogo alla necessità inserire anche il figlio di lei – Carlo il Calvo – nella già definita spartizione, non poteva, in questa ottica, che portare ad una crisi politica.

Del peso determinante avuto nella soluzione di questa crisi dal Pontefice ci dà uno spaccato dettagliato la Vita Walae. L'opera fa cenno anzitutto delle rapinae  e obpressiones cui dava luogo la controversia fra i pretendenti. Quindi afferma che la pace non si sarebbe raggiunta senza l'interposizione del Pontefice, di cui descrive le fasi salienti. Sappiamo quindi dell'arrivo dei missi apostolici i quali:

 

“detulerunt epistolas ex omni auctoritate gravidas...pro pace, pro reconciliatione patris et filiorum, principis et seniorum, pro statu ecclesiarum, pro adunantia populi et salvatione totius Imperii”[224].

 

Poichè oltre a Lotario, che si trovava in Italia a contatto con il Pontefice,  erant autem et alii ex parte filiorum pro eis rogantes eum  ut illis suis succurreret consiliis, qui jam pro eis multa pertulisset, il Papa (Gregorio IV) si risolse a recarsi in Francia per cercare di riportare la concordia fra interessi tanto profondamente divergenti[225]. Tuttavia, a questo punto le cose si erano notevolmente complicate, e vi era stato un pericoloso voltafaccia anche sull'opportunità della interposizione papale rispetto ad una soluzione lasciata all'esito di uno scontro armato; qui viene testimoniata chiaramente la coscienza della connessione fra mediazione e intervento politico:

 

"terrebatur autem...ab Augusto et ab omnibus suis etiam ab episcopis, qui sibi pridie quam venissemus dextra dederant, quod manibus esset ad resistendum his qui ex adverso erant, regibus filiis, principibus et populo".

 

Addirittura, per evitarne l'influenza, vi era chi parlava di deporre il Papa, che si intrometteva in base ad una iniziativa che non era stata di tutti gli interessati:

 

"...insuper consiliabantur firmantes...quod eundem apostolicum, quia non vocatus venerat, deponere deberent".

 

Ed è proprio a questo punto che troviamo un affermazione esplicita e apodittica della potestà funzionale del Pontefice:

 

"Unde et ei dedimus nonnulla sanctorum patrum auctoritate firmata, praedecessorumque suorum conscripta, quibus nullus contradicere possit, quod eius esset potestas, immo Dei et beati Petri apostoli, suaque auctoritas, ire, mittere ad omnes gentes pro fide Christi et pace ecclesiarum, pro praedicatione evangelii et assertione veritatis et in eo esset omnis auctoritas beati Petri excellens et potestas viva, a quo oporteret universos iudicari, ita ut ipse a nemine iudicandus esset”[226].

 

Anche la messa in stato d'accusa e la successiva deposizione dell'imperatore Lodovico il Pio, si svolgono su di un piano religioso. Esse seguono alla admonitio  e alla correptio attuata dai vescovi sive verbis sive scriptis, e prendono la forma della Chartula reatuum, redatta da Agobardo[227]. Il seguito della cronaca ci dà conto  delle trattative  fra il Pontefice e l'Imperatore, ove questi, evidentemente sobillato dai consiglieri di cui si è fatto cenno prima, resiste alle proposte del Pontefice facendogli notare di non averlo chiamato lui a svolgere opera di pacificatore. La risposta del Papa è indicativa del tenore mantenuto dalla interposizione papale pur in frangenti così difficili:

 

"Nos bene venisse scias, quia pro pace venimus et concordia, quem auctor salutis nostrae nobis reliquit; et mihi paedicanda universis commissa est, et proferenda omnibus. Idcirco, imperator, si nos et pacem Christi digne susceperis, requiescet in vobis ipsa, necnon in regno vestro; sin autem pax Christi ad nos revertetur, uti legistis in evangelio, et nobiscum erit"[228].

 

Nonostante la presenza di un forte partito che propendeva per una soluzione bellica della crisi, sappiamo che gli eserciti di Lodovico e Lotario, schierati tra Rothfeld e Ingolsheim si astennero, per il momento, dall'entrare in conflitto. Ma  più che l'esito della interposizione del Pontefice (sappiamo che l’Imperatore in una assemblea riunita a Soissons fu costretto a umiliarsi riconoscendo pubblicamente le proprie colpe e a rinunciare alla corona imperiale che solo in un secondo momento riuscì riconquistare), quello che balza in evidenza è la funzione eminente di guida dell'Europa cristiana che egli ormai rivendicava e che gli veniva riconosciuta. Perciò, anche quando la  controversia si riaccese, alla morte di Lodovico il Pio, il Pontefice ripropose la sua mediazione, sebbene senza  successo. Così se dagli Annales fuldenses sappiamo che:

 

"Arsenius episcopus, Nicolai romani pontificis legatus, ob pacem et concordiam inter Hludowicum regem et nepotes eius, Hludowicum videlicet Italiae imperatorem et Hlotarium frater eius, renovandam missus est in Franciam"[229],

 

nel Chronicon di Reginone dello stesso fatto si dice:

 

“Anno dominicae incarnationis 866 Arsenius episcopus, apocrisiarius et consiliarius Nicolai papae, vice ipsius directus est in Franciam; quo perveniens tanta auctoritate et potestate usus est, ac si idem summus praesul advenisset”[230].

 

Nell'anno 860 quando a Coblenza i figli di Ludovico il Pio, Luigi II di Francia, Carlo II di Germania e Slavonia, concludono un trattato di amicizia con i figli di Lotario I, Lodovico imperatore dei Romani e re di Lombardia, Lotario re di Lorena e Carlo re di Borgogna e Provenza, è una assemblea di vescovi che si fa promotrice del trattato[231]. E' presente nel documento, oltre a un accenno alla fraterna concordia sine qua  nullus christianus salvus esse non potest, anche un chiaro riferimento al fatto che le proposte di pace sarebbero state elaborate con la collaborazione dei vescovi, i quali quindi, oltre a stimolare le trattative sembra abbiano fatto anche da filtro delle diverse proposte, svolgendo una attenta e paziente opera diplomatica. Nella Adnuntiatio Domini Karoli si legge infatti:

 

“Post hoc laboravit, adiuvante Domino, iste carissimus nepos noster, ut inter nos pax fieret, sicut per rectum esse debet, et ut monentibus Episcopis ad illam charitatem et fraternam concordiam rediret sine qua nullus Christianus salvus esse non potest” [232].

 

La funzione di interpositore si cela chiaramente dietro l'allusione all'admonitio dell'organo della Chiesa. E questa si connette con la funzione che essa ritiene esserle propria.

Già nella relatio ad Ludovicum Imperatorem, dell’820, i Vescovi franchi si erano richiamati direttamente alla propria funzione di sacerdotes Domini, qui sunt mediatores inter Deum et homines, per quos homines Deo reconciliantur[233].  La stessa emerge chiarissima nella pace fatta nell' 864, quando, secondo il racconto dell'anonimo :

 

"Hludovicus et Karolus reges et fratres apud Dusiacam villam mense Septembri convenientes, foedus ineunt et quicquid inter eos levitate humana vel suggestione militum perperam gestum fuerat, sibi mutuo dimittunt, cuncta retro oblivioni tradenda censentes. Huius autem foederis pactum inviolabiliter omni tempore conservandum testes et admonitores idonei ex utraque parte statuuntur. Nam Hludovicus ex parte Karoli Hincmarum, Remensem episcopum, et Engilramnum comitem, Karolus vero ex parte Hludovici Liutbertum archiepiscopum et Altfridum antistitem elegit, ut si forte ab aliquo eiusdem pacti iura laederentur, his admonentibus et gesta priora ad memoria revocantibus, facilius in pristinum statum reformari possent[234].

 

Qui gli admonitores sono detti anche testes. La cosa è degna di nota perchè come fu rilevato a suo tempo, nel suo significato primitivo e nell'uso posteriore della parola, il concetto di arbiter è strettamente connesso a quello di testis[235]. Nel testo citato, che appare come una vera e propria clausola di previsione di una commissione di conciliazione, la testimonianza si immedesima con la mediazione, con l'ufficio di chi contribuisce a che la forza non sia usata, proprio perchè conoscendo i termini dei fatti e degli accordi pregressi fra le parti, spende la propria autorità per farne, fra loro, opportuna testimonianza[236].

 

 



 

[1] L'immagine "catastrofica" tradizionale è ormai rifiutata dalla storiografia recenziore. A partire dalla fine del II secolo fu iniziata e poi largamente generalizzata la pratica degli insediamenti di gruppi di Barbari nelle zone limitanee e deserte, ove si formavano delle isole di soldati-contadini agli ordini di prefetti o tribuni romani. Va anche ricordata la germanizzazione, sempre più rapida, dell'esercito di manovra nel quale, alla fine del IV secolo, i Germani raggiunsero i più alti gradi della gerarchia militare. La grande novità del V secolo fu dunque di natura quantitativa e qualitativa, perché furono interi popoli a stanziarsi entro i confini dell'Impero, senza esserne assorbiti, ma mantenendovi i loro capi, la loro organizzazione, le loro consuetudini. Cfr.per tutti , in proposito,  E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, Roma 1995, I, 52 e ss.;.R. FOLZ, A.GUILLOU, L.MUSSET, D.SOURDEL, Origine e formazione dell'Europa medievale, tr. it., Bari, 1975, 18-19; V. BELLINI, Sulla formazione e i caratteri del sistema internazionalistico dell’alto Medioevo occidentale, in Diritto internazionale, 1969, 58 e 60-64.

 

[2] Nel 364 l'esercito, acclamando Valentiniano I imperatore, gli impose di associarsi un secondo Augusto. Valentiniano scelse suo fratello Valente e gli affidò l'Oriente. Successivamente, solo dal 394 al 395 le due parti furono riunite da Teodosio. Alla sua morte, i due figli, Arcadio e Onorio regnarono l'uno in Oriente, l'altro in Occidente. «Théoriquement solidaires, nominalement compris dans un seul tout, l’Orient et l’Occident eurent désormais, en réalité, des destinées indépendentes». Vedi E. ALBERTINI, L’empire romain, Paris, 1970, 388.

 

[3] La tesi, già sostenuta da B. PARADISI (I fondamenti storici della comunità giuridica internazionale, in Civitas Maxima. Studi di storia del diritto internazionale, Firenze MCMLXXIV, I, 46) e ripresa da V. BELLINI (op. cit., 34, 38), non è condivisa da G. VISMARA, Le fonti del diritto romano nell'alto medioevo secondo la più recente storiografia (1955-1980), in Proceedings of the Sixth International Congress of Medieval Canon Law (Berkeley, California, 28 july-2 august 1980), ed. S. Kuttner e K. Pennington, Città del Vaticano, 1985, 167. Per R. AGO (Il pluralismo della societa' internazionale alle sue origini, in Studi in onore di Giorgio Balladore Pallieri, II, Milano 1977, 3 dell'estratto), la stessa eliminazione dell'Impero d'Occidente, in sè e per sè, non appare se non come un fenomeno secondario.

 

[4] In tal senso P. MARCARI, Idee e sentimenti politici dell’alto Medioevo, Milano 1968, 40.

 

[5] Il problema, come è noto, fu posto da H. MITTEIS, Reichsrecht und Volksrecht in den östlichen Provinzen des Römischen Reichs, Leipzig, 1891.

 

[6] Vedi, in tal senso, A. PIGANIOL, Histoire de Rome, Paris, 1949, 325 e 427; cfr. V. BELLINI, op.cit., 39.

 

[7] C. SANTINI, Europa medievale, Milano, 1896, 26-27.

 

[8] Queste avevano subito una progressiva frantumazione: mentre sulla fine della repubblica erano 16, nel 297 erano 95 e sulla fine del V secolo 112. Vedi G. PACCHIONI, Corso di diritto romano, I, Storia della costituzione, 1918, 330; E ALBERTINI, op. cit., 389.

 

[9] Vedi Notitia dignitatum utriusque Imperii, ed. G. PANCIROLI, Genevae, MDCXXIII.

 

[10] Edictum Athalarici regi, Var., LIX, II, in MIGNE, P.L., LXIX, col.767.

 

[11] C. SANTINI, op.cit, 59.

 

[12] Di tale a. si vedano, Il particolarismo europeo nell'alto Medioevo, in Questioni di storia medievale, Milano-Como, 1946, 25 e ss.; Dall'unità romana al particolarismo giuridico del Medioevo (Italia, Francia, Germania), Pavia, 1936; L'ordinamento provinciale romano nei suoi rapporti coi regni romano-germanici della Gallia, in Studi in onore di P. Bonfante, IV, Pavia, 1930; Le magistrature romane dei regni romano-germanici della Gallia, in Atti del II congresso nazionale di Studi romani, I, Roma, 1931, 542-547.

 

[13] V. BELLINI, op.cit., 50.

 

[14] K-F. WERNER, Naissance de la noblesse. L’essor des élites politiques en Europe, tr. it. Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élites politiche in Europa, Torino 2000, 206.

 

[15] E. CORTESE, Il diritto,  cit., I, 75.

 

[16] Gli Arabi, in Spagna, avrebbero chiamato Kura le ripartizioni territoriali amministrative. La parola viene evidentemente da cwra, termine con cui veniva indicato il distretto bizantino. Nei fatti, i Kura ricalcano i ducati e le contee visigote. Vedi E. LÉVI- PROVENÇAL, Histoire de l'Espagne musulmane, Paris-Leiden, 1950, III, 48.

 

[17] M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, 48.

 

[18] Nello stesso senso R. AGO, Il pluralismo, cit., 5 (dell'estratto).

 

[19] E. CORTESE, Il diritto, cit., I, 56. Bisogna però dire che Cortese non è tanto interessato a definire i rapporti “internazionali” dei Regna, quanto a indagare l’ambito di efficacia della lex romana Wisigothorum.

 

[20] P. AMORY, People and identity in Ostrogothic Italy, 489-554, Cambridge 1997, 44.

 

[21] V. BELLINI, op. cit., 56.

 

[22] La fonte citata, tuttavia, (TACITO, Annali, II, 44 ss.) attesta solo che fra due condottieri germani di pari valore, il nome di re adottato dall’uno, faceva preferire l’altro.

 

[23] Un ex generale romano d’Oriente in vena di ribellione, avanzato guerreggiando con un altro generale romano d’Occidente: tale, ad esempio appare Alarico a E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, I, cit., 53

 

[24] B. PARADISI, Il significato e l'importanza dell'epoca di transizione dall'antichità al Medioevo per la storia del diritto internazionale, in Civitas Maxima, cit., II, 835. Ad una indipendenza effettiva da Bisanzio sembra pensare anche M. LUPOI, Alle radici del mondo giuridico europeo, Roma, 1994, 312-313.

 

[25] D. OBOLENSKY, The Byzantine Commonwealth. Eastern Europe 500-1453, London 1971, tr. It. M. Sampaolo Il Commonwealth bizantino. L’Europa orientale dal 500 al 1453, Bari, 1974, 61 ss.

 

[26] Cfr. G. VISMARA, Problemi storici e istituti giuridici della guerra altomedievale, in Scritti di Storia giuridica, Milano, 1989, 7, 485.

 

[27] Proprio G. VISMARA, Problemi storici, cit., (lo scritto comparve originariamente in Ordinamenti militari in Occidente nell’alto medioevo, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1968, 1138) lamentava la mancanza di un’esposizione sistematica delle fonti medievali tesa alla ricostruzione delle norme alle quali si attenevano, nelle loro relazioni intersoggettive, le varie entità politiche di quei tempi. A questa lacuna egli addebitava in larga misura il mancato sciogliersi delle pur grandi difficoltà inerenti ad ogni ricerca storica sul “diritto internazionale del Medioevo”.

 

[28] Già CESARE, De bello gallico, VII, 31, ci indirizza in questo senso, dandoci notizia del fatto che il re dei Nitiobrogi aveva ricevuto il titolo di amicus dal Senato romano.

 

[29] M. SCOVAZZI, Le origini del diritto germanico. Fonti - preistoria - diritto pubblico, Milano 1957.

 

[30] OROSIO, Hist. adv. pag., V, praef. Lo stesso Orosio (VII, 43, X) attribuisce ad Ataulfo l'affermazione che egli da giovane aveva tentato di sostituire la Romania con una Gotia, ma che l'esperienza gli aveva insegnato che la barbarie dei Goti era tale da non far loro rispettare le leggi, senza le quali nessuna organizzazione politica può sussistere. Egli aveva perciò indirizzato le forze dei Goti a sostenere il nome romano, poichè non aveva potuto esserne il distruttore.

 

[31] Vedi IOANNIS LYDI, De Magistratibus, in Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, Bonnae, MDCCCXXXVII, 224 ss. Alla differenziazione  dà molto rilievo V. BELLINI, op. cit, 62 ss.

 

[32] SALVIANO, De gub. Dei, VI, XVIII, 98, in M.G.H., AA., I, 1, 83.

 

[33] SALVIANO, De gub. Dei, VII, XII, 50-51, in M.G.H., cit., 92.

 

[34]GIORDANIS, De origine actibusque getarum, XXVI, in M.G.H., AA, V, 94; anche in L.A. MURATORI, Rerum italicarum scriptores, I, 1, 204; MIGNE, P.L., LXIX.

 

[35] Su ciò V. BELLINI, op. cit., 182 ss.

 

[36] «…l’elaborata diplomazia di Giustiniano fu responsabile in larga parte del fatto che il basso Danubio, anche se frequentemente invaso da Bulgari e Slavi, rimase durante il suo regno un effettivo confine politico». Così OBOLENSKY, op. cit., 69.

 

[37] Così è del tributo versato ad Attila dall'imperatore d'Oriente, di trecentocinquanta libbre d'oro, che venne, secondo Prisco, più che raddoppiato. L'Impero era in quel momento in guerra con i Persiani e i Vandali. Sicchè l'Imperatore si rassegnò a negoziare e accettare un trattato molto umiliante. Il tributo venne portato a 2100 libbre d'oro, più 4000 libbre per gli arretrati. L'Impero si impegnava inoltre a pagare un riscatto per i prigionieri romani e a restituire al Re barbaro i transfughi unni che avevano cercato asilo nell'Impero, nonchè a negare l'asilo per l'avvenire. Secondo Prisco, i Romani avrebbero obbedito in tutto alla volontà di Attila, come a quella di un loro signore. Vedi PRISCI RHETORIS, Excerpta de Legationibus Romanorum ad Gentes, in Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, Bonnae, 1829, 146-168; l’opera trovasi anche, in traduzione, in P. MANZI (a cura di), Ambasceria di Teodosio il giovane ad Attila re degli Unni descritta dall'istorico Prisco, Roma, 1927, 3. La cosa è ben avvertita da PROCOPIO, Hist. arc., XIX, il quale lamenta il poco  scrupolo con cui Giustiniano faceva dono di ingenti somme ai Barbari snervando le ricchezze dell'Impero e incitandoli a tornare senza cessa per farsi comprare una pace che si era sempre disposti a pagare. Come giustamente notava Procopio, il vero modo di obbligare i Barbari alla soggezione e alla fedeltà verso Roma sarebbe stato il timore delle armi imperiali (Bell. Per., 103).

 

[38] L'origine stessa dell'istituto sarebbe, per il V. BELLINI, op. cit., 191, celto-germanica; Roma, pertanto, avrebbe sempre cercato, finchè possibile, di evitarlo o sostituirlo con la deditio. Il Bellini distingue quattro specie di foedera: a) il foedus qualificato, da parte del potere barbarico stipulante, da un dovere di provvedere alla difesa esterna dell'Impero. L'Impero si impegnava, da parte sua, a fornire aiuti finanziari e in natura. Questo era un rapporto "esterno" anche nel senso territoriale, perchè i Barbari restavano nelle loro sedi; b) il foedus con il quale il potere barbarico si impegnava a fornire contingenti per la difesa dell'Impero dall'interno: le truppe barbariche erano immesse nell'organizzazione militare romana, sotto il diretto comando dei capi nazionali, sottoposti a loro volta alle magistrature romane; c) il foedus di stanziamento in forza del quale comunità barbariche prendevano possesso di una certa regione posta all'interno dell'Impero per coltivarla e difenderne i confini. La nuova condizione giuridica  veniva assunta mediante un patto liberamente stipulato. Tali comunità tanto più erano forti politicamente e tanto più tendevano a prevalere anche come nazione, quanto più erano numerose; d) il foedus stipulato con i capi dello stesso exercitus barbaro. Del tipo sub c) sarebbe stato lo stanziamento dei Longobardi in Pannonia di cui parla Procopio (De bello got., III, 33). Vedi G.P. BOGNETTI, S. Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, Milano 1948, 413. Secondo il Bognetti, sin dalla Pannonia si erano staccati dalla massa dei Longobardi gruppi di armati (sono questi che il Bognetti individua come fare) che si erano fatti ingaggiare dai Romani come truppe federate.

 

[39] G.P.BOGNETTI, La costituzione e l'ordinamento dei primi Stati barbari nell'Europa occidentale dopo le invasioni della Romania, in Dalle tribù allo Stato, in Acc. Naz. dei Lincei, quad. 54, 67 ss.

 

[40] Il vocabolo utilizzato dai più antichi testi giuridici in lingua anglo-sassone per designare il re è cyning. Presente in tutte le lingue germaniche – nelle quali avrebbe dato origine ai termini König, king, koning, konung, esso deriverebbe dalla radice kun, cioè razza, famiglia, con un campo semantico evidentemente molto diverso da quello di rex. é. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris, 1969, II, I, 1, connette quest’ultimo con la funzione di tracciare la regula, laddove il primo sembrerebbe legato alla supremazia su di una stirpe.

 

[41] CICERONE, De rep., I, 26.

 

[42] Lo nota E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Cagliari 1970, ora in rist. Milano 2002, 122. Nello stesso Grozio, a dire il vero, sarà adombrato il concetto che si debba avere riguardo anzitutto al dominio relativo alle persone, e solo in secondo luogo a quello relativo al territorio: "imperium duas solet habere materias sibi subiacentes, primariam personas, quae materia sola interdum sufficit ut in exercitu virorum, mulierum, puerorum quaerentes novas sedes et secundariam locum qui territorium dicitur". Vedi H. GROTIUS, De jure belli ac pacis, Amsterdam, 1632, II, IV, 4.

 

[43] V. BELLINI, op. cit., 199.

 

[44] Vedi W. PREISER, voce Völkerrechtsgeschichte, in STRUPP-SCHLOCHÄUER, Wörterbuch des Völkerrechts, vol. III, Berlin 1962, 688.

 

[45] Vedi, ad esempio PAULI DIACONI Historia Langobardorum, II, 31-32, in M.G.H., Scriptores Rerum Langobardicarum et italicarum, 90.

 

[46]J. PIRENNE, Les grands courants de l'histoire universelle, Neuchatel 1948, I, 451.

 

[47] Vedi quanto PROCOPIO (De bello gothico, ed. Dindorf, Bonnae, 1833, IV, 16, 2) dice di Gubaze, re dei Lazi, il quale svolge una politica autonoma; ovvero (ibidem, IV, 4) degli Zechi, sul Ponto Eusino, "..de' quali un tempo il re era nominato dall'imperatore romano. Oggidì però quei barbari non ubbidiscono in nessuna cosa ai Romani".

 

[48] Il significato originario del Bund che, pur lasciando inalterati i principi fondamentali della Sippe, era però in grado di superare i motivi di contrasto fra le varie stirpi, ai fini di una difesa dei valori e degli interessi comuni, è stato illustrato in particolare da M. SCOVAZZI, op. cit., 251.

 

[49] Il comandante imperiale di Lazika ricevette una richiesta di protezione e alleanza da parte degli Avari tramite i buoni uffici del re degli Alani. Vedi OBOLENSKY, op. cit., 70.

 

[50] C. DIEHL - G. MARÇAIS, Histoire du Moyen Age, III, Le monde oriental de 395 a 1081, Paris 1944, 15.

 

[51] Sul punto vedi PROCOPIO, De bello goth., IV,5.

 

[52] In tal senso FOLZ, op. cit., 28. Sulla politica unna vedi THOMPSON, Storia di Attila e degli Unni (tr. it.), Firenze 1936; F. ALTHEIM, Geschichte der Hunner, Berlino 1959.

 

[53] Cfr. C. D'ESZLARY, L'organisation de la paix dans les empire des steppes, in La Paix, cit., 124 ss.; A. PIGANIOL, op. cit., 503. A credere a PRISCO (ed. Bonn, 199-201), che lo conosceva bene, Attila sognava di conquistare l'Impero persiano e di imporre la sua autorità sino a Costantinopoli, dichiarando sdegnosamente che l'Imperatore aveva per generali dei servitori, mentre lui, per comandare le sue armate, aveva uomini il cui rango era pari a quello dello stesso Imperatore. Cfr. C. DIEHL - G. MARÇAIS, Histoire du Moyen Age, III, Le monde oriental de 395 a 1081, Paris, 1944, 15.

 

[54] In tema vedi C. DAWSON, La formazione dell'unità europea dal secolo V al secolo IX, Torino, 1939.

 

[55] CASSIODORO, Variae, III,1,2,3,4; V,43,44. Su ciò vedi P. BREZZI, La civiltà del Medioevo europeo, Città di Castello, 1978, I, 46.

 

[56] Così quella inviata nel 477 da Odoacre a Costantinopoli per presentare le richieste del nuovo potentato d'Italia all'imperatore Zenone. L'ambasceria, composta di senatori, avrebbe detto che un solo Imperatore era sufficiente per tutto l'Impero, mentre al governo dell'Italia poteva badare Odoacre, che chiedeva per sè il titolo di patricius. Vedi V.von FALKENHAUSEN, I rapporti dei ceti dirigenti romani con Costantinopoli dalla fine del VI secolo, in Il mondo del diritto nell'epoca giustinianea, caratteri e problematiche, Ravenna 1985, 66-67.

 

[57] PROCOPIO, De bello goth., III, 34.

 

[58] PROCOPIO, De bello goth., IV, 27.

 

[59] B. PARADISI, Il significato dell'epoca di transizione, cit., 835.

 

[60] A. PIGANIOL, op. cit., 507.

 

[61] PROCOPIO, De bello goth., III, 33. Da parte dell'Impero, il riconoscimento della Gallia sarebbe stato connesso alla necessità di ottenerne l'appoggio contro i Goti.

 

[62] E’ nota, sul punto, la tesi di H. PIRENNE, Maometto e Carlomagno, (tr. it.) Roma-Bari, 1976, 94. In Italia monete longobarde d'oro senza l'effigie dell'Imperatore vengono trattate dai re longobardi dopo Rotari, mentre con i Franchi la monetazione aurea cede il posto a quella argentea segnando – così, appunto, il Pirenne – la decadenza economica dell'Europa occidentale. In sostanza, l'abbandono della monetazione aurea dopo Lodovico il Pio sarebbe stata connessa con le invasioni arabe o – come preferisce il Lopez – con l'insufficiente prestigio dei monarchi occidentali. Vedi R. S. LOPEZ, Mohammed and Charlemagne: a Revision in the Pirenne Thesis, in The Pirenne Thesis, Analysis, Criticism, and Revision, a cura di A. F. Havighurst, Boston, 1958, 71.

 

[63] D., 49, 15, 7: “non dubito quin foederati…nobis externi sint”.

 

[64] K.-H. ZIEGLER, Völkerrechtsgeschichte. Ein Studienbuch, München, 1994, 59-70.

 

[65] Al principio – non altrettanto riconosciuto nel mondo islamico (K.-H. ZIEGLER, op. cit., 78), accenna Isidoro di Siviglia, Etymologiae, 5,6.

 

[66] Vedi PRISCO, Ambasceria, ed. Manzi, cit., 2.

 

[67] PRISCO, Ambasceria, ed. Manzi, cit., 11.

 

[68] PRISCO, Ambasceria, ed. Manzi, cit., 15. Nessun credito viene più accordato alla identificazione degli Acatziri con gli Agathyrsi o con i Cazari. E.A. Thompson, The Huns (Peoples of Europe), Blackwell Publishing 1999, 105.

 

[69] HYDATII LEMICI, Continuatio Chronicorum Hieronymianorum, in M.G.H., Chronica minora, II, 22, 100 (a.431). A V. BELLINI, op. cit., 52, che fa cenno dell'episodio, non pare che si possa parlare di azione propriamente mediatrice in quanto non si sarebbe trattato di rapporti fra terzi.

 

[70] HYDATII  LEMICI, op. cit., 111.

 

[71] "Tanto da noi sia detto con semplicità barbarica, povera di parole, non proporzionata alla gravità della cosa": queste parole, fors'anche un poco ironiche, messe da PROCOPIO (De bello goth., III, 34) in bocca all'ambasciatore longobardo dimostrano la consapevolezza della superiorità bizantina nel campo della guerra verbale; ma bisogna pur sempre ricordare che per i Barbari era quella delle armi la misura in base alla quale si valutava un uomo.

 

[72] PROCOPIO, De bello goth., III, 34.

 

[73] Il termine usato da Procopio è diélusan. Su questa ambasceria, vedi G.P. BOGNETTI, S. Maria, cit., 30 ss.

 

[74] PROCOPIO, De bello goth., IIII, 24.

 

[75] M.G.H., LL, I, 5.

 

[76] M.G.H., LL, I, 4.

 

[77] Secondo PROCOPIO, De bello goth., I, 1, lo stanziamento sarebbe stato provocato dal fatto che dopo essersi, per un foedus con l'Impero, stabilito nella Tracia coi suoi Goti, Teodorico, già patrizio di Bisanzio (ove aveva raggiunto la carica consolare), si era levato in armi contro l'Impero. Giustino, allora, per stornarne la minaccia gli avrebbe proposto di essere principe dei Romani e degli Italiani tutti. Per Giordane, invece, Romana, c.LVII, 347, Getica, c. 290, ed. Th. Mommsen, in M.G.H., A.A.,V,1, 35, 132 ss.; i Getica anche nell’ed. Giunta-Grillone, 20.

 

[78] Sul punto, a dire il vero, la dottrina non è affatto concorde. Secondo M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici, cit., 40 ss., non si potrebbe negare la continuità dell’ordinamento giuridico tradizionale della natio germanica. Il patriziato del re sarebbe stato funzionale all’appropriazione, da parte del rex germanico, della res privata principis. Contra vedi E. CORTESE, Il diritto, I, 75 ss.

 

[79] AGNELLO RAVENNATE, Excerpta, in M.G.H., A.A., Chronica minora, I, 321, XI. Sul punto, V. BELLINI (vedi op. cit., 217) rifiuta la tesi, già avanzata dal Mommsen  e accettata dallo Schmidt, che la creazione del regno romano-barbarico della penisola italica fosse opera di Odoacre e che con Teodorico avvenisse solo uno scambio di persona. Questo, secondo l'a. citato, potrebbe essere vero prima degli accordi con Anastasio. Dopo di essi, contrariamente  a quanto era accaduto con Odoacre, il potere di Teodorico sarebbe stato riconosciuto dall'Impero. In ogni caso, bisogna ricordare che i Goti confermarono re Teodorico senza attendere le mosse dell'Impero: vedi Chronica minora, II, 49. A nostro avviso, le espressioni di ossequio del re goto nei confronti dell’ imperatore non implicano la sua soggezione sul piano internazionale: di fatto esso esercitò un potere autonomo e indipendente. Cfr. F.-L. GANSHOF, La paix aux tres haut Moyen Age, in La paix, cit.,397.

 

[80] G. ASTUTI, Note critiche sul sistema delle fonti giuridiche nei regni romano-barbarici dell'Occidente, in Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli, 1984, I, 17. Al contrario, per E. CORTESE, Il diritto, cit, I, 86, il popolo goto doveva avere imparato un poco alla volta a usare il diritto privato romano attraverso l’ edictum Teoderici.

 

[81] Vedi M.G.H., Cassiodori Variae, III, 13, 86.

 

[82]M.G.H., Cassiodori Variae, VII, 3.

 

[83] M.G.H., Cassiodori Variae, II, 6, 60.

 

[84] Così, per esempio, scrive a Luduin, re dei Franchi: "...illum et illum legatos nostros ad excellentiam vestram consueta caritate direximus, per quos et sospitatis vestrae judicium ed speratae petitionis consequamur effectum". Vedi M.G.H., Cassiodori Variae, II, XLI, 73; ma anche ivi III, 1-4, 78-81.

 

[85] Vedi, in tal senso, la lettera a Clodoveo re dei Franchi, op. ult. cit., 81.

 

[86] Cfr. L. BUSSI, La successione femminile nei feudi imperiali: il caso di Margherita Maultasch, in Orientamenti civilistici e Canonistici sulla condizione della donna, Napoli 1996 (Atti del Seminario internazionale di Roma 28-29 ott. 1991), 43 ss.

 

[87] Ad esempio, i faraoni Tutmesi IV e Amenofis III, nel concludere trattati di amicizia con i re di Mitanni, li rafforzano sposandone le principesse. Vedi J. PIRENNE, L'organisation de la paix dans le proche-orient aux 3e et 2e millenaires, in La paix. Recueils de la société Jean Bodin pour l'histoire comparative des institutions, 1961, I, 213-214.

 

[88] Vedi POLIBIO, XI,34,8; XV,25,13; XV,34. Sul punto cfr. E. BIKERMAN, Institutions des Seleucides, Paris 1938, 29-30; C. PRÉAUX, op. cit., 298-299. Ne fa testimonianza anche CESARE, De bello gallico, I, 18, che ci spiega come Dummorige "...magnum numerum equitatus suo sumptu semper alere et circa se habere, neque solum domi, sed etiam apud finitimas civitates largiter posse atque huius potentiae causa matrem in Bituringibus homini hillic nobilissimo ac potentissimo conlocasse; ipsum et Helvetiis uxorem habere, sororem ex matre et propinquas suas nuptum in alias civitates collocasse".

 

[89] Sarebbe stato anzi proprio al fine di avere ragione della resistenza opposta dalla Corte di Bisanzio verso questo matrimonio che Attila si sarebbe rivolto contro l'Italia. Vedi F. GREGOROVIUS, op. cit., I, 131-132; cfr. E. ALBERTINI, op. cit., 423.

 

[90] M.G.H., Cassiodori Variae, cit. V, XLIII. Per H. TRIEPEL, L'egemonia, tr. it., Firenze 1949, 540, nella politica di Teodorico si ravviserebbe per la prima volta l'allacciamento di relazioni familiari adoperato come strumento di politica egemonica. La tesi (vedi nota precedente) pare eccessiva. Resta il fatto che Teodorico annetteva a questi matrimoni un dichiarato significato politico. Si veda peraltro quanto Procopio dice di Ermengisclo, re dei Varni, che per consolidare il suo regno aveva preso in moglie la sorella di Teodiberto, re dei Franchi, poichè era morta la moglie precedente, dalla quale aveva avuto un solo figlio; questi, sempre al fine di rafforzare il regno con alleanze sicure, era stato da Ermengisclo promesso ad una principessa brettone, sorella del re degli Angli. Sentendo che si approssimava una morte prematura, il re impone al figlio di rinviare la promessa sposa e sposare invece la matrigna, onde mantenere l'alleanza con un popolo più vicino e più forte. PROCOPIO, Guerra got., IIII, 20; GREGORIO DI TOURS, II, 1, dal canto suo ci dice come Amalarico, figlio di Alarico, re di Spagna, desiderando allearsi con principi potenti, quali mostravano di essere i Franchi, ne chiede una principessa in matrimonio. Gli esempi potrebbero continuare. Il fenomeno è rilevato anche da L. GENICOT, La noblesse dans la société médiévale, in La noblesse dans l'Occident médiéval, London, 1982, 544.

 

[91] Si veda ad esempio l'intreccio di matrimoni e relazioni familiari (di cui Paolo Diacono ritiene interessante rendere conto), di Wacho, di cui si dice che ebbe tre mogli, una figlia del re dei Turingi, l'altra figlia del re dei Gepidi, l'ultima del re degli Eruli; delle figlie, invece, la prima avrebbe sposato il re dei Franchi. Vedi PAOLO DIACONO, I, 21. Che nell'alto medioevo barbarico la donna occupasse un ruolo ben più rilevante di quello attribuitole nelle ricostruzioni storiche tradizionali è del resto la tesi sostenuta validamente da M. T. GUERRA MEDICI, I diritti delle donne nella società altomedievale, Napoli, 1986, 65 ss.

 

[92] GIORDANES, Rom., 386, in M.G.H., AA., V, 1, 52. Sul punto cfr. G.P. BOGNETTI, op. cit., 35.

 

[93] IDATIO, 170, a. 456.

 

[94] Vedi (Auct. inc.), Historia miscella, XV, in L.A. MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, I, 1, 102: "Hormisda vero, Romanus episcopus, fatigatus a Teodorico, Vitaliano favente, Ennodium Episcopum misit et Vitalianum Archidiaconum ad Synodum celebrandam apud Heracleam", cioè convinse il Papa a mandare suoi legati a Costantinopoli; a riprova dell'empietà dell'Imperatore, viene addotto il fatto che questi "pacta trasgrediens, clam intimavit Romano Papae ne veniret". Sappiamo peraltro che, sempre per i buoni uffici di Teodorico, la cosa riuscì sotto Giustino.

 

[95] Lettera ad Alarico, re dei Visigoti, in M.G.H., Cassiodori Variae, III, 1, 78; In tema cfr. V. BELLINI, Sulla formazione, cit., 32 ss.

 

[96] Vedi Ep. Gundibado regi, in M.G.H., Cassiodori Variae, III, 1-4.

 

[97] Ep. Uniformis, in  M.G.H., Cassiodori Variae, III, 3, 79.

 

[98] V.BELLINI, op. cit., 231.

 

[99] CESARE, De bello gallico, VI, 3, ci attesta che i Druidi si avvalevano dell’arbitrato: "...fere de omnibus controversiis publicis privatisque … si quis aut privatus aut populus eorum decreto non stetit, sacrificiis interdicunt". Così nelle leggi di Clotario e Eadrico (che citiamo qui nella traduzione di F. LIEBERMANN, Die Gesetze der Angelsachsen, Aalen, 1960, I, text und übers., 10) si legge:"Wenn jemand einen anderen bezichtigt, nachdem dieser ihm einen  Bürgern bestellt hat, so sollen sie binnen 3 Nächten darauf sich einen Schiedsrichter aufsuchen (ausser wenn später Termin demjenigen lieber ist, der die Klage erhebt); nachdem die Streitsache entschieden ist, erfülle der beklagte Mann in 7 Nächten dem anderen das Urtheil, passe es ihm in Werthzahlung oder durch Reinigungs - Eid welches von beiden ihm dem Beklagten lieber sei. Wenn er aber das beides zu geloben weigert, so zahle er dann 100 Schilling ohne fernere Berechtigung zum Eid, sobald eine Nacht über den Schiedsspruch vergangen ist". La figura dell'arbitro, nel testo originario, è indicata con il termine Saemend, che per il Liebermann (vedi op. cit., III, 21) indica un concetto di giudizio, legato però a un tempo "bevor es Staatliche Organisation gab, als nach Verstrauenmänner, von den Parteien zu Schiedsrichtern ernannt wurden oder mächtige Männer vermittelten und Schlichteten". Tradizionalmente il Saemend sarebbe dunque un arbitro - mediatore fra le famiglie sul punto di venire alla faida. Cfr., sul punto V. RIVALTA, I giudizi d'arbitri. Saggio di legislazione e giurisprudenza antica e moderna, Bologna 1885, 175.

 

[100] H.TRIEPEL, L'egemonia, cit., 541.

 

[101] PROCOPIO, De bello goth., IIII, 24.

 

[102] M.G.H., Leges, IV, 195.

 

[103] Fr. DOELGER, Regesten der Kaiserurkunden des Oeström. Reiches, I, Muenchen u. Berlin 1924, n. 240 (a.678), 28.

 

[104] M.G.H., LL, I, 5.

 

[105] “…per Dei omnipotentis nomen et inseparabilem Trinitatem vel divina omnia ac tremendum diem iudicii” Ibidem.

 

[106] M.G.H., LL, I, 40.

 

[107] P.W.A. IMMINK, At the Roots of Medieval Society, in Instituttet for Sammlegende Kulturforskning, XXIV, 1958, 53.

 

[108] Vedi H. THIEME, Friede und Recht im mittelalterliche Reich, in Ideengeschichte und Rechtsgeschichte. Gesammelte Schriften, Wien 1986, 213; cfr. F. CALASSO, Medioevo del diritto, cit., 124.

 

[109] M. SCOVAZZI, Le origini del diritto germanico, cit, 276-277. Una conferma in CESARE, De bello gallico, VI, 3: "Quibus ita est interdictum, hi numero impiorum ac sceleratorum habentur, his omnes decedunt auditum sermonemque defugiunt ne qui ex contagione incommodi accipiant neque iis petentibus ius redditur neque honos ullus communicatur".

 

[110] O. BRUNNER, Land und Herrschaft, Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Österreichs in Mittelalter, 5a ed., Wien, 1965, 17 ss.

 

[111] CESARE, De bello gallico, VI, 23: "Cum bellum civitas aut inlatum defendit aut infert magistratus qui ei bello praesint ut vitae necisque habeant potestatem  deliguntur". Cfr. M. SCOVAZZI, op. cit., 267.

 

[112] Da ciò deriva, del resto, non soltanto il diritto di resistenza e la facilità con cui i re potevano venire deposti, ma anche la caratteristica peculiare dell'assemblea germanica che appare come la detentrice del potere originario. Vedi TACITO, Germania, 11; CESARE, De bello gallico, VII, 75, ci fornisce anzi elementi molto interessanti di riflessione: “Galli, concilio principum indicto, non omnes qui arma ferre possunt, ut censuit Vercingetorix, convocando statuunt, sed certum numerum cuique civitati imperandum”.

 

[113] G.P. BOGNETTI, S. Maria  cit., 43.

 

[114] Vedi F.L. GANSHOF, Les traits généraux du sistème d'institutions de la monarchie franque, in Settimane di Studio del Centro Italiano di studi sull'alto Medioevo, X, Il passaggio dall'antichità al Medioevo in Occidente, Spoleto, 1961, 95, 216.

 

[115] A. BERGENGRUEN, Adel und Grundherrschaft in Merovingenreich, in Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 41, Wiesbaden, 1958.

 

[116] K. SCHMID, Zur Problematik von Familie, Sippe und Geschlecht; Haus und Dynastie beim mittelalterlichen Adel. Vorfragen zum Thema "Adel und Herrshaft im Mittelalter”, in Zeitschrift für die Geschichte des Oberrheins, CV, 1957, 1-62.

 

[117] H. MITTEIS, Der Staat der hohen Mittelalter, tr. it. Le strutture giuridiche e politiche dell'età feudale, Brescia, 1962, 26, 35, 51.

 

[118] H. DANNENBAUER, Adel, Burg und Herrschaft bei den Germanen, in Historisches Jahrbuch, t. LXI, 1941, 1-50, riprodotto in Grundlagen der Mittelalterlichen Welt, Stuttgart, 1958, 121-178.

 

[119] Ciò potrebbe trovare conferma a nostro avviso anche nella testimonianza di CESARE, De bello gallico, VI, 13: "In omni Gallia eorum hominum qui aliquo sunt numero atque honore genera sunt duo. Nam plebes paene servorum habetur loco, quae nihil audet per se, nullo adhibetur consilio. Plerique cum aut aere alieno aut magnitudine tributorum aut iniuria potentiorum premuntur, sese in servitutem dicant nobilibus".

 

[120] Vedi CESARE, De bello gallico, II, 1: "Quod in Gallia a potentioribus atque iis qui ad conducendos homines facultates habebant vulgo regna occupabantur".

 

[121] CESARE, De bello gallico, VI, 11, “In Gallia non solum in omnibus civitatibus atque in omnibus pagis, sed paene etiam in singulis domibus factiones sunt, earumque fationes principes sunt qui summam auctoritatem eorum iudicio habere existimantur, quorum ad arbitrium iudiciumque summa omnium rerum consiliorumque redeat”. Sul punto vedi H. DANNENBAUER, Grundlagen, cit., 127.

 

[122] K.-F. WERNER, op. cit., 170, 197.

 

[123] A. PIGANIOL, op. cit., 402.

 

[124] Sul punto, il Genicot concorda con E. EWIG, Volkstum und Volksbewusstsein im Frankenreich des 7. Jahrhunderts, in Settimane di studio del centro studi sull'Alto Medio Evo, V, Caratteri del secolo VII in Occidente, Spoleto, 1958, 622. Cfr. W. KIENAST, Die fränkische Vasallität. Von den Hausmeiern bis zu Ludwig dem Kind und Karl dem Einfältigen, Frankfurt/Main 1990, 19.

 

[125] L. GENICOT, La noblesse au Moyen Age dans l'ancienne "Francie": continuitè, rupture ou évolution?, ora nella raccolta di studi dello stesso a., La Noblesse dans l'Occident médiéval, cit., 8-9.

 

[126] In materia vedi K. KROESCHELL, Haus und Herrschaft im frühen deutschen Recht. Ein methodischer Versuch, Goettingen, 1968, 43.

 

[127] Cfr. V. RöDEL, Lehnsadel, in Handwörterbuch zur deutsche Rechtsgeschichte, II, coll. 1694-1696.

 

[128] TACITO, Germania, VII; GIORDANES, Getica, XIII, in M.G.H., AA., V, 76, che a proposito della famiglia degli Amali scrive: "...jam proceres suos, quorum quasi fortuna vincebant, non puros homines, sed semideos id est Ansis vocaverunt". Vedi A. ERLER, voce Königsheil, in Handwörterbuch zur deutsche Rechtsgeschichte, II, coll. 1040-1041. Cfr., sul punto, M. BLOCH, Les Rois thaumaturges. Étude sur le caractère surnaturel atribué a la puissance royale particulièrement en France et en Angleterre, Paris, 1983, 56.

 

[129] H. MITTEIS, Le strutture giuridiche e politiche dell'età feudale, Brescia 1962, 21.

 

[130] INCMARI REMENSIS, Pro ecclesia libertatum defensione in MIGNE, P.L., CXXV, col. 1040.

 

[131] GREGORI EP. TURONENSIS, Historia Francorum, III, 14, in M.G.H., SS. RR. Merovingicarum, I, 2, 110.

 

[132] Vedi P. JAFFE', Regesta Pontificum Romanorum, (Leipzig 1885-88), II ed. Graz 1956, a cura di J. Löwefeld e F. Kaltenbrunner, I, 261, n. 2252; cfr. G.P. BOGNETTI, S. Maria, cit., 51,91.

 

[133] FREDEGARII, Chronicon, IV, 617, in M.G.H., SS. RR. Merovingicarum, II, 143.

 

[134] DU CANGE, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Paris, 1938, VIII, 344.

 

[135] ISIDORI, Historia Gothorum, in M.G.H.,  AA., 11, II, 273.

 

[136] PAULI DIACONI Hist. Lang.,II, 28, in R.I.S., I, 435.

 

[137] Vita Hadriani, Liber pontificalis (ed. Duchesne), I, 490.

 

[138] Vita Hadriani, Liber pontificalis (ed. Duchesne), I, 495.

 

[139] DUMONT, Corps Universel Diplomatique, cit. I, 1, 13 (a. 860).

 

[140] DUMONT, op. cit., eodem loco.

 

[141] Nel Capitolare dell’805  è contenuta una norma da questo punto di vista molto eloquente: " Et si faidosus quis sit, discutiatur tunc quis e duobus contrarius  sit, ut pacati sint et distringantur ad pacem etiamsi  noluerint. Et si aliter pacificare nolunt, adducatur in nostram praesentiam. Et si quis post pacificationem alterum occiderit, componat illum et manum quam periuravit perdat et insuper bannum dominicum solvat". Vedi Capitulare missorum in Thedonis villa datum secundum generale, cap. 5, in M.G.H., Capitularia regum Francorum, I, 123. La norma è ripresa nella raccolta di Benedetto Levita (I, 247) ove però distringantur diventa costringantur, e si precisa che la pena prevista sarà comminata absque ulla redemptione. Vedi M.G.H., Leges, II, 2, 59.

 

[142] E. CORTESE, Thinx, garethinx, thingatio, thingare in gaida et gisil. Divagazioni longobardistiche in tema di legislazione, manumissione dei servi, successioni volontarie, in RSDI, LXI, 1988, 34.

 

[143] M. SCOVAZZI, Processo e procedura nel diritto germanico, in Rendiconti dell'Istituto lombardo dell'Accademia di scienze e lettere, Classe di lettere, vol. 92, 1958, 170; sul punto vedi anche F. CALASSO, Medioevo del diritto, I, Le fonti, Milano, 1954, 211.

 

[144] D'altra parte, come lo SCOVAZZI (op. cit., 166) non manca di notare, già Cesare rilevava (B.G., VI, 23) come per i Germani: "in pace nullus est communis magistratus sed principes regionum atque pagorum inter suos jus dicunt controversiasque minuunt”; e Tacito ricorda ancora principes eletti al fine preciso di rendere giustizia: "Eliguntur in iisdem conciliis et principes, qui jura per pagos vicosque reddunt; centeni singulis ex plebe comites consilium simul et auctoritas adsunt" (Germania, XII).

 

[145]Ad esempio, la Lex Frisonum, che il Patetta attribuisce alla prima metà del VIII secolo, stabilisce: "Homo faidosus pacem habeat in ecclesia, in domo sua, ad eclesiam eundo, de ecclesia redeundo, ad placitum eundo, de placito redeundo. Qui hanc pacem effragerit et hominem occiderit, XXX sol. comp.". Vedi F. PATETTA, La lex Frisonum, studi sulla sua origine e sulla critica del testo, Torino, 1882, 84.

 

[146] O. BRUNNER, Land und Herrschaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Oesterreichs in Mittelalter, Wien, 1965.

 

[147] ISIDORI HISPALENSIS, Etymologyarum, cit., XVIII, 2.

 

[148] ISIDORI HYSPALENSIS, Etymologyarum, cit., XV, 2.

 

[149] ISIDORI HYSPALENSIS, Etymologyarum, cit., XVIII, 2.

 

[150] HINCMARI REMENSIS, Annales Bertin., III, a. 863, in M.G.H.,SS., I, 459. E' appena il caso di notare che il DU CANGE, che rinvia a questo passo, accoglie anche un altro significato di mediare che è "per medium dividere". Dunque l'opera del mediatore alluderebbe ad un avvicinamento delle posizioni contrastanti, che è promosso dal "dividere a mezzo". Vedi Glossarium mediae et infimae latinitatis, Paris, 1937, 321. Nelle fonti meridionali il termine mediator sembra indicare persona spesso altolocata, capace di rivestire funzioni molteplici. In un rapporto di credito egli poteva fare pressione sul debitore per convincerlo ad adempiere. Vedi G. CASSANDRO, La tutela dei diritti, 7-39.

 

[151] FREDEGARII, Chronicon, cit., cap. 53.

 

[152] E' nota, infatti, una sua azione diplomatica presso il burgundione Gundobado per trattare il rilascio di prigionieri a favore di Teodorico. Dell’episodio dà notizia E. GIBBON, Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano,(tr. it.) Torino, 1967, 1443. Nello stesso senso, si possono citare le frequenti intermediazioni di S. Severino, testimoniate da Eugippo, uno scolaro del santo, nell'avanzare dei Rugi nella Bassa Austria, sotto la pressione di Alamanni, Eruli e Turingi. S. Severino viene pregato dalle popolazioni locali di intercedere presso il re dei Rugi il quale stava prendendo disposizioni drastiche al loro riguardo, e cioè "...retentos abducere et in oppidis sibi tributariis atque vicinis ex quibus unus erat Favianis, quae a Rugis tantummodo dirimebantur Danuvio, collocare". Al Re S. Severino propone: "...fidei meae hos committe subiectos, ne tanti exercitus compulsione vastentur potius quam migrantur". Ne derivò che i Romani, "quos in sua S. Severinus fide susceperat, de Lauriaco discedentes, pacificis dispositionibus in oppidis ordinati, benivola cum Rugis societate vixerunt". Vedi M.G.H., SS.AA, I, 2, 18 (XIX, 2-3), 23 (XXXI, 1-4).

 

[153] ENNODIO, Vita Epiphani, in M.G.H., SS.AA., VII, 91. Sulla figura di Ennodio, e sulla fortuna medievale dei suoi scritti vedi R.H. ROUSE-M.A. ROUSE, Ennodius in the Middle Ages: Adonics, Pseudo-Isidore, Cistercians and the School in Popes, Teachers, and Canon Law in the Middle Ages (a cura di S.R. Sweeney e S. Chorodow), Ithaca and London, 1989, 91 ss.

 

[154] ENNODIO, op. cit., 95.

 

[155] In tal senso, E. BUSSI, Evoluzione storica, cit., 130 ss.

 

[156] Vedi Ep. Romani, XIV, 17-19; Ep. Efesini, VI, 14-15; Ep. Filippesi, IV, 7-9; Vangelo di Giovanni, IV, 27; Vangelo di Matteo, XXVI, 52; Atti, X, 34-36. Ben presto, tuttavia, S. Agostino (De civitate Dei, I, 21 in MIGNE, P.L., XLI, col. 228) avvertirà che non viola il comandamento non uccidere chi obbedisce ad un ordine.

 

[157] Per avere ragione della naturale aggressività umana: "...data opera est ut imperiosa civitas non solum jugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imponeret...sed hoc quam multis et quam grandibus bellis, quanta strage hominum, quanta effusione humani sanguinis comparatum est? Quibus transactis, non est tamen eorundem malorum finita miseria. Quamvis enim non defuerint, neque desint hostes, exterae nationes contra quas semper bella gesta sunt et geruntur: tamen etiam ipsa imperii latitudo peperit pejoris generis bella socialia scilicet et civilia". Vedi A. AGOSTINO, De civitate Dei, XIX, 7, in MIGNE, P.L., XLI, col.634. Tuttavia la violenza barbarica è proprio quella che conduce S. Agostino ad ammettere la liceità della guerra, almeno in termini difensivi. Vedi Ep. CCXX, 7, in MIGNE, P.L., XXXIII, col. 995.

 

[158] A. AGOSTINO, De civitate Dei, cit., IV, 15,  col. 124.

 

[159] A. AGOSTINO, De civitate Dei, cit., V, 17, col.160. Al di fuori di questa ipotesi, peraltro, a quegli stessi sovrani era dovuta obbedienza. Nel celebre dilemma posto da Agostino ai Donatisti, si può leggere la difesa logica delle istituzioni giuridiche terrene in termini quasi hobbesiani: "Legantur leges, ubi manifeste praeceperunt Imperatores, eos, qui praeter ecclesiae catholicae communionem usurpant sibi nomen Christianum, nec volunt in pace  colere pacis auctorem, nihil nomine ecclesiae audeant possidere. Sed quid nobis est Imperatori? Sed jam dixi: de jure humano agitur. Et tamen Apostolus voluit serviri regibus: voluit honorari reges; et dixit: reges reveremini. Nolite dicere quid mihi et regi? Quid tibi ergo et possessioni? Per jura regum possidentur possessiones. Dixisti quid mihi et regi? Noli dicere possessiones tuas, quia ipsa jura humana renuntiasti quibus possidentur possessiones". Il passo è ripreso nel Decretum  grazianeo, c. 1, Quo jure, D. VIII.

 

[160] PAOLO OROSIO, Hist. adv. pag., V, praef.; l'a. accenna ancora agli "innumeri diversarum gentium populi diu ante liberi, tum bello victi, patria abducti, pretio venditi, servitute dispersi".

 

[161] Tertulliano difende la necessità dell'Impero. Vedi Apologeticum, 26; su ciò C. DAWSON, La formazione dell'unità europea dal secolo V al secolo XI (tr. it.), Torino 1939, 57 ss.; V. BELLINI, op. cit., 46-47; F. FABBRINI, L'impero di Augusto come ordinamento sovrannazionale, Milano, 1974, 205.

 

[162] A. AGOSTINO, De civitate Dei, IV, 4, in MIGNE, cit., col. 115. L’espressione latrocinium è termine che richiama i latrunculi vel predones che la giurisprudenza romana contrapponeva agli hostes: con quest’ultimo termine si definivano coloro che si opponevano con le armi al popolo romano con un bellum indictum, mentre i primi stavano a indicare chi usava della forza illegittimamente.

 

[163] F. SINI, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 4.

 

[164] Ep. ad Diognetum , V, 5-14.

 

[165] E. GILSON, La philosophie au Moyen Age, 2a ed., Paris 1986, 169.

 

[166] Anzi l'Ullmann avanza la tesi estremista secondo cui vi sarebbe una vera e propria assenza della categoria del politico, che spiegherebbe il successo del Papato in Occidente. Vedi W. ULLMANN, Principi di governo e politica nel Medioevo, tr. it., Bologna 1972, 139-144.

 

[167] Ancora interessanti, in proposito, le osservazioni di E. GIBBON, op. cit., 1754-1755.

 

[168] Da un lato, infatti (MARANI, Aspetti negoziali e aspetti processuali dell'arbitrato, Torino, 1966, 23) in tali differenze si è visto l'anticipo di alcune caratteristiche dell'arbitrato moderno. Dall'altro si è notato (J. GAUDEMET, L'Eglise dans l'Empire romaine (IVe-Ve siècles), Paris, 1958, 237) come l'episcopalis audientia mantenesse una forma a mezzo fra il tribunale minuziosamente organizzato quale verrà conosciuto più tardi dalla Chiesa e, appunto, la conciliazione, forma principe di intervento del vescovo nelle comunità ecclesiali primitive, più rispondente di un giudizio al suo ruolo pastorale. Tale preferenza per la conciliazione fu sottolineata anche da S. MOCHI ONORY, Vescovi e città, in Riv. di Storia del diritto italiano, 1931, 303 ss.

 

[169] LUCA, XII, 13.

 

[170] Paul. I adCor.,  VI, 4-5: “Se dunque avete liti per cose di questo mondo, voi prendete a giudici gente senza autorità nella Chiesa? Lo dico per vostra vergogna! Cosicché non vi sarebbe proprio nessuna persona saggia tra di voi che possa far da arbitro tra fratello e fratello?”. Ma cfr. Atti, 7, 25-28; Romani, 14, 4-13. In tema vedi O. DILIBERTO, Paolo di Tarso, I ad Cor., VI, 1-8, e le origini della giurisdizione ecclesiastica nelle cause civili in Studi economico-giuridici, 49 (1979), 183 ss.

 

[171] Può peraltro darsi che per tutto il periodo in cui i Cristiani vennero ritenuti una setta della religione ebraica, essi godessero degli stessi privilegi di cui godevano gli ebrei e i loro capi spirituali. La tesi, avanzata da Volterra, è citata da M.R. CIMMA, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano, Torino 1989, 32; cfr. M.A. von BETHMANN-HOLLWEG, Der Civilprozess des gemeinen Rechts in Geschichtlicher Entwicklung, Bonn, 1866, 113 ss.

 

[172] Vedi,  BESTA, Storia del diritto italiano, Milano, 1941, 110.

 

[173] Cfr. E. VOLTERRA, Istituzioni di diritto privato romano, Roma, 1961, 266.

 

[174] C.Th., I, 27, 1. Ma vedi S. AMBROGIO, Ep. 82, in MIGNE, P.L., XVI, 1275.

 

[175] G. VISMARA, Episcopalis audientia l’attività giurisdizionale del vescovo per la risoluzione delle controversie private tra laici nel diritto romano e nella storia del diritto italiano fino al secolo nono, Milano, 1937, 17; contra M.R CIMMA, L’episcopalis audientia, cit., 57.

 

[176] La cosiddetta Sirmondina I è stata a lungo ritenuta di sospetta autenticità. Vedi per tutti P. DE FRANCISCI, Per la storia dell’episcopalis audientia. Fino alla novella XXXV (XXXIV) di Valentiniano, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, XXX, 1915, III, vol. XIII, 16 (dell’estr.). Quanto frequentemente i Vescovi si occupassero della soluzione di controversie civili fra i membri, chierici o laici, dele loro comunità, risulta dalle fonti che attestano le loro lamentele derivanti dal peso di tale attività. Sul punto vedi M.R. CIMMA, L’episcopalis audientia, cit.,  71, n. 159 e fonti ivi citate.

 

[177] La Sirmondina fu oggetto di ripetute accuse di non autenticità, a partire dal Gotofredo (Codex Theodosianus cum perpetuis commentariis, VII, Lipsia, 1748, (ed. Ritter), 339 ss.); per un esame della letteratura recente, e una critica delle opinioni tendenti a negare l’autenticità della Sirmondina I, vedi M.R. CIMMA, L’episcopalis audientia, cit., 36 ss.

 

[178] C.Th. 1,27,2. La norma è del 408.

 

[179] C.J., 4, 7, Leges Novellae ad Theodosianum pertinentes, Nov. Valent.XXXV, ed. Th. Mommsen-P.M.Meyer, II, 142.

 

[180] C.J., 4, 7. D'altra parte, il diritto giustinianeo codifica l'etica giuridica cristiana, e lo stesso giudice è chiamato a tenere conto, nel suo giudizio, dei criteri della misericordia e della benignitas, vedi, sul punto, C. LEFEBVRE, Récents développements des recherches sur l'équité canonique, in Proceedings of the Sixth International Congress of Medieval Canon Law, Città del Vaticano 1985, vol. 7, 365.

 

[181] G. VISMARA, Episcopalis audientia, cit., 17; H. JAEGER, Justinien et l'episcopalis audientia", in Rev. Historique de droit français et étranger, XXXIX, 1960, 235.

 

[182]Studendum episcopo est ut dissidentes fratres sive clericos sive laicos ad pacem magis quam ad iudicium cohortentur ”, Statuta ecclesiae antiqua, c. 52, H.T. Bruns, Canones apostolorum et conciliorum veteres selecti, I, Berlino 1889, 144. La prassi di tentare una medizione preventiva prima di procedere al giudizio è illustrata anche da un noto episodio in cui S. Ambrogio, richiesto di risolvere una controversia civile già pendente avanti il prefetto del pretorio, confessa di essere intervenuto ita tamen ut compositionis essem arbiter, cioè di avere preferito agire come amichevole compositore, piuttosto che emanare una sentenza arbitrale. Sul punto M.F. MARTROYE, Une sentence arbitrale de Saint Ambroise, in RHD, 8 (1829), 300 ss; M.R. CIMMA, L’episcopalis audientia, cit., 71 ss.

 

[183] "...definimus ut, si quispiam ad Romanum clerum aliquem pertinentem in qualibet causa probabili crediderit actione pulsandum, ad beatissimi papae judicium prius conveniat audiendus, ut aut ipse inter utrosque more suae sanctitatis cognoscat aut causam deleget aequitatis studio terminandam, et si forte, quod credi nefas est, competens desiderium fuerit petitoris clusum, tunc ad saecularia fora iurganturus occurrat, quando suas petitiones probaverit a supra dictae sedis praesule fuisse contemptas. Quod si quis extiterit tam improbus litigator atque omnium iudicio sacrilega mente damnatus, qui reverentiam tantae sedi exhibere contemnat et aliquid de nostris affatibus crediderit promerendum, ante alicuius conventionis effectum, decem librarum auri dispendio feriatur...". Vedi M.G.H., Cassiodori variae, VIII, XXIII, 255.

 

[184] Chlotacharii I regis constitutio, c. 6, in M.G.H., LL, I, 2.

 

[185] G. SALVIOLI, Storia del diritto italiano, Torino, 1921, 737. In tal senso anche F. SCLOPIS, Storia della legislazione italiana, Torino, 1840, I, 105.

 

[186] In tal senso S. MOCHI ONORY, Ricerche sui poteri civili dei Vescovi nelle città umbre durante l'alto Medio-Evo, Roma, 1930, 23.

 

[187] S. MOCHI ONORY, op. cit., 91.

 

[188] Vedi Add. IV, c. 50: "Placuit ut, sicut plerumque fit, quicumque odio aut longinque inter se lite discusserint et ad pacem revocari diuturna intentione nequiverit, a civitatis primitus sacerdotibus arguantur. Qui si inimicitias deponere perniciosa intentione noluerint, de ecclesiae coetu iustissima excommunicatione pellantur"; e ancora, c. 55: "Si quis potentium quemlibet expoliaverit et admonente episcopo non reddiderit, excommunicetur". Vedi M.G.H., LL, II, (pars altera), 150.

 

[189] E' il c. 366 del l. II. Vedilo in M.G.H., LL, II, (pars altera), 91.

 

[190] Così la raccolta del cardinale Deusdedit, IV, 283 (CXLVIIII) e 284, ed. V.W.von Glanvell, Die Kanonensammlung des Kardinals Deusdedit, Aalen 1967, 550-551.

 

[191] c. 35, C. XI, q.I: “Quicumque litem habens, [sive possessor], sive petitor fuerit, vel in initio litis vel decursis temporum curriculis, sive cum negotium peroratur, sive cum jam coeperit promi sententia, sijudicium elegerit sacrosantae sedis antistitis illico sine aliqua dubitatione, etiamsi alia pars refragatur, ad episcoporum judicium cum sermone litigantium dirigatur". La Glossa argomentava in proposito:"quod peccat qui non recipit arbitrium".

 

[192] Vedi l. II, c.381, in M.G.H., LL, II, II, 93.

 

[193] L’osservazione, che nella sua ottica laica è peraltro condivisibile, è di A. CRIVELLUCCI, Storia delle relazioni fra Stato e Chiesa, Bologna 1885, II, 19.

 

[194] ZOSIMO, Hist. Rom., L, V, c. 45; P. JAFFÉ, Regesta, cit., I, 68; cfr. anche F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, tr. it., Roma 1912, I, 90 ss.

 

[195] GIORDANES, De rebus geticis, c. 42, in MURATORI, R.I.S., I, 212; EUTROPIO, XIIII, in M.G.H., AA, II, 204-206; P. JAFFÉ, Regesta, cit., I, 68: "...tota legatione dignanter accepta, ita summi sacerdotis praesentia rex gavisus est, ut bello abstineri praeciperet et ultra Danubium promissa pace discederet"; notizia della legazione anche in PROSPERI TIRONIS Epitome Chronicon, a. 452, in M.G.H., Chronica minora, I, 482: "...nihilque inter omnia consilia principis ac senatus populique Romani salubrius visum est, quam ut per legatos pax truculentissimi regi expeteretur. Suscepit hoc negotium cum viro consulari Avieno et viro praefectorio Trygetio beatissimus papa Leo auxilio dei fretus, quem sciret numquam piorum laboribus defuisse. nec alium secutum est quam praesumpserat fides. nam tota delegatione dignanter accepta ita summi sacerdotis praesentia rex gavisus est, ut et bello abstinere praeciperet et ultra Danuvium promissa pace discederet". Sull'episodio cfr. F. GREGOROVIUS, op. cit., I, 132.

 

[196] F. GREGOROVIUS, op. cit., I, 139.

 

[197] Liber pontificalis (ed. Duchesne), Paris 1955, I, 275.

 

[198] Liber pontificalis, cit, eodem loco.

 

[199] Per un esame critico delle vicende relative a questa legazione vedi W. ENNSLIN, Papst Johannes I als Gesandter Theoderichs des grossen bei Kaiser Justin, in Byz. Zeitschr., 44 (1951), 128; V. von FALKENHAUSEN, I rapporti dei ceti dirigenti romani con Costantinopoli dalla fine del V alla fine del VI secolo, in Il mondo del diritto nell'epoca giustinianea, caratteri e problematiche, Ravenna, 1985, 73; vedi su ciò anche F. GREGOROVIUS, op. cit., I, 230.

 

[200] S. MOCHY ONORY, op. cit., 89 e fonti ivi citate.

 

[201] Vedila in M.G.H., Epp., I, 314.

 

[202] P. JAFFÉ, Regesta, cit., I, 1568. Altro punto interessante da notare è che in questa importante pace compaiono due donne in posizione dominante. La prima è Teodolinda, alla quale il Papa invia una lettera di riconoscimento per il sostegno prestatogli; la seconda è Warnifrida "ad cuius consilium idem Ariulfus cuncta agat", di cui è detto che "omnino jurare despexisse". Vedi JAFFÉ, Regesta, cit., 1592. Il fatto che si rilevi espressamente che Warnifrida si rifiuta di giurare darebbe ragione alla tesi sostenuta da M.T. GUERRA MEDICI, La donna nel processo longobardo, in Rivista di Storia del diritto italiano, LX, 1987, 314, secondo la quale non si può escludere che la donna longobarda potesse prestare giuramento.

 

[203] F. GREGOROVIUS, op. cit., I, 384; cfr. E. GIBBON, op. cit., 1755.

 

[204] Sul punto vedi O. BERTOLINI, Roma e i Longobardi, Roma, 1972, 30-32.

 

[205] Indiculum episcopi de Langobardia, in Liber Diurnus Romanorum Pontificum, form. 76 (ed. T. E. von Sickel), Vindobonae, 1889, 81.

 

[206] In un intervento alle settimane di studio spoletine, J. FERLUGA richiamava l'attenzione su alcuni episodi che possono essere assunti come esemplificativi del farsi e disfarsi di alleanze paradossali: verso la fine del secolo settimo, Giustiniano II, fuggendo da Cherson dove era stato confinato, si rifugiò presso i Cazari e poi rientrò con l'aiuto dei Bulgari, suoi nemici mentre era al potere; nel 781 si sollevò il patrizio e stratego Elpidio, accusato di avere preso parte ad un complotto contro l'imperatrice Irene, ma le forze siciliane si rifiutarono di consegnare il ribelle al legato imperiale; l'anno seguente, allorchè una grossa flotta inviata con lo stesso compito dal governo bizantino s'avvicinò alla Sicilia, lo stratego passò con i suoi in Africa ove fu, con l'appoggio arabo, proclamato imperatore. Vedi L'Italia bizantina dalla caduta dell'Esarcato di Ravenna alla metà del secolo IX, in Bisanzio, Roma e l'Italia nell'alto Medio Evo, Spoleto 1988, I, 183.

 

[207] Anche O. BERTOLINI (Roma e i Longobardi, cit., 57) rileva l'importanza quale precedente del cerimoniale adottato.

 

[208] Liber pontificalis, cit., I, 427.

 

[209] Liber pontificalis, cit., I, 427-428. Vedi anche O. BERTOLINI, Il problema delle origini del potere temporale dei papi nei suoi presupposti teoretici iniziali: il concetto di “Restitutio” nelle prime cessioni territoriali alla Chiesa di Roma (756-757), in Miscellanea Pio Paschini, Roma 1948, I, 103-171, ora in (Idem), Scritti scelti di storia medioevale, Livorno 1968, II, 487-547.

 

[210] Liber Pontificalis, cit, I, 392. Sull'episodio vedi O. BERTOLINI, Roma e i Longobardi, cit, 44.

 

[211] Vedi Liber pontificalis, cit, I, 430-431. F. GREGOROVIUS, op. cit., I, 424.

 

[212] "Zacharias Ratchiso Langobardorum regi: de pace constituenda scribit. Ad quem missa relatione  b. pontificis, continuo ob reverentiam principis apostolorum et eius precibus inclinatus, in viginti annorum spatium invicem inita pace, universus Italiae quievit populus". Vedi P. JAFFÉ, op. cit., I, 264 -265 (2272).

 

[213] Vedi P. JAFFÉ, Regesta, cit., I, 753, 272: "A Johanne, imperialis silentiario, cum legatis apostolicis Constantinopoli reverso, accipit jussionem imperialem in qua erat insertum: Ad Langobardorum regem sanctum papam esse properaturum de recipiendam ravennatium urbem et civitates ad eam pertinentes"; vedi pure Liber pontificalis, cit., Vita Stephani, 98. Il Cortese (Il diritto,I, cit., 178) attira l’attenzione sul termine iussio che indicherebbe – quanto meno nell’ottica bizantina – una subordinazione del Papa all’Imperatore. E tuttavia non di trattative diplomatiche, ma di vera mediazione sembra essersi trattato, prova ne sia che la vicenda evolve verso una conclusione inaspettata: l’alleanza epocale fra il Papato e la neonata dinastia carolingia.

 

[214] Liber pontificalis, cit, I, 441.

 

[215] Liber pontificalis, cit., eodem loco.

 

[216] P. JAFFÉ, Regesta, cit., I, 289.

 

[217] Liber Pontificalis, cit., I, 420 ss.

 

[218] In tal senso anche O. BERTOLINI, op. cit., 44-45.

 

[219] Annales Fuldenses, p. I, a. 751, in M.G.H., SS., I, 346. La risposta finì, nel XII secolo, per entrare nel Decreto di Graziano, servendo ai canonisti come argomento per sostenere che i re potevano essere deposti dal Papa. Vedi c. 3 Alius item C. XV, q.6.

 

[220] Annales Fuldenses, cit., a. 752. Sul punto cfr. H. PIRENNE, Maometto e Carlomagno, tr. it., cit., 215 ss.

 

[221] Annales Fuldenses, cit., a. 813, 355.

 

[222] P. BREZZI, op. cit, II, 14.

 

[223] Su ciò E. BUSSI, Evoluzione storica, cit., 148.

 

[224] Vita Walae abbatis Corbeiensis a Paschasio Radberto scripta, II, 15, in M.G.H., SS., II, 560.

 

[225] Vedi Regesta Pontificum Romanorum, n. 2575. Cfr. Enciclopedia dei Papi, I, voce Gregorio IV, 717.

 

[226] Vita Walae, cit, 562. Per l'identificazione del documento cui qui ci si riferisce, vedi P. HINSCHIUS (a cura di), Decretales pseudo-isidorianae, Leipzig 1863, CXCVI, il quale lo identifica con una collezione probabilmente composta dai vescovi favorevoli alla fazione di Lotario.

 

[227] Vedila in MIGNE, P.L., XCVII, col. 664.

 

[228] Vita Walae, cit., II, 17, cit., 565.

 

[229] (Auct. inc.), Annalium fuldensium pars tertia, cit., 379.

 

[230] M.G.H., SS., I, 573. Cfr. la lettera inviata, nell’ 865 da Nicola I a Carlo il Calvo perchè addivenga a trattative di pace con Lodovico II, in M.G.H., Epp., IV (Karolini Aevi IV), pars altera, 301, nonchè quella con la quale invita arcivescovi e vescovi del regno franco ad adoperarsi in tal senso (ivi, 303).

 

[231] Come è noto, le vicende successorie della dinastia carolingia sono alquanto complesse. Nel 863 morì Carlo di Provenza, figlio di Lotario, che alla morte del padre aveva ottenuto la Provenza e la Borgogna. Carlo, che aveva manifestato l'interesse di impadronirsi dei suoi territori già tre anni prima, cercò di succedergli, ma venne impedito da un azione del nipote, l'Imperatore Ludovico II, che aveva ereditato il possedimento dal fratello. Nel 869 toccò ad un altro dei figli di Lotario, Lotario II, che aveva il dominio della Lotaringia, a morire. Carlo cercò di entrarne in possesso e con il suo esercito conquistò Metz allo scopo di precedere il fratello Ludovico il Germanico. Tuttavia i due, invece di scatenare una guerra, preferirono spartirsi il territorio attraverso il Trattato di Mersen con il quale a Carlo spettò la parte occidentale della Lotaringia. I due fratelli ignorarono nella spartizione Ludovico II, il quale si rivolse al Papa Adriano II per perorare la propria causa. Il pontefice mandò due ambasciatori nelle corti di Carlo e Ludovico allo scopo di far risolvere le questioni al vescovo di Reims Incmaro. Questi ignorò il volere del Papa mostrandosi leale nei confronti del suo sovrano Carlo, e garantendo a lui e al fratello i territori che si erano spartiti.

 

[232] Vedi DUMONT, Corps Universel Diplomatique, cit., I.I, 12. Il passo rende notizia anche delle difficoltà delle trattative: di una prima legazione non accettata, e di una seconda legazione il cui contenuto "quia et secundum Deum salubre et secundum seculum utile nobis videtur", veniva portato a conoscenza affinchè "si vobis ita sicut et nobis videtur, cum vestro consilio volumus illud recipere et quod Deus concesserit ad necessarium effectum perducere". Il documento porta la firma anche dei vescovi e dei nobili che avrebbero assistito alla stipulazione del trattato. Fra i primi figura il nome di Incmaro.

 

[233] In M.G.H., L.L., II, 1, Capitularia regum Francorum, 366. Anche nel Sinodo di Metz, dell’859, i Vescovi rivolgono la loro admonitio a Lodovico chiamandosi “legati divinae pacis... fungentes legationem pro Christo”. Vedi ibidem, 441.

 

[234] (Auct. inc.), Annalium fuldensium pars tertia, in M.G.H., SS., I, 378.

 

[235] Si veda, ad esempio, CICERONE, De officiis, 3, 31; Cfr. E. DE RUGGIERO, op. cit., 17.

 

[236] Vedi le osservazioni di L. GENICOT, Rois, ducs, comtes, évêques, moines, seigneurs: forces et jeux politiques dans l'Anjou du XI siècle, in La noblesse, cit., 105.