LA COMUNITÀ DI NATIONES DELL'ALTO
MEDIOEVO e
delle controversie intersoggettive
Università
di Sassari
Sommario: Parte prima. I Regna barbarici. 1. La transizione. – 2. Fra subordinazione e
coordinamento. – 3. I
Regna barbarici quali soggetti di una
nuova comunità. – 4. Prassi barbariche relative a
soluzioni pacifiche di controversie. – 5. La
politica teodoriciana. – 6. La coscienza della
appartenenza ad una comunità di diritto. – 7. Decentramento e autonomia.
– 8. La funzione
della nobiltà. – 9. Il
periodo longobardo. – 10. La soluzione delle controversie
in età franca. Parte seconda. Il ruolo della Chiesa.
1. L'interposizione della
Chiesa e i Regna barbarici.
– 2. Il periodo goto. –
3. La Chiesa e i Longobardi.
– 4. L'interposizione
della Chiesa nella successione dell'Impero carolingio.
Con la decadenza, entro i
confini dell'Impero romano si stabiliscono, dapprima singolarmente[1],
poi massicciamente, popolazioni barbariche le quali infine, in sostituzione
dell'antica organizzazione giuridica che ruotava intorno a Roma, instaurarono
una pluralità di Regna i cui rapporti intersoggettivi –
vuoi quelli reciproci, vuoi quelli con l'impero d'Oriente – tendono ad
una nuova definizione. Al momento
della caduta della pars Occidentis,
già da tempo l'Impero non mostrava una struttura politica unitaria[2].
Le sue due partes si configuravano
già come entità politiche distinte che, pur asserendosi parte di
un complesso unitario, lo erano, però, quasi esclusivamente su di un
piano ideale. Al principio di una normazione comune, anche unilaterale, si era
sostituito quello di una normazione concordata, basata, quindi, al fine della
estensione a tutto l'Impero, su una fonte pattizia la cui natura - per una
parte della dottrina - sarebbe già definibile più come
internazionalistica che come interna[3].
Per la verità, vivaci forze centrifughe si erano fatte evidenti
già da tempo. Da quando i provinciali avevano cominciato a identificare
Roma piuttosto con i suoi esattori che con le sue legioni, ciascuno aveva
intravisto la possibilità di concludere una sua personale pace con i
Barbari[4].
E' possibile, come fu sostenuto a suo tempo, che ciò abbia significato
il riaffiorare di singole consuetudini e diritti locali di contro alla ratio unificatrice romana, soprattutto
là dove questa aveva incontrato maggiore resistenza[5],
in un rafforzarsi delle autonomie e dei particolarismi provinciali che si
radicava già nel rinvio che lo stesso diritto romano consentiva alle consuetudines loci e che si
alimentò anche della tendenza a scegliere i funzionari nei ceti
dirigenti locali ed in specie dell'abitudine invalsa, soprattutto dopo Claudio,
alla istituzione di eserciti stanziali lungo i confini dell'Impero, costituiti
in proporzione crescente con soldati di mestiere reclutati fra i provinciali e
i Barbari d'oltre confine. Nei quali quindi venne ad essere attratto il potere
effettivo[6].
Il Santini[7]
rileva, infatti, come fosse in atto un processo di frazionamento non solo nelle
due partes imperii, ma anche nelle
grandi Praefecturae (Illiricum, Oriens,
Italia, Gallia) in cui ciascuna pars
era divisa, e che erano suddivise a loro volta in diocesi e, ulteriormente, in
provincie[8].
Ad esse sovrintendevano rispettivamente i praefecti
praetorio, investiti nel loro distretto di un autonomo potere
amministrativo, i vicarii, sostituti
dei prefetti stessi, i praesides; cui
si aggiungevano, nelle provincie di confine, i duces o comites rei militaris[9].
Se tutto il potere era nella voluntas imperatoris, il massimo dell'
accentramento, che veniva così realizzato in via di principio, di fatto
recava in sè le premesse della sua frantumazione perchè,
nonostante l'unicità ideale dell'Impero, i due Imperatori governavano
insieme ai quattro diversi apparati burocratici delle prefetture del pretorio,
nonchè insieme a quelli delle diocesi. Certo è che nelle Variae di Cassiodoro si trova ormai
quello che può apparire tanto un lamento quanto una presa d'atto della
situazione venutasi a creare:
"Unicuique civi urbs sua respublica est"[10].
La dottrina non è peraltro concorde nell'
ammettere la sussistenza di una comunità internazionale nell'alto
Medioevo nè nello stabilire quando sia avvenuto il salto di
qualità per il quale si possa parlare di personalità giuridica
internazionale a proposito delle diverse etnie barbariche.
Da alcuni si è
dato maggior peso agli elementi di continuità che legano il tardo Impero
con l'età barbarica. Così le ricerche del Santini[11],
pongono l'accento sul fatto che sin dai tempi di Diocleziano si era abituati a
distinguere fra autorità civili e autorità militari e che,
già con Aureliano, nelle zone di confine era stata istituita la carica
di dux ai cui poteri militari si
univano ampie funzioni amministrative. L'occupazione di una provincia romana da
parte dei Barbari non avrebbe significato dunque altro, in buona parte dei
casi, se non la sostituzione del dux
con il rex barbaro, dei comites civitatis romani con altri
barbari. Esisterebbe, insomma, una continuità storica fra le
circoscrizioni amministrative romane e quelle dei regna barbarici. In questo senso, il Santini riprende una tesi del
Vaccari[12],
che si era occupato del rapporto fra gli stanziamenti barbarici e le divisioni
territoriali romane, osservando come l'ambito territoriale dei regni (poi
ducati) barbarici, trovasse corrispondenza nelle precedenti ripartizioni
amministrative dell'Impero. Le circoscrizioni provinciali romane, inoltre, non
avrebbero offerto solo il quadro territoriale, ma anche gli strumenti
amministrativi per il governo interno. Nella stessa ottica si pone Vincenzo
Bellini: a un attento esame, le cosiddette invasioni non sarebbero state che un
inacerbirsi di posizioni separatiste, che avrebbero tratto la loro forza
dall'elemento barbarico già penetrato nell'Impero e, in maniera
più o meno completa, già inquadrato nelle strutture
costituzionali e amministrative[13].
Il Werner va più in là: soprattutto a seguito della loro
cristianizzazione, alle popolazioni extramediterranee sarebbero state estese le
strutture istituzionali romane[14].
Per il Cortese, se da un lato Odoacre esercitò certamente i poteri con
pienezza, lo fece nel rispetto di Roma e il suo regnum si collocò intra
e non extra imperium[15].
I Germani, insomma, si
"romanizzano"; ma l'utilizzazione di schemi amministrativi
romano-bizantini (attuata del resto anche dagli Arabi successivamente[16]),
la progressiva recezione, da parte loro, di istituti di diritto romano non vale
tuttavia, di per sè, a risolvere positivamente o negativamente il
problema dell'emergenza di nuovi soggetti internazionali dal seno dell'Impero.
Non risolve, di per sè, tale problema nemmeno il fatto che siano stati
rari gli esempi di conquista violenta, e ancora più rari quelli in cui
tale conquista non abbia cercato, almeno a posteriori, il riconoscimento da
parte dell'Impero; o il fatto che i Barbari cercassero di intromettersi nella
politica interna di quest'ultimo – come dimostra il sostegno offerto dai
Vandali ad Olibrio. Il punto decisivo è un altro. Ed è di stabilire
in che misura essi fossero in grado di porsi come potentati autonomi, e in che
misura, viceversa, restassero in uno stato di più o meno stretta
soggezione rispetto all'Impero. Tale problema presenta due aspetti. Il primo
riguarda la valutazione delle nationes
barbariche come tali; il secondo, il livello attinto da queste nationes nel loro costituirsi in regna all'interno di quelli che erano
stati i territori dell'Impero. Il primo aspetto richiede di addentrarsi nella
storia istituzionale e politica delle popolazioni barbariche in via di
stanziamento; il secondo di valutare quanto l'assunzione di una qualifica
concessa dall'Impero d'Oriente
equivalesse, da parte dei re barbarici, al riconoscersi soggetti alla
sua signoria, e fino a qual punto, invece, essa non fosse assunta con altri
intendimenti: come espressione di uno stato di buone relazioni o, secondo la
tesi di Caravale[17],
allo scopo di impadronirsi della res
privata principis nei territori
da loro acquisiti. Sino a qual punto, cioè, i rapporti fra i Regna barbarici e l'Impero di
Costantinopoli fossero di subordinazione formale ovvero, al contrario, di
coordinazione, non necessariamente
paritaria, fra entità politiche indipendenti.
Molto scettico sulla
possibilità di riconoscere nei rapporti inter se dei re barbarici sia pur l'abbozzo di una vera e propria
collettività interstatuale caratterizzata da rapporti costanti e
giuridicamente organizzati fra Stati sovrani è Cortese[18],
per il quale fino a Paolo Orosio e Isidoro di Siviglia,
l’universalità dell’Impero rimane un dato incontroverso,
teso a “racchiudere entro un involucro ideale il brulichio delle tante
individualità del mondo”[19].
Da questo punto di vista si pone anche Amory[20]:
la tarda antichità non conosce alcuna vera “rottura”
né sprofonda in alcun
“germanesimo”. Anche per Vincenzo Bellini le <nazioni>
barbariche non esistono in realtà al di fuori dell'Impero ed è
solo incontrandosi con esso che acquistano il loro carattere nazionale[21].
Come nella testimonianza di Tacito, così nelle fonti del Basso Impero
l'organizzazione politica barbarica conserverebbe pur sempre una forma
confederale[22].
Prevarrebbero, quindi, in questa ottica, gli elementi che militano contro la
sussistenza di una reale autonomia dei Regna
barbarici e, prima ancora,
delle nationes germaniche, vuoi a
causa dell'immaturo livello delle istituzioni di queste, vuoi a causa del fatto
che quelli avrebbero continuato pur sempre a dipendere dall'Impero[23].
D'avviso diverso è
il Paradisi, per il quale il mondo germanico possedeva ab immemorabili un diritto internazionale, del quale farebbe
testimonianza Cesare, che nel De bello
gallico attesta una prassi consolidata così di alleanze e dedizioni,
come di formazioni di vaste confederazioni e clientele internazionali[24].
Anche Vismara propende verso questo modo di vedere, e il quadro sembra confermato dalla
ricostruzione che Obolensky fa
della pressione dei Barbari sui Balcani[25]:
benchè ai Regna barbarici non
possa essere attribuita la natura di Stati, non per questo è consentito
escludere che essi possano essere
considerati quali soggetti rilevanti sul piano internazionale, tanto più
se si tiene conto che il concetto di soggetto di diritto internazionale non si
identifica con lo Stato “persona” contemporaneo[26].
Evidentemente,
indicazioni più chiare potranno derivare da un esame delle fonti[27]
volto a stabilire se e sino a qual punto i Regna
barbarici si ponessero di
fatto, sul piano “internazionale”, come soggetti capaci di
autonomia e indipendenza[28].
Fra gli storici italiani, lo Scovazzi[29]
si dedicò a suo tempo a ricercare i lineamenti originari degli
ordinamenti germanici. Poichè la presunzione dell'influenza del diritto
romano era suscettibile di inficiare ogni conclusione ad essi relativa, la
ricerca si volse con particolare attenzione alle tradizioni di quelle
popolazioni sulle quali tale influenza era stata minore. L'esito di tali
ricerche lascia intravvedere, seppur embrionale e tendenzialmente anarchico, un
livello di organizzazione sufficiente a far pensare alle formazioni politiche
formate dai Barbari come a potentati capaci di esprimere, sul piano internazionale, una volontà e una
azione autonome.
Quanto all'effettiva
indipendenza dall'Impero raggiunta dai Regna,
occorre distinguere, nelle fonti stesse, fra elementi di giudizio apparentemente
contraddittori. Se Paolo Orosio scrive:
"...quam
feliciter Roma vincit, tam infeliciter quicquid extra Roma est vincitur"[30],
se in Giovanni Lido sembra essere presente una differenziazione fra
Imperium e Regnum intesa come subordinazione di questo a quello[31],
per Salviano:
"Timebantur
Romani veteres, nos timemus: vectigalia illi solvebant populi barbarorum, nos
vectigales barbaris sumus"[32].
Sembra essersi fatta
strada, cioè, la coscienza di un decisivo capovolgimento di rapporti,
giustificato, nella visione di Salviano, dalla corruzione di Roma, contrapposta
alla purezza di costumi dei Barbari, i quali quindi non hanno solo conquistato
le provincie romane, ma hanno anche maggior diritto a dominarle:
"Ac primum a solo patrio effusa est in Germaniam primam,
nomine barbaram, dicione Romanam: post cuius primum exitum arsit regio
Belgarum, deinde opes Aquitanorum luxurantiumet post haec corpus omnium
Galliarum, sed paulatim id ipsum tamen, ut dum pars clade caeditur, pars
exemplo emendaretur"[33].
D'altronde, secondo la
narrazione del Giordanes, i Visigoti, già sudditi di Roma, avendo
ottenuto
"Coeperunt ...jam non ut advenae et
peregrini, sed ut cives et domini possessoribus imperare, totasque partes
septentrionales usque ad Danubium suo jure tenere"[34].
La testimonianza ci
dà la misura della trasformazione in atto. Perchè se i termini advenae e peregrini richiamano la condizione dei dediticii, quel suo jure
cui lo storico affida tutto il peso del mutamento, non può significare
se non l'indipendenza del regno visigoto.
In effetti, l'Impero
basava ormai la sua sicurezza su di una serie di rapporti bilaterali le cui
premesse erano profondamente diverse dal passato. Originariamente questi
accordi con i potentati barbari avevano lo scopo di assicurare a Roma la loro collaborazione militare[35].
Presto, però, ebbero quello di allontanare la loro minaccia. In vista di
ciò, Bisanzio si adattava spesso a pagare alte somme di denaro, che se
per un verso, nell'ottica bizantina, ci si poteva illudere rientrassero nel
quadro di una abile diplomazia[36],
in quella barbarica, invece, erano viste come un tributo che dimostrava
l’inferiorità di chi lo elargiva[37].
Lo stesso istituto del foedus, stipulato dal rex barbaro con Roma – foedus con il quale questa, in cambio di
viveri e sussidi otteneva la fornitura di milizie nonchè la difesa della
regione ove la popolazione relativa era insediata –, comportava di
necessità il porsi di entrambe le parti sul piano internazionale[38].
Di accordi di questo tipo si rintracciano esempi sin nell'alto Impero. Secondo
buona parte della dottrina, anzi, sarebbe stato proprio il foedus stipulato con Roma a provocare, all'interno della
comunità barbarica, una estensione dei poteri del rex, estensione che, attraverso l'istituto della tuitio, doveva esser gravida di
conseguenze istituzionali. Ora, è ben vero che spesso, nelle formazioni
politiche barbariche, regalità e unità politica appaiono come due
concetti interdipendenti[39],
nonchè fortemente caratterizzati in senso sacrale. Ma questo non
giustifica la conclusione che i Barbari abbiano formati dei potentati
significativi sul piano politico solo sotto l'influenza di Roma, perchè
è altrettanto vero, da un lato, che l'istituto della regalità era
ben conosciuto dai Germani, per quanto esso attingesse, come sembra, a
connotati del tutto peculiari[40]
e per quanto le turbolenze connesse alle migrazioni possano averne provocato il
rafforzamento e la diffusione; dall'altro che, al fine di stabilire se i
potentati barbarici rilevassero a livello internazionale, non è
importante vedere quali forme istituzionali tali potentati si dessero al loro
interno, bensì quanto fossero capaci di esprimere delle forme autonome e
originarie di organizzazione, quali che esse fossero. Non solo, insomma,
prendendo in considerazione i Regna barbarici,
bisogna evitare di pensare che essi abbiano teso ad assumere le caratteristiche
di uno Stato nel senso moderno del termine; bisogna badare altresì al
livello al quale si sarebbe determinata quella che oggi chiamiamo
personalità giuridica internazionale. Come vedremo meglio in seguito,
infatti, portato del germanesimo sarà una concezione decentrata del
potere, che pone in primo piano l'unità di stirpe, con i forti legami di
tutela reciproca che essa comporta.
Negli enti politici barbarici, la connessione con il territorio si
precisa solo a fatica: il re barbarico è ancora un rex gentium. E' in questa qualità che egli si propone come
eventuale soggetto di rilievo internazionale, parte, cioè, di una comunità che poteva essere
tale in quanto già si
riconosceva in talune norme fondamentali di convivenza. Ma anche nella
concezione di Cicerone la civitas non
è che un coetus multitudinis juris
consensu et utilitati communione sociatus[41]:
cioè non è ricordato
alcun elemento reale[42].
Ricimero non dispone di un territorio, tuttavia si comporta come il vero
sovrano di quello che resta dell'Impero d'Occidente, benchè poi salvi il
principio della legittimità accordandosi con l'imperatore d'Oriente per
la nomina degli ultimi imperatori-fantoccio. Quando Ricimero muore, un altro
barbaro, il burgundione Gundobado, assume a Roma il potere effettivo; ma,
chiamato a salire sul trono burgundo, è quest'ultimo che preferisce,
lasciando il suo posto a quell'Oreste che porrà sul trono Romolo
Augustolo. Sostenere che se la giustificazione di fatto del potere regale
è fondata sulle forze barbariche, quella di diritto è fondata sul
riconoscimento dell'Impero[43]
è possibile solo ponendosi da un'ottica interna al sistema
romano-bizantino. Esiste, però, un'ottica esterna ad esso. A monte del
riconoscimento c'era, per l'appunto, la situazione di fatto,
l'effettività. Per questo, nella pace del 442, Genserico viene
riconosciuto da Valentiniano III quale sovrano del regno vandalo da lui
costituito nell'Africa settentrionale; ed Eurico guadagna nel 475 la piena
indipendenza per il regno goto della Gallia meridionale[44].
Certo, quelli barbarici
non sono potentati caratterizzati dal contrassegno della stabilità;
anzi, la principale difficoltà che essi pongono per una chiara
comprensione del quadro generale è data dal continuo riemergere, al loro
interno, di tratti confederali[45],
mentre, al loro esterno, l'Impero di Bisanzio si propone sempre come
qualitativamente superiore e tende ancora a lungo a far corrispondere
nuovamente a tale pretesa un riscontro concreto. Ancora con Eraclio esso si
presenta come l'Impero trionfatore sui particolarismi, tanto da indurre il re
franco Dagoberto a rendergli omaggio[46].
D'altra parte, nelle fonti si trova frequente riferimento a principes terrae capaci di
manifestare, nelle trattative fra l'Impero e i potentati barbarici, una
volontà autonoma[47].
Si può dire, perciò, che il livello organizzativo dei popoli che
la migrazione degli Unni farà riversare nell'Impero era bensì
lontano dalle forme costituzionali
di quest'ultimo, e dalla potenza da esso dispiegata, ma nella sua essenza non
talmente diverso da impedire che essi lo fronteggiassero su di un piano che,
dalla subordinazione formale, tendeva ad una potenziale parità. Franchi, Sassoni, Alamanni, Burgundi e
Turingi; e poi Svevi, Quadi e Marcomanni, e infine Vandali, Goti e Longobardi,
per non parlare di Alani, Sabidi, Utiguri, Kutiguri, Anti, Gepidi e soprattutto
Slavi e Avari, prima di riversarsi nell'Impero d’Occidente o minacciare
anche quello d’Oriente,
esprimevano già forme monarchiche o federative di organizzazione
politica[48]
capace di porsi sul piano “internazionale” esprimendo una
volontà autonoma e una azione agile e pronta, capace di utilizzare anche
gli strumenti della diplomazia[49].
Gli stessi Unni, nel V
secolo, non sono più quali li aveva descritti Ammiano Marcellino[50].
Recentemente, essi avevano subito l'influenza politica della monarchia persiana[51].
Erano quindi venuti in contatto con strutture organizzative avanzate[52],
giungendo a comporre, insieme alle
altre stirpi che ad essi si erano unite,
un regno potente, che aveva il suo centro sul Tibisco, ed estendendosi dalle steppe del Ponto sino
alla Germania meridionale, esprimeva una propria organizzazione interna, tale
da consentirgli anche di porsi in
relazione con gli altri potentati, usando non solo della violenza bellica, ma
anche dei modi e delle forme grazie alle quali più poteri possono
entrare in relazione[53].
Tant’è che l’imperatore di Bisanzio è ben lieto, nel
449, di pervenire con Attila a un trattato
che il capo unno giura di rispettare, evacuando i territori e non
insistendo sulla restituzione dei transfughi alla condizione che da parte dei
Romani non ne siano accolti più altri.
In definitiva, la comunità
di popoli del quinto secolo sembra già volersi proporre come l'erede di
quella dominata dalla potenza romana, e assumere l'uniformità
istituzionale fornita da quest'ultima come fondamento di una coscienza
societaria che, pur senza rinnegare la precedente, tende a porsi tuttavia su
basi diverse. Si tratta di una
comunità in tumultuosa trasformazione, i cui dati, già di
difficile qualificazione, sono suscettibili di mutare repentinamente, e perciò
non è facile riconoscervi i tratti di una vera e propria Comunità
internazionale, proprio in quanto non è facile intendere gli elementi
costanti della prassi internazionalistica, nè discernere ciò che rileva solo dal punto di
vista interno, da ciò che, invece, rileva dal punto di vista
internazionale, ovvero quanto è di natura privatistica da quanto
è di natura pubblicistica. E questo vuoi per la personalizzazione
accentuata dei rapporti politici, vuoi anche per via dell'amplissimo spazio che
comunque nei diritti germanici è lasciato all'autotutela[54].
Per molto tempo sembra
sussistere una discrepanza fra teoria e realtà. A molti contemporanei di parte romana, che solo
a poco a poco si adattavano ai tempi nuovi, e coglievano le caratteristiche
spirituali dei vari gruppi nazionali barbari, le controversie fra questi
parevano prive di rilievo internazionale: dei diverbi che non potevano assurgere al rango di storia vera[55].
D'altra parte, le legazioni inviate a Costantinopoli dai re barbarici
insediatisi nella pars Occidentis erano
nella maggior parte dei casi affidate a senatori[56].
E' probabile, quindi, che questa circostanza abbia conferito alle trattative
delle sfumature non del tutto corrispondenti alla situazione reale sebbene,
anche all'interno della cultura
dell'Impero, traendo respiro dalle dottrine agostiniane, non mancasse di
affacciarsi una nuova morale politica, tendente a rivalutare l'elemento
particolare di fronte all'universale.
Difficile, ad esempio,
è valutare la portata delle alleanze che si instaurano fra l'Impero e i
Barbari in questo periodo. Anche adesso Roma stabilisce rapporti di amicitia e di societas. L'instaurarsi di questi rapporti, tuttavia, non sembra
implicare più, nei fatti, l'egemonia romana. Ad esempio, da Procopio
sappiamo che, profilandosi una guerra fra Longobardi e Gepidi, questi, non
ignorando che Giustiniano aveva con gli altri un patto di alleanza, cercano di
farselo amico e alleato[57].
Nella circostanza, tuttavia, per quanto decisivo potesse essere l'atteggiamento
bizantino per far pendere la bilancia nell'uno o nell'altro verso, non sembra
che la ricerca dell'alleanza romana implichi la rinuncia ad una autonoma
conduzione dei rapporti reciproci nè da parte dei Gepidi, nè da
parte dei Longobardi. Basti pensare
al fatto che Audoino, proprio come amico e alleato dei Romani, in premio della amicitia pretende da Giustiniano la
consegna di Ildigisalo che, da lui spossessato, si era rifugiato a Bisanzio[58].
Come acutamente ebbe a notare Paradisi[59],
esiste anche un punto di vista non imperiale, cioè un punto di vista non
corrispondente alla sottomissione e alla assimilazione degli Stati germanici da
parte dell'Impero, ma invece espressione di una realtà più
complessa. Guardata dalla parte dei Germani, la posizione dell'Impero appare
ormai utopistica. Lo schema dei rapporti internazionali per il quale era sempre
implicita la superiorità di Roma, non aveva più alcuna
attualità. D'altronde, se l'Impero interviene nelle questioni interne
dei potentati barbarici, spesso i Barbari
sono capaci di intervento nelle questioni interne dell'Impero. Nella seconda metà del V secolo,
Ricimero provvede a nominare diversi imperatori successivi, fra cui Maggiorano,
Livio Severo, Olibrio; anche l'imperatore Glicerio sarà sostanzialmente
imposto da Gundobado, che era re dei Burgundi nonchè patricius romanorum[60].
Il sesto secolo si apre,
perciò, su un quadro già sufficientemente chiaro. Esiste un passo
di Procopio, dal quale a tale proposito si possono trarre indicazioni
illuminanti. Procopio lamenta l'effetto rovinoso della guerra gotica, a causa della
quale sarebbero stati sacrificati inutilmente uomini e danaro in grande
quantità, sarebbe andata distrutta l'Italia, e messi al sacco e
devastati l'Illirico e
Certo, se anche il
Digesto precisa la alterità politica dei “foederati”[63],
i rapporti che Bisanzio intratteneva con essi non venivano posti su un piano
paritario. Nel linguaggio diplomatico ciò emergeva chiaramente:
all’Imperatore ci si riferiva
come al “padre” del re barbaro; al primo spettava il titolo di basileus, mentre al secondo –
anche in greco - quello di rex. D’altro
canto, se abbandoniamo la pregiudiziale della pariteticità come
condizione imprescindibile per ammettere l’esistenza di una
comunità internazionale, il riconoscimento del diverso rango
dell’Impero d’Oriente non comporta se non la conseguenza della
qualificazione di quella dell’età di transizione come una
comunità i cui soggetti erano caratterizzati da una condizione giuridica
differenziata.
Ben diverso era, infatti,
il linguaggio che veniva usato nei rapporti dell’Impero di Bisanzio con
la Persia. L’imperatore Arcadio, per assicurarsi la pace e una pacifica
successione, dovette - nel 408 - accettare che il re persiano assumesse il titolo di padrino del
proprio figlio e successore Teodosio II. E’ peraltro nota la “adozione”
politica del giovane Cosroe II, da parte dell’imperatore Maurizio,
adozione che ebbe influenza nella contesa successione persiana. Anche in
periodi di forte tensione, il linguaggio diplomatico si richiamava alla “amicitia” del sovrano persiano con quello bizantino
Solo nei primi decenni del VII secolo i rapporti si inasprirono, sfociando in
un conflitto aperto, la qual cosa favorì l’espansione
dell’Islam[64].
Insomma, l'emergere di nuovi potentati sul
proscenio della storia euro-mediterranea si può ammettere non abbia
significato all’inizio quello sconvolgimento che tradizionalmente ad esso
si attribuiva, ma certamente comportò una progressiva modificazione della struttura entro la quale si
articolavano i rapporti reciproci. Una
modificazione il cui segno più evidente stava nel venir meno del
principio unificatore e coordinatore rappresentato dall'Impero di Roma.
I rapporti internazionali
conoscevano peraltro ancora gli stessi strumenti usati nel passato: foedus, amicitia e deditio in fidem, e si avvalevano di una esperta diplomazia,
protetta dal principio, generalmente riconosciuto, della inviolabilità
degli ambasciatori[65].
Dalla famosa ambasceria di Teodosio il giovane ad Attila, di cui si è
già fatto cenno innanzi, emerge il sussistere di una prassi diplomatica,
sia pur non continuativa e volta a scopi straordinari, come la conclusione di
un'alleanza o il mutamento di uno schieramento, ma comunque anche destinata
alla soddisfazione di interessi di più ordinaria portata, quali potevano
essere lo scambio dei transfughi (disertori barbari rifugiatisi a Bisanzio
contro schiavi fuggiti senza pagare il riscatto) o l'istituzione di fiere
regolate da norme riconosciute da entrambe le parti[66].
Generalmente i trattati
erano orali, ma i più importanti ricevevano una forma scritta. Le
trattative venivano condotte il più delle volte in una località
posta al confine fra i due Stati – se confinanti –mediante
ambasciatori ad hoc muniti di pieni poteri per trattare e
concludere l’accordo. Così nella pace conclusa fra Giustiniano e
Cosroe I del 562. Qui l’art. 12 del trattato rinviava alla fides e a formule di condanna contro chi
lo avesse violato; l’art. 13 prevedeva la ratifica del trattato da parte
dei due monarchi.
Tra le norme che
già si delineano come destinate a regolare la vita di relazione non
mancano quelle che prevedono mezzi di composizione pacifica delle controversie.
Sappiamo di un Onegesio, della
corte di Attila, che Prisco stesso cerca di convincere ad assumere una
ambasceria presso la corte di Bisanzio prospettandogli la possibilità
che l'imperatore bizantino lo accetti quale arbitro delle controversie fra
Bizantini e Unni[67],
e dello stesso Teodosio che svolge opera di pacificatore fra i diversi gruppi politici degli Acatziri[68].
Il ricorso a mezzi pacifici di soluzione delle controversie, in particolare il
ricorso alla intromissione di un terzo, ci viene attestato anche da altre
fonti, le quali ci parlano di funzionari imperiali che fungono da mediatori
nelle contese fra le popolazioni barbariche. Così da Idazio, che, in
qualità di vescovo partecipò di persona all'accordo sappiamo che:
"Regresso Censorio ad palatium Hemericus (il re svevo) pacem
cum Gallaecis quos praedabantur assidue, sub intervento episcopale datis sibi
reformat obsidibus"[69].
Similmente, nel 438[70],
si ha una interposizione degli inviati Censorio e Fratimundo; la pace è
poi direttamente stipulata con le popolazioni locali.
Ma uno degli esempi
più significativi, è probabilmente quello offerto dalla
controversia fra i Longobardi e i Gepidi, i quali cercano, ciascuno per
sè, l'alleanza o almeno la non ostilità di Roma. L'ambasceria che
i Longobardi inviano a Bisanzio tende a far rilevare come i Gepidi, pur essendo
amici e alleati dei Romani, e avendo di conseguenza ricevuto da loro ripetuti
donativi, tuttavia ne abbiano invaso molti territori non appena la potenza
gota, per loro pericolosa, era divenuta meno temibile[71].
L'ambasceria dei Gepidi, dal canto suo, onde addossare la responsabilità
della crisi agli avversari, asserisce esser stato dai Gepidi già offerto
ai Longobardi di risolvere la controversia con un giudizio, e il volersi
sottoporre a un giudizio non è di chi attende a violenze[72].
Giustiniano, nella circostanza, calcola gli sia più conveniente
appoggiare i Longobardi. Secondo Procopio, saputo che l'esercito romano si
approssimava, i Gepidi provvidero allora a risolvere altrimenti la propria
controversia con i Longobardi, sicchè le due popolazioni, contro le
aspettative dell'imperatore bizantino (evidentemente interessato più a
fomentare che a sopire la discordia) conclusero la pace fra di loro[73].
Lo stesso Giustiniano
manda un legato al re dei Franchi Teobaldo, allo scopo di promuovere una
comune alleanza contro Totila. Il
legato, certo Leonzio, ricorda anzitutto al re franco che l'imperatore in tanto aveva manifestato
l'intenzione di combattere i Goti, in quanto aveva avuto dai Franchi, con
ricchi donativi, la promessa che si sarebbero associati con lui nell'impresa
come amici e alleati. Che viceversa essi non solo non avevano mantenuto la
promessa, ma si erano impadroniti di un regno che era stato conquistato dai
Bizantini con grande profusione di denaro e di uomini. Nelle parole del legato
non manca un accenno al pericolo rappresentato da un ingiusto possesso. La replica
di Teobaldo, però, è molto interessante, vuoi come prova della
esistenza ed autocoscienza di una comunità internazionale della quale
l'Impero bizantino non era che uno dei soggetti, anche se più degli
altri potente; vuoi come indice ulteriore di quanto fosse frequente e diffuso
fra i Barbari il ricorso a mezzi non bellici di soluzione delle controversie
intersoggettive. Nella replica di Teobaldo c'è anzitutto il rifiuto a
ritirarsi dall'accordo con i Goti. Inoltre, ciò che può essere
riguardato come un rinvio al principio della effettività, è
presente l'obiezione che i territori di cui parla Leonzio sono stati occupati
dai Franchi non già prendendoli dai Romani, bensì da Totila, che
già ne era in possesso. Che, del resto, ben si poteva rimettere a dei giudici
di pronunciarsi intorno a tali cose: perchè se fosse risultato che i
Franchi si erano impossessati di qualcosa che apparteneva ai Romani, ne sarebbe
stata fatta immediata restituzione. Che anzi a tale fine sarebbero stati
inviati senza indugio ambasciatori a Bisanzio[74].
Purtroppo di questa ambasceria Procopio non ci fornisce altre informazioni, se
non che Teobaldo, rimandato indietro Leonzio, avrebbe spedito il franco
Leotardo con altri tre in ambasceria presso Giustiniano, e che costoro, giunti
a Bisanzio, avrebbero compiuto il proprio mandato.
Anche nel famoso pactum di Andelot fra Gontrano,
Childeberto e Brunechilde, di cui riferisce Gregorio di Tours, e che è
stato ricostruito dal Pertz[75],
si fa cenno ad uno scandalum cui si
vuole porre rimedio con tale accordo, e al fatto che l'accordo stesso è
stato possibile mediantibus sacerdotibus
atque proceribus. Il pactum
è un vero e proprio accordo di spartizione di territori e competenze,
con il quale le parti si impegnano anche ad azioni ed omissioni di interesse
reciproco. E d'altra parte, per valutarne appieno il significato,
converrà ricordare che in un precedente edictum Gontrano aveva
affermato essere stata a lui commessa la facultas regnandi dalla auctoritas
superni regis[76]:
la legittimità del regno si era, cioè, ormai svincolata dal
riconoscimento di Bisanzio, rifugiandosi nel concetto di sacralità
regia.
Un indizio significativo
per rispondere al problema di come si ponga, in questo periodo, il problema
della soluzione pacifica delle controversie internazionali, è
rinvenibile nella politica di Teodorico. Di questi già è da
discutere se egli giustifichi più il suo potere in Italia sulla base di una delega
imperiale, come aveva fatto Odoacre[77];
giacchè, da quando si stabilisce in Italia, egli non sembra proporsi
più semplicemente come un rex
gothorum ma semplicemente come un rex[78]
che, secondo la cronaca di Agnello ravennate regnavit romanorum more[79].
Secondo l'Astuti, le espressioni formali di ossequio all'autorità della
legge romana da parte dei sovrani goti, da Teodorico ad Atalarico, si
accompagnarono ad una legislazione edittale sostanzialmente innovativa, e
soprattutto non impedirono la conservazione del diritto consuetudinario dei
Goti nella pratica e nella relativa tutela giudiziaria[80].
Sappiamo dalle istruzioni date da Teodorico a Sunhivad, nell'affidargli il
governo del Sannio, come dovesse valere il principio per cui:
"...
si quod negocium Romano cum Gothis est aut Gotho emersit aliquod cum Romanis
legum consideratione definies, nec permittimus indiscreto jure vivere quos uno
voto volumus vindicare"[81],
passo che dall'Astuti viene interpretato alla luce del principio,
altrove formulato:
"ut unusquisque sua jura serventur, et sub
diversitate judicum una justitia complectatur universi"[82].
Non sembrano espressioni
di chi si ritiene soggetto ad altro sovrano.
Anche Teodorico si serve,
per le missioni più importanti, di senatori. Alla fine del 525 egli
invia una legazione a Costantinopoli, di cui fanno parte per l’appunto
anche due senatori, insieme al papa Giovanni I. La legazione doveva trattare
con l'imperatore Giustino I la questione ariana in Oriente, e cioè la
restituzione delle chiese, una volta ariane, all'antico culto. Sappiamo di un
Agapito, di cui Cassiodoro elogia le doti diplomatiche e che svolge una
missione assai difficile – ma non ne conosciamo il contenuto – per
cui occorreva un legato prudentissimo:
"...qui
possit contra sublimissimos disputare et in conventu doctorum sic agere ne
susceptam causam tot erudita possit ingenia superare"[83].
Ma, esauritosi lo scisma
laurenziano, Teodorico aveva in mano la situazione politica in Italia. Egli
agiva in pieno accordo con Ormisda, come specifica per ben tre volte
Nella sua azione politica
si può ravvisare addirittura il tentativo di relizzare un disegno
bilanciato di rapporti internazionali[85],
teso a favorire la costituzione di una rete di vincoli familiari al vertice dei
nuovi potentati.
La politica dei matrimoni
dinastici usata come strumento di equilibrio non era nuova. Come si è
visto[86],
essa era stata già conosciuta dai faraoni[87],
e largamente praticata in epoca ellenistica[88].
Tale politica ricompare ora, nello sfaldarsi dell'antico Impero, non solo nei
rapporti dei potentati barbarici fra di loro, ma anche in quelli fra di essi e
l'Impero di Bisanzio. Se il poligamo Attila sceglie le mogli Reka ed Ecska fra
le Unne, è con Crimilde che, nel 453, egli stringe il suo ultimo
matrimonio, col quale evidentemente pensa di attrarre nella propria sfera di
interessi anche il mondo germanico, dopo che era sfumata l'unione con la
principessa bizantina Onoria[89],
sorella di Valentiniano III (matrimonio al quale, nelle richieste di Attila si
sarebbe dovuta accompagnare, in dote, la metà dell'Impero d'Occidente.
Da Teodorico, prossimo ormai al processo di patrimonializzazione del potere
pubblico, proprio dell'età nuova, tale strumento sembra coscientemente
utilizzato come avviamento di una base sociale omogenea nella nascente
comunità internazionale post-romana, come ad esempio nella lettera che
il re goto scrive a Trasamundo, re dei Vandali:
"Quamvis a diversis regibus expetiti pro solidanda concordia
aut neptes dedimus aut filias deo nobis inspirante coniunximus, nulli tamen
aestimamus nos aliquis simile contulisse, quam quod germanam nostram, generis
Hamali singulare praeconium vestrum fecimus esse coniugium: feminam prudentiae
vestrae parem quae non tantum reverenda regno, quantum mirabilis possit esse
consilio"[90].
La prassi
continuerà con i Longobardi[91].
Lo stesso Giordane sottolinea il valore politico delle nozze di Audoino con una
principessa degli Eruli[92].
Teodorico utilizza
ripetutamente lo strumento della mediazione, come nella lettera al re visigoto
al quale chiede di astenersi da azioni belliche sintanto che non venga inviata
da Teodorico stesso una ambasceria al re franco ed espletato così un
tentativo di stabilire la pace. Assai interessante, da questo punto di vista, è
quanto possiamo desumere da Idazio. Il quale ci dice come:
“Per augustum Avitum Fronto comes legatus mittitur ad suevos.
Similiter et a rege Gothorum Theoderico, quia fidus Romano esset imperio,
legati ad eosdem mittuntur ut tam secum quam cum Romano imperio, quia uno
essent paris foedere copulati, iurati foederis promissa servarent”[93].
Dal passo si deduce,
quindi, che Teodorico non si è qui semplicemente allineato alla politica romana, come si
potrebbe desumere dal termine fidus e
che, se nei confronti dell'Impero d'Oriente egli non vuole assumere una
posizione ostile, non sembra nemmeno porsi in un atteggiamento che possa
riassumersi in termini di subordinazione. Qui il re goto sembra avere svolto
una azione diplomatica di concerto con l'Impero, invitando gli Svevi alla
osservanza degli impegni assunti nei confronti di entrambi con un foedus, rafforzato da giuramento.
Dal passo, dunque, traspare la
compresenza di soggetti diversi egualmente capaci di diritto. Quel paris foedere cui fa riferimento il
passo non sembra lasciare dubbi. Un
ulteriore indizio della verosimiglianza di tale interpretazione
può essere visto nel fatto che il re goto assunse le vesti di
pacificatore anche fra l'Impero
d'Oriente e
La posizione politica di
Teodorico si chiarisce ulteriormente anche tenendo conto di quanto nella
società germanica contasse l'organizzazione familiare. E' per l'appunto
in nome di questi vincoli familiari che, in occasione della controversia fra
Alarico e Luduin re dei Franchi, Teodorico si interpone in veste di mediatore
affinchè essa sia risolta senza ricorso alle armi. Infatti, in quella,
del gruppo di lettere in cui si sostanzia l'azione diplomatica, diretta nel 507
ad Alarico si legge:
"Sustinete...ut litem vestram amicorum debeant amputare
judicia. Inter duos enim affinitate coniunctos non optamus aliquid tale fieri
unde unum minorum contingat forsitan inveniri"[95].
Così Teodorico
esorta a risolvere la controversia
fra Alarico e il re dei Franchi rationabiliter
per mezzo di amicis mediis. Si
direbbe addirittura che voglia allontanare qualunque sospetto di intervento
dalla propria interposizione, perchè invita Gundobado ad assumersene lui
l'ufficio:
"Aliqua vero a praesertim gerulis litteram sermone vobis
commisimus intimanda, ut sic prudentia vestra cuncta componat, quemadmodum
consuevit deo juvante perficere, unde solet diligentissime cogitare"[96].
Ciò che pare particolarmente degno di nota
è per l'appunto il fatto che, nella lettera ad Alarico, l'invito ad amputare litem per via di judicia amicorum, viene collegato con il
fatto che si accenni ad una comunità i cui membri sono collegati da vincoli
di parentela, che sono al tempo stesso la prova del reciproco riconoscimento.
Ritengo si possa dire che sia implicita qui l’idea della appartenenza ad
una stessa comunità giuridica.
Ma tale idea diventa esplicita nella epistola Uniformi,s inviata ai re degli Eruli, dei Turingi e dei Guarni ove
la proposta di una mediazione per la soluzione dei conflitti in atto prefigura,
addirittura, l'ipotesi di un intervento collettivo contro il renitente:
"Et ideo vos... legatos vestros una cum meis et fratris nostri Gundibadi regis
ad Francorum regem Luduin destinate, ut aut se de Wisigotorum conflicto
considerata aequitate suspendat et leges gentium quaerat aut omnium patiatur
incursum qui tantorum arbitrium iudicat esse timendum"[97].
E’ difficile non
riconoscere nelle espressioni sopra riportate l’affiorare di una
comunità di potentati e di uno jus
ad essa riferito. Da qualche studioso si è voluto vedere qui il
rinvio alle leges di tutti i Germani
disposti ad intervenire[98].
Più verosimilmente, vi si potrebbe semmai riconoscere un accenno
esplicito a norme, consolidate dall'uso, regolanti le crisi delle relazioni fra
le stirpi, o fra unioni di stirpi, talchè quel leges gentium quaerat potrebbe essere interpretato come l'invito a
chiedere l'applicazione di tali norme, vale a dire l'invito a ricorrere ad un
arbitrato piuttosto che alle armi: una alternativa, questa, ben conosciuta dai
diritti germanici[99].
Ma non si vede perchè non si possa invece vedere nelle leges citate l’affiorare di norme
di condotta “internazionale” fra le quali trovava posto la
previsione del necessario deferimento alla mediazione di una controversia
suscettibile di turbare tutta la comunità delle genti. E questo corpo di
norme potrebbe anche rinviare allo ius
gentium tramandato dal mondo antico, se ad esso si attribuisse quel senso
traslato che sarà raccolto da Isidoro di Siviglia.
Naturalmente,
l'accoglimento dell'invito di Teodorico era puramente volontario, sebbene si
profili una spontanea adesione dei regni più piccoli alla potenza
riconosciuta come la più autorevole, ciò che ha fatto parlare di
una egemonia del regno ostrogoto, sia pur debolmente sviluppata[100].
E' significativo che nella prima delle Variae,
il Regno di Teodorico e l'Impero bizantino hanno la stessa denominazione di res publica. Anche il Senato usa,
rivolgendosi all'Imperatore, l'espressione in
utraque respublica.
Lo stesso Giustiniano
manda un legato al re dei Franchi Teobaldo, allo scopo di promuovere una
comune alleanza contro Totila. Il
legato, certo Leonzio, ricorda anzitutto al re franco che l'imperatore in tanto aveva manifestato
l'intenzione di combattere i Goti, in quanto aveva avuto dai Franchi, con
ricchi donativi, la promessa che si sarebbero associati con lui nell'impresa
come amici e alleati. Che viceversa essi non solo non avevano mantenuto la
promessa, ma si erano impadroniti di un regno che era stato conquistato dai
Bizantini con grande profusione di denaro e di uomini. Nelle parole del legato
non manca un accenno al pericolo rappresentato da un ingiusto possesso. La
replica di Teobaldo, però, è molto interessante, vuoi come prova
della esistenza ed autocoscienza di una comunità internazionale della
quale l'Impero bizantino non era che uno dei soggetti, anche se più
degli altri potente; vuoi come indice ulteriore di quanto fosse frequente e
diffuso fra i Barbari il ricorso a mezzi non bellici di soluzione delle
controversie intersoggettive. Nella replica di Teobaldo c'è anzitutto il
rifiuto a ritirarsi dall'accordo con i Goti. Ma, ciò che può
essere riguardato come un rinvio al principio della effettività,
c'è l'obiezione che i territori di cui parla Leonzio sono stati occupati
dai Franchi non già prendendoli dai Romani, bensì da Totila, che
già ne era in possesso. Che del resto, ben si poteva rimettere a dei
giudici di pronunciarsi intorno a tali cose, perchè se fosse risultato
che i Franchi si erano impossessati di qualcosa che apparteneva ai Romani, ne
sarebbe stata fatta immediata restituzione. Che anzi a tale fine sarebbero
stati inviati senza indugio ambasciatori a Bisanzio[101].
Purtroppo di questa ambasceria Procopio non ci fornisce altre informazioni, se
non che Teobaldo, rimandato indietro Leonzio, avrebbe spedito il franco
Leotardo con altri tre in ambasceria presso Giustiniano, e che costoro, giunti
a Bisanzio, avrebbero compiuto il proprio mandato.
L'equilibrio fra i
potentati barbarici perseguito da Teodorico venne spazzato via prima dalla
politica di Clodoveo, poi dalla guerra gotica. Ma fu probabilmente proprio
quest'ultima che, trattando i territori italici come terra di conquista, pose
per questi il suggello definitivo alla rottura col passato. Nel prologo delle
leggi di Astolfo, l'originarietà del dominio longobardo è
affermata senza possibilità di equivoco, dacchè si parla di traditum nobis a Domino populum romanorum[102].
Sta di fatto che, negli ultimi decenni del secolo VII, si sarebbe avuto un
riconoscimento de jure del regno
longobardo anche da parte di Bisanzio[103].
Anche nel famoso pactum di Andelot (587) fra Gontrano (re
di Borgogna), Childeberto II (re d’Austrasia) e Brunechilde, di cui
riferisce Gregorio di Tours, e che è stato ricostruito dal Pertz[104],
si fa cenno ad uno scandalum cui si
vuole porre rimedio con tale accordo, e al fatto che l'accordo stesso è
stato possibile mediantibus sacerdotibus
atque proceribus. Il factum,
sancito da un giuramento[105],
è un vero e proprio accordo di spartizione di territori e competenze,
con il quale le parti si impegnano anche ad azioni ed omissioni di interesse
reciproco. E d'altra parte, per valutarne appieno il significato
converrà ricordare che in un precedente edictum Gontrano aveva
affermato essere stata a lui commessa la facultas regnandi dalla auctoritas
superni regis[106]:
la legittimità del regno si era, cioè, ormai svincolata dal
riconoscimento di Bisanzio, rifugiandosi nel concetto della sacralità
regia.
E' necessario chiarire a
questo punto un altro elemento che sin qui - e proprio nella misura in cui esso
è rimasto velato dal persistere, pur smembrate nei vari Regna, delle strutture amministrative
romane - non è emerso con sufficiente evidenza, mentre invece pur
essendo gravido di conseguenze sull'assetto generale della comunità
internazionale, vale a dire la concezione della cosa pubblica propria del
germanesimo.
Il carattere più
evidente del complesso della esperienza giuridica germanica è la
connessione fra piena capacità giuridica e attitudine all'uso delle
armi: chi è sui juris deve
anche essere capace di portare ad effetto il diritto[107].
La civitas, il Land sono, nella mentalità germanica, una associazione di
uomini liberi, di uomini, cioè, in grado di definire da sè il
proprio diritto e di difenderlo combattendo. All'interno di questa associazione
esiste la pace, come situazione in cui la violenza non deve essere esercitata
perchè non è stato offeso il diritto. Ma la parola tedesca Friede appartiene etimologicamente alla
stessa radice di Freund, amico, e di Frei, libero. Pace, dunque, è la
situazione di una associazione umana i cui membri sono fra di loro amici, e che
nei confronti del mondo esterno sono liberi[108].
Tale concetto racchiude in sè quello della protezione, della sicurezza
che gli amici rappresentano l'uno per l'altro, dell'aiuto e dell'assistenza che
si prestano. Il responsabile di un misfatto diviene nemico di quello il cui
diritto ha violato, ma può divenire nemico della collettività,
nella misura in cui questa si faccia carico della protezione di quel soggetto.
Chi trasgredisce le leggi della collettività ne perde la pace e la
relativa protezione, viene bandito e in questa condizione può venire
ucciso[109].
L'autotutela, tuttavia, la vendetta, la faida, è possibile all'interno
della associazione: si tratta di un uso della forza delle armi nella lotta per
il diritto, che non pone in discussione l'esistenza della associazione stessa,
e nemmeno si trova di fronte all'alternativa di essere o guerra nel senso del
diritto internazionale contro un nemico esterno, ovvero delittuoso uso del
potere, sollevazione, rivolta, alto tradimento[110].
Anzi, poichè il fondamento stesso del diritto sta in un ordinamento
metagiuridico che lo legittima, ecco che
la vendetta, la faida, diviene nello stesso tempo oggetto di un dovere
morale, tendendo alla restaurazione dell'ordine violato. Donde una visione contrattualista della
cosa pubblica. Chi non ha la capacità di difendere da solo il proprio
diritto deve affidarsi a chi effettivamente può farlo, al più
forte e capace, porsi sotto la sua tutela e, da un lato, non assumere
iniziative che contrastino con essa, dall'altro essere pronto a coadiuvarlo in
ogni circostanza. Così la difesa del proprio diritto da parte del
potente si estente a tutti quelli
che sono posti sotto la sua tuitio e
l'organizzazione della cosa pubblica si connette strettamente con
l'organizzazione militare.
In questa ottica, si
comprende come la figura del rex appaia inizialmente priva di
caratteristiche stabili, perchè al rex
vengono riconosciuti quei poteri - e solo quei poteri - che sono necessari e
sufficienti a contrastare un pericolo sovrabbondante le singole forze o a
provvedere a necessità straordinarie[111].
Ma si comprende anche come l'esperienza giuridica dei Germani non conosca lo
Stato come portatore di interessi propri, e come la vera comunità
politica che riaffiora continuamente alla ribalta in tal senso, sebbene poi
tenda ad associarsi su base volontaristica in unità politiche maggiori,
sia in realtà una comunità molto più piccola ove
l'unità del dominio è caratterizzata dal rapporto diretto fra
dominante e dominati[112].
Emerge, cioè, in
primo piano, la funzione della nobiltà, che rappresenta, per la
comprensione dei problemi relativi alle istituzioni medievali, un interesse
pari a quello rappresentato dalla regalità. Essa propone, tuttavia,
numerosi interrogativi. Il primo è quello che concerne la sua origine e
la sua posizione iniziale. Non si può affermare con certezza se la
nobiltà medievale discenda dai principi di cui si legge in Cesare e
Tacito, dagli ausiliari dei re barbari o dai rappresentanti delle famiglie
senatoriali gallo - romane. Molto scettico al riguardo si dichiarava, ad
esempio, il Bognetti benchè poi ammettesse la possibilità di un
rapporto di continuità fra gli antichi principi germanici e i duchi del
periodo longobardo[113].
Benchè non neghi la presenza di "grandi" apparentemente
tendenti a sfuggire a ogni soggezione, una parte della dottrina, basandosi su
una interpretazione restrittiva dei documenti, fa notare come non vi sia
traccia di un Wergeld superiore per i nobili nella legge salica, nessuna
concessione di immunità ai nobili merovingi, dunque nessuna
nobiltà[114].
Secondo Bergengruen, fra i Franchi Sali non sarebbe rimasta che una sola
famiglia della antica nobiltà, quella dei Merovingi, i quali avrebbero
creato una Dienstadel[115].
Anche per lo Schmid, l'epoca franca non conoscerebbe che una sola famiglia
nobile, quella del re. Il resto della aristocrazia altro non sarebbe che una Hausadel da lui creata[116].
Mostra viceversa di
credere a una continuità biologica e ideologica dalla Uradel alla Nobilitas degli inizi del Medioevo e degli stessi Regna nati dalle migrazioni del IV e del
V secolo il Mitteis[117].
Ancora più deciso è il Dannenbauer[118].
I nobili o principi di Tacito nascono come aristocrazia rispettata ed ascoltata
distinguendosi per sangue - segno di origine divina - dal resto della
popolazione, e caratterizzandosi per un diverso status[119].
Essi, infatti, hanno diritto a un Comitatus[120],
la cui esistenza si lega a proprietà sfruttate da non liberi soggetti
alla loro autorità[121].
Come il Dominus del XI secolo, il cui
districtus deborda i possedimenti,
essi beneficiano dei doni degli abitanti della regione che non sono loro
sottoposti, ma ai quali assicurano la loro protezione; anche se è dubbio
se questa estensione, con la conseguente trasformazione della Hausherrschaft in Grundherrschaft si sia realizzata prima dell'epoca franca. Per il
Werner (che dal canto suo, in uno studio per molti versi affascinante, parla di
continuità delle stesse strutture del potere pubblico) la nobiltà
romana si sarebbe fusa con le élites
barbariche, la qual cosa sarebbe dimostrata dalla continuità
dell’uso del cingulum che la caratterizzava[122].
Ed in effetti, già dall’età dei Severi, la maggior parte
dei governatori delle provincie aveva conseguito lo jus gladii[123].
Dunque Werner crede nella continuità della nobilitas: egli la riconnette alla sopravvivenza di quella romana,
che non dappertutto attraversa le vicende drammatiche che caratterizzano la
penisola italiana.
Anche il Genicot, che ha
fatto del tema della nobilitas il
punto focale di molte ricerche, aderisce alla tesi della continuità.
Questo studioso, però, tende a credere che la situazione dei potentes del IV secolo non differisse troppo da quella dei principes della Germania. Il loro status
si riassumeva in una parola: libertà. Il Genicot ammette che, a seguito
delle migrazioni, tale condizione,
che faceva di ogni Germano libero un anarchico e di un gruppo di Germani una
<Confederazione> abbia potuto smorzarsi. Tuttavia i nobili si sarebbero
pur sempre distinti dai semplici liberi obbligati a obbedire a un funzionario,
incorporati a quadri amministrativi, mediatizzati. Questa nobiltà,
pronta ad aprire i suoi ranghi ai discendenti delle antiche famiglie
senatoriali romane[124],
avrebbe sempre mantenuto i suoi attributi maggiori che la distinguevano dall'ignobile vulgus: immunità e
diritto a un seguito armato. Il principe germanico e il suo erede concettuale
– se non di sangue – il nobile dell'Alto Medioevo, è
immunista perchè è autenticamente libero nella persona e nei beni
patrimoniali, per i quali egli non deve nulla a nessuno, dominandovi
sovranamente. Egli governa dunque su coloro che sono installati sui suoi domini
e che li coltivano per suo conto o per sè stessi. E' il nobile che
conosce e appiana le loro controversie[125].
E poichè il concetto di iudex e
judicium sarebbe estraneo alla
terminologia tedesca originaria[126],
i potentes sono a lungo degli assertores pacis[127]. Da questo punto di vista, nella
costruzione o ricostruzione dell'organizzazione statuale, il feudalesimo
avrebbe svolto un ruolo più positivo che negativo, perchè
E' vero che un elemento
distingueva i re germani dagli altri semplici capi di aggregazioni personali
temporanee, ed era lo Heil: la
virtù sacra di avere e infondere fortuna, che si riteneva emergesse in
alcune famiglie[128].
La Chiesa farà leva su questa tradizione, e se ne approprierà
trasformandola e consolidandola. Ma questo fattore, che può per altro
verso essere visto come il lievito di assetti futuri, non è produttivo
in via immediata di un potere regale unitario e compatto. Anche la nobiltà,
del resto, non solo il re, partecipa al crisma ereditario, anche il diritto
della nobiltà trae origine dall'ambito magico. La schiatta reale non
è che una delle tante famiglie nobili del popolo: la più nobile
di tutte; ma vi sono anche altre famiglie che non derivano la propria
autorità dal re, ma la esercitano per diritto proprio[129],
in quanto compaiono a capo di un seguito. Ciò che eleverà i
sovrani molto al di sopra della folla e rispetto agli altri potenti,
finirà con l’essere per molto tempo più che la loro
posizione giuridica, la loro consacrazione da parte del Vescovo: ciò
è detto molto chiaramente da Incmaro in una lettera indirizzata a Carlo
il Calvo: è all'unzione, atto squisitamente spirituale, e non già
alla sua potenza terrena che egli deve la sua dignità regale[130].
Una esemplificazione di
questo modo di vedere le cose la si può vedere in un episodio, riferito da Gregorio di
Tours, ove un certo Munderiso "qui
se parentem regium adserebat", comincia a congregare un suo populus, sostenendo:
"...Quid mihi et Theuderico regi? Sic
enim mihi solium regni debetur ut ille. Egrediar et collegam populum meum,
atque exegam sacramentum ab eis, ut sciat Theudoricus quia rex sum ego, sicut
et ille, et egressus coepit seducere populum dicens: Princeps ego sum.
Sequimini me et erit vobis bene. Sequebatur autem eum rustica moltitudo, ut
plerumque fragilitati humanae convenit, dantes sacramentum fidelitatis et
honorantes eum ut regem"[131].
Dalle fonti, la cui
sobrietà pur lascia permanere una notevole incertezza su molti aspetti,
un elemento appare relativamente chiaro: la riluttanza dei Longobardi a
costituire unità politiche compatte. Di essi sappiamo da Paolo Diacono
non solo che per dieci anni non si diedero un rex; sappiamo pure che i ducati di Spoleto e di Benevento seppero
mantenere una autonomia tanto ampia da porre molti interrogativi circa la
natura della loro connessione con il resto del Regnum: non era forse venuta meno l'unità della nazione, ma
certo questa consentiva, con le altre popolazioni, la conduzione di una politica di
convivenza autonoma e contrastante con quella regale. Gli esempi sono molti e
significativi. Uno è l'arbitrato di Gallese, di cui si dirà più
oltre, e su cui giustamente attira l'attenzione il Bertolini. Un altro è
il pactum al quale, nel 740, si
richiamava Gregorio III in una delle lettere indirizzate a Carlo Martello per
ottenerne l'intervento in Italia. Il pactum
avrebbe avuto come contraenti, da un lato,
"...ut patrocinium et defensionem Francorum habentes, duodecim
millia solidorum annis singulis, his duobus regibus in tributa
implerent...".
Il Chronicon di Fredegario, che ci informa dell'episodio, precisa che
l'accordo venne firmato e che dopo ciò i duchi longobardi:
"...integra devocione patrocinium eligunt Francorum. Nec mora,
post permissum Gunthrammi et Childeberti Autharium ducem super se sublimant in
regnum".
Il re avrebbe assolto
puntualmente all'obbligo di pagare il tributo che i duchi si erano impegnati a
versare ai Franchi, mentre invece un altro Autari, con il suo ducato, si
sarebbe votato alla dictio
dell'Imperatore[133].
Questo modo di vedere le
cose era proprio di una personalizzazione della politica, che, pur affiorata -
come si è visto - già
in età romana, è il vero tratto caratteristico dell'età
sopraggiunta, e, diffondendosi anche in ambienti non germanici, spiega come
nelle fonti cronachistiche non si faccia differenza fra il pettegolezzo e
l'alta politica, fra i contrasti "familiari" e quelli, per
così dire, "statuali", fra la giustizia e la ritorsione e fra
questa e la guerra. Nell’editto di Rotari viene fissato il prezzo delle
diverse compositiones – sin qui
lasciato ai limiti stabiliti dalla
consuetudine ed alla trattativa delle parti – offrendo il quale si poteva
evitare la vindicta. Il termine vindicta[134], peraltro, sta a indicare tanto
l'azione giudiziaria, quanto – come vindicta
sanguinis – la realizzazione coattiva della giustizia. Ma in questo
senso il linguaggio medievale usa il termine anche per indicare l'affermazione
della propria giustizia mediante l'uso delle armi.
Alarico irrompe in Roma
perchè:
"...dolens tantam multitudinem Gothorum a Romanis extinctam,
in vindictam sanguinis suorum proelium agit obsessamque impetu magnae cladis
irrumpit...",
anche se, grazie alla mediazione del Papa, promette:
"...ut si ingrederetur urbem, quicumque Romanorum in locis
Christi invenirentur in eis agere jure belli non liceret"[135].
Di Cunimondo, il cui
cranio, secondo la tradizione, servirà di coppa ad Alboino, Paolo
Diacono spiega che venne a guerra con i Longobardi per "...vindicare veteres Gepidorum iniurias"
e che a tal fine "...rupto cum
Langobardis foedere, bellum potius quam pacem elegit". A sua volta,
Rosmunda "vendica" il
padre con la congiura di palazzo che porterà alla morte Alboino[136].
Ma è difficile scindere il significato tecnico del termine da quello,
per così dire, traslato, anche in una fosca vicenda che coinvolse profondamente
la politica romana, quella della uccisione di Sergio, figlio del primicerio
Cristoforo, ove gli judices militiae cum
universo populo, ritrovatone il corpo:
"...eundem
almificum pontificem deprecati sunt ut vindictam atque emendationem fieri praecepisset
de tanto inaudito piaculo"[137].
E ancora, mentre Carlo
Magno, già invischiato nelle questioni italiane, rinvia la figlia a
Desiderio suscitandone la vendetta, similmente si comporta Desiderio,
accogliendo la vedova e gli orfani di Carlomanno e chiedendone l'unzione regale
al Papa.
D'altra parte,
l'evoluzione di questi elementi era destinata a rompere dall'interno la
struttura tendenzialmente paritaria della comunità internazionale del
tempo, sfociando in quello che sarà l'assetto feudale dell'Europa a
partire dal X secolo. Così l'esercito di Desiderio non è ancora
schierato contro i Franchi, che diversi dei maggiorenti delle zone di Rieti e
di Spoleto, a quanto racconta il biografo di Adriano:
"...ad beatum Petrum confugium facientes praedicto sanctissimo
Hadriano papae se tradiderunt et in fide ipsius principis apostolorum atque
praedicti sanctissimi pontificis iurantes, more romanorum tonsorati sunt"[138].
Una visione confederale
dello "Stato" è d’altra parte rilevabile anche nella
formulazione dei capitoli stabiliti a Coblenza fra i discendenti della dinastia
carolingia. Al cap. X , quale fine
del Regnum, si vuole il commune salvamentum, la restitutionem Sanctae Dei Ecclesiae, ma anche l'honorem regium e la pacem populi commissi nobis. Di questo popolo
si dichiara aver richiesto l'assenso affinchè
"...non solum non sint nobis contradicentes, et resistentes ad
ista exequenda, verum etiam sic sint nobis fideles et obedientes, ac veri
adjutores atque cooperatores vero consilio et sincero auxilio ad ista peragenda
quae premisimus, sicut per rectum unusquisque in suo ordine et statu suo
Principi et suo seniori esse debet"[139].
Mentre al cap. III si
stabilisce un obbligo di assistenza reciproca fra i pares da assolversi consilio
et auxilio acciocchè regnum,
fideles, prosperitatem atque honorem regium debite valeat obtinere. E al
capitolo quarto si stigmatizza la tyrannica
consuetudo con la quale irreverentes
homines pax et tranquillitas regni perturbari solent. Contro ogni
perturbatore si commina il bando: non solo nessuno, all'interno del Regno, deve
dare loro ricetto, ma si stabilisce altresì che omnes in commune, in cuius regnum venerit, illum persequantur[140].
E' peraltro evidente che,
in una visione così carente di quelle tensioni centripete cui gli
odierni sistemi giuridici sono improntati, fosse normale il ricorso al terzo
pacificatore. La stessa giustizia regale, se si eccettua quella che si esercita
immediatamente sul publicum regio,
è intesa come "composizione"[141],
anzi, la stessa lex sembra essere
volta al conseguimento della pace, presentandosi come la sostituzione di una
pace derivante dall'accettazione della composizione stabilita dal rex alla faida lasciata alle parti[142].
Lo Scovazzi ricorda diversi tipi di istituti processuali germanici fortemente
caratterizzati in senso volontaristico, come quello dei racinburgii, che egli indica come progenitori degli scabini di tradizione carolingia,
chiamati dalle parti in causa non tanto a giudicare a stretto rigore di legge,
quanto a ridurre i termini della controversia in uno degli schemi offerti dalla
tradizione[143];
o come i cosiddetti "giuramenti d'uguaglianza" grazie ai quali la
decisione di una controversia veniva rimessa ad una delle parti in causa dall'altra,
che presumeva di riuscire soccombente, dietro giuramento di reciprocità,
cioè di non chiedere, in una controversia futura, un trattamento
più favorevole[144],
mentre d'altra parte, il concetto stesso di faida, di "vendetta"
implica già, di per sè, quello di "restaurazione" di un
ordine turbato, dunque rinvia ad un istituto regolato nella sostanza e nella
procedura[145].
Così, da un lato, primo e fondamentale presupposto di ogni faida
legittima, come di ogni guerra legittima, è l'esistenza di un fondamento
giuridico che tende al ristabilimento dell'ordine violato; d'altro lato, con
tutto il suo corredo di saccheggi, distruzioni e massacri, la faida pretende
sempre di essere una executio juris.
Il rapporto strettissimo
fra la bellandi potestas presupposta
dalla faida e la struttura dello "Stato" medievale fu messa in luce
nella maniera più evidente da Otto Brunner, il quale tese a dimostrare
l'assenza di una vera e propria differenza qualitativa fra la guerra intesa
come faida, come contrapposizione di parti all'interno di uno stesso regno, e
guerra intesa come conflitto fra principi sovrani nella comunità
internazionale[146]
dell'età di mezzo. E in effetti, già nelle Etimologie di Isidoro
di Siviglia, a leggerle in controluce, non si trova una distinzione chiarissima
fra bellum (justum o iniustum) rilevante sul piano
internazionale e bellum civile. Bellum
civile – si dice – è quello che viene combattuto fra i cives appartenenti alla stessa civitas, come Cesare e Pompeo[147].
Ma se ci si interroga su cosa Isidoro di Siviglia intenda per civitas, si rinviene, rivestito di panni
ciceroniani, un concetto molto ristretto della stessa: dopo una lunga
digressione storica, nella quale egli dà conto del sorgere delle
più famose e importanti città, Isidoro di Siviglia conclude:
"Civitas
est hominum multitudo societatis vinculo adunata, dicta a civibus, id est ab
ipsis incolis urbis [pro eo quod plurimorum conciscat et contineat
vitas]”[148].
Non a caso, il bellum civile viene qui appaiato al
tumulto, che è anche quod civili
seditione concitatur. Questo viene considerato più grave della
guerra, perchè nella guerra si fanno valere le vacationes, nel tumulto no[149].
Guerra, dunque, sino alla fine del Medioevo, significa conflitto, differenza di
opinioni che può venire decisa tanto con le armi quanto in giudizio.
Tale giudizio può essere concordemente rimesso ad un terzo, un
<amico> comune che tenta anzitutto di avvicinare le posizioni
contrastanti con una conciliazione. Così si legge infatti negli Annali
di Incmaro, quando, alla morte di Carlo:
"Hludovicus, frater eius, Italiae vocatus imperator,
Provinciam venit et quos potuit ipsius regni primores sibi conciliavit. Hoc
audito, Lotharius illuc pergit et mediantibus inter eos domesticis et amicis
illorum placitum, quo simul redeant et de ipso regno apud se tractent
Hludovicum, Italiam, Hlotarius in regnum suum revertitur"[150].
Le vicende successorie
carolingie, con il loro complesso intrecciarsi di interventi diplomatici
offrono in proposito molti importanti spunti di riflessione. Per il momento
basti notare che qui ad esercitare la funzione conciliativa sono i domestici, gli amici,
i proceres, come nell' arbitrato del
settimo secolo fra Clotario II re di Neustria e suo figlio Dagoberto. Nel 625,
Dagoberto, che aveva già ricevuto dal padre il governo del regno di
Austrasia, chiese al padre le città e le provincie che ne erano state
staccate, avendo Clotario trattenuto la foresta delle Ardenne, le montagne dei
Vosgi, l'Auvergne, il Poitou e
"Electis ab his duobus Regibus duodecim Francorum proceribus,
ut eorum disceptatione haec finiretur intentio: inter quos et dominus Arnulfus,
Pontifex Mettensis, cum reliquis Episcopis eligitur, qui benignissime, ut sua
erat sanctitas, inter Patrem et Filium pro pacis loquebatur concordia. Tandem a
Pontificibus, vel sapientissimis viris proceribus, Pater pacificatur cum Filio,
reddensque ei solidatum, quod adspexerat ad regnum Austrasiorum, hoc tantum
exinde, quod circa Ligerem vel in Provinciae partibus situm erat, suae ditioni
retinuit"[151].
Assai spesso, ad esser
richiesti o ad assumersi spontaneamente l'ufficio di missioni di pace sono religiosi, nella persona dei suoi
esponenti di spicco, ovvero di individui più o meno legati
funzionalmente con
Esemplari sono, a questo
proposito, le ambascerie – tramandateci da Ennodio – di Epifanio[152],
vescovo di Pavia, molto stimato da Teodorico, che ne fece un proprio
consigliere. Sappiamo così di un conflitto fra Antemio e Ricimero, ormai
in preparativi di guerra, appianato dai buoni uffici di Epifanio, la cui
intromissione è provocata da Ricimero, nonché sulla base di una
evidente convenienza politica, anche su richiesta di una delegazione di nobili
liguri. E' interessante vedere quanto ci dice Ennodio in proposito. Essendo in
conflitto Ricimero e Antemio, la suddetta delegazione si reca da Ricimero a
chiedere la pace giacchè:
..."nutabat status periclitantis Italiae et
adfligebatur ipsis discriminibus gravius dum expectabat futura
discrimina".
Ricimero, per momentanea
convenienza, mostra di essere favorevole a riconciliarsi con il suo avversario,
ma obietta di non vederne il modo:
"Quis est qui Galatam concitatum revocare possit et
principem?".
La delegazione risponde
che occorre solo l'assenso di Ricimero, che la persona c'è; e decantano
le capacità di Epifanio. Ricimero manifesta la propria accettazione ed
Epifanio, a sua volta, cede alla richiesta di assumersi l'incarico di
pacificatore sicchè :
"...ad Ricimerum porrexit a quo simul visus et
electus est".
Così Epifanio
"accompagnato da fama di santità" si reca a Roma, ove convince
Antemio a desistere dai preparativi di guerra[153].
Sappiamo pure di
un'altra interposizione del vescovo ticinese fra l'imperatore Nepote e il re
dei Visigoti Eurico la quale valse a condurre entrambi ad un trattato di pace che, se riconosceva le
conquiste sino allora fatte da Eurico e l'indipendenza del suo regno, poneva
tuttavia un freno alla sua espansione e concedeva respiro all'Imperatore, le
cui forze erano ormai esauste. Anche qui vale la pena di rileggere quanto dice
l'estensore della cronaca dell'episodio. Eurico, nell'aderire alle proposte di
Epifanio, avrebbe dichiarato:
"Facio ergo...quae
poscis, quia grandior est apud me legati persona quam potentia
destinantis";
aggiungendo:
"...fallunt
qui dicunt Romanos in linguis scutum vel spicula non habere: inveni hominem qui
me armatum possit espugnare sermonibus"[154].
Lo stesso Ennodio,
vescovo di Pavia, retore e corrispondente di Boezio, sarebbe stato sovente
incaricato delle più delicate missioni in Oriente, sia da Teodorico, sia
dal Papa.
Da queste testimonianze balza agli occhi,
anzitutto, la sempre più accentuata riluttanza a voler riconoscere il
ruolo sovraordinato dell'Imperatore romano, poi la veste neutrale del
negoziatore di pace, garantita dalla sua fama di santità e infine
l'impostazione non autoritativa della interposizione mediatrice, efficace in
quanto basata sull'invito a reciproche concessioni e avvalorata dalla posizione
guadagnata in quel tempo, anche presso coloro che professavano fede diversa,
dagli esponenti della Chiesa di Roma.
La presenza di religiosi
nella prassi diplomatica dell’“età di transizione”
è comunque molto rilevante. Nella comunità di popoli costituitasi
al declinare della potenza romana, un importante fattore associativo
suscettibile di rimodularne i caratteri, va ricercato proprio nella religione cristiana, nonostante le
ricorrenti eresie che laceravano il corpus
dei fedeli[155].
In via di principio essa significò, soprattutto all'inizio, una
esaltazione della prudente tolleranza e del ripudio della violenza. Infatti, in tal senso si
esprimevano ripetutamente le Scritture[156].
Ne doveva conseguire naturalmente che i suoi rappresentanti si proponessero
come garanti della pace e della giustizia e che il Capo della
Cristianità si proclamasse grande pacificatore. Nel progressivo
sfaldarsi della organizzazione imperiale romana,
E' da dire, tuttavia, che
anche in questa visione che ne svaluta la funzione politica, Roma viene difesa
come veicolo del Cristianesimo, struttura ideale nella quale i diversi popoli
possono riconoscersi in un comune sentire[161].
Nello stesso S. Agostino, d'altra parte, è presente anche l'idea della
necessità della soggezione ad un superiore ordinamento di giustizia,
perché:
"Remota
itaque justitia quid sunt regna alia nisi magna latrocinia et latrocinia nisi
parva regna?"[162].
L'attitudine della Chiesa
nei confronti della morale, peraltro, non è più quella dello
Stato pagano ove, come ha rilevato Sini: «Il solo principio religioso
accettato e rispettato…era il principio politeistico e multireligioso: sua cuicue civitati religio, Laeli est
nostra nobis»[163]. Il popolo dei Cristiani, ora, conosce
una sola verità, e di questa verità è depositaria
Si comprende agevolmente
come, fra le diverse e contrastanti pretese e per effetto del costante
incremento della sua importanza politica, alla Chiesa venga riconosciuto quel
ruolo di guardiana della pace che essa reputa competerle per elezione e che
costituisce la premessa per l'esercizio di un'autorevole ed efficace opera di
interposizione nel campo delle relazioni internazionali[167].
L'assunzione di questo
compito comincia a profilarsi prestissimo. Già in epoca romana i Vescovi
erano andati assumendo un sempre maggiore rilievo nelle pubbliche istituzioni.
La episcopalis audientia aveva acquistato caratteristiche particolari,
che la differenziavano dall'arbitrato normale del diritto postclassico, proprio
in considerazione del particolare prestigio dell'arbitro[168].
Per vero, Gesù
Cristo aveva rifiutato il ruolo di arbitro nelle contese di interesse[169],
ma S. Paolo aveva esortato i
Cristiani a comporre pacificamente le liti davanti a qualcuno dei loro fratelli[170].
Può darsi che originariamente l'arbitrato del vescovo si fosse posto in
antitesi con la giustizia resa dai Pagani:
“etiamsi
alia pars refragatur. Multa enim quae in iudicio captiosa praescriptionis
vincula non patiuntur, investigat et publicat sacrosanta religionis
auctoritas”[176].
Tale possibilità
si fondava su una norma del 333, posta in essere da una costituzione di
Costantino e nota come Sirmondina I[177],
che non venne poi accolta nel Codice Teodosiano, ove si manifestò invece
una tendenza a restringere la giurisdizione del vescovo nelle cause civili[178]. Sulla materia sarebbe tornata nel 452,
con intenti limitatori, una novella di Valentiniano III, la quale "ne ulterius querella procedat",
avrebbe stabilito "habeat episcopus licentiam iudicandi, praeeunte
tamen vinculo compromissi"[179].
In tal senso si sarebbe attestato anche il Codice giustinianeo[180].
Le sentenze del vescovo venivano eseguite, dopo aver ottenuto l'exequatur del giudice secolare per
opera di un funzionario imperiale[181].
Ma la caratteristica più rilevante dell’attività del
Vescovo in questa veste era che egli, anche in ottemperanza a norme canoniche[182],
si preoccupava anzitutto di rappacificare le parti, cioè si
comportava anzitutto come
mediatore, come amichevole compositore, e solo in un secondo momento come
arbitro.
La dominazione gota non
si discosta da questa tendenza. Fra i rescritti di Cassiodoro si trova un
editto di Atalarico con cui si conferisce al vescovo di Roma il diritto di
arbitrare contese fra laici e religiosi. In base ad esso, chi aveva una causa
contro un membro del clero romano poteva appellarsi alla sentenza del
pontefice, e solo nel caso in cui questi avesse respinto la querela, il
processo passava nelle mani dell'autorità laica. Chi non obbediva al
verdetto del Papa era punito con una ammenda di 10 libbre d'oro[183].
Dal canto suo, una disposizione di Clotario stabiliva, addirittura:
"Si
judex aliquem contra legem iniuste damnaverit, in nostri absentia ab episcopis
castigetur ut quod perpere judicavit, versatim melius discussione habita,
emendare procuret"[184].
E' difficile dire sino a
qual punto, sotto i Longobardi, il vescovo abbia mantenuto gli stessi poteri
ovvero abbia prevalso la funzione di amichevole compositore. Secondo il
Salvioli è per l'appunto in questa veste che sarebbe stato invocato dai
Romani, perchè conosceva il loro diritto e perchè essi non
volevano sottostare a procedure che non erano loro congeniali[185].
L'invasione dei Longobardi portò innegabilmente, in un primo tempo,
forte disordine nella organizzazione ecclesiastica, e non solo nei territori da
loro stabilmente conquistati. Sembra, però, che sia da escludere che vi
sia stata oppressione religiosa da parte dei Longobardi ariani. Anzi, in un
secondo momento, i Vescovi tornano ad introdursi lentamente nel nuovo stato
politico e sociale[186],
tanto che Astolfo stabilisce la nota regola dell'intervento di un messo
vescovile insieme a un missus regis,
a un missus judicis e a tre uomini di
indubbia fede nelle permute con persone ecclesiastiche[187].
E' d'altra parte significativo
che nella raccolta di Benedetto
Levita, insieme ad altre norme volte ad attribuire particolare valore all'admonitio del vescovo in caso di lite[188],
farà la sua ricomparsa esplicita
"Studendum
est episcopis ut dissidentes fratres magis ad pacem quam ad judicium
cohortentur"[192].
La prassi si
allargò quindi alle relazioni che, come abbiamo visto, nell'ambito di
quella che si avvia ad essere la comunità parziale
cristiano-occidentale, si configurano già come relazioni fra potentati
autonomi; e qui, se al momento gli organi della Chiesa non erano in grado di
imporre alcunchè con la forza, in compenso, come ministri del culto,
godevano di un potere morale effettivo, che non rimaneva senza rispondenza
nelle cose politiche. Come conoscitori delle colpe segrete di ciascuno e
dispensatori di perdono, essi soggiogavano le coscienze, e quando nell'uomo era
più forte la coscienza del cristiano, perchè ormai il dissidio
era posto, essi soli avevano il potere di determinarlo a prendere un partito
piuttosto che un altro[193].
Dappertutto, nelle
situazioni di crisi si ricorreva ai Vescovi, considerati come gli unici
possibili intermediari fra il nuovo potere e l'antico. E nei momenti di
straordinario pericolo è sempre un rappresentante della Chiesa, spesso
lo stesso Papa, di propria iniziativa o per esplicita richiesta, a interporre i
propri uffici contro il pericolo della guerra. Così, quando su Roma
pende la minaccia della spada di Alarico, è il pontefice Innocenzo I a
recarsi da Onorio, a Ravenna, per discutere le condizioni del condottiero
barbaro[194].
Visto l'insuccesso delle trattative, questi marcia nuovamente contro Roma,
inviando però ad Onorio una delegazione di vescovi italiani per fargli
sapere che, se si fosse ostinato a continuare la guerra, sarebbero stati preda
della fiamma e della furia saccheggiatrice dei Barbari i monumenti più
insigni della illustre città. Parrebbe che, in questa occasione, i
vescovi abbiano prestato i propri
buoni uffici con discreti risultati, dal momento che sappiamo come Alarico si
sia mostrato disposto ad abbassare le sue pretese, la cui enormità aveva
travolto il prestigio e la vita di Stilicone, accontentandosi della cessione
del Norico, di un carico di grano e di un trattato di allenza con
l'Impero. E' ancora un pontefice,
Leone I, che accompagnando gli uomini più in vista della città -
come il console Gennadio Avieno, e il capo del Senato Trigezio, ex prefetto del
pretorio in Italia - nel 452 svolge opera di mediatore fra l'Imperatore e
Attila. Questi, che minaccia di distruggere l'intera città di Roma,
viene raggiunto a Governolo e si
convince a ritirarsi al di là del Danubio, promettendo di addivenire
ad accordi di pace, purchè
l'Imperatore gli assicuri un tributo. Nella notizia che ne danno le fonti,
è fatto cenno espresso di una accettazione della mediazione [195].
Pochi anni dopo (455) è Genserico a marciare contro Roma, ed è
ancora una volta Leone che
intercede perchè le vite degli abitanti siano risparmiate [196].
Alcune volte
l'interposizione papale viene espressamente richiesta dall'autorità
temporale. Nel 563, quando l'imperatore Giustino pubblicò l'editto di
persecuzione contro gli Ariani, Teodorico convocò il Papa a Ravenna e lo
incaricò di recarsi a Costantinopoli:
"Hic
vocitus est a rege Theodorico Ravenna; quem ipse rex rogans misit in legationem
Constantinopolim ad Iustinum imperatorem orthodoxum, quia eodem tempore
Iustinus imperator, vir religiosus... religionis Christianae voluit hereticos
extricare...Eodem tempore Iohannes papa, egrotus infirmitate, cum fletu
ambulavit et senatores exconsules cum eo, id est Theodorus, Importunus,
Agapitus excons. et alius Agapitus patricius. Qui hoc accipientes in mandatis
legationum ut redderentur ecclesias hereticis in partes Orientis: quod si non
omnem Italiam ad gladio perderet..."[197].
Come si vede, è
questo un caso in cui l'esito positivo della mediazione contrastava con gli
interessi del mediatore. Difatti, secondo quanto sappiamo dal Liber pontificalis:
"...beatus Iohannes papa cum senatores suprascriptos cum
grandem fletum rogaverunt Iustinum Augustum ut legatio acceptabilis esset in
conspectu eius"[198];
è quindi comprensibile come, sebbene Giustino abbia
riservato al Pontefice tutti gli
onori che spettavano alla sua persona, al
mediatore abbia fatto solo delle concessioni apparenti,
sicchè egli non raggiunse -
o non volle raggiungere - gli obiettivi più importanti della sua
missione, tant'è che al suo ritorno Teodorico lo imprigionò
assieme a tutta la legazione[199].
La discesa dei Longobardi
in Italia trova un papato ormai saldo nella propria posizione politica e nella
propria prassi cancellieresca. Con i Longobardi, se la funzione formalmente
giurisdizionale dei Vescovi sembra arretrare, in compenso cresce a dismisura la
loro importanza politica. Presto re e duchi longobardi si servono dei vescovi
(alcuni dei quali, dal nome, rivelano la loro nazionalità longobarda)
per affidare loro la definizione di importanti controversie. Così
Teodoro e Tachipert, vescovi di Città di Castello, sono successivamente
giudici di una controversia fra Siena e Arezzo[200].
Certo è che la pace del 599 fra i Longobardi e Bisanzio è il
frutto dell'azione politica e del prestigio personale di papa Gregorio il
Grande. Del 595 è una lettera di Gregorio I a Severo, scolastico e
consigliere dell'Esarca, volta a fargli sapere che Agilulfo non ricusava di venire
ad un trattato di pace, insistendo: "...ut
exarchus ad hoc sine mora consentiat", o altrimenti preveda la
possibilità che si addivenga a una pace speciale[201].
Dell'ottobre del 598, è una lettera nella quale il Papa, riconoscendosi petitor et medius della pace fra
l'esarca e Agilulfo, tratta i termini della sua sottoscrizione. Particolarmente
interessante è che in tale occasione i messi di Agilulfo, che giurano la
pace riservandone tuttavia al re la ratifica
"si sibi in quoquam excessum non fuerit", avrebbero chiesto al
Papa di sottoscrivere anch'egli la pace quale garante; ma questi:
"recordantes
eorum quae Agilulfus Basilio, viro clarissimo, per nos in Beati Petri dixisse
fertur injuriam, quamvis hoc penitus idem Agilulfus negaverit, a subscriptione
tamen abstinere praevidimus, ne nos, qui inter eum et exarchum petitores sumus
et medii, si quid forte clam sublatum fuerit, falli in aliquid videamur et
nostra ei promissio in dubium veniat"[202].
Nella prassi diplomatica
della cancelleria romana erano dunque chiari gli stretti confini entro i quali
si doveva mantenere chi voleva
assumere la funzione di mediatore.
Nelle trattative di pace
con Agilulfo, il Papa si servì di un abate di nome Probo. In tale
occasione, come nota il Gregorovius, non si parlò di senatori, nè
si accennò a una qualunque funzione politica del senato di Roma[203].
Anche nei territori
bizantini si era profilata la tendenza ad una autonomia molto spinta, che si
nutriva di interessi locali e che si esprimeva in organismi cittadini e
regionali molto più attenti alla difesa di questi che non di quelli di
Bisanzio. Sta di fatto che nel Liber
pontificalis, all'inizio della vita di Giovanni VIII, leggiamo dell'arrivo
a Roma dell'esarca d'Italia Teofilatto, dell'accorrere in furia della militia totius Italiae in rivolta contro
di lui, della pronta mediazione del Papa che valse a sedare, senza ingiurie
all'esarca, tumultuosam eorum seditionem.
Approfittando di questi frangenti, Gisulfo invade
Nel 742, quando
Liutprando, attaccando l'Emilia e
"Missa
igitur legatione apud iamdictum regem Langobardorum salutaria illi praedicavit.
Cuius sancti viri ammonitionibus inclinatus, praenominatas IIII quas a ducatu
Romano abstulerat civitates reddere promisit"[208].
Poi, non avendo ottenuto
alcun frutto, si mise in viaggio per raggiungerlo di persona:
"Dumque isdem rex
protraheret dilationem ad reddendam iuxta suam promissionem iamfatas IIII
civitates, praenominatus pontifex... ex hac Romana civitate cum sacerdotibus et
clero, perrexit fiducialiter et audaciter ad ambulandum in loco Teramnensium
urbis ubi in finibus Spolitinis ipse resedebat rex".
Il re, saputo del suo arrivo
fin da quando il Papa aveva raggiunto Orte, gli manda incontro Grimoaldo, il
quale conduce Zaccaria a Narni, ove nel frattempo il re invia i suoi duchi con
scorta d'onore. Questi accompagnano la legazione a Terni, ove, dinanzi alla
porta della basilica di S. Valentino:
"Isdem rex cum
reliquos optimates et exercitu suo sanctum virum suscepit, factaque oratione,
mutua salutatione sibi et persolventes, dum divinis cum fuisset commonitus
conloquiis inpensaque caritate, ab eadem ecclesie egressus in eius obsequium
dimidium fere miliarium perrexit".
Il giorno successivo:
"...iterum
convenientes, divina perfusus gratia, Deo placitis ammonitionibus eum est
adlocutus, praedicans ei ab hostili motione et sanguinis effusione quiescere et
ea quae pacis sunt semper sectare. Cuius piis eloquiis flexus, in constantia
sancti viri et ammonitione admiratus, omnia quaequmque ab eo petiit per gratia
Spiritus sancti obtinuit, et praedictas IIII civitates quas ipse ante biennium
per obsessione facta pro praedicto Trasimundo duce Spolitino abstulerat, eidem
sancto cum eorum habitatoribus redonavit viro"[209].
Quali argomenti, in
sostanza, siano stati effettivamente usati nei colloqui fra il Papa e il Re
longobardo non sappiamo, se si esclude l'accenno, riferito dal Liber pontificalis, alla
necessità di astenersi dall'effusio
sanguinis. Certo, Liutprando aveva avuto modo di vedere, proprio nell'anno
in cui era rimasto solo sul trono di Pavia, alla morte del padre Ansprando,
come solo la mediazione del papa Costantino I avesse posto fine al sanguinoso
combattimento sulla via Sacra fra i sostenitori del duca Cristoforo, contro gli
uomini che volevano imporre il duca Pietro inviato a prenderne il posto da un
Imperatore, Filippico, di cui i Romani contestavano la legittimità perchè
hereticus[210].
Sta di fatto che, dopo lungo tergiversare, il re si arrese all'eloquenza del
Papa, restituì all'Impero greco le terre conquistate, e per quanto
riguardava Cesena e il territorio circostante, che erano appunto oggetto delle
trattative, ne tenne in pegno una parte, promettendo di restituirle appena
fossero tornati da Costantinopoli i messi incaricati di trattare la pace con
l'Imperatore[211].
Più tardi, il trono longobardo passò nelle mani di Rachi, duca
del Friuli, e lo stesso Zaccaria ottenne dal nuovo Re la firma di una tregua
ventennale valida per tutta l'Italia[212].
Quando nel 749 Rachi violò il trattato di pace assediando Perugia,
Zaccaria tornò da lui come un tempo era andato da Liutprando, e pochi
giorni dopo Rachi, non solo rinunciava alle sue mire su Perugia, ma dichiarava
di voler deporre la corona e insieme con Tassia, la sua sposa romana, e sua
figlia Rotrude, lasciava gli abiti principeschi sulla tomba di Pietro per
ricevere dalle mani del Papa la veste dei penitenti.
Anche Stefano II venne
invitato a trattare con Astolfo da Costantino V[213].
La sua abilità è subito evidente nel modo in cui riesce a
convincere Astolfo ad un accordo che evidentemente non corrispondeva ai suoi
piani:
"Inter haec vero dum magna persecutio a Langobardorum rege
Aistulfo in hac Romana urbe vel subiacentibus ei civitatibus extitisset et
vehemens eiusdem regis sevitia inmisceret, ilico isdem beatissimus papa, tertio
apostolatus ordinationis suae mense, disponens suum germanum, sanctissimum
scilicet Paulum diaconum, atque Ambrosium primicerium, plurimis cum muneribus
ad eundem Langobardorum Aistulfum regem ob pacis ordinandum atque confirmandum
foedera misit.
Quia
praelati viri ad eum coniungentes, imperitis muneribus, quasi facilius eadem
pro re apud eum inpetrantes, in quadraginta annorum spatia pacti foedus cum eo
ordinantes confirmaverunt"[214].
Astolfo dovette essere
ben presto scontento dell'impegno assunto:
"At
vero isdem protervus Langobardorum rex, antiqui hostis invasus versutia, ipsa
foedera pacis post poene IIII menses, in periurii incidens reatu, disrupit;
multas iamfato sanctissimo viro vel cuncto populo Romano ingerens contumelias,
varias illi minas dirigens"[215].
Ma nel 772 sappiamo che
il papa Adriano I riceve Teodicio, duca di Spoleto, e Tunnone, duca di Ivrea, inviati
da Desiderio amicitiae conciliandae
causa. Questi, al Papa che dubitava della sincerità del Re, confirmant sub vinculo sacramenti quod
eorum rex omnes justitias, quas Stephano papae non fecerat,
pontifici...perficiat et in vinculo Charitati insolubili connexione cum eo fore
permansurum"[216].
Non erano, però,
solo le controversie fra l'Imperatore e il Re longobardo quelle che venivano
all'attenzione del pontefice. Un episodio molto interessante è
l'arbitrato per il castrum di
Gallese, che subiva continui attacchi provenienti dal ducato spoletino.
Gregorio III, secondo quanto ci attesta il Liber
Pontificalis:
"potuit
causam finire et in compage sanctae reipublicae atque corpore Christo dilecti
exercitus Romani annecti praecepit"[217].
Sull'episodio ha attirato
l'attenzione il Bertolini, notando la finezza tecnica dei termini adoperati,
che danno notizia di un atto stilato, nelle debite forme, dalla cancelleria
pontificia. Oggetto dell'atto era la controversia relativa al castrum di Gallese; parti della controversia,
da un lato, il duca Trasamondo II, che ne rivendicava l'appartenenza al suo
ducato; dall'altro, l'exercitus Romanus,
che ne proclamava la spettanza al ducato romano. Le due parti, dopo essersi
disputato Gallese, anche ricorrendo alle armi, avevano convenuto di rimettersi
al giudizio di un arbitro, scelto di comune accordo nella persona del Papa.
Gregorio III pose termine alla controversia compensando il Duca con una somma
di denaro per la rinuncia alle sue pretese e pronunciando una sentenza che, a
conclusione della controversia, aggiudicava il Castrum alla compages
dell'exercitus romanus.
L'episodio è
particolarmente significativo, perchè mette a fuoco i tratti salienti
della realtà politica del momento: un ducato del Regnum Langobardorum e un ducato dell'Impero bizantino che, venuti
a conflitto per una controversia di confine, per tutta la sua durata, dalla
fase in cui si erano combattuti, a quella dei negoziati conclusivi, tengono
fuori della contesa così il re longobardo di Pavia come l'esarca bizantino
di Ravenna. Un Papa che, accolta la richiesta delle parti, esercita funzione di
arbitro fra quelli che appaiono come due potentati capaci di agire in nome e
per conto proprio, e pronuncia una sentenza da entrambe le parti accettata come
valida[218].
E ancora, nel 756,
essendo morto Astolfo per una caduta da cavallo durante una battuta di caccia,
Desiderio, allora duca di Toscana, mise insieme le forze necessarie per
impadronirsi del regno. Allora Rachi, fratello di Astolfo, che si era fatto
monaco a Montecassino, uscì dal convento a capo di un altro esercito per
contrastarlo. Desiderio ricorse allora a Stefano II, promettendo che, qualora
avesse vinto, avrebbe restituito a Roma e alla Chiesa le città che essa
reclamava. Il Papa, consultatosi con l'abate Fulrado, spedì con accurate
istruzioni i diaconi Paolo e Cristoforo a Desiderio, e il prete Stefano a
Rachi. Il risultato della sua interposizione fu che Rachi tornò in
convento, e i Longobardi riconobbero re Desiderio.
Dunque, in capo alla
Chiesa in generale e al pontefice in particolare sembra essersi consolidata
ormai una prassi secondo la quale la sua interposizione veniva normalmente
accettata, quando non serviva a giustificare ripiegamenti politici rispondenti
a più complesse esigenze strategiche. Ma il decentramento e la
polverizzazione della politica internazionale avevano favorito una crescita
della Chiesa quale centro di un potere politico per il quale, ora, esse rappresentavano,
nello stesso tempo, un pericolo. La stessa translatio
imperii, preparata dal viaggio di Stefano per il regno dei Franchi, nel
757, forse con la falsificazione costantiniana appena uscita dalla cancelleria
ecclesiastica, può essere riguardata nell'ottica dell'esigenza della
Chiesa di contrastare quel pericolo e costituire una affermazione definitiva
così della posizione superlativa del Pontefice rispetto agli altri
Vescovi come dell’unità della Chiesa.
Il re, infatti, comincia
a rivendicare una titolarità dei
gratia del suo regno, come emerge chiaramente da quanto scrive Eginardo:
"Pippinus, missa Romam legatione, Zachariam papam interrogat
de regibus Francorum ex antiqua Merovingicarum stirpe descendentium, qui reges
quidem dicebantur, sed potestas regni tota apud maiorem domus habebatur,
excepta quod cartae et privilegia regis nomine scribebantur et ad Martis
campum, qui rex dicebatur, plaustro bubus trahentibus vectus, atque in loco
eminenti sedens, semel in anno a populis visus, publica dona sollemniter sibi
oblata accipiebat"[219].
Quali che siano state in
questa occasione le motivazioni politiche del papato, è certo che esso
affermò inequivocabilmente, come principio della politica
internazionale, il principio di effettività:
"Zacharias Papa ex auctoritate sancti Petri apostoli mandat
populo Francorum ut Pippinus, qui potestate regia utebatur, nominis quoque
dignitati frueretur. Ita Hildericus rex, qui ultimus Meroingorum Franci
imperavit, depositus et in monasterium missus est. Pippinus vero in civitate
Suessionum a Sancto Bonifacio archiepiscopo in regem unctus, regni honore
sublimatus est"[220].
D'altra parte,
l'interposizione della Chiesa veniva adoperata anche fra i grandi poteri che
ormai si fronteggiano a eguale titolo:
"Imperator, Amalharicum, Trevirensem Episcopum et Petrum
abbatem monasterii Nonantulas propter pacem cum Michaele Imperatore
confirmandam Constantinopolim misit. Hludovicum filium coronavit[221].
Un contributo importante,
alla definizione del quadro tratteggiato, viene dalle tumultuose vicende che
accompagnarono la successione di Ludovico il Pio. Ludovico aveva, nell'817,
convocato nel palazzo imperiale un sacrum
conventum, una assemblea generale che devote
ac fideliter discutesse il progetto della ordinatio Imperii da
lui presentato in vista delle utilitates
da raggiungere per tutti. Il principio doveva essere quello della unitas, che non negava l'esistenza di
singoli reges purchè Imperio subiecti. La figura
dell'Imperatore era indispensabile ad
perpetuam pacem del popolo cristiano[222].
Fulcro e strumento di tale unità e pace era la continuità
dinastica, che infatti venne in tale contesto regolata. Cionondimeno, nella
patrimonializzazione del potere ormai affermatasi[223],
la compagine territoriale dell’Impero viene appunto divisa alla stregua
di un patrimonio. Il secondo matrimonio di Ludovico con Giuditta di Baviera,
alla morte di Irmingarda (3 ottobre 818), dando luogo alla necessità
inserire anche il figlio di lei – Carlo il Calvo – nella già
definita spartizione, non poteva, in questa ottica, che portare ad una crisi
politica.
Del peso determinante
avuto nella soluzione di questa crisi dal Pontefice ci dà uno spaccato
dettagliato la Vita Walae. L'opera fa
cenno anzitutto delle rapinae e obpressiones
cui dava luogo la controversia fra i pretendenti. Quindi afferma che la pace
non si sarebbe raggiunta senza l'interposizione del Pontefice, di cui descrive
le fasi salienti. Sappiamo quindi dell'arrivo dei missi apostolici i quali:
“detulerunt epistolas ex omni auctoritate gravidas...pro
pace, pro reconciliatione patris et filiorum, principis et seniorum, pro statu
ecclesiarum, pro adunantia populi et salvatione totius Imperii”[224].
Poichè oltre a
Lotario, che si trovava in Italia a contatto con il Pontefice, erant autem et alii ex parte filiorum pro
eis rogantes eum ut illis suis
succurreret consiliis, qui jam pro eis multa pertulisset, il Papa (Gregorio
IV) si risolse a recarsi in Francia per cercare di riportare la concordia fra
interessi tanto profondamente divergenti[225].
Tuttavia, a questo punto le cose si erano notevolmente complicate, e vi era
stato un pericoloso voltafaccia anche sull'opportunità della
interposizione papale rispetto ad una soluzione lasciata all'esito di uno
scontro armato; qui viene testimoniata chiaramente la coscienza della
connessione fra mediazione e intervento politico:
"terrebatur autem...ab Augusto et ab omnibus suis etiam ab
episcopis, qui sibi pridie quam venissemus dextra dederant, quod manibus esset
ad resistendum his qui ex adverso erant, regibus filiis, principibus et
populo".
Addirittura, per evitarne
l'influenza, vi era chi parlava di deporre il Papa, che si intrometteva in base
ad una iniziativa che non era stata di tutti gli interessati:
"...insuper
consiliabantur firmantes...quod eundem apostolicum, quia non vocatus venerat,
deponere deberent".
Ed è proprio a
questo punto che troviamo un affermazione esplicita e apodittica della
potestà funzionale del Pontefice:
"Unde et ei dedimus nonnulla sanctorum patrum auctoritate
firmata, praedecessorumque suorum conscripta, quibus nullus contradicere
possit, quod eius esset potestas, immo Dei et beati Petri apostoli, suaque
auctoritas, ire, mittere ad omnes gentes pro fide Christi et pace ecclesiarum,
pro praedicatione evangelii et assertione veritatis et in eo esset omnis
auctoritas beati Petri excellens et potestas viva, a quo oporteret universos
iudicari, ita ut ipse a nemine iudicandus esset”[226].
Anche la messa in stato
d'accusa e la successiva deposizione dell'imperatore Lodovico il Pio, si
svolgono su di un piano religioso. Esse seguono alla admonitio e alla correptio attuata dai vescovi sive verbis sive scriptis, e prendono la
forma della Chartula reatuum, redatta
da Agobardo[227].
Il seguito della cronaca ci dà conto delle trattative fra il Pontefice e l'Imperatore, ove
questi, evidentemente sobillato dai consiglieri di cui si è fatto cenno
prima, resiste alle proposte del Pontefice facendogli notare di non averlo
chiamato lui a svolgere opera di pacificatore. La risposta del Papa è
indicativa del tenore mantenuto dalla interposizione papale pur in frangenti
così difficili:
"Nos bene venisse scias, quia pro pace venimus et
concordia, quem auctor salutis nostrae nobis reliquit; et mihi paedicanda
universis commissa est, et proferenda omnibus. Idcirco, imperator, si nos et
pacem Christi digne susceperis, requiescet in vobis ipsa, necnon in regno
vestro; sin autem pax Christi ad nos revertetur, uti legistis in evangelio, et
nobiscum erit"[228].
Nonostante la presenza di
un forte partito che propendeva per una soluzione bellica della crisi, sappiamo
che gli eserciti di Lodovico e Lotario, schierati tra Rothfeld e Ingolsheim si
astennero, per il momento, dall'entrare in conflitto. Ma più che l'esito della interposizione
del Pontefice (sappiamo che l’Imperatore in una assemblea riunita a
Soissons fu costretto a umiliarsi riconoscendo pubblicamente le proprie colpe e
a rinunciare alla corona imperiale che solo in un secondo momento riuscì
riconquistare), quello che balza in evidenza è la funzione eminente di
guida dell'Europa cristiana che egli ormai rivendicava e che gli veniva
riconosciuta. Perciò, anche quando la controversia si riaccese, alla morte di
Lodovico il Pio, il Pontefice ripropose la sua mediazione, sebbene senza successo. Così se dagli Annales fuldenses sappiamo che:
"Arsenius
episcopus, Nicolai romani pontificis legatus, ob pacem et concordiam inter
Hludowicum regem et nepotes eius, Hludowicum videlicet Italiae imperatorem et
Hlotarium frater eius, renovandam missus est in Franciam"[229],
nel Chronicon di Reginone
dello stesso fatto si dice:
“Anno dominicae incarnationis 866 Arsenius episcopus,
apocrisiarius et consiliarius Nicolai papae, vice ipsius directus est in
Franciam; quo perveniens tanta auctoritate et potestate usus est, ac si idem
summus praesul advenisset”[230].
Nell'anno 860 quando a
Coblenza i figli di Ludovico il Pio, Luigi II di Francia, Carlo II di Germania
e Slavonia, concludono un trattato di amicizia con i figli di Lotario I,
Lodovico imperatore dei Romani e re di Lombardia, Lotario re di Lorena e Carlo
re di Borgogna e Provenza, è una assemblea di vescovi che si fa
promotrice del trattato[231].
E' presente nel documento, oltre a un accenno alla fraterna concordia sine qua nullus christianus salvus esse non
potest, anche un chiaro riferimento al fatto che le proposte di pace
sarebbero state elaborate con la collaborazione dei vescovi, i quali quindi,
oltre a stimolare le trattative sembra abbiano fatto anche da filtro delle
diverse proposte, svolgendo una attenta e paziente opera diplomatica. Nella Adnuntiatio Domini Karoli si legge
infatti:
“Post hoc laboravit, adiuvante Domino, iste carissimus nepos
noster, ut inter nos pax fieret, sicut per rectum esse debet, et ut monentibus
Episcopis ad illam charitatem et fraternam concordiam rediret sine qua nullus
Christianus salvus esse non potest” [232].
La funzione di
interpositore si cela chiaramente dietro l'allusione all'admonitio dell'organo della Chiesa. E questa si connette con la
funzione che essa ritiene esserle propria.
Già nella relatio ad Ludovicum Imperatorem, dell’820,
i Vescovi franchi si erano richiamati direttamente alla propria funzione di sacerdotes Domini, qui sunt mediatores inter
Deum et homines, per quos homines Deo reconciliantur[233]. La stessa emerge chiarissima nella pace
fatta nell' 864, quando, secondo il racconto dell'anonimo :
"Hludovicus
et Karolus reges et fratres apud Dusiacam villam mense Septembri convenientes,
foedus ineunt et quicquid inter eos levitate humana vel suggestione militum
perperam gestum fuerat, sibi mutuo dimittunt, cuncta retro oblivioni tradenda
censentes. Huius autem foederis pactum inviolabiliter omni tempore conservandum
testes et admonitores idonei ex utraque parte statuuntur. Nam Hludovicus ex
parte Karoli Hincmarum, Remensem episcopum, et Engilramnum comitem, Karolus
vero ex parte Hludovici Liutbertum archiepiscopum et Altfridum antistitem
elegit, ut si forte ab aliquo eiusdem pacti iura laederentur, his admonentibus
et gesta priora ad memoria revocantibus, facilius in pristinum statum reformari
possent[234].
Qui gli admonitores sono detti anche testes. La cosa è degna di nota
perchè come fu rilevato a suo tempo, nel suo significato primitivo e
nell'uso posteriore della parola, il concetto di arbiter è strettamente connesso a quello di testis[235].
Nel testo citato, che appare come una vera e propria clausola di previsione di
una commissione di conciliazione, la testimonianza si immedesima con la
mediazione, con l'ufficio di chi contribuisce a che la forza non sia usata,
proprio perchè conoscendo i termini dei fatti e degli accordi pregressi
fra le parti, spende la propria autorità per farne, fra loro, opportuna
testimonianza[236].
[1]
L'immagine "catastrofica" tradizionale è ormai rifiutata dalla
storiografia recenziore. A partire dalla fine del II secolo fu iniziata e poi
largamente generalizzata la pratica degli insediamenti di gruppi di Barbari
nelle zone limitanee e deserte, ove si formavano delle isole di
soldati-contadini agli ordini di prefetti o tribuni romani. Va anche ricordata
la germanizzazione, sempre più rapida, dell'esercito di manovra nel
quale, alla fine del IV secolo, i Germani raggiunsero i più alti gradi
della gerarchia militare. La grande novità del V secolo fu dunque di
natura quantitativa e qualitativa, perché furono interi popoli a stanziarsi
entro i confini dell'Impero, senza esserne assorbiti, ma mantenendovi i loro
capi, la loro organizzazione, le loro consuetudini. Cfr.per tutti , in
proposito, E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, Roma
1995, I, 52 e ss.;.R. FOLZ, A.GUILLOU, L.MUSSET, D.SOURDEL, Origine e formazione dell'Europa medievale, tr. it., Bari, 1975,
18-19; V. BELLINI, Sulla formazione e i
caratteri del sistema internazionalistico dell’alto Medioevo occidentale,
in Diritto internazionale, 1969,
58 e 60-64.
[2] Nel
[3] La tesi,
già sostenuta da B. PARADISI (I
fondamenti storici della comunità giuridica internazionale, in Civitas Maxima. Studi di storia del diritto
internazionale, Firenze MCMLXXIV, I, 46) e ripresa da V. BELLINI (op. cit., 34, 38), non è
condivisa da G. VISMARA, Le fonti del
diritto romano nell'alto medioevo secondo la più recente storiografia
(1955-1980), in Proceedings of the
Sixth International Congress of Medieval Canon Law (Berkeley, California,
28 july-2 august 1980), ed. S. Kuttner e K. Pennington, Città del
Vaticano, 1985, 167. Per R. AGO (Il
pluralismo della societa' internazionale alle sue origini, in Studi in onore di Giorgio Balladore Pallieri,
II, Milano 1977, 3 dell'estratto), la stessa eliminazione dell'Impero
d'Occidente, in sè e per sè, non appare se non come un fenomeno
secondario.
[5] Il problema, come è noto, fu posto da H. MITTEIS,
Reichsrecht und Volksrecht in den
östlichen Provinzen des Römischen Reichs, Leipzig, 1891.
[6] Vedi, in
tal senso, A. PIGANIOL, Histoire de Rome,
Paris, 1949, 325 e 427; cfr. V. BELLINI, op.cit.,
39.
[8] Queste
avevano subito una progressiva frantumazione: mentre sulla fine della
repubblica erano 16, nel 297 erano 95 e sulla fine del V secolo 112. Vedi G.
PACCHIONI, Corso di diritto romano, I,
Storia della costituzione, 1918, 330; E ALBERTINI, op. cit., 389.
[12] Di tale
a. si vedano, Il particolarismo europeo
nell'alto Medioevo, in Questioni di
storia medievale, Milano-Como, 1946, 25 e ss.; Dall'unità romana al particolarismo giuridico del Medioevo
(Italia, Francia, Germania), Pavia, 1936; L'ordinamento provinciale romano nei suoi rapporti coi regni
romano-germanici della Gallia, in Studi
in onore di P. Bonfante, IV, Pavia, 1930; Le magistrature romane dei regni romano-germanici della Gallia, in Atti del II congresso nazionale di Studi
romani, I, Roma, 1931, 542-547.
[14] K-F. WERNER, Naissance
de la noblesse. L’essor des élites politiques en Europe, tr.
it. Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élites
politiche in Europa, Torino 2000, 206.
[16] Gli
Arabi, in Spagna, avrebbero chiamato Kura
le ripartizioni territoriali amministrative. La parola viene evidentemente da cwra, termine
con cui veniva indicato il distretto bizantino. Nei fatti, i Kura ricalcano i ducati e le contee
visigote. Vedi E. LÉVI- PROVENÇAL, Histoire de l'Espagne musulmane,
Paris-Leiden, 1950, III, 48.
[19] E.
CORTESE, Il diritto, cit., I, 56.
Bisogna però dire che Cortese non è tanto interessato a definire
i rapporti “internazionali” dei Regna,
quanto a indagare l’ambito di efficacia della lex romana Wisigothorum.
[22] La fonte
citata, tuttavia, (TACITO, Annali,
II, 44 ss.) attesta solo che fra due condottieri germani di pari valore, il
nome di re adottato dall’uno, faceva preferire l’altro.
[23] Un ex
generale romano d’Oriente in vena di ribellione, avanzato guerreggiando
con un altro generale romano d’Occidente: tale, ad esempio appare Alarico
a E. CORTESE, Il diritto nella storia
medievale, I, cit., 53
[24] B.
PARADISI, Il significato e l'importanza
dell'epoca di transizione dall'antichità al Medioevo per la storia del
diritto internazionale, in Civitas Maxima, cit., II, 835. Ad una
indipendenza effettiva da Bisanzio sembra pensare anche M. LUPOI, Alle radici del mondo giuridico europeo,
Roma, 1994, 312-313.
[25] D. OBOLENSKY, The
[26] Cfr. G.
VISMARA, Problemi storici e istituti
giuridici della guerra altomedievale, in Scritti di Storia giuridica, Milano, 1989, 7, 485.
[27] Proprio
G. VISMARA, Problemi storici, cit.,
(lo scritto comparve originariamente in Ordinamenti
militari in Occidente nell’alto medioevo, Settimane di studio del
Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1968, 1138) lamentava la mancanza di
un’esposizione sistematica delle fonti medievali tesa alla ricostruzione
delle norme alle quali si attenevano, nelle loro relazioni intersoggettive, le
varie entità politiche di quei tempi. A questa lacuna egli addebitava in
larga misura il mancato sciogliersi delle pur grandi difficoltà inerenti
ad ogni ricerca storica sul “diritto internazionale del Medioevo”.
[28]
Già CESARE, De bello gallico,
VII, 31, ci indirizza in questo senso, dandoci notizia del fatto che il re dei
Nitiobrogi aveva ricevuto il titolo di amicus
dal Senato romano.
[29] M.
SCOVAZZI, Le origini del diritto
germanico. Fonti - preistoria - diritto pubblico, Milano 1957.
[30] OROSIO, Hist. adv. pag., V, praef. Lo stesso Orosio (VII, 43, X)
attribuisce ad Ataulfo l'affermazione che egli da giovane aveva tentato di
sostituire
[31] Vedi
IOANNIS LYDI, De Magistratibus, in Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, Bonnae,
MDCCCXXXVII, 224 ss. Alla differenziazione
dà molto rilievo V. BELLINI, op.
cit, 62 ss.
[34]GIORDANIS, De origine actibusque getarum, XXVI, in
M.G.H., AA, V, 94; anche in L.A.
MURATORI, Rerum italicarum scriptores, I,
1, 204; MIGNE, P.L., LXIX.
[36]
«…l’elaborata diplomazia di Giustiniano fu responsabile in
larga parte del fatto che il basso Danubio, anche se frequentemente invaso da
Bulgari e Slavi, rimase durante il suo regno un effettivo confine politico».
Così OBOLENSKY, op. cit., 69.
[37]
Così è del tributo versato ad Attila dall'imperatore d'Oriente,
di trecentocinquanta libbre d'oro, che venne, secondo Prisco, più che
raddoppiato. L'Impero era in quel momento in guerra con i Persiani e i Vandali.
Sicchè l'Imperatore si rassegnò a negoziare e accettare un
trattato molto umiliante. Il tributo venne portato a
[38]
L'origine stessa dell'istituto sarebbe, per il V. BELLINI, op. cit., 191, celto-germanica; Roma, pertanto, avrebbe sempre
cercato, finchè possibile, di evitarlo o sostituirlo con la deditio. Il Bellini distingue quattro
specie di foedera: a) il foedus qualificato, da parte del potere
barbarico stipulante, da un dovere di provvedere alla difesa esterna
dell'Impero. L'Impero si impegnava, da parte sua, a fornire aiuti finanziari e
in natura. Questo era un rapporto "esterno" anche nel senso
territoriale, perchè i Barbari restavano nelle loro sedi; b) il foedus con il quale il potere barbarico
si impegnava a fornire contingenti per la difesa dell'Impero dall'interno: le
truppe barbariche erano immesse nell'organizzazione militare romana, sotto il
diretto comando dei capi nazionali, sottoposti a loro volta alle magistrature
romane; c) il foedus di stanziamento
in forza del quale comunità barbariche prendevano possesso di una certa
regione posta all'interno dell'Impero per coltivarla e difenderne i confini. La
nuova condizione giuridica veniva assunta
mediante un patto liberamente stipulato. Tali comunità tanto più
erano forti politicamente e tanto più tendevano a prevalere anche come
nazione, quanto più erano numerose; d) il foedus stipulato con i capi dello stesso exercitus barbaro. Del tipo sub
c) sarebbe stato lo stanziamento dei Longobardi in Pannonia di cui parla Procopio (De bello got., III, 33). Vedi G.P. BOGNETTI, S. Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei
Longobardi, Milano 1948, 413. Secondo il Bognetti, sin dalla Pannonia si
erano staccati dalla massa dei Longobardi gruppi di armati (sono questi che il
Bognetti individua come fare) che si
erano fatti ingaggiare dai Romani come truppe federate.
[39]
G.P.BOGNETTI, La costituzione e
l'ordinamento dei primi Stati barbari nell'Europa occidentale dopo le invasioni
della Romania, in Dalle tribù
allo Stato, in Acc. Naz. dei Lincei, quad. 54, 67 ss.
[40] Il
vocabolo utilizzato dai più antichi testi giuridici in lingua
anglo-sassone per designare il re è cyning.
Presente in tutte le lingue germaniche – nelle quali avrebbe dato
origine ai termini König, king,
koning, konung, esso deriverebbe
dalla radice kun, cioè razza,
famiglia, con un campo semantico evidentemente molto diverso da quello di rex. é.
BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, Paris, 1969, II, I, 1, connette quest’ultimo
con la funzione di tracciare la regula, laddove
il primo sembrerebbe legato alla supremazia su di una stirpe.
[42] Lo nota
E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di
Stato, Cagliari 1970, ora in rist. Milano 2002, 122. Nello stesso Grozio, a
dire il vero, sarà adombrato il concetto che si debba avere riguardo
anzitutto al dominio relativo alle persone, e solo in secondo luogo a quello
relativo al territorio: "imperium
duas solet habere materias sibi subiacentes, primariam personas, quae materia
sola interdum sufficit ut in exercitu virorum, mulierum, puerorum quaerentes
novas sedes et secundariam locum qui territorium dicitur". Vedi H. GROTIUS, De
jure belli ac pacis, Amsterdam, 1632, II, IV, 4.
[44] Vedi W. PREISER, voce
Völkerrechtsgeschichte, in STRUPP-SCHLOCHÄUER, Wörterbuch des Völkerrechts,
vol. III, Berlin 1962, 688.
[45] Vedi, ad
esempio PAULI DIACONI Historia
Langobardorum, II, 31-
[47] Vedi
quanto PROCOPIO (De bello gothico, ed.
Dindorf, Bonnae, 1833, IV, 16, 2) dice di Gubaze, re dei Lazi, il quale svolge
una politica autonoma; ovvero (ibidem, IV,
4) degli Zechi, sul Ponto Eusino, "..de'
quali un tempo il re era nominato dall'imperatore romano. Oggidì
però quei barbari non ubbidiscono in nessuna cosa ai Romani".
[48] Il
significato originario del Bund che,
pur lasciando inalterati i principi fondamentali della Sippe, era però in grado di superare i motivi di contrasto
fra le varie stirpi, ai fini di una difesa dei valori e degli interessi comuni,
è stato illustrato in particolare da M. SCOVAZZI, op. cit., 251.
[49] Il
comandante imperiale di Lazika ricevette una richiesta di protezione e alleanza
da parte degli Avari tramite i buoni uffici del re degli Alani. Vedi OBOLENSKY, op.
cit., 70.
[50] C. DIEHL - G. MARÇAIS, Histoire du Moyen Age, III, Le
monde oriental de
[52] In tal
senso FOLZ, op. cit., 28. Sulla
politica unna vedi THOMPSON, Storia di
Attila e degli Unni (tr. it.), Firenze 1936; F. ALTHEIM, Geschichte der Hunner, Berlino 1959.
[53] Cfr. C. D'ESZLARY, L'organisation
de la paix dans les empire des steppes, in
[54] In tema
vedi C. DAWSON, La formazione
dell'unità europea dal secolo V al secolo IX, Torino, 1939.
[55]
CASSIODORO, Variae, III,1,2,3,4;
V,43,44. Su ciò vedi P. BREZZI, La
civiltà del Medioevo europeo, Città di Castello, 1978, I, 46.
[56]
Così quella inviata nel 477 da Odoacre a Costantinopoli per presentare
le richieste del nuovo potentato d'Italia all'imperatore Zenone. L'ambasceria,
composta di senatori, avrebbe detto che un solo Imperatore era sufficiente per
tutto l'Impero, mentre al governo dell'Italia poteva badare Odoacre, che
chiedeva per sè il titolo di patricius.
Vedi V.von FALKENHAUSEN, I rapporti dei
ceti dirigenti romani con Costantinopoli dalla fine del VI secolo, in Il mondo del diritto nell'epoca
giustinianea, caratteri e problematiche, Ravenna 1985, 66-67.
[61] PROCOPIO, De bello
goth., III, 33. Da parte dell'Impero, il riconoscimento della Gallia sarebbe stato
connesso alla necessità di ottenerne l'appoggio contro i Goti.
[62] E’
nota, sul punto, la tesi di H. PIRENNE, Maometto
e Carlomagno, (tr. it.) Roma-Bari, 1976,
[65] Al
principio – non altrettanto riconosciuto nel mondo islamico (K.-H.
ZIEGLER, op. cit., 78), accenna Isidoro di Siviglia, Etymologiae, 5,6.
[68] PRISCO, Ambasceria, ed. Manzi, cit., 15. Nessun
credito viene più accordato alla identificazione degli Acatziri con gli
Agathyrsi o con i Cazari. E.A. Thompson, The Huns (Peoples of
[69] HYDATII
LEMICI, Continuatio Chronicorum
Hieronymianorum, in M.G.H., Chronica
minora, II, 22, 100 (a.431). A V. BELLINI, op. cit., 52, che fa cenno dell'episodio, non pare che si possa
parlare di azione propriamente mediatrice in quanto non si sarebbe trattato di
rapporti fra terzi.
[71] "Tanto da noi sia detto con
semplicità barbarica, povera di parole, non proporzionata alla
gravità della cosa":
queste parole, fors'anche un poco ironiche, messe da PROCOPIO (De bello goth., III, 34) in bocca
all'ambasciatore longobardo dimostrano la consapevolezza della
superiorità bizantina nel campo della guerra verbale; ma bisogna pur
sempre ricordare che per i Barbari era quella delle armi la misura in base alla
quale si valutava un uomo.
[73] Il
termine usato da Procopio è diélusan.
Su questa ambasceria, vedi G.P. BOGNETTI, S.
Maria, cit., 30 ss.
[77] Secondo PROCOPIO, De bello goth., I, 1, lo stanziamento
sarebbe stato provocato dal fatto che dopo essersi, per un foedus con l'Impero, stabilito nella Tracia coi suoi Goti,
Teodorico, già patrizio di Bisanzio (ove aveva raggiunto la carica consolare),
si era levato in armi contro l'Impero. Giustino, allora, per stornarne la
minaccia gli avrebbe proposto di essere principe dei Romani e degli Italiani
tutti. Per Giordane, invece, Romana, c.LVII, 347, Getica, c. 290, ed. Th. Mommsen, in M.G.H., A.A.,V,1, 35, 132 ss.; i Getica
anche nell’ed. Giunta-Grillone, 20.
[78] Sul
punto, a dire il vero, la dottrina non è affatto concorde. Secondo M.
CARAVALE, Ordinamenti giuridici, cit., 40 ss., non si potrebbe negare la
continuità dell’ordinamento giuridico tradizionale della natio germanica. Il patriziato del re
sarebbe stato funzionale all’appropriazione, da parte del rex germanico, della res privata principis. Contra vedi E. CORTESE, Il diritto, I, 75 ss.
[79] AGNELLO
RAVENNATE, Excerpta, in M.G.H., A.A., Chronica minora, I, 321, XI. Sul
punto, V. BELLINI (vedi op. cit.,
217) rifiuta la tesi, già avanzata dal Mommsen e accettata dallo Schmidt, che la
creazione del regno romano-barbarico della penisola italica fosse opera di
Odoacre e che con Teodorico avvenisse solo uno scambio di persona. Questo,
secondo l'a. citato, potrebbe essere vero prima degli accordi con Anastasio.
Dopo di essi, contrariamente a
quanto era accaduto con Odoacre, il potere di Teodorico sarebbe stato
riconosciuto dall'Impero. In ogni caso, bisogna ricordare che i Goti
confermarono re Teodorico senza attendere le mosse dell'Impero: vedi Chronica minora, II, 49. A nostro
avviso, le espressioni di ossequio del re goto nei confronti dell’
imperatore non implicano la sua soggezione sul piano internazionale: di fatto
esso esercitò un potere autonomo e indipendente. Cfr. F.-L. GANSHOF, La
paix aux tres haut Moyen Age, in La
paix, cit.,397.
[80] G.
ASTUTI, Note critiche sul sistema delle
fonti giuridiche nei regni romano-barbarici dell'Occidente, in Tradizione romanistica e civiltà
giuridica europea, Napoli, 1984, I, 17. Al contrario, per E. CORTESE, Il diritto, cit, I, 86, il popolo goto
doveva avere imparato un poco alla volta a usare il diritto privato romano
attraverso l’ edictum Teoderici.
[84]
Così, per esempio, scrive a Luduin, re dei Franchi: "...illum et illum legatos nostros ad
excellentiam vestram consueta caritate direximus, per quos et sospitatis
vestrae judicium ed speratae petitionis consequamur effectum". Vedi
M.G.H., Cassiodori Variae, II, XLI,
73; ma anche ivi III, 1-4, 78-81.
[86] Cfr. L.
BUSSI, La successione femminile nei feudi imperiali: il caso di Margherita
Maultasch, in Orientamenti civilistici e Canonistici sulla
condizione della donna, Napoli 1996 (Atti del Seminario internazionale di
Roma 28-29 ott. 1991), 43 ss.
[87] Ad
esempio, i faraoni Tutmesi IV e Amenofis III, nel concludere trattati di
amicizia con i re di Mitanni, li rafforzano sposandone le principesse. Vedi J. PIRENNE, L'organisation
de la paix dans le proche-orient aux 3e et 2e millenaires, in La paix. Recueils de la société
Jean Bodin pour l'histoire comparative des institutions, 1961, I, 213-214.
[88] Vedi
POLIBIO, XI,34,8; XV,25,13; XV,34. Sul punto
cfr. E. BIKERMAN, Institutions des
Seleucides, Paris 1938, 29-30; C. PRÉAUX, op. cit., 298-299. Ne fa testimonianza anche CESARE, De bello gallico, I, 18, che ci spiega
come Dummorige "...magnum numerum
equitatus suo sumptu semper alere et circa se habere, neque solum domi, sed
etiam apud finitimas civitates largiter posse atque huius potentiae causa
matrem in Bituringibus homini hillic nobilissimo ac potentissimo conlocasse;
ipsum et Helvetiis uxorem habere, sororem ex matre et propinquas suas nuptum in
alias civitates collocasse".
[89] Sarebbe
stato anzi proprio al fine di avere ragione della resistenza opposta dalla
Corte di Bisanzio verso questo matrimonio che Attila si sarebbe rivolto contro
l'Italia. Vedi F. GREGOROVIUS, op. cit.,
I, 131-132; cfr. E. ALBERTINI, op. cit.,
423.
[90] M.G.H., Cassiodori Variae, cit. V, XLIII. Per H.
TRIEPEL, L'egemonia, tr. it., Firenze
1949, 540, nella politica di Teodorico si ravviserebbe per la prima volta
l'allacciamento di relazioni familiari adoperato come strumento di politica
egemonica. La tesi (vedi nota precedente) pare eccessiva. Resta il fatto che
Teodorico annetteva a questi matrimoni un dichiarato significato politico. Si
veda peraltro quanto Procopio dice di Ermengisclo, re dei Varni, che per
consolidare il suo regno aveva preso in moglie la sorella di Teodiberto, re dei
Franchi, poichè era morta la moglie precedente, dalla quale aveva avuto
un solo figlio; questi, sempre al fine di rafforzare il regno con alleanze
sicure, era stato da Ermengisclo promesso ad una principessa brettone, sorella
del re degli Angli. Sentendo che si approssimava una morte prematura, il re
impone al figlio di rinviare la promessa sposa e sposare invece la matrigna,
onde mantenere l'alleanza con un popolo più vicino e più forte.
PROCOPIO, Guerra got., IIII, 20;
GREGORIO DI TOURS, II, 1, dal canto suo ci dice come Amalarico, figlio di
Alarico, re di Spagna, desiderando allearsi con principi potenti, quali
mostravano di essere i Franchi, ne chiede una principessa in matrimonio. Gli
esempi potrebbero continuare. Il fenomeno è rilevato anche da L.
GENICOT, La noblesse dans la
société médiévale, in La noblesse dans l'Occident médiéval, London, 1982,
544.
[91] Si veda
ad esempio l'intreccio di matrimoni e relazioni familiari (di cui Paolo Diacono
ritiene interessante rendere conto), di Wacho, di cui si dice che ebbe tre
mogli, una figlia del re dei Turingi, l'altra figlia del re dei Gepidi,
l'ultima del re degli Eruli; delle figlie, invece, la prima avrebbe sposato il
re dei Franchi. Vedi PAOLO DIACONO, I, 21. Che nell'alto medioevo barbarico la
donna occupasse un ruolo ben più rilevante di quello attribuitole nelle ricostruzioni
storiche tradizionali è del resto la tesi sostenuta validamente da M. T.
GUERRA MEDICI, I diritti delle donne
nella società altomedievale, Napoli, 1986, 65 ss.
[94] Vedi
(Auct. inc.), Historia miscella, XV,
in L.A. MURATORI, Rerum Italicarum
Scriptores, I, 1, 102: "Hormisda
vero, Romanus episcopus, fatigatus a Teodorico, Vitaliano favente, Ennodium
Episcopum misit et Vitalianum Archidiaconum ad Synodum celebrandam apud
Heracleam", cioè convinse il Papa a mandare suoi legati a
Costantinopoli; a riprova dell'empietà dell'Imperatore, viene addotto il
fatto che questi "pacta trasgrediens, clam intimavit Romano Papae ne
veniret". Sappiamo peraltro che, sempre per i buoni uffici di
Teodorico, la cosa riuscì sotto Giustino.
[95] Lettera
ad Alarico, re dei Visigoti, in M.G.H., Cassiodori
Variae, III, 1, 78; In tema cfr. V. BELLINI, Sulla formazione, cit., 32 ss.
[99] CESARE, De bello gallico, VI, 3, ci attesta che
i Druidi si avvalevano dell’arbitrato: "...fere de omnibus controversiis publicis privatisque … si quis aut
privatus aut populus eorum decreto non stetit, sacrificiis interdicunt".
Così nelle leggi di Clotario e Eadrico
(che citiamo qui nella traduzione di F. LIEBERMANN, Die Gesetze der Angelsachsen, Aalen, 1960, I, text und übers.,
10) si legge:"Wenn jemand einen anderen bezichtigt, nachdem dieser ihm
einen Bürgern bestellt hat, so
sollen sie binnen 3 Nächten darauf sich einen Schiedsrichter aufsuchen
(ausser wenn später Termin demjenigen lieber ist, der die Klage erhebt);
nachdem die Streitsache entschieden ist, erfülle der beklagte Mann in 7
Nächten dem anderen das Urtheil, passe es ihm in Werthzahlung oder durch
Reinigungs - Eid welches von beiden ihm dem Beklagten lieber sei. Wenn er aber
das beides zu geloben weigert, so zahle er dann 100 Schilling ohne fernere
Berechtigung zum Eid, sobald eine Nacht über den Schiedsspruch vergangen
ist". La figura dell'arbitro, nel testo originario, è indicata con
il termine Saemend, che per il Liebermann (vedi op. cit., III, 21) indica
un concetto di giudizio, legato però a un tempo "bevor es
Staatliche Organisation gab, als nach Verstrauenmänner, von den Parteien
zu Schiedsrichtern ernannt wurden oder mächtige Männer vermittelten
und Schlichteten". Tradizionalmente il Saemend sarebbe dunque un arbitro - mediatore
fra le famiglie sul punto di venire alla faida. Cfr., sul punto V. RIVALTA, I giudizi d'arbitri. Saggio di legislazione
e giurisprudenza antica e moderna, Bologna 1885, 175.
[103] Fr. DOELGER,
Regesten der Kaiserurkunden des Oeström. Reiches, I, Muenchen u.
Berlin 1924, n. 240 (a.678), 28.
[105]
“…per Dei omnipotentis nomen
et inseparabilem Trinitatem vel divina omnia ac tremendum diem iudicii”
Ibidem.
[107] P.W.A. IMMINK, At the Roots of Medieval Society, in Instituttet for Sammlegende Kulturforskning, XXIV, 1958, 53.
[108] Vedi H. THIEME, Friede
und Recht im mittelalterliche Reich, in Ideengeschichte
und Rechtsgeschichte. Gesammelte
Schriften, Wien 1986, 213; cfr. F. CALASSO, Medioevo del diritto, cit., 124.
[109] M.
SCOVAZZI, Le origini del diritto
germanico, cit, 276-277. Una conferma in CESARE, De bello gallico, VI, 3: "Quibus
ita est interdictum, hi numero impiorum ac sceleratorum habentur, his omnes
decedunt auditum sermonemque defugiunt ne qui ex contagione incommodi accipiant
neque iis petentibus ius redditur neque honos ullus communicatur".
[110] O. BRUNNER, Land
und Herrschaft, Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte
Österreichs in Mittelalter, 5a ed., Wien, 1965, 17 ss.
[111] CESARE, De bello
gallico, VI, 23: "Cum bellum
civitas aut inlatum defendit aut infert magistratus qui ei bello praesint ut
vitae necisque habeant potestatem
deliguntur". Cfr. M. SCOVAZZI, op. cit., 267.
[112] Da
ciò deriva, del resto, non soltanto il diritto di resistenza e la
facilità con cui i re potevano venire deposti, ma anche la
caratteristica peculiare dell'assemblea germanica che appare come la detentrice
del potere originario. Vedi TACITO, Germania,
11; CESARE, De bello gallico,
VII, 75, ci fornisce anzi elementi molto interessanti di riflessione: “Galli, concilio principum indicto, non omnes
qui arma ferre possunt, ut censuit Vercingetorix, convocando statuunt, sed
certum numerum cuique civitati imperandum”.
[114] Vedi
F.L. GANSHOF, Les traits
généraux du sistème d'institutions de la monarchie franque,
in Settimane di Studio del Centro
Italiano di studi sull'alto Medioevo, X, Il passaggio dall'antichità al Medioevo in Occidente,
Spoleto, 1961, 95, 216.
[115] A. BERGENGRUEN, Adel
und Grundherrschaft in Merovingenreich, in Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 41,
Wiesbaden, 1958.
[116] K. SCHMID, Zur
Problematik von Familie, Sippe und Geschlecht; Haus und Dynastie beim
mittelalterlichen Adel. Vorfragen zum Thema "Adel und Herrshaft im
Mittelalter”, in Zeitschrift
für die Geschichte des Oberrheins, CV, 1957, 1-62.
[117] H. MITTEIS, Der
Staat der hohen Mittelalter, tr. it. Le strutture giuridiche e politiche dell'età feudale,
Brescia, 1962, 26, 35, 51.
[118] H. DANNENBAUER, Adel,
Burg und Herrschaft bei den Germanen, in Historisches Jahrbuch, t. LXI, 1941, 1-50, riprodotto in Grundlagen der Mittelalterlichen Welt,
Stuttgart, 1958, 121-178.
[119]
Ciò potrebbe trovare conferma a nostro avviso anche nella testimonianza
di CESARE, De bello gallico, VI, 13:
"In omni Gallia eorum hominum qui
aliquo sunt numero atque honore genera sunt duo. Nam plebes paene servorum
habetur loco, quae nihil audet per se, nullo adhibetur consilio. Plerique cum
aut aere alieno aut magnitudine tributorum aut iniuria potentiorum premuntur,
sese in servitutem dicant nobilibus".
[120] Vedi
CESARE, De bello gallico, II, 1:
"Quod in Gallia a potentioribus
atque iis qui ad conducendos homines facultates habebant vulgo regna
occupabantur".
[121] CESARE, De bello gallico, VI, 11, “In Gallia non solum in omnibus civitatibus
atque in omnibus pagis, sed paene etiam in singulis domibus factiones sunt,
earumque fationes principes sunt qui summam auctoritatem eorum iudicio habere
existimantur, quorum ad arbitrium iudiciumque summa omnium rerum consiliorumque
redeat”. Sul punto vedi H. DANNENBAUER, Grundlagen, cit., 127.
[124] Sul
punto, il Genicot concorda con E. EWIG, Volkstum
und Volksbewusstsein im Frankenreich des 7. Jahrhunderts, in Settimane di studio del centro studi
sull'Alto Medio Evo, V, Caratteri del
secolo VII in Occidente, Spoleto, 1958, 622. Cfr. W. KIENAST, Die
fränkische Vasallität. Von den Hausmeiern bis zu Ludwig dem Kind und
Karl dem Einfältigen, Frankfurt/Main 1990, 19.
[125] L. GENICOT, La
noblesse au Moyen Age dans l'ancienne "Francie": continuitè,
rupture ou évolution?, ora nella raccolta di studi dello stesso a., La Noblesse dans l'Occident
médiéval, cit., 8-9.
[126] In materia vedi K. KROESCHELL, Haus und Herrschaft im frühen deutschen Recht. Ein methodischer
Versuch, Goettingen, 1968, 43.
[127] Cfr. V. RöDEL,
Lehnsadel, in Handwörterbuch zur deutsche Rechtsgeschichte,
II, coll. 1694-1696.
[128] TACITO, Germania, VII; GIORDANES, Getica, XIII, in M.G.H., AA., V, 76, che a proposito della
famiglia degli Amali scrive: "...jam
proceres suos, quorum quasi fortuna vincebant, non puros homines, sed semideos
id est Ansis vocaverunt". Vedi A.
ERLER, voce Königsheil, in Handwörterbuch zur deutsche
Rechtsgeschichte, II, coll. 1040-1041.
Cfr., sul punto, M. BLOCH, Les Rois
thaumaturges. Étude sur le caractère surnaturel atribué a
la puissance royale particulièrement en France et en Angleterre,
Paris, 1983, 56.
[131] GREGORI
EP. TURONENSIS, Historia Francorum, III,
[132] Vedi P.
JAFFE', Regesta Pontificum Romanorum, (Leipzig
1885-88), II ed. Graz
[141] Nel
Capitolare dell’805 è
contenuta una norma da questo punto di vista molto eloquente: " Et si faidosus quis sit, discutiatur tunc
quis e duobus contrarius sit, ut
pacati sint et distringantur ad pacem etiamsi noluerint. Et si aliter pacificare
nolunt, adducatur in nostram praesentiam. Et si quis post pacificationem
alterum occiderit, componat illum et manum quam periuravit perdat et insuper
bannum dominicum solvat". Vedi Capitulare
missorum in Thedonis villa datum secundum generale, cap. 5, in M.G.H., Capitularia regum Francorum, I, 123. La
norma è ripresa nella raccolta di Benedetto Levita (I, 247) ove
però distringantur diventa costringantur, e si precisa che la pena
prevista sarà comminata absque
ulla redemptione. Vedi M.G.H., Leges,
II, 2, 59.
[142] E.
CORTESE, Thinx, garethinx, thingatio,
thingare in gaida et gisil. Divagazioni longobardistiche in tema di
legislazione, manumissione dei servi, successioni volontarie, in RSDI, LXI,
1988, 34.
[143] M.
SCOVAZZI, Processo e procedura nel
diritto germanico, in Rendiconti
dell'Istituto lombardo dell'Accademia di scienze e lettere, Classe di lettere,
vol. 92, 1958, 170; sul punto vedi anche F. CALASSO, Medioevo del diritto, I, Le fonti, Milano, 1954, 211.
[144] D'altra
parte, come lo SCOVAZZI (op. cit.,
166) non manca di notare, già Cesare rilevava (B.G., VI, 23) come per i
Germani: "in pace nullus est
communis magistratus sed principes regionum atque pagorum inter suos jus dicunt
controversiasque minuunt”; e Tacito ricorda ancora principes eletti al fine preciso di
rendere giustizia: "Eliguntur in
iisdem conciliis et principes, qui jura per pagos vicosque reddunt; centeni
singulis ex plebe comites consilium simul et auctoritas adsunt"
(Germania, XII).
[145]Ad
esempio, la Lex Frisonum, che il
Patetta attribuisce alla prima metà del VIII secolo, stabilisce: "Homo faidosus pacem habeat in ecclesia, in
domo sua, ad eclesiam eundo, de ecclesia redeundo, ad placitum eundo, de
placito redeundo. Qui hanc pacem effragerit et hominem occiderit, XXX sol.
comp.". Vedi F. PATETTA, La lex Frisonum, studi sulla sua origine e
sulla critica del testo, Torino, 1882, 84.
[146] O. BRUNNER, Land
und Herrschaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte
Oesterreichs in Mittelalter, Wien, 1965.
[150] HINCMARI REMENSIS,
Annales Bertin., III, a.
[152] E' nota,
infatti, una sua azione diplomatica presso il burgundione Gundobado per
trattare il rilascio di prigionieri a favore di Teodorico. Dell’episodio
dà notizia E. GIBBON, Storia della
decadenza e caduta dell'Impero romano,(tr. it.) Torino, 1967, 1443. Nello
stesso senso, si possono citare le frequenti intermediazioni di S. Severino,
testimoniate da Eugippo, uno scolaro del santo, nell'avanzare dei Rugi nella
Bassa Austria, sotto la pressione di Alamanni, Eruli e Turingi. S. Severino
viene pregato dalle popolazioni locali di intercedere presso il re dei Rugi il
quale stava prendendo disposizioni drastiche al loro riguardo, e cioè
"...retentos abducere et in oppidis
sibi tributariis atque vicinis ex quibus unus erat Favianis, quae a Rugis
tantummodo dirimebantur Danuvio, collocare". Al Re S. Severino
propone: "...fidei meae hos committe
subiectos, ne tanti exercitus compulsione vastentur potius quam migrantur".
Ne derivò che i Romani, "quos
in sua S. Severinus fide susceperat, de Lauriaco discedentes, pacificis
dispositionibus in oppidis ordinati, benivola cum Rugis societate
vixerunt". Vedi M.G.H., SS.AA,
I, 2, 18 (XIX, 2-3), 23 (XXXI, 1-4).
[153] ENNODIO,
Vita Epiphani, in M.G.H., SS.AA., VII, 91. Sulla figura di
Ennodio, e sulla fortuna medievale dei suoi scritti vedi R.H. ROUSE-M.A. ROUSE,
Ennodius in the Middle Ages: Adonics,
Pseudo-Isidore, Cistercians and the School in Popes, Teachers, and Canon Law in the Middle Ages (a cura di S.R.
Sweeney e S. Chorodow), Ithaca and London, 1989, 91 ss.
[156] Vedi Ep. Romani, XIV, 17-19; Ep. Efesini, VI, 14-15; Ep. Filippesi, IV, 7-9; Vangelo di Giovanni, IV, 27; Vangelo di Matteo, XXVI, 52; Atti, X, 34-36. Ben presto, tuttavia, S.
Agostino (De civitate Dei, I,
[157] Per
avere ragione della naturale aggressività umana: "...data opera est ut imperiosa civitas non
solum jugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem societatis
imponeret...sed hoc quam multis et quam grandibus bellis, quanta strage
hominum, quanta effusione humani sanguinis comparatum est? Quibus transactis,
non est tamen eorundem malorum finita miseria. Quamvis enim non defuerint,
neque desint hostes, exterae nationes contra quas semper bella gesta sunt et
geruntur: tamen etiam ipsa imperii latitudo peperit pejoris generis bella socialia
scilicet et civilia". Vedi A. AGOSTINO, De civitate Dei, XIX,
[159] A.
AGOSTINO, De civitate Dei, cit., V,
17, col.160. Al di fuori di questa ipotesi, peraltro, a quegli stessi sovrani
era dovuta obbedienza. Nel celebre dilemma posto da Agostino ai Donatisti, si
può leggere la difesa logica delle istituzioni giuridiche terrene in
termini quasi hobbesiani: "Legantur
leges, ubi manifeste praeceperunt Imperatores, eos, qui praeter ecclesiae
catholicae communionem usurpant sibi nomen Christianum, nec volunt in pace colere pacis auctorem, nihil nomine
ecclesiae audeant possidere. Sed quid nobis est Imperatori? Sed jam dixi: de jure
humano agitur. Et tamen Apostolus voluit serviri regibus: voluit honorari
reges; et dixit: reges reveremini. Nolite dicere quid mihi et regi? Quid tibi
ergo et possessioni? Per jura regum possidentur possessiones. Dixisti quid mihi
et regi? Noli
dicere possessiones tuas, quia ipsa jura humana renuntiasti quibus possidentur
possessiones". Il passo è ripreso nel Decretum
grazianeo, c. 1, Quo jure, D. VIII.
[160] PAOLO
OROSIO, Hist. adv. pag., V, praef.; l'a. accenna ancora agli "innumeri diversarum gentium populi diu ante
liberi, tum bello victi, patria abducti, pretio venditi, servitute dispersi".
[161]
Tertulliano difende la necessità dell'Impero. Vedi Apologeticum, 26; su ciò C. DAWSON, La formazione dell'unità europea dal secolo V al secolo XI (tr.
it.), Torino 1939, 57 ss.; V. BELLINI, op.
cit., 46-47; F. FABBRINI, L'impero di
Augusto come ordinamento sovrannazionale, Milano, 1974, 205.
[162] A.
AGOSTINO, De civitate Dei, IV, 4, in
MIGNE, cit., col. 115. L’espressione latrocinium
è termine che richiama i latrunculi
vel predones che la giurisprudenza romana contrapponeva agli hostes: con quest’ultimo termine
si definivano coloro che si opponevano con le armi al popolo romano con un bellum indictum, mentre i primi stavano
a indicare chi usava della forza illegittimamente.
[163] F. SINI,
Sua cuique civitati religio. Religione e
diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 4.
[166] Anzi
l'Ullmann avanza la tesi estremista secondo cui vi sarebbe una vera e propria
assenza della categoria del politico, che spiegherebbe il successo del Papato
in Occidente. Vedi W. ULLMANN, Principi
di governo e politica nel Medioevo, tr. it., Bologna 1972, 139-144.
[168] Da un
lato, infatti (MARANI, Aspetti negoziali
e aspetti processuali dell'arbitrato, Torino, 1966, 23) in tali differenze
si è visto l'anticipo di alcune caratteristiche dell'arbitrato moderno.
Dall'altro si è notato (J. GAUDEMET, L'Eglise
dans l'Empire romaine (IVe-Ve siècles), Paris, 1958, 237) come l'episcopalis audientia mantenesse una
forma a mezzo fra il tribunale minuziosamente organizzato quale verrà
conosciuto più tardi dalla Chiesa e, appunto, la conciliazione, forma
principe di intervento del vescovo nelle comunità ecclesiali primitive,
più rispondente di un giudizio al suo ruolo pastorale. Tale preferenza
per la conciliazione fu sottolineata anche da S. MOCHI ONORY, Vescovi e città, in Riv. di Storia del diritto italiano, 1931,
303 ss.
[170] Paul. I adCor., VI, 4-5: “Se dunque avete liti per
cose di questo mondo, voi prendete a giudici gente senza autorità nella
Chiesa? Lo dico per vostra vergogna! Cosicché non vi sarebbe proprio
nessuna persona saggia tra di voi che possa far da arbitro tra fratello e
fratello?”. Ma cfr. Atti, 7,
25-28; Romani, 14, 4-
[171]
Può peraltro darsi che per tutto il periodo in cui i Cristiani vennero
ritenuti una setta della religione ebraica, essi godessero degli stessi
privilegi di cui godevano gli ebrei e i loro capi spirituali. La tesi, avanzata
da Volterra, è citata da M.R. CIMMA, L’episcopalis
audientia nelle costituzioni imperiali da
Costantino a Giustiniano, Torino 1989, 32; cfr. M.A. von BETHMANN-HOLLWEG, Der Civilprozess des gemeinen Rechts in
Geschichtlicher Entwicklung, Bonn, 1866, 113 ss.
[175] G.
VISMARA, Episcopalis audientia
l’attività giurisdizionale del vescovo per la risoluzione delle
controversie private tra laici nel diritto romano e nella storia del diritto
italiano fino al secolo nono, Milano, 1937, 17; contra M.R CIMMA, L’episcopalis audientia, cit., 57.
[176] La
cosiddetta Sirmondina I è stata a lungo ritenuta di sospetta
autenticità. Vedi per tutti P. DE FRANCISCI, Per la storia dell’episcopalis audientia. Fino alla novella XXXV
(XXXIV) di Valentiniano, in Annali
della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia,
XXX, 1915, III, vol. XIII, 16 (dell’estr.). Quanto frequentemente i Vescovi
si occupassero della soluzione di controversie civili fra i membri, chierici o
laici, dele loro comunità, risulta dalle fonti che attestano le loro
lamentele derivanti dal peso di tale attività. Sul punto vedi M.R.
CIMMA, L’episcopalis audientia,
cit., 71, n. 159 e fonti ivi
citate.
[177] La
Sirmondina fu oggetto di ripetute accuse di non autenticità, a partire
dal Gotofredo (Codex Theodosianus cum
perpetuis commentariis, VII, Lipsia, 1748, (ed. Ritter), 339 ss.); per un
esame della letteratura recente, e una critica delle opinioni tendenti a negare
l’autenticità della Sirmondina I, vedi M.R. CIMMA, L’episcopalis audientia, cit., 36
ss.
[179] C.J., 4, 7, Leges Novellae ad Theodosianum pertinentes, Nov. Valent.XXXV, ed.
Th. Mommsen-P.M.Meyer, II, 142.
[180] C.J., 4,
7. D'altra parte, il diritto giustinianeo codifica l'etica giuridica cristiana,
e lo stesso giudice è chiamato a tenere conto, nel suo giudizio, dei
criteri della misericordia e della benignitas, vedi, sul punto, C.
LEFEBVRE, Récents
développements des recherches sur l'équité canonique,
in Proceedings of the Sixth International
Congress of Medieval Canon Law, Città del Vaticano 1985, vol. 7,
365.
[181] G. VISMARA, Episcopalis
audientia, cit., 17; H. JAEGER,
Justinien et l'episcopalis audientia", in Rev. Historique de droit français et étranger, XXXIX,
1960, 235.
[182] ”Studendum
episcopo est ut dissidentes fratres sive clericos sive laicos ad pacem magis
quam ad iudicium cohortentur ”, Statuta ecclesiae antiqua, c. 52, H.T.
Bruns, Canones apostolorum et
conciliorum veteres selecti, I, Berlino 1889, 144. La prassi
di tentare una medizione preventiva prima di procedere al giudizio è
illustrata anche da un noto episodio in cui S. Ambrogio, richiesto di risolvere
una controversia civile già pendente avanti il prefetto del pretorio,
confessa di essere intervenuto ita tamen ut compositionis essem arbiter, cioè di avere preferito
agire come amichevole compositore, piuttosto che emanare una sentenza
arbitrale. Sul punto M.F. MARTROYE, Une
sentence arbitrale de Saint Ambroise, in RHD, 8 (1829), 300 ss; M.R. CIMMA,
L’episcopalis audientia, cit.,
71 ss.
[183]
"...definimus ut, si quispiam ad
Romanum clerum aliquem pertinentem in qualibet causa probabili crediderit
actione pulsandum, ad beatissimi papae judicium prius conveniat audiendus, ut
aut ipse inter utrosque more suae sanctitatis cognoscat aut causam deleget
aequitatis studio terminandam, et si forte, quod credi nefas est, competens
desiderium fuerit petitoris clusum, tunc ad saecularia fora iurganturus
occurrat, quando suas petitiones probaverit a supra dictae sedis praesule
fuisse contemptas. Quod si quis extiterit tam improbus litigator atque omnium
iudicio sacrilega mente damnatus, qui reverentiam tantae sedi exhibere
contemnat et aliquid de nostris affatibus crediderit promerendum, ante alicuius
conventionis effectum, decem librarum auri dispendio feriatur...".
Vedi M.G.H., Cassiodori variae, VIII, XXIII, 255.
[185] G. SALVIOLI,
Storia del diritto italiano, Torino,
1921,
[186] In tal
senso S. MOCHI ONORY, Ricerche sui poteri
civili dei Vescovi nelle città umbre durante l'alto Medio-Evo, Roma,
1930, 23.
[188] Vedi Add. IV, c. 50: "Placuit ut, sicut plerumque fit, quicumque
odio aut longinque inter se lite discusserint et ad pacem revocari diuturna
intentione nequiverit, a civitatis primitus sacerdotibus arguantur. Qui si inimicitias deponere perniciosa
intentione noluerint, de ecclesiae coetu iustissima excommunicatione pellantur"; e
ancora, c. 55: "Si quis potentium
quemlibet expoliaverit et admonente episcopo non reddiderit, excommunicetur".
Vedi M.G.H., LL, II, (pars altera),
150.
[190]
Così la raccolta del cardinale Deusdedit, IV, 283 (CXLVIIII) e 284, ed. V.W.von Glanvell, Die
Kanonensammlung des Kardinals Deusdedit, Aalen 1967, 550-551.
[191] c.
[193] L’osservazione,
che nella sua ottica laica è peraltro condivisibile, è di A.
CRIVELLUCCI, Storia delle relazioni fra
Stato e Chiesa, Bologna 1885, II, 19.
[194] ZOSIMO, Hist. Rom., L, V, c. 45; P.
JAFFÉ, Regesta, cit., I, 68;
cfr. anche F. GREGOROVIUS, Storia della
città di Roma nel Medioevo, tr. it., Roma 1912, I, 90 ss.
[195]
GIORDANES, De rebus geticis, c.
[199] Per un
esame critico delle vicende relative a questa legazione vedi W. ENNSLIN, Papst Johannes I als Gesandter Theoderichs
des grossen bei Kaiser Justin, in Byz.
Zeitschr., 44 (1951), 128; V. von FALKENHAUSEN, I rapporti dei ceti dirigenti romani con Costantinopoli dalla fine
del V alla fine del VI secolo, in Il
mondo del diritto nell'epoca giustinianea, caratteri e problematiche,
Ravenna, 1985, 73; vedi su ciò anche F. GREGOROVIUS, op. cit., I, 230.
[202] P.
JAFFÉ, Regesta, cit., I, 1568.
Altro punto interessante da notare è che in questa importante pace
compaiono due donne in posizione dominante. La prima è Teodolinda, alla
quale il Papa invia una lettera di riconoscimento per il sostegno prestatogli;
la seconda è Warnifrida "ad
cuius consilium idem Ariulfus cuncta agat", di cui è detto che
"omnino jurare despexisse".
Vedi JAFFÉ, Regesta, cit.,
1592. Il fatto che si rilevi espressamente che Warnifrida si rifiuta di giurare
darebbe ragione alla tesi sostenuta da M.T. GUERRA MEDICI, La donna nel processo longobardo, in Rivista di Storia del diritto italiano, LX, 1987, 314, secondo la
quale non si può escludere che la donna longobarda potesse prestare
giuramento.
[205] Indiculum episcopi de Langobardia, in Liber Diurnus Romanorum Pontificum,
form. 76 (ed. T. E. von Sickel), Vindobonae, 1889, 81.
[206] In un
intervento alle settimane di studio spoletine, J. FERLUGA richiamava
l'attenzione su alcuni episodi che possono essere assunti come esemplificativi
del farsi e disfarsi di alleanze paradossali: verso la fine del secolo settimo,
Giustiniano II, fuggendo da Cherson dove era stato confinato, si rifugiò
presso i Cazari e poi rientrò con l'aiuto dei Bulgari, suoi nemici
mentre era al potere; nel 781 si sollevò il patrizio e stratego Elpidio,
accusato di avere preso parte ad un complotto contro l'imperatrice Irene, ma le
forze siciliane si rifiutarono di consegnare il ribelle al legato imperiale;
l'anno seguente, allorchè una grossa flotta inviata con lo stesso
compito dal governo bizantino s'avvicinò alla Sicilia, lo stratego
passò con i suoi in Africa ove fu, con l'appoggio arabo, proclamato
imperatore. Vedi L'Italia bizantina dalla
caduta dell'Esarcato di Ravenna alla metà del secolo IX, in Bisanzio, Roma e l'Italia nell'alto Medio
Evo, Spoleto 1988, I, 183.
[207] Anche O.
BERTOLINI (Roma e i Longobardi, cit.,
57) rileva l'importanza quale precedente del cerimoniale adottato.
[209] Liber pontificalis, cit., I, 427-428.
Vedi anche O. BERTOLINI, Il problema
delle origini del potere temporale dei papi nei suoi presupposti teoretici
iniziali: il concetto di “Restitutio” nelle prime cessioni territoriali
alla Chiesa di Roma (756-757), in Miscellanea
Pio Paschini, Roma 1948, I, 103-171, ora in (Idem), Scritti scelti
di storia medioevale, Livorno 1968, II, 487-547.
[210] Liber Pontificalis, cit, I,
392. Sull'episodio vedi O. BERTOLINI, Roma
e i Longobardi, cit, 44.
[212]
"Zacharias Ratchiso Langobardorum regi: de pace constituenda scribit. Ad
quem missa relatione b. pontificis,
continuo ob reverentiam principis apostolorum et eius precibus inclinatus, in
viginti annorum spatium invicem inita pace, universus Italiae quievit
populus". Vedi P. JAFFÉ, op. cit., I, 264 -265 (2272).
[213] Vedi P.
JAFFÉ, Regesta, cit., I, 753, 272: "A Johanne, imperialis
silentiario, cum legatis apostolicis Constantinopoli reverso, accipit jussionem
imperialem in qua erat insertum: Ad Langobardorum regem sanctum papam esse
properaturum de recipiendam ravennatium urbem et civitates ad eam
pertinentes"; vedi pure Liber
pontificalis, cit., Vita Stephani, 98. Il Cortese (Il diritto,I,
cit., 178) attira l’attenzione sul termine iussio che indicherebbe – quanto meno nell’ottica
bizantina – una subordinazione del Papa all’Imperatore. E tuttavia
non di trattative diplomatiche, ma di vera mediazione sembra essersi trattato,
prova ne sia che la vicenda evolve verso una conclusione inaspettata:
l’alleanza epocale fra il Papato e la neonata dinastia carolingia.
[219] Annales Fuldenses, p. I, a.
[220] Annales Fuldenses, cit.,
a. 752. Sul punto cfr. H. PIRENNE, Maometto
e Carlomagno, tr. it., cit., 215 ss.
[225] Vedi Regesta Pontificum Romanorum, n. 2575.
Cfr. Enciclopedia dei Papi, I, voce Gregorio IV, 717.
[226] Vita Walae, cit,
562. Per l'identificazione del documento cui qui ci si riferisce, vedi P.
HINSCHIUS (a cura di), Decretales
pseudo-isidorianae, Leipzig 1863, CXCVI, il quale lo identifica con una
collezione probabilmente composta dai vescovi favorevoli alla fazione di
Lotario.
[230] M.G.H., SS., I, 573. Cfr. la lettera inviata,
nell’ 865 da Nicola I a Carlo il Calvo perchè addivenga a
trattative di pace con Lodovico II, in M.G.H., Epp., IV (Karolini Aevi IV), pars altera, 301, nonchè quella
con la quale invita arcivescovi e vescovi del regno franco ad adoperarsi in tal
senso (ivi, 303).
[231] Come
è noto, le vicende successorie della dinastia carolingia sono alquanto
complesse. Nel 863 morì Carlo di Provenza, figlio di Lotario, che alla
morte del padre aveva ottenuto
[232] Vedi DUMONT, Corps
Universel Diplomatique, cit., I.I, 12. Il passo rende notizia anche
delle difficoltà delle trattative: di una prima legazione non accettata,
e di una seconda legazione il cui contenuto "quia et secundum Deum salubre et secundum seculum utile nobis videtur",
veniva portato a conoscenza affinchè "si vobis ita sicut et nobis videtur, cum vestro consilio volumus illud
recipere et quod Deus concesserit ad necessarium effectum perducere".
Il documento porta la firma anche dei vescovi e dei nobili che avrebbero
assistito alla stipulazione del trattato. Fra i primi figura il nome di
Incmaro.
[233] In
M.G.H., L.L., II, 1, Capitularia regum Francorum, 366. Anche
nel Sinodo di Metz, dell’859, i Vescovi rivolgono la loro admonitio a Lodovico chiamandosi “legati divinae pacis... fungentes legationem
pro Christo”. Vedi ibidem, 441.