N. 5 – 2006 – Tradizione
Romana
Università di
Bari
Diritto e
persona: centralità dell’uomo
Giustiniano, nelle Istituzioni, enuncia a
chiare lettere la centralità della persona:
Inst. Iust. 1.2.12: Ac prius de
personis videamus. Nam parum est ius nosse, si personae, quarum causa statutum est, ignorentur.
La sua affermazione[1],
autorevole vuoi per la natura della Fonte vuoi perché posta
all’inizio del trattato destinato all’esposizione delle linee fondamentali
concernenti lo ius, sembra
riassumere, cogliendone il fulcro, lo sviluppo del diritto romano fino al VI
secolo (d.C.). Essa lascia supporre che i redattori delle Institutiones abbiano riflettuto sul diritto romano e sul suo
sviluppo arrivando alla conclusione che tutto lo ius[2]
era stato caratterizzato dalla massima considerazione delle persone, tanto da
potersi dire creato[3]
in funzione di loro.
Ne scaturisce la consapevolezza della
significativa centralità della persona,
affermatasi progressivamente durante il lungo percorso di formazione ed
articolazione del diritto romano.
Tale centralità si rifletté
anche nelle sistematiche dei giuristi, alcuni dei quali, durante il Principato
ed in particolare dal 2° secolo d.C., iniziavano le loro opere, partendo
proprio dalle personae. Paradigmatico
è il manuale istituzionale di Gaio, che, sul punto, era la fonte delle
Istituzioni giustinianee, il quale nel primo commentario dichiarava:
Gai. 1.8: Et prius videamus de personis[4].
Nel prius
adoperato dal giurista non vi era solo l’indicazione di una
priorità espositiva, quanto la sottolineatura della necessità di
partire dalla materia prioritaria per
il diritto e la sua comprensione[5].
Questo appare chiaro alla luce di quanto,
probabilmente al tempo di Diocleziano o nella prima metà del 4°
secolo d. C.
[6],
Ermogeniano ebbe modo di precisare:
D. 1.5.2, Hermog. L. 1 iuris epit.: Cum
igitur hominum causa omne ius constitutum[7]
sit, primo de personarum statu ac post de ceteris.
Poiché Ermogeniano con la sua epitome
si pone alla fine dell’esperienza giuridica romana e dà una
sintesi della pregressa elaborazione giurisprudenziale, si è indotti a
ritenere che la sua affermazione, più che il prodotto del suo pensiero,
sia la sintesi del pensiero dei giuristi che l’avevano preceduto. In tal
modo essa costituisce la fotografia della concezione dei giuristi classici.
Dunque vi è
una continuità tra la posizione di Giustiniano, che ha avuto il merito
di esplicitarne i connotati, e quella dei giuristi del Principato nel
considerare la persona centrale e
prioritaria in tutto il diritto.
In che cosa poi questa postulazione si
traduceva nel concreto e cioè come venne vissuta la centralità
della persona vorrei fare oggetto di una breve riflessione; la quale certamente
non può essere esaustiva e forse neppure indicativa, ma si propone di
offrire alcuni spunti di riflessione, con la consapevolezza che hanno bisogno
di ulteriori e più ampi approfondimenti. Più che altro qui vorrei
chiedermi in che si caratterizzava un diritto che dichiarava di essere in funzione
delle persone.
Per rispondere a questo interrogativo occorre
esaminare la problematica afferente alla soggettività giuridica degli
uomini nelle elaborazioni dottrinarie e nel concreto dell’esperienza
giuridica dei Romani.
Il primo punto fermo deve essere la
consapevolezza del distacco temporale e terminologico con il passato, per
evitare che nozioni per noi abituali e frequenti condizionino la percezione del
passato e finiscano per trasformarsi in ‘pregiudizi’ rispetto alla
realtà romana.
La quale era variegata e molto meno
semplificata di quanto non usiamo oggi.
Per quanto adoperato da Gaio e da Giustiniano
con valenza, come si è visto, generale, il termine persona non aveva, si sostiene, il significato che noi siamo
portati ad attribuirgli. Il fatto è che il termine persona, oggi sinonimo di soggetto
del diritto ed anche di uomo,
è, come tutta la soggettività giuridica, mediato dal termine e
dal concetto di ‘capacità’, nelle accezioni di capacità giuridica e capacità di agire[8].
Espressioni oggi usate quasi universalmente, ma che poco o niente dicevano ai
Romani[9];
presso i quali «con il termine di capacitas
si indica, nel linguaggio dei prudentes,
l’idoneità del soggetto ad acquistare in base ad una valida
delazione, la quale presuppone la capacità a succedere»[10].
Dunque nel diritto romano le cose
stavano ben diversamente da oggi e, come vedremo, la persona si identificava
con l’uomo.
È per questo motivo che vorrei
soffermarmi su quello che in realtà il termine persona ha rappresentato per i giuristi romani, il cui contributo
è stato e (mi si consenta l’affermazione) è penetrante ed elevatissimo.
Tra i molti ricordo un figlio
dell’Oriente, che seppe raccogliere l’eredità dei
giureconsulti romani del Principato e divulgarla in forma incisiva,
sicché il suo pensiero più di ogni altro ha contrassegnato il
diritto dall’età romana ai giorni nostri, in quasi tutto il
pianeta. Intendo riferirmi a Domizio Ulpiano. Egli nel 3 secolo d. C.,
era stato allievo del grande suo connazionale
D. 1.1.10.1 Ulp. 1 reg.: Iuris praecepta sunt haec: honeste
vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.
Come ognuno vede sono qui enunciati da
Ulpiano tre pilastri sui quali deve poggiare il rispetto e la salvaguardia
della persona umana. Sono essi tre
principî che riassumevano il cammino secolare della filosofia greca[15],
rivisitata dai Romani e che, specie attraverso la mediazione del Cristianesimo,
si sono proposti come riferimento del diritto sino ai nostri giorni. Del quale
si avverte ancora l'opportunità in un periodo, qual’è
quello attuale, nel quale l’onestà, il rispetto della persona umana,
il riconoscimento dei diritti fondamentali di ciascun popolo e di ciascun uomo
appaiono messi in discussione o calpestati.
è per questo motivo
che oggi appare necessario far partire il discorso sulla persona umana e sui suoi diritti fondamentali dalle radici del
pensiero moderno, che nel diritto risiedono nelle fonti romane. In esse Ulpiano
ci insegna che il diritto è
la giustizia e risiede nello sforzo perenne di dare a ciascuno ciò che
gli spetta, di non negare a nessun uomo ciò che la natura gli ha
destinato e che la sua condizione esige[16].
La visione alla quale Ulpiano ci introduce
era dunque quella che poneva un’equazione di corrispondenza totale tra
diritto e giustizia, miranti alla salvaguardia della dignità umana. Il
che è ancora più evidente se si considerino le fonti, al cui
insegnamento Ulpiano doveva ispirarsi, e che possiamo cogliere anche nelle
affermazioni di retori e filosofi; tra i quali significative testimonianze sono
offerte dall’autore della Retorica ad Erennio e da Gregorio Taumaturgico:
Ret. ad Herenn. 3.2.3: (Iustitia est) aequitas ius
unicuique rei tribuens pro dignitate cuiusque.
Greg. Thaumat. In
Origenem oratio panegyrica - Migne
patr. Gr. 10 c. 9, p. 1079 B: dikaiosyne, hè tà axia
hekàstois aponèmei.
Ecco dunque stabilito un legame indissolubile
tra diritto e giustizia e tra diritto e salvaguardia della dignità
umana, tèlos (scopo) della vera philosophia, vero cardine del
vivere civile: sono questi presupposti concettuali che spinsero Giustiniano ad
affermare che tutto il diritto è finalizzato all’uomo.
Questa consapevolezza, lungi dal
circoscriversi all’esperienza romana, è utile anche ad un momento,
come l’attuale, di crisi di valore
e di crisi del diritto occorre tornare ai fondamenti della nostra
civiltà giuridica, per scoprire quale è l’essenza del
diritto. Si vedrà così che essa risiede nella custodia e difesa
della dignità del singolo uomo, nella consapevolezza che tutto il diritto
è stato creato per le personae[17].
A questo risultato dette un apporto significativo
il pensiero Greco, ma la base fu la peculiare esperienza giuridica dei Romani,
che dedicarono gelosa attenzione alle prerogative dell’uomo in quanto soggetto del diritto.
Tale soggettività, certo, era per
antonomasia quella del civis e non
dell’uomo tout court, ma fu
suscettibile di allargamento e, dopo il 212, a seguito della concessione della
cittadinanza a tutti i sudditi dell’Impero (ad opera di Antonino
Caracalla), riguardò gran parte dell’orbe conosciuto e certamente
tutto il Mediterraneo[18].
È questa la ragione per la quale la
concezione della persona-soggetto del
diritto affonda le radici nelle specificità del retaggio che
l’esperienza romana si portava dietro sin dall’età
repubblicana e proto-imperiale, quando il diritto pervenne alle forme passate
nella giurisprudenza severiana e nel Corpus
iuris, proiettandosi nel diritto canonico, nelle esperienze medievali e
moderne, sino agli attuali diritti vigenti.
Dunque i Romani concepirono il soggetto come
un centro di prerogative legato a determinate situazioni e finalizzato alla
crescita della Civitas,
all’interno della quale tuttavia manteneva sempre la propria
specificità, senza mai annullarsi nella collettività né
perdere le prerogative personali dinanzi all’organizzazione cittadina.
Deriva da ciò la peculiare concezione
di Popolo, che ha affascinato non pochi dei pensatori moderni e contemporanei[19].
Scaturisce anche da ciò la connessa singolarità
dell’acquisto della capacità[20]
non al raggiungimento della maturità intellettuale o quanto meno psico-fisica,
come è negli ordinamenti giuridici contemporanei e anche in molti
dell’antichità, bensì al sopraggiungere della pubertà.
Sono questi due punti che visti da vicini
mostrano quanto penetranti siano stati i principî romani nella
costruzione di una giuridicità attenta alle istanze dei singoli,
purtroppo spesso persi nel corso delle successive esperienze.
La pubertà nelle società in
formazione assume sempre un significato sacrale ed è legata alle visioni
più profonde del destino dell’uomo e delle fasi della sua
evoluzione, in altre parole è una delle tappe più significative
del ciclo della vita umana[21].
Solo tenendo presente questa premessa si comprende la singolarità
della scelta romana, in base alla quale l’adolescente, divenuto pubere,
poteva percorrere la carriera politica sino alle più alte cariche e
poteva diventare pater familias,
avendo sotto di sé la madre e le sorelle[22].
Ora tutto ciò si può spiegare solo avendo presente il vincolo,
che si nutrì di nessi e di antagonismo, esistente tra le familiae e la Civitas. In esso si inseriva il singolo quale componente delle une
e dell’altra; ma mentre nelle prime era assorbente la figura del
‘capo’, nella seconda fu determinante l’apporto di
‘tutti i componenti’: perciò nella Civitas l’individuo
trovò la sua affermazione più piena. La quale caratterizzò
definitivamente il ‘diritto’, perché alla lunga la Civitas prevalse. Essa, infatti, era
contraddistinta da un’idea di ‘crescita’ costante, che ne
segnò tutta l’evoluzione[23].
In essa si allocò e trovò giustificazione il ricorso alla pubertas: essa, con l’acquisizione
della capacità a generare, consentiva al singolo di ‘far
crescere’ la collettività e, in quanto autore della crescita, gli
dava titolo per entrare nell’organizzazione cittadina. Inoltre, poiché
con la pubertà si passava ad una nuova fase della vita, nella quale un
nuovo organismo veniva a sostituire il precedente, si poté affermare che
vi era una nuova nascita e che essa, a differenza della prima, che avveniva
nella famiglia, avveniva nella e per la Civitas.
Nella struttura cittadina il pubere, dunque, entrava con titolo suo specifico e
con attribuzioni connesse ai cicli della
vita insopprimibili ed inalienabili, perché scaturenti da un ordine
universale, che reggeva l’intero creato e del quale l’individuo era
parte, ma anche depositario[24].
Perciò i Romani fissarono la
pubertà al compimento del 14° anno, che nella visione cosmogonica
della vita umana si presentava come multiplo del numero ‘sette’,
ritenuto il numero intorno al quale si era costruito l’Universo (sette
erano i pianeti, sette le note musicali, le fasi lunari etc.) ed era articolata
la vita degli uomini e delle città[25].
La scelta della pubertà denota quanto si fosse radicata nella cultura
romana la concezione che vedeva la vita dell’uomo, di ogni uomo, legata
allo svolgersi di sequenze aventi carattere insopprimibile e universale. Essa
contribuì alla consapevolezza della necessità che anche il ius ne dovesse tenere conto,
poiché a nessuno era consentito, senza andare contro le leggi profonde
della vita stessa, dimenticare
ciò.
Proprio per questi motivi fu colta dai romani
l’insostituibilità e la non coercibilità della
realtà cosmico-terrestre ‘uomo’, che si manifestava sin dal
concepimento, ed implicò la salvaguardia dei nascituri, di qui in utero sunt[26].
Progressivamente questa realtà
dell’uomo vivente, portatore di prerogative proprie ed espressione di
leggi generali (per taluni autori antichi, cosmiche) venne sussunta nel termine
persona. Riguardo al quale è
da osservare che probabilmente, anche se radicata, la tesi che il termine
stesse ad indicare esclusivamente l’homo,
cioè l’uomo-individuo, come espressione meramente biologica appare
priva di reale fondamento o quanto meno decisamente incompleta[27].
In realtà le cose non sembrano essere state esattamente in questi
termini, perché il pensiero romano fu più poliedrico e
sfaccettato di quanto la dottrina moderna ha ritenuto e pervenne ad attribuire
a persona anche il significato di soggetto del diritto, secondo
un’articolazione variegata, che andava dagli schiavi ai liberi, dalle personae alieni iuris a quelle sui iuris, dai cives ai peregrini[28].
Esemplare mi sembra proprio la disciplina,
già segnalata, dei nascituri. Per essi si discuteva se fossero o meno homines[29],
considerandoli alcuni giuristi solo parte del ventre materno, che non si
potevano riconoscere come figli, così come non si poteva chiedere alla
madre di esibirli o di consegnarli[30],
tuttavia fu ugualmente considerato centro di imputazioni giuridiche, concedendo
la missio in possessionem ventris nomine,
facendolo oggetto di lasciti e di designazione di erede etc., tanto che il
giurista Salvio Giuliano, ne 2 secolo d. C. potè generalizzare
affermando:
D. 1.5.26 Iul. l. 69 dig.: Qui in utero sunt, in toto paene
iure civili intelleguntur in rerum natura esse...
La misura della modularità seguita dai
Romani è evidente, così come è chiara
l’inadeguatezza dei concetti moderni per cogliere quei principî, rispettosi
dell’uomo sin dal concepimento[31].
Tutto ciò è la conferma che la
vita del singolo, pur se confluente nell’Organizzazione cittadina, era un
proprium che gli apparteneva e che si
completava senza scomparire nella Res Publica.
Ne scaturì anche una stretta
compenetrazione di pubblico e privato[32]
che è difficile riscontrare in altre esperienze e che segnò una
felice armonizzazione delle esigenze del singolo con quelle della
collettività.
Non a caso
è stato notato che publicus
mentre «fonctionne comme dérivé de populus, c’est à pubes
qu’il se rattache pour la forme. Publicus
est ainsi un hybride de populus et de
pubes»[33]. E pubes indica sia il singolo sia la
collettività, come nella locuzione Pube
praesenti in contione, omni poplo ovvero in quelle che parlavano della Dardana pubes o della Albana pubes o della Italica pubes o Romana pubes e similari[34].
L’esperienza romana offre un intreccio
significativo nel quale l’individuo era nella collettività ma
nello stesso tempo era la
collettività.
Il che è evidente nella concezione e
della Città-Stato e del suo substrato personale, il Populus Romanus Quirites, vissuto come entità concreta
intesa come «tutti i cittadini»[35]
e non come entità ideale e astratta, quale è nelle concezioni
moderne. In siffatta concezione «certi diritti sono acquistati e difesi
dal singolo cittadino»[36]
e pone in evidenza, di volta in volta, «l’aspetto della
‘unione’ (o della ‘riunione’) e quello della
pluralità», la quale «ha implicazioni normative ben precise
negli iura populi Romani»[37].
Queste radici sono, a mio avviso, importanti,
perché disposero, come si è detto, all’accoglimento delle
concezioni elaborate dai filosofi e retori Greci; le quali, nelle loro
piú significative espressioni, avevano posto l’uomo al centro
delle proprie costruzioni sulla realtà del mondo e dell’universo.
Vi era, di conseguenza, matrici culturali
profonde perché la persona
venisse considerata come portatrice di istanze e diritti proprî. Certo
essa concerneva i cives e non gli
uomini in quanto tali, ma bisogna tenere presente che le elaborazioni
giuridiche furono fatte per i cittadini e poi vennero estese agli
‘uomini’ sotto la spinta dell’allargamento dei confini
dell’Impero e, più tardi, della concessione della cittadinanza a
gran parte dei sudditi. A quel punto si era affermata nella terminologia
l’uso di persona per indicare
gli uomini in quanto relazionanti con il diritto.
Significativo, al riguardo, fu
l’atteggiamento e il diritto elaborato per gli schiavi.
Sempre piú gli approfondimenti
dimostrano quanto sia erronea l’opinione che vuole mantenere i servi nello stretto ambito delle res, come meri oggetti del diritto e non
referenti di situazioni e forme di tutela. Si scopre, invece, che la loro
condizione di ‘uomini’ penetrò in modo significativo anche
nella normativa giuridica e, soprattutto, nelle enunciazioni dei giuristi del
Principato, suggerendo soluzioni che oserei definire di
‘soggettività’ o che comunque, quanto meno, riconoscevano il
servus come “un soggetto
portatore di una dignità, di un valore in sé, proprio
dell’uomo in quanto tale”[38],
con implicazioni profonde sia nel diritto privato che in quello pubblico.
Molti sono gli aspetti specifici posti in
luce dagli studi piú recenti, i quali hanno evidenziato
l’esistenza di una vera e propria capacità patrimoniale degli
schiavi, con proiezioni persino manageriali, ed hanno suggerito al Robleda di
rivendicare l’esistenza di un diritto
degli schiavi[39].
La realtà è che Il fatto di avere letto il passato in base alle
categorie contemporanee (di personalità e di capacità giuridica)
ha portato ad una omogeneizzazione sincronica dei criterî di valutazione
delle realtà giuridiche, che, in alcuni casi, ha implicato la perdita
delle sfaccettature e delle modularità con le quali gli antichi avevano
collocato gli ‘uomini’ nel ‘concreto’
dell’esperienza giuridica. Non di rado si sono sottaciute le
articolazioni presenti in un diritto (ius)
organizzato intorno alla considerazione preminente dell’essere umano (homo), quale era quello dei Romani. Di
esso si è stati portati a sottovalutare (quando non ad ignorare) le
implicazioni profonde che vi erano, nella visione della posizione delle
persone, tra pubblico e privato, così come si è teso a dare
scarso peso all’incidenza del ius
sacrum (diritto sacro) nella
concezione dell’homo quale
centro di riferimento del diritto. Si è dimenticato così che la
posizione dei soggetti andava colta nella dimensione dinamica, che di periodo
in periodo si modellò in base ad un rapporto dialettico tra il retaggio
del vecchio assetto gentilizio e l’avanzante ed assorbente assetto della Città-Stato (Civitas). Da questa impostazione è derivata la quasi unanime
negazione della soggettività giuridica dei servi (schiavi), che,
invece partecipavano a varie sfere del ius:
certamente al ius sacrum o al ius naturale, ma non solo ad essi,
stante l’idoneità a compiere alcuni negozi patrimoniali o ad
essere fonte autonoma di responsabilità o, ancora, la riconosciuta
possibilità di attivare le procedure giudiziarie oltre la garanzia di
alcuni diritti ritenuti essenziali[40].
Non potendo qui soffermarmi sui punti, anche
i piú importanti, della condizione servile e della partecipazione degli
schiavi al ius, voglio evidenziare un
solo dato, nel quale pubblico e privato si intersecano per assicurare idonea
tutela contro l’offesa del diritto, fondamentale, dello schiavo alla vita.
È ancora Gaio a dirci che
l’uccisione dello schiavo poteva rientrare nella legge Aquilia, per il risarcimento
del danno patrimoniale, ma anche in un iudicium
publicum, quello previsto dalla lex
Cornelia de sicariis:
Gai. 3.213: Cuius autem
servus occisus est, is liberum arbitrium habet vel capitali crimine reum facere
eum qui occiderit, vel hac lege – Aquilia – damnum persequi.
Coll. 1.3.2, Ulpianus
l. VII de officio proconsulis sub titulo
de sicariis et veneficiis: Relatis verbis legis modo ipse loquitur
Ulpianus: Haec lex non omnem, qui cum telo ambulaverit, punit, sed eum tantum,
qui hominis necandi furtive faciendi dausa telum gerit, coercet. Compescit item
eum, qui hominem occidit, nec adiecit cuius condicionis hominem, ut et ad servum
et peregrinum pertinere haec lex videatur.
Giustamente è stato posto in risalto
il fatto che l’inclusione dello schiavo tra le persone tutelate con
giudizio pubblico costituisce un vero salto di qualità nella concezione
della condizione servile. La lex Cornelia
de sicariis era rivolta alla punizione di chi avesse ucciso dolosamente un
cittadino; pertanto l’estensione di essa[41]
al caso dell’uccisione dello schiavo doveva essere conseguenza di
“una revisione radicale della mentalità”, che “segna
una svolta, un deciso mutamento di rotta nella considerazione sociale e
giuridica dello schiavo”[42].
Mi pare che l’estensione della
punizione per omicidio anche allo schiavo sia di grande rilievo e dimostri a
chiare lettere come operasse l’intreccio pubblico-privato nella
considerazione e tutela delle persone, la quale al tempo di Antonino Pio
arrivò a prevedere anche la punizione di chi avesse ucciso il proprio
schiavo. È ancora Gaio a darcene notizia:
Gai. 1.53: nam ex
constitutione imperatoris Antonini qui sine causa servum suum occiderit, non
minus teneri iubetur, quam qui alienum servum occiderit.
La punizione, che doveva essere affidata
anche qui ad un iudicum publicum,
probabilmente lo stesso previsto dalla legge sillana de sicariis[43],
supera nettamente la concezione dello schiavo come res e riconosce in modo palese il diritto alla vita dello schiavo.
Diritto che prima non era del tutto
misconosciuto, come si crede, solo era affidato ad una differente tecnica,
propria del sistema aperto della Roma repubblicana. Infatti se è vero
che al paterfamilias era attribuito
il potere di vita e morte sullo schiavo, così come sui figli, era
altresì vero che l’abuso di esso non restava impunito. La
coercizione era affidata, invero, all’intervento dei Censori, i quali
nell’esercizio della cura morum
reprimevano ogni abuso del pater,
commesso nell’esercizio del proprio diritto: tra essi rientrava
l’uccisione immotivata del sottoposto, figlio o servo[44].
In conseguenza vi è una
continuità nel ritenere lo schiavo destinatario di tutela giuridica sin
dall’età repubblicana, perché lo si riteneva punto di riferimento
di interessi sia suoi personali sia della collettività.
La convergenza di pubblico e privato nella
tutela delle personae ha anche in
altre sedi ricorrenti esempi.
Qui vorrei ricordare quella accordata ad
un’altra categoria di persone ‘deboli’,
le donne. Per esse la proiezione naturale, socialmente feconda, era nel
matrimonio. Con esso, infatti, diventavano tasselli indispensabili della finalità
di ‘crescita’, che si trova a fondamento tanto della familia quanto della Civitas[45].
Era pertanto nel matrimonio che la donna si realizzava e realizzava la sua
posizione giuridico-sociale all’interno della società romana. In
conseguenza di ciò il matrimonio era nell’interesse della donna,
ma anche della sua familia e della Respublica. Ma per arrivare al matrimonio
la donna aveva bisogno di avere la dote,
che era diventata essenziale nella struttura del matrimonio romano[46].
Questa esigenza era molto antica nell’esperienza romana[47]
ed era tanto avvertita che Plauto metteva l’accento sulla
difficoltà di sposarsi per le donne senza dote, arrivando addirittura ad
accostare il matrimonio senza dote al concubinato[48].
Orbene per assicurare alla donna
l’effettiva possibilità di contrarre matrimonio i giuristi affermarono
la necessità dell’intervento pubblico[49],
sottraendo quindi la tutela della donna alle sole forme previste dal diritto
privato, anche nel caso in cui matrimonio non fosse ancora valido, come quello
della minore di 12 anni, che restava nella casa del marito in attesa del
compimento dell’età matrimoniale:
D.
23.3.2, Paul. 60 ad ed.: rei publicae
interest mulieres dotes salvas habere, propter quas nubere possunt.
D. 42.5.18, Paul. 60 ad
ed.:interest enim reipublicae et hanc solidum consequi, ut aetate
permittente nubere possit.
Dunque appare confermato che là dove
si individuava una situazione di debolezza e quindi l’esigenza di tutela
della persona si affermava l’esistenza di un interesse pubblico alla
salvaguardia dell’interesse minacciato.
Finalità, questa, che poteva essere
raggiunta in varie forme.
Esempio significativo fu quello che avvenne
per la tutela degli impuberi. La quale si trasformò da potere in munus.
La protezione dei fanciulli era affidata alla
famiglia e, per essa, al pater. La
stessa famiglia o il gruppo cui essa apparteneva avevano il dovere di occuparsi
degli impuberi e del loro patrimonio[50]:
a questo provvedevano le forme della tutela
legitima e della tutela testamentaria.
Esse realizzavano la successione nell’esercizio del potere spettante al
padre e restavano nell’ambito dell’organizzazione privata della familia o della gens.
Ma ecco che quando, probabilmente per
conseguenza delle guerre che avevano decimato la popolazione maschile, si
constatò che vi erano molti fanciulli senza un maschio che potesse provvedere
alle loro necessità, si emanò un plebiscito (lex Atilia anteriore al 186 a. C.) con il quale si dette incarico
al pretore di nominare un tutore a chi ne era privo[51].
Si verificò così un intreccio tra privato e pubblico, nel quale
la Respublica si fece carico,
attraverso un suo magistrato, di quello che fino ad allora era parso un interesse
meramente privato. E ne risultò un cambiamento radicale, perché
l’istituto fu modificato profondamente diventando una forma di protezione dei deboli (quali erano i
pupilli[52]
e non piú l’esercizio di un potere[53].
L’intreccio privato-pubblico che ne conseguì fu rivoluzionario e
si tradusse in una forma efficace di protezione dei fanciulli, ritenuti deboli
sino alla pubertà; ciò perché la pubertà e non
un’età piú congrua[54]
segnava la maturazione dell’uomo e la sua capacità di ingresso
nella vita pubblica[55].
Analogo discorso vale per la cura dei minori
di 25 anni. Lì, a partire dall’antica legge Laetoria del 3° secolo a. C., si verificò un incisivo
intreccio tra negoziazione privata ed intervento pubblico, attraverso il
pretore che poteva concedere un’exceptio
legis Laetoriae o una restitutio in
integrum, sempre basandosi sui presupposti adombrati dalla legge, che
portò alla nascita della cura
minorum. La quale costituì una forma abbastanza efficace di
protezione dei giovani inesperti contro gli usurai[56],
che solo per un’ottica fuorviante, dovuta alle distorsioni conseguenti
all’adozione del concetto di capacità,
viene classificata dalla manualistica contemporanea tra le forme minoratrici della capacità e non,
come dovrebbe, tra le forme di difesa dei deboli[57].
Difesa peraltro incisiva contro gli speculatori, che potevano perdere
ciò che avevano dato ai minori, se non avessero agito con estrema onestà
o, comunque, oggettivamente dal prestito avessero tratto profitti immotivati[58].
A questo punto credo che gli esempi sarebbero
ancora molti. Mi limito ai casi indicati, i quali confermano l’attenzione
dei Romani, e per essi della loro giurisprudenza, ai problemi reali
dell’uomo, cui il diritto accorda riconoscimento e protezione, di
là da sue predeterminazioni o riconoscimenti, bensì solo
perché sono. Dando vita ad un
diritto che è per l’uomo-pesona in tutte le sue articolazioni,
anche commerciali.
E qui vorrei dire che anche nel campo delle
obbligazioni la proiezione verso l’uomo si manifestò in modo
incisivo. Vi è in proposito l’esigenza di superare la convinzione
che il contratto romano non era incentrato sul ‘consenso’ e
sull’assetto degli interessi dei contraenti, bensì sul vincolo che
scaturiva ‘oggettivamente’ da una determinata situazione[59];
in quest’ordine di idee la dottrina del primo novecento aveva inteso il contractus “non quale struttura
giuridica implicante il consensus, ma
in termini oggettivi, come ‘vincolo, affare’”[60].
Da tempo, tuttavia, ci si sta accorgendo che quella definizione non corrisponde
al contratto romano; essa è solo la conseguenza della sussunzione del contractus nella (allora imperante)
teoria del negozio giuridico. La quale, però, ha influenzato gran parte
della romanistica, giunta a sostenere che il consenso-accordo sarebbe stato
essenziale e costitutivo solo nei contratti dello ius gentium, che, secondo lo schema di Gaio[61],
appaiono i soli contratti che contrahuntur
consensu[62];
mentre il consenso, pur necessariamente presente, sarebbe irrilevante negli
altri contratti, nei quali appare sostituito o assorbito da altri elementi,
cioè dal dare, dalla pronuncia
di particolari verba, dalla redazione
di documenti (litterae).
A fronte di tali posizioni c’è,
invece, da domandarsi come un diritto, come quello romano, che veniva
dichiarato in funzione degli uomini come si atteggiava ed in che misura
incideva nelle materie comportanti la regolamentazione di interessi
contrapposti.
Vorrei qui, per tentare una prima
approssimativa risposta, ricordare il pensiero di Giuliano su una questione
molto complessa, perché investente temi ereditari e contrattuali. Il
nocciolo concerneva l’interrogativo su quanto dovesse dare il venditore
al compratore per l’evizione di uno schiavo: in particolare, in che
misura doveva rifondere le spese fatte per l’educazione dello schiavo. La
risposta del giurista adrianeo, riferita dal giurista severiano Paolo, è
illuminante: bisognava sì pagare le spese sostenute per
l’istruzione dello schiavo, ma non tutte, bensì solo quelle che
potevano essere ipotizzate già al momento della vendita:
D. 19.1.43, Paul. 5 quaest.: De sumptibus vero, quos in erudiendum
hominem emptor fecit, videndum est: nam empti iudicium ad eam quoque
speciem sufficere existimo: non enim pretium continet tantum, sed omne quo
interest emptoris servum non evinci. Plane si in tantum pretium excedisse
proponas, ut non sit cogitatum a venditore de tanta summa, veluti si ponas
agitatorem postea factum vel pantomimum evictum esse eum, qui minimo veniit pretio,
iniquum videtur in magnam quantitatem obligari venditorem[63].
In altra sede[64]
mi sono occupato della questione, arrivando alla conclusione che la posizione
di Giuliano era di estrema attenzione all’assetto concreto degli
interessi delle parti. Per fare ciò il giurista si avvaleva del riferimento
a quanto cogitatum dai contraenti, il
cui risultato si potrebbe riassumere in questi termini. ogni
contratto si poggia non solo sul consenso espresso, ma anche sulle implicazioni
di esso, però solo riguardo a quanto il contraente, se ci ne fosse
consapevole, accetterebbe ugualmente di includere nel contratto. Sicché
appare conseguente intervenire sul contenuto del contratto per tenerlo nei
limiti dell’accettabile in considerazione di un bilanciamento ponderato
degli interessi da esso coinvolti.
Tra consensus
e bilanciamento dell’assetto degli interessi, ispirato dal sinallagma,
sui quali, come si è detto, la dottrina assa la concezione romana del contractus mi sembra che Giuliano ipotizzasse
la considerazione di un ulteriore riferimento: quello dell’aggancio della
conventio, che disciplinava il contractus, con ciò che se
immaginato si sarebbe ugualmente accolto in essa, ma che non era presente ai
contraenti al momento della conclusione del contratto. Tale aggancio non
incideva sulla validità del contratto, ma solo ne determinava la
proporzionale riduzione delle conseguenze che, a rigori, sarebbero dovute
scaturire dal consensus prestato.
Tale riduzione, che poteva operare a favore tanto dell’una quanto
dell’altra parte, mi sembra un ulteriore piú ultraneo sviluppo
della linea di pensiero, sopra ricordata, espressa da Aristone ed iniziata da
Labeone; con la differenza che le dottrine espresse da quei giuristi
concernevano la conclusione del contractus,
mentre la costruzione di Giuliano era diretta a regolare le conseguenze di
esso: le prime guardavano al momento genetico del vincolo obbligatorio, mentre
la disciplina giulianea mirava a fissare criteri per l’esecuzione del contractus, ivi compreso il momento
dell’eventuale dissoluzione di esso, per responsabilità di una
delle parti.
In qualche misura Giuliano perfezionava ed
andava oltre la posizione già espressa da Sesto Pedio, quando aveva
fondato il contratto sulla conventio
(nullum esse contractum, nullam obligationem,
quae non habeat in se conventionem)[65].
Questi, come si è ricordato sopra, dichiarava
l’essenzialità della conventio
per qualsiasi contratto od obbligazione, ma poi sembra avere riferire la conventio stessa al consensus; infatti egli dopo avere affermato che non vi poteva
essere vincolo senza la conventio
precisava che anche nella stipulazione, la quale pareva nascere solo dalla
pronuncia di determinate parole, era necessario il consenso, operando, a mio
avviso, una identificazione della conventio
con il consensus: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi
habeat consensum, nulla est (infatti anche la stipulazione, che si crea con
le parole, è nulla se non contenga il consenso”).
Giuliano, almeno per i contratti
sinallagmatici, invece parrebbe far rientrare nella conventio non solo il consensus,
ma anche i termini nei quali si sarebbe potuto concludere l’accordo se si
fossero ipotizzate circostanze o situazioni che in realtà non furono
ipotizzate dai contraenti; sempre che esse avessero comportato uno squilibrio
apprezzabile negli obblighi assunti dalle parti.
Con Giuliano la disciplina del contractus veniva così ad essere
integrata da un nuovo principio, che ancorava gli effetti del contractus ad un criterio di
prefigurazione di essi, al momento dell’intesa contrattuale, in modo da
escludere le conseguenze non previste, quando fossero risultate fuori dal
normale svolgimento degli eventi disciplinati nel contratto; sempre che
avessero potuto incidere in maniera apprezzabile sull’assetto dato dalle
parti ai propri interessi. In ultima analisi vi era una piú penetrante
attenzione alla voluntas nel senso
che si cercava di stabilire, di là da quanto esplicitato
nell’accordo, cosa in realtà si era voluto o, meglio, quello che
si sarebbe potuto volere. È per questo che la decisione di Giuliano si
traduceva in una valorizzazione della volontà effettiva che stava alla
base del negozio e che, anche se non esplicitata, era ricavabile
dall’insieme della negoziazione e non solo dal consensus espresso.
Con il riferimento a quod sit cogitatum
Giuliano aveva inteso richiamare proprio le circostanze non previste e, direi,
impensabili; che, però, se note, avrebbero portato ad un diverso accordo
mi pare anche confermato da un esame dell’uso del verbo cogitare in altri contesti.
Per tale via il giurista aveva introdotto
anche nella materia contrattuale, che poteva prestarsi ad una visione formale,
l’attenzione all’uomo storico e alla specificità del suo
‘concreto’ operare.
È questa un’articolazione del
diritto in funzione della persona.
In conclusione vorrei domandarmi come si
è pervenuti all’odierna posizione che pare avere abbandonato le
matrici romanistiche e con ciò ha in parte smarrito il nesso
inscindibile tra uomo e diritto, con la priorità del primo sul secondo,
ed è sovente pervenuta a pensare che sia il diritto a creare la persona, attraverso la concessione della personalità giuridica.
Richiamo quanto ho già avuto modo di
specificare in altra sede[66],
mettendo in evidenza il cammino del termine e del concetto di persona, da quando viene impiegato in
riferimento alla SS. Trinità, dove il Padre si mostra attraverso il
Figlio, che, in tal senso, è
‘persona’[67].
Di qui si compie un ulteriore passo, che consiste nell’uso del termine
con significato analogo anche per gli uomini, visti come 'persone' viventi
un’esperienza propria storicamente contrassegnata nell’ambito del
messaggio salvifico dell’Incarnazione.
A conclusione di questo iter
cultural-semantico si perviene ad attribuire definitivamente al termine il
significato “di persona individuale e individuata”[68].
Non c’è più motivo di ricordare l’origine teatrale,
ma talora essa appare utile a far risaltare il contenuto di ‘valore’ del termine, a sottolinearne
l’attinenza con la dignità delle persone, come farà, ad
esempio, S. Tommaso d’Aquino, che spiega:
maxime Deo convenit
quia enim in coemediis et tragoediis rapraesentabantur aliqui homines famosi,
impositum est hoc nomen, persona, ad
significandos aliquos dignitatem habentes[69].
Come che sia, si può dire che la
situazione non cambia per lungo tempo e che la nozione di persona non è
oggetto di particolari determinazioni fino al XVI secolo[70],
ma progressivamente si avvia ad una specificazione che finirà per
alterarne i connotati. Pur se importanti discussioni non si registrano, si
assiste ad una precisazione graduale nel linguaggio giuridico.
Il termine, giunto già con Gaio (nel
2 secolo d.C.) a denotare l’uomo, dà vita a progressive
specificazioni tecnico-giuridiche.
La prima porta a puntualizzare che persona nel diritto è diverso da homo, in quanto la sua qualifica passa
attraverso un riconoscimento del diritto, che prescinde dalla situazione
naturale. Ad esempio, dirà Hugues Doneau, (Donellus, 1517-1591): «homo
naturae, persona iuris civilis vocabulum»[71].
Il cammino in questa direzione l’iniziano i Canonisti medievali i quali
usano persona per qualsiasi ente cui
sia imputabile l’agire e quindi la capacità giuridica. Essi
partono da un’assimilazione metaforica (quasi una
«finzione»), per includere tra le personae anche le personae
fictae, (le universitates), dando
inizio alla figura dogmatica delle
cosiddette «persone giuridiche», distinte, con brutta formulazione,
dalle cosiddette «persone fisiche». Su questa nuova concezione si
innestano due spinte che conducono da un lato alla
‘patrimonializzazione’ dall’altro all’astrazione del
concetto di persona.
Considerando che uomo è colui che,
potendo disporre pienamente di sé, acquisisce il dominium rerum externarum, la seconda Scolastica e le correnti di
pensiero di cui punta d’avanguardia fu il Locke, posero le premesse per
l’assunzione di un contenuto economico nel concetto di persona, che, specie nel XIX secolo,
viene a realizzarsi nella figura del proprietario[72].
Per altro verso si costruisce una nozione
formale ed unitaria di persona, riferibile tanto agli uomini quanto alle
collettività, come centro d’imputazione di doveri e diritti
fissati e riconosciuti dall’ordinamento giuridico, che il Kelsen indicava
in questi termini: «La persona fisica o giuridica che ‘ha’
(come titolare dei medesimi) doveri giuridici e diritti soggettivi, è
questi doveri giuridici e questi diritti soggettivi, è cioè un
complesso di doveri giuridici e di diritti soggettivi, la cui unità si
esprime in modo figurato nel concetto di persona»[73].
In conseguenza di ciò viene considerata persona qualsiasi ente
cui sia imputabile il compimento di atti.
A conclusione di questo processo si perviene
alla specificazione del termine, che perde il suo significato generale, frutto
della concettualizzazione filosofica che aveva portato
all’identificazione tra persona
e uomo (inteso come realtà
razionale da Boezio e da pensatori moderni, tra i quali spicca Kant). Esso si
particolarizza. Su di lui premono le esigenze sempre più ‘esclusive’
dell’economia, che ancora oggi condizionano il diritto vigente.
Vi è una più vigorosa esigenza
di adeguare ‘il giuridico’ alla realtà giornaliera, di
concretizzarlo nello specifico del contesto socio-economico difendendo la
facoltà di scelta dell’Ordinamento, unico arbitro della
giuridicità e della soggettività. Questa “ricerca di una
adeguazione giuridica alla realtà dell’agire e degli interessi,
sempre meno imputabili in via prevalente al singolo, cade
nell’astrattezza d’un concettualismo formale, per cui non ogni
persona (in senso giuridico) è uomo. Codesta duplice ma opposta valenza
semantica (restrittiva l’una, estensiva l’altra) viene divulgata da
ideologie, recepite anche dalla scienza giuridica, e resa operante dal completo
monopolio d’una invadente normazione giuridica che lo Stato
moderno-contemporaneo si è attribuita. Persona viene perciò a
significare, da un lato, il concretissimo proprietario, dall’altro
l’astratto e quasi disumanato «attore» giuridico. Si
determina, pertanto, ai giorni nostri una diffusa reazione filosofica, che nega
al primo la capacità di risolvere in sé
l’integralità della persona, poiché ne rileva la dipendenza
ultima dalle cose, l’eteronomia. E critica il secondo, perché
privo di consistenza esistenziale, mera apparenza artificiale, come aveva
già rilevato Hegel nella sua dura critica al Rechtszustand, di nuovo maschera come in antico: e la maschera
può nascondere il duro volto del proprietario, dell’uomo
«dell’avere»[74].
Si arriva ad una costruzione, attuale ancora
ai nostri giorni, nella quale ogni posizione giuridica dell’uomo dipende
dal riconoscimento dell’ordinamento giuridico (per lo più
statuale) ed è oggetto di astrazioni che spesso sono dettate da
interessi economici, più che dalla considerazione della dignità
umana. L’uomo è schiacciato nell’ordinamento, esso stesso dichiaratosi
persona, come Stato o altro, dove
è accerchiato da altre persone che
sempre più e più di lui contano: le persone giuridiche, le grandi società, le multinazionali[75].
Per tutte queste ragioni si può dire
che sulla persona non solo il dibattito
e le conseguenti riflessioni sono aperte, ma devono ripartire da una matrice
forte e chiara. Per la quale la base piú solida sembra offerta dalle
fonti del diritto romano, incentrato sull’uomo-persona e sul suo essere nella Storia.
[1] Essa seguiva la
partizione ripresa pari pari dal commentario di Gaio tra ius delle persone e ius
delle cose: I.1.12 : Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet vel ad res vel ad
actiones.
[2] Non posso qui
soffermarmi sulle implicazioni, molteplici e complesse, relative al significato
del termine ius e sul concetto con
esso richiamato dal brano e, più in generale, avuto presente dai
redattori di Giustiniano e dalla precedente giurisprudenza romana. Mi
limiterò a rinviare, dandole per richiamate, alle cospicue e penetranti
pagine scritte dalla dottrina contemporanea. In sommaria approssimazione, come
la sede mi costringe a fare, mi pare di potere ritenere che qui ius fosse assunto da Gaio e poi da
Giustiniano come indicativo dell’ordinamento ovvero del “complesso
delle norme o dei rapporti giuridicamente rilevanti in una comunità
politica o al di là di essa”: così bretone, I fondamenti
del diritto romano. Le cose e la natura, 1998, 136. Ma lo stesso Autore
avverte che ius ha una
molteplicità di significati i quali non si risolvono nei concetti odierni di
‘ordinamento’ o di ‘complesso normativo’, i quali sono
un’astrazione molto lontana dal ius
dei romani. Certo è che per noi risulta difficile la comprensione dei
concetti romani, legati come siamo ad astrazioni ed a partizioni, prima fra
tutte quella tra diritto oggettivo e diritto soggettivo, del tutto estranee al
diritto romano: v. sul punto catalano,
Diritto, soggetti, oggetti: un contributo
alla pulizia concettuale sulla base di D. 1, 1,
[3] Il termine usato (statutum) ha un significato
pregnante e sta ad indicare un processo radicato e profondo, ineliminabile dal ius: ce ne persuade una breve
scórsa delle ricorrenze di esso. Nelle stesse Istituzioni il termine
veniva adoperato per indicare quello che fosse stato stabilito in modo certo, o
ad opera delle parti contraenti (IJ 3.9.12.(7); IJ 323.1) o attraverso le
costituzioni imperiali (IJ 2.8.2; IJ 4.2.1). Gaio utilizzava il termine una
sola volta in relazione a cose ‘certe’ (Gai. 3.142).
[4] L’affermazione
era preceduta dalla classificazione del ius:
Omne autem ius,
quo utimur, vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones.
[5] In questo senso si
vanno orientando le letture piú recenti del manuale gaiano, il quale
segna un punto fermo nella sistemazione degli argomenti all’interno dei
manuali istituzionale, ed è diventato un modello per le età
successive; esso era innovativo rispetto ad altri modelli, che non ancora
avevano avvertito l’esigenza di porre le persone in cima alla trattazione
giuridica: ad esempio la sistematica seguita da Quinto Mucio Scevola,
nell’opera pur fondamentale quale furono i suoi libri sul ius civile, partiva dalle successioni,
così come fece successivamente Sabino: v. Schulz, Sabinus-Fragmente
in Ulpians Sabinus-Commentar, rist. Labeo
1 (1964), 56 ss. e Storia della
giurisprudenza romana, tr. It. 1968, 172, 279. Ma sul punto v. anche le
osservazioni di R. Quadrato, La persona in Gaio. Il problema dello
schiavo, Iura 37 (1986), 1 s. «La persona
costituisce un tema cruciale nella riflessione gaiana. È uno dei cardini
dell’ideologia del giurista adrianeo, un punto decisivo del suo pensiero.
La linea di Gaio la si intravede già nel modo in cui organizza il
discorso istituzionale, nella descrizione del ius quo utimur. Il piano didattico si apre con la trattazione del ius personarum. È una novità
nella sistematica. Modificando una linea antica, attestata nell’opera di
Q. Mucio, riproposta nei tres libri iuris
civilis di Sabino, Gaio colloca il tema delle persone al primo posto,
sostituendolo alla hereditas. La
persona viene così ad occupare un posto di preminenza, di
centralità nell’ordinamento; è l’asse attorno al
quale gravita il ius, l’intera
costruzione giuridica…. Non è un mutamento di poco conto. È
una prospettiva che tende ad orientare il diritto verso il suo destinatario
naturale, l’uomo, nel cui interesse ‘statutum est’». Per la collocazione del brano gaiano v.
Di Pietro, Gayo. Institutas. Texto
traducido, notas e introducion4, Buenos Aires 1993, 62 ed ivi nt. 9;
l’A. comunque non si interroga sul significato di prius.
[6] La datazione di Ermogeniano,
che potrebbe essere stato anche l’autore del codex Hermogenianus, e della sua epitome è controversa e va
da chi la data alla fine del 3° secolo a chi la colloca ad una data
successiva ad una costituzione di Costantino sul plagio del 331: Brassloff, v. Hermogenianus nr. 2, re
VIII.1, coll. 881-2;: v. Lenel, Palingenesia I, 266; Kübler,
Röm. Geschichte, 375; Schulz, History of Roman Legal Science, 1967, 309; Kunkel, Herkunft und
soziale Stellung der römischen Juristen2, 1967, 263. Efficacemente il Liebs
ed il Cenderelli hanno sostenuto (suscitando un animato dibattito) che sia
piú probabile la datazione dei libri
iuris epitomarum all’età dioclezianea: v. Liebs, Hermogenians Iuris Epitomae. Zum Stand der röm. Jurisprudenz im
Zeitalter Diokletians, 1964; Cenderelli,
Ricerche sul codex Hermogenianus, 1965, 198 ss.; Intorno all’epoca di compilazione dei “libri iuris
epitomarum” di Ermogeniano, in Labeo
14 (1968), 187 ss.
[7] Constitutum ha una valenza ampia e difficilmente riconducibile ad
unità. Tuttavia in esso può notarsi il significato di
‘fissare’, ‘stabilire’, con una proiezione verso
l’indicazione di quello che è frutto di ‘convenzione’
ovvero dello ‘stabilire insieme’, che era forse il suo significato
“primitivo e mai dimesso” e sembra affermato nel 2° sec. d.C.
dove è riscontrabile nei ‘commentarii’ di Gaio e
nell’enchiridion di Pomponio: sul punto v. Giodice Sabbatelli, “Censtituere”. Dato semantico e valore giuridico, in Labeo 27 (1981), 338 ss. e Il catalogo degli iura e constituere nel
proemio delle istituzioni gaiane, in Il linguaggio dei giuristi romani -
Atti del convegno internazionale di studi - Lecce, 5-6 dicembre 1994 - a cura
di O. Bianco e S. Tafaro, 2000, 113 ss. Questo mi spinge a pensare che
Ermogeniano volesse dire che la centralità della persona era un punto
fermo ed era stata concordemente accettata nel corso dell’evoluzione
dell’esperienza giuridica romana. Devo però osservare che forse
nel linguaggio dei giuristi a partire dall’età dei Severi constitutum potrebbe avere assunto un
significato più ristretto e specifico perché potrebbe essere
astato adoperato solo per indicare ciò che era stato deciso dalle
costituzioni imperiali. Ulpiano adoperava il termine constitutum forse solo con riguardo agli edicta: v. Honoré,
Ulpian, 1982, 239, nt. 375 (Ulp.
3.2.13.7, dove per il giurista costitutum
distingue le costituzioni del Principe rispetto alle decisioni dei prudentes, indicate con responsum), 241, ntt. 392, 393, 394
(Ulp. D. 40.5.26.1, Ulp. 49.14.25, Ulp. D. 29.7.1). Per parte mia osservo che
una breve scórsa delle fonti ulpianee mostra che sempre il giurista
quando adoperava constitutum
intendeva richiamare norme introdotte da costituzioni imperiale: cfr. Ulp. D.
2.4.10.4; Ulp. D. 2.13.4.5; Ulp. D. 3.2.13.7; Ulp. D. 3.3.39.1; Ulp. D.
3.6.5; Ulp. D. 4.1.6; Ulp. D.
4.4.3.1; D. 4.4.22; Ulp. D. 4.6.26.9; Ulp. D. 4.9.1.1; Ulp. D. 5.2.29; Ulp. D.
11.7.6; Ulp. D. 13.6.5.2; Ulp. D. 13.7.11.6; Ulp. D. 16.2.11; Ulp. D.16.2.12;
Ulp. D. 17.1.12.9; Ulp. D. 22.1.37; Ulp. D. 26.7.1.1; Ulp. D. 27.3.1.13; Ulp.
D. Ulp. D. 28.3.6.8; Ulp. D. 28.3.6.10; Ulp. D. 29.7.1; Ulp. D. 30.41.5; Ulp.
D. 40.4.9. 1; Ulp. D. 40.5.24.21; Ulp. D. 40.5.26.pr.; Ulp. D. 40.5.26.1; Ulp.
D. 42.1.15.4; Ulp. D. 42.8.10.13; Ulp. D. 42.8.10.14; Ulp. D. 43.4.3.1; Ulp. D.
46.3.5.2; Ulp. D. 47.2.14.4; Ulp. D. 48.1.5.1; Ulp. D. 48.5.20; Ulp. D.
48.8.4.2; Ulp. D. 48.18.1.9; Ulp. D. 48.22.7.15; Ulp. D. 49.7.1.4; Ulp. D.
49.14.25; Ulp. D. 49.14.28; Ulp. D. 49.14.29; Ulp. D. 50.4.8; Ulp. D. 50.12.3.
Anche nei tre soli frammenti di Ermogeniano che, oltre il nostro passo di D.
1.5.2, adoperavano il termine constitutum
sembra chiaro il riferimento agli interventi degli imperatori: cfr. Herm. D.
40.1.24.1, D. 44.3.13, D. 49.14.46.5. Per due volte il tardo giurista diceva saepe constitutum est (D. 40.1.24.1, Hermog. 1 iuris epit. Sed et si testes non dispari numero tam pro libertate quam contra
libertatem dixerint, pro libertate pronuntiandum esse saepe constitutum est; D. 49.14.6.5, Hermog. 6 iuris epit. Ut debitoribus fisci quod fiscus debet compensetur, saepe constitutum
est: excepta causa tributoria et stipendiorum, item pretio rei a fisco emptae
et quod ex causa annonaria debetur). orbene l’espressione sembra usata
esclusivamente dai giuristi severiani (da Macro, Macer D. 42.1.63, ed Ulpiano,
Ulp. D. 14.6.3.1, che è l’unico ad adoperare l’aggettivo al
superlativo saepissime constitutum:
v. Ulp. D. 4.1.6, D. 4.6.26.9, D. 11.7.6, D. 14.6.3.1, D. 28.3.6.8, D.
40.5.24.1, D. 42.8.10.13, D. 42.8.10.14). Di conseguenza sembra verosimile la
derivazione del linguaggio di Ermogeniano da quello dei giuristi severiani.
[8] Per il diritto
contemporaneo se ne veda, da ultimo, l’esaustiva esposizione, riferita al
diritto italiano, in Perlingieri,
Manuale di diritto civile, Napoli
1997, 115-116: «Persona umana e
soggetto. Persona fisica è l'uomo considerato da diritto nella sua
individualità e nei rapporti con gli altri. Preliminarmente occorre
individuare il rapporto esistente tra la persona ed il soggetto. Due sono le
linee di tendenza nelle quali sembra possibile riunire numerosi indirizzi
dottrinali. Taluni, senza effettuare alcuna distinzione, discorrono
indifferentemente di persona, soggetto, uomo, individuo. Storicamente,
l’atteggiamento si accentua man mano che l'individuo è liberato
dalla soggezione perviene agli status, fonti di privilegi e di discriminazioni.
Lineare la conseguenza: ogni essere umano vivente è persona e quindi
soggetto di diritto. Meno diffuso, invece, è l'orientamento che,
ravvisando l'esistenza di differenti ámbiti di incidenza per il soggetto
e per la persona, propone di tenerli separati. Le dispute sulla confluenza o
sulla precisa suddivisione delle sfere d'influenza tra soggetto e persona non
segnano alcun progresso rispetto al fine, perseguito dall'ordinamento, di
valorizzare a pieno l'uomo nel suo essere e nelle manifestazioni del suo agire.
In tal modo, però, si ridimensiona l'affermazione che tutte le persone
umane sono soggetti di diritto: lo sviluppo storico e lo studio comparatistico
degli ordinamenti giuridici dimostrano che il dato non è immutabile e la
dottrina ricorre al termine soggetto (anziché a quello di persona),
là dove si occupa del fenomeno soggettività in termini di
struttura, mentre alla persona riserva un significato piú contenutistico».
La separazione tra persona umana e
soggettività giuridica, nella dottrina contemporanea, è poi
evidenziata dalla terminologia che distingue, talora per identificarveli, tra capacità giuridica, soggettività e personalità. In proposito il Perlingieri, loc. cit., osserva: «Per
unanime opinione la capacità giuridica assurge a principio generale
dell'intero ordinamento giuridico. Essa è definita dalla dottrina come
idoneità di un soggetto ad essere titolare di diritti e doveri e
piú in generale di situazioni soggettive. Secondo taluni però
occorre distinguere la capacità giuridica "generale", che in
quanto attitudine astratta e generica è estesa a tutti gli uomini, dalla
capacità giuridica speciale, quale incidenza della capacità
generale sulla possibile titolarità delle singole situazioni. Dominante
è l'opinione che identifica la capacità giuridica con la
soggettività. Nell'àmbito di tale opinione la teoria c. d.
organica costruisce il soggetto giuridico come una fattispecie composta da un
elemento materiale (il substrato materiale) e un elemento formale (il
riconoscimento formale da parte dell'ordinamento) che attribuisce al primo la
qualità di persona: I'uomo diventa soggetto del diritto soltanto in
virtù di tale riconoscimento. La fattispecie‑capacità
è preliminare ad ogni altra situazione soggettiva e si pone come
presupposto per l'acquisto di tutti i diritti e gli obblighi giuridici; non
è ammissibile che essa sia graduale poiché è sempre
costante, piena, non parziale, non limitata, non relativa. In questa
prospettiva però l'uomo assurge nell'ordinamento giuridico ad
unità fittizia ed indifferenziata. L'altra impostazione, invece,
raccoglie le teorie c. d. atomistiche che tendono a scomporre il fenomeno in tanti
comportamenti quante sono le norme che li prevedono. La persona, fisica o
giuridica, che "ha" doveri giuridici e diritti soggettivi
"è" questi doveri e questi diritti; è, cioè, un
complesso di doveri giuridici e di diritti soggettivi raffigurato
unitariamente. Tale concezione estromette l'individuo dal mondo del diritto,
limitandosi a cogliere l'isolato comportamento umano come previsto e
disciplinato dalla singola norma. Pertanto la soggettività, al pari
della capacità giuridica, lungi dal costituire una qualità intrinseca
dell'uomo, si frantuma in una serie di comportamenti analizzabili l'uno
indipendentemente dall'altro, sí che resta preclusa un'interpretazione
della realtà che trascenda l'episodico e il contingente. Invero l'art. 1
– del Codice Civile italiano – segna l’ingresso
dell'individuo nell'ordinamento giuridico: l'uomo è accolto nel mondo
del diritto nella sua totalità fisica e psichica e dunque diviene
soggetto di diritto. La natura della norma non consente di spingere
l'affermazione oltre il mero riconoscimento della capacità‑soggettività.
Il collegamento della soggettività ad ogni persona fisica è
invece ravvisabile, a livello costituzionale. La soggettività entra nel
novero dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all'uomo (2 cost.
– italiana –). La qualità di uomo si presenta come
condizione imprescindibile affinché l'ordinamento possa assegnare la
qualifica di soggetto di diritto: I'appartenenza al genere umano costituisce requisito
necessario e al tempo stesso sufficiente ai fini del conferimento della
soggettività e non sono ammesse (31 cost. ) distinzioni di sorta tra
individuo e individuo. Perciò la capacità‑soggettività
non può essere eliminata per alcun motivo, neanche di natura politica
(22 cost. ). Si riattribuisce cosí una propria utilità alla
nozione di capacità giuridica generale e si respingono le letture
riduttive dell'art. 1 – C. C. -. Con riferimento ai concetti di
capacità giuridica e di personalità, ora si configura la prima
come nucleo essenziale della seconda (sí che le due nozioni si
sovrappongono e si esauriscono l'una nell'altra), ora si pone la
personalità in una posizione di priorità rispetto alla
capacità giuridica, come emanazione della personalità, ora,
infine, come misura della stessa. Piú di recente, sulla base di una attenta
valutazione del dato costituzionale non soltanto non è lecito confondere
la capacità con la personalità (che della persona è
l'aspetto dinamico garantito nel suo pieno e libero svolgimento), ma si delinea
l'impossibilità di riconoscere all'uomo l'astratta potenziale
titolarità senza l'effettiva attuazione dei valori dei quali egli
è portatore. Il che vale, in particolare, per le situazioni soggettive
personali e personalissime, che si possono definire esistenziali, là
dove titolarità e realizzazione coincidono con l’esistenza stessa
del valore, tant’è che, almeno per tali situazioni, non è
configurabile la distinzione tra la capacità giuridica (momento della
titolarità) e la capacità di agire (momento
dell’esercizio). …. La
dottrina prospetta tra la capacità giuridica e la capacità di
agire (2 – C.C. -, con le modifiche della 1. 8 marzo 1975, n. 39) un
costante parallelismo. La capacità giuridica designa il momento statico
e il soggetto si presenta come immobile portatore d'interessi; la
capacità di agire indica l'aspetto dinamico e il soggetto diventa
operatore giuridico, protagonista attivo. Pertanto, la capacità di agire
è definita come idoneità della persona a svolgere
l'attività giuridica che riguarda la sfera dei suoi interessi o come
attitudine a manifestare volontà che siano idonee a modificare la
propria situazione giuridica o ancora come idoneità ad esercitare
diritti e assumere obblighi giuridici. Della capacità di agire
generalmente si afferma la relatività. Essa varia sia dal punto di vista
strutturale, in quanto i presupposti che concorrono a formarla si differenziano
in rapporto al tipo di atto; sia da quello funzionale, in quanto la sua
esclusione o limitazione corrisponde a precisi scopi: altro è
l'incapacità dei minori e degli interdetti giudiziali (1441), altro
l’incapacità degli interdetti legali (14412), quale pena
accessoria a carico del condannato all'ergastolo o alla reclusione per un tempo
non inferiore a cinque anni (32 c. p.). La relatività opera anche in altro
senso: è dato rinvenire una capacità negoziale, una processuale,
una penale, una politica, ecc. La capacità di agire, al contrario della
capacità giuridica, appare misurabile in termini quantitativi,
tant’è che fra gli estremi dell'incapacità totale e della
piena capacità si collocano numerose tappe intermedie: capacità
parziale, limitata, semipiena e altre ancora”» (p.121).
[9] Il punto è
pacifico per i romanisti. Ciononostante essi, anche per inquadrare la realtà
giuridica romana, usano parlare di capacità
(giuridica e di agire), presumibilmente perché ritengono che il vocabolo sia
per lo studioso contemporaneo il piú idoneo ad per la comprensione
dell’antico: cfr., per tutti tre esempi emblematici della odierna e
più autorevole manualistica:
Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano14, Napoli, rist. 1985, 43: «La
condizione degli esseri che l’ordinamento giuridico considera soggetti di
diritto si dice capacità giuridica
o di diritto, o (in antitesi alla
capacità di agire, della quale diremo tra breve) capacità di godimento del diritto. La terminologia fin qui
riportata non è romana»; tuttavia l’Autore si avvaleva di
quei termini ampiamente nel prosieguo della esposizione degli istituti romani.
Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 75 s.: «23. Capacità giuridica,
capacità di agire, teoria degli 'status'. - a) Attualmente, la persona fisica è, in
quanto tale, fornita di capacità giuridica. Per capacità
giuridica s'intende l'idoneità di un soggetto ad esser titolare di
diritti e di doveri: alla capacità giuridica si contrappone la
capacità di agire, e cioè l'idoneità a porre in essere
un'attività giuridicamente rilevante, al fine di creare, modificare od
estinguere un rapporto giuridico. I romani non hanno consapevolmente formulato
questa fondamentale distinzione tra la capacità giuridica e la
capacità di agire, delle quali, però, si coglie, indubbiamente,
in quell'esperienza la concreta operatività. Per il diritto romano, si
tratta, in primo luogo, di determinare le condizioni che debbono ricorrere
perché all'individuo umano sia riconosciuta la capacità
giuridica».
Marrone, Istituzioni di diritto
romano2, Palermo 1994, 193: «La
dottrina moderna pone a base di ogni discorso sul diritto delle persone i
concetti di capacità giuridica (o capacità di diritto) e
capacità di agire. Per capacità giuridica intende
l'idoneità ad essere titolari di diritti ed obblighi o, in ogni caso, di
situazioni giuridiche soggettive; per capacità d'agire l'idoneità
ad operare direttamente nel mondo del diritto e pertanto a compiere
personalmente atti giuridici. Si tratta di categorie giuridiche non romane,
utili però per inquadrarvi, all'occorrenza con le necessarie
precisazioni, la realtà giuridica romana. Giuridicamente capaci sono
oggi, nel nostro sistema positivo, tutti gli esseri umani, tutti quanti essendo
possibili centri di imputazione di diritti e doveri giuridici (anche il pazzo,
anche il fanciullo possono essere eredi, proprietari, etc.). Capacità
giuridica si riconosce inoltre a talune entità consistenti in organizzazioni
di persone e beni, cui si dà il nome di persone giuridiche. In
contrapposizione ad esse gli esseri umani si dicono persone fisiche. I soggetti
giuridicamente capaci sono pertanto in ogni caso 'persone': persone fisiche gli
esseri umani, persone giuridiche gli altri enti. Per diritto romano le cose
stavano diversamente. Anzitutto dal punto di vista terminologico: la parola 'persona' è riferita solo a
quelle che noi diciamo persone fisiche ed è propria di esse. Tutti gli
esseri umani, nel linguaggio giuridico, sono detti persone ma non tutti hanno
capacità giuridica: possono averla, ma non l'hanno necessariamente, le
persone libere; non l'hanno mai, in via di principio, gli schiavi (servi). Anche i Romani riconobbero che
certe organizzazioni potessero essere centri di imputazione di diritti e doveri
giuridici ma non elaborarono compiutamente il fenomeno: i concetti al riguardo
furono, sul piano giuridico, appena abbozzati e mancò comunque una
terminologia costante. La capacità d'agire — non concepibile
propriamente per le persone giuridiche — presuppone oggi la
capacità giuridica e viene riconosciuta a tutti gli esseri umani
intellettualmente capaci: è negata pertanto ai minori di età e
agli infermi di mente. Anche a Roma la capacità d'agire era riconosciuta
alle persone intellettualmente capaci ma non presupponeva necessariamente la
capacità giuridica: un pater familias
adulto e sano di mente era giuridicamente capace e al contempo capace di
agire; invece schiavi e filii familias adulti e sani di mente erano
sì capaci di agire ma era loro fondamentalmente negata la
capacità giuridica (operavano nel mondo del diritto con effetti che talora
si imputavano al dominus o al pater familias)».
Non sono sfuggite a questa impostazione
di fondo neppure le ricerche che sono partite da un’ottica differente,
incentrandosi intorno alla considerazione della ‘persone’, come si
può dire per la ricca e circostanziata opera dell’Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, nella quale
l’interrogativo di fondo resta sempre quello di verificare se e quando vi
fosse capacità (di volta in volta, giuridica o di agire).
[10] Così Talamanca, Istituzioni cit., 683, dove viene ricordato che «la categoria
dell’incapacitas venne
introdotta nell’ordinamento romano dalla legislazione matrimoniale
augustea, che prevedeva una serie di casi in cui l’erede od il legatario
non potevano acquistare l’eredità od il legato».
[11] V. Kunkel, Herkunft und
soziale Stellung der römischen Juriste2, 1967, 224 ss., 245 ss.; Tafaro, Regula e ius antiquum in D. 50.17.23, Appendice, 1989, 1
ss.1-3.
[12] V. Frezza, La cultura di Ulpiano, in SDHI 1968, pp. 365 ss., il quale mette in
risalto il legame che doveva esserci stato tra il giurista ed i grandi
pensatori della Siria, Origine e Porfirio, i cui insegnamenti sembrano presenti
anche nell’impostazione dell’attività giuridica di Ulpiano,
che espressamente si vantava della sua origine fenicia in D. 50.15.1.pr. Ulp. 1
de cens.: Sciendum est esse quasdam
colonias iuris italici, ut est in Syria Phoenice splendidissima Tyriorum
colonia, unde mihi origo est, nobilis regionibus, serie saeculorum antiquissima,
armipotens, foederis quod cum Romanis percussit tenacissima: huic enim divus
Severus et Imperator noster ob egregiam in rem publicam imperiumque romanum
insignem fidem ius italicum dedit.
[13] Nella
contrapposizione, insita nell’affermazione di Ulpiano, forse vi era
l’eco di una polemica risalente che aveva contrapposto la vera philosophia alla simulata philosophia, e che
“sembra raccogliere echi ciceroniani e quintilianei” (così Bretone, Storia del diritto romano2, 1987, 273 ed ivi nt. 82, con ragguaglio
bibliografico, anche riguardo alla tesi del Nörr, che vede in Ulpiano la
risposta all’accusa mossa da Cicerone, quando nel pro Murena 14.30 aveva bollato l’attività dei giuristi
come verbosa simulatio prudentiae).
[14] D. 1.1.1.pr.-1 Ulp.:
1 ist.: Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat.
est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars
boni et aequi. Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque
colimus et boni et aequi notitiam profitemur, aequum ab iniquo separantes,
licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam
praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes, veram nisi fallor
philosophiam, non simulatam affectantes. Va detto che Ulpiano proponeva un
ideale di vita pratico, calato nella realtà e non lontano da essa come i
filosofi, ed in particolare Origene, avevano sostenuto, asserendo che bisogna
perseguire la vera filosofia per vivere la vera vita, lontana dalla milizia,
dall’attività forense, dallo studio delle leggi (cfr. Greg.
Thaumaturgus, in Origenem, oratio
panegyrica, - Migne, patr. Gr., 10, p. 1069 A-B). Ulpiano, invece si collegava alla tradizione
aristotelica ed alle correnti di pensiero che avevano visto il nómos
come la forma che consentiva di discernere ciò che giova da ciò
che nuoce (v., per esempio, riguardo ad Archelao ed Ippocrate Polenz, Nomos und Physis, in Klass.
Schriften, 2, 341 ss.) e che sostanziava la virtù degli dei di
distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto,
come già Euripide (Hecuba, vv.
800-801) aveva detto. Il Nörr,
Iurisperitus sacerdos, in Xénion.
Festschrift Zepos, 1973, 557, suppone una probabile antecedenza alla
qualifica di sacerdotes rivendicata
da Ulpiano per i giuristi in una formulazione di Seneca, De vita beata 26.7.
[15] Soprattutto della
neoplatonica: v. Frezza, La cultura, cit., 371. Era la concezione
superiore del diritto a fornire ad Ulpiano una visione elevata del ruolo dei
giuristi, visti come sacerdoti
chiamati ad una missione totalizzante della scienza divina ed umana: D.
1.1.10.2: Iuris prudentia est divinarum
atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. Sul punto e
sulle tematiche connesse v. Bretone,
Storia del diritto romano2, cit.,
partic. 270 ss., 346 ss. che ricostruisce tutti gli itinerari culturali e le
valenze connesse alle affermazioni ulpianee e alle visioni sul ius della giurisprudenza romana.
[16] Nel pensiero di
Ulpiano la priorità spetta alla giustizia che consiste nella costante e
perpetua volontà di riconoscere a ciascuno il proprio diritto (D.
1.1.10.pr.: Iustitia est constans et
perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi), secondo un’affermato
assioma greco, divulgato in Roma da Cicerone (De legibus 1.6.19).
[17] La centralità
della persona è pienamente
avvertita dai filosofi moderni. Rosmini assa sulla persona le sue teorie
etico-giuridiche; per lui: «il concetto del diritto suppone primieramente
una persona, un autore delle proprie azioni», perciò «la
persona dell’uomo è il diritto umano sussistente» (Filosofia del diritto, I, ed. 1967, 106,
191).
[18]
Sull’evento,
ricordato anche avanti, che va sotto il nome di Constitutio Antoniniana , da ultimo v., anche per la disamina della
più significativa letteratura, Bretone,
Storia del diritto romano2, cit. pp.
443 s.
[19] Sul punto v. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, cap. I: “Populus e
civis: Da Rousseau a Nietzsche”.
[20] Il termine verrà usato nel
significato odierno, perché è parso quello più idoneo ad
indicare le situazioni di soggettività e capacità giuridica, in
considerazione del fatto che capacità
nell’uso odierno ha portata generale e può riferirsi ad ogni
situazione con implicazioni giuridiche rilevanti: v. Falzea, sv. Capacità
(Teoria generale), ED VI, 1960, 8 s.
[21] V. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della
famiglia romana2, 1978, 39 s. Mutuo l’espressione ciclo della vita
dal Pugliese, Il ciclo della vita individuale
nell’esperienza giuridica romana, in Atti dei Convegni Lincei 61 (1984) - Colloquio: Il diritto e la vita materiale (Roma,
22-23 novembre 1982), 55 ss. Segnalo il fatto che il contributo è un
archetipo esemplare per i temi legati alla considerazione della vita individuale
ed in particolare alla problematica relativa all’età minorile;
esso, peraltro, è l’ultimo di alcuni saggi, che denotano
l’acuita attenzione dell’Autore per i problemi dei minori nella realtà
romana; gli altri sono: Precedenti romani della moderna legislazione sui
minori, Atti dei Convegni Lincei 59 (1983) - Colloquio italo-polacco: La legislazione sui minori (Roma, 22-23
novembre 1979), 111 ss.; Appunti sugli impuberi e i minori in diritto romano,
in St. Biscardi IV (1983), 469 ss.
Rinvio comunque alle specificazioni, anche bibliografiche, da me fatti in Pubes
e viripotens nella esperienza giuridica romana, Bari 1988, cap. I. 1.
[22] La peculiarità
di tale posizione richiederebbe un lungo discorso che non si può qui
nemmeno accennare. Per lo status
doctrinae, l’analisi dello sviluppo e dell’esercizio della patria potestas all’interno
dell’organizzazione della familia e
per un vaglio critico e completo delle fonti giuridiche e letterarie: Rabello, Effetti personali della “patria potestas”, I - Dalle
origini al periodo degli Antonini (1979). Ricordo i riferimenti nei manuali
istituzionali: Burdese, Diritto
privato romano, 1977, pp. 221 ss.; Guarino,
Diritto privato romano2
(1984), 309 ss.; Serrao Diritto
privato economia e società nella storia di Roma 1 - Prima parte,
1984, 211; Marrone, Istituzioni
di diritto romano, 1988, 288; Talamanca,
Istituzioni di diritto romano, 1990, pp. 119 ss.; Nicosia, Institutiones. Profili di
diritto privato romano, parte I, 1991‑92, 86 ss.
[23] L’etimologia di
pop(u)lus, che potrebbe provenire da
una radice mediterranea, importata dagli Etruschi, equivalente a
“crescere”: cfr. Devoto,
Storia della lingua di Roma (1940),
57, 77,80; De Martino, Storia della costituzione romana I
(1958), 88 ed ivi nt. 30. Il
collegamento tra poublicus, publicus e il significato di crescita
era già intravisto dal Ceci,
La lingua del diritto romano, I, Le
etimologie dei giureconsulti Romani , 1892, 111, nt. 2, che richiamava, in
proposito, l’opinione del Thurneysen.
[24] Sono questi i temi
affrontati in altra sede, nella ricerca sulla pubertà, alla quale, qui,
non posso che rinviare: La pubertà
a Roma. Profili giuridici, 1993 -
ed. parzialmente rivista di Pubes e
viripotens, cit.
[25] Il sette era il
numero intorno al quale era organizzata l’intera esistenza umana.
Richiamo quanto ho già osservato in La
pubertà a Roma, cit, 124 s. nt. 20-21, il sette diventò il
simbolo della perfezione e il multiplo intorno al quale si scandivano gli
avvenimenti più importanti della vita. Perciò
[26] Sulla pregnanza di
questa espressione, che riconosce la vita
al nascituro, v. Catalano, Diritto e persone, cit., 169 ss.
[27] Per tutti cito Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano,
I, 1968, pp. 8 ss.; ma l’opinione è radicata presso gli studiosi
di diritto romano, i quali si richiamano ad un testo delle Institutiones di Gaio,
che, nel 2 sec. d. C., parlava di personae
anche riguardo agli schiavi: Gai 1.9:
et quidem summa divisio... personarum
haec est, quod omnes homines aut liberi sunt aut servi. Dal brano si suole
dedurre un significato generico di persona, senza implicazioni giuridiche, ma
così non è.
[28] Non è questa la sede per
ridiscutere la questione, complessa e risalente. Basti osservare che tutte le personae, anche gli schiavi, in
realtà, avevano, nella visione dei Romani, una loro soggettività,
sia pure diversamente articolata: sul punto, v. Catalano, Diritto e
persone, cit., partic. 163 ss.; v. anche Tafaro,
La pubertà a Roma. Profili
giuridici, cit., 11 s. In effetti devo qui ribadire che le concezioni
moderne della ‘personalità
giuridica’, condizionano la ricostruzione della realtà antica,
la quale spesso viene forzata per farla aderire ad uno schema che non
corrisponde affatto all’evoluzione dell’esperienza del passato. In
realtà nell'esperienza romana non troviamo nulla di assimilabile ai
concetti contemporanei di soggetti di
diritto e di capacità (giuridica e di agire). Da tale visione è stato originato «il venir
meno della stretta connessione tra le nozioni di homines e di qui in utero
sunt (propria degli antichi giuristi romani) sostituita dalla contrapposizione,
che direi inumana, tra le nozioni di ‘persona’ e di
‘feto’»: v. Catalano,
Diritto e Persone cit., 172. Si deve
alla nozione della ‘personalità’, definita dal Savigny e, in
Italia, dallo Scialoja, la distinzione tra ‘persona’ e ‘feto’,
dalla quale si è voluto trarre la conclusione che il feto non è
persona. Su di essa si sta sviluppando una cospicua critica nella dottrina
civilistica contemporanea: cfr. Caferra,
Diritti della persona e stato sociale,
rist. 1992, 39 ss.; Catalano, op. cit., 172, nt. 23. Le concezioni
basate sulla ‘personalità giuridica’ sono consone alla
formazione europea degli Stati borghesi, ma spesso si rivelano inidonee a
cogliere le realtà di altre esperienze. Soprattutto non colgono le
realtà in formazioneo o in evoluzione, quali (ad esempio) ancora oggi,
almeno in parte, sono alcune esperienze latino-americane e, in passato, fu
quella romana. Questa si articolò in un intreccio dialettico e magmatico
tra sfere differenti di influenza che spesso si intersecavano. Rispetto alle
quali lo Stato rappresentò la costruzione di sintesi ultima, che
tuttavia convisse con esse almeno fino al 2° a.C. Nel quadro che ne
scaturì l’individuo si collocò su piani molteplici, che
implicavano i sacra, attraverso un
legame stretto tra pubblico e privato, nel quale si fece via via sempre
più strada il vincente tentativo dello Stato di rivolgersi direttamente
ai singoli, superando le organizzazioni delle gentes e delle familiae:
cfr. Fiore
[29] D. 35.2.9.1 Pap. l.
10 quaest.: Circa ventrem ancillarum nulla temporis admissa distinctio est nec
immerito, quia partus nondum editus homo non recte fuisse.
[30] D. 25.4.1.1 Ulp. 24 ad ed.:
Ex hoc rescripto evidentissime apparet
senatus consulta de liberis agnoscendis locum non habuisse, si mulier
dissimularet se praegnatem vel etiam negaret, nec immerito: partus enim
antequam edatur, mulieris portio est vel viscerum. Post editum plane partum a
muliere iam potest maritus iure suo filium per interdictum desiderare aut
exhiberi sibi aut ducere permitti. Il testo mi pare esprimere un concetto
ovvio e cioè che prima del parto non è consentito nessun atto
ammesso nei confronti dei figli già nati; pertanto la sua portata
è molto limitata e relativa al contesto discusso e non implica un
generale disconoscimento della ‘personalità’ dei nascituri.
[31] Una panoramica dello status doctrinae sul punto e più
in generale sulle persone in diritto romano è offerta dall’Albanese, Le persone nel diritto privato romano (1979), p. 15 e i capitoli
II-IV, V, VII; Id., v. Persona (diritto romano), ED. XXXIII,
1983, pp. 169 ss.
[33] Beneveniste, Pubes et publicus, R. Philol. XXIX,
fasc. 1, 1955, 7; v. anche Colaclidès,
A propos de ‘publicus’,
in Rev. Étud. Latin. 37 (1959), 113 ss.
[34] v. Morel, Pube praesenti in contione, omni poplo, in Rév. Étud. Latin. 42, 1964, 375 ss. e il mio Pubes e viripotens, cit. 38 ss.
[35] Von Jhering, Geist des römischen Recht auf
verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, IV, 1878, 183; ricordato da Catalano, Populus Romanus, cit., 64 ss.; Diritto
e persone, cit., 164 ed ivi nt. 5. Anche il Peppe, v. Populus (Diritto Romano), ED XXXIV, 1985, 328,
ritiene che la nozione più generale di popolo valevole per tutta
l’esperienza romana potrebbe essere quella di «populus come insieme di cives».
[36] Catalano, Diritto e persone, cit., 166, che richiama anche il suo Populus Romanus, cit., 118-154.
[40] Agli AA. citati alla
nt. prec. adde Catalano, Diritto e persone, cit., 168: «Lo ius, costituito hominum causa, riguarda i servi
già nell’età piú antica».
[41] Non originaria, nella
legge sillana, questa estensione fu dovuta ad un orientamento interpretativo
probabilmente già consolidato al tempo degli Antonini nell’ambito
della cognitio extra ordinem: Marotta, Multa de iure sanxit. Aspetti della politica del diritto di Antonino
Pio, Milano 1988, 304 s.; v. anche Lineamenti
di Storia del diritto romano, sotto la direzione di M. Talamanca, Milano
1989, 284, 468.
[44] Sui poteri e compiti
dei Censori, rinvio, sinteticamente, a De
Martino, Storia della costituzione
romana, 2a ed., Napoli 1990, I, 19, 256, 326 ss.
[45] Sul punto rinvio al
mio lavoro, citato sopra, Pubes e
viripotens nella esperienza giuridica romana, Bari 1988, partic. 143 ss.
[46] Per la bibl. Rinvio
al mio volume citato alla nota prec., cui adde Pugliese, Istituzioni
di diritto romano, Padova 1986, 440 s.
[47] Dionigi di
Alicarnasso (2.10.2) ricordava che, per evitare che le ragazze restassero senza
dote, era stato imposto ai clientes
di concorrere alla formazione delle doti a favore delle figlie dei patroni che
non avessero avuto mezzi sufficienti ricchezze: sul punto, Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma.
Prima parte, Napoli 1984, 193.
[49] Esso consisté
nella concessione di privilegium exigendi,
che tutelava il beneficiario anche di là dalla volontà del
debitore: v., anche per la bibliografia essenziale, il mio Pubes cit., 184, nt. 42.
[50] Va ricordato che il
termine familia, come è testimoniato
anche nell’uso delle dodici tavole, indicava sia le persone che vivevano
con uno stesso padre (e quindi l’organizzazione che si realizzava intorno
a lui) sia il patrimonio: D. 50.16.195.1
Ulp. 46 ad ed. "familiae" appellatio qualiter accipiatur, videamus. et
quidem varie accepta est: nam et in res et in personas deducitur. in res, ut
puta in lege duodecim tabularum his verbis "adgnatus proximus familiam
habeto". ad personas autem refertur familiae significatio ita, cum de
patrono et liberto loquitur lex: "ex ea familia", inquit, " in
eam familiam": et hic de singularibus personis legem loqui constat.
[52] Il termine stesso pupillus, che ha radice comune con pupus (indicativo di giocattolo, per sottolineare
lo stato di incapacità del fanciullo), probabilmente comparve in seguito
all’avvento della tutela atiliana.
[53] Le due posizioni sono
espresse nella definizione sincretica formulata, sul finire della Repubblica,
da Servio Sulpicio Rufo e ricordata dal giurista severiano Ulpiano: D. 26.1.1: Tutela est, ut Servius definit, vis ac
potestas in capite libero ad tuendum eum, qui propter aetatem sua sponte se
defendere nequit, iure data ac permissa.
[54] Ad esempio il 25°
anno, che gli stessi Romani posero come età riferimento per il
raggiungimento della maturazione necessaria per provvedere correttamente da
soli ai propri affari, nella lex Laetoria:
Pugliese, Istituzioni cit., 456 ss.
[56] Pugliese, Istituzioni cit., 446 ss.; Talamanca,
Istituzioni cit., 172 ss., Marrone, Istituzioni cit., 271 ss.
[57] Tra essi si
differenzia il recente manuale di Guzmán
Brito, Derecho privado romano.
t. I. Sintesis historica del derecho
romano. las acciones y el proceso. El derecho de las personas y de la familia. El derecho de
las cosas y de su dominio, posesion, uso y goce. El derecho de las obligaciones, Santiago de Chile
1996, 407, il quale inquadra la cura
minoris nell’ambito de “La proteción al minor XXV annis.
[58] Semmai
c’è da riflettere sull’opportunità che interventi
analoghi a quello romano vengano introdotti anche ai nostri giorni, afflitti
dalla piaga dell’usura. Sulle prospettive e suggestioni che possano
suggerirsi su questa piaga della realtà odierna, v. L’usura ieri ed oggi. Convegno su “L’usura ieri
ed oggi”, Foggia, 7-8 aprile
[59] Secondo la
costruzione fattane dal Pernice, Zur Vertragslehere der römischen
Juristen, in zss, 8, 1988,
195 ss. V., anche, Perozzi, Le obbligazioni romane, 1903, 311 ss.; Bonfante, Sulla genesi e l’evoluzione del contractus, in ril 40, 1907, 808 ss. = Scritti giuridici varii III, 1921, 107
ss. e cfr. , anche per la vasta citazione bibliografica, Talamanca, v. Contratto e patto nel diritto romano, in digesto, IV ed., 1989.
[61] Il giurista
antoniniano per molti e per molto tempo è stato ritenuto, se non
l’unica, la fonte quasi esclusiva per la conoscenza del diritto classico,
relegando in secondo piano le testimonianze di altri giuristi, che,
poiché provenienti dal Digesto di Giustiniano, venivano sospettate di
interpolazioni, operate dai Compilatori delle Pandette o da precedenti interpreti
operanti nel Dominato.
[62] Gai 3.89: Harum autem
quattuor genera sunt: autem enim re contrahitur obligatio aut verbis aut
litteris aut consensu. Tr.: Vi sono poi quattro generi di contratti:
infatti l’obbligazione si contrae o con la consegna di una cosa, o con la
pronuncia di determinate parole o con la scrittura o con il consenso.
[63] Si deve invece
discutere delle spese, che il compratore fece per l’erudizione dello
schiavo: infatti ritengo che anche per quel caso basti l’azione di
acquisto: infatti non contiene solo il prezzo, ma tutto quanto interessa al
compratore perché lo schiavo non sia evitto. Per altro se affermi che
abbia superato il prezzo a tal punto, che una somma tanto alta non fu pensata
dal venditore, come se fai l’ipotesi che fosse stato evitto uno, divenuto
poi auriga o pantomimo, che era stato venduto a prezzo bassissimo, sembra
iniquo che il venditore sia obbligato a dare una così grande
quantità.
[64] Ho in corso di
pubblicazione un articolo su Perequazione
tra le prestazioni: ricorso alla cogitatio.
[65] D. 2.14.1.3, Ulp. 4 ad ed.: Conventionis verbum generale est ad omnia pertinens, de quibus negotii
contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt: nam sicuti
convenire dicuntur qui ex diversis locis in unum locum colliguntur et veniunt,
ita et qui ex diversis animi motibus in unum consentiunt, id est in unam
sententiam decurrunt. Adeo autem conventionis nomen generale est, ut eleganter
dicat Pedius nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se
conventionem, sive re sive verbis fiat: nam et stipulatio, quae verbis fit,
nisi habeat consensum, nulla est. - Tr.: «La parola convenzione
è termine di portata generale concernendo tutti i negozi per i quali gli
agenti prestano il loro consenso, si per contrarre sia per transigere: infatti
così come si dice che convengono coloro che da luoghi diversi si
raccolgono e vengono in uno stesso luogo, parimenti anche coloro che mossi da
differenti sentimenti consentono sulla stessa cosa, cioè giungono alla
stessa decisione. Il nome convenzione è generale fino al punto che, come
elegantemente dice Pedio, non vi è nessun contratto, nessuna
obbligazione, che non abbia in sé la convenzione, sia che si contragga
con la consegna della cosa sia che si contragga con le parole: infatti anche la
stipulazione, che si crea con le parole, è nulla se non contenga il
consenso».
[66] Persona: origine e prospettive. Oltre
l’antropocentrismo, in Incontro
fra Canoni d’Oriente e d’Occidente, Bari 23-29 set. 1991.
[67] In tal senso, ad
esempio, si esprimeva Clemente Alessandrino: v. citazione in Cotta, persona cit., 160, nt. 3, dove viene
ricordato che «Ai nostri giorni N.
Berdiaev ripropone il nesso tra persona (“immagine totale
dell’uomo”) e volto umano (“culmine del processo cosmico”)».
[68] Cotta, loc. cit., che nota «Per
san Giovanni Damasceno esso è ciò che esprimendo se stesso per
mezzo delle sue operazioni e proprietà, porge di sé una
manifestazione che lo distingue dagli altri della sua stessa natura»
“
[75] Val la pena sorridere
con un giurista italiano su questa “creatività” del diritto:
Galgano, Il rovescio del diritto, 1991, pp. 24 ss. «Iddio creò
l’uomo a propria immagine e somiglianza, ma l’uomo non volle
essergli da meno: creò, a immagine e somiglianza propria, la persona
giuridica. Le dette un’assemblea ed un consiglio di amministrazione e le
disse: questi sono i tuoi organi; l’assemblea è il tuo cervello;
vedrai, ascolterai, parlerai con gli occhi, con le orecchie, con la bocca dei
tuoi amministratori. Alla loro creatura gli uomini dettero, se non
un’anima, sicuramente un corpo. Che la persona giuridica abbia un corpo
erano convinti già i Romani, dal momento che corpus habere equivale, nel loro linguaggio, ad essere persona
giuridica; ed è convinzione che si perpetua: di “corpi
morali” parlavano ancora i codici dell’Ottocento (con ciò
sottintendendo che le creature di Dio sono banali corpi fisici) e corporation dicono tuttora gli
americani. Iddio aveva detto al primo uomo e alla prima donna: crescete e
moltiplicatevi. La persona giuridica è stata dall’uomo concepita
come unisex: le società madri generano le società figlie e
queste, a loro volta, le loro figlie; e i cinque continenti si sono popolati di
società madri, società figlie, società sorelle. Lo
sviluppo demografico degli esseri umani e delle persone giuridiche procede, se
non di pari passo, secondo la legge della compensazione: dove il tasso di
natalità rallenta, come accade nei paesi industrializzati, cresce in
modo vertiginoso il numero delle persone giuridiche. E ci sono paesi, sia pure
minuscoli paesi, che si vantano di essere simbolo di questa stupenda
prolificità: nel Liechtenstein, a Monaco, a Panama i cittadini in carne
e ossa sono una trascurabile minoranza della popolazione, formata per la quasi
totalità da una imponente moltitudine di persone giuridiche, e di
così solida razza da rivelarsi capaci di muovere alla conquista del
mondo. Una considerevole quota della ricchezza mondiale appartiene a persone
giuridiche nate in questi prolifici paesi. Ma l’uomo volle fare di
più e di meglio: alla persona giuridica, che è sua creatura,
permise ciò che a lui stesso, creatura di Dio, non è consentito.
L’uomo è mortale, la persona giuridica può essere
immortale. Le basta, per assicurarsi l’immortalità, che ad ogni
scadenza del termine di durata l’assemblea ne deliberi la proroga, e
così all’infinito. E c’è ben altro: le persone
giuridiche possono fondersi. Di due o più persone giuridiche se ne
può fare una sola, sia che una incorpori le altre, sia che tutte si
fondano in una nuova persona giuridica. Nulla di simile è dato all’uomo.
Nelle sacre scritture è rivelato: “sarai una sola carne”; ma
è solamente una metafora; di due o più corpora l’uomo ha saputo fare davvero, e non soltanto per
metafora, una sola corporation. Altro
prodigio: la persona giuridica può essere scorporata e, di una Persona
giuridica se ne possono fare, per scissione, due o più, praticamente
senza limiti di numero. La creatività umana ha, dunque, largamente
superato quella divina: al Creatore un simile prodigio era riuscito solo per
gli esseri unicellulari. Iddio aveva detto alla prima donna: partorirai nel
dolore. Il parto della persona giuridica è, all’opposto, quanto di
più semplice e indolore si possa immaginare. Non si versa sangue, ma
solo danaro; e nei minuscoli felici paesi, che sopra ho menzionato, basta per
creare una persona giuridica il versamento di una somma pari al prezzo di un
vestito. La superbia dell’uomo ingelosì il suo Creatore, che volle
castigarla, e ne incaricò il proprio vicario in Terra, Papa Innocenzo
IV, al secolo Sinibaldo de’ Fieschi. Questi usò l’arma della
persuasione, elaborò una teoria, si studiò di convincere gli
uomini che la persona giuridica era null’altro che una persona ficta. La mediazione del Sommo
Pontefice produsse i risultati sperati: Bartolo di Sassoferrato, sommo
giurista, ma uomo timorato di Dio, dovette convenire che la persona giuridica vere et proprie non est persona; Baldo
degli Ubaldi, giurista non meno sommo, ma anch’esso timorato, ne
completò l’opera con dovizia di argomenti: persone sono soltanto
gli uomini, anche se a costoro è dato di agire, anziché uti singuli, uti universi. E da allora
di persona giuridica non si parlò più per secoli. Erano, del
resto, i secoli dell’Inquisizione, e nessun giurista volle rischiare il
rogo».