N. 5 – 2006 – Tradizione Romana

 

FRANCESCO SINI

Università di Sassari

 

Pace, guerra, diritto. Sulla teoria dei rapporti internazionali nella Storia della costituzione romana di Francesco De Martino

 

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Critica all’idea dell’inimicizia naturale dei popoli come stato originario dell’umanità: definitiva affermazione del carattere giuridico dei rapporti internazionali dell’antica Roma. – 3. Hostis: lo straniero, il nemico. – 4. Il bellum iustum: la guerra tra diritto e religione. – 5. Conclusione.

 

1. – Premessa

 

Nella Storia della costituzione romana[1], Francesco De Martino ha dedicato l’intero secondo capitolo del volume II, edito per la prima volta nel 1954, alla esposizione della sua dottrina sul tema assai dibattuto dei rapporti internazionali di Roma antica[2].

Questo mio contributo si propone di avviare una prima, e molto sommaria, riflessione su alcune delle significative elaborazioni in tema di “diritto internazionale antico” contenute nel più grande manuale di diritto pubblico romano del secolo appena trascorso[3]. Merito indiscusso della dottrina del De Martino è quello di aver dimostrato, in via pressoché definitiva, il carattere pacifico delle più antiche relazioni internazionali del Popolo Romano e la profonda connotazione giuridica e religiosa di tali rapporti, anche nei momenti di massimo conflitto.

Dunque l’idea della pace permeerà tutto il mio contributo, così come è presente in tutto il secondo capitolo del De Martino, pur senza che uno specifico paragrafo le sia dedicato; ma in particolare mi soffermerò sulla penetrante critica dello studioso alla teoria dell’esclusivismo giuridico insito nella idea dell’inimicizia naturale dei popoli come stato originario dell’umanità, da cui consegue la particolare visione della condizione giuridica dell’hostis straniero/nemico, nonché la ricostruzione della concezione romana del bellum iustum.

 

2. – Critica all’idea dell’inimicizia naturale dei popoli come stato originario dell’umanità: definitiva affermazione del carattere giuridico dei rapporti internazionali dell’antica Roma

 

Nell’impianto espositivo del capitolo dedicato ai rapporti internazionali dell’antica Roma, troviamo in primo luogo una serrata disanima delle reali condizioni storiche e giuridiche che stavano alla base delle «relazioni originarie tra i popoli». Al riguardo, il De Martino prende subito le distanze dalle teorie fino a quel momento dominanti:

 

«L’idea comune fra gli storici moderni ed espressa in modo incisivo dal Mommsen è che la condizione originaria dei rapporti tra i popoli, quindi anche tra la federazione latina e le altre nazionalità, fosse quella della perenne inimicizia, della guerra. Oltre i confini della nazione latina non vi sarebbe né diritto, né pace, non proprietà, né per Roma, né per gli stranieri. L’abitante di quel territorio, lo straniero, è un hostis; il fondamento giuridico del diritto internazionale moderno, la coesistenza di diverse nazioni con il riconoscimento reciproco nel loro diritto pubblico dell’uguaglianza giuridica e della piena autonomia, sarebbe inconciliabile con i principi romani»[4].

 

In questa prospettiva, lo studioso offre solidi argomenti per rovesciare convinzioni inveterate della dottrina romanistica contemporanea[5]: intendo riferirmi alle posizioni di quanti hanno teorizzato l’ostilità permanente fra i popoli e l’assenza di diritti per gli stranieri quali condizioni primordiali dei rapporti fra gli uomini[6]; da cui consegue la convinzione che, normalmente, gli antichi considerassero la guerra (e non la pace) come stato naturale delle relazioni “internazionali”, ogni qualvolta non esistesse comunità di etnia, ovvero non fosse intervenuta la stipulazione di un trattato[7].

Tali tesi per lungo tempo sono state accolte quasi unanimemente nel campo degli studi romanistici, soprattutto in ragione della determinante influenza di Theodor Mommsen[8]. è nell’Abriss che la posizione del grande giusromanista tedesco, forse proprio per esigenze di semplificazione, si presenta più netta: «Di fronte a questa federazione latina, basata sulla comunità di razza e unita in una perpetua comunanza giuridica, le comunità italiche di diversa nazionalità, e in seguito gli Stati stranieri, si trovano in linea di diritto in perpetuo stato di guerra. Oltre i confini della nazione latina non vi ha proprietà territoriale né romana né straniera; l’abitante del territorio, l’hostis, più tardi peregrinus, è in linea di principio privo di diritto e di pace; l’immutabilità dello stato di guerra di fronte alla nazione di stirpe diversa ha la sua espressione in questo, che con le città etrusche, nelle quali la nazionalità diversa si affacciò per la prima volta ai romani, non vennero altrimenti conchiusi trattati se non con termine fisso»[9].

Sarebbe troppo lungo perfino il semplice elenco degli studiosi che hanno aderito a questa impostazione storiografica[10]; anche se non tutti pervennero – come osserva il De Martino[11] – alle estremizzazioni di Eugen Täubler, il quale non si limitò a propugnare la tesi dell’ostilità naturale nei rapporti “internazionali” dell’antichità[12], ma si spinse fino a teorizzare che la stessa origine dei trattati internazionali fosse da ricercare nel superamento della primitiva usanza di uccidere i nemici sconfitti[13]. Basterà ricordare come ancora oggi, pur tra precisazioni e cautele, una parte autorevole della dottrina romanistica continui a ritenere elementi caratteristici della più antica esperienza giuridica del Popolo romano proprio l’ostilità naturale e la carenza di protezione giuridica per lo straniero[14].

Le tesi del Mommsen e dei suoi numerosi seguaci, contestate sporadicamente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento[15], furono sottoposte a serrate critiche da parte di Alfred Heuss[16]; il quale, sulla base di un attento riesame delle fonti, pervenne alla conclusione che i Romani considerassero esistenti con gli altri popoli un certo numero di rapporti giuridici, indipendentemente dalla stipulazione di trattati[17].

Una critica altrettanto radicale a «l’opinione comunemente accettata sul carattere originario delle relazioni internazionali di Roma» fu proposta in Italia da Francesco De Martino nel 1954, il quale nel secondo volume della sua Storia della costituzione romana scrive quanto segue:

 

«Tale concezione si fonda sull’idea che lo stato originario naturale del genere umano sia quello della guerra, mentre il corso dell’incivilimento condurrebbe allo stabilimento dei rapporti di amicizia ed in fine di un vero e proprio diritto internazionale. Riteniamo, al contrario, che non si possa disegnare in modo schematico lo stato dei rapporti internazionali nell’età precedente alla formazione delle comunità cittadine e della società divisa in classi. […] A noi sembra che nell’epoca delle grandi formazioni gentilizie le cause della guerra dovevano essere di gran lunga più rare di come non avvenne in seguito; l’occasione più frequente doveva essere quella della vendetta gentilizia, la quale peraltro presupponeva che ciascun gruppo fosse convinto della sua necessità, cioè il riconoscimento di un ordine universale, religioso e giuridico. L’opinione comunemente accettata sul carattere originario delle relazioni internazionali di Roma deve essere dunque riveduta, sia per ragioni di ordine generale, sia perché Roma derivava dal comune ceppo indoeuropeo, come altri popoli italici, e non è verosimile, che ben per tempo quest’eredità fosse dispersa, quando resisteva in altri campi della vita sociale e giuridica. Il significato di hostis come nemico non è originario, ma è dovuto ad un’evoluzione dei rapporti tra il popolo romano e le altre genti in Italia»[18].

 

Con il De Martino, che pure si muove nella prospettiva tracciata dal Heuss[19], la tesi dell’ostilità naturale appare decisamente superata, poiché nelle pagine della Storia si dimostra in maniera incontrovertibile l’infondatezza dei presupposti su cui quella tesi era stata elaborata: nel sistema giuridico-religioso romano non esistevano trattati di amicizia per porre fine all’ostilità naturale[20]; il bellum iustum era considerato necessario anche in caso di guerra contro popoli con i quali non preesisteva alcun trattato; nella formula e nel rituale dell’indictio belli non si trovava alcun riferimento ad una precedente violazione di trattati[21]; infine, dall’esame della struttura del foedus e dei trattati[22] si evince la prova «che il carattere giuridico delle relazioni internazionali era molto sentito, cioè precisamente il contrario di quanto sostengono il Mommsen e i suoi seguaci»[23]. Mette conto ricordare, che nel 1988 in occasione dall’VIII Seminario Internazionale di Studi Storici «Da Roma alla Terza Roma» dedicato alle Concezioni della pace, Francesco De Martino ha presentato una relazione intitolata L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, dove con coerenza e mirabile rigore argomentativo ha ribadito, a distanza di oltre trent’anni dalla formulazione, le sue fondamentali tesi sui rapporti internazionali di Roma antica[24].

Dopo De Martino, le conclusive ricerche sul sistema sovrannazionale romano di Pierangelo Catalano[25] (lo studioso che – per esplicito riconoscimento del De Martino – «ha dato i maggiori e più originali contributi al tema dei rapporti con gli stranieri»[26]) hanno dimostrato la virtuale universalità del sistema giuridico-religioso romano[27] e quanto questa «concezione universalistica del diritto» contrasti «con le teorie moderne e contemporanee secondo cui lo stato naturale (o ‘primitivo’) delle relazioni tra i popoli sarebbe la guerra»[28].

Karl-Heinz Ziegler ha documentato nella rassegna sul Völkerrecht der römischen Republik[29] che le posizioni contrarie all’ostilità naturale e all’esclusivismo giuridico hanno guadagnato sempre maggiori consensi tra gli studiosi che si sono occupati di “diritto internazionale” dell’antichità. Per alcuni si è assistito perfino alla revisione di opinioni espresse in precedenza: è il caso di Paolo Frezza, il quale, introducendo forti limitazioni alle tesi mommseniane[30], ha ammesso l’esistenza di rapporti intertribali, seppure in un processo dialettico che vede il «momento “volontaristico” profondamente compenetrato col momento “naturalistico”»[31].

Su questa linea si colloca la monografia di Werner Dahlheim dedicata alla struttura e all’evoluzione del diritto internazionale romano, in cui appare ben fermo il rifiuto della tesi dell’ostilità naturale[32]; anche se, invero, lo studioso tedesco non sembra cogliere a pieno il valore dello ius fetiale[33]. Anche Virgilio Ilari si è orientato nello stesso senso, analizzando la condizione giuridica dei socii nominisve Latini e degli Italici: «Oggi i presupposti stessi della teoria tradizionale appaiono superati»; lo studioso ritiene, inoltre, che superata «l’idea dell’inesistenza di rapporti internazionali in mancanza di una comunanza giuridica costituita da legami storici o da trattati perpetui», si siano poste le premesse «per una concezione c.d. “volontarista” dei rapporti tra Roma e l’Italia e della natura giuridica dell’alleanza italica»[34]. Infine, pur non trattando espressamente la questione nel suo lavoro dedicato all’analisi giuridica della tavola bronzea di Alcántara, anche Dieter Nörr mostra di seguire lo stesso orientamento laddove, a proposito del diritto internazionale di Roma, postula «die Existenz einer gemeinschaftlichen Normenordnung»[35].

 

3. – Hostis: lo straniero, il nemico

 

«Che le relazioni di Roma con i popoli vicini fossero in antico amichevoli è dimostrato dal valore originario del termine hostis, che solo in età recente è passato a designare il nemico. A prescindere dall’etimologia, che avvicina hostis ai termini indoeuropei … i quali esprimono l’idea dell’ospitalità, non dell’inimicizia, conviene ricordare che ancora nell’età delle XII tavole hostis era uno straniero, col quale un romano poteva stabilire relazioni giuridiche»[36].

 

Per Francesco De Martino, dunque, il carattere giuridico delle relazioni internazionali di Roma antica è confermato, anche, e soprattutto, dalla condizione dell’hostis. Per quanto, nel latino della tarda età repubblicana, il termine hostis avesse ormai acquisito «le sens d’ennemi en général, de même que inimicus s’emploie pour hostilis»[37]; l’antico significato della parola restava comunque ben vivo sia nella cultura giuridica, sia nella scienza antiquaria. Ne aveva conservato l’originario significato di “straniero” il testo delle XII Tavole, anche nella forma linguistica in cui si leggeva nel I secolo a.C.[38]:

 

         Cic. De off. 1.37: Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus. Indicant duodecim tabulae: aut status dies cum hoste itemque adversus hostem aeterna auctoritas. Quid ad hanc mansuetudinem addi potest, eum, quicum bellum geras, tam molli nomine appellare? Quamquam id nomen durius effecit iam vetustas; a peregrino enim recessit et proprie in eo, qui arma contra ferret, remansit[39].

 

         Rimanda all’antico significato di hostis anche la formula del giuramento dei milites[40], trascritta da Aulo Gellio nel sedicesimo libro delle “Notti Attiche”, ma ripresa – com’è noto – dal quinto libro del De re militari del giurista L. Cincio[41]:

 

Gell. Noct. Att. 16.4.3-4: Militibus autem scriptis dies praefinibatur, quo die adessent et citanti consuli responderent; deinde ita concipiebatur iusiurandum, ut adessent, his additis exceptionibus: “nisi harunce quae causa erit: funus familiare feriaeve denicales, quae non eius rei causa in eum diem conlatae sunt, quo is eo die minus ibi esset, morbus sonticus auspiciumve, quod sine piaculo praeterire non liceat, sacrificiumve anniversarium, quod recte fieri non possit, nisi ipsus eo die ibi sit, vis hostesve, status condictusve dies cum hoste; si cui eorum harunce quae causa erit, tum se postridie, quam per eas causas licebit, eo die venturum aditurumque eum, qui eum pagum, vicum, oppidumve delegerit”[42].

 

         Anche il grande Varrone, nel De lingua Latina, per esporre il caso delle molte parole che aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, citava come esempio proprio il termine hostis:

 

         Varro De ling. Lat. 5.3: Quae ideo sunt obscuriora, quod neque omnis impositio verborum extat, quod vetustas quasdam delevit, nec quae extat sine mendo omnis imposita, nec quae recte est imposita, cuncta manet (multa enim verba li<t>teris commutatis sunt interpolata), neque omnis origo est nostrae linguae e vernaculis verbis, et multa verba aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, ut hostis: nam tum eo verbo dicebant peregrinum qui suis legibus uteretur, nunc dicunt eum quem tum dicebant perduellem[43].

 

         Nella sua accezione originaria, presente ancora nelle commedie di Plauto[44] e quindi desunta senza dubbio dall’uso linguistico corrente, hostis stava ad indicare lo straniero; più precisamente quello straniero qui suis legibus uteretur ed al quale si riconosceva parità di ius col Popolo romano.

 

Fest. De verb. sign., v. Status dies <cum hoste>, pp. 414-416 L.: Status dies <cum hoste> vocatur qui iudici causa est constitutus cum peregrino; eius enim generis ab antiquis hostes appellabantur, quod erant pari iure cum populo Romano, atque hostire ponebatur pro aequare[45].

 

L’originaria accezione di hostis si presentava modificata definitivamente nell’ultimo secolo della Repubblica, in relazione con l’estendersi della valenza semantica di peregrinus, che nei primi secoli dell’Impero finì per designare una particolare condizione giuridica[46]. Il De Martino ritiene di poter individuare con buona approssimazione l’epoca in cui si produsse il mutamento di significato del termine hostis:

 

«Più tardi, dopo l’età delle XII tavole e probabilmente nell’età delle guerre d’espansione in Italia, si dovette determinare il mutamento di valore del termine; come ciò accadde e per quali cause non siamo in grado di stabilire, ma è chiaro che la nuova concezione espansionistica delle classi dirigenti romane nel corso del IV-III secolo indusse a considerare l’hostis nemico e non più il peregrinus, qui suis legibus utitur»[47].

 

Dall’esame delle fonti (che secondo il De Martino «non abbiamo il diritto di respingere») si mostrano epoche della storia di Roma, in cui hostis era lo straniero amico, col quale si intrecciavano rapporti giuridici garantiti dall’ordinamento della civitas e con diritto di reciprocità.

 

«Ciò non vuol dire – conclude lo studioso – che non vi fossero guerre anche allora, ma vuol dire che le guerre venivano considerate come una rottura di una condizione umana riconosciuta dal diritto e dalla religione come normale, legittima, e tale condizione era quella della pace. Chi la violava era un perduellis, termine che solo in seguito passò ad indicare colui che attentava allo stato romano, cioè il fuorilegge»[48].

 

Va tuttavia osservato, che anche in età storicamente avanzata, dal bellum iustum discendeva la condizione giuridica di iusti et legitimi hostes, nei confronti dei quali – utilizzo la terminologia di Cicerone – i Romani consideravano vigente totum ius fetiale, nella consapevolezza che anche con i nemici multa sunt iura communia.

 

De off. 3.108: Regulus vero non debuit condiciones pactionesque bellicas et hostiles pertubare periurio; cum iusto enim et legitimo hoste res gerebatur, adversus quem et totum ius fetiale et multa sunt iura communia. Quod ni ita esset, numquam claros viros senatus vinctos hostibus dedidisset[49].

 

Da questa comunanza di diritto, consegue per Cicerone il dovere di «osservare la fides» nei confronti degli hostes, attenendosi cioè sempre ed in ogni circostanza al rispetto della parola data al nemico, come aveva mostrato l’irreprensibile comportamento del console Attilio Regolo, il quale durante la prima guerra punica, prigioniero dei Cartaginesi, ad supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere[50].

 

4. – Il bellum iustum: la guerra tra diritto e religione

 

Nel latino del I secolo a.C., con la parola bellum si può intendere sia un conflitto armato tra hostes (definito da precise regole religiose e giuridiche)[51], sia il periodo di tempo necessario alla conclusione delle ostilità, in antitesi quindi al tempo di pace[52]; mentre riguardo all’etimologia della parola, grammatici e antiquari antichi agitavano opinioni contraddittorie e (dal nostro punto di vista) poco convincenti[53]. Sul piano religioso invece, le formule solenni del più conservativo linguaggio sacerdotale[54] avevano continuato ad utilizzare l’originaria forma duellum[55], anche quando ormai da tempo era avvenuto il passaggio del du- iniziale a b-[56]; così, ad esempio, negli acta relativi ai Ludi saeculares di Augusto e a quelli celebrati da Settimio Severo[57] i termini guerra e pace risultano ancora espressi dai sacerdoti alla maniera arcaica con duellum e domus[58]. Peraltro, della forma linguistica duellum restava memoria anche in opere di eruditi e antiquari, ricercatori curiosi delle superstiti forme arcaiche della lingua latina[59].

Per quanto riguarda l’aspetto sostanziale della guerra, anche nella concettualizzazione e nelle procedure di essa, il De Martino vi individua principalmente una sospensione traumatica delle naturali relazioni pacifiche tra i popoli, saldamente ancorata al campo della religione e del diritto.

 

«Con essa [la repetitio] evidentemente si notificava al popolo avverso – scrive lo studioso – l’esistenza di una causa ingiusta da parte sua e la richiesta di porvi termine, ma non s’alludeva affatto alla rottura d’un presistente trattato. Tale richiesta in antico poteva essere rivolta sia a popoli con i quali esistevano già relazioni giuridiche, sia a popoli estranei. Nessuna fonte ci autorizza a dire che qui si trattava di una deroga ai principi, perché se Roma riteneva di dover compiere la repetitio verso gli estranei, ciò prova che essa considerava tale procedura come obbligatoria, altrimenti non avrebbe avuto alcuna ragione di osservarla. La guerra era invece concepita da Roma come una rottura dello stato normale di pace con i popoli; essa quindi abbisognava di una giustificazione, doveva essere bellum iustum piumque, avere cioè una giusta causa. Anche se la nozione elaborata da Cicerone possa essere un ripensamento, sul terreno filosofico, di un originario concetto giuridico-religioso, ciò non dimostra affatto, che il concetto originario della iusta causa belli dovesse essere quello del rifiuto della repetitio»[60].

 

La consapevolezza che l’esercizio della guerra poneva il miles a contatto con qualcosa di “sacrilego” e che, in ogni caso, l’uso immoderato della violenza rischiava di provocare l’ira degli Dèi[61], spinse il Popolo romano, il quale significativamente considerava sé stesso il più religioso del genere umano (religione, id est cultu deorum, multo superiores)[62], a preoccuparsi fin da epoca risalente di attrarre anche la guerra nella sfera della fides e del fas[63]. Avvalendosi degli strumenti concettuali offerti dalla riflessione teologica e giuridica dei suoi sacerdotes, Roma aveva elaborato, certo già nella fase più antica della storia cittadina, una sorta di “codice diplomatico”, cioè un sistema di regole rese inviolabili dalla religione, da utilizzare nelle “relazioni internazionali” per preservare o ristabilire la pace; ma regole e procedure indispensabili anche ut iustum conciperetur bellum[64].

Come nota il De Martino, molte formule e procedimenti della guerra sono derivati (quasi residuati) di

 

«un tempo arcaico, nel quale il carattere religioso della vita giuridica e sociale era molto forte. Si intende perciò la natura del formulario dei Feziali … Così via via la procedura della repetitio, la dichiarazione di guerra e la guerra stessa furono concepite come un procedimento giuridico-religioso ad un tempo, il quale più tardi fu applicato anche nei rapporti con gli altri popoli, essendo divenuto un principio fondamentale della concezione romana quello della giuridicità delle relazioni con gli stranieri. Ciò era conforme del resto allo spirito pratico e formalistico ad un tempo di questo popolo, che tendeva a trasformare i rapporti sociali il più possibile in forme legali e dare veste giuridica a tutta la complessa realtà delle relazioni economiche tra gli uomini»[65].

 

Ma formule e riti dello ius fetiale[66] (tale è il caso, ad esempio, delle formule e delle procedure dei Fetiales per l’indictio belli)[67] e dello ius pontificium furono elaborati anche per liberare i cittadini-soldati dalla paura del sangue versato, per aiutarli con la religione a vincere l’antico terrore davanti al furor, segno di un possesso che priva l’uomo della sua libertà, di esimerli infine dal timore di impegnarsi in azioni sgradite agli dèi; anche la scansione del tempo fu impostata seguendo quello che J. Bayet ha chiamato «le rythme sacral de la guerre»[68]. Sono da intendere in tal senso, infatti, le feste e le cerimonie religiose dei mesi di marzo e ottobre del calendario romano arcaico, legate all’inizio e alla fine delle attività guerriere, veri e propri «rites saisonniers de sacralisation et désacralisation militaires»[69]. Si spiegano, in questo modo, le ragioni dell’estrema cautela, religiosa e giuridica, che circondava l’esercizio della guerra da parte dei singoli cittadini, ai quali – ammoniva Catone – era consentito combattere solo in quanto milites[70].

L’esercizio della guerra in ragione dei suoi effetti devastanti di morte e contaminazione si collocava nella sfera del nefas[71], come Virgilio fa rilevare in Aen. 2,717-720[72]. Nessun biasimo poteva comunque addebitarsi al soldato che ha ucciso in battaglia, al contrario, il fatto era considerato dai Romani non solo utile alla comunità, ma addirittura onorevole[73]; tuttavia per la religione il miles veniva a trovarsi nella condizione di impiatus[74], con la conseguente necessità di purificazione[75].

Le considerazioni fin qui esposte giustificano la casistica rigorosa con cui i sacerdotes Fetiales[76], e i teorici del diritto e della politica, determinavano quali generi di guerre si potessero intraprendere legittimamente: quali, cioè, avessero le caratteristiche del bellum iustum[77]. Come riconosce il De Martino, perfino nell’età dell’espansionismo e dell’Impero: «La guerra era retta da norme giuridiche, il bellum era iustum non solo se esistevano ragioni fondate, ma anche se erano osservate le norme del ius fetiale»[78].

Le testimonianze antiche, per quanto riguarda la definizione di bellum iustum, non sembrano uniformate a principi di astratta morale, attengono piuttosto, come in Varrone, De Ling. Lat. 5.86[79], a valutazioni di conformità con la sfera religiosa e rituale dello ius fetiale. Ancora alla rerum repetitio si richiamava la definizione proposta da Isidoro di Siviglia[80], mentre il concetto di bellum iustum enunciato da Tito Livio[81], per quanto in riferimento ad ambiente non romano[82], appare significativamente fondato sulla necessitas, fonte di ius per i giuristi romani[83].

Del resto, una parte consistente della cultura greca e romana nel II e I secolo a.C. aveva contestato proprio il concetto di bellum iustum, teorizzando l’inconciliabilità di bellum e iustitia. Questa problematica si presentava connessa profondamente con la riflessione storico-giuridica sulla legittimità dell’egemonia “mondiale” dei Romani[84]; ma si inquadrava, al tempo stesso, nel dibattito sulle idee giusnaturalistiche della tradizione filosofica greca e romana[85]. Cicerone, nel famoso discorso di Furio Filo[86], improntato per sua stessa ammissione all’insegnamento di Carneade[87], ricorre all’esempio della guerra per dimostrare quantum ab iustitia recedat utilitas:

 

De re publ. 3.20: Cur enim per omnes populos diversa et varia iura sunt condita, nisi quod una quaeque gens id sibi sanxit, quod putavit rebus suis utile? Quantum autem ab iustitia recedat utilitas, populus ipse Romanus docet, qui per fetiales bella indicendo et legitime iniurias faciendo semperque aliena cupiendo atque rapiendo possessionem sibi totius orbis comparavit[88].

 

         Tra gli autori antichi, quello che ha manifestato maggiore interesse per la definizione della “guerra giusta” è stato senza dubbio Cicerone[89]. Nell’impossibilità di procedere ad un puntuale esame dei riferimenti testuali[90], sarà sufficiente discutere due importanti passi, tratti dal De re publica, che descrivono alcune tipologie di bellum iustum, per quanto modellate in negativo, mediante la qualificazione della guerra ingiusta ed empia:

 

De re publ. 2.31: [Tullo Ostilio] cuius excellens in re militari gloria magnae que extiterunt res bellicae, fecitque idem et saepsit de manubis comitium et curiam, constituitque ius quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur[91].

 

De re publ. 3.35: Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta. Nam extra <quam> ulciscendi aut propulsandorum hostium causa bellum geri iustum nullum potest[92].

 

         Secondo Cicerone il bellum per poter essere considerato iustum abbisognava, dunque, di requisiti formali e sostanziali. I primi derivavano dalla esatta osservanza dei riti e delle procedure dello ius fetiale; il precetto attribuito al re Tullo Ostilio può volgersi in positivo: ut omne bellum denuntiatum indictum esset. I requisiti sostanziali dovevano consistere in motivazioni validamente determinabili: riconoscibili, quindi, come tali in maniera oggettiva sia di fronte agli Dèi, sia di fronte agli uomini. In ultima analisi, il principio illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta, mentre frena l’arbitrio e la cupidigia del Popolo romano, ne assicura al tempo stesso la legittimazione religiosa dell’imperium universale[93].

 

5. – Conclusione

 

Voglio concludere con una breve riflessione sulla pace. Per Francesco De Martino l’Impero cambia in qualche modo l’antica concezione romana della pace, con un inaridirsi dei suoi istituti:

 

«Se la speculazione filosofica di origine greca raggiunge alti livelli creativi, così non può dirsi della capacità di creare nuovi istituti della pace. Tutti quelli che conosciamo, l’amicitia, l’hospitium, il foedus, la sponsio, le regole della guerra, appartengono all’età arcaica. Essi sono una eloquente caratteristica di un’epoca tramontata. Testimoniano una concezione religiosa, etica, giuridica, che possiamo chiamare diritto, umana e divina della pace. Questa deve essere pia et aeterna, a consolidarla e a garantirla mirano tutti questi istituti. E’ la loro stessa esistenza che rivela il pensiero antichissimo, la vocazione politico-religiosa di un popolo, il cui fine supremo è la pace e l’amicizia con lo straniero»[94].

 

Per la tradizione giuridica e religiosa romana, la guerra rappresentava una rottura della pacifica naturalità delle relazioni inter populos; sempre finalizzata, quindi, alla restaurazione della pace. Questo legame tra guerra e pace, o per meglio dire la subordinazione della prima alla seconda, si trova ben configurato, anche dal punto di vista della dottrina dei sacerdoti romani, nella stessa etimologia che gli scrittori antichi davano della parola fetiales[95]. Collegandone l’etimo a fides e a foedus, si sottolineava nelle competenze di questi sacerdoti la funzione di ristabilire la fides pacis con il foedus, piuttosto che la funzione di concipere un bellum iustum. Da notare, inoltre, che anche nel II libro del De legibus di Cicerone, l’ordine delle funzioni dei sacerdoti feziali vede la pace anteposta alla guerra[96]. Infine, la “teologia” ufficiale dei sacerdoti romani manifestava in tutta la sua evidenza la subordinazione della guerra alla pace anche nell’antichissima gerarchia dei sacerdozi: nell’ordo sacerdotum, infatti, il flamine di Iuppiter, cioè della divinità che tra le altre cose tutelava i foedera pacis e la fides, si presenta sovraordinato al flamine di Marte[97].

 

 



 

[1] F. De Martino, Storia della costituzione romana, 2a ed., I (Napoli 1972); II (Napoli 1973); III (Napoli 1973); IV, Parte prima (Napoli 1974); IV, Parte seconda (Napoli 1975); V (Napoli 1975).

 

[2] F. De Martino, Storia della costituzione romana cit. II 13-72.

 

[3] Ormai sussistono pochi dubbi sul fatto che l’opera del De Martino sia da considerare il più grande trattato di diritto pubblico romano del Secolo XX, del resto, il carattere innovativo ed il vasto respiro del disegno sistematico erano stati ben colti fin dalla pubblicazione della prima edizione (1951 ss.); fra le varie recensioni, vedi: P. Frezza, in SDHI 18 (1952) 279 ss.; Id., in Labeo 1 (1955) 320 ss.; G. Scherillo, in Iura 3 e 6 (1952-1955) 308 ss., 335 ss.; H. Lévy-Bruhl, in RHD 4e s., 30, 36 e 39 (1952-1956-1961) 139 ss., 39 ss., 315 ss.; F. Serrao, in Studi Romani 3 (1955) 451 ss.; W. Kunkel, in ZSS 72 e 77 (1955-1960) 297 ss., 370 ss.; A. Biscardi, in Labeo 5 (1959) 91 ss.; A. Magdelain, in RHD 25 (1955) 391 ss.; P. De Francisci, in BIDR 62 (1959) 283 ss.

Più in generale, sull’opera storiografica e giuridica dell’illustre studioso (del quale merita di essere segnalata anche la raccolta degli scritti “minori”: Scritti di diritto romano. I. Diritto e società in Roma antica (Roma 1979); II. Diritto privato e società romana (Roma 1982); III. Nuovi studi di economia e diritto romano (Roma 1988) cur. A. Dell’Agli, T. Spagnuolo Vigorita, F. d’Ippolito), vedi F. Casavola, L’opera storica di Francesco De Martino, in Labeo 24 (1978) 7 ss.; Id., Francesco De Martino storico, in Index 18 (1990) XV ss.; T. Spagnuolo Vigorita, Francesco De Martino. Il fascino della storia, in Au-delà des frontières. Mélanges de droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz (Varsovie 2000) 967 ss., ora anche in Diritto @ Storia 2 (marzo 2003) http://www.dirittoestoria.it/demartino/Spagnuolo-Vigorita-De-Martino.htm.

 

[4] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 13.

 

[5] Per una rapida visione di sintesi, cfr. F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico” (Sassari 1991); Id., Populus et religio dans la Rome Républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari 2, n.s. (1995) 60 ss.; Id., Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in SDHI 60 (1994) [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, I, Roma 1996] 49 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica (Torino 2001) 24 ss.; Id., Ut iustum conciperetur bellum. Guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, in Seminari di storia e di diritto, III. «Guerra giusta? La metamorfosi di un concetto antico», cur. A. Calore (Milano 2003) 31 ss.; Id., «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis, pax), in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese. Padova, Venezia, Treviso 14-16 giugno 2001, cur. L. Garofalo III (Padova 2003) 481 ss.; Id., Bellum, fas, nefas: aspetti religiosi e giuridici della guerra (e della pace) in Roma antica, in Diritto @ Storia 4 (Novembre 2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Sini-Guerra-pace-Roma-antica.htm.

 

[6] A.G. Heffter, De antiquo iure gentium prolusio (Bonnae 1823) 7; E. Osenbrüggen, De iure belli et pacis Romanorum (Lipsiae 1836) 8, 16, 36; M. Voigt, Die Lehre von ius naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer, II (Leipzig 1858 [rist. an. Aalen 1966]) 102 ss.; Id., Die XII Tafeln, I (Leipzig 1883 [rist. an. Aalen 1966]) 269 ss.; R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I (Leipzig 1878) 225 ss. [= Id., L’esprit du droit romain, trad. franc., I (Paris 1886; rist. an. Bologna 1969) 226 ss.]; J. Madvig, Die Verfassung und Verwaltung des römischen Staates, I (Leipzig 1881) 58 ss.; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte (Leipzig 1881) 279 ss.; G. Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale. Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie dell'Accademia dei Lincei, ser. III, 13 (1883-1884) 455 ss.; G. Padelletti-P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2ª ed. (Firenze 1886) 67; P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, trad. it. di C. Longo (Roma-Milano-Napoli 1909) 112 ss.; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines (Paris 1909) 343; E. Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romains, 2ª ed. (Paris 1928) 92; P. Huvelin, Études d’histoire du droit commercial romain, opera postuma cur. H. Lévy-Bruhl (Paris 1929) 7 s.; H. Horn, Foederati. Untersuchungen zur Geschichte ihrer Rechtsstellung im Zeitalter der römischen Republik und des frühen Prinzipates (Frankfurt a. M. 1930) 6 s.; H. Lévy-Bruhl, Esquisse d’un théorie sociologique de l’esclavage, in Id., Quelques problèmes du trés ancien droit romain. Essai de solutions sociologiques (Paris 1934) 15 ss.; P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in SDHI 4 (1938) 363 ss. [= Id., Scritti, I (Roma 2000) 367 ss.]; P. de Francisci, Storia del diritto romano, I (Milano 1943) 335; P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, rist. 4ª ed., cur. G. Bonfante e G. Crifò (Milano 1958) 229; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, nuova ed. cur. S. Accame (Firenze 1979) 87; M. Meslin, L’uomo romano, trad. it. (Milano 1981) 117.

 

[7] Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Id., Römische Forschungen, I (Berlin 1864) 326 ss.; E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I. Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse (Leipzig 1913 [rist. an. Roma 1964]) 14 ss., 29 ss., 44 ss.

 

[8] Th. Mommsen, Römische Geschichte, I (1854) qui citata in trad. it.: Storia di Roma antica, I (Firenze 1984) 192; Id., Das römische Gastrecht und die römische Clientel cit. 319 ss.; Id., Römisches Staatsrecht, III.1, 3ª ed. (Leipzig 1887) 590 ss. [= Droit public romain, trad. franc. di P.F. Girard, VI.2 (Paris 1889) 206 ss.].

 

[9] Th. Mommsen, Disegno del diritto pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante, rist. an. ed. 1943 (Milano 1973) 91.

 

[10] Da ricondurre per larga parte «alla componente soggettiva della storiografia dell’Ottocento e del primo Novecento»: così p. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano (Torino 1965) 8 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano (Torino 1990) IX ss., 10 ss. Per l’aspetto più propriamente filosofico di tale impostazione storiografica, cfr. P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in RHD 38, ser. IV (1960) 105 ss.

 

[11] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 15 s.: «Tale opinione è stata ancora più tassativamente sviluppata dal Täubler, secondo il quale i rapporti internazionali sarebbero sorti dall’evoluzione della prigionia di guerra. In principio il prigioniero sarebbe stato ucciso o sacrificato, in seguito risparmiato e ridotto in servitù. Infine egli sarebbe stato adoperato come ostaggio, garante nei confronti del suo popolo per futuri atti di inimicizia: in tal modo sarebbe sorto il primo tipo di trattato».

 

[12] E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches I cit. 1: «Der Staatsfremde gilt rechtlich als Feind. Der einzelne wie der Staat tritt erst durch eine Rechtshandlung, den Vertrag, aus dem Zustande der natürlichen Feindschaft in den der Verkehrsgemeinschaft».

 

[13] E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches I cit. 402 ss., in part. 406 s.: «Auf den primitivsten Kulturstufen wird man an Tötung aus Angst, Menschenfrass und Menschenopfer denken, als erste Entwicklungsstufe die Wehrwahndung des Fremden als Sklave annehmen müssen. Hier trennt sich dann die Entwicklung des Staatenvertrags und Gastvertrags. Der Unterschied darf nicht darin gesucht werden, dass die Entwicklung des einen vom Staate ausgehen muss, die des anderen von jedem einzelnen ausgehen kann, beruht vielmehr darauf, dass die Entwicklung, die zum Staatsvertrag führt, den Gefangenen zum Geisel macht, ihn für die Gemeinschaft, welcher er angehört, bürgen lässt, die zum Gastvertrage führende dagegen den Fremden nicht in Beziehung zu einem dritten setzt und deshalb nicht zu dessen Bürgen umwandelt vielmehr den Sklaven zum freien Mann und den freien Mann vertragsmässig als Eigenbürgen zum Gastfreund macht».

 

[14] Di «situation permanente d’interhostilité qui règne entre les peuples ou les cités» scrive, ad esempio, é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 1. Économie, parenté, société (Paris 1969) 355 ss., in part. 361; nello stesso senso, anche A. Piganiol, Le conquiste dei Romani, trad. it. di F. Coarelli (Milano 1971) 147 s.; A. Guarino, Storia del diritto romano, 7ª ed. (Napoli 1987) 82. Altri sottolineano, piuttosto, la mancanza di diritti per lo straniero: P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3ª ed. (Roma 1974) 210; M. Bretone, Storia del diritto romano (Roma-Bari 1987) 129; M. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, 2ª ed. (Milano 1988) 175; M. Talamanca, in Lineamenti di storia del diritto romano, dir. M. T., 2ª ed. (Milano 1989) 154; Id., Istituzioni di diritto romano (Milano 1990) 103.

 

[15] Cfr. G. Baviera, Il diritto internazionale dei Romani [estr. dall’AG, n. s., voll. I e II] (Modena 1898) 25 ss.; E. Seckel, über Krieg und Recht in Rom (Berlin 1915) 9 s., 25 ss.; critico soprattutto nei confronti del Täubler si mostra anche B. Kübler, Römische Rechtsgeschichte (Leipzig-Erlangen 1925) 109 ss.

 

[16] A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen der römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit (Leipzig 1933). Sul ruolo di questo studioso nella storiografia tedesca contemporanea, vedi brevemente K. Christ, Römische Geschichte und deutsche Geschichtswissenschaft (München 1982) 245.

 

[17]. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen cit. 4 ss., 12 ss., 18 ss.

 

[18] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 14-15.

 

[19] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 16-17.

 

[20] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 29 ss.

 

[21] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 50 ss.

 

[22] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 42 ss.

 

[23] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 45.

 

[24] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, in VIII Seminario Internazionale di Studi Storici «Da Roma alla Terza Roma», 21-22 aprile 1988. Relazioni e Comunicazioni I, 1 ss.; poi pubblicata in Roma Comune 12 n. 4-5 (aprile-maggio 1988) 86 ss.

 

[25] p. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 8 ss., 51 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit. IX s., 10 ss.

 

[26] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero cit. 86. Anche in altre parti di questo testo è espressa convinta adesione alle tesi del Catalano: «La nuova concezione dei rapporti fra Romani e stranieri induce ad una revisione del principio della esclusività del diritto nella città-stato. Questo non può intendersi nel senso che lo straniero era escluso da qualsiasi protezione giuridica in Roma, ma nel senso che vi erano rapporti riservati soltanto ai cittadini, ai quali lo straniero non poteva essere ammesso: questi rapporti rientravano nella categoria del ius Romanum Quiritium, denominazione che si può supporre, come fa il Catalano con molta decisione, sorta appunto per delimitare il campo dell’esclusività del diritto» (88); «Nei suoi studi illuminanti sul sistema dei rapporti con gli stranieri, che ha chiamato sistema sovrannazionale romano, il Catalano ha recato contributi che si possono ritenere definitivi in questo campo, affrontando coraggiosamente questioni che sembravano risolte nel senso di un rigoroso carattere esclusivo non solo del diritto, ma anche della religione antica. Egli ha tratto dalle fonti prove decisive ed argomenti che fino ad oggi non hanno trovato alcuna valida contestazione. Dalla critica alla teoria tradizionale dell’inimicizia primitiva egli ha costruito un quadro dei rapporti internazionali romani nuovo e molto più accettabile. Assumono il loro giusto valore espressioni delle fonti, che implicano l’esistenza di principi comuni, in certo senso universali» (91).

 

[27] Per una rapida visione delle tesi sostenute dal Catalano, si legga la «riflessione conclusiva» di Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 288: «Il sistema giuridico-religioso romano ha il suo centro in Iuppiter, ed è, proprio per questo, virtualmente universale. La virtuale universalità è attuata in una sfera di rapporti (con reges, populi o singoli stranieri) la cui esistenza è indipendente vuoi da particolari accordi vuoi da comunanza etnica. Entro il sistema si formano sfere di rapporti più ristrette, e più fitte, sulla base di atti unilaterali o di accordi con altri popoli. Tra queste sfere hanno particolare importanza le federazioni adeguate alle realtà etniche: il nomen Latinum, e poi quella che possiamo dire la “federazione italica”. Ho chiarito come siano particolarmente i foedera, adeguati alle realtà politiche (oltre che etniche) a forgiare i gruppi etnici. Per tutto questo è possibile definire il sistema (che è romano perché alla sua “validità” è sufficiente la considerazione che ne hanno i Romani) come sovrannazionale: non solo ad indicare l’implicito superamento dell’attuale categoria del “diritto internazionale”, ma ad esprimere come esso, alimentandosi dai gruppi etnici, li costituisca in sintesi sempre più vaste, con volontà politica tendente ad una società universale».

 

[28] p. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit. IX; ivi, vedi anche la nt. 3, a cui rimando per l’adesione da parte della storiografia francese alle principali tesi dello studioso riguardanti lo ius fetiale; ma ancora critica nei confronti del Catalano si mostra Chr. Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application du «ius fetiale» à Rome, in RHD 58 (1980) 186 ss.

 

[29] K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I.2 (Berlin-New York 1972) 68 ss.

 

[30] P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano cit. 373 ss., 397 ss. [= Id., Scritti I cit. 377 ss., 401 ss.]; una prima revisione, con l’abbandono della tesi dell’ostilità naturale, si riscontrava già nel saggio L’età classica della costituzione repubblicana, in Labeo 1 cit. 320 ss. [= Id., Scritti, II (Roma 2000) 133 ss.], dove peraltro è ancora sostenuta la mancanza di diritti per lo straniero, riaffermando anche, in polemica col De Martino, l’appartenenza originaria ed esclusiva delle forme giuridiche dei rapporti internazionali alle relazioni fra popoli della lega latina (327 ss. = 140 ss.).

 

[31] P. Frezza, Il momento “volontaristico” e il momento “naturalistico” nello sviluppo storico dei rapporti “internazionali” nel mondo antico, in SDHI 32 (1966) 299 ss., in part. 301 [= Id., Scritti II cit. 551 ss., 553]: «Sono ora persuaso – oserei dire definitivamente – che il segreto dello sviluppo storico dei rapporti internazionali del mondo antico può essere colto soltanto a patto di pensarlo dialetticamente: ossia a patto di pensare compresenti il momento (che potrebbe essere chiamato naturalistico) particolaristico delle relazioni intratribali, ed il momento universalistico (volontaristico) delle relazioni intertribali». Nello stesso senso, cfr. Id., In tema di relazioni internazionali nel mondo greco-romano, Ibidem 33 (1967) 337 ss., in part. 348 s. [= Id., Scritti II cit. 577 ss., 588 s.].

 

[32] W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert v. Chr. (München 1968) 136 s.

 

[33] W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts cit. 171 ss. («Eine so weitgehende moralische Konzeption ist in den rudimentären Anfängen Roms, in die das Fetialrecht zurückführt, gar nicht denkbar. Richtig ist, dass der Krieg in Rom zu einer "Rechtsexekution" wurde, jedoch verbürgt der hier ausgesprochene Begriff "Recht" keine objektive Rechtmäßigkeit im moralischen Sinne, die Bindung an das ius fetale ist vielmehr eine superstitiöse und juristische, die jedes moralische Moment unbeachtet lässt»: 173); critici anche K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik cit.  78 s.: «Die Bindung an das ius fetiale als "eine superstitiöse und juristische, die jedes moralische Moment unbeachtet lässt”, zu qualifizieren, wie es zulest W. Dahlheim getan hat, scheint mir nicht glücklich. Rechtsformalismus und Rechtsethik sind keineswegs notwendig Gegensätze, vor allem nicht in frühen Rechtsordnungen»; e P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit. XI nt.

 

[34] V. Ilari, Gli Italici nelle strutture militari romane (Milano 1974) 10-11; per questo studioso la concezione c.d. volontarista si presenta in costante riferimento allo ius fetiale, a proposito del quale aderisce alla «lettura volontarista e universalista» proposta dal Catalano: cfr. Id., L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo (Milano 1981) V.

 

[35] D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara (München 1989) 13.

 

[36] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 17 s.

 

[37] Così A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4a ed. (Paris 1967) 301. Cfr. H. Ehlers, v. Hostis, in Thesaurus Linguae Latinae, VI.2 (1934) coll. 3061 ss.; A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, 3a ed. (Heidelberg 1938) 662 s.; É Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes l cit. 95.

 

[38] Sui problemi relativi alla trasmissione delle norme decemvirali, vedi per tutti: F. Wieacker, Die XII Tafeln in ihrem Jahrhundert, in Les origines de la République romaine (Vandoeuvres-Genève 1966, ma 1967) 293 ss.; Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I (München 1988) 287 ss.; S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, I (Milano 1981) 275 ss. Per un riesame complessivo della tradizione annalistica e della storiografia moderna sul controverso episodio del decemvirato legislativo, vedi G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e storiografici sull’età delle XII Tavole (Bologna 1984). Quanto poi alle caratteristiche e ai contenuti di quella arcaica “codificazione”, vedi i saggi di S. Boscherini, L. Amirante, F. Serrao, G. Franciosi, E. Cantarella, B. Santalucia, A. Guarino, pubblicati in Società e diritto nell’epoca decemvirale. Atti del convegno di diritto romano, Copanello 3-7 giugno 1984 (Napoli 1989). La ricostruzione del “sistema” e dell’ordine delle XII Tavole è stata oggetto del lavoro di un gruppo di ricerca, i cui primi risultati sono stati pubblicati in Index 18 (1990) 289-449 [Sulle XII Tavole: L. Amirante, Per una palingenesi delle XII Tavole, 391 ss.; O. Diliberto, Considerazioni intorno al commento di Gaio alle XII Tavole, 403 ss.; F. d’Ippolito, XII Tab. 2.2, 435 ss.]; ormai fondamentali i successivi studi di O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole (Cagliari 1992); F. d’Ippolito, Questioni decemvirali (Napoli 1993).

 

[39] I due frammenti delle XII Tavole (= Tab. II.2; VI.4 in Fontes iuris romani anteiustiniani, I. Leges, ed. S. Riccobono (Florentiae 1941) 31, 44) si presentano di non facile interpretazione: per l'esegesi critico-ricostruttiva del primo rimando al lavoro di G. Nicosia, Il processo privato romano, II. La regolamentazione decemvirale (Torino 1986 [rist. dell'ed. 1984]) 129 ss. Riguardo al precetto adversus hostem aeterna auctoritas, la dottrina dominante ritiene che esso indicasse la garanzia del mancipante a fronte dell'impossibilità di usucapire per gli stranieri: cfr. in tal senso, P. Voci, Modi di acquisto della proprietà (Milano 1952) 47 ss.; V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano (Napoli 1954) 313 ss.; M. Kaser, Eigentum und Besitz im älteren romischen Recht, 2ª ed. (Köln-Graz 1956) 92 ss.; Id., Das römische Privatrecht, I, 2ª ed. (München 1971) 136; F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit.  18; O. Behrends, La mancipatio nelle XII Tavole, in Iura 33 (1982 [ma 1985]) 92; F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, I (Parte prima) (Napoli 1984) 349 nt. 66.

 

[40] S. Tondo, Il “sacramentum militiae” nell’ambiente culturale romano-italico, in SDHI 29 (1963) 1 ss.; Id., “Sacramentum militiae”, Ibidem 34 (1968) 376 ss.; H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in Problèmes de la guerre à Rome, cur. J.-P. Brisson (Paris 1969) 105 s.; C. Nicolet, Il mestiere di cittadino nell'antica Roma, trad. it. (Roma 1980) 131 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom (Stuttgart 1990) 76 ss.

 

[41] Vissuto presumibilmente nell'ultimo secolo della repubblica (G. Wissowa, v. L. Cincius, in REPW III.2 (Stuttgart 1899) coll. 2555 s.) L. Cincio viene considerato da una parte della vecchia dottrina un poligrafo non giurista: così P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des römisches Rechts (Leipzig 1888) 69 nt. 83 [= Id., Histoire des sources de droit romain, trad. franc. di M. Brissaud (Paris 1894) 92 nt. 2]; H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I, 2ª ed. (Stutgardiae 1914 [rist. an. 1967]) CV; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed. (München 1927 [rist. 1966]) 175 s.; F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco (Milano 1964) 158; da ultimo F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte I cit. 570; ma in altro senso già L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani (Torino 1892) 71; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I (Lipsiae 1896 [rist. an. Roma 1964]) 252; Ph.E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, editio sexta, I (Lipsiae 1908 [rist. an. Leipzig 1988]) 24; più di recente M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2ª ed. (Roma-Bari 1982) 16; V. Giuffrè, La letteratura de re militari. Appunti per una storia degli ordinamenti militari (Napoli 1974) 38 ss. [= Id., Letture e ricerche sulla “res militaris”, II (Napoli 1996) 242 ss.]. Per una breve valutazione dell’opera del giurista, con critiche alla scelta omissiva di O. Lenel nella Palingenesia iuris civilis, vedi F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C. (Torino 1995) 64 ss.

 

[42] Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae Anteiustinianae quae supersunt, editio quinta (Lipsiae 1886) 87 fr. 13; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I cit. 254 fr. 2; V. Giuffrè, Il “diritto militare" dei Romani (Bologna 1980) 33 s., con traduzione italiana del testo gelliano; infine F. d’Ippolito, XII Tab. 2.2 cit. 438 s. Di questo antico significato della parola abbiamo un’altra attestazione in Paul. Fest. ep., p. 72 L.: Exesto, extra esto. Sic enim lictor in quibusdam sacris clamitabat: hostis, vinctus, mulier, virgo exesto; scilicet interesse prohibebatur (Riguardo a questo procedimento menzionato da Festo, risulta assai difficoltoso per la dottrina romanistica determinare quali sacra ne fossero interessati: K. Latte, s.v. Immolatio, in REPW IX.1 (Stuttgart 1914) col. 1121; allo stesso tempo appaiono poco convincenti i tentativi di spiegazione finora proposti: vedi, con sostanziali differenze, G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed. (München 1912 [rist. 1971]) 397 nt. 5; W.W. Fowler, The religious experience of the Roman people (London 1911) 37). Si tratta della formula con cui il littore allontanava da alcune cerimonie religiose determinate categorie di persone; una formula che, attraverso il De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo, può farsi risalire alla scienza antiquaria di Verrio Flacco. Sui problemi relativi alla biografia e alla molteplice produzione di Verrio Flacco vedi, per tutti, M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, 4ª ed. (München 1935 [rist. an. 1959]) 361 ss.; A. Dihle, s.v. Verrius, in REPW VIII.A.2 (Stuttgart 1958) coll. 1636 ss. Intorno al metodo di composizione delle glosse verriane e alle probabili fonti di esse, sono fondamentali gli studi di R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Breslau 1887) e di L. Strzelecki, Quaestiones Verrianae (Warszawa 1932). Questi temi sono stati riaffrontati, con penetrante intuizione, in un lavoro significativo di F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco (Milano 1964); cfr. Id., Opusculum Festinum (Ticini 1982).

 

[43] A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone (Milano 1973) 29 fr. 1, 113 s. Nello stesso senso anche Serv. Dan. Ad Aen. 4.424: Inde nostri ‘hostes’ pro hospitibus dixerunt: nam inimici perduelles dicebantur; e Paul. Fest. ep., p. 91 L.: Hostis apud antiquos peregrinus dicebatur, et qui nunc hostis, perduellio.

 

[44] Plaut. Curc. 1.1.4-6: si media nox est sive est prima vespera, / si status condictus cum hoste intercedit dies, / tamen est eundum quo imperant ingratiis. Cfr. Serv. Dan. Ad Aen. 4.424; Macr. Sat. 1.16.4. Sull'attendibilità delle commedie plautine per la ricostruzione del diritto romano, sono ancora validi gli studi di E. Costa, Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto (Torino 1890) 21 ss.; ma vedi anche il più recente lavoro di C.S. Tomulescu, Observations sur la terminologie juridique de Plaute, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, VI (Napoli 1984) 2771 ss.

 

[45] A commento del passo, vedi quanto ha scritto P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 71-72: «Lascio da parte per un momento il problema se lo status dies cum hoste di cui parlavano le Dodici Tavole si riferisse a tutti gli stranieri o solo a quelli con cui sussistevano particolari rapporti (hospitium, foedus); qui interessa rilevare che la spiegazione data da Festo al termine hostes, con evidente riferimento agli stranieri in genere, indica nella parità, una compartecipazione allo ius. Tale idea di compartecipazione pone in nuova luce la definizione di hostis (e peregrinus) come “qui suis legibus uteretur”: l'appartenenza a una comunità diversa con proprie leggi non toglieva la compartecipazione a una più generale sfera di ius considerato valido, virtualmente, per tutti i popoli». Cfr. Id., Populus Romanus Quirites (Torino 1974) 140.

 

[46] E. Cuq, sv. Hostis, in DS III.1 (Paris 1900) 303: «Aux derniers siècles de la République, l’acception du mot hostis s’est modifiée, en même temps que celle du mot peregrinus a été étendue. Désormais, le mot peregrinus désigne une condition juridique». Cfr. Gai. Inst. 1.128: nec enim ratio patitur, ut peregrinae condicionis homo civem Romanum in potestate habeat. Pari ratione et si ei, qui in potestate parentis sit, aqua et igni interdictum luerit, desinit in poteste parentis esse, quia aeque ratio non patitur, ut peregrinae condicionis homo in potestate sit civis Romani parentis; ma anche Gai epit. 1.6.1; Tituli ex corp. Ulp. 10.3.

 

[47] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 20; cfr. anche F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma cit. 344.

 

[48] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 19 s.

 

[49] Su questo importante testo ciceroniano, vedi P. Catalano, Cic. De off. 3, 108 e il così detto diritto internazionale antico, in Synteleia Arangio-Ruiz, I (Napoli 1964) 373 ss.; Id., Linee del sistema sovrannazionale romano cit.  4 ss.; più di recente, L. Loreto, Il bellum iustum e i suoi equivoci. Cicerone ed una componente della rappresentazione romana del Völkerrecht antico (Napoli 2001) 69 ss.

 

[50] Cic. De off. 1.39: Atque etiam si quid singuli temporibus adducti hosti promiserunt, est in eo ipso fides conservanda, ut primo Punico bello Regulus captus a Poenis, cum de captivis commutandis, primum, ut venit, captivos reddendos in senatu non censuit, deinde, cum retineretur a propinquis et ab amicis, ad supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere. Cfr., inoltre, De fin. 2.65: At ego quem huic anteponam non audeo dicere; dicet pro me ipsa virtus nec dubitabit isti vestro beato M. Regulum anteponere, quem quidem, cum sua voluntate, nulla vi coactus praeter fidem, quam dederat hosti, ex patria Karthaginem revertisset, tum ipsum, cum vigiliis et fame cruciaretur, clamat virtus beatiorem fuisse quam potantem in rosa Thorium; Cato maior 75: Non duos Decios qui ad voluntariam mortem cursum equorum incitaverunt, non M. Atilium qui ad supplicium est profectus, ut fidem hosti datam conservaret; De leg. 2.34: Sequitur enim de iure belli; in quo et suscipiendo et gerendo et deponendo ius ut plurimum valeret et fides, eorum que ut publici interpretes essent, lege sanximus; De off. 3.107: Est autem ius etiam bellicum fidesque iuris iurandi saepe cum hoste servanda.

 

[51] Isid. Diff. 1.563: Bellum est contra hostes exortum, tumultus vero domestica appellatione concitatus. Hic et seditio nuncupatur.

 

[52] Serv. in Verg. Aen. 8.547: Qui sese in bella sequantur in expeditionem et bellicam praeparationem: nam, ut supra diximus, ‘bellum’ est tempus omne quo vel praeparatur aliquid pugnae necessarium, vel quo pugna geritur, ‘proelium’ autem dicitur conflictus ipse bellorum: unde modo bene dixit ‘qui sese in bella sequantur’, non ‘in proelium’; nam ad auxilia petenda vadit, non ad pugnam (cfr. anche Serv. Dan. in Verg. Aen. 1.456; 2.397; Non. p. 703 L.). Dal passo si ricava, inoltre, la distinzione tra bellum, pugna e proelium; la sottile distinzione di Servio non pare, tuttavia, rigorosamente osservata, se è vero che il termine bellum si trova usato di frequente dagli autori antichi per indicare anche l’“atto di guerra”, il “lottare in guerra”, insomma il combattimento: cfr. G. Lotito, s.v. Bellum, in Enciclopedia Virgiliana, I (Roma 1984) 437.

 

[53] Sulle «veterum de origine verbi sententiae», cfr. B.A. Müller, s.v. Bellum, in Th.L.L. II (1906) col. 1822.

 

[54] I sacerdoti, a differenza di antiquari e annalisti, rifuggivano dall’attualizzare gli antichi documenti giuridico-religiosi nella forma linguistica; anche col rischio di non comprendere gli antichissimi carmina che recitavano per i propri culti. Questa ragione spiega il perché la lingua dei documenti sacerdotali appare, di norma, più conservativa dello stesso linguaggio giuridico; si legga in proposito quanto scrive E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo (Firenze 1978) 173: «Vi è una differenza essenziale fra la lingua dei carmina sacerdotali e la lingua delle leggi. La prima è immutabile nel tempo, sì che la formula deve recitarsi come è scritta anche se più non la si intende. Il latino giuridico, invece, vive nella scuola e nella pratica, e muta seguendo, se pur con ritmo più lento, la naturale evoluzione della lingua comune. Anche le più vetuste leges regiae trascritteci da Festo presentano qualche arcaismo, ma sono linguisticamente moderne rispetto al latino del cippo del Foro, più prossimo all’indoeuropeo che alla lingua di Cicerone».

 

[55] B.A. Müller, s.v. Bellum, in Th.L.L. II cit. col. 1822; V. Rosenberger, Bella et expeditiones: die antike Terminologie der Kriege Roms (Stuttgart 1992) 128 ss.

 

[56] Su tale «fatto fonetico» vedi G. Devoto, Storia della lingua di Roma (Bologna 1940 [rist. an. 1969]) 107; M. Leumann, Lateinische Laut- und Formenlebre = Leumann-Hoffman-Szantir, Lateinische Grammatik, 1 [Handbuch der Altertumswissenschaft II.2.1] (München 1977) 131 s.

 

[57] Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L. VI.32323.94 (G.B. Pighi, De ludis saecularibus populi Romani Quiritium [Milano 194] 114); Act. lud. saec. Sept. Sev. 4,11 = C.I.L. VI.32329.11 (G.B. Pighi, Op. cit. 157): imperi>um maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique semper Latinu>s obtemperassit.

 

[58] Cfr. anche Plaut. Asin. 558-559: Edepol qui virtutes tuas non possis conlaudare, / sicut ego possim, quae domi duellique male fecisti; Capt. 67-68: Abeo. Valete iudices iustissimi / domi, duellique duellatores optumi.

 

[59] In questo caso la nostra fonte più autorevole è costituita da Varro De ling. Lat. 7.49: Perduelles dicuntur hostes; ut perfecit, sic perduellis, <a per> et duellum; id postea bellum. Ab eadem causa facta Duell[i]ona Bellona; cfr. Cic. Orat. 153; Quint. Inst. orat. 1.4.15. Sull’antica forma del nome della dea vedi anche C.I.L. X.104.2; più in generale E. Aust, s.v. Bellona, in REPW III.1 (Stuttgart 1897) coll. 254 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer cit. 151 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed. (Paris 1974) 394 ss. [= Id., La religione romana arcaica, trad. it. di F. Jesi (Milano 1977) 341 s.]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico (Milano 1988) 192 ss.

 

[60] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II cit.  53.

 

[61] Cfr. nello stesso senso J.-P. Brisson, Introduction, in Problèmes de la guerre à Rome (Paris-La Haye 1969) 17: «Rome a toujours su que la guerre avait quelque chose de sacrilège et qu’un usage immodéré de la violence risquait de provoquer la colère des dieux, c’est-à-dire que l’effusion de sang laisse toujours plus au moins mauvaise conscience».

 

[62] Cic. De nat. deor. 2.8: Nihil nos P. Clodi bello Punico primo temeritas movebit, qui etiam per iocum deos inridens, cum cavea liberati pulli non pascerentur, mergi eos in aquam iussit, ut biberent, quoniam esse nollent? Qui risus classe devicta multas ipsi lacrimas, magnam populo Romano cladem attulit. Quid collega eius L. Iunius eodem bello nonne tempestate classem amisit, cum auspiciis non paruisset? Itaque Clodius a populo condemnatus est, Iunius necem sibi ipse conscivit. C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores. Acute osservazioni in C. Bailey, Phases in the Religion of Ancient Rome (Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn. 1972]) 274 s.; più di recente, vedi R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte (Leiden-New York-København-Köln 1988) 5 s.: «C’est à la piété collective et institutionnelle, aux religiones de la cité que les Romains attribuaient le succès de leur politique et leur hégémonie universelle. [...] A cet égard, les Romains pouvaient à bon droit se targuer de l’emporter sur tous les peuples religione, id est cultu deorum»; ma anche M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe (Fribourg Suisse 1993) 196 s.

Anche Virgilio risultava sensibile a tale ideologia, al punto da attribuire allo stesso Iuppiter versi quali Aen. 12.838-840: Hinc genus Ausonio mixtum quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis, / nec gens ulla tuos aeque celebrabit honores; ispirazione del tutto assente nel contemporaneo Tito Livio (1.16.7) il quale adduceva ben altre motivazioni nella ‘profezia’ attribuita allo spirito di Romolo: Abi, nuntia ‑ inquit ‑ Romanis caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum sit, proinde rem militarem colant sciantque, et ita posteris tradant, nullas opes humanas armis Romanis resistere posse. Sulla diversa ispirazione di Virgilio rispetto a Tito Livio e sulle implicazioni religiose di essa vedi, anche I. Lana, Studi sull’idea della pace nel mondo antico, in Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino, ser. V, 13 (1989) 6 s. (estr.).

 

[63] Da condividere il pensiero di M. Meslin, L’uomo romano cit. 39, a proposito del ritus belli indicendi: «Come dice Tito Livio (1.32) attribuendo sempre al re Numa Pompilio l’istituzione di questi feciali, “fare la guerra non bastava, bisognava anche dichiararla secondo le regole”. Il rituale è certamente d’origine italiota e mira, con adeguate procedure, non solo ad affermare il buon diritto di Roma, ma a collocare l’impresa nel fas, vale a dire a conferirle le massime possibilità di riuscita».

 

[64] Cfr. in tal senso, J. Hergon, La guerre romaine aux 4e-3e siècles et la fides romana, in J.-P. Brisson (direct.) Problèmes de la guerre à Rome cit.  28.

 

[65] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 48 s.

 

[66] «Sull’applicabilità del ius fetiale verso gli estranei» piena adesione di F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 52, n. 107, alle tesi del Catalano.

 

[67] Liv. 1.32.6-14. Per l’analisi giuridica rinvio a F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 50 s.; ricostruzione metrica dei carmina contenuti nel testo liviano, in C.M. Zander, Versus Italici antiqui (Lundae 1890) 32; C.O. Thulin, Italiscke sakrale Poesie und Prosa. Eine metriscke Untersuckung (Berlin 1906) 63 s.; G. Appel, De Romanorum precationibus (Gissae 1909 [rist. an. New York 1975]) 12 s.; G.B. Pighi, La poesia religiosa romana cit. 38 ss.; A. Carcaterra, Dea Fides e ‘fides’: storia d’una laicizzazione, in SDHI 50 (1984) 214 ss. Che l’insieme di queste formule presenti un aspetto estremamente risalente, al di là della pur inevitabile modernizzazione linguistica, è sostenuto senza esitazioni da R. Bloch, Réflexions sur le plus ancien droit romain, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, I (Torino 1968) 236 ss.; nello stesso senso A. Magdelain, Quirinus et le droit (spolia opima, ius fetiale, ius Quiritium) in MEFRA 96 (1984) 213 ss.; Id., Le ius archaïque, Ibidem 98 (1986) 303.

 

[68] J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psychologique, 2a ed. (Paris 1969 [rist. 1976]) 86 s. [= ID., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli (Torino 1959 - rist. 1992) 93 s.].

 

[69] H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in Problèmes de la guerre à Rome cit. 101. Sulle feste di carattere militare di questi due mesi, vedi per tutti W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic (rist. London 1925) 33 ss., 236 ss.; ed il più recente lavoro di D. Sabbatucci, La religione di Roma antica cit. 87 ss., 317 ss.

 

[70] Cic. De off. 1.36-37: [Popilius imperator tenebat provinciam in cuius exercitu Catonis filius tiro militabat cum autem Popilio videretur unam dimittere legionem Catonis quoque filium qui in eadem legione militabat dimisit. Sed cum amore pugnandi in exercitu remansisset Cato ad Popilium scripsit ut si eum patitur in exercitu remanere secundo eum obliget militiae sacramento quia priore amisso iure cum hostibus pugnare non poterat. Adeo summa erat observatio in bello movendo]. Marci quidem Catonis senis est epistula ad Marcum filium in qua scribit se audisse eum missum factum esse a consule cum in Macedonia bello Persico miles esset. Monet igitur ut caveat ne proelium ineat; negat enim ius esse, qui miles non sit, cum hoste pugnare.

 

[71] è opinione prevalente fra gli studiosi che gli antichi sacerdoti romani indicassero con il termine nefas tutto quello «che non fosse possibile fare senza incorrere nella reazione della natura stessa e nell’ira degli dèi»: A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed. (Napoli 1990) 135; da ciò consegue che il concetto di nefas rimanda a valori che l’odierna dommatica giuridica definisce imperativi – il nefas è inteso sempre in senso obbligatorio – connessi con le sfere del “vietato” e del “dovere”: P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale (Torino 1960) 326 e n. 10; seguito da F. Cordero, Riti e sapienza del diritto (Roma-Bari 1981) 272; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale” antico cit. 95 ss. Quanto alla derivazione della parola, i linguisti concordano nel ritenere nefas «sorti de l’expression ne fas est où il faut entendre ne- comme une négation de phrase et non comme préfixe»: É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion (Paris 1969) 136; cfr. anche A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I cit. 217; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine cit. 217. Oltre che nella lingua dei sacerdoti, l’uso di nefas nell’arcaica forma ne fas (est) si ritrova ancora negli antiquari di età tardo-repubblicana e imperiale, soprattutto in testi che fanno riferimento a realtà religiose e giuridiche antichissime (Fest. De verb. sign., v. Sacer mons, p. 424 L.: At homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed, qui occidit, parricidi non damnatur. Gell. Noct. Att. 10.15.14: Pedes lecti, in quo cubat, luto tenui circumlitos esse oportet et de eo lecto trinoctium continuum non decubat neque in eo lecto cubare alium fas est).

 

[72] Verg. Aen. 2.717-720: Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis; / me, bello e tanto digressum et caede recenti, / attrectare nefas, donec me flumine vivo / abluero (Sulle implicazioni religiose e giuridiche di questi versi si vedano, fra gli altri, F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, in RISG 10 n. s. (1935) 228; R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica, in BIDR 46 (1939) 225 e n. 70; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in SDHI 19 (1953) 54 n. 37 [= Id., Scritti di diritto romano, I (Padova 1985) 230 nt. 37]; in diversa prospettiva, vedi anche G. Dumézil, Mythe et épopée, I. L’ideologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens (Paris 1968) 401); per quanto nei versi appena citati, forse per dare maggiore solennità al contesto, o per meglio sottolineare il ruolo sacerdotale di Enea, il poeta sembra riferirsi più che ad una generica purificazione rituale alle abluzioni dei sacerdoti, come si rileva dall’uso del verbo attrectare, verbo «di carattere rigorosamente sacrale», che aveva un significato positivo solo se riferito ai sacerdotes populi Romani, mentre usato per il resto della collettività assumeva il valore negativo di «contaminare»: E. Paratore, Virgilio, Eneide, I Libri I-II (Milano 1978) 360.

 

[73] A maggior ragione, era ritenuta sommamente onorevole per il cittadino la morte in battaglia: così Verg. Aen. 2.314-317: Arma amens capio; nec sat rationis in armis, / sed glomerare manum bello et concurrere in arcem / cum sociis ardent animi; furor iraque mentem / praecipitat pulchrumque mori succurrit in armis; nello stesso senso il commento di Serv. Dan. in Verg. Aen. 2.317: (Pulchrumque mori) succurrit (in armis) ratio viri fortis; quid enim aliud a bono cive et forti amissae patriae posset inpendi. Et ‘succurrit’ in animum venit.

 

[74] Cfr. F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius cit. 227 s.; per l’analisi linguistica del verbo impiare, e per le sue valenze religiose, vedi H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine (Paris 1963) 334 ss.

 

[75] Sulla base di queste motivazioni religiose, i soldati, reduci dalla battaglia, dovevano entrare in città portando rami d’alloro (Paul. Fest. ep., p. 104 L.: Laureati milites sequebantur currum triumphantis, ut quasi purgati a caede humana intrarent Urbem); uguali motivazioni religiose stavano alla base della cerimonia dell’armilustrium (Varr. De ling. Lat. 6.22: Armilustrium ab eo quod in Armilustrio armati sacra faciunt, nisi locus potius dictus ab his; sed quod de his prius, id ab lu<d>endo aut lustro, id est quod circumibant ludentes ancilibus armati. Paul. Fest. ep., p. 17 L.: Armilustrium festum erat apud Romanos, quo res divinas armati faciebant, ac, dum sacrificarent, tubis canebant), che si celebrava il 19 ottobre, come generale purificazione dell’esercito alla fine della stagione della guerra: cfr. per tutti G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer cit. 19, 144, 557; W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic cit. 250 s.; N. Turchi, La religione di Roma antica (Bologna 1939) 100; K. Latte, Römische Religionsgeschichte (München 1960) 120; G. Dumézil, La religion romaine archaïque cit. 216 [= Id., La religione romana arcaica cit. 190]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica cit. 331 s.

 

[76] L’attività teologica e giuridica della sodalità si esplicitava, oltre che nelle formule solenni, soprattutto in decreta e responsa, che i feziali davano su richiesta del senato o dei magistrati. Importanti testimonianze, con riferimenti testuali, in Liv. 31.8.3: Consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum, quod indiceretur regi Philippo, utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an satis esset, in finibus regni quod proximum praesidium esset, eo nuntiari. Fetiales decreverunt, utrum eorum fecisset, recte facturum; 36.3.9: Fetiales responderunt iam ante sese, cum de Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre, ipsi coram an ad praesidium nuntiaretur.

 

[77] Rassegna delle fonti in cui ricorre questa espressione in B.A. Müller, s.v. Bellum, in Th.L.L. II cit. col. 1831. Sul tema, ampiamente studiato dalla dottrina romanistica, basterà ricordare alcuni: M. Kaser, Das altrömische ius (Göttingen 1949) 22 ss.; H. Drexler, Iustum bellum, in RMPh 102 (1959) 97 ss.; H. Hausmaninger, ‘Bellum iustum’ und ‘Iusta causa belli’ in älteren römischen Recht, in österreichsche  Zeitschrift für öffentliches Recht, N. F. 11 (1961) 335 ss.; E. Pólay, Differenzierung der Gesellschaftsnormen in antiken Rom (Budapest 1964) 115 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 14 ss.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik cit. 102 ss.; W.V. Harris, War and imperialism in Republican Rome, 327-70 BC. (Oxford 1979) 161 ss.; S. Albert, Bellum iustum. Die Theorie des «gerechten Krieges» und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit (Kallmünz 1980) 12 ss.; S. Clavadtscher-Thürlemann, ‘Polemos dikaios’ und ‘bellum iustum’ (Zürich 1985) 139 ss.; F. d’Ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana (Napoli 1988) 22 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara cit. 118 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom cit. 117 ss.; A. Watson, International law in archaic Rome: war and religion cit. 48 ss.

 

[78] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’Impero cit. 92.

 

[79] Varro De ling. Lat. 5.86: Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum, et inde desitum, ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, ante quam conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus Ennius scribit dictum.

 

[80] Isid. Orig. 18.1.2: Iustum bellum est, quod ex edicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa.

 

[81] Liv. 9.1.10: Iustum est bellum, Samnites, quibus necessarium, et pia arma quibus nulla nisi in armis reliquitur spes.

 

[82] Sull’organizzazione militare dei Sanniti, con approfondimenti archeologici e giuridico-religiosi, vedi Chr. Saulnier, L’armée et la guerre chez les peuples Samnites (VIIe - IVe s.) (Paris 1983).

 

[83] D. 1.3.40 (Modestinus libro primo regularum): Ergo autem omne ius aut consensus fecit aut necessitas constituit aut firmavit consuetudo. Cfr. VIR IV coll. 74 ss.

 

[84] Oltre il lavoro per molti versi fondamentale di W. Capelle, Griechische Etik und römischer Imperialismus, in Klio 25 (1932) 86 ss. [ristampato in Ideologie und Herrschaft in der Antike, cur. H. Kroft (Darmstadt 1979) 238 ss.], vedi anche F.W. Walbank, Political morality and friends of Scipio, in JRS 55 (1965) 1 ss.; E. Badian, Roman imperialism in the late Republic, 2ª ed. (Ithaca, New York 1968) [= Id., Römischer Imperialismus in der späten Republik, trad. tedesca di G. Wirth (Stuttgart 1980)]; P. Desideri, L’interpretazione dell’impero romano in Posidonio, in RIL 106 (1972) 482 ss.; G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo a.C., I (Torino 1973) 38 ss.; P. Treves, La cosmopoli di Posidonio e l’impero di Roma, in La filosofia greca e il diritto romano (Atti del Colloquio italo-francese, Roma, 14-17 aprile 1973), I (Roma 1976) 27 ss.; E. Gabba, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, in Athenaeum 65 (1977) 49 ss.; D. Musti, Polibio e l’imperialismo romano (Napoli 1979); A. Momigliano, Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, ora in Id., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, I (Roma 1980) 89 ss.; P. Jal, L’impérialisme romain: observations sur les témoignages littéraires latines de la fin de la République romaine, in Ktéma 7 (1982) 143 ss.; J.-L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique (Rome 1988).

 

[85] M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistiger Bewegung (Göttingen 1959) qui citato nella trad. it., La stoa. Storia di un movimento spirituale, I (Firenze 1967) 535 ss.; J.-L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’età repubblicana, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali dir. L. Firpo I. L’antichità classica (Torino 1982) 731 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et la tradition romaine à la fin de la Rèpublique (Paris 1984) 231 ss.; M. Bretone, Storia del diritto romano cit. 323 ss. Non è certo senza significato che sia proprio del I secolo a.C. la prima menzione affidabile a noi pervenuta di «natura ius»: Natura ius est, quod cognationis aut pietatis causa observatur, quo iure parentes a liberis, et a parentibus liberi coluntur (Rhet. ad Her. 2.19). Sulla datazione dell’opera vedi G. Calboli, Cornifici Rhetorica ad Herennium (Introduzione, testo critico, commento) (Bologna 1969) 12 ss.; C. Achard, L’auteur de la «Rhetorique à Herennius»?, in REL 63 (1985, ma 1987) 56 ss., il quale però ritiene poco probabile che il manualetto sia stato effettivamente composto da Cornificio.

 

[86] Su L. Furio Filo, uomo politico e giurista amico di Scipione Emiliano, console nel 136 a.C., (cfr. T.R.S. Broughton, The magistrates of the Roman Republic, I [New York 1951] 486), di cui ancora Macrobio citava ‑ seppure di seconda mano ‑ un vestustissimus liber (così F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae I cit. 29 s.; possibilisti M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur cit. 234: «Der Verfasser ist wahrscheinlich der Konsul des J. 136 L. Furius Philus»), vedi Fr. Münzer, s.v. Furius, in REPW VII.1 (Stuttgart 1910) col. 360; O. Behrends, Tiberius Gracchus und die juristen seiner Zeit ‑ die römische Jurisprudenz gegenüber der Staatskrise des Jahres 133 v.Cr., in Das Profil des Iuristen in der europäischen Tradition. Symposion aus Anlass des 70. Geburtstages von Franz Wieacker (Ebelbach 1980) 113 ss.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC (München 1983) 282 ss.

 

[87] De re publ. 3.8; J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, in REL 55 (1977) 128. Fra gli studi dedicati a Carneade e alla Nuova Accademia vedi, in particolare: J. Croissant, La morale de Carnéade, in Revue internationale de philosophie 3 (1939) 545 ss.; O. Gigon, Zur Geschichte der sogenannten Neuen Akademie (1944), ora in Id., Studien zur antiken Philosophie (Berlin 1972) 412 ss.; A. Weische, Cicero und die neue Akademie (Münster West. 1961) 77 ss.; H.J. Kraemer, Platonismus und hellenistische Philosophie (Berlin 1971) 5 ss. Sembra potersi dubitare del fatto che Carneade, nel discorso pronunciato a Roma, si sia fatto portavoce dell’opposizione culturale greca all’egemonia “mondiale” dei Romani (come invece sostenevano H. Fuchs, Der geistige Wiederstand gegen Rom in der antiken Welt, 2ª ed. (Berlin 1964) 2 ss.; F.W. Walbank, Polibus and Rome’s eastern Policy, in JRS 53 (1963) 1 ss.; E. Candiloro, Politica e cultura in Atene da Pidna alla guerra mitridatica, in Studi Classici e Orientali 14 (1965) 158 ss.): cfr. in tal senso T.A. Sinclair, Il pensiero politico classico, cur. L. Firpo (Bari 1961) 373; G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del secondo secolo a.C. II cit. 363 ss.; J.-L. Ferrary, Philhellènisme et impérialisme cit. 351 ss.

 

[88] Il passo tratto da Lattanzio (Inst. div. 6.9.3-4) è stato considerato non ciceroniano nelle edizioni curate da K. Büchner M. T. Cicero, Von Gemeinwesen, 3ª ed. (Zürich 1973) e da P. Krarup M. T. Ciceronis De re publica librorum sex quae supersunt (Firenze 1967); anche E. Heck, Die Bezeugung von Ciceros Schrift De re publica (Hildesheim 1966) 90 s., ritiene il passo non riconducibile al discorso di Furio Filo, rilevandovi contraddizioni con le tesi centrali di tale discorso esposte da Lattanzio, Inst. div. 5.16. Una stimolante analisi del passo si ha in D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike (München 1974) 70. Per il commento vedi K. Büchner, M. Tullius Cicero. De Republica, Kommentar (Heidelberg 1984) 287, a parere del quale la parte del discorso riguardante lo ius fetiale non deriverebbe dal pensiero di Carneade. Analisi più ampia di questa parte del De re publica in J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade cit. 128 ss.; Id., Le discours de Laelius dans le troisième livre du De re publica de Cicéron, in MEFRA 86 (1974) 745 ss.; A. Michel, A propos du De republica III: la politique et le désir, in Mélanges de littérature et épigraphie latines, d’histoire ancienne et archéologie. Hommage à la mémoire de Pierre Wuilleumier (Paris 1980) 229 ss.

 

[89] Più in generale, riguardo alle concezioni religiose di Cicerone rimane tuttora insostituibile M. van den Bruwaene, La théologie de Cicéron (Louvain 1937); cfr. inoltre, fra gli altri: P. Deforny, Les fondaments de la religion d’après Cicéron, in LEC 22 (1954) 241 ss., 366 ss.; R.D. Sweeney, Sacra in the Philosophic Works of Cicero, in Orpheus 12 (1965) 99 ss.; J. Guillén, Dios y los dioses en Cicerón, in Helmantica 25 (1974) 511 ss.; J. Kroymann, Cicero und die römische Religion, in Ciceroniana. Hommages à Kazimierz Kumaniecki (Leiden 1975) 116 ss.; L. Troiani, Cicerone e la religione, in RSI 96 (1984) 920 ss.; C. Bergemann, Politik und Religion im spätrepublikanischer Rom (Stuttgart 1992).

 

[90] Cic. Div. in Caec. 62; De prov. cons. 4; Ad Att. 7.14.3; 9.19.1; Pro rege Deiot. 13; De off. 1.36; Phil. 11.37; 13.35. Nel bel lavoro di S. Albert, Bellum iustum cit. 20 ss., alcune interessanti pagine sono state dedicate al «Aufkommen des Begriffs bei Cicero»; cfr. anche W.C. Korfmacher, Cicero and the bellum iustum, in The Classical Bulletin 48 (1972) 49 ss. Riesame dei testi ciceroniani, con molte critiche alla quasi totalità degli studi contemporanei, nel recentissimo lavoro di L. Loreto, Il bellum iustum e i suoi equivoci. Cicerone ed una componente della rappresentazione romana del Völkerrecht antico cit.

 

[91] Per maggiori ragguagli sul passo cfr. K. Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar cit. 200. Anche Tito Livio (1.24), come Cicerone, ascrive a Tullo Ostillo l’istituzionalizzazione dello ius fetiale: non così Dionigi di Alicarnasso (2.72), che ritiene Numa Pompilio fondatore di tale ius; né Servio (in Verg. Aen. 10.14), il quale indica Anco Marzio. Nel complesso dello ius fetiale, con l’esempio anche del testo ciceroniano, D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike cit. 59, vede una delle manifestazioni della «römische Gerechtigkeitsideologie».

 

[92] Isidoro, Orig. 18.1.2-3: Quattuor autem sunt genera bellorum: id est iustum, iniustum, civile et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex praedicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium caus. Iniustum bellum est quod de furore, non de legitima ratione initur. De quo in Republica Cicero dicit: illasuscepta; commento in K. Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar cit. 325. Sulle cause del bellum iustum esemplificate nel testo di Cicerone vedi, fra gli altri, M. Gelzer, Römische Politik bei Fabius Pictor, in Hermes 68 (1933) 165 s.; W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrecht im 3. und 2. Jahrhundert v.Chr. cit. 179; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom cit. 121.

 

[93] Cfr. anche De re publ. 3.34 (= August. De civ. dei 22.6): Nullum bellum suscipi a civitate optima nisi aut pro fide aut pro salute; su cui vedi la riflessione di A. Michel, Les lois de la guerre et les problèmes de l’impérialisme romain dans la philosophie de Ciceron, in Problèmes de la guerre à Rome cit. 174: «Ainsi s’esquisse une justification de l’imperium romain, qui s’est constitué peu à peu pour répondre soit aux exigences de la légitime défense (une défense assez offensive), soit aux appels d’alliés que leurs propres ennemis ménageaient ou lésaient». Agli stessi valori si richiamava, prima di Cicerone, M. Porcio Catone in un frammento delle Origines, trattando della ripresa delle ostilità tra Roma e Cartagine nel 218 a.C.: Non. p. 142 L.: Deinde duoetvicesimo anno post dimissum bellum, quod quattuor et viginti annos fuit, Carthaginienses sextum de foedere decessere (fragm. 84 Peter = IV, 9 Chassignet). Giustamente nell’analisi del passo sottolinea il riferimento alla fides dei trattati M. Chassignet, Caton et l’impérialisme romain au IIe siècle av. J.-C. d’après les Origines, in Latomus 46 (1987) 293-294: «On retrouve ici la tradition romaine de la "guerre juste" qui a pris très tôt une valeur juridique, pour ne pas dire morale, en ce sens qu’elle suppose une injustice commise contre Rome».

Quanto poi al rapporto esistente per i Romani tra imperium e religione, vedi A. Zwaenepoel, L’inspiration religieuse de l’impérialisme romain, in AC 18 (1949) 5 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 22 ss.; approfondiscono il tema specificatamente in rapporto a Cicerone: J. Vogt, Ciceros Glaube an Rom, rist. an. dell’edizione 1935 (Darmstatd 1963); K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift De legibus (Wiesbaden 1983) 156 ss.; F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica cit. 19 ss.

 

[94] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’Impero cit. 91-92.

 

[95] Varro De ling. Lat. 5.86; Serv. in Verg. Aen. 1.62: Foedere modo lege, alias pace, quae fit inter dimicantes. Foedus autem dictus vel a fetialibus, id est sacerdotibus per quos fiunt foedera, vel a porca foede, hoc est lapidibus occisa, ut ipse et caesa iungebant foedera porca; cfr. Serv. Dan. in Verg. Aen. 4.242.

 

[96] Cic. De leg. 2.21: Feoderum pacis, belli, indotiarum ratorum fetiales iudices, nontii sunto, bella disceptanto.

 

[97] Fest. De verb. sign., pp. 198-200: Ordo sacerdotum aestimatur deorum <ordine ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex, dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex maximus. Itaque in soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra Martialem, et Quirinalem; Martialis supra proximum; omnes item supra pontificem. Rex, quia potentissimus: Dialis, qui universi mundi sacerdos, qui appallatur Dium; Martialis, quod Mars conditoris urbis parens; Quirinalis, socio imperii Romani Curibus ascito Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque arbiter habetur rerum divinarum humanarumque. Per la risalenza dell’ordo sacerdotum attestato da Festo, vedi soprattutto G. Dumézil, La religion romaine archaïque cit. 155 [= Id., La religione romana arcaica cit. 138 s.]; sul testo cfr. anche F. D’Ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica cit. 91 s.; M. Bretone, Storia del diritto romano cit. 108.