N. 5 – 2006 – Tradizione Romana
Università di
Sassari
Pace, guerra, diritto.
Sulla teoria dei rapporti internazionali nella Storia della costituzione romana di Francesco De Martino
Sommario: 1. Premessa.
– 2. Critica all’idea dell’inimicizia naturale dei
popoli come stato originario dell’umanità: definitiva affermazione
del carattere giuridico dei rapporti internazionali dell’antica Roma.
– 3. Hostis: lo straniero, il nemico.
– 4. Il bellum iustum:
la guerra tra diritto e religione. – 5. Conclusione.
Nella Storia della costituzione romana[1],
Francesco De Martino ha dedicato l’intero secondo capitolo del volume II,
edito per la prima volta nel 1954, alla esposizione della sua dottrina sul tema
assai dibattuto dei rapporti internazionali di Roma antica[2].
Questo mio contributo
si propone di avviare una prima, e molto sommaria, riflessione su alcune delle
significative elaborazioni in tema di “diritto internazionale
antico” contenute nel più grande manuale di diritto pubblico
romano del secolo appena trascorso[3].
Merito indiscusso della dottrina del De Martino è quello di aver
dimostrato, in via pressoché definitiva, il carattere pacifico delle
più antiche relazioni internazionali del Popolo Romano e la profonda
connotazione giuridica e religiosa di tali rapporti, anche nei momenti di
massimo conflitto.
Dunque l’idea
della pace permeerà tutto il mio contributo, così come è
presente in tutto il secondo capitolo del De Martino, pur senza che uno
specifico paragrafo le sia dedicato; ma in particolare mi soffermerò
sulla penetrante critica dello studioso alla teoria dell’esclusivismo
giuridico insito nella idea dell’inimicizia naturale dei popoli come
stato originario dell’umanità, da cui consegue la particolare
visione della condizione giuridica dell’hostis straniero/nemico, nonché la ricostruzione della
concezione romana del bellum iustum.
Nell’impianto
espositivo del capitolo dedicato ai rapporti internazionali dell’antica
Roma, troviamo in primo luogo una serrata disanima delle reali condizioni
storiche e giuridiche che stavano alla base delle «relazioni originarie
tra i popoli». Al riguardo, il De Martino prende subito le distanze dalle
teorie fino a quel momento dominanti:
«L’idea
comune fra gli storici moderni ed espressa in modo incisivo dal Mommsen
è che la condizione originaria dei rapporti tra i popoli, quindi anche
tra la federazione latina e le altre nazionalità, fosse quella della
perenne inimicizia, della guerra. Oltre i confini della nazione latina non vi
sarebbe né diritto, né pace, non proprietà, né per
Roma, né per gli stranieri. L’abitante di quel territorio, lo straniero,
è un hostis; il fondamento
giuridico del diritto internazionale moderno, la coesistenza di diverse nazioni
con il riconoscimento reciproco nel loro diritto pubblico
dell’uguaglianza giuridica e della piena autonomia, sarebbe
inconciliabile con i principi romani»[4].
In questa
prospettiva, lo studioso offre solidi argomenti per rovesciare convinzioni
inveterate della dottrina romanistica contemporanea[5]:
intendo riferirmi alle posizioni di
quanti hanno teorizzato l’ostilità permanente fra i popoli e
l’assenza di diritti per gli stranieri quali condizioni primordiali dei
rapporti fra gli uomini[6];
da cui consegue la convinzione che, normalmente, gli antichi considerassero la
guerra (e non la pace) come stato naturale delle relazioni
“internazionali”, ogni qualvolta non esistesse comunità di
etnia, ovvero non fosse intervenuta la stipulazione di un trattato[7].
Tali tesi per lungo
tempo sono state accolte quasi unanimemente nel campo degli studi romanistici,
soprattutto in ragione della determinante influenza di Theodor Mommsen[8].
è nell’Abriss che la posizione del grande
giusromanista tedesco, forse proprio per esigenze di semplificazione, si
presenta più netta: «Di fronte a questa federazione latina, basata
sulla comunità di razza e unita in una perpetua comunanza giuridica, le
comunità italiche di diversa nazionalità, e in seguito gli Stati
stranieri, si trovano in linea di diritto in perpetuo stato di guerra. Oltre i
confini della nazione latina non vi ha proprietà territoriale né
romana né straniera; l’abitante del territorio, l’hostis, più tardi peregrinus, è in linea di
principio privo di diritto e di pace; l’immutabilità dello stato
di guerra di fronte alla nazione di stirpe diversa ha la sua espressione in
questo, che con le città etrusche, nelle quali la nazionalità
diversa si affacciò per la prima volta ai romani, non vennero altrimenti
conchiusi trattati se non con termine fisso»[9].
Sarebbe troppo lungo
perfino il semplice elenco degli studiosi che hanno aderito a questa
impostazione storiografica[10];
anche se non tutti pervennero – come osserva il De Martino[11]
– alle estremizzazioni di Eugen Täubler, il quale non si
limitò a propugnare la tesi dell’ostilità naturale nei
rapporti “internazionali” dell’antichità[12],
ma si spinse fino a teorizzare che la stessa origine dei trattati
internazionali fosse da ricercare nel superamento della primitiva usanza di
uccidere i nemici sconfitti[13].
Basterà ricordare come ancora oggi, pur tra precisazioni e cautele, una
parte autorevole della dottrina romanistica continui a ritenere elementi
caratteristici della più antica esperienza giuridica del Popolo romano
proprio l’ostilità naturale e la carenza di protezione giuridica
per lo straniero[14].
Le tesi del Mommsen e
dei suoi numerosi seguaci, contestate sporadicamente tra la fine
dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento[15],
furono sottoposte a serrate critiche da parte di Alfred Heuss[16];
il quale, sulla base di un attento riesame delle fonti, pervenne alla
conclusione che i Romani considerassero esistenti con gli altri popoli un certo
numero di rapporti giuridici, indipendentemente dalla stipulazione di trattati[17].
Una critica
altrettanto radicale a «l’opinione comunemente accettata sul
carattere originario delle relazioni internazionali di Roma» fu proposta
in Italia da Francesco De Martino nel 1954, il quale nel secondo volume della
sua Storia della costituzione romana scrive quanto segue:
«Tale concezione si fonda sull’idea che
lo stato originario naturale del genere umano sia quello della guerra, mentre
il corso dell’incivilimento condurrebbe allo stabilimento dei rapporti di
amicizia ed in fine di un vero e proprio diritto internazionale. Riteniamo, al
contrario, che non si possa disegnare in modo schematico lo stato dei rapporti
internazionali nell’età precedente alla formazione delle
comunità cittadine e della società divisa in classi. […] A
noi sembra che nell’epoca delle grandi formazioni gentilizie le cause
della guerra dovevano essere di gran lunga più rare di come non avvenne
in seguito; l’occasione più frequente doveva essere quella della
vendetta gentilizia, la quale peraltro presupponeva che ciascun gruppo fosse
convinto della sua necessità, cioè il riconoscimento di un ordine
universale, religioso e giuridico. L’opinione comunemente accettata sul
carattere originario delle relazioni internazionali di Roma deve essere dunque
riveduta, sia per ragioni di ordine generale, sia perché Roma derivava
dal comune ceppo indoeuropeo, come altri popoli italici, e non è
verosimile, che ben per tempo quest’eredità fosse dispersa, quando
resisteva in altri campi della vita sociale e giuridica. Il significato di hostis come nemico non è
originario, ma è dovuto ad un’evoluzione dei rapporti tra il
popolo romano e le altre genti in Italia»[18].
Con il De Martino, che pure si muove nella prospettiva tracciata dal
Heuss[19],
la tesi dell’ostilità naturale appare decisamente superata,
poiché nelle pagine della Storia si dimostra in maniera
incontrovertibile l’infondatezza dei presupposti su cui quella tesi era
stata elaborata: nel sistema giuridico-religioso romano non esistevano
trattati di amicizia per porre fine all’ostilità naturale[20];
il bellum iustum era considerato necessario anche in caso di guerra
contro popoli con i quali non preesisteva alcun trattato; nella formula e nel
rituale dell’indictio belli non si trovava alcun riferimento ad
una precedente violazione di trattati[21];
infine, dall’esame della struttura del foedus e dei trattati[22]
si evince la prova «che il carattere giuridico delle relazioni
internazionali era molto sentito, cioè precisamente il contrario di
quanto sostengono il Mommsen e i suoi seguaci»[23].
Mette conto ricordare, che nel
Dopo De Martino, le
conclusive ricerche sul sistema sovrannazionale romano di Pierangelo Catalano[25]
(lo studioso che – per esplicito riconoscimento del De Martino –
«ha dato i maggiori e più originali contributi al tema dei
rapporti con gli stranieri»[26])
hanno dimostrato la virtuale universalità del sistema
giuridico-religioso romano[27]
e quanto questa «concezione universalistica del diritto» contrasti
«con le teorie moderne e contemporanee secondo cui lo stato naturale (o
‘primitivo’) delle relazioni tra i popoli sarebbe la guerra»[28].
Karl-Heinz Ziegler ha
documentato nella rassegna sul Völkerrecht der römischen Republik[29]
che le posizioni contrarie all’ostilità naturale e
all’esclusivismo giuridico hanno guadagnato sempre maggiori consensi tra
gli studiosi che si sono occupati di “diritto internazionale”
dell’antichità. Per alcuni si è assistito perfino alla
revisione di opinioni espresse in precedenza: è il caso di Paolo Frezza,
il quale, introducendo forti limitazioni alle tesi mommseniane[30],
ha ammesso l’esistenza di rapporti intertribali, seppure in un processo
dialettico che vede il «momento “volontaristico”
profondamente compenetrato col momento “naturalistico”»[31].
Su questa linea si
colloca la monografia di Werner Dahlheim dedicata alla struttura e
all’evoluzione del diritto internazionale romano, in cui appare ben fermo
il rifiuto della tesi dell’ostilità naturale[32];
anche se, invero, lo studioso tedesco non sembra cogliere a pieno il valore
dello ius fetiale[33].
Anche Virgilio Ilari si è orientato nello stesso senso, analizzando la
condizione giuridica dei socii nominisve Latini e degli Italici:
«Oggi i presupposti stessi della teoria tradizionale appaiono
superati»; lo studioso ritiene, inoltre, che superata «l’idea
dell’inesistenza di rapporti internazionali in mancanza di una comunanza
giuridica costituita da legami storici o da trattati perpetui», si siano
poste le premesse «per una concezione c.d. “volontarista” dei
rapporti tra Roma e l’Italia e della natura giuridica dell’alleanza
italica»[34].
Infine, pur non trattando espressamente la questione nel suo lavoro dedicato
all’analisi giuridica della tavola bronzea di Alcántara, anche
Dieter Nörr mostra di seguire lo stesso orientamento laddove, a proposito
del diritto internazionale di Roma, postula «die Existenz einer
gemeinschaftlichen Normenordnung»[35].
«Che
le relazioni di Roma con i popoli vicini fossero in antico amichevoli è
dimostrato dal valore originario del termine hostis, che solo in età recente è passato a designare
il nemico. A prescindere dall’etimologia, che avvicina hostis ai termini indoeuropei … i
quali esprimono l’idea dell’ospitalità, non
dell’inimicizia, conviene ricordare che ancora nell’età
delle XII tavole hostis era uno
straniero, col quale un romano poteva stabilire relazioni giuridiche»[36].
Per Francesco De
Martino, dunque, il carattere giuridico delle relazioni internazionali di Roma
antica è confermato, anche, e soprattutto, dalla condizione dell’hostis. Per quanto, nel latino della
tarda età repubblicana, il termine hostis avesse ormai acquisito
«le sens d’ennemi en général, de même que inimicus
s’emploie pour hostilis»[37];
l’antico significato della parola restava comunque ben vivo sia nella
cultura giuridica, sia nella scienza antiquaria. Ne aveva conservato
l’originario significato di “straniero” il testo delle XII
Tavole, anche nella forma linguistica in cui si leggeva nel I secolo a.C.[38]:
Cic.
De off. 1.37: Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc
peregrinum dicimus. Indicant duodecim tabulae: aut status dies cum hoste
itemque adversus hostem aeterna auctoritas. Quid ad hanc mansuetudinem addi
potest, eum, quicum bellum geras, tam molli nomine appellare? Quamquam id nomen
durius effecit iam vetustas; a peregrino enim recessit et proprie in eo, qui
arma contra ferret, remansit[39].
Rimanda
all’antico significato di hostis anche la formula del giuramento
dei milites[40],
trascritta da Aulo Gellio nel sedicesimo libro delle “Notti
Attiche”, ma ripresa – com’è noto – dal quinto
libro del De re militari del giurista L. Cincio[41]:
Gell. Noct. Att. 16.4.3-4: Militibus autem scriptis
dies praefinibatur, quo die adessent et citanti consuli responderent; deinde
ita concipiebatur iusiurandum, ut adessent, his additis exceptionibus:
“nisi harunce quae causa erit: funus familiare feriaeve denicales, quae
non eius rei causa in eum diem conlatae sunt, quo is eo die minus ibi esset,
morbus sonticus auspiciumve, quod sine piaculo praeterire non liceat,
sacrificiumve anniversarium, quod recte fieri non possit, nisi ipsus eo die ibi
sit, vis hostesve, status condictusve dies cum hoste; si cui eorum harunce quae
causa erit, tum se postridie, quam per eas causas licebit, eo die venturum
aditurumque eum, qui eum pagum, vicum, oppidumve delegerit”[42].
Anche
il grande Varrone, nel De lingua Latina, per esporre il caso delle molte
parole che aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, citava come
esempio proprio il termine hostis:
Varro
De ling. Lat. 5.3: Quae ideo sunt obscuriora, quod neque omnis impositio
verborum extat, quod vetustas quasdam delevit, nec quae extat sine mendo omnis
imposita, nec quae recte est imposita, cuncta manet (multa enim verba
li<t>teris commutatis sunt interpolata), neque omnis origo est nostrae
linguae e vernaculis verbis, et multa verba aliud nunc ostendunt, aliud ante
significabant, ut hostis: nam tum eo verbo dicebant peregrinum qui suis legibus
uteretur, nunc dicunt eum quem tum dicebant perduellem[43].
Nella
sua accezione originaria, presente ancora nelle commedie di Plauto[44]
e quindi desunta senza dubbio dall’uso linguistico corrente, hostis
stava ad indicare lo straniero; più precisamente quello straniero qui
suis legibus uteretur ed al quale si riconosceva parità di ius col
Popolo romano.
Fest. De verb. sign., v. Status dies <cum hoste>,
pp. 414-
L’originaria
accezione di hostis si presentava modificata definitivamente
nell’ultimo secolo della Repubblica, in relazione con l’estendersi
della valenza semantica di peregrinus, che nei primi secoli
dell’Impero finì per designare una particolare condizione
giuridica[46].
Il De Martino ritiene di poter individuare con buona approssimazione
l’epoca in cui si produsse il mutamento di significato del termine hostis:
«Più
tardi, dopo l’età delle XII tavole e probabilmente
nell’età delle guerre d’espansione in Italia, si dovette
determinare il mutamento di valore del termine; come ciò accadde e per
quali cause non siamo in grado di stabilire, ma è chiaro che la nuova
concezione espansionistica delle classi dirigenti romane nel corso del IV-III
secolo indusse a considerare l’hostis nemico e non più il peregrinus, qui suis legibus utitur»[47].
Dall’esame
delle fonti (che secondo il De Martino «non abbiamo il diritto di
respingere») si mostrano epoche della storia di Roma, in cui hostis era lo straniero amico, col quale
si intrecciavano rapporti giuridici garantiti dall’ordinamento della civitas e con diritto di
reciprocità.
«Ciò
non vuol dire – conclude lo studioso – che non vi fossero guerre
anche allora, ma vuol dire che le guerre venivano considerate come una rottura
di una condizione umana riconosciuta dal diritto e dalla religione come
normale, legittima, e tale condizione era quella della pace. Chi la violava era
un perduellis, termine che solo in
seguito passò ad indicare colui che attentava allo stato romano,
cioè il fuorilegge»[48].
Va tuttavia
osservato, che anche in età storicamente avanzata, dal bellum iustum
discendeva la condizione giuridica di iusti et legitimi hostes, nei
confronti dei quali – utilizzo la terminologia di Cicerone – i
Romani consideravano vigente totum ius fetiale, nella consapevolezza che
anche con i nemici multa sunt iura communia.
De
off.
3.108: Regulus vero non debuit condiciones pactionesque bellicas et hostiles
pertubare periurio; cum iusto enim et legitimo hoste res gerebatur, adversus
quem et totum ius fetiale et multa sunt iura communia. Quod ni ita esset,
numquam claros viros senatus vinctos hostibus dedidisset[49].
Da questa comunanza
di diritto, consegue per Cicerone il dovere di «osservare la fides»
nei confronti degli hostes, attenendosi cioè sempre ed in ogni
circostanza al rispetto della parola data al nemico, come aveva mostrato
l’irreprensibile comportamento del console Attilio Regolo, il quale
durante la prima guerra punica, prigioniero dei Cartaginesi, ad supplicium
redire maluit quam fidem hosti datam fallere[50].
Nel latino del I
secolo a.C., con la parola bellum si
può intendere sia un conflitto armato tra hostes (definito da precise regole religiose e giuridiche)[51],
sia il periodo di tempo necessario alla conclusione delle ostilità, in
antitesi quindi al tempo di pace[52];
mentre riguardo all’etimologia della parola, grammatici e antiquari
antichi agitavano opinioni contraddittorie e (dal nostro punto di vista) poco
convincenti[53].
Sul piano religioso invece, le formule solenni del più conservativo
linguaggio sacerdotale[54]
avevano continuato ad utilizzare l’originaria forma duellum[55], anche quando ormai da tempo era avvenuto
il passaggio del du- iniziale
a b-[56];
così, ad esempio, negli acta relativi
ai Ludi saeculares di Augusto e a
quelli celebrati da Settimio Severo[57]
i termini guerra e pace risultano ancora espressi dai sacerdoti alla maniera
arcaica con duellum e domus[58].
Peraltro, della forma linguistica duellum restava memoria anche in opere
di eruditi e antiquari, ricercatori curiosi delle superstiti forme arcaiche
della lingua latina[59].
Per quanto riguarda
l’aspetto sostanziale della guerra, anche nella concettualizzazione e
nelle procedure di essa, il De Martino vi individua principalmente una
sospensione traumatica delle naturali relazioni pacifiche tra i popoli, saldamente
ancorata al campo della religione e del diritto.
«Con
essa [la repetitio] evidentemente si
notificava al popolo avverso – scrive lo studioso –
l’esistenza di una causa ingiusta da parte sua e la richiesta di porvi
termine, ma non s’alludeva affatto alla rottura d’un presistente
trattato. Tale richiesta in antico poteva essere rivolta sia a popoli con i
quali esistevano già relazioni giuridiche, sia a popoli estranei.
Nessuna fonte ci autorizza a dire che qui si trattava di una deroga ai
principi, perché se Roma riteneva di dover compiere la repetitio verso gli estranei, ciò
prova che essa considerava tale procedura come obbligatoria, altrimenti non
avrebbe avuto alcuna ragione di osservarla. La guerra era invece concepita da
Roma come una rottura dello stato normale di pace con i popoli; essa quindi
abbisognava di una giustificazione, doveva essere bellum iustum piumque,
avere cioè una giusta causa. Anche se la nozione elaborata da Cicerone
possa essere un ripensamento, sul terreno filosofico, di un originario concetto
giuridico-religioso, ciò non dimostra affatto, che il concetto
originario della iusta causa belli
dovesse essere quello del rifiuto della repetitio»[60].
La consapevolezza che
l’esercizio della guerra poneva il miles a contatto con qualcosa
di “sacrilego” e che, in ogni caso, l’uso immoderato della
violenza rischiava di provocare l’ira degli Dèi[61],
spinse il Popolo romano, il quale significativamente considerava sé
stesso il più religioso del genere umano (religione, id est cultu deorum, multo superiores)[62],
a preoccuparsi fin da epoca risalente di attrarre anche la guerra nella sfera
della fides e del fas[63].
Avvalendosi degli strumenti concettuali offerti dalla riflessione teologica e
giuridica dei suoi sacerdotes, Roma aveva elaborato, certo già
nella fase più antica della storia cittadina, una sorta di “codice
diplomatico”, cioè un sistema di regole rese inviolabili dalla
religione, da utilizzare nelle “relazioni internazionali” per
preservare o ristabilire la pace; ma regole e procedure indispensabili anche ut
iustum conciperetur bellum[64].
Come nota il De
Martino, molte formule e procedimenti della guerra sono derivati (quasi
residuati) di
«un
tempo arcaico, nel quale il carattere religioso della vita giuridica e sociale
era molto forte. Si intende perciò la natura del formulario dei Feziali
… Così via via la procedura della repetitio, la dichiarazione di
guerra e la guerra stessa furono concepite come un procedimento
giuridico-religioso ad un tempo, il quale più tardi fu applicato anche
nei rapporti con gli altri popoli, essendo divenuto un principio fondamentale
della concezione romana quello della giuridicità delle relazioni con gli
stranieri. Ciò era conforme del resto allo spirito pratico e
formalistico ad un tempo di questo popolo, che tendeva a trasformare i rapporti
sociali il più possibile in forme legali e dare veste giuridica a tutta
la complessa realtà delle relazioni economiche tra gli uomini»[65].
Ma formule e riti
dello ius fetiale[66] (tale è il caso, ad esempio,
delle formule e delle procedure dei Fetiales per l’indictio belli)[67]
e dello ius pontificium furono elaborati anche per liberare i
cittadini-soldati dalla paura del sangue versato, per aiutarli con la religione
a vincere l’antico terrore davanti al furor, segno di un possesso
che priva l’uomo della sua libertà, di esimerli infine dal timore
di impegnarsi in azioni sgradite agli dèi; anche la scansione del tempo
fu impostata seguendo quello che J. Bayet ha chiamato «le rythme sacral
de la guerre»[68].
Sono da intendere in tal senso, infatti, le feste e le cerimonie religiose dei
mesi di marzo e ottobre del calendario romano arcaico, legate all’inizio
e alla fine delle attività guerriere, veri e propri «rites
saisonniers de sacralisation et désacralisation militaires»[69].
Si spiegano, in questo modo, le ragioni dell’estrema cautela, religiosa e
giuridica, che circondava l’esercizio della guerra da parte dei singoli
cittadini, ai quali – ammoniva Catone – era consentito combattere
solo in quanto milites[70].
L’esercizio
della guerra in ragione dei suoi effetti devastanti di morte e contaminazione
si collocava nella sfera del nefas[71],
come Virgilio fa rilevare in Aen. 2,717-720[72].
Nessun biasimo poteva comunque addebitarsi al soldato che ha ucciso in battaglia,
al contrario, il fatto era considerato dai Romani non solo utile alla
comunità, ma addirittura onorevole[73];
tuttavia per la religione il miles
veniva a trovarsi nella condizione di impiatus[74],
con la conseguente necessità di purificazione[75].
Le considerazioni fin
qui esposte giustificano la casistica rigorosa con cui i sacerdotes Fetiales[76],
e i teorici del diritto e della politica, determinavano quali generi di guerre
si potessero intraprendere legittimamente: quali, cioè, avessero le caratteristiche
del bellum iustum[77].
Come riconosce il De Martino, perfino nell’età
dell’espansionismo e dell’Impero: «La guerra era retta da
norme giuridiche, il bellum era iustum non solo se esistevano ragioni
fondate, ma anche se erano osservate le norme del ius fetiale»[78].
Le testimonianze
antiche, per quanto riguarda la definizione di bellum iustum, non
sembrano uniformate a principi di astratta morale, attengono piuttosto, come in
Varrone, De Ling. Lat. 5.86[79],
a valutazioni di conformità con la sfera religiosa e rituale dello ius
fetiale. Ancora alla rerum repetitio si richiamava la
definizione proposta da Isidoro di Siviglia[80],
mentre il concetto di bellum iustum enunciato da Tito Livio[81],
per quanto in riferimento ad ambiente non romano[82],
appare significativamente fondato sulla necessitas, fonte di ius
per i giuristi romani[83].
Del resto, una parte
consistente della cultura greca e romana nel II e I secolo a.C. aveva
contestato proprio il concetto di bellum iustum, teorizzando
l’inconciliabilità di bellum e iustitia. Questa
problematica si presentava connessa profondamente con la riflessione
storico-giuridica sulla legittimità dell’egemonia
“mondiale” dei Romani[84];
ma si inquadrava, al tempo stesso, nel dibattito sulle idee giusnaturalistiche
della tradizione filosofica greca e romana[85].
Cicerone, nel famoso discorso di Furio Filo[86],
improntato per sua stessa ammissione all’insegnamento di Carneade[87],
ricorre all’esempio della guerra per dimostrare quantum ab iustitia recedat utilitas:
De
re publ.
3.20: Cur enim per omnes populos diversa et varia iura sunt condita, nisi quod
una quaeque gens id sibi sanxit, quod putavit rebus suis utile? Quantum autem
ab iustitia recedat utilitas, populus ipse Romanus docet, qui per fetiales
bella indicendo et legitime iniurias faciendo semperque aliena cupiendo atque
rapiendo possessionem sibi totius orbis comparavit[88].
Tra
gli autori antichi, quello che ha manifestato maggiore interesse per la
definizione della “guerra giusta” è stato senza dubbio
Cicerone[89].
Nell’impossibilità di procedere ad un puntuale esame dei
riferimenti testuali[90],
sarà sufficiente discutere due importanti passi, tratti dal De re
publica, che descrivono alcune tipologie di bellum iustum,
per quanto modellate in negativo, mediante la qualificazione della guerra
ingiusta ed empia:
De
re publ.
2.31: [Tullo Ostilio] cuius excellens in re militari gloria magnae que
extiterunt res bellicae, fecitque idem et saepsit de manubis comitium et
curiam, constituitque ius quo bella indicerentur, quod per se iustissime
inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum quod denuntiatum indictumque
non esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur[91].
De
re publ.
3.35: Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta. Nam extra
<quam> ulciscendi aut propulsandorum hostium causa bellum geri iustum
nullum potest[92].
Secondo
Cicerone il bellum per poter essere considerato iustum
abbisognava, dunque, di requisiti formali e sostanziali. I primi derivavano
dalla esatta osservanza dei riti e delle procedure dello ius fetiale;
il precetto attribuito al re Tullo Ostilio può volgersi in positivo: ut
omne bellum denuntiatum indictum esset. I requisiti sostanziali dovevano
consistere in motivazioni validamente determinabili: riconoscibili, quindi,
come tali in maniera oggettiva sia di fronte agli Dèi, sia di fronte
agli uomini. In ultima analisi, il principio illa iniusta bella sunt quae
sunt sine causa suscepta, mentre frena l’arbitrio e la cupidigia del
Popolo romano, ne assicura al tempo stesso la legittimazione religiosa
dell’imperium universale[93].
Voglio concludere con
una breve riflessione sulla pace. Per Francesco De Martino l’Impero
cambia in qualche modo l’antica concezione romana della pace, con un
inaridirsi dei suoi istituti:
«Se la speculazione
filosofica di origine greca raggiunge alti livelli creativi, così non
può dirsi della capacità di creare nuovi istituti della pace.
Tutti quelli che conosciamo, l’amicitia,
l’hospitium, il foedus, la sponsio, le regole della guerra, appartengono all’età
arcaica. Essi sono una eloquente caratteristica di un’epoca tramontata.
Testimoniano una concezione religiosa, etica, giuridica, che possiamo chiamare
diritto, umana e divina della pace. Questa deve essere pia et aeterna, a consolidarla e a garantirla mirano tutti questi
istituti. E’ la loro stessa esistenza che rivela il pensiero
antichissimo, la vocazione politico-religiosa di un popolo, il cui fine supremo
è la pace e l’amicizia con lo straniero»[94].
Per la tradizione
giuridica e religiosa romana, la guerra rappresentava una rottura della
pacifica naturalità delle relazioni inter populos; sempre
finalizzata, quindi, alla restaurazione della pace. Questo legame tra guerra e
pace, o per meglio dire la subordinazione della prima alla seconda, si trova ben
configurato, anche dal punto di vista della dottrina dei sacerdoti romani,
nella stessa etimologia che gli scrittori antichi davano della parola fetiales[95].
Collegandone l’etimo a fides e a foedus, si sottolineava
nelle competenze di questi sacerdoti la funzione di ristabilire la fides
pacis con il foedus, piuttosto che la funzione di concipere
un bellum iustum. Da notare, inoltre, che anche nel II libro del De
legibus di Cicerone, l’ordine delle funzioni dei sacerdoti feziali
vede la pace anteposta alla guerra[96].
Infine, la “teologia” ufficiale dei sacerdoti romani manifestava in
tutta la sua evidenza la subordinazione della guerra alla pace anche
nell’antichissima gerarchia dei sacerdozi: nell’ordo sacerdotum,
infatti, il flamine di Iuppiter, cioè della divinità che
tra le altre cose tutelava i foedera pacis e la fides, si
presenta sovraordinato al flamine di Marte[97].
[1] F. De Martino, Storia della costituzione romana, 2a ed., I (Napoli 1972); II
(Napoli 1973); III (Napoli 1973); IV, Parte prima (Napoli 1974); IV, Parte
seconda (Napoli 1975); V (Napoli 1975).
[3] Ormai sussistono
pochi dubbi sul fatto che l’opera del De Martino sia da considerare il
più grande trattato di diritto pubblico romano del Secolo XX, del resto,
il carattere innovativo ed il vasto respiro del disegno sistematico erano stati
ben colti fin dalla pubblicazione della prima edizione (1951 ss.); fra le varie
recensioni, vedi: P. Frezza, in SDHI 18 (1952) 279 ss.; Id., in Labeo 1 (1955) 320 ss.; G.
Scherillo, in Iura 3 e 6
(1952-1955) 308 ss., 335 ss.; H.
Lévy-Bruhl, in RHD 4e
s., 30, 36 e 39 (1952-1956-1961) 139 ss., 39 ss., 315 ss.; F. Serrao, in Studi Romani 3 (1955) 451 ss.; W.
Kunkel, in ZSS 72 e 77
(1955-1960) 297 ss., 370 ss.; A.
Biscardi, in Labeo 5 (1959) 91
ss.; A. Magdelain, in RHD 25 (1955) 391 ss.; P. De Francisci, in BIDR 62 (1959) 283 ss.
Più in
generale, sull’opera storiografica e giuridica dell’illustre
studioso (del quale merita di essere segnalata anche la raccolta degli scritti
“minori”: Scritti di diritto romano. I. Diritto e
società in Roma antica (Roma 1979); II. Diritto privato e
società romana (Roma 1982); III. Nuovi studi di economia e diritto
romano (Roma 1988) cur. A. Dell’Agli, T. Spagnuolo Vigorita, F.
d’Ippolito), vedi F. Casavola, L’opera storica di Francesco De
Martino, in Labeo 24 (1978) 7
ss.; Id., Francesco De Martino storico, in Index 18 (1990) XV ss.; T.
Spagnuolo Vigorita, Francesco De Martino. Il fascino della storia,
in Au-delà des frontières. Mélanges de droit romain
offerts à Witold Wołodkiewicz (Varsovie 2000) 967 ss., ora
anche in Diritto @ Storia 2 (marzo 2003) http://www.dirittoestoria.it/demartino/Spagnuolo-Vigorita-De-Martino.htm.
[5] Per una rapida
visione di sintesi, cfr. F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale
antico” (Sassari 1991); Id.,
Populus et religio dans
[6] A.G. Heffter, De antiquo iure gentium prolusio (Bonnae 1823) 7; E. Osenbrüggen, De iure belli et pacis Romanorum
(Lipsiae 1836) 8, 16, 36; M. Voigt,
Die Lehre von ius naturale, aequum et
bonum und ius gentium der Römer, II (Leipzig 1858 [rist. an. Aalen 1966]) 102 ss.; Id., Die XII Tafeln, I (Leipzig 1883 [rist.
an. Aalen 1966]) 269 ss.; R. von Jhering,
Geist des römischen Rechts auf den
verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I (Leipzig 1878) 225 ss. [= Id., L’esprit du droit romain, trad. franc., I (Paris 1886; rist.
an. Bologna 1969) 226 ss.]; J. Madvig,
Die Verfassung und Verwaltung des
römischen Staates, I (Leipzig 1881) 58 ss.; O. Karlowa, Römische
Rechtsgeschichte (Leipzig 1881) 279 ss.; G.
Fusinato, Dei Feziali e del
diritto feziale. Contributo alla storia
del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie
dell'Accademia dei Lincei, ser. III, 13 (1883-1884) 455 ss.; G. Padelletti-P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2ª ed.
(Firenze 1886) 67; P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano,
trad. it. di C. Longo (Roma-Milano-Napoli 1909) 112 ss.; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines (Paris
1909) 343; E. Cuq, Manuel des institutions juridiques des
Romains, 2ª ed. (Paris 1928) 92; P. Huvelin, Études d’histoire du droit commercial romain, opera
postuma cur. H. Lévy-Bruhl (Paris 1929) 7 s.; H. Horn, Foederati.
Untersuchungen zur Geschichte ihrer Rechtsstellung im Zeitalter der
römischen Republik und des frühen Prinzipates (Frankfurt a. M.
1930) 6 s.; H. Lévy-Bruhl,
Esquisse d’un théorie
sociologique de l’esclavage, in Id.,
Quelques problèmes du trés
ancien droit romain. Essai de solutions
sociologiques (Paris 1934) 15 ss.; P. Frezza,
Le forme federative e la struttura dei
rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in SDHI 4 (1938) 363 ss. [= Id., Scritti, I (Roma 2000) 367
ss.]; P. de Francisci, Storia del diritto romano, I (Milano 1943) 335; P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, rist. 4ª ed., cur. G. Bonfante e
G. Crifò (Milano 1958) 229; G. De
Sanctis, Storia dei Romani, I, nuova ed. cur. S. Accame (Firenze 1979) 87;
M. Meslin, L’uomo romano, trad. it. (Milano 1981) 117.
[7] Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die
römische Clientel, in Id.,
Römische Forschungen, I (Berlin
1864) 326 ss.; E. Täubler, Imperium
Romanum. Studien zur
Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I. Die
Staatsverträge und Vertragsverhältnisse (Leipzig 1913 [rist. an.
Roma 1964]) 14 ss., 29 ss., 44 ss.
[8] Th. Mommsen, Römische Geschichte, I (1854) qui citata in trad. it.: Storia
di Roma antica, I (Firenze 1984) 192; Id.,
Das römische Gastrecht und
die römische Clientel cit. 319 ss.; Id.,
Römisches Staatsrecht, III.1,
3ª ed. (Leipzig 1887) 590 ss. [= Droit
public romain, trad. franc. di P.F. Girard, VI.2 (Paris 1889) 206 ss.].
[9] Th. Mommsen, Disegno del diritto pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante,
rist. an. ed. 1943 (Milano 1973) 91.
[10] Da ricondurre per
larga parte «alla componente soggettiva della storiografia
dell’Ottocento e del primo Novecento»: così p. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano (Torino 1965) 8 ss.; Id., Diritto e persone.
Studi su origine e attualità del
sistema romano (Torino 1990) IX ss., 10 ss. Per l’aspetto più
propriamente filosofico di tale impostazione storiografica, cfr. P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in RHD 38, ser. IV (1960) 105 ss.
[11] F. De Martino, Storia della costituzione romana II cit. 15 s.: «Tale
opinione è stata ancora più tassativamente sviluppata dal
Täubler, secondo il quale i rapporti internazionali sarebbero sorti
dall’evoluzione della prigionia di guerra. In principio il prigioniero
sarebbe stato ucciso o sacrificato, in seguito risparmiato e ridotto in
servitù. Infine egli sarebbe stato adoperato come ostaggio, garante nei
confronti del suo popolo per futuri atti di inimicizia: in tal modo sarebbe
sorto il primo tipo di trattato».
[12] E. Täubler, Imperium
Romanum. Studien zur
Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches I cit. 1: «Der
Staatsfremde gilt rechtlich als Feind. Der einzelne wie der Staat tritt erst
durch eine Rechtshandlung, den Vertrag, aus dem Zustande der natürlichen
Feindschaft in den der Verkehrsgemeinschaft».
[13] E. Täubler, Imperium
Romanum. Studien zur
Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches I cit. 402 ss., in part.
406 s.: «Auf den primitivsten Kulturstufen wird man an Tötung aus
Angst, Menschenfrass und Menschenopfer denken, als erste Entwicklungsstufe die
Wehrwahndung des Fremden als Sklave annehmen müssen. Hier trennt sich dann
die Entwicklung des Staatenvertrags und Gastvertrags. Der Unterschied darf
nicht darin gesucht werden, dass die Entwicklung des einen vom Staate ausgehen
muss, die des anderen von jedem einzelnen ausgehen kann, beruht vielmehr
darauf, dass die Entwicklung, die zum Staatsvertrag führt, den Gefangenen
zum Geisel macht, ihn für die Gemeinschaft, welcher er angehört,
bürgen lässt, die zum Gastvertrage führende dagegen den Fremden
nicht in Beziehung zu einem dritten setzt und deshalb nicht zu dessen
Bürgen umwandelt vielmehr den Sklaven zum freien Mann und den freien Mann
vertragsmässig als Eigenbürgen zum Gastfreund macht».
[14] Di «situation permanente d’interhostilité qui
règne entre les peuples ou les cités» scrive, ad esempio, é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 1. Économie, parenté, société (Paris 1969) 355 ss.,
in part. 361; nello stesso senso, anche A. Piganiol,
Le conquiste dei Romani, trad. it. di
F. Coarelli (Milano 1971) 147 s.; A.
Guarino, Storia del diritto romano, 7ª ed. (Napoli 1987) 82.
Altri sottolineano, piuttosto, la mancanza di diritti per lo straniero: P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3ª ed. (Roma 1974) 210; M.
Bretone, Storia del diritto romano (Roma-Bari 1987) 129; M. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, 2ª
ed. (Milano 1988) 175; M. Talamanca,
in Lineamenti di storia del diritto
romano, dir. M. T., 2ª ed. (Milano 1989) 154; Id., Istituzioni di
diritto romano (Milano 1990) 103.
[15] Cfr. G. Baviera, Il diritto internazionale
dei Romani [estr. dall’AG, n. s., voll. I e II] (Modena 1898) 25
ss.; E. Seckel, über Krieg und Recht in Rom
(Berlin 1915) 9 s., 25 ss.; critico soprattutto nei confronti del Täubler
si mostra anche B. Kübler, Römische
Rechtsgeschichte (Leipzig-Erlangen 1925) 109 ss.
[16] A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen der römischen
Aussenpolitik in republikanischer Zeit (Leipzig 1933). Sul ruolo di questo studioso nella
storiografia tedesca contemporanea, vedi brevemente K. Christ, Römische
Geschichte und deutsche Geschichtswissenschaft (München 1982) 245.
[24] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero,
in VIII Seminario Internazionale di Studi
Storici «Da Roma alla Terza Roma», 21-22 aprile 1988. Relazioni
e Comunicazioni I, 1 ss.; poi pubblicata in Roma
Comune 12 n. 4-5 (aprile-maggio 1988) 86 ss.
[25] p. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 8 ss., 51 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema
romano cit. IX s., 10 ss.
[26] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica
all’impero cit. 86. Anche in altre parti di questo testo è espressa
convinta adesione alle tesi del Catalano: «La nuova concezione dei
rapporti fra Romani e stranieri induce ad una revisione del principio della
esclusività del diritto nella città-stato. Questo non può
intendersi nel senso che lo straniero era escluso da qualsiasi protezione
giuridica in Roma, ma nel senso che vi erano rapporti riservati soltanto ai
cittadini, ai quali lo straniero non poteva essere ammesso: questi rapporti
rientravano nella categoria del ius Romanum Quiritium, denominazione che si può
supporre, come fa il Catalano con molta decisione, sorta appunto per delimitare
il campo dell’esclusività del diritto» (88); «Nei suoi
studi illuminanti sul sistema dei rapporti con gli stranieri, che ha chiamato
sistema sovrannazionale romano, il Catalano ha recato contributi che si possono
ritenere definitivi in questo campo, affrontando coraggiosamente questioni che
sembravano risolte nel senso di un rigoroso carattere esclusivo non solo del
diritto, ma anche della religione antica. Egli ha tratto dalle fonti prove
decisive ed argomenti che fino ad oggi non hanno trovato alcuna valida
contestazione. Dalla critica alla teoria tradizionale dell’inimicizia
primitiva egli ha costruito un quadro dei rapporti internazionali romani nuovo
e molto più accettabile. Assumono il loro giusto valore espressioni
delle fonti, che implicano l’esistenza di principi comuni, in certo senso
universali» (91).
[27] Per una rapida
visione delle tesi sostenute dal Catalano,
si legga la «riflessione conclusiva» di Linee del sistema
sovrannazionale romano cit. 288: «Il sistema giuridico-religioso
romano ha il suo centro in Iuppiter, ed è, proprio per questo,
virtualmente universale. La virtuale universalità è attuata in
una sfera di rapporti (con reges, populi o singoli stranieri) la
cui esistenza è indipendente vuoi da particolari accordi vuoi da
comunanza etnica. Entro il sistema si formano sfere di rapporti più
ristrette, e più fitte, sulla base di atti unilaterali o di accordi con
altri popoli. Tra queste sfere hanno particolare importanza le federazioni
adeguate alle realtà etniche: il nomen Latinum, e poi quella che
possiamo dire la “federazione italica”. Ho chiarito come siano
particolarmente i foedera, adeguati alle realtà politiche (oltre
che etniche) a forgiare i gruppi etnici. Per tutto questo è possibile
definire il sistema (che è romano perché alla sua
“validità” è sufficiente la considerazione che ne
hanno i Romani) come sovrannazionale: non solo ad indicare l’implicito
superamento dell’attuale categoria del “diritto
internazionale”, ma ad esprimere come esso, alimentandosi dai gruppi
etnici, li costituisca in sintesi sempre più vaste, con volontà
politica tendente ad una società universale».
[28] p. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema
romano cit. IX; ivi, vedi anche la nt.
[29] K.-H. Ziegler, Das
Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt I.2 (Berlin-New York 1972) 68 ss.
[30] P. Frezza, Le forme federative e la
struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano cit.
373 ss., 397 ss. [= Id., Scritti
I cit. 377 ss., 401 ss.]; una prima revisione, con l’abbandono della tesi
dell’ostilità naturale, si riscontrava già nel saggio L’età
classica della costituzione repubblicana, in Labeo 1 cit. 320 ss. [= Id., Scritti, II (Roma 2000) 133
ss.], dove peraltro è ancora sostenuta la mancanza di diritti per lo
straniero, riaffermando anche, in polemica col De Martino, l’appartenenza
originaria ed esclusiva delle forme giuridiche dei rapporti internazionali alle
relazioni fra popoli della lega latina (327 ss. = 140 ss.).
[31] P. Frezza, Il momento
“volontaristico” e il momento “naturalistico” nello
sviluppo storico dei rapporti “internazionali” nel mondo antico,
in SDHI 32 (1966) 299 ss., in part. 301 [= Id., Scritti II cit. 551 ss., 553]: «Sono ora
persuaso – oserei dire definitivamente – che il segreto dello
sviluppo storico dei rapporti internazionali del mondo antico può essere
colto soltanto a patto di pensarlo dialetticamente: ossia a patto di pensare
compresenti il momento (che potrebbe essere chiamato naturalistico)
particolaristico delle relazioni intratribali, ed il momento universalistico
(volontaristico) delle relazioni intertribali». Nello stesso senso, cfr. Id., In tema di relazioni
internazionali nel mondo greco-romano, Ibidem 33 (1967) 337 ss., in
part. 348 s. [= Id.,
Scritti II cit. 577 ss., 588 s.].
[32] W. Dahlheim, Struktur und
Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert v.
Chr. (München 1968) 136 s.
[33] W. Dahlheim, Struktur und
Entwicklung des römischen Völkerrechts cit. 171 ss. («Eine
so weitgehende moralische Konzeption ist in den rudimentären Anfängen
Roms, in die das Fetialrecht zurückführt, gar nicht denkbar. Richtig
ist, dass der Krieg in Rom zu einer "Rechtsexekution" wurde, jedoch
verbürgt der hier ausgesprochene Begriff "Recht" keine objektive
Rechtmäßigkeit im moralischen Sinne, die Bindung an das ius
fetale ist vielmehr eine superstitiöse und juristische, die jedes
moralische Moment unbeachtet lässt»: 173); critici anche K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht
der römischen Republik cit.
78 s.: «Die Bindung an das ius fetiale als "eine
superstitiöse und juristische, die jedes moralische Moment unbeachtet
lässt”, zu qualifizieren, wie es zulest W. Dahlheim getan hat,
scheint mir nicht glücklich. Rechtsformalismus und Rechtsethik sind
keineswegs notwendig Gegensätze, vor allem nicht in frühen
Rechtsordnungen»; e P. Catalano,
Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit. XI nt.
[34] V. Ilari, Gli Italici nelle
strutture militari romane (Milano 1974) 10-11; per questo studioso la
concezione c.d. volontarista si presenta in costante riferimento allo ius
fetiale, a proposito del quale aderisce alla «lettura volontarista e
universalista» proposta dal Catalano: cfr. Id., L’interpretazione storica del diritto di guerra
romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo (Milano 1981) V.
[37] Così A. Ernout-A. Meillet,
Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4a ed. (
[38] Sui problemi relativi alla trasmissione delle norme decemvirali, vedi per
tutti: F. Wieacker, Die XII
Tafeln in ihrem Jahrhundert, in Les origines de
[39] I due frammenti delle
XII Tavole (= Tab. II.2; VI.4 in Fontes iuris romani anteiustiniani, I.
Leges, ed. S. Riccobono
(Florentiae 1941) 31, 44) si presentano di non facile interpretazione: per
l'esegesi critico-ricostruttiva del primo rimando al lavoro di G. Nicosia, Il processo privato
romano, II. La regolamentazione decemvirale (Torino 1986 [rist.
dell'ed. 1984]) 129 ss. Riguardo al precetto adversus hostem aeterna
auctoritas, la dottrina dominante ritiene che esso indicasse la garanzia
del mancipante a fronte dell'impossibilità di usucapire per gli
stranieri: cfr. in tal senso, P. Voci,
Modi di acquisto della proprietà (Milano 1952) 47 ss.; V. Arangio-Ruiz, La compravendita in
diritto romano (Napoli 1954) 313 ss.; M. Kaser,
Eigentum und Besitz im älteren romischen Recht, 2ª ed. (Köln-Graz 1956) 92 ss.; Id.,
Das römische Privatrecht, I, 2ª ed. (München 1971)
136; F. De Martino, Storia
della costituzione romana II cit.
18; O. Behrends, La mancipatio
nelle XII Tavole, in Iura 33 (1982 [ma 1985]) 92; F. Serrao, Diritto privato, economia
e società nella storia di Roma, I (Parte prima) (Napoli 1984) 349
nt. 66.
[40] S. Tondo, Il
“sacramentum militiae” nell’ambiente culturale romano-italico,
in SDHI 29 (1963) 1 ss.; Id.,
“Sacramentum militiae”, Ibidem 34 (1968) 376 ss.; H. Le Bonniec, Aspects religieux de
la guerre à Rome, in Problèmes de la guerre à Rome,
cur. J.-P.
Brisson (Paris 1969) 105 s.; C. Nicolet,
Il mestiere di cittadino nell'antica Roma, trad. it. (Roma 1980) 131 ss.; J. Rüpke,
Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom
(Stuttgart 1990) 76 ss.
[41] Vissuto
presumibilmente nell'ultimo secolo della repubblica (G. Wissowa, v. L. Cincius, in REPW III.2 (Stuttgart 1899) coll. 2555 s.) L. Cincio viene considerato
da una parte della vecchia dottrina un poligrafo non giurista: così P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des römisches Rechts
(Leipzig 1888) 69 nt. 83 [= Id., Histoire des sources de droit romain,
trad. franc. di M. Brissaud (Paris 1894) 92 nt. 2]; H. Peter, Historicorum
Romanorum reliquiae, I, 2ª ed. (Stutgardiae 1914
[rist. an. 1967]) CV; M. Schanz-C.
Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed. (München 1927
[rist. 1966]) 175 s.; F. Bona, Contributo allo studio della composizione
del “de verborum significatu” di Verrio Flacco (Milano 1964)
158; da ultimo F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte I cit.
570; ma in altro senso già L. Ceci,
Le etimologie dei giureconsulti romani
(Torino 1892) 71; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt,
I (Lipsiae 1896 [rist. an. Roma 1964]) 252; Ph.E.
Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquiae, editio sexta, I (Lipsiae 1908 [rist. an. Leipzig
1988]) 24; più di recente M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
2ª ed. (Roma-Bari 1982) 16; V. Giuffrè,
La letteratura de re militari. Appunti per una storia degli ordinamenti
militari (Napoli 1974) 38 ss. [= Id.,
Letture e ricerche sulla “res militaris”, II (Napoli 1996)
242 ss.]. Per una breve valutazione dell’opera del giurista, con critiche
alla scelta omissiva di O. Lenel nella Palingenesia
iuris civilis, vedi F. Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur.
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C. (Torino 1995) 64 ss.
[42] Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae
Anteiustinianae quae supersunt, editio quinta (Lipsiae 1886) 87 fr. 13;
F.P. Bremer, Iurisprudentiae
Antehadrianae, I cit. 254 fr. 2; V.
Giuffrè, Il “diritto militare" dei Romani
(Bologna 1980) 33 s., con traduzione italiana del testo gelliano; infine F. d’Ippolito, XII Tab. 2.2
cit. 438 s. Di questo antico significato della parola abbiamo un’altra
attestazione in Paul. Fest. ep., p.
[43] A. Cenderelli, Varroniana. Istituti
e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone (Milano 1973)
29 fr. 1, 113 s. Nello stesso senso anche Serv. Dan. Ad Aen. 4.424: Inde
nostri ‘hostes’ pro hospitibus dixerunt: nam inimici perduelles
dicebantur; e Paul. Fest. ep., p.
[44] Plaut. Curc. 1.1.4-6: si media nox est sive est prima vespera, /
si status condictus cum hoste intercedit dies, / tamen est eundum quo imperant
ingratiis. Cfr. Serv. Dan. Ad Aen. 4.424; Macr. Sat. 1.16.4.
Sull'attendibilità delle commedie plautine per la ricostruzione del
diritto romano, sono ancora validi gli studi di E. Costa, Il diritto privato romano nelle commedie di
Plauto (Torino 1890) 21 ss.; ma vedi anche il più recente lavoro di C.S. Tomulescu, Observations sur la
terminologie juridique de Plaute, in Sodalitas. Scritti in onore
di Antonio Guarino, VI (Napoli 1984) 2771 ss.
[45] A commento del passo,
vedi quanto ha scritto P. Catalano,
Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 71-72: «Lascio da
parte per un momento il problema se lo status dies cum hoste di cui
parlavano le Dodici Tavole si riferisse a tutti gli stranieri o solo a quelli
con cui sussistevano particolari rapporti (hospitium, foedus);
qui interessa rilevare che la spiegazione data da Festo al termine hostes,
con evidente riferimento agli stranieri in genere, indica nella parità,
una compartecipazione allo ius. Tale idea di compartecipazione pone in
nuova luce la definizione di hostis (e peregrinus) come “qui
suis legibus uteretur”: l'appartenenza a una comunità diversa
con proprie leggi non toglieva la compartecipazione a una più generale
sfera di ius considerato valido, virtualmente, per tutti i
popoli». Cfr. Id.,
Populus Romanus Quirites (Torino 1974) 140.
[46] E. Cuq, sv. Hostis,
in DS III.1 (Paris 1900) 303: «Aux derniers siècles de
[47] F. De Martino, Storia della
costituzione romana II cit. 20; cfr. anche F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella
storia di Roma cit. 344.
[49] Su questo importante
testo ciceroniano, vedi P. Catalano,
Cic. De off. 3, 108 e il così detto diritto internazionale antico,
in Synteleia Arangio-Ruiz, I (Napoli 1964) 373 ss.; Id., Linee del sistema
sovrannazionale romano cit. 4
ss.; più di recente, L. Loreto,
Il bellum iustum e i suoi equivoci. Cicerone ed una componente della
rappresentazione romana del Völkerrecht antico (Napoli 2001) 69 ss.
[50] Cic. De off.
1.39: Atque etiam si quid singuli temporibus adducti hosti promiserunt, est
in eo ipso fides conservanda, ut primo Punico bello Regulus captus a Poenis,
cum de captivis commutandis, primum, ut venit, captivos reddendos in senatu non
censuit, deinde, cum retineretur a propinquis et ab amicis, ad supplicium
redire maluit quam fidem hosti datam fallere. Cfr., inoltre, De fin. 2.65:
At ego quem huic anteponam non audeo dicere; dicet pro me ipsa virtus nec
dubitabit isti vestro beato M. Regulum anteponere, quem quidem, cum sua
voluntate, nulla vi coactus praeter fidem, quam dederat hosti, ex patria
Karthaginem revertisset, tum ipsum, cum vigiliis et fame cruciaretur, clamat
virtus beatiorem fuisse quam potantem in rosa Thorium; Cato maior
75: Non duos Decios qui ad voluntariam mortem cursum equorum incitaverunt,
non M. Atilium qui ad supplicium est profectus, ut fidem hosti datam
conservaret; De leg. 2.34: Sequitur enim de iure belli; in quo et
suscipiendo et gerendo et deponendo ius ut plurimum valeret et fides, eorum que
ut publici interpretes essent, lege sanximus; De off. 3.107: Est
autem ius etiam bellicum fidesque iuris iurandi saepe cum hoste servanda.
[51] Isid. Diff. 1.563: Bellum est contra hostes
exortum, tumultus vero domestica appellatione concitatus. Hic et seditio
nuncupatur.
[52] Serv. in Verg. Aen. 8.547: Qui sese in
bella sequantur in expeditionem et bellicam praeparationem: nam, ut supra
diximus, ‘bellum’ est tempus omne quo vel praeparatur aliquid
pugnae necessarium, vel quo pugna geritur, ‘proelium’ autem dicitur
conflictus ipse bellorum: unde modo bene dixit ‘qui sese in bella
sequantur’, non ‘in proelium’; nam ad auxilia petenda vadit,
non ad pugnam (cfr. anche Serv.
Dan. in Verg. Aen. 1.456; 2.397; Non. p.
[53] Sulle «veterum
de origine verbi sententiae», cfr. B.A.
Müller, s.v. Bellum, in Th.L.L. II (1906) col. 1822.
[54] I sacerdoti, a
differenza di antiquari e annalisti, rifuggivano dall’attualizzare gli antichi
documenti giuridico-religiosi nella forma linguistica; anche col rischio di non
comprendere gli antichissimi carmina che
recitavano per i propri culti. Questa
ragione spiega il perché la lingua dei documenti sacerdotali appare, di
norma, più conservativa dello stesso linguaggio giuridico; si legga in
proposito quanto scrive E. Peruzzi,
Aspetti culturali del Lazio primitivo
(Firenze 1978) 173: «Vi è una differenza essenziale fra la lingua
dei carmina sacerdotali e la lingua
delle leggi. La prima è immutabile nel tempo, sì che la formula
deve recitarsi come è scritta anche se più non la si intende. Il
latino giuridico, invece, vive nella scuola e nella pratica, e muta seguendo,
se pur con ritmo più lento, la naturale evoluzione della lingua comune.
Anche le più vetuste leges regiae trascritteci da Festo presentano
qualche arcaismo, ma sono linguisticamente moderne rispetto al latino del cippo
del Foro, più prossimo all’indoeuropeo che alla lingua di
Cicerone».
[55] B.A. Müller, s.v. Bellum, in Th.L.L. II cit.
col. 1822; V. Rosenberger, Bella
et expeditiones: die antike Terminologie der Kriege Roms (Stuttgart
1992) 128 ss.
[56] Su tale «fatto fonetico» vedi G. Devoto, Storia della
lingua di Roma (Bologna 1940 [rist. an. 1969]) 107; M. Leumann, Lateinische
Laut- und Formenlebre = Leumann-Hoffman-Szantir,
Lateinische Grammatik, 1 [Handbuch der Altertumswissenschaft
II.2.1] (München 1977) 131 s.
[57] Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L. VI.32323.94 (G.B. Pighi,
De ludis saecularibus populi
Romani Quiritium [Milano 194]
114); Act. lud. saec. Sept. Sev. 4,11
= C.I.L. VI.32329.11 (G.B. Pighi, Op. cit. 157): imperi>um maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique
semper Latinu>s obtemperassit.
[58] Cfr. anche Plaut. Asin. 558-559:
Edepol qui virtutes tuas non possis
conlaudare, / sicut ego possim, quae domi duellique male fecisti; Capt. 67-68: Abeo. Valete iudices
iustissimi / domi, duellique duellatores optumi.
[59] In questo caso la
nostra fonte più autorevole è costituita da Varro De ling. Lat. 7.49: Perduelles dicuntur hostes; ut
perfecit, sic perduellis, <a per> et duellum; id postea bellum. Ab eadem causa facta
Duell[i]ona Bellona; cfr. Cic. Orat. 153;
Quint. Inst. orat. 1.4.15.
Sull’antica forma del nome della dea vedi anche C.I.L. X.104.2;
più in generale E. Aust,
s.v. Bellona, in REPW III.1
(Stuttgart 1897) coll. 254 ss.; G. Wissowa, Religion und
Kultus der Römer cit. 151
ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
2ª ed. (Paris
1974) 394 ss. [= Id., La religione romana arcaica, trad. it.
di F. Jesi (Milano 1977) 341 s.]; D. Sabbatucci,
La religione di Roma antica, dal
calendario festivo all’ordine cosmico (Milano 1988) 192 ss.
[61] Cfr. nello stesso senso J.-P.
Brisson, Introduction, in Problèmes de la guerre
à Rome (Paris-La Haye 1969) 17: «Rome a toujours su que la
guerre avait quelque chose de sacrilège et qu’un usage
immodéré de la violence risquait de provoquer la colère
des dieux, c’est-à-dire que l’effusion de sang laisse
toujours plus au moins mauvaise conscience».
[62] Cic. De nat. deor. 2.8: Nihil
nos P. Clodi bello Punico primo temeritas movebit, qui etiam per iocum deos
inridens, cum cavea liberati pulli non pascerentur, mergi eos in aquam iussit,
ut biberent, quoniam esse nollent? Qui risus classe devicta multas ipsi
lacrimas, magnam populo Romano cladem attulit. Quid collega eius L. Iunius
eodem bello nonne tempestate classem amisit, cum auspiciis non paruisset?
Itaque Clodius a populo condemnatus est, Iunius necem sibi ipse conscivit. C.
Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum
magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem
publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra
cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur,
religione, id est cultu deorum, multo superiores. Acute
osservazioni in C. Bailey, Phases in the Religion of Ancient Rome (
Anche Virgilio
risultava sensibile a tale ideologia, al punto da attribuire allo stesso Iuppiter versi quali Aen. 12.838-840: Hinc genus Ausonio mixtum quod sanguine surget, / supra homines, supra
ire deos pietate videbis, / nec gens ulla tuos aeque celebrabit honores;
ispirazione del tutto assente nel contemporaneo Tito Livio (1.16.7) il quale
adduceva ben altre motivazioni nella ‘profezia’ attribuita allo
spirito di Romolo: Abi, nuntia ‑
inquit ‑ Romanis caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum
sit, proinde rem militarem colant sciantque, et ita posteris tradant, nullas
opes humanas armis Romanis resistere posse. Sulla diversa ispirazione di
Virgilio rispetto a Tito Livio e sulle implicazioni religiose di essa vedi,
anche I. Lana, Studi sull’idea della pace nel mondo
antico, in Memorie
dell’Accademia delle Scienze di Torino, ser. V, 13 (1989) 6 s.
(estr.).
[63] Da condividere il
pensiero di M. Meslin, L’uomo romano cit.
[64] Cfr. in tal senso, J. Hergon, La guerre romaine aux
4e-3e siècles et la fides romana, in J.-P. Brisson (direct.) Problèmes de la guerre
à Rome cit. 28.
[66]
«Sull’applicabilità del ius
fetiale verso gli estranei»
piena adesione di F. De Martino, Storia
della costituzione romana II cit. 52, n. 107, alle tesi del Catalano.
[67] Liv. 1.32.6-14. Per
l’analisi giuridica rinvio a F. De
Martino, Storia della costituzione romana II cit. 50 s.;
ricostruzione metrica dei carmina contenuti
nel testo liviano, in C.M. Zander, Versus Italici antiqui (Lundae 1890) 32;
C.O. Thulin, Italiscke sakrale Poesie und Prosa. Eine metriscke Untersuckung
(Berlin 1906) 63 s.; G. Appel, De Romanorum precationibus (Gissae 1909 [rist. an. New York 1975]) 12 s.;
G.B. Pighi, La poesia religiosa romana
cit. 38 ss.; A. Carcaterra, Dea Fides e ‘fides’: storia
d’una laicizzazione, in SDHI 50 (1984) 214 ss. Che
l’insieme di queste formule presenti un aspetto estremamente risalente,
al di là della pur inevitabile modernizzazione linguistica, è
sostenuto senza esitazioni da R. Bloch, Réflexions sur le plus ancien droit
romain, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, I (Torino 1968) 236 ss.; nello stesso
senso A. Magdelain, Quirinus et le droit (spolia opima, ius fetiale, ius Quiritium)
in MEFRA 96 (1984) 213 ss.; Id.,
Le ius archaïque, Ibidem 98
(1986) 303.
[68] J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et
psychologique, 2a ed. (Paris 1969 [rist. 1976]) 86 s. [= ID., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G.
Pasquinelli (Torino 1959 - rist. 1992) 93 s.].
[69] H. Le Bonniec, Aspects
religieux de la guerre à Rome, in Problèmes de la guerre
à Rome cit. 101. Sulle feste di carattere militare di questi
due mesi, vedi per tutti W.W. Fowler,
The Roman Festivals of the Period of the
Republic (rist. London 1925) 33 ss., 236 ss.; ed il più recente lavoro di D. Sabbatucci, La
religione di Roma antica cit. 87 ss., 317 ss.
[70] Cic. De off.
1.36-37: [Popilius imperator tenebat provinciam in cuius exercitu Catonis
filius tiro militabat cum autem Popilio videretur unam dimittere legionem Catonis
quoque filium qui in eadem legione militabat dimisit. Sed cum amore pugnandi in
exercitu remansisset Cato ad Popilium scripsit ut si eum patitur in exercitu
remanere secundo eum obliget militiae sacramento quia priore amisso iure cum
hostibus pugnare non poterat. Adeo summa erat observatio in bello movendo].
Marci quidem Catonis senis est epistula ad Marcum filium in qua scribit se
audisse eum missum factum esse a consule cum in Macedonia bello Persico miles
esset. Monet igitur ut caveat ne proelium ineat; negat enim ius esse, qui miles
non sit, cum hoste pugnare.
[71] è opinione prevalente fra gli
studiosi che gli antichi sacerdoti romani indicassero con il termine nefas
tutto quello «che non fosse possibile fare senza incorrere nella reazione
della natura stessa e nell’ira degli dèi»: A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed. (Napoli 1990)
135; da ciò consegue che il concetto di nefas rimanda a valori che l’odierna dommatica giuridica
definisce imperativi – il nefas
è inteso sempre in senso obbligatorio – connessi con le sfere del
“vietato” e del “dovere”: P. Catalano, Contributi
allo studio del diritto augurale (Torino 1960) 326 e n. 10; seguito da F. Cordero, Riti e sapienza del diritto (Roma-Bari 1981) 272; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale” antico cit. 95 ss. Quanto
alla derivazione della parola, i linguisti concordano nel ritenere nefas «sorti de l’expression
ne fas est où il faut entendre
ne- comme une négation de
phrase et non comme préfixe»: É. Benveniste, Le
vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit,
religion (Paris 1969) 136; cfr. anche A. Walde-J.B.
Hofmann, Lateinisches
etymologisches Wörterbuch, I cit. 217; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine cit. 217.
Oltre che nella lingua dei sacerdoti, l’uso di nefas nell’arcaica forma ne fas (est) si ritrova ancora negli antiquari
di età tardo-repubblicana e imperiale, soprattutto in testi che fanno
riferimento a realtà religiose e giuridiche antichissime (Fest. De verb. sign., v. Sacer mons, p.
[72] Verg. Aen. 2.717-720: Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis; / me, bello e tanto
digressum et caede recenti, / attrectare nefas, donec me flumine vivo / abluero
(Sulle implicazioni religiose e giuridiche di questi versi si vedano, fra gli
altri, F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, in RISG 10 n. s. (1935) 228; R. Orestano, Dal ius al fas.
Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva
all’età classica, in BIDR
46 (1939) 225 e n. 70; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in SDHI 19 (1953) 54
n. 37 [= Id., Scritti di diritto romano, I (Padova 1985) 230 nt. 37]; in diversa
prospettiva, vedi anche G.
Dumézil, Mythe et
épopée, I. L’ideologie des trois fonctions dans
les épopées des peuples indo-européens (Paris 1968)
401); per quanto nei versi appena citati, forse per dare maggiore
solennità al contesto, o per meglio sottolineare il ruolo sacerdotale di
Enea, il poeta sembra riferirsi più che ad una generica purificazione
rituale alle abluzioni dei sacerdoti, come si rileva dall’uso del verbo attrectare, verbo «di
carattere rigorosamente sacrale», che aveva un significato positivo solo
se riferito ai sacerdotes populi Romani,
mentre usato per il resto della collettività assumeva il valore negativo
di «contaminare»: E.
Paratore, Virgilio, Eneide, I Libri
I-II (Milano 1978) 360.
[73] A maggior ragione,
era ritenuta sommamente onorevole per il cittadino la morte in battaglia:
così Verg. Aen. 2.314-317: Arma amens capio; nec sat rationis in
armis, / sed glomerare manum bello et concurrere in arcem / cum sociis ardent
animi; furor iraque mentem / praecipitat pulchrumque mori succurrit in armis;
nello stesso senso il commento di Serv. Dan. in Verg. Aen. 2.317: (Pulchrumque mori) succurrit (in armis) ratio viri fortis; quid enim
aliud a bono cive et forti amissae patriae posset inpendi. Et
‘succurrit’ in animum venit.
[74] Cfr. F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius cit. 227 s.; per
l’analisi linguistica del verbo impiare, e per le sue valenze religiose,
vedi H. Fugier, Recherches sur l’expression du
sacré dans la langue latine
(Paris 1963) 334 ss.
[75] Sulla base di queste
motivazioni religiose, i soldati, reduci dalla battaglia, dovevano entrare in
città portando rami d’alloro (Paul. Fest. ep., p.
[76]
L’attività teologica e giuridica della sodalità si
esplicitava, oltre che nelle formule solenni, soprattutto in decreta e responsa, che i
feziali davano su richiesta del senato o dei magistrati. Importanti
testimonianze, con riferimenti testuali, in Liv. 31.8.3: Consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum, quod indiceretur
regi Philippo, utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an satis esset, in finibus
regni quod proximum praesidium esset, eo nuntiari. Fetiales decreverunt, utrum
eorum fecisset, recte facturum; 36.3.9:
Fetiales responderunt iam ante sese, cum
de Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre, ipsi coram an ad
praesidium nuntiaretur.
[77] Rassegna delle fonti
in cui ricorre questa espressione in B.A.
Müller, s.v. Bellum, in Th.L.L. II cit. col. 1831. Sul tema, ampiamente studiato dalla
dottrina romanistica, basterà ricordare alcuni: M. Kaser, Das altrömische ius (Göttingen 1949) 22 ss.; H. Drexler,
Iustum bellum, in RMPh 102 (1959) 97 ss.; H. Hausmaninger, ‘Bellum iustum’ und ‘Iusta causa belli’ in
älteren römischen Recht, in österreichsche Zeitschrift für öffentliches
Recht, N. F. 11 (1961) 335 ss.; E. Pólay, Differenzierung der Gesellschaftsnormen in antiken Rom (Budapest
1964) 115 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 14 ss.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik cit. 102 ss.; W.V. Harris,
War and imperialism in Republican Rome,
327-70 BC. (Oxford 1979) 161 ss.; S. Albert,
Bellum iustum. Die Theorie des
«gerechten Krieges» und ihre praktische Bedeutung für die
auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit
(Kallmünz 1980) 12 ss.; S. Clavadtscher-Thürlemann,
‘Polemos dikaios’ und
‘bellum iustum’ (Zürich 1985) 139 ss.; F. d’Ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana (Napoli 1988) 22 ss.; D. Nörr,
Aspekte des römischen
Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara cit. 118 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die
religiöse Konstruktion des Krieges in Rom cit. 117 ss.; A. Watson, International law in
archaic Rome: war and religion cit. 48 ss.
[79] Varro De ling. Lat.
5.86: Fetiales, quod fidei publicae inter
populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum, et inde desitum,
ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, ante quam
conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus
Ennius scribit dictum.
[80] Isid. Orig.
18.1.2: Iustum bellum est, quod ex edicto geritur de rebus repetitis aut
propulsandorum hostium causa.
[81] Liv. 9.1.10: Iustum
est bellum, Samnites, quibus necessarium, et pia arma quibus nulla nisi in
armis reliquitur spes.
[82]
Sull’organizzazione militare dei Sanniti, con approfondimenti
archeologici e giuridico-religiosi, vedi Chr.
Saulnier, L’armée et la guerre chez les peuples Samnites (VIIe -
IVe s.) (Paris 1983).
[83] D. 1.3.40 (Modestinus libro primo regularum): Ergo autem omne
ius aut consensus fecit aut necessitas constituit aut firmavit consuetudo. Cfr. VIR IV
coll. 74 ss.
[84] Oltre il lavoro per
molti versi fondamentale di W. Capelle,
Griechische Etik und römischer
Imperialismus, in Klio
25 (1932) 86 ss. [ristampato in
Ideologie und Herrschaft in der Antike, cur. H. Kroft (Darmstadt 1979) 238
ss.], vedi anche F.W. Walbank, Political morality and friends of Scipio, in JRS 55 (1965) 1 ss.; E. Badian, Roman imperialism in the late Republic, 2ª ed. (Ithaca, New
York 1968) [= Id., Römischer Imperialismus in der
späten Republik, trad.
tedesca di G. Wirth (Stuttgart 1980)]; P.
Desideri, L’interpretazione
dell’impero romano in Posidonio,
in RIL 106 (1972) 482 ss.; G. Garbarino,
Roma e la filosofia greca dalle origini
alla fine del II secolo a.C., I
(Torino 1973) 38 ss.; P. Treves, La cosmopoli di Posidonio e l’impero di Roma, in La filosofia greca e il diritto romano (Atti del Colloquio
italo-francese, Roma, 14-17 aprile 1973), I (Roma 1976) 27 ss.; E.
Gabba, Aspetti culturali
dell’imperialismo romano, in
Athenaeum 65 (1977) 49 ss.; D. Musti,
Polibio e l’imperialismo romano (Napoli 1979); A. Momigliano, Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, ora in Id., Sesto contributo
alla storia degli studi classici e del mondo antico, I (Roma 1980) 89 ss.; P.
Jal, L’impérialisme
romain: observations sur les témoignages littéraires latines de
la fin de
[85] M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistiger
Bewegung (Göttingen
1959) qui citato nella trad. it., La
stoa. Storia di un movimento
spirituale, I (Firenze 1967) 535 ss.; J.-L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’età repubblicana, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali dir. L. Firpo I. L’antichità
classica (Torino 1982) 731
ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les
rapports de la philosophie grecque et la tradition romaine à la fin de
[86] Su L. Furio Filo,
uomo politico e giurista amico di Scipione Emiliano, console nel
[87] De re publ. 3.8; J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re
publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, in REL 55 (1977) 128. Fra gli studi dedicati a Carneade e alla Nuova
Accademia vedi, in particolare: J.
Croissant, La morale de
Carnéade, in Revue internationale de philosophie 3
(1939) 545 ss.; O. Gigon, Zur Geschichte der sogenannten Neuen
Akademie (1944), ora in Id., Studien zur antiken Philosophie (Berlin 1972) 412 ss.; A.
Weische, Cicero und die neue
Akademie (Münster
West. 1961) 77 ss.; H.J. Kraemer,
Platonismus und hellenistische
Philosophie (Berlin 1971) 5
ss. Sembra
potersi dubitare del fatto che Carneade, nel discorso pronunciato a Roma, si
sia fatto portavoce dell’opposizione culturale greca all’egemonia
“mondiale” dei Romani (come invece sostenevano H. Fuchs, Der geistige Wiederstand gegen Rom in der antiken Welt,
2ª ed. (Berlin 1964) 2 ss.; F.W.
Walbank, Polibus and Rome’s
eastern Policy, in JRS 53 (1963) 1 ss.; E. Candiloro, Politica e cultura in Atene da Pidna alla guerra mitridatica, in Studi Classici e Orientali 14 (1965) 158 ss.): cfr. in tal senso T.A. Sinclair, Il pensiero politico classico, cur. L. Firpo (Bari 1961) 373; G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del secondo secolo
a.C. II cit. 363 ss.; J.-L. Ferrary,
Philhellènisme et
impérialisme cit.
351 ss.
[88] Il passo tratto da
Lattanzio (Inst. div. 6.9.3-4) è stato considerato non ciceroniano nelle
edizioni curate da K. Büchner M.
T. Cicero, Von Gemeinwesen, 3ª ed. (Zürich 1973) e da
P. Krarup M. T. Ciceronis De re publica librorum sex quae
supersunt (Firenze 1967); anche E. Heck, Die Bezeugung von Ciceros Schrift De
re publica (Hildesheim
1966) 90 s., ritiene il passo non riconducibile al
discorso di Furio Filo, rilevandovi contraddizioni con le tesi centrali di tale
discorso esposte da Lattanzio, Inst. div.
5.16. Una stimolante analisi del passo si ha in D. Nörr, Rechtskritik
in der römischen Antike
(München 1974) 70. Per il commento vedi K. Büchner, M. Tullius Cicero. De Republica, Kommentar (Heidelberg 1984)
[89] Più in generale, riguardo alle concezioni religiose di Cicerone
rimane tuttora insostituibile M. van den
Bruwaene, La théologie de
Cicéron (Louvain 1937); cfr. inoltre, fra gli altri: P. Deforny, Les fondaments de la religion d’après Cicéron,
in LEC 22 (1954) 241 ss., 366 ss.; R.D. Sweeney, Sacra in the Philosophic Works of Cicero, in Orpheus 12 (1965) 99 ss.; J.
Guillén, Dios y los dioses
en Cicerón, in Helmantica
25 (1974) 511 ss.; J. Kroymann, Cicero und die römische Religion,
in Ciceroniana. Hommages à Kazimierz
Kumaniecki (Leiden 1975) 116 ss.; L. Troiani, Cicerone e la religione, in RSI
96 (1984) 920 ss.; C. Bergemann,
Politik und Religion im
spätrepublikanischer Rom (Stuttgart 1992).
[90] Cic. Div. in Caec. 62; De prov. cons. 4; Ad Att. 7.14.3; 9.19.1; Pro
rege Deiot. 13; De off. 1.36; Phil. 11.37; 13.35. Nel bel lavoro di S. Albert, Bellum iustum cit. 20 ss., alcune interessanti pagine sono state
dedicate al «Aufkommen des Begriffs bei Cicero»; cfr. anche W.C. Korfmacher, Cicero and the bellum iustum,
in The Classical Bulletin 48
(1972) 49 ss. Riesame dei testi ciceroniani, con molte critiche alla quasi
totalità degli studi contemporanei, nel recentissimo lavoro di L. Loreto, Il bellum iustum e i suoi
equivoci. Cicerone ed una componente della rappresentazione romana del
Völkerrecht antico cit.
[91] Per maggiori
ragguagli sul passo cfr. K. Büchner,
M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar cit. 200. Anche Tito Livio (1.24), come Cicerone, ascrive a
Tullo Ostillo l’istituzionalizzazione dello ius fetiale: non
così Dionigi di Alicarnasso (2.72), che ritiene Numa Pompilio fondatore
di tale ius; né Servio (in Verg. Aen. 10.14), il quale indica
Anco Marzio. Nel complesso dello ius
fetiale, con
l’esempio anche del testo ciceroniano, D.
Nörr, Rechtskritik in der
römischen Antike cit. 59, vede una delle manifestazioni della
«römische Gerechtigkeitsideologie».
[92] Isidoro, Orig.
18.1.2-3: Quattuor autem sunt genera bellorum: id est iustum, iniustum,
civile et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex praedicto geritur de
rebus repetitis aut propulsandorum hostium caus. Iniustum bellum est quod de
furore, non de legitima ratione initur. De quo in Republica Cicero dicit: illa
– suscepta; commento in K.
Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar
cit. 325. Sulle cause del bellum iustum esemplificate
nel testo di Cicerone vedi, fra gli altri, M.
Gelzer, Römische Politik bei
Fabius Pictor, in Hermes 68
(1933) 165 s.; W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen
Völkerrecht im 3. und 2. Jahrhundert v.Chr. cit. 179; J. Rüpke, Domi militiae. Die
religiöse Konstruktion des Krieges in Rom cit. 121.
[93] Cfr. anche De re publ. 3.34 (= August. De civ. dei 22.6): Nullum
bellum suscipi a civitate optima nisi aut pro fide aut pro salute; su cui vedi la riflessione di A. Michel, Les lois de la guerre et les problèmes de
l’impérialisme romain dans la philosophie de Ciceron, in Problèmes de la guerre à Rome cit. 174: «Ainsi
s’esquisse une justification de l’imperium romain, qui s’est constitué peu à peu
pour répondre soit aux exigences de la légitime défense
(une défense assez offensive), soit aux appels d’alliés que
leurs propres ennemis ménageaient ou lésaient». Agli stessi valori si
richiamava, prima di Cicerone, M. Porcio Catone in un frammento delle Origines, trattando della ripresa delle ostilità tra Roma e
Cartagine nel
Quanto
poi al rapporto esistente per i Romani tra imperium
e religione, vedi A. Zwaenepoel,
L’inspiration religieuse de
l’impérialisme romain,
in AC 18 (1949) 5 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 22 ss.; approfondiscono il tema specificatamente in
rapporto a Cicerone: J. Vogt, Ciceros Glaube an Rom, rist. an. dell’edizione 1935
(Darmstatd 1963); K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur
philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift De legibus
(Wiesbaden 1983) 156 ss.; F. Sini,
Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica cit. 19 ss.
[95] Varro De ling. Lat.
5.86; Serv. in Verg. Aen. 1.62: Foedere modo lege, alias pace, quae fit
inter dimicantes. Foedus autem dictus vel a fetialibus, id est sacerdotibus per
quos fiunt foedera, vel a porca foede, hoc est lapidibus occisa, ut ipse et
caesa iungebant foedera porca; cfr. Serv. Dan. in Verg. Aen. 4.242.
[96] Cic. De leg.
2.21: Feoderum pacis, belli, indotiarum ratorum fetiales iudices, nontii
sunto, bella disceptanto.
[97] Fest. De verb.
sign., pp. 198-200: Ordo sacerdotum
aestimatur deorum <ordine ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex,
dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex
maximus. Itaque in soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra
Martialem, et Quirinalem; Martialis supra proximum; omnes item supra
pontificem. Rex, quia potentissimus: Dialis, qui universi mundi sacerdos, qui
appallatur Dium; Martialis, quod Mars conditoris urbis parens; Quirinalis,
socio imperii Romani Curibus ascito Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque
arbiter habetur rerum divinarum humanarumque. Per la risalenza dell’ordo
sacerdotum attestato da Festo, vedi soprattutto G. Dumézil, La
religion romaine archaïque cit. 155 [= Id., La religione
romana arcaica cit. 138 s.]; sul testo cfr. anche F. D’Ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica cit. 91 s.; M. Bretone, Storia del diritto romano cit. 108.