N. 5 – 2006 – Tradizione
Romana
Università di Sassari
L’azione popolare come strumento
di tutela dei “beni pubblici”: alcune riflessioni tra “bene
pubblico” ambiente nell’ordinamento giuridico italiano e res
publicae nel sistema giuridico romano
Sommario: I. “Beni” e ‘res’ pubblici:
nozioni. – I.a. I “beni pubblici” nell’ordinamento
giuridico italiano. – I.b. Le res
publicae nel sistema giuridico
romano. – II. Il titolare dei “beni” e
delle ‘res’ pubblici. – II.a. Lo
Stato-persona. – II.b. Il Populus Romanus Quirites.
– III. La
tutela dei “beni” e delle ‘res’ pubblici:
il recupero dell’actio popularis.
– III.a. La natura dell’actio popularis nella
ricostruzione della dottrina giuridica del XIX secolo. – III.b.
L’actio popularis nelle
fonti antiche. – III.c. Il richiamo odierno
all’istituto dell’azione popolare nella legislazione e nella
dottrina giuridica italiana in materia di tutela del bene pubblico ambiente.
Secondo
l’ordinamento italiano è bene in senso giuridico «qualunque
cosa che possa formare oggetto di diritti»[1].
Divisione fondamentale del diritto di proprietà è – negli
ordinamenti giuridici contemporanei – la partizione tra beni privati e
beni pubblici, come già insegnava il Digesto: hae autem res, quae
humani iuris sunt, aut publicae sunt aut privatae[2].
La divisione odierna tra beni privati e beni pubblici – tuttavia –
richiama l’insegnamento dei giuristi romani sul piano formale, ma se ne
discosta sul piano sostanziale. Anzitutto si è passati dalla distinzione
romana alla separazione contemporanea, con un ‘passaggio’
che si estende all’intera partizione romana tra ius privatum e ius
publicum[3].
In secondo luogo il regime di diritto sostanziale e la conseguente tutela
giuridica dei beni in proprietà dei soggetti pubblici sono modellati sul
regime e sulla tutela giuridica dei beni in proprietà dei soggetti
privati, a parte la presenza di alcune disposizioni ad hoc, in ragione
dell’essere detti beni «portatori di interessi pubblici». Il
capo II del libro terzo del codice civile elenca i beni in proprietà
pubblica – o demaniale – e ne detta il relativo regime giuridico[4].
Si tratta di una nozione elaborata sul concetto della proprietà
giuridica individuale, posta in capo allo Stato-persona, ai cui organi è
pertanto demandata la relativa tutela[5].
I beni pubblici a propria volta si distinguono in beni demaniali, che
appartengono allo Stato-persona a titolo di proprietà pubblicistica, ed
in beni patrimoniali, che appartengono allo Stato a titolo di proprietà
privatistica: questi ultimi a propria volta si suddividono in beni disponibili
ed in beni indisponibili, i primi alienabili a determinate condizioni, in
quanto sottoposti in linea di massima al regime giuridico privatistico, gli
altri no. La ragione di questa differenza, ancorchè parziale, di regime
è nella condizione ‘di uso’ dei beni disponibili: essi,
utilizzati per produrre un reddito in capo all’amministrazione, non sono
– o non sono più – destinati all’uso collettivo.
Esiste dunque una distinzione tra beni pubblici destinati all’uso
collettivo e beni pubblici che non lo sono: tuttavia non vi è una
distinzione legislativa da cui emerga a questo riguardo un ruolo in capo ai
cittadini, che pure sono i naturali destinatari dell’uso collettivo[6].
Nel sistema giuridico
romano erano res publicae quelle in proprietà del populus
romanus: tra queste si distinguevano le res in pecunia –o in
patrimonio– populi Romani, e le res in publico usu[7].
Le res publicae non erano oggetto di negozi patrimoniali inter
privatos[8]:
tuttavia, mentre le res in patrimonio populi Romani potevano, in
determinate ipotesi, essere oggetto di commercio tra privati[9],
le res in publico usu, destinate all’uso collettivo, ne erano
sempre escluse[10].
Anche nel sistema giuridico romano, dunque, esistevano due species del genus
‘beni pubblici’, distinte per l’essere o no destinate
all’uso di tutti.
Come si vedrà,
tuttavia, la natura concreta del popolo nel sistema giuridico romano, a differenza
che all’oggi, rifletteva la specificità del ruolo del popolo in
ordine alla titolarità ed alla legittimazione alla tutela. Una res
publica dal cui regime giuridico si può evincere agevolmente la
suddetta specificità è l’ager publicus populi Romani.
Il titolare per
eccellenza dei beni pubblici è, negli ordinamenti giuridici
contemporanei della rappresentanza, lo Stato-persona[11]
astratta e rappresentata, dotato di soggettività giuridica in
virtù di una attribuzione dell’ordinamento, a seguito della
“finzione” che si tratti di un soggetto concreto, per sua natura
idoneo ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive[12].
L’introduzione del concetto di rappresentanza nel Diritto pubblico, con
la correlata dottrina delle personae fictae vel repraesentatae,
si deve alla dottrina giuscanonistica, in particolare a Sinibaldo dei Fieschi,
dal 24 giugno 1243 Papa, con il nome di Innocenzo IV[13].
Su questa ‘base’ diversi secoli più tardi Thomas Hobbes
definirà lo Stato come persona civitatis, la “persona
civile” la cui volontà rappresenta la volontà di tutti, a
seguito dei patti intercorsi tra le “persone naturali” che hanno
così sottomesso le volontà individuali ad una unica volontà
«o di un solo uomo o di una sola assemblea», per il perseguimento
dell’interesse comune[14].
La definizione teorica dello Stato-persona giuridica giungerà circa un
secolo e mezzo più tardi, ad opera di Gottlieb Wilhelm Friedrich Hegel,
il quale scriverà che «das geistige Individuum, das Volk, insofern
es in sich gegliedert, ein organisches Ganze ist, nennen wir Staat»[15].
L’“insieme organico” che si definisce “Stato”,
dunque, è tale in quanto sorge dall’astrazione
“individuale” del popolo, che viene concepito come una
‘persona’ singola ed astratta, e che necessita di essere
rappresentata dai propri organi per poter agire in vista del fine
dell’interesse comune per il perseguimento del quale è sorto,
così come lo Stato hobbesiano[16].
Nel sistema giuridico
romano titolare delle res publicae è il Populus Romanus
Quirites, come le fonti antiche insegnano[17].
Il Populus che emerge dalle fonti antiche, tuttavia, non è una
persona astratta, come negli ordinamenti giuridici contemporanei,
bensì «una pluralità di individui “riuniti” o
“uniti””, senza alcuna indicazione della esistenza di un
““ente ideale” in cui sia stata “unificata” la
pluralità dei Quirites»[18].
Si tratta di un insieme concreto, una “pluralità”
organizzata sorta da una ratio di cui ancora le fonti antiche indicano i
due momenti costitutivi: infatti il populus è non omnis
hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu
et utilitatis communione sociatus[19].
Nel sistema giuridico romano il populus sorge dunque a seguito di un
accordo ed in vista di un fine di utilità comune: questi
‘requisiti’ lo distinguono da un qualsiasi “coetus
multitudinis”. La genesi del populus è pertanto da
ravvisare in un ‘contratto di società’, il pactum
societatis[20],
che intercorre tra gli individui membri della multitudo, contraenti in
posizione paritetica. Su questa base documentale, il
‘popolo-società’ che nasce dal ‘contratto di
società’ è stato definito come «a struttura
orizzontale e volontaristica»[21].
La proprietà
delle res publicae in capo al ‘populus-societas’
è dunque una proprietà collettiva, la cui peculiarità
consiste nell’assicurare a tutti la fruizione dei ‘beni’
sottoposti a questo regime proprietario, ma dei quali nessuno può
divenire proprietario a titolo individuale[22].
La natura concreta del populus è poi alla base della
titolarità –nella forma suddetta– delle res publicae
anche in capo al civis, che infatti dispone per la relativa tutela, come
si vedrà, di strumenti che sono tipicamente proprietari, ma non della
tutela delle res privatae, che sono soggette alla proprietà
privatistica: in primis l’actio popularis.
La dottrina giuridica
del XIX secolo ha elaborato, sulla base delle fonti antiche, diverse posizioni
e criteri per la qualificazione e la classificazione delle azioni popolari[23].
La tesi più risalente è
quella che afferma la natura procuratoria di tutte le azioni popolari, dovuta a
Friedrich Karl von Savigny e ripresa, nella sua elaborazione definitiva, da
Theodor Mommsen. L’attore sarebbe un procurator del popolo[24],
ed in questa sua veste difenderebbe il suum ius populi, di cui parlano
le fonti quale oggetto tutelato attraverso l’actio popularis, come
un diritto del popolo: ancora in ragione di questa qualifica, inoltre, egli procuratorem
dare non potest, a differenza del convenuto[25];
mulieri et pupillo populares actiones non dantur nisi cum ad eos res
pertinet[26].
La prima
articolazione interna alle azioni popolari è operata da Carl Georg Bruns[27].
Secondo questo studioso si distinguerebbero azioni popolari stricto sensu ed
azioni popolari lato sensu, e criterio discretivo sarebbe la
destinazione del provento dell’azione: a favore dell’attore nel
primo caso, a favore dell’Erario nel secondo. Seguendo tale criterio, non
sarebbero azioni popolari stricto sensu quelle previste ex lege.
Lo stesso Bruns, del resto, sosterrà la rilevanza –ai fini
dell’attribuzione del provento dell’azione– non
dell’origine della relativa previsione –edittale oppure
legislativa– bensì del tenore della disposizione in cui
l’azione è descritta, ma senza tuttavia tornare sulla partizione
delle azioni alla luce di questa precisazione[28].
Tra gli studiosi che accolsero la ricostruzione del Bruns si possono
menzionare, in particolare, lo Jhering[29];
il Maynz, il quale giungerà, coerentemente all’impostazione del
Bruns, a definire come uniche azioni popolari quelle previste nell’editto
del pretore[30];
il Wlassak[31].
In Italia seguirà le posizioni del Bruns in particolare lo Scialoja, il
quale distinguerà: 1) diritti spettanti alla Comunità, azionabili
dagli organi della stessa; 2) diritti spettanti alla Comunità,
azionabili però da ciascun membro della stessa; 3) diritti
“diffusi” tra i membri della Comunità, azionabili pertanto
unicamente da ciascun membro della stessa, ed alla tutela di questi diritti
soltanto sarebbero riconducibili le azioni popolari[32].
Tra gli studiosi che
invece non si riconobbero nella posizione del Bruns debbono essere rammentati,
in particolare: il Brinz, secondo il quale l’espressione pecuniaeque
qui volet actio petitio esto sarebbe «das für das populäre
Wesen der actio entscheidende Wort»[33];
il Voigt, secondo il quale le azioni popolari stricto sensu sarebbero actiones
privatae che spettano al quivis e populo per la tutela di
determinate res publicae e della moralità, mentre le
‘ulteriori’ azioni popolari trarrebbero origine dal crimen
privatus a danno di una res publica[34].
In Italia perverrà a conclusioni sostanzialmente analoghe a quelle del
Brinz il Codacci-Pisanelli. Questo studioso, sulla base della concezione del populus
come una persona astratta, giungerà ad identificare
l’attore delle azioni popolari come un organo del populus:
sarebbero pertanto azioni popolari soltanto quelle previste ex lege ed
il cui provento sia destinato all’Erario. Entro questo ordine di idee,
come scriverà lo stesso Codacci-Pisanelli «tutta la teoria delle
azioni popolari si manifesta nel concetto di alcune funzioni statali rilasciate
all’attività ed all’iniziativa dei cittadini»[35].
La reazione alla
bipartizione del Bruns si concretizzerà soprattutto ad opera degli
studiosi italiani Emilio Costa e Carlo Fadda[36].
Il criterio
metodologico fondamentale individuato dal Costa è quello cronologico,
che “forse” consente nella materia delle azioni popolari
«varie riflessioni: sia sulla genesi, sia sul contenuto ed efficacia
d’ognuna delle singole azioni e delle loro classi, sia sul loro rapporto
di tempo e quindi insieme sul valore tutto particolare che vi si
congiunge»[37].
Questo criterio
costituisce la base anche per l’approccio allo studio delle azioni popolari
compiuto da Carlo Fadda, il quale, pur ammettendo la bipartizione delle azioni,
sulla via tracciata dal Bruns, rinviene nella “evoluzione storica”
della comunità romana e non nella destinazione del provento la chiave
che permette di comprenderla. Le prime azioni popolari, infatti, sarebbero
sorte nell’epoca della «arcaica solidarietà
gentilizia», caratterizzate dalla destinazione del provento della
condanna sempre a favore di chi le avesse esperite, sia che si trattasse di
azioni previste da leggi, sia che si trattasse di azioni previste
nell’editto. Nella comunità gentilizia infatti «manca il
concetto dello Stato persona a sè, indipendente dai cittadini».
Con il sostituirsi della comunità cittadina a quella gentilizia,
gradualmente «l’idea di Stato va sempre più distaccandosi da
quella della collettività», e «l’offesa agli interessi
generali viene considerandosi gradatamente come un’offesa allo Stato
rappresentante di tali interessi»[38].
In questo mutato contesto il cittadino agisce semplicemente in qualità
di sostituto del magistrato, che è il soggetto preposto alla tutela
delle res publicae, e la destinazione del provento della condanna a
favore della cassa pubblica ne è la naturale conseguenza[39].
Queste azioni, tuttavia, non andarono a sostituire quelle anteriori, con
destinazione del provento della condanna a favore dell’attore, ma si
affiancarono ad esse, concretizzando ancora una volta un fenomeno piuttosto
frequente nella storia del Diritto romano[40].
I Digesta
giustinianei trattano dell’actio popularis nel titolo de
popularibus actionibus[41],
composto di otto responsa in materia di legittimazione popolare attiva:
cinque del giurista Paolo e tre del giurista Ulpiano.
L’esistenza di
un titolo ‘monografico’ sulle azioni popolari non supera tuttavia
la terminologia piuttosto diversificata che si incontra nelle fonti, ove
talvolta l’actio è detta espressamente popularis, e
ciò si riscontra particolarmente in quelle previste nell’edictum,
concesse dal pretore[42],
mentre, talaltra, il carattere popolare dell’actio si desume dalla
legittimazione del civis ad esperirla, e questa forma di qualificazione
popolare dell’actio è presente soprattutto per quelle
previste da leges[43].
Il tratto distintivo che le accomuna tutte –comunque– è che
l’esercizio di esse «spetta a qualunque cittadino, come tale»[44].
A
differenza che nelle posizioni della dottrina giuridica del XIX secolo, nel
dettato delle fonti antiche, pur entro una terminologia piuttosto
diversificata, non è dato di ravvisare criteri di classificazione
‘interni’ alle azioni popolari, essendo queste espressione di un
contesto giuspubblicistico differente rispetto a quello presente alla dottrina
giuridica ora esaminata .
Il civis Romanus
infatti, è titolare in quanto tale delle res publicae,
poichè è membro di quel ‘populus-societas’,
“insieme concreto” sorto da un ‘contratto di
società’ tra persone fisiche poste in posizione paritetica, e
pertanto legittimato alla relativa tutela attraverso l’azione popolare.
Come scrive il giurista Paolo, infatti, a mezzo dell’azione popolare suum
ius populi tuetur[45]:
questo esclude che delle ‘res’ così tutelate possa
essere titolare lo Stato-persona ficta, rappresentato da organi che non
possono dunque che agire in veste di ‘procuratori’.
La
prima ri-proposizione dell’istituto dell’azione popolare
nell’ordinamento giuridico dell’Italia unita risale al 1889.
L’art. 100 della legge n° 5921 di quell’anno –il c.d.
‘Testo Unico’ delle leggi comunali e provinciali– prevedeva,
infatti, che «qualunque elettore può promuovere l’azione
penale costituendosi parte civile, per i reati contemplati negli articoli
precedenti»[46].
Più recentemente, l’azione popolare quale strumento di tutela dei
beni pubblici e dei diritti dei cittadini apparirà richiamata negli
articoli 6 e 7 della legge n° 142/1990, sull’Ordinamento delle
autonomie locali[47].
A termini dell’art. 6, infatti: «nello statuto [comunale] devono
essere previste forme di consultazione della popolazione nonchè
procedure per l’ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini
singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di
interessi collettivi»; secondo l’art. 7, invece, rubricato azione
popolare, diritti di accesso e di informazione dei cittadini «ciascun
elettore può far valere, innanzi alle giurisdizioni amministrative, le
azioni ed i ricorsi che spettano al comune [...] in caso di soccombenza, le
spese sono a carico di chi ha promosso l’azione o il ricorso»[48].
In seguito, la legge n° 265/1999, su Disposizioni in materia di
autonomia e di ordinamento degli Enti Locali[49],
amplierà il ‘raggio di azione’ dell’istituto:
l’art. 4, che significativamente riprende alla lettera la rubrica
dell’art. 7 della legge del 1990, prevede che «ciascun elettore
può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al
comune»[50];
in particolare, relativamente alla tutela ambientale, la norma prevede che le
associazioni di protezione ambientale di interesse nazionale «possono
proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che
spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L’eventuale
risarcimento è liquidato in favore dell’ente sostituito e le spese
processuali sono liquidate in favore o a carico dell’associazione»[51].
Le disposizioni
testè richiamate saranno poi riprese dal D. Lgs. n° 267/2000[52],
il ‘Testo Unico’ delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali, che confermerà la natura di azione popolare
dell’istituto ed estenderà la previsione alle azioni spettanti
alla Provincia anche per la tutela al di fuori della materia ambientale[53].
Sia
nell’ordinamento giuridico vigente sia nel sistema giuridico romano,
dunque, pur nella diversità del contesto giuridico-istituzionale, la
legittimazione ad esperire l’azione popolare rinviene la sua ratio
e la sua espressione nella qualità di cittadino, identificata attraverso
la sua fondamentale manifestazione: l’esercizio del diritto di voto[54].
Questo dato legislativo rispecchia peraltro un orientamento che,
sulla base di diverse sentenze della magistratura contabile in materia di
risarcimento del danno ambientale, emanate a partire dagli anni
‘70’ del ‘900, era già proprio ad una parte della
dottrina giuspubblicistica. Con l’affermazione che per danno allo Stato
deve intendersi anche il danno pubblico arrecato alla Collettività in
quanto titolare, oltre che fruitrice, del bene pubblico leso[55],
e della quale lo Stato-persona sarebbe l’ente esponenziale più
rappresentativo, l’ambiente è concepito come un bene “in
proprietà collettiva”, in quanto tale destinato
dall’ordinamento giuridico alle utilità della Collettività
nel suo insieme, piuttosto che allo sfruttamento economico individuale[56].
È su questa premessa dogmatica, che vede l’ambiente
come un bene nella proprietà sostanziale della Collettività[57],
che il regime di tutela giuridica del bene ambiente appare modellato dal legislatore
nei termini su visti, richiamando un istituto, quale l’azione popolare,
il cui profilo essenziale è l’esperibilità da parte di
ciascun cittadino-elettore di una azione giudiziaria a tutela di un bene
riconosciuto come nella titolarità di tutta la comunità dei
cittadini[58].
Un orientamento
differente pare ispirare il legislatore nella recente riforma costituzionale[59]:
il testo del nuovo art.
[1] Art. 810 c.c.
Riguardo alle principali teorie sui beni giuridici che sono state espresse
nella dottrina cfr., in particolare, G.
Pescatore, Dei beni, in G. Pescatore-A.
Albano-G. Grego, Della proprietà. I (Torino 1958) 3 ss.; F. Santoro-Passarelli,
Dottrine generali del diritto civile (Napoli 1959) 54 ss.; S. Pugliatti, Beni e cose in senso
giuridico (Milano 1962) 24 ss.; Id., s.v. Bene giuridico, in Enciclopedia
del diritto 5, 173 ss.; B. Biondi,
s.v. cosa (dir. civ.), in Novissimo
Digesto Italiano 4, 1007 ss.; M.S. Giannini,
I beni pubblici (Roma 1963); S. Cassese,
I beni pubblici (circolazione e tutela) (Milano 1969); V. Cerulli Irelli, voce Beni
pubblici, in Digesto delle Discipline pubblicistiche 2, 273 ss.
[3] Secondo i prudentes
romani, infatti, publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat,
privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia,
quaedam privatim. Così, in particolare, si esprimeva Ulpiano (lib.
I Inst., in D. 1.1.1.2), dalle cui parole si può evincere la
distinzione tra i piani pubblico e privato di utilità delle
‘cose’, che i Romani avevano ben presente. Fondamentale per una
piena comprensione del concetto di
utilità delle ‘cose’ nel sistema giuridico romano è
la tripartizione dello ius publicum, che in sacris, in sacerdotibus,
in magistratibus consistit (cfr. Ulp., loc. cit.). Su come la
tripartizione, che, come è stato osservato, «affonda le sue radici
in elaborazioni sacerdotali di età precedente al pareggiamento dei due
ordini (patres e plebs), o di età appena
successiva», sia in realtà il riflesso di «una
gerarchizzazione assai antica delle parti dello ius publicum» cfr.
ampiamente F. Sini, Sua cuique
civitati religio (Torino 2001) 176 s., e dottrina ivi cit.
[4] Cfr. in part. gli
artt. 822 e 823. Possono essere titolari di beni pubblici anche gli enti
territoriali minori: si parla al proposito di demanio necessario e di demanio
accidentale: il primo comprende i beni che non possono che appartenere allo
Stato, il secondo i beni che possono appartenere anche ad altri enti ed a
privati, e che sono demaniali soltanto se appartengono allo Stato oppure agli
enti territoriali minori. Cfr., al riguardo, L. Arcidiacono-A. Bruno, I beni degli enti locali, Roma
1982.
[5] Secondo l’art.
823, 2° comma del codice civile, infatti «spetta
all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del
demanio pubblico»; cfr., inoltre, gli artt. 824 e 825, relativamente ai
beni degli enti territoriali minori ed ai diritti reali spettanti allo Stato ed
a questi ultimi su beni in proprietà di altri soggetti. Sul regime
giuridico dei beni demaniali v., in particolare, V. Cerulli Irelli, voce Beni pubblici cit., 289; A.M. Sandulli, s.v. Beni pubblici, in
Enciclopedia del Diritto 5, 290 ss.
[6] Questa concezione dei
beni pubblici – e dello Stato-persona, legittimato alla relativa tutela
– affonda le proprie radici nelle idee che contrassegnarono la dottrina
giuridica del XIX secolo, dominata dalla Scuola storica del diritto (per la menzione
delle principali posizioni dottrinarie della Scuola Storica a base del concetto
di Stato-persona astratta cfr. infra, nt. 12) della quale sarà
debitore il Mommsen per il suo “Staatsrecht”, opera che si
inscrive ancora nella base dogmatica dello Stato-persona tracciata dall’idealismo
hegeliano (Cfr. G.W.F. Hegel, Die
Vernunft in der Geschichte [ed. Hamburg 1955] 114 ss.).
[8] Nella terminologia
dei giuristi romani si parlava di res extra nostrum patrimonium (Gai
Inst. 2.1, ripreso da Just. Inst. 2.1pr.); cfr. ancora Gaio: nullius
in bonis esse creduntur (lib. II Inst., in D. 1.8.1pr.); Pomp. loc.
ult. cit.; Paul., lib. XXXIII ad ed., in D. 18.1.34.1.
[10] Tipici esempi di res
in publico usu sono il campo di Marte ed il foro Romano (cfr. Ulp., lib.
XXI ad Sab., in D. 30.39.9).
[12] Tra le teorie che
rilevano ai presenti fini, sorte nel seno della Scuola storica si distinguono,
in particolare, la c.d. “teoria della finzione”, dovuta al Savigny
(System des heutigen römischen Rechts, Berlino 1840-1849), e
la c.d. “teoria organica”, risalente ad Otto von Gierke (Das
deutsche Genossenschaftsrecht, Graz 1854). Secondo il Savigny, sarebbero
persone giuridiche le istituzioni e gli enti a cui l’ordinamento
giuridico riconosce la capacità di essere titolari di situazioni
giuridiche soggettive: ciò, tuttavia, in virtù di una finzione,
in quanto non hanno natura di soggetti giuridici di per sé, non
trattandosi di persone fisiche. Una ricostruzione parzialmente differente della
persona giuridica è ascrivibile alla c.d. “teoria organica”,
riconducibile – tra gli altri – ad Otto von Gierke: ogni istituzione
od ente dà luogo ad una realtà organica autonoma, e
l’ordinamento giuridico prende formalmente atto della loro esistenza
attraverso l’attribuzione della personalità. Cfr., inoltre, alle
origini dello Stato-persona, la “persona civile” di Thomas Hobbes,
sorta dalla sottomissione della volontà di ciascuno a quella di un solo
soggetto (De Cive, stampato in prima edizione nel
[13] Sulla figura e
l’opera di Sinibaldo dei Fieschi cfr., in particolare, F. Ruffini, La classificazione delle
persone giuridiche in Sinibaldo dei Fieschi e in Carlo Federico di Savigny,
in AA.VV., Studi giuridici dedicati a Francesco Schupfer, II (Torino
1898); R. Orestano, Il
problema delle persone giuridiche in Diritto romano, I (Torino 1968) 11
ss.; A. Rota, La persona
giuridica collettiva nella concezione di Sinibaldo dei Fieschi (papa Innocenzo
IV), in Archivio storico sardo
di Sassari 3 (1977). Per un inquadramento del principio della
rappresentanza nella complessiva “deformazione” delle categorie
giuspubblicistiche antiche cfr. G. Lobrano,
Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere (Torino
1996) 62 ss., ed ivi ampia rassegna di dottrina in materia.
[16] Sulla natura
finalistica dello Stato hobbesiano cfr., in particolare, De Cive, IV, 11; IX,
2; 4; cfr., inoltre, IV, 8, cit.; Leviathan, loc. ult. cit.
[20] La lettura deformante
che del pactum societatis delle fonti romane sarà data nel
Medioevo fonderà la dottrina del contratto di dominazione o pactum
subiectionis che intercorre tra il popolo già costituito (secondo il
modello contrattuale romano) ed il governante. Si distinguono, in questo senso,
in particolare le ricostruzioni dovute a Guglielmo d’Occam (1280-1347) ed
a Marsilio da Padova (1433-1499). Sul punto cfr. G. Lobrano, op. cit., 142 ss.
[23] Sulle azioni popolari
in generale e sui relativi criteri di classificazione cfr., in particolare, Th. Mommsen, Die popularklagen,
in Gesammelte Schriften 3. Juristische Schriften 3 (Berlin 1907);
Id., Die Stadtrechte der
Lateinischen Gemeinden Salpensa und Malaca, in Gesammelte Schriften. Juristische Schriften 1 (Berlin 1905); C. Fadda, L’azione popolare.
Studio di diritto romano e attuale. 1. Parte storica. Diritto romano
(Torino 1894); F.K. Von Savigny, System
des heutigen römischen Rechts (Berlin 1840); C.G. Bruns, Le azioni popolari romane per Carlo
Giorgio Bruns. Traduzione di Vittorio Scialoja, con prefazione e note
del traduttore), in Studi giuridici 1 (Roma 1933); B. Albanese, L’azione popolare da
Roma a noi (Roma 1955); F.P. Casavola,
Studi sulle azioni popolari romane. Le actiones populares I
(Napoli 1958).
[24] Nella ricostruzione
mommseniana, in particolare, sarebbe un mandatario con rappresentanza (cfr. Th. Mommsen,
Die Stadtrechte cit., 354 s.).
[27] Già il
Savigny, a dire il vero, aveva individuato delle azioni popolari
“impure” o “miste”, in cui accanto all’interesse
pubblico era tutelato un interesse privato dell’attore (System
cit., 131 s.), ma la distinzione non era sistematica.
[30] Tutte le altre semplicemente «participent cependant plus ou moins de
la nature d’actions populaires»; in generale, comunque, le azioni
popolari «se rapportaient principalement à des questions
d’intérêt général que nous considérons
aujourd’hui comme étant du domaine de la police» (Cours
de droit romain 1, Bruxelles 1870, 422).
[31] Cfr. s.v. Actiones populares, in Real-Encyclopädie der Klassischen
Altertumswissenschaft I 1 (1893) 318 ss.
[36] Anche il Mommsen,
qualche anno più tardi, riprenderà la tesi del Savigny sulla
natura unitaria delle azioni popolari, tutte accomunate dall’essere
esperibili «von jedem Bürger», muovendosi –
coerentemente alla propria impostazione – esclusivamente entro
l’ambito giuspubblicistico (cfr. Die popularklagen cit., 376 s.).
[37] E. Costa, A proposito di alcuni recenti
studi sulle azioni popolari romane, in Rivista Italiana per le Scienze
Giuridiche 11 (1891) 374.
[39] Il riconosciuto
perdurare del principio della sovranità del popolo esclude, da parte del
Costa, la natura procuratoria di queste azioni popolari, come era invece, per
coerenza sistematica, nel pensiero del Mommsen.
[40] Fenomeno che il Fadda
richiama con la suggestiva immagine: «il nuovo e il vecchio restarono uno
accanto all’altro» (op. cit., 375).
[43] Anche da leges
di coloniae e municipia: si pensi, in particolare, alla lex
coloniae Iuliae Genetivae; alla lex Municipii Malacitani; alla lex
Municipii Irnitani. In generale per il testo delle leges in
materia di azioni popolari cfr. C.G. Bruns,
Fontes iuris romani antiqui. Pars prior, leges et negotia (Friburgi in
Brisgavia et Lipsiae 1893) 45 ss.
[46] I reati in parola,
contenuti negli articoli compresi tra i nn. 92 e 99, erano relativi alla
materia elettorale. Per un rapido richiamo ad alcuni dei concetti in materia di
‘popolarità’ presenti nel dibattito giuridico-politico che
precedette la legge in parola, mi permetto di rinviare a G. Sanna, L’azione popolare del
diritto romano quale strumento municipale-mediterraneo per la tutela del bene
pubblico ambiente, in Atti del IVème Congrès
International Environnement et Identité en Méditerranée
(Corte, 19-25 Juillet 2004), CDROM (Corte 2005) 2.
[50] Art. 4, 1° comma;
nel testo della legge 142 ciò era possibile soltanto «innanzi alle
giurisdizioni amministrative»; inoltre, le spese non sono più a
carico del cittadino se il Comune «costituendosi abbia aderito alle
azioni e ai ricorsi promossi dall’elettore» (ib.).
[51] Terzo comma. Il
concetto di ‘popolarità’ è richiamato anche
dall’art. 3, rubricato in generale partecipazione popolare, e
relativo alla partecipazione popolare all’amministrazione locale,
attraverso varie forme; nel testo della legge 142 ciò era possibile
soltanto «innanzi alle giurisdizioni amministrative»; inoltre, le
spese non sono più a carico del cittadino se il Comune
«costituendosi abbia aderito alle azioni e ai ricorsi promossi
dall’elettore» (ib.).
[54] L’istituto
è assente, infatti, nel sistema feudale, ove nè il popolo,
nè il cittadino sono titolari dei beni di uso collettivo. Sul punto cfr.
brevemente G. Sanna, op. cit., 3
s.
[55] Cfr., al riguardo, in
particolare alcune significative sentenze della Corte dei conti: n°
39/1973; n° 108/1975; n° 61/1979; etc. In dottrina cfr., in
particolare, P. Maddalena, Il
danno all’ambiente tra giudice civile e giudice contabile, in Rivista
Critica del diritto privato (1987) 469.
[57] Per una distinzione
tra proprietà formale – in capo allo Stato – e
proprietà sostanziale –in capo alla Collettività– dei
beni in parola, cfr. S. Pugliatti,
La proprietà nel nuovo diritto (Milano 1964) 305.
[58] Con l’unico
‘adeguamento’ formale –ma necessario, nell’ordinamento
giuridico della rappresentanza– della sostituzione all’ente
esponenziale formalmente titolare, ma ciò non esclude che si possa
parlare – a mio avviso – comunque di azione popolare in senso
proprio, alla luce delle ‘premesse’ teorico-dogmatiche su viste. In
questo senso cfr., del resto, già il Maddalena, secondo il quale si può parlare di «una
vera e propria azione popolare (sia pur riconosciuta non a tutti, ma solo alle
associazioni più rappresentative)». (P. Maddalena, Il diritto dell’uomo alla conservazione e
gestione del mare: azione e giurisdizione, in Les zones
protégées en Méditerranée: espaces, espèces
et instruments d’application des Conventions et Protocoles de