N. 5 – 2006 – Tradizione Romana
Università
di Cagliari
Appunti
in tema di obbligazioni generiche tra ‘bona
fides’ ed ‘aequitas’
Sommario: 1. Insufficienza di un ‘dogma’. – I.
2. I problemi posti da Lab. D.
19.2.60.7 ed Ulp. D. 9.2.27.34. – 3. Esegesi di Lab. D. 19.2.60.7. –
4. Segue.
Locazione ‘cum definitione personae’.
– 5. Segue.
Locazione ‘sine definitione personae’.
– II. 6. Sul problema dell’id quod actum est: esegesi di Pomp. D.
19.5.26. – 7. Id quod actum est ed aequitas:
esegesi di Pomp. D. 12.1.3. – 8. Estensione del ‘modello’ alla condictio indebiti. – III. 9. Individuazione
della specie ed exceptio doli:
esegesi di Iav. D. 17.1.52. – 10. Individuazione della specie ed actio de dolo: esegesi di Afr. D.
30.110. – 11. I problemi
posti dalla tradizione romanistica: criticità della ‘corrispondenza’ tra gli
artt. 664 c.c. e 1178 c.c.
È insegnamento
costante e diffuso, come si può agevolmente rilevare anche da un semplice
sguardo alla nostra manualistica, che «nelle
obbligazioni generiche, la scelta spetta, di regola, al debitore: solo in
qualche passo si accenna alla possibilità di affidare la scelta al creditore.
All’interno del genus il debitore
stesso poteva scegliere qualsiasi cosa, anche quella della qualità peggiore: i
temperamenti nel senso che si dovesse prestare la cosa di qualità media
sembrano, in effetti, dovuti ad interventi postclassici o giustinianei»[1]. Si tratta di un’impostazione che tuttora è debitrice, in linea
di massima, dei risultati cui erano pervenuti lo Scialoja[2] e, in particolare, il Vassalli[3], successivamente seguito dall’Albertario[4] che aveva riesaminato l’argomento in polemica con le perplessità
manifestate dal De Ruggiero[5], orientato per una soluzione nettamente meno radicale – ma non
per questo di per sé più convincente – quanto alla configurazione della
disciplina tra diritto classico e diritto giustinianeo.
Ora, se questa ‘regola’ in linea di principio[6] funziona bene ove riferita all’attuazione di rapporti
obbligatori di stretto diritto, che in fin dei conti costituiscono il ‘modello’
per la sua configurazione su base casistica[7], quanto meno qualche dubbio deve porsi, a mio parere, per l’‘applicazione
incondizionata’ di essa anche nell’ambito dell’attuazione di rapporti
obbligatori di buona fede, in cui da un lato la particolare ampiezza della
prestazione, dall’altro l’indiscutibile esistenza – almeno a seguire le tesi
del Cannata[8] – di specifici doveri di praestare
posti a sussidio della sua esatta esecuzione potrebbero condurre, a volte, ad
impostazioni che difficilmente consentono di delineare con chiarezza alcuni
specifici problemi posti dalle fonti a nostra disposizione.
Un approccio ‘aperto’ alla questione può condurre non tanto a ripensare il ‘dogma’ che consente a qualsiasi debitore di genere, ricorrendo al
modello dell’obbligazione di dare in
senso tecnico, di consegnare qualsiasi cosa tra quelle individuabili
all’interno del genus dedotto in obligatione; quanto piuttosto a
percepire come, in realtà, il problema appaia di sicuro più complesso di quanto
normalmente si creda: e ciò perché, come esattamente rilevavano sia il Perozzi[9]
sia il Grosso[10],
il tema dell’esistenza di «limiti e requisiti
riguardo alla qualità perché un oggetto possa essere prestato con efficacia
liberatoria» costituisce, in primo luogo, «un problema
d’interpretazione».
Muovendo da
quest’ultima precisazione, la nostra indagine si articolerà lungo tre linee
direttrici fondamentali: esamineremo, innanzitutto, un caso in cui si pone un
problema di responsabilità contrattuale che Labeone collega ad una valutazione,
in termini di culpa, circa l’electio della res da parte del debitore di genere, qualora ne derivi un danno; in
secondo luogo, tenteremo l’esegesi di due interessanti passi di Pomponio, in
cui il contenuto della prestazione, sulla base di un’interpretazione dell’id quod actum est che appare
condizionata dal recepimento di valori determinati da bona fides ed aequitas,
non appare limitato al genus in
quanto tale, ma comprende altresì una specifica ‘qualitas’ implicitamente determinata dal contenuto della
convenzione; infine, verificheremo come alcuni spunti propri di queste
soluzioni tendano a ‘proiettarsi’ nella
configurazione del contenuto dell’obbligazione di dare in senso tecnico tramite i rimedi pretori de dolo malo.
Avremo modo, infine,
di esaminare, seppur per grandi linee, alcuni problemi posti dalla tradizione
romanistica e, in particolare, dalla ‘corrispondenza’ che
parte della dottrina civilistica, in una prospettiva a mio parere discutibile,
tende a riconoscere nel contenuto delle norme previste dagli artt. 664 e 1178
c.c.: al riguardo vedremo, infatti, come risulti necessario, per una piena
comprensione della questione, tenere chiara la distinzione, che emerge con
chiarezza nelle fonti romane, tra qualità della prestazione da individuarsi
secondo l’interpretazione di buona fede[11],
e doveri di praestare sussidiari alla
sua esecuzione, che – ove violati – possono implicare questioni di
responsabilità contrattuale.
I.
Parte della dottrina
ha ipotizzato una possibile divergenza di vedute tra Labeone e Mela[12]
in due noti passi, in cui è discussa una casistica in fin dei conti analoga:
Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60.7 Servum meum mulionem conduxisti:
neglegentia eius mulus tuus perit. Si ipse se locasset, ex peculio duntaxat et
in rem vers[um] <o me> damnum tibi praestaturum dico: sin autem ipse eum
locassem, non ultra me tibi praestaturum, quam dolum malum et culpam meam
abesse: quod si sine definitione personae mulionem a me conduxisti et ego eum
tibi dedissem, cuius neglegentia iumentum perierit, illam quoque culpam me tibi
praestaturum aio, quod eum elegissem, qui eiusmodi damno te adficeret.
Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.27.34 Si quis servum conductum ad mulum regendum,
commendaverit ei mulum; ille ad pollicem suum eum alligaverit de loro, et mulus
eruperit sic, ut et pollicem avelleret servo et se praecipitaret, Mela scribit:
si pro perito imperitus locatus sit, ex conducto agendum cum domino ob mulum
ruptum vel debilitatum; sed si ictu aut terrore mulus turbatus sit, tum dominum
eius [id est muli] et servi cum eo qui turbavit, habiturum legis Aquiliae
actionem. <?>
Mihi autem videtur et eo casu, quo ex [locato?] <conducto?> actio est,
competere etiam Aquiliae.
Esaminiamo,
innanzitutto, le fattispecie descritte dai due giuristi.
Nel primo passo, in
cui – a prescindere dal problema palingenetico[13]
– indubbiamente viene riferito quanto meno un nucleo di pensiero labeoniano, Tu
è conduttore di un servo mulattiere di Ego; per la negligenza del mulattiere,
il mulo di Tu muore. Se è stato il servus
a concedere se stesso in locazione, Tu può esperire contro Ego l’a. ex conducto ‘ex peculio dumtaxat et in rem verso’[14];
se, invece, è stato Ego a concludere la locatio
conductio, egli risponderà dell’evento nei limiti della propria culpa e del dolo. Ad ogni modo, se in
quest’ultima configurazione delle modalità di conclusione del contratto le
parti hanno dato vita ad una locatio
conductio avente ad oggetto un qualsiasi mulio, senza che Tu abbia richiesto in conduzione una persona precisa e spetti, quindi, ad Ego
la relativa individuazione, quest’ultimo risponderà anche per quella culpa che potrebbe eventualmente
ravvisarsi nella scelta di un soggetto rivelatosi capace di cagionare al
conduttore un simile danno.
Nel secondo passo – i
cui contenuti mi pare siano stati colti esattamente, in particolare, dalla Piro[15]
che, tuttavia, non esamina anche il primo[16]
– si fa il caso di una locazione avente ad oggetto un servus per la precisa finalità di badare
ad un mulo, che gli viene affidato in custodia. Il servo si lega al pollice le
redini del mulo; l’animale si libera strappandogli il dito e poi cade
rovinosamente[17].
Secondo Mela, si può agire ex conducto
per i danni occorsi al mulo (‘ob mulum
ruptum vel debilitatum’) qualora sia stato concesso in locazione un
soggetto inesperto anziché uno esperto; tuttavia, se il mulo si è imbizzarrito
per un colpo od uno spavento, sia il dominus
del servus che ha perso il pollice,
sia il dominus del mulo ruptus vel debilitatus possono agire ex lege Aquilia contro il soggetto che
vi ha dato causa.
La frase finale di
Ulp. D. 9.2.27.34 crea non pochi problemi; e mi pare destinato a rimanere
aperto, in particolare, quello relativo all’individuazione del contenuto
dell’argomentazione di Ulpiano.
Chi, infatti, ritenga
di poter sostituire il riferimento ad un’a.
ex locato con un altro all’a. ex
conducto ricordata precedentemente da Mela, può ipotizzare che, secondo il
giurista severiano, il conduttore potesse agire anche ex lege Aquilia[18]
non solo cum eo qui mulum turbavit,
ma altresì contro il dominus servi
per i danni occorsi al mulo[19];
chi, invece, congetturi che dopo il termine ‘actionem’ sia caduto un ulteriore sviluppo della quaestio, in cui si sarebbe discusso
dell’eventualità e delle condizioni di una tutela contrattuale a favore del dominus servi per il danno occorso al
suo schiavo, rimasto mutilato per la perdita di un dito, può considerare un
indizio di questa possibile compressione del testo il riferimento, che sarebbe
quindi corretto, non già ad un’a. ex
conducto, ma semmai all’a. ex locato,
che spetterebbe al dominus servi,
ancora una volta in concorso con quella aquiliana, contro il dominus muli, conduttore del servus. Questa congettura potrebbe
avvalorarsi qualora si ipotizzasse che, nel tratto che potrebbe risultare ‘tagliato’ dai commissari giustinianei, si esaminasse il caso in
cui fosse stato proprio il dominus muli,
e non un terzo, a far imbizzarrire il mulo, con i conseguenti danni al servus conductus.
Al riguardo, mi
limito a prospettare la duplice possibilità di lettura critico-testuale di
questo tratto del passo in esame e, nel contempo, a dichiarare il mio
esercizio, in questo caso, dell’ars
nesciendi.
Non interessa,
infatti, in questo lavoro, discutere di questa specifica soluzione di Ulpiano;
semmai, si vorrebbe qui approfondire in quale prospettiva la soluzione dell’a. ex conducto indicata da Mela possa
ritenersi sovrapponibile alla soluzione labeoniana relativa alla locatio conductio mulionis.
Mi pare del tutto
evidente, infatti, che in Lab. D. 19.2.60.7 si discute della diversa
impostazione del problema della responsabilità qualora dalla locatio conductio sorga un’obbligazione
di specie rispetto all’ipotesi in cui, invece, ne sorga una di genere (quasi
certamente di genus cd. ‘limitatum’,
se il mulio rientra tra i servi della familia del locatore[20]);
mentre in Ulp. D. 9.2.27.34 il punto di vista di Mela, almeno a mio parere,
parrebbe esclusivamente quello della configurazione dei presupposti di una
responsabilità per inadempimento di un’obbligazione di specie, come ora
cercheremo di dimostrare.
Vediamo quindi i
problemi che normalmente si pongono nell’approccio esegetico a questi testi.
Secondo il Cannata[21],
in Lab. D. 19.2.60.7, a differenza che in Ulp. D. 9.2.27.34, «si dà per assodato che lo schiavo locato è un mulio (servum mulionem conduxisti) e quindi peritus»; sicché «il fatto dannoso
deriva dunque da un contingente comportamento concreto dello schiavo, e non da
una sua qualità, presente al momento del contratto»[22].
Il Cardilli, nel rilevare e discutere il problema posto dal Cannata, propone
una diversa esegesi – per certi versi coincidente con quella della de Falco[23]
– ed osserva che, piuttosto, «il criterio di Mela
fonda il rimprovero mosso al locatore sul fatto che egli loca un mulione
inesperto per esperto. Al contrario Labeone vuole evitare proprio il giudizio
sulla idoneità del servus su cui cade
l’electio del locatore considerando
quest’ultimo, per il semplice verificarsi della scelta stessa, in culpa per il perimento del mulo dovuto a
negligenza del ‘servo’-mulio,
prescindendo quindi dall’ulteriore valutazione se lo schiavo potesse o meno
considerarsi effettivamente peritus»[24].
A mio parere,
tuttavia, più che ad una divergenza di vedute tra Labeone e Mela si può
configurare una tendenziale omogeneità di valutazione, purché si tenga presente
che, se entrambi i giuristi chiariscono, seppur da una diversa angolazione, il
problema della responsabilità nel caso di un’obbligazione di specie, solo
Labeone esamina – nella seconda parte del passo – un problema riconducibile
all’inadempimento di un’obbligazione di genere, che
appare di particolare interesse ove si
consideri che la prestazione, in questo caso, non ha ad oggetto il dare in senso tecnico proprio di sponsiones e legati obbligatori –
‘modello’ teorico e metodologico per la ricostruzione normalmente accolta
dell’istituto in esame – ma, piuttosto, quanto rientri nell’ambito del ‘quidquid dare facere oportet ex fide bona’.
In quest’ordine di
idee, deve essere esclusa, secondo me, la possibilità di ‘sovrapporre’ il problema della culpa nell’individuazione del mulio
discussa da Labeone a quello del ‘servum
imperitum pro perito locare’ prospettato da Mela: quest’ultima
configurazione della questione – come già chiariva il Pothier[25]
– corrisponde, piuttosto, al problema che Labeone esamina per primo. Vediamone
le ragioni, non prima, però, di aver chiarito il significato del riferimento
alla neglegentia del servus nell’argomentazione di Lab. D.
19.2.60.7, che riveste carattere preliminare.
Il testo di Lab. D.
19.2.60.7 contiene, infatti, un
riferimento alla neglegentia del mulio e non, come forse ci saremmo
attesi, all’imperitia quale ‘modello’ del giudizio di rimprovero
mosso al servus: del resto, che la
normale attività ‘tecnica’ di un mulio dia luogo a problemi di imperitia risulta bene da
Gai. 7 ad ed. prov. D. 9.2.8.1 Mulionem quoque,
si per imperitiam impetum mularum retinere non potuerit, si eae alienum hominem
obtriverint, vulgo dicitur culpae nomine teneri…
Ai tempi di Gaio è
ormai invalso (‘vulgo dicitur’)
considerare un’ipotesi di culpa
l’eventualità che un mulattiere, ‘per
imperitiam’, non risulti in grado di governare l’impetus mularum[26].
A ben vedere, però, l’apporto di Celso, discusso in Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.9.5[27],
va riferito non già alla novità in sé della rilevanza dell’imperitia, ma alla sua riconduzione dommatica a culpa[28];
in Lab. D. 19.2.60.7, poi, non si discute di una culpa mulionis, ma di quella che ne potrebbe essere la struttura
pratica nella prospettiva dell’individuazione, semmai, di una culpa domini. In sostanza, più che ad
una particolare prospettiva ‘culturale’ di
Labeone, che potrebbe non aver ancora elaborato l’imperitia come contenuto di una culpa,
mi parrebbe forse preferibile non ‘contrapporre’ il
modello della neglegentia a quello
della imperitia e pensare, piuttosto,
che il giurista si riferisse, in termini lati, ad una generica condotta
riprovevole[29],
tanto più ove si consideri che, in questo caso, non emerge una distinzione –
rilevante in altra casistica[30]
– tra operazioni ‘tecniche’ e ‘non tecniche’ del mulattiere.
Chiarito, quindi, in
quali termini possa consistere il contenuto pratico del giudizio di rimprovero
che viene mosso al servus, possiamo
procedere a tentare di delineare a quali condizioni questa neglegentia si riverberi sulla costruzione del criterio di
responsabilità del locatore.
Ripercorriamo,
innanzitutto, l’intero ragionamento del giurista. In Lab. D. 19.2.60.7 i
possibili contenuti del ‘servum mulionem
conducere’ vengono analizzati, a mio parere, secondo un ‘topos’ argomentativo configurato in base
allo schema ‘genus-species’,
normalmente impiegato in funzione classificatoria[31].
Labeone, infatti,
distingue innanzitutto l’ipotesi in cui il contratto sia concluso direttamente
dal servus[32],
con conseguente tutela de peculio et de
in rem verso, dall’ipotesi in cui sia stata conclusa, invece, dal dominus, con conseguente tutela ‘ordinaria’. Quest’ultima ipotesi viene ulteriormente distinta in
due varianti, la cui differentia è
costituita dalla possibilità che il contratto sia stato concluso con o senza
una ‘definitio personae’[33],
vale a dire con l’individuazione di un determinato schiavo al momento del
contratto[34].
La differentia è rilevante in quanto, se la
locazione è stata conclusa cum
definitione personae, grava sul locatore un’obbligazione di mettere a
disposizione del primo una cosa determinata nella sua individualità e, quindi,
un’obbligazione di specie; mentre, nel caso della locazione – come dice il
giurista – ‘sine definitione personae’,
si ricade nel problema dell’obbligazione di genere (limitato?) e, di
conseguenza, nella necessaria valutazione della condotta strumentale alla electio da parte del debitore, che si
riverbera sul piano delle conseguenze della neglegentia
mulionis sul contenuto della culpa
domini che, per Labeone, è diversamente determinabile nelle due
configurazioni della quaestio.
In quest’ordine di
idee, l’insistere del giurista sul dato della ‘definitio personae’ quale elemento che consente di individuare
soluzioni diverse a proposito del contenuto della convenzione sottesa al locare conducere va inteso nel senso che egli ritenesse necessaria
un’indagine sulla comune intenzione delle parti – l’id quod actum est – per determinare il contenuto della prestazione
del locatore[35],
che nel primo caso deve mettere a disposizione un servo mulattiere già
individuato, che non deve essere ‘spacciato’[36]
per esperto quando egli possa aver contezza, conoscendolo, del fatto che in
realtà non lo è, mentre nel secondo deve mettere a disposizione un qualsiasi mulio, forse tra quelli della sua familia, che comunque, per via della
clausola di buona fede, deve essere in grado di realizzare la funzione per cui
la conductio è stata conclusa.
Se si considera che
quest’ultima ipotesi è introdotta come ‘variante’ rispetto
alla prima, è agevole desumere che la regola del ‘non ultra me tibi praestaturum, quam dolum malum et culpam meam abesse’
sia riferibile alla prima suddivisione della quaestio mentre la soluzione che fa leva su una ‘particolare’ configurazione della culpa (‘illam quoque culpam me tibi praestaturum aio’)
si riferisca alla seconda suddivisione.
Soffermiamoci,
quindi, sul contenuto del criterio di responsabilità.
Nel primo caso, mi pare
che possano trarsi indizi utili per comprendere il significato dell’operazione
concettuale compiuta dal giurista dall’analisi del riferimento al possessivo ‘mea’ per qualificare la culpa domini in una con il ricorso alla
precisazione ‘non ultra praestare’
del locator verso il conductor; nel secondo, credo si debba
insistere sul significato che assume la congiunzione ‘quoque’ con cui, come osserva esattamente il Cardilli[37],
il giurista «accentua» la
particolarità della soluzione proposta.
Esaminiamo, quindi,
innanzitutto il caso della locazione ‘cum
definitione personae’ al momento del contratto (‘sin autem – abesse’). A mio avviso, in questa ipotesi il giurista
legge i doveri di praestare del locator in termini ‘restrittivi’, per modo che a quest’ultimo è riferibile
esclusivamente una culpa propria.
Labeone, peraltro,
non chiarisce quale sia il contenuto di questa culpa in relazione alla neglegentia
del servus: un utile riscontro in tal
senso può, tuttavia, rinvenirsi nella soluzione di Mela che, in Ulp. D.
9.2.27.34, secondo me concede l’a. ex conducto per l’inadempimento di un’obbligazione di specie, in
quanto il locatore che versi in culpa
deve risarcire l’interesse del conduttore ad utilizzare ‘ad mulum regendum’ il servus
determinato nella sua individualità e, con essa, nella sua capacità tecnica.
Vediamo, a questo punto, quali siano i possibili argomenti a favore di questa
impostazione del problema.
Quantunque una risposta univoca in tal senso, probabilmente, non
possa essere data con sicurezza, a mio parere depone per la costruzione di
un’obbligazione di specie, innanzitutto, il riferimento alla specifica funzione
che connota l’uti frui (‘mulum regere’, vale a dire tenere a bada
un mulo).
Da questo punto di
vista, nonostante il linguaggio adoperato nell’argomentazione di Mela, il
locatore non deve consegnare un qualsiasi servus,
ma piuttosto il servus che risulta
individuato per tenere a bada il mulo del conduttore. Condivido, quindi, in questa
prospettiva l’esegesi del Cannata che argomenta in un ordine di idee che
presuppone la configurazione di una locazione di specie e, di conseguenza,
osserva esattamente che il locatore risponde se ‘spaccia’ il servus come peritus quando invece è imperitus[38]:
la responsabilità deriva, quindi, a mio parere, da una condotta riprovevole del
locatore che, nella cooperazione alla specifica individuazione del servus al momento del contratto, ha il
dovere di evitare esiti o circostanze ostative alla realizzazione del programma
d’obbligazione[39]
e, quindi, di assicurare al conduttore che il servus che gli viene messo a disposizione sia obiettivamente capace
di ‘mulum regere’.
In secondo luogo, un problema analogo emerge, a mio avviso, in tema di tutela
edilizia del venditore in due frammenti che devono essere riferiti non già,
come era orientata parte della più risalente dottrina[40] ed, oggi, il Pastori[41], a casi di vendita di genere ma, piuttosto, come esattamente
osserva il Cannata[42], a vendite di specie, in cui il venditore deve praestare non una particolare qualità
della res dedotta in obligatione all’interno di un genus, ma piuttosto le qualità di un
determinato servus, oggetto del dictum venditoris pronunciato in
occasione del perfezionamento del contratto.
Si considerino, infatti, le soluzioni di Gai. 1 ad ed. aedil. cur. D. 21.1.18.1-2 e di
Ulp. 1 ad ed. aedil. cur. D.
21.1.19.4:
Gai. 1 ad ed.
aedil. cur. D. 21.1.18.1 Venditor, qui optimum cocum esse dixerit, optimum
in eo artificio praestare debet: qui vero simpliciter cocum esse dixerit, satis
facere videtur, etiamsi mediocrem cocum praestet. Idem et in ceteris generibus artificiorum.
(2) Aeque si quis simpliciter dixerit peculiatum esse servum, sufficit, si is
vel minimum habeat peculium.
Ulp. 1 ad ed.
aedil. cur. D. 21.1.19.4 Illud sciendum est: si quis artificem promiserit
vel dixerit, non utique perfectum eum praestare debet, sed ad aliquem modum
peritum, ut neque consummatae scientiae accipias, neque rursum indoctum esse in
artificium: sufficit igitur talem esse, quales vulgo artifices dicuntur.
Non è possibile, in
questo lavoro, riesaminare compiutamente il problema della vendita di genere[43].
Mi limiterei, piuttosto, unicamente ad evidenziare che questi due frammenti, ancora
una volta nonostante il linguaggio adoperato, trattano senz’altro di una
vendita di specie: con il ‘promittere vel
dicere’ il venditore non si obbliga a consegnare all’acquirente un
qualsiasi servus tratto dalla classe
dei coci, dei peculiati, o più in generale degli artifices; piuttosto, egli assicura (praestat) che il servus
oggetto della compravendita – dunque la specie individuata al mercato – è un cocus, un peculiatus o, più in generale, un artifex[44].
In questo caso, il dovere del debitore di consegnare un soggetto ‘ad aliquem modum peritus’, purché in
conformità al dictum, implica una sua
responsabilità – che riterrei prescindere dal dolo[45]
– solo ove sia poi consegnato un servus
imperitus, come avviene nella
soluzione di Mela in tema di locazione. In quest’ultimo caso, la questione
genera un problema di imputazione dell’inadempimento per culpa, di cui il giurista descrive la struttura pratica, in quanto
in tale ipotesi la capacità tecnica del servus
non rientra in un dicere vel promittere,
ma nell’ambito del quidquid dare facere
oportet ex fide bona al cui sussidio è posto un dovere di diligentiam praestare.
In sostanza, in Ulp.
D. 9.2.27.34 il servus risulta
individuato dalle parti in funzione di realizzare lo specifico uti frui del ‘mulum regere’, per modo che solo qualora sia stato locato un servus imperitus, ‘spacciato’ per peritus, al locatore è imputabile – a
titolo di culpa – il danno cagionato
al mulo che, quindi, costituisce il parametro dell’interesse risarcibile che il
conduttore può ottenere mobilitando l’a.
ex conducto.
In questa
prospettiva, il punto di vista di Labeone in D. 19.2.60.7 e di Mela in D.
9.2.27.34 diverge non tanto per via della parziale diversità della fattispecie
(nel primo caso, in cui il mulo ‘perit’,
viene locato un mulattiere; nel secondo, in cui il mulo risulta meramente ‘ruptus vel debilitatus’, il compito di
generica sorveglianza – ‘commendare’
– affidato allo schiavo fa pensare, piuttosto, ad una sorta di ‘stalliere’)[46],
quanto piuttosto perché mentre Mela esamina l’imputazione della responsabilità
contrattuale sul piano del suo ‘dato strutturale’,
Labeone si orienta direttamente su quello del criterio utilizzabile: in altri
termini, il riferimento a ‘servum
imperitum pro perito locare’ di Mela descrive semplicemente la struttura
pratica del ‘culpam praestare’
richiamato da Labeone nella prima parte di Lab. D. 19.2.60.7[47].
Se ne deve desumere
che, in caso di locazione di una specie, riconducibile – in ultima analisi – ad
un ‘servus ad aliquem modum peritus’
a seconda del concreto assetto d’interessi, la culpa sussiste solo qualora ‘pro
perito imperitus locatus sit’ e che, quindi, solo nel caso della locazione
‘sine definitione personae’,
esaminata da Labeone, la neglegentia
del servus genera un problema di culpa la cui struttura pratica appare in
una certa misura diversa – come ora vorremmo dimostrare – da quella di cui
sinora abbiamo discusso.
Veniamo, quindi, alla
soluzione di Labeone applicabile qualora la locazione sia avvenuta ‘sine definitione personae’. Le
conseguenze della neglegentia mulionis
sono, anche in questo caso, senz’altro un problema di culpa; il criterio, però, come si accennava, non è inteso in senso ‘restrittivo’ quale mera ‘culpa
mea’ – basata sulla struttura del ‘imperitum
servum pro perito locare’ esplicitata da Mela – ma si configura come un
criterio per così dire ‘autonomo’, che ‘comprende’ a determinate condizioni, diversamente configurate rispetto
al caso precedente, i rischi conseguenti alla neglegentia del servus,
in quanto l’operazione di individuazione dello schiavo è stata compiuta dal
locatore.
Nella (valutazione della) scelta della res da parte del locatore obbligato a dare (in senso atecnico) un
(qualsiasi) mulio è, quindi, insita
la possibilità di riconoscere altresì un’attribuzione di rischio che è
corollario pratico[48] di un particolare dovere di praestare,
riconducibile sul piano dommatico ad una prestazione sussidiaria, funzionale ad
assicurare l’esatto adempimento[49] ma tendenzialmente distinguibile da quella che configura la
struttura pratica del criterio della culpa
nel caso dell’obbligazione di consegnare un mulio
determinato.
In quest’ordine di
idee, la bona fides incide sulla valutazione
dell’id quod actum est in quanto per
il giurista è implicito, nella convenzione sottesa alla locatio conductio, un
dovere di consegnare al conduttore non un qualsiasi servo, anche il peggiore
della sua familia, ma un servo idoneo
alla funzione che connota il synallagma.
A tale prestazione ‘accessoria’ ed autonomamente azionabile – che rientra, cioè,
nell’ex fide bona quale ulteriore ‘ampliamento’ di quanto rientri nel quidquid dare facere oportet[50]
– è posto a sussidio un dovere di praestare
che, ove violato, rappresenta la struttura pratica della (particolare figura
di) culpa esplicitata nel passo, che
consiste nel dovere di adoperarsi perché non insorgano esiti o circostanze
ostative a realizzare la prestazione principale dovuta determinata ex fide bona, vale a dire mettere a
disposizione del conduttore un mulio
idoneo alla funzione per cui è stata conclusa la locatio conductio.
È questa, secondo me,
la ragione per cui la congiunzione ‘quoque’
«accentua»[51],
come si accennava, la particolarità della soluzione proposta, che va forse
letta nel senso che il contenuto del dovere di praestare in questo caso non coincide, sic et simpliciter, con il dovere di diligentiam /peritiam praestare che, normalmente, rappresenta il
dato strutturale della culpa
contrattuale[52],
ma si connota, semmai, come una significativa variante di queste entità
concettuali.
Questa culpa, infatti, quantunque –
diversamente da quanto ritiene il Cardilli[53]
– debba ritenersi un criterio soggettivo di responsabilità (i congiuntivi adoperati
depongono per la mera eventualità della sussistenza della violazione di un
dovere di praestare), non può essere
riferita, come nei casi ‘genuini’ di
responsabilità per fatto altrui, alla valutazione di una neglegentia nell’individuazione di un ausiliare del debitore, dato
che il servus mulio è oggetto della
prestazione e non collaboratore nell’adempimento[54].
Essa giustifica, piuttosto, una particolare ‘responsabilità per la
scelta della specie all’interno del genus’
nell’attuazione ex fide bona di un’obbligazione
di genere diversa da quella di dare
servum in senso tecnico.
Proviamo, a questo punto, a trarre alcune indicazioni da quanto
sinora emerso.
Innanzitutto, sul piano della ‘bonae fidei interpretatio’ la soluzione di Labeone appare davvero
significativa in quanto, per il giurista, in un rapporto obbligatorio di buona
fede quale è la locatio conductio, la
qualità della specie non può essere, come normalmente si insegna, anche «quella
della qualità peggiore»[55] all’interno del genus
dedotto in obligatione[56].
Il ‘dogma’ da cui abbiamo preso le mosse appare, quindi,
insufficiente per configurare i termini del problema in esame, tanto più ove si
consideri che a sussidio della prestazione di genere così determinata è posto
uno specifico dovere di praestare
funzionale ad assicurare al creditore la correttezza della electio – che è qui una ‘electio
ex fide bona’ – che spetta al debitore. In questa prospettiva, poi, è
importante sottolineare non solo come il debitore non possa mettere a
disposizione del creditore anche la cosa peggiore tra quelle che rientrino nel genus, seppur contingentemente
determinato[57], ma altresì come in tal caso possano porsi problemi di
responsabilità.
Ne consegue, a mio avviso, che la sua scelta non è affatto
‘libera’.
In secondo luogo, sul piano del contenuto del criterio di
responsabilità non v’è una significativa divergenza di vedute tra Labeone e
Mela, purché si accetti l’idea che la soluzione di quest’ultimo non costituisce
altro che la descrizione della struttura pratica del ‘non ultra praestare, quam dolum malum et culpam abesse’ che connota la responsabilità del locatore in caso di
obbligazione di specie, implicante la consegna di un ‘servus
mulio’ e non già di un servus
imperitus.
In altri termini, nel
caso della locazione di specie la culpa
sussiste – per Labeone come per Mela – solo qualora al locatore possa essere
rimproverato di aver ‘spacciato’ per peritus un soggetto, già determinato
nella sua individualità, che invece era imperitus,
sicché, ove la condotta del locatore sia immune da tale censura, può aver luogo
esclusivamente l’azione extracontrattuale nossale[58];
nel caso della locazione di cosa generica, invece, la neglegentia del servus
può costituire un rischio per il locatore qualora egli risulti aver violato uno
specifico dovere di praestare posto a
sussidio di una ben precisa ‘electio ex
fide bona’ all’interno del genus
dedotto in obligatione, qualificato dalla particolare funzione dell’uti frui che emege dall’indagine sull’id quod actum est[59].
Appare pienamente chiarito e giustificato, infine, il fondamento
storico del discorso del Cannata[60] che, nell’analisi del rapporto obbligatorio nel nostro
ordinamento privatistico, distingue quattro (rectius, tre, ma confluiti in quattro distinte norme) fondamentali
‘precipitati storici’ – le prestazioni sussidiarie – dell’obbligazione di praestare romana nel Codice civile del
1942.
Accanto al dovere di neglegentiam
/ imperitiam praestare, confluiti rispettivamente nel primo e nel secondo
comma dell’art. 1176 c.c., egli ricorda anche il dovere di custodia di cui
all’art. 1177 c.c.[61] ed il dovere di praestare
la qualità media nelle obbligazioni di fornire cose determinate solo nel genere
ex art. 1178 c.c.[62], in una con la sua ‘eccezione’, indicata nell’art. 1179 c.c.,
che consente invece la libertà di scelta della garanzia idonea a chi sia tenuto
a prestarla. Il ragionamento di Labeone, che distingue un ‘culpam praestare’ inteso in senso ‘generico’ nel caso di consegna
di una cosa determinata nella sua individualità da quello inteso in senso
‘particolare’ nel caso in cui deve essere consegnata, invece, una cosa generica
che impone al debitore un dovere sussidiario ad un ‘eligere ex fide bona’ rispecchia, con evidenza, il fondamento
culturale e pratico della distinzione tra i contenuti del precetto di cui
all’art. 1176 c.c. (‘sin autem ipse eum
locassem, non ultra me tibi praestaturum, quam dolum malum et culpam meam
abesse’) e quelli di cui all’art. 1178 c.c. (‘quod si sine definitione personae mulionem a me conduxisti
et ego eum tibi dedissem, cuius neglegentia iumentum perierit, illam quoque
culpam me tibi praestaturum aio, quod eum elegissem, qui eiusmodi damno te
adficeret’)[63].
In questa prospettiva, come vedremo meglio in occasione
dell’analisi dei problemi posti dalla tradizione romanistica[64], l’art. 1178 c.c. rappresenta una prestazione sussidiaria
«propriamente detta»[65] che ha un contenuto ‘diverso’ da quello imposto dalla regola di
cui all’art. 1176 c.c.: ove violato, il dovere di assicurare la presenza di certe
qualità della cosa, implicite nella convenzione che genera l’obligatio, ridonda, infatti, in un
‘particolare’ problema di culpa, che
già nel modello labeoniano risulta tale proprio perché il giurista si rende
conto del fatto che la propria soluzione, nel momento in cui viene accentuata
la peculiarità del giudizio d’imputazione della responsabilità, risulta
significativamente diversa da quella utilizzata, al medesimo fine, nel caso
della locazione di un servus
determinato nella sua individualità.
II.
Nel passo di Labeone
di cui sinora si è discusso il problema della responsabilità del debitore di
genere emerge, se così si può dire, ‘incidentalmente’
rispetto al dato ‘centrale’ della
interpretazione secondo la comune volontà delle parti: nel caso esaminato dal
giurista, infatti, la res, proprio
perché individuata nel genus dei servi del locatore (e, tra questi, uno
che fosse idoneo a soddisfare le contingenti esigenze del conduttore) cagionava
un danno per una propria culpa,
aspetto non ravvisabile, ovviamente, qualora la res non sia costituita da un essere umano.
L’indagine impone, a
questo punto, un ulteriore approfondimento del tema della determinazione del
contenuto dell’obbligazione di genere dal punto di vista dell’interpretazione
dell’id quod actum est, che si
ripresenta puntualmente, a prescindere da problemi di responsabilità
contrattuale, in alcune soluzioni[66]
in tema di prestazione di cose fungibili[67].
Passiamo, quindi, ad
esaminare innanzitutto il problema del contenuto di un’obbligazione di genere
che sorga da una convenzione innominata. Si consideri, infatti,
Pomp.
21 ad Sab. D. 19.5.26 (Lenel, Pomp. 685) Si tibi scyphos dedi,
ut eosdem mihi redderes, commodati actio est: si, ut pondus argenti redderes
quantum in illis esset, tantidem ponderis petitio est per actionem praescriptis
verbis, tam boni tamen argenti, quam illi scyphi fuerunt: sed si ut vel hos
scyphos vel ut eiusdem ponderis argentum dares, convenit, dicendum est, <si
quidem tua est electio, scyphos statim tuos fieri et te mihi dare posse aut
scyphos aut argenutm utrum malis: quod si mihi permissum est eligere, scyphos
tuos non fieri antequam dixero me eos habere nolle>. (1)
(1) rest. Th. Mommsen
ex Bas. 20.4.26 (Scheltema, BT
1013, lin. 21-24).
Nel caso in cui Ego
consegni a Tu delle coppe d’argento con l’intesa circa la loro restituzione, la
fattispecie è riconducibile (per Pomponio forse senza problemi[68])
ad un comodato. Se, invece, Ego le consegna con l’intesa che Tu dovrà
restituirgli la stessa quantità d’argento – non già lo stesso argento – di cui
sono composte, la convenzione è innominata, sicché per la tantidem ponderis petitio
gli è concessa un’azione che, secondo il Burdese, è senz’altro l’a. praescriptis verbis[69]
modellata su quella commodati[70], mentre secondo il Gallo[71],
recentemente seguito dallo Stolfi[72],
il riferimento ai praescripta verba
indicherebbe semplicemente che sarebbe concessa al dans una particolare applicazione, in via utilis, di una condictio
certae rei. In questo caso, ad ogni modo, il giurista precisa che l’argento
da consegnare a Ego deve essere della stessa qualità di quello di cui sono
composte le coppe.
Nell’ulteriore
sviluppo della quaestio, che il
Mommsen ricostruiva[73]
alla luce del textus Basilicorum, il
giurista introduce anche il problema dell’obbligazione alternativa e configura
l’ipotesi che Tu debba restituire ad Ego o le coppe o la quantità di argentum di cui sono composte,
precisando che, ove l’electio spetti
a Tu, la datio rei ha immediatamente
(‘statim’, nella ricostruzione del
Mommsen) effetto traslativo e quindi quest’ultimo deve trasferire ad Ego la
proprietà delle une o dell’altro; nel caso, invece, in cui la scelta spetti ad
Ego, la datio rei non ha effetto
traslativo sino a quando questi non abbia dichiarato di non volere le coppe ma,
piuttosto, l’argentum.
Anche a voler
tralasciare – per il momento – una più precisa indagine sulla configurazione e
gli effetti della convenzione innominata, è interessante osservare come,
qualora Tu debba consegnare l’eiusdem
ponderis argentum, il giurista senta la necessità di precisare che sull’accipiens grava un dovere di consegnare
argento della stessa qualità di quello di cui erano composte le coppe.
La soluzione mi pare
condizionata dalla circostanza che, in questo caso, a mio avviso la prestazione
dell’accipiens ha ad oggetto un ‘reddere’ che, a ben vedere, è
assimilabile ad un dare in senso
tecnico[74]
– vale a dire trasferire la proprietà di un determinato quantitativo di argentum – in un rapporto obbligatorio
che, diversamente dal caso delle sponsiones
e dei legati obbligatori, prevede pur sempre specifici doveri di buona fede.
Soffermiamoci, quindi, su questo aspetto che impone di prendere posizione sul
problema dell’azione esperibile dal dans
contro l’accipiens.
Due considerazioni
preliminari, al riguardo, devono essere svolte, l’una in ordine agli effetti
della datio rei, l’altra in ordine
alla funzione dell’azione concessa al dans.
Quanto al primo
aspetto, il complessivo andamento del passo di Pomponio induce a ritenere che
la datio degli scyphi abbia sempre – tranne, come vedremo, in un caso – effetto
traslativo, e che il relativo problema sia centrato unicamente sul momento in
cui tale effetto si verifica. Sul piano palingenetico, del resto, nel libro XXI
dell’ad Sabinum il giurista si
occupava di problemi connessi alla condictio[75],
sicché è quanto meno verosimile che, anche in questo frammento, si ponesse il
problema fondamentale dei presupposti per la configurabilità di un dare e, quindi, ove ammessa, delle sue
conseguenze in funzione di una (contro)prestazione rimasta inadempiuta.
D’altronde, per un
verso, sul piano del linguaggio adoperato, la consegna è qualificata proprio
come dare; mentre, per altro verso, mi sembra
significativo che, nella seconda parte del passo, in cui si fa il caso
dell’obbligazione alternativa, Pomponio senta la necessità di precisare i
presupposti del passaggio della proprietà degli scyphi a favore dell’accipiens:
qualora la scelta tra gli scyphi e l’argentum spetti a quest’ultimo l’effetto
traslativo della datio è ‘immediato’; nel caso in cui, invece, la scelta spetti al dans, esso risulta ‘mediato’, o viene addirittura escluso, a seconda che,
rispettivamente, questi intenda ottenere dall’accipiens l’argentum
oppure le coppe.
Sarebbe dunque priva
di significato concettuale e pratico, a mio avviso, una discussione in questi
termini per il caso dell’obbligazione alternativa se per il giurista l’effetto
traslativo della datio rei fosse stato
escluso nel caso esaminato per primo: se ne deve dedurre la riconducibilità
della fattispecie-base ad un ‘do ut des’
(assai sinteticamente, un ‘do scyphos ut
des argentum’, vale a dire un trasferimento della proprietà degli scyphi argentei posto in essere perché
sia a sua volta trasferita la proprietà del loro corrispondente peso in
argento). A questo punto, l’effetto traslativo della datio degli scyphi
implica che l’accipiens non deve
‘restituire’ lo stesso argento di cui essi erano composti, ma che, piuttosto, è
obbligato a dare argentum,
determinato in un quantitativo pari a quello del peso delle coppe. L’accipiens è, quindi, un debitore di
genere, anche se mi pare difficile dire se di genere ‘limitato’ o ‘illimitato’,
ove si consideri che egli non deve necessariamente trarre dall’argento ottenuto
dalla fusione degli scyphi la specie
con cui può validamente adempiere: di qui l’interesse del giurista ad
introdurre la precisazione ‘tam boni
tamen argenti, quam illi scyphi fuerunt’.
Quanto al secondo aspetto
– problema della funzione dell’actio
– è decisivo, secondo me, rilevare che l’azione ritenuta esperibile non è
concessa per l’interesse alla mera restituzione delle coppe ma, piuttosto, per
tutelare quello ad ottenere il quantitativo di argento corrispondente al loro
peso: il suo scopo pratico è, quindi, la tutela dell’interesse positivo del dans, che potrebbe avere bisogno di un
certo numero di lingotti d’argento per la cura dei propri affari, magari – ad
esempio – per soddisfare uno specifico interesse di un proprio creditore per il
tramite del ricorso al (‘valore reale’ del)
metallo prezioso inteso quale merce di scambio in luogo del denaro.
Ciò chiarito, una condictio ob rem dati re non secuta
sarebbe sicuramente esperibile – tranne – forse – che nel caso dell’obbligazione alternativa
con facoltà di scelta esercitata dal dans
a favore degli scyphi – stante
l’effetto traslativo della datio rei[76];
tuttavia, mobilitando una condictio,
alla luce di quanto sappiamo su struttura formulare (che prevede una condemnatio al ‘quanti ea res est’) e funzione dell’actio (reipersecutoria in
senso stretto, in quanto limitata al mero recupero della valore della res trasferita senza giustificazione al
momento della litis contestatio), l’accipiens otterrebbe soltanto il valore
degli scyphi, cioè qualcosa di meno
addirittura dell’interesse negativo[77].
In sostanza, con la condictio il dans non otterrebbe affatto il valore del suo interesse alla
trasformazione delle coppe nel loro equivalente in argento, che rappresenta l’interesse
positivo cui fa riferimento Pomponio: questo contenuto della funzione reipersecutoria è estraneo, infatti,
alla condictio. Il rimedio dell’a. praescriptis verbis, quindi, non può
essere ricondotto ad una condictio,
seppure in via utilis, in quanto non
funzionale al risultato pratico di cui i giurista discute, ma semmai ad una
forma di tutela ben più ampia che consenta al dans di domandare l’interesse positivo all’attuazione della
(contro)prestazione dipendente dalla datio
traslativa.
In quest’ottica, mi
convince maggiormente l’impostazione del Burdese rispetto a quella del Gallo[78].
Direi forse di più: alla luce della ricostruzione del problema processuale
indicata, da ultimo, dal Cannata[79],
riterrei altresì che la formula dell’actio, in questo caso, seppur non
necessariamente esemplata su quella dell’a.
commodati, contenesse, in luogo della demonstratio
prevista nelle formulae che
presidiano i rapporti obbligatori di buona fede tipici, la descrizione ‘in factum’ del rapporto intercorso tra
le parti[80],
con conseguente intentio in ius concepta
contenente il riferimento alla bona fides[81].
Siamo in grado di
comprendere, a questo punto, la ragione della precisazione in ordine alla bonitas dell’argentum, a torto censurata dal Beretta[82]:
Tu – come abbiamo visto – è debitore di genere, ma pur sempre ex fide bona, sicché egli non si libera
trasferendo al dans la proprietà di
un certo quantitativo di argento di qualsiasi qualità, ma piuttosto di argento
della stessa qualità di quello di cui le coppe erano composte.
Anche in questo caso,
quindi, la scelta della res
all’interno del genus non può
considerarsi ‘libera’: essa risulta
condizionata, piuttosto, dalla necessità di identificare l’oggetto della
prestazione, sul piano dell’id quod actum
est, con un ‘genere qualificato’
che è implicito nel contenuto della convenzione innominata. Di conseguenza,
quantunque l’accipiens sia obbligato
a dare, non può dare qualsiasi cosa, anche la peggiore, individuata all’interno del
genus, ma piuttosto deve dare una determinata quantità di argentum che, per via
dell’interpretazione di buona fede, deve essere di quella stessa qualitas di quello di cui erano composti
gli scyphi.
Ne consegue che, in
un rapporto obbligatorio di buona fede, il debitore di genere – che si tratti
di un genus (limitato?) di cose
infungibili (Lab. D. 19.2.60.7) o di un genus
(illimitato?) di cose fungibili (Pomp. D. 19.5.26) – non può «scegliere qualsiasi cosa, anche quella della qualità peggiore»[83] per adempiere l’obbligazione; e che ciò può implicare, come
effettivamente avviene nel caso del servus
mulio, problemi di responsabilità che, peraltro, devono essere tenuti
distinti dalla diversa problematica della determinazione del contenuto della
prestazione.
L’esegesi di questo
frammento consente, a questo punto, di meglio comprendere, a mio avviso, il
problema della qualità della prestazione di genere nel mutuo. Forse non a caso,
infatti, proprio Pomponio è il giurista cui si deve la soluzione, ricordata dal
Voci[84],
per cui nella prestazione di dare del
mutuatario il tantundem eiusdem generis
comprende, a prescindere da un cavere
in tal senso, anche la bonitas.
Vediamo, quindi, se
tra le due soluzioni del giurista è possibile riscontrare qualcosa di più di
una mera ‘assonanza strutturale’ e passiamo all’esame di
Pomp.
27 ad Sab. D. 12.1.3 Cum quid mutuum
dederimus, etsi non cavimus, ut aeque bonum nobis reddetur, non licet debitori
deteriorem rem, quae ex eodem genere sit, reddere, veluti vinum novum pro
vetere: nam in contrahendo quod agitur pro cauto habendum est, id autem agi
intellegitur, ut eiusdem generis et eadem bonitate solvatur, qua datum sit.
La ragione per cui,
secondo Pomponio, l’obbligazione di dare
del mutuatario comprende anche la bonitas
è ricondotta espressamente ad un problema di aequitas (‘ut aeque bonum
nobis reddetur’): essa, anche in questo caso, a mio avviso «esprime l’esigenza di una disciplina adeguata, nell’ambito di un
quadro istituzionale che è sì dato, ma in cui, all’interno del sistema aperto
del ius controversum, i prudentes possono variare i valori
recepiti, senza che si sentano, però, mai legittimati a sovvertirli
bruscamente»[85].
Se, quindi, il riferimento all’aequitas indica l’esigenza di una ‘variazione’ dei valori
normalmente recepiti, ciò significa che il ius
strictum astrattamente applicabile è ‘iniquo’ perché il mutuatario ben
potrebbe, in quest’ordine di idee, liberarsi restituendo res deteriores rispetto a quelle ricevute: ne consegue che il
giurista, tramite l’aequitas,
‘corregge’ questa soluzione ritenendo implicita nella convenzione sottesa al
mutuo anche la qualitas della res da restituire.
In altre parole, se l’aequitas
guida il giurista nell’interpretazione dell’id
quod actum est così come lo guidava la bona
fides nel caso dell’obbligazione di dare
argentum della medesima qualità di quello ricevuto con la datio degli scyphi nel passo esaminato per primo[86], mi pare in linea di principio convincente lo spunto del
Vassalli che, al riguardo, osservava come in questo caso «il genus dedotto in obbligazione è
precisamente determinato, anche rispetto alla qualità, dalla species che fu data»[87]: l’esegesi dell’insigne Autore va solamente precisata, in quanto
per il giurista è, comunque, l’interpretazione secondo aequitas della convenzione sottesa alla datio rei – che in qualsiasi contratto reale configura l’obligatio[88] – ad imporre di ritenere
determinata la qualitas insieme con
il genus, e non la datio in sé.
Di conseguenza, quantunque in questo caso ci si trovi di fronte
alla condictio, che presidia un
rapporto obbligatorio di stretto diritto[89], la qualità del tantundem non potrà essere deterior, a prescindere da un cavere in tal senso, in quanto nella
configurazione del rapporto obbligatorio tale dovere deve intendersi ‘pro cauto’. Nel tantundem eiusdem generis v’è, quindi, ‘aeque’ anche la eadem bonitas,
sicché, ancora una volta, la scelta non è libera: il che non significa che la
qualità costituisce, di per sé, un naturale
negotii[90]
nel mutuo, ma che, piuttosto, lo diviene per il tramite della ‘funzione normativa’ dell’aequitas,
che a mio avviso svolge il medesimo ruolo della bona fides nella convenzione innominata discussa da Pomponio in 21 ad Sab.
D. 19.5.26.
Una volta che la qualitas che connota il genus dedotto nell’obbligazione del
mutuatario diviene un vero e proprio naturale
negotii, non parrà, a questo punto, disagevole riscontrare, nella più recente
elaborazione di Paolo, una soluzione sovrapponibile a quella or ora esaminata
anche in caso di indebiti solutio:
anche in questa ipotesi, quantunque la figura in esame dia luogo, come noto, ad
un rapporto obbligatorio acontrattuale presidiato da un iudicium stricti iuris, l’oportere
impone comunque all’accipiens,
come nel caso del mutuo ed in quello della convenzione che obbliga a dare l’eiusdem ponderis argentum, di restituire res della medesima bonitas
di quelle indebitamente percepite.
In Paul. 17 ad Plaut. D. 12.6.65.6, a torto un tempo
sospettato ed ora, con il Pellecchi[91],
da ritenersi invece – a parte il riferimento alla condictio pretii giustinianea – un testo sostanzialmente
attendibile, la ‘bonitas’ pare,
infatti, ormai definitivamente ricondotta ad un effetto naturale della vicenda
che genera il rapporto obbligatorio, per modo che l’accipiens ha un dovere
restitutorio che ha ad oggetto un cose generiche qualificate dalla qualità
della specie indebitamente ricevuta:
In
frumento indebito soluto et bonitas est <?> [et si consumpsit frumentum
pretium repetet].
Sul piano dommatico,
non escluderei dunque che la ‘media
sententia’ tradizionalmente ricondotta alla Geistesart giustinianea non
costituisca una integrale ‘novità culturale’
propria del VI secolo ma possa avere, piuttosto, una radice classica
nell’interazione tra l’indagine dei prudentes
nell’ambito delle questioni poste dall’esecuzione di rapporti obbligatori di
stretto diritto e quella relativa ai rapporti di buona fede.
III.
9. Giungiamo, quindi,
alla terza linea direttrice della nostra ricerca per esaminare come, quasi di
riflesso, in alcuni casi in cui il ‘dogma’ in esame appare
pacificamente applicabile dal punto di vista delle logiche del ius civile, il problema della buona fede
nell’individuazione della specie all’interno di un genus emerga comunque e, non a caso, sia presidiata per il tramite
dei rimedi previsti dall’editto pretorio in tema di dolo.
In questa prospettiva
mi sembra particolarmente significativo un passo di Giavoleno. Si tratta di
Iav. 1 epist. D. 17.1.52 [Fideiussorem]
<Sponsorem>, si sine adiectione bonitatis tritici pro altero triticum
spopondit, quodlibet triticum dando reum liberare posse existimo: a reo autem
non aliud triticum repetere poterit, quam quo pessimo tritico liberare se a
stipulatore licuit. Itaque si paratus fuerit reus, quod dando ipse creditori
liberari potuit, [fideiussori] <sponsori> dare et [fideiussor]
<sponsor> id quod dederit, id est melius triticum condicet, exceptione
eum doli mali summoveri existimo.
Prima di procedere
all’analisi del passo, mi pare opportuno ricostruire la fattispecie oggetto
della soluzione del giurista.
Lo sponsor[92],
qualora a garanzia dell’adempimento di un’obligatio
abbia promesso del frumento senza precisarne la bonitas nella conceptio
verborum della sponsio, può
liberare il debitore principale trasferendo al creditore la proprietà di
frumento di qualsiasi qualità: dal debitore, tuttavia, secondo il giurista non
potrà ripetere nessun altro tipo di frumento, se non quello, anche di pessima
qualità, che sarebbe per lui risultato idoneo ad una valida solutio. Pertanto, qualora il debitore
sia disponibile a dare al garante
frumento di quella stessa qualità con cui si sarebbe potuto liberare[93],
ma quest’ultimo agisca egualmente in rivalsa domandando, piuttosto, frumento di
qualità migliore, può essergli opposta l’exceptio
doli.
Due considerazioni
preliminari s’impongono.
In primo luogo, il condicere di cui parla il giurista – che non pare, di per sé, implicare una
qualificazione dell’actio esperibile
– parrebbe semplicemente connotare il riferimento ad un certum petere che, con ogni probabilità, va ricondotto all’a. depensi[94],
con cui – secondo la dottrina maggioritaria[95]
– lo sponsor può agire in regresso,
in questo caso, contro il debitore principale. In secondo luogo, è in questo
caso irrilevante il problema della durior
condicio, in quanto il contenuto della soluzione di Giavoleno non va a
regolare il rapporto tra garante e creditore, ma semmai quello tra garante e
debitore principale: anzi, il presupposto del ragionamento del giurista mi pare
risieda proprio nella circostanza che il garante risulti obbligato verso il
creditore in eandem causam[96].
Ciò chiarito, il
passo, a mio avviso, è interessante dal nostro punto di vista per un duplice
ordine di ragioni.
Innanzitutto, occorre
osservare come, nei rapporti tra sponsor
e creditore, nonché tra quest’ultimo e debitore principale, l’obbligazione
generica di dare in senso tecnico,
dal punto di vista della validità o meno della solutio, risulti senza alcun serio dubbio governata dal ‘dogma’ tradizionalmente accolto[97]: Giavoleno dà, infatti, per presupposto che tanto il garante (‘quodlibet triticum dando reum liberare posse existimo’) quanto il debitore principale (‘si
paratus fuerit reus, quod dando ipse creditori liberari potuit, [fideiussori] <sponsori> dare’) possano liberarsi consegnando
al creditore frumento di qualsiasi qualità, anche della peggiore.
In secondo luogo, mi
pare però davvero significativa la configurazione del rapporto obbligatorio che
intercorre, piuttosto, tra sponsor e
debitore garantito, che si riverbera sul problema dell’individuazione della
specie in quello che intercorre tra garante e creditore.
In quest’ultimo caso,
il collegamento – a rigore di logica indefettibile – tra l’efficacia solutoria
del datum depensum da un lato e la
sua ripetibilità dal debitore principale dall’altro sembra emergere in termini
in una certa misura ‘contraddittori’: al riguardo, infatti, si può osservare
che, sul piano del ius civile, il
debitore non può validamente adempiere nei confronti del garante consegnandogli
frumento di qualsiasi qualità, dovendogli piuttosto dare quanto corrisponda esattamente al ‘datum depensum’ a favore del creditore; sul piano del ius honorarium, tuttavia, emerge
l’impossibilità, per il garante, di pretendere dal debitore, in rivalsa,
frumento di qualità migliore di quella sufficiente ad adempiere, a prescindere
dal contenuto del ‘datum depensum’.
Vediamo, quindi,
ragioni ed implicazioni pratiche di questa ‘impasse’.
A mio parere, la
configurazione dell’individuazione della specie in occasione della solutio del garante nei confronti del
creditore, quantunque sul piano delle logiche formali che governano l’efficacia
liberatoria dell’adempimento possa cadere su qualsiasi res purché individuata all’interno del genus dedotto in obligatione,
finisce per essere comunque condizionata, seppur indirettamente, dalla bona fides che connota l’altro rapporto
obbligatorio, vale a dire quello tra garante e debitore.
Da questo diverso
punto di vista, di conseguenza, l’individuazione della res non può considerarsi ‘libera’, in quanto
una solutio più gravosa di quella che
estinguerebbe il rapporto obbligatorio garantito preclude poi allo sponsor, per il tramite dell’exceptio doli, di ‘melius triticum condicere’[98]
con l’azione di rivalsa.
Se, a questo punto,
si considera che l’azione del garante non è qui riconducibile ad un iudicium bonae fidei, ma piuttosto ad
un’azione di stretto diritto quale è l’a.
depensi, si potrebbe dire che l’exceptio
doli ‘proietti’ nel rapporto obbligatorio quanto sarebbe stato
automaticamente valutato dal giudice qualora, anziché questa azione, il garante
avesse mobilitato l’a. mandati contraria[99].
Infatti, la consegna al creditore, da parte del garante, di frumento di qualità
migliore di quella sufficiente a liberarsi non può ricondursi in questo caso ai
sumptus bona fide necessarii facti
sicché costituirebbe un’ipotesi di eccesso di mandato: egli si rende
inadempiente nei confronti del mandante-garantito nel momento in cui pone in
essere l’electio del miglior frumento
senza alcuna specifica, cogente necessità[100].
Ciò conferma, in
ultima analisi, che, nell’adempiere nei confronti del creditore principale, il
garante, per via del rapporto di buona fede intercorso con il garantito, non
aveva, sul piano del ius honorarium
che consente l’inserimento dell’exceptio
doli nella formula dell’a. depensi, quella facoltà di scelta
nell’individuazione della specie che il ius
civile gli riconosce sul piano dell’efficacia liberatoria del pagamento; o,
forse meglio, che le conseguenze della scelta di adempiere trasferendo la
proprietà del miglior frumento disponibile sul mercato ricadono interamente
nella sua sfera patrimoniale e, quindi, vanno a suo danno, in quanto ex fide bona, cioè in forza del rapporto
di mandato, egli doveva piuttosto adempiere – sicché da questo punto di vista
il ‘dogma’ appare, più che critico, insufficiente per
descrivere la complessità del fenomeno in esame – con la prestazione meno
onerosa per il debitore principale.
È quasi un’ovvietà, a
questo punto, richiamare l’aequitas
per giustificare l’exceptio doli: è
con essa, però, che il giurista configura un mezzo di difesa che ‘neutralizza’, a favore del debitore, tanto le conseguenze della
libera individuazione della specie, ove sia tale da derogare alla bona fides, quanto quelle dalla scelta,
da parte del garante, del iudicium
stricti iuris piuttosto che di quello bonae
fidei. In altri termini, la possibilità di esperire l’a. depensi, che consentirebbe al garante di condicere il miglior triticum
oggetto del ‘datum depensum’ e di
ottenere, in caso di infitiatio, la
condanna addirittura al duplum, non
trova protezione sul piano del ius
honorarium ove finisca per contrastare con la bona fides[101].
Su un piano analogo[102]
a quello che giustifica l’exceptio doli di
Iav. D. 17.1.52 è, secondo me, l’a. de
dolo in Afr. 8 quaest. D. 30.110:
Si
heres generaliter servum quem ipse voluerit dare iussus sciens furem dederit isque
furtum legatario fecerit, de dolo malo agi posse ait. [Sed quoniam illud verum
est heredem in hoc teneri, ut non pessimum det, ad hoc tenetur, ut et alium
hominem praestet et hunc pro noxae dedito relinquat].
In caso di legato
obbligatorio, avente ad oggetto un ‘generaliter
dare servum’ con scelta a favore dell’erede, può essere esperita l’a. de dolo ove quest’ultimo,
consapevolmente, trasferisca al legatario la proprietà di un servo fur e questi lo derubi.
L’interpolazione,
indicata sia dal Vassalli[103]
sia dall’Albertario[104],
anche a mio parere è configurabile, anche se mi pare plausibile ipotizzare che
la soluzione riportata nel tratto ritenuto spurio non sia altro che una
compressione ‘ideologica’ del testo
classico che forse semplicemente descriveva
la possibile configurazione del risultato pratico della cd. clausola arbitraria
che connota la struttura formulare dell’azione: per evitare la condanna, in
altri termini, l’heres avrebbe potuto
praestare un altro servus e lasciare pro noxae dedito il fur
al legatario[105],
così ottenendo l’assoluzione. Non può escludersi a priori, quindi, che il chiaro riferimento ad una disciplina
inattuale ai tempi di Africano – che, cioè, preveda automaticamente e senza
implicare quanto meno il richiamo all’aequitas,
già sul piano del ius civile, la
configurazione della qualitas delle
cose generiche dedotte in obligatione
– possa al limite celare una sorta di ‘eterogenesi’ di
un’argomentazione più ampia, forse funzionale a chiarire il fondamento della
giustificazione di quegli specifici
doveri che, in conseguenza dell’esperimento dell’azione, incombono sul
convenuto, nell’ottica classica, soltanto in attuazione della restitutio arbitrio iudicis.
In sostanza, sul
piano formale del ius civile,
l’obbligazione di dare in senso
tecnico è adempiuta; il dolo dell’heres
nell’individuazione del servus,
antitetico ad una condotta ex fide bona,
è, però, coercibile sul piano del ius
honorarium e non può considerarsi, quindi, del tutto irrilevante per
l’ordinamento, sulla base dei principî sinora evidenziati. Ciò significa che il
rapporto obbligatorio di stretto diritto, in questo come in altri casi, si
rivela inadeguato rispetto alle esigenze economico-sociali che il diritto
privato deve presidiare e continua ad avere una certa importanza, nell’ambito
delle soluzioni dei prudentes così
come nelle elaborazioni successive, proprie – come ora immediatamente vedremo –
anche della tradizione romanistica, unicamente per via della sua semplicità
strutturale che ne fa, a mio avviso, più che altro una ‘fonte di regole dommatiche’ adoperate come ‘modelli concettuali’ per
soluzioni più complesse[106]: dal punto di vista
della configurazione del rapporto obbligatorio che intercorre tra erede e
legatario, la formale inconfigurabilità, sul piano del ius civile, di doveri ex fide
bona costituisce un limite che il ius
honorarium non può non ‘correggere’.
Anche in questo caso, ‘interferenze’ tra bona fides e ius strictum
giustificate dall’aequitas, come
quelle sinora esaminate, in una con i difficilmente negabili interventi
statual-legalistici della cancelleria imperiale[107],
possono aver condotto – specie nel momento in cui vien meno il processo
formulare e la distinzione dommatica tra tutela civile e tutela onoraria tende
progressivamente a sfumare sul piano del suo risultato pratico – alla
progressiva configurazione della media
sententia giustinianea, che in linea di principio impone all’erede, in caso
di legato di genere, di consegnare al legatario res di qualità non inferiore alla media.
11. Sarebbe
interessante, a questo punto, riesaminare per quali vie i principî sinora
emersi siano pervenuti alle moderne codificazioni, in cui il ‘precipitato storico’ della tradizione romanistica compare, sul
punto, in termini tendenzialmente uniformi: limitandoci agli esempi più
significativi, l’art. 1246 code civil e
l’art. 1248 del Codice civile del Regno d’Italia impongono, infatti, al debitore
di non dare il pessimum, laddove, ‘in positivo’, fanno riferimento al parametro della ‘qualità media’ l’art. 1167 del Código civil, il nostro art. 1178 c.c. vigente ed il § 243 BGB[108].
L’analisi delle fonti intermedie induceva, invero, l’Astuti a ritenere che «in ordine alla scelta della specie del genere dovuto, ai fini
dell’adempimento, le fonti presentavano soluzioni diverse, con riguardo agli
obblighi dell’erede onerato da legati, del venditore, dell’obbligato ex stipulatu»; ma che alla fine «gli interpreti accolsero in linea di massima il criterio
enunciato dai compilatori, per cui il debitore non può prestare il pessimum, e rispettivamente il creditore
non può pretendere l’optimum, ma la
scelta deve cadere sulla specie mediae
aestimationis»[109].
Questa autorevole lettura delle fonti intermedie giustificherebbe, quindi, come
il ‘risultato giustinianeo’ e, con esso, il fondamento
culturale e pratico dei contenuti delle norme recepite nelle moderne
codificazioni risulti, in fin dei conti, una regola dommatica che si rivela una
‘conseguenza della storia’ sul piano dell’elaborazione
concettuale della tradizione romanistica.
Al riguardo, un
ulteriore approfondimento della questione è qui improponibile, così come non è
possibile un riesame dei problemi posti dall’art. 1378 c.c. («trasferimento di
cosa determinata solo nel genere»), da ritenersi, a mio parere, connessi al
tema, in parte diverso, dei rapporti tra ‘admensio’
e ‘traditio’ nella vendita di genere
che, nelle fonti a nostra disposizione, emerge soprattutto in Alex. Sev. C.
4.48.2 (a. 223)[110].
Vorrei invece
soffermarmi, seppur brevemente, quanto meno sul contenuto dell’art. 1178 c.c.
(«obbligazione generica») dal punto di vista della sua distinzione da quello
dell’art. 664 c.c. («adempimento del legato di genere»)[111],
in cui si legge che l’onerato «è obbligato a dare
cose di qualità non inferiore alla media» (primo comma) e che, ove la scelta spetti
ad un terzo o al legatario, «questi devono
scegliere una cosa di media qualità» (secondo comma): parte della dottrina,
infatti, tende a suggerire che, in fin dei conti, ci troveremmo di fronte a due
disposizioni che finirebbero per esprimere una medesima regola, esplicitata
quale criterio ‘generale e
suppletivo’ dall’art. 1178 e quale criterio ‘speciale’ dall’art.
6641-2 c.c.[112].
Al riguardo, il Masi osserva che «tale formulazione
della norma, che riconosce la possibilità per l’onerato di scegliere,
nell’ambito del genere indicato, cose di qualità superiore alla media e,
quindi, anche la cosa o le cose migliori, corrisponde alla disposizione di
carattere generale, in materia di obbligazione generica, dell’art. 1178»[113].
Al di là della
particolare giustificazione addotta dal Masi, l’idea della ‘corrispondenza’ tra le due norme trova riscontro, invero, già in
una certa misura nella dottrina dei commentatori del code civil, ove si consideri che l’art. 1022, dettato in tema di
legato di genere, era inteso come una ‘estensione’[114]
del principio stabilito nell’art.
Orbene nel ‘sistema’ del codice vigente – così come, del resto, nel code civil ed in quello italiano del
1865, che sul punto ne dipende – risulterebbe comunque singolare, sul piano
della Gesetzgebung prima ancora che della ermeneutica legislativa, la scelta
dei conditores – che conservano il
ricorso alle due norme in occasione della disciplina di analoghi istituti, vale
dire legato e adempimento – di esplicitare la regola della qualità media in
tema di legato di genere quando alla medesima soluzione si sarebbe potuti
giungere invocando la norma dettata in tema di adempimento in generale: una
norma speciale è priva di senso qualora abbia il medesimo contenuto precettivo
di quella generale. Fra l’altro, con riferimento al Codice del 1942, non può
comunque ritenersi casuale – anche se, come vedremo, la stessa ‘intenzione del legislatore’ appare emergere, al riguardo, in termini
in larga misura condizionati dal linguaggio del ius commune – che i verba
legis affermino, nell’art. 664.1 c.c., che l’onerato «è obbligato» a dar cose di qualità non inferiore alla media,
mentre nell’art. 1178 c.c. recitino che il debitore di genere «deve prestare» cose di qualità non inferiore alla media.
A mio avviso, la ‘criticità’ della questione potrebbe forse ravvisarsi in una –
invero plurisecolare – mancata percezione del fatto che le fonti romane di cui
sinora abbiamo sinora discusso (e che, ovviamente hanno costituito, nei
percorsi culturali e pratici del diritto intermedio, il fondamento
dell’interpretazione suggerita dall’Astuti) non sovrappongono mai il problema
dell’interpretazione del contenuto del quidquid
dare facere oportet ex fide bona (o, comunque, quello del contenuto del dare oportere in senso tecnico
determinato aequitate) imposto al
debitore di genere a quello dell’obbligazione di praestare posta a sussidio della sua esecuzione, ma piuttosto si
esprimono nel senso che altro è il dovere di praestare la qualità media della specie individuabile all’interno
del genus, altro la determinazione ex fide bona vel aequitate di essa quale
contenuto della prestazione esigibile.
La ‘sovrapposizione’ tra qualità della specie a livello di contenuto
della prestazione e dovere di ‘assicurare’ la
qualità, a questo punto, può ritenersi prodotto culturale del ius commune in cui, se le prestazioni di
dare, facere e praestare erano
considerate distinte, allo stesso tempo di quest’ultima, già sul piano
terminologico, «si era perso il
senso», una volta inteso «come “eseguire una
prestazione”, attribuendogli così un significato che ripeteva, sintetizzandolo,
quello degli altri due verbi»[116].
Non a caso, del resto, il Pothier, a proposito di Lab. D. 19.2.60.7, non distingueva con chiarezza la soluzione della locazione ‘sine definitione personae’ da quella del
servo determinato nella sua individualità, trattando l’una e l’altra come un
unico problema di culpa rilevante per
l’imputazione al locatore del vizio della cosa locata[117].
Le fonti classiche,
tuttavia, ove intese secondo l’esegesi qui suggerita ed ove richiamate quale
«criterio comprimario di ermeneutica legislativa»[118],
possono costituire il punto di partenza per un’ulteriore riflessione sul reale
significato di questa ‘duplicità’ di norme
che, lungi dal costituire un’‘anomalia’ nel tessuto
normativo del codice, è in realtà una conseguenza dell’‘immanenza’[119]
del diritto romano nel nostro ordinamento, al di là di possibili
fraintendimenti che, per quanto plurisecolari, sembrerebbero in fin dei conti
conseguenza più dell’acritica recezione di un certo linguaggio che di una
sostanziale divergenza dommatica rispetto alle logiche dei prudentes.
In quest’ordine di
idee, adoperando la dommatica del Cannata[120],
l’art. 664.1 c.c. fa riferimento, a mio parere, al contenuto della prestazione
autonomamente azionabile mentre l’art. 1178 c.c. costituisce la disciplina di
quella non autonomamente azionabile: la prima, cioè, esplicita il contenuto
della prestazione; la seconda i doveri strumentali alla sua esatta esecuzione,
configurando di conseguenza le condizioni del giudizio d’imputazione
dell’eventuale inadempimento.
Possiamo, tuttavia,
essere forse più precisi.
Riguardo la
formulazione dell’art. 664.1 c.c., potrebbe forse dirsi che la ‘preoccupazione’ da parte dei conditores
di esplicitare una determinazione legale della qualitas dell’obbligazione generica ex testamento sembrerebbe, per certi versi, il frutto di un
condizionamento culturale della tradizione romanistica in cui, come è noto, il
rapporto obbligatorio che intercorre tra l’erede ed il legatario per damnationem non contiene la clausola
di buona fede: la norma, cioè, stabilendo che nel genus delle cose legate dedotto in
obligatione rientra ex lege anche
la qualità media, non farebbe altro che precisare – come già intuivano i
commentatori dell’art. 1246 code civil,
pur senza distinguere tra contenuto della prestazione e dovere di assicurarne
l’esecuzione[121]
– quanto in realtà sarebbe già implicito ex
fide bona, stante per l’assenza, nel nostro ordinamento, di rapporti
obbligatori di stretto diritto come quelli romani classici una volta recepita
nel dettato normativo del codice la clausola generale di cui all’art. 1175 c.c.
(«comportamento secondo correttezza»).
Se, tuttavia, come
osserva argutamente il Cannata, non si può invocare l’art. 1175 c.c. «come una specie di prezzemolo»[122],
al di là di questo possibile condizionamento culturale si deve recuperare un
senso pratico alla scelta dei conditores
di codificare in questi termini il contenuto della prestazione del legatario
nel senso che la qualità della specie costituisca, di per sé ed a prescindere
da ulteriori indagini, parte integrante di un dovere principale di dare (in senso tecnico) e non un dovere
accessorio di buona fede, seppur per altre vie non estranea di certo a questa
tipologia di rapporti obbligatori: il che non è distante, sul piano
giuspolitico, dalle scelte operate dalla cancelleria imperiale nel VI secolo[123].
A questo punto, in
adesione alla tesi del Cannata che, come già ricordato, considera tanto l’art.
1176 c.c. quanto l’art. 1178 c.c. come sede normativa di prestazioni
sussidiarie in senso tecnico cui «corrispondono i
cosiddetti criteri di responsabilità»[124],
ritengo che debbano essere valorizzate, ancorché precisate, alcune riflessioni
che – muovendo dall’idea tedesca della ‘Nachbeschaffungspflicht’[125]
– ravvisano nell’art. 1178 c.c. o un dovere di «mettere
in essere una attività idonea … a mantenere la possibilità di adempimento» di una prestazione avente
ad oggetto cose determinate soltanto nel genere[126]
od, al limite, una particolare obbligazione ‘complessa’ di facere in fin dei conti strumentale a
quella di dare[127].
L’art. 1178 c.c., in
sostanza, «è regola – come osserva il di Majo – riguardante l’adempimento, e
non l’oggetto dell’obbligazione»[128],
quantunque non possa poi ritenersi pienamente condivisibile l’idea che essa
contribuisca «a pre-fissare la
qualità dell’adempimento, limitando la libertà del debitore»[129].
Piuttosto, come abbiamo già avuto modo di accennare in occasione della
valutazione di Lab. D. 19.2.60.7 come ‘modello concettuale’ di uno specifico problema di responsabilità,
l’art. 1178 c.c. è la sede normativa di una prestazione sussidiaria
propriamente detta che può configurare la struttura pratica di una ‘particolare’ responsabilità per colpa, qualora risulti imputabile
al debitore un danno risarcibile per la violazione del dovere di praestare posto a sussidio della ‘corretta scelta’ della specie all’interno del genus dedotto in obligatione.
Questa prospettiva
interpretativa, che mi pare in fin dei conti l’unica capace di distinguere
esattamente l’ambito di operatività delle due norme, parrebbe nondimeno
evidenziare, come si accennava, una singolare eterogenesi dei fini perseguiti
dal legislatore, se si considera che, nel lavori preparatori del Codice civile,
si legge che nella formulazione dell’art. 1178 c.c. sarebbe stata utilizzata la
parola ‘prestare’ e non ‘dare’ per riferire la
norma «a qualunque prestazione e non soltanto a quelle di dare
in senso tecnico»[130]:
riterrei, al riguardo, che il ricorso a questa terminologia – con cui si
vorrebbe, in sostanza, imporre l’applicazione dell’art. 1178 c.c. non solo alle
prestazioni di trasferire la proprietà di una cosa, ma a qualsiasi altra che ne
preveda la mera consegna – ben possa costituire il riflesso di un momento
storico in cui la dottrina romanistica e, con essa, quella civilistica non
aveva (e forse tuttora non ha[131])
ancora recuperato, dopo la ‘generalizzazione
terminologica’ del diritto comune, la piena percezione del reale significato,
nell’esperienza dei prudentes come
nella sua tradizione culturale e pratica, del contenuto dell’obbligazione di praestare, la cui configurazione appare
oggi il frutto di una complessa riflessione che ha avuto proficuamente inizio
con l’indagine del Mayr[132]
e consapevole elaborazione scientifica solamente con le più recenti
precisazioni del Cannata[133].
In sostanza, rimosso
il condizionamento, meramente sovrastrutturale, derivante dal ricorso al
particolare linguaggio di cui abbiamo discusso, l’art. 1178 c.c. – insieme con
l’art. 1176 c.c.[134]
– deve ritenersi in fin dei conti, nel ‘sistema’ del nostro
codice, una norma in materia di colpa e non una norma in materia di contenuto
della prestazione esigibile: altro è, quindi, il dovere (sussidiario) di adoperarsi perché sia messa a
disposizione del creditore la qualità media delle res oggetto della prestazione (sicché il creditore non ha azione
per il sol fatto che il debitore non si adoperi in tal senso); altro è il
dovere (che sia principale, come nel caso dell’art. 664.1 c.c., od accessorio,
vale a dire ex fide bona, ex art.
1175 c.c.) di mettere a disposizione
cose di qualità media che, ove inadempiuto, può implicare problemi di
responsabilità strutturati non già ex art. 1176 c.c. ma, piuttosto, ex art.
1178 c.c. e, quindi, sulla base di un giudizio di imputazione per la violazione
di un dovere di praestare in senso
tecnico che genera quella ‘specifica figura di culpa’ di cui discuteva Labeone.
[1] Così, testualmente, M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 522: in questo senso
anche nella voce Obbligazioni (dir. rom.),
in EdD, XXIX, Varese, 1979, 50, che
segue G. Grosso, Obbligazioni. Contenuto e requisiti della
prestazione. Obbligazioni alternative e generiche, III ed., Torino, 1966,
246 ss. Analogamente, fra i tanti
e senza pretese di completezza, P. Voci,
Istituzioni di diritto romano, II
ed., Milano, 2004, 412, che distingueva – fatti salvi i casi in cui la qualità
è determinata nel programma d’obbligazione – il caso del mutuo (l’idem comprende anche la qualità delle res ricevute) da quello della stipulatio (in cui la qualità è
irrilevante), precisando l’inesistenza di una regola generale in materia; G. Pugliese, F. Sitzia, L. Vacca, Istituzioni di diritto romano, III ed.,
Torino, 1993, 519; A. Burdese, Manuale di diritto privato romano, IV
ed., Torino, 1993, 570 (pur non escludendo precedenti classici); V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, XIV ed., Napoli, 1960, 415; P. Bonfante, Corso di diritto romano, IV. Le
obbligazioni, Milano, 1979 (rist.: corso 1918-1919), 183 s. (limitando
l’applicazione della regola ai legati). Appena sfumata la posizione di A. Guarino, Diritto privato romano, XII ed., Napoli, 2001, 797 (nel diritto
classico sarebbe stata esclusa solamente la possibilità di liberarsi
consegnando la cosa peggiore); molto più articolata è la posizione di F. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, III ed.,
Milano, 1993, 857, che rileva non solo l’esistenza del problema nell’ambito del
rapporto obbligatorio di buona fede, ma sottolinea, in ogni caso, come la
soluzione giustinianea non sarebbe altro che una rielaborazione di quella classica.
I passi che egli richiama, in tema di vendita, sono peraltro riconducibili,
come vedremo, a casi di vendita di specie, nonostante il linguaggio adoperato
dai giuristi.
[2] V. Scialoja, Tribonianismi in materia di obbligazioni alternative e generiche,
in Studi giuridici, II, Roma, 1934
(ma 1898), 110 ss.
[3] F.E. Vassalli, Delle obbligazioni di genere in diritto romano, in St. senesi, XXVI, 1909, 51-116,
137-209, in part. 173-185; Id., Nuove osservazioni sulle obbligazioni alternative e generiche, in St. Cagliari, VIII, 1916, 1-33.
[4] E. Albertario, La qualità della specie nelle obbligazioni generiche, in Studi di diritto romano, III, Obbligazioni, Milano, 1936 (ma 1925),
373 ss.; cfr. quindi Id., Corso di diritto romano. Le obbligazioni,
I, Milano, 1936, 407 ss. (in cui l’A. ripercorre i propri risultati, non
disgiunti da una ricognizione di fonti normative allora vigenti), nonché la
pressoché identica lettura di C. Longo,
Corso di diritto romano. Obbligazioni
(ambulatorie – alternative – generiche – solidali – indivisibili), Milano,
1936, 129 ss. e S. Solazzi, L’estinzione dell’obbligazione nel diritto
romano, Napoli, 1931, 76 ss. Invero, è da dirsi che l’impostazione
dell’Albertario e di quanti ne abbiano seguito la dottrina non limita – come,
ad esempio, le ultime precisazioni in merito di S. Perozzi, Istituzioni di
diritto romano (II ed.) II, Roma, 1928, 129 nt. 4 e P. Bonfante, Istituzioni
di diritto romano, X ed., Torino, 1946 (rist. corr.: Milano, 1987), 308 nt.
4 e 522 nt. 18 – alle sole obbligazioni ex
testamento il ‘nuovo corso’
giustinianeo, ma lo considera piuttosto riferibile a qualsiasi rapporto
obbligatorio (ma cfr. infra, nt. 7).
Non apportano, quindi, significative revisioni della questione le successive
indagini di P. Beretta, Qualitas e bonitas nell’obbligazione di genere – Intorno alla formula edittale della
condictio certae rei, in SDHI, IX,
1943, 202 ss. e di G. Sciascia, Sulla irretrattabilità della scelta nelle
obbligazioni alternative e generiche, in Scritti in onore di C. Ferrini pubblicati in occasione della sua
beatificazione, II, Milano, 1947, 255 ss., sino all’accurato lavoro di R. Knütel, «In obligatione generis
quid est in stipulatione?», in Studi in onore
di C. Sanfilippo, III, Milano, 1983, 351 ss., peraltro orientato su una
parzialmente diversa area d’indagine. Sulla distinzione tra l’obbligazione
alternativa e quella generica insisteva, quindi, G. Grosso, Note in tema
di obbligazione generica, in Studi in
memoria di F. Vassalli, II, Torino, 1960, 955 ss., senza peraltro rivedere
i contenuti della dottrina dominante.
[5] R. De Ruggiero, Corso di lezioni di diritto romano. Le obbligazioni, parte generale,
A/A 1923-24, 83, discusso e citato testualmente in ampio stralcio dall’Albertario, La qualità della specie, cit., 376, nonché nel Corso, cit., 408 s., con medesima impostazione critica (non vidi: il corso del 1923/24,
criticato sul punto dall’Albertario, non è nemmeno riportato nell’Indice SBN
curato dall’Istituto centrale per il catalogo unico). È da dirsi, al riguardo,
che il De Ruggiero negava,
ragionando sulle fonti romane, l’esistenza di una significativa differenza tra
diritto classico e diritto giustinianeo (e tuttavia, in Introduzione alle scienze giuriche e Istituzioni di diritto civile,
II, Napoli, 1912, 114 – così come poi in
Istituzioni di diritto civile (III
ed.) III, Messina, s.d. ma dopo il 1928, 42 – affermava che «è ricevuta nel diritto nostro la regola, già accolta dal romano
giustinianeo: il debitore come non è tenuto a prestar l’ottima tra le specie
appartenenti al genus, così non può
neppure prestar la pessima») ritenendo che la libertà del debitore di adempiere
con qualsiasi specie rientrante nel genus
fosse un principio comune alle due prospettive storiche, e che già i classici
avessero introdotto specifici contemperamenti in tema di legati. Sul punto,
però, la dottrina oggi ‘tradizionale’ è
senz’altro esatta, dato che, come osservava l’Albertario,
La qualità della specie, cit., 376,
il contrasto tra i testi che ammettono la ‘media
sententia’ e quelli che consentono l’adempimento prestando una qualsiasi
specie «non è dogmatico, ma storico»; non è, in altri termini, il
‘dogma’ ad essere, di per sé, ‘errato’, né può negarsi come nel VI secolo sia stata progressivamente
accolta la soluzione che impone al debitore di prestare cose di qualità media:
in realtà, come qui si vorrebbe dimostrare, sul piano dell’interpretazione, già
i prudentes avevano configurato
soluzioni che, in una certa misura, riconoscevano rilevanza alla qualità della
specie nelle obbligazioni generiche.
[6] In tema di mutuo,
come rilevava il Voci, Istituzioni, cit., 412 nt. 10 (ma già
cfr. Perozzi, Istituzioni, cit., 128 nt. 5) Pomp. 27 ad Sab. D. 12.1.3 afferma che il
rapporto obbligatorio va configurato ‘ut
eiusdem generis et eadem bonitate solvatur, qua datum sit’. La soluzione
non creava, peraltro, difficoltà di sorta al Vassalli,
Delle obbligazioni di genere, cit.,
184. Secondo l’a., in casi come questi la species
del genus da restituire sarebbe
determinata da quella che fu data. La soluzione, di sicuro interesse, non
spiega, però, per quale ragione, in tal caso, il giurista dovrebbe richiamarsi
all’aequitas (cfr. amplius infra, § 7).
[7] Le fonti normalmente
ricordate al riguardo fanno, del resto, sistematico riferimento a obligationes generate da sponsiones o legati obbligatori: basti
pensare a quanto viene esaminato non solo nella compiuta ricerca del Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., passim, od in quella dell’Albertario,
La qualità della specie, cit., passim, ma anche più di recente nello
studio del Knütel, «In obligatione generis quid est in stipulatione?», cit., passim o, comunque, nella più recente
sintesi di A. Gonzáles, Clasificación de las obligaciones. Singulares tipos de
obligaciones, in Derecho
romano de obligaciones. Homenaje al Profesor José Luis Murga Gener, Madrid,
1994, 127 s.
[8] C.A. Cannata, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano,
Catania, 1996, passim, in part. 121
ss.
[11] Sul problema della ‘bonae fide interpretatio’ cfr. ora E. Stolfi, ‘Bonae fidei interpretatio’. Ricerche sull’interpretazione di buona
fede fra esperienza romana e tradizione romanistica, Napoli, 2004, passim, in part. 110 ss.
(interpretazione della convenzione) e 139 ss. (interpretazione e rapporti tra bona fides ed aequitas).
[12] Cfr. C.A. Cannata, Per lo studio della responsabilità per colpa nel diritto romano
classico, Milano, 1969, 254 nt. 3 (ora anche Id., Sul problema della
responsabilità, cit., 140 s.). La problematicità della questione è
rilevata, quindi, da R. Cardilli,
L’obbligazione di «praestare» e la responsabilità contrattuale in diritto
romano,
Milano, 1995, 361 s.
[13] Per il problema del
rapporto tra i posteriores di Labeone
e l’epitome di Giavoleno, cfr. D.
Mantovani, Sull’origine dei «libri posteriores» di Labeone, in Labeo, XXXIV,
[14] Per la correzione in
Lab. D. 19.2.60.7, cfr. Th.
Mommsen (rec.), Digesta
Iustiniani Augusti, Berolini, 1878, I, 573.
[15] Di cui seguo, quasi
letteralmente, la ricostruzione del caso: cfr. I. Piro, Damnum
‘corpore suo’ dare rem ‘corpore’ possidere. L’oggettiva riferibilità del
comportamento lesivo e della possessio nella riflessione e nel linguaggio dei
giuristi romani, Napoli, 2004, 93.
[17] Conservo quindi il
testo – a parte tratto ‘id est muli’
che costituisce, con ogni probabilità, un glossema esplicativo rientrato nel
testo: cfr. Cannata, Per lo studio, cit., 252 nt. 2; A. Pernice, Labeo. Römische Privatrecht im ersten
Jahrunderte der Kaiserzeit, II, 2.1, II ed., Halle, 1900, 64 nt. 1, [id est, muli et servi] – e adotto, salvo
quanto esplicitato, la punteggiatura – che consente di leggere il testo con
maggiore facilità – che proponeva il Pothier (Le
Pandette di Giustiniano riordinate da R.
G. Pothier, Volume II., in Venezia co’ tipi di Antonio Bazzarini e C.,
1833, 81, che trascrive tra parentesi tonde ‘id est, muli et servi’); non trovo
condivisibili le correzioni proposte dal Cannata,
Per lo studio, cit., 252 (espunzione
di ‘conductum’, di ‘ei’
e di ‘eum’ nella prima frase;
anteposizione di ‘et’ a ‘de loro’). Per il problema della punteggiatura
(che si riverbera su quello della traduzione), cfr. R. Knütel, Probleme bei
der Übersetzung der Digesten, in ZSS,
CXI, 1994, 390-92; ma cfr. anche S.
Schipani, Primo rapporto
sull’attività della ricerca «Il latino del diritto
e la sua traduzione: traduzione in italiano dei Digesta di Giustiniano», in SDHI, LX, 1994, 556.
[18] Sul punto, rinvio
alla puntuale discussione della Piro,
Damnum ‘corpore suo’ dare, cit., 93
ss., 152 ss. Cfr. anche, di recente, P.
Ziliotto, L’imputazione del danno
aquiliano tra iniuria e damnum
corpore datum, Padova, 2000, 124 ss.; F.M.
de Robertis, Damnum iniuria datum,
Bari, 2000, 73 (l’azione aquiliana, per Mela, concorrerebbe con l’a. locati e sarebbe indizio di una ‘implicita polemica’ con Labeone in ordine alla soluzione
confluita in Lab. D. 19.2.60.7); R.
Robaye, Remarques sur le concept
de faute dans l’interprétation classique de la lex Aquilia, in RIDA3, XXXVIII, 1991, 351; I. Molnár, System der Verantwortung im römischen Recht der späteren Republik,
in BIDR, XCII-XCIII, 1989-90, 596; D. Nörr, Causa mortis, München, 1986, 144 e 161; R. Knütel, Die Haftung für
Hilfspersonen im römischen Recht, in ZSS,
C, 1983, 398 nt. 238; G. Mac Cormack,
Aquilian Studies, in SDHI, XLI, 1975, 59; M. Kaser, Periculum emptoris, in ZSS,
LXXIV, 162 nt. 27. Sul problema del concorso di azioni (individuato nel
rapporto a. ex locato / a. ex lege
Aquilia), G. Rossetti, Problemi e prospettive in tema di «struttura» e «funzione» delle azioni
penali private, in BIDR, XCVI-XCVII,
1993-
[19] In questo caso, mi
pare che l’azione dovrebbe essere quella directa,
non già quella noxalis, ove la si
ritenga fondata su un fatto riprovevole del dominus
(che comunque porrebbe il problema della configurazione della condotta rispetto
all’interpretatio del plebiscito; il
che non può passare sotto silenzio): contra,
Cannata, Per lo studio, cit., 254 (seguito da Ziliotto, L’imputazione,
cit., 121 nt. 35), che pensa all’azione nossale (cfr. anche infra, nt. 38); con notevoli interventi
sul testo, U. von Lübtow, Untersuchungen zur lex Aquilia de damno
iniuria dato, Berlin, 1971, 154 s., in cui viene prospettata non solo la
possibilità della correzione dell’a. ex
locato in a. ex conducto, ma
altresì l’idea che il tratto finale facesse riferimento ad un’a. in factum, per via del problema della
configurazione della condotta, di cui si è detto (cfr. già Pothier, Le Pandette, cit., II, 81 ntt. 6-7: sia l’a. legis Aquiliae richiamata da Mela, sia quella cui fa riferimento
Ulpiano, è ritenuta a. utilis,
«essendo che non egli precipitò il mulo; ma il mulo precipitò da sé», ivi nt.
6).
[20] Si tratta, quindi, di
«una classe costruita contingentemente». Seguo, quindi,
quasi testualmente, qui come altrove, l’impostazione tecnico-terminologica del Talamanca, Istituzioni, cit., 522 quanto alla connotazione del «genus cui si riporta un’obbligazione
generica». Per un’inquadramento ‘elastico’ del concetto di genus in
obligatione deductum, cfr. tutta la prima parte della ricerca del Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 53 ss.
[22] Ne conseguirebbe
l’estrema probabilità del carattere institicio del tratto finale del frammento
(‘quod si – adficeret’): Cannata, Per lo studio, cit., 254 nt. 3 (1969). L’autore, tuttavia, non
richiama questa ipotesi nella sua più recente analisi del passo in Id., Sul problema della responsabilità, cit., 140 (1996).
[23] I. de Falco, «Diligentiam praestare». Ricerche sull’emersione
dell’inadempimento colposo delle «obligationes», Napoli, 1991, 76 ss.
e Cardilli, L’obbligazione di «praestare», cit., 362 e nt. 120.
[25] Pothier, Le Pandette, II, cit., 821 e nt. 1: a proposito del caso della locatio conductio del servo determinato nella
sua individualità, si sottolinea, infatti, che il danno «sarebbe imputabile a
mia colpa, se io lo avessi locato come
esperto; ed in tal caso sarei verso di te tenuto per l’azione Di conduzione, come vien detto nella l.
29 § 34 ad Leg. Aquil.». Va detto, al riguardo, che il Pothier parrebbe
aver ricondotto l’intero passo al problema della responsabilità del locatore
per vizio imputabile della cosa locata (che egli trattava diffusamente nel Trattato sul contratto di locazione,
trad. it. F. Foramiti, Venezia, Antonelli, 1835, 102 ss., vale a dire parte II,
sez. IV, capo I per chi usi una diversa edizione), senza evidenziare la
differenza tra le due ipotesi.
[26] Sul passo, cfr. Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 58 nt. 20 e 140; per la connessione
Id., Per lo studio, cit., 254 nt. 1.
[27] Celsus etiam imperitiam culpae adnumerandam libro octavo digestorum
scripsit: si quis vitulos pascendos vel sarciendum quid poliendumve conduxit, culpam
eum praestare debere et quod imperitia peccavit, culpam esse: quippe ut
artifex, inquit, conduxit. Sul passo cfr. Cannata,
Sul problema della responsabilità,
cit., 56 s.
[29] Rispetto alll’esegesi
che il Cannata, Per lo studio, cit., 254 nt. 3 svolgeva
nel 1969 (il mulio è in quanto tale peritus, ma
risulta neglegens «in un singolo caso») quella che figura oggi in Id., Sul problema della responsabilità, cit., 140 s. appare, quindi, più
convincente (Labeone utilizzerebbe senz’altro il modello della culpa-neglegentia). Tenderei, quindi, a
non sopravvalutare il problema indicato dal Cardilli,
L’obbligazione di «praestare», cit., 362 nt. 120.
[30] Cfr. Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.13.6 si fullo vestimenta polienda acceperit eaque mures roserint, ex locato
tenetur, quia debuit ab hac re cavere. Et si pallium fullo permutaverit et alii
alterius dederit, ex locato actione tenetur, etiamsi ignarus fecerit. Come
risulta bene da questo testo, un soggetto che svolge normalmente operazioni
tecniche può essere tenuto ad imperitiam
praestare, ma per le prestazioni ‘non tecniche’ che
eventualmente sia tenuto a svolgere accanto alle prime risponde per culpa-neglegentia (nel caso indicato, forse
anche, a seconda della struttura della fattispecie, per custodia): cfr. sul punto esattamente Cannata, Sul problema
della responsabiltà, cit., 57, che qui seguo quasi letteralmente.
[31] Sul punto, cfr. M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani,
Roma, 1977 (= Quad. Lincei, 221.2),
284 ss. (215 ss. per l’impiego dello schema, in funzione classificatoria, da
parte di Labeone).
[32] L’oggetto della
locazione è sempre il servus, non le
sue operae (‘servum meum mulionem conduxisti’), sicché secondo me viene conclusa
una locatio rei, e non una ‘locatio operarum’, anche nel caso in cui
il mulio loca se stesso (come invece
ipotizzano R. Fiori, La definzione della ‘locatio conductio’.
Giurisprudenza romana e tradizione romanistica, Napoli, 1999, 113 nt. 183 e
[33] Mi pare quanto meno difficile
pensare che, in questo passo, il termine ‘definitio’
possa avere una qualche connessione con quello che figura in Iav. 11 epist. D. 50.17.202 (sul punto, cfr. B. Albanese, «Definitio periculosa». Un singolare caso di duplex interpretatio,
in Studi in onore di G. Scaduto, III,
Padova, 1970, 330, 363, 368 – ora in Scritti
giuridici, I, Palermo, 1991, 701 ss. – nonché A. Guarino, D.
50.17.202: «interpretatio simplex», in Labeo, XIV, 1968, 67 nt. 16).
[34] La rogatio da parte del conductor è, a mio parere, implicita
nell’espressione ‘a me conduxisti’.
[35] Sul problema, cfr. Stolfi, Bonae fidei interpretatio, cit., 83 ss. (che peraltro non esamina
il passo).
[36] L’espressione è del Cannata, Per lo studio, cit., 253, che vi ricorre, però, a proposito del testo
di Mela.
[38] Cannata, Per lo studio, cit., 253; non argomenterei, però, nella prospettiva
una ‘Garantiehaftung’ (ivi, 253 nt. 2), che induce l’A. ad escludere
l’esistenza (ivi, 254) di una «culpa nella
parte» (con conseguente configurazione dell’azione aquiliana prospettata da
Ulpiano come nossale: cfr. supra, nt.
19): riterrei, invece, come vedremo meglio nella successiva analisi del passo,
che il riferimento a ‘servm imperitum pro
perito locare’ altro non sia se non l’esplicitazione del dato strutturale
del ‘culpam praestare’ labeoniano nel
caso della locazione di specie.
[39] Per questa dommatica,
e per la terminologia che adopero, cfr. C.A.
Cannata, Le obbligazioni in
generale, in Tratt. Rescigno,
IX.1, II ed., Torino, 1999 (rist.:
2002), 37 e nt. 6; 41 ss., in part. 42.
[40] L’Albertario, La qualità della specie, cit., 383, trattando i passi come vendite
di genere (cfr. anche il Corso, cit.,
421 s. e 423 s.), prospettava ovviamente, l’interpolazione di ‘non utique – dicuntur’ nel § 19.4 (cioè
quasi tutto il testo) e di ‘mediocrem
cocum’ nel § 18.1, seguito dal Beretta,
Qualitas e bonitas, cit., 223 nt. 54;
come pure C. Longo, Corso, cit., 141 s.; diversamente il Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 177 ss., pur escludendo
esattamente tale possibilità, ne trae un’indicazione utile per affermare che,
quand’anche sia dichiarata la qualità della res,
il debitore potrebbe pur sempre liberarsi consegnando un servus di minimo valore. In realtà, egli deve dare comunque un servus peritus, ancorché mediocremente;
sicché a mio avviso la ricostruzione, da questo punto di vista, non è
condivisibile.
[43] Cfr. Talamanca, Istituzioni, cit., 584 e, diffusamente, Id., voce Vendita (dir.
rom.), in EdD, XLVI, Varese,
1993, 360 ss., ivi letteratura; Cannata,
Sul problema della responsabilità,
cit., 14. Era ‘possibilista’ anche il
Vassalli, Obbligazioni di genere, cit., 58 s.
[44] A. Carcaterra, Concezioni epistemiche dei giuristi romani, in SDHI, LIV, 1988, 50 confonde il contenuto del ‘promissum vel dictum’ con il suo effetto, vale a dire il dovere di praestare, per modo che considera Ulp.
D. 21.1.19.4 come contenente un «avvertimento» che il servus «non sarà
necessariamente “perfectum … neque
consummatae scientiae”». Difficile, poi, la connessione del passo con il
problema dell’arbitrium boni viri,
suggerita da S.D. Martin, A Reconsideration of probatio operis, in
ZSS, CIII, 1986, 325: esatta e qui
condivisa è la critica di M. Talamanca,
in Pubblicazioni pervenute alla Direzione
(a proposito di Martin, op. cit., 325), in BIDR, XC, 1987, 639.
[45] Cfr. Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 42 nt. 73, che critica la
tesi di V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano, II
ed., Napoli, 1956, 353 ss.: nei casi del dictum
circa le capacità tecniche del servus,
a mio parere, l’eventuale inadempimento non si risolve necessariamente nemmeno
in questioni di culpa, in quanto la
qualifica del servus come artifex (più o meno capace, ma purché
tale) consegue semplicemente al contenuto della dichiarazione del venditore e
risulta, come tale, di per sé valutabile nella formula aedilicia richiesta dall’emptor. Sul problema, cfr. anche M. Memmer, Der «schöne Kauf» des «guten Sklaven», in ZSS, CVII, 1990, 1 ss., in
part. 13
nt. 48 e, in part., L. Manna,
Actio redhibitoria e responsabilità per i
vizi della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, Milano, 1994, 133 ss.;
per la connessione con il tema della pictura,
cfr. quindi F. Lucrezi, La ‘tabula picta’ tra creatore e fruitore,
Napoli, 1984, 187.
[46] Dal punto di vista
della configurazione di due diverse condotte (una che cagiona il perimento,
l’altra la ruptio del mulo) incide
sulla specifica individuazione dell’azione aquiliana nei due casi; il possibile
riferimento a due diversi modelli di condotta del servus (neglegentia nel
caso discusso da Labeone; imperitia a
seguire il linguaggio di Mela) è, in fin dei conti, irrilevante dal punto di
vista della determinazione del contenuto della culpa domini nell’imputazione dell’inadempimento di un’obbligazione
di specie.
[47] In questa prospettiva
cfr. Th. Mayer-Maly, Locatio
conductio, cit., 160 (pur dal punto di vista interpolazionistico).
[50] Al riguardo, il Talamanca, Istituzioni, cit., 314 osserva che «nel periodo classico l’ex fide bona segna, indubbiamente, i
limiti delle obbligazioni fatte valere col iudicium
bonae fidei». Sul problema cfr. ora Id., La ‘bona fides’ nei giuristi romani: «Leerformeln» e valori
dell’ordinamento, in L. Garofalo
(cur.), Il ruolo della buona fede
oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del
Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese, IV, Padova, 2003, 184
ss., in particolare 186 (sul problema di doveri ‘complementari’
rilevanti sul piano del diritto onorario; ma v. comunque l’argomentazione dei
§§ 35-53); in prospettiva storico-comparatistica, cfr. altresì R. Cardilli, La «buona fede» come principio del diritto dei contratti. Diritto
romano e America Latina, in Garofalo
(cur.), Buona fede, cit., I, 310 ss.
e 333 s.; ora Id., «Buona fede» tra storia e sistema,
Torino, 2004, 29 ss.; 53 ss., nonché 100 ss.; per la clausola di buona fede –
nell’attuale sistema italiano – come prestazione ‘accessoria’, cfr. Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 42, 47 ss., in part. 50.
[54] Così, esattamente, Knütel, Die Haftung für Hilfspersonen, cit., 359 nt. 73 e Voci, ‘Diligentia’, ‘custodia’, ‘culpa’, cit., 107 nt. 11. Riferisce la
questione al problema della responsabilità per fatto altrui e, segnatamente, per
una culpa in eligendo che
funzionerebbe come «colpa presunta» C.A.
Cannata, Una casistica della colpa
contrattuale, in SDHI, XLVIII,
1992, 425 nt. 39 (cfr. anche Id.,
Sul problema della responsabilità,
cit., 106 nt. 85, così come, incidentalmente, A.
Watson, The Law of Obligations in
the Later Roman Republic, Oxford, 1965, 72); in termini analoghi mi pare si
orienti G. Mac Cormack, Culpa in eligendo, in RIDA (III ser.), XVIII, 1971, 545 s.,
confermando la propria esegesi in Culpa,
in SDHI, XXXVIII, 1972, 149 – di una
vera e propria ‘culpa in eligendo’ (è
errata, però, la connessione tra il nostro passo e Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.27.11, proposta da J.A.C.
Thomas, Pro Noxal Surrender,
in Labeo, XVIII, 1971, 18 nt. 15, e G. Mac Cormack, The Thievisch Slave, in RIDA
(III ser.), XIX, 1972, 374 nt. 35 anche perché nel glossema ‘sed haec – habuit’ non figura, a mio
parere, questa costruzione: cfr. R.
Fercia, Criterî di responsabilità
dell’exercitor. Modelli culturali
dell’attribuzione di rischio e ‘regime’ della nossalità nelle azioni penali
in factum contra nautas, caupones et stabularios, Torino, 2002, 61, 63 ss.).
Nella prospettiva della cultura giustinianea, F.M.
de Robertis, La responsabilità
contrattuale nel sistema della grande Compilazione, I, Bari, 1983, 434 e
446 si orienta per una forma di presunzione assoluta di colpa.
[56] Il che impone,
comunque, di precisare che la ‘electio ex
fide bona’ deve essere valutata in base alla qualità del genus concretamente dedotto nell’obligatio del locatore, quasi certamente
da ricondursi, come si accennava, ai servi
della sua familia: ciò significa che,
ove per avventura i servi del
locatore, all’interno di tale categoria contingentemente determinata, siano tutti
mediocri, il debitore adempie esattamente mettendo a disposizione del
conduttore il soggetto che possa soddisfare, nel miglior modo possibile,
l’interesse di quest’ultimo all’esecuzione del rapporto obbligatorio.
[58] In questa sola
ipotesi, a mio avviso, può trovare spazio questa possibilità, che il Cannata, Per lo studio, cit., 254 riferisce al caso in cui, secondo Ulpiano,
si può agire non solo ex conducto (o ex locato?) ma altresì ex lege Aquilia. Cfr. supra, 19.
[59] Mi pare, quindi,
esatta, in linea di principio, l’impostazione di P. Stein, Fault in the Formation of Contract in Roman Law
and Scots Law, Edinburgh-London, 1958, 106 s.; meno convincente R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Foundation of the Civilian Tradition
(utilizzo la rist. in paperback dell’ed. Juta & Co., Ltd., South Africa, 1990),
Oxford, 1996, 362, che distingue tra schiavo individuato dal conduttore (primo
caso) e schiavo individuato dal locatore (secondo caso).
[60] Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 42 s. e 56, la cui dommatica
tento qui di sintetizzare.
[61] Che, peraltro, in
quanto prestazione sussidiaria complementare, non è sovrapponibile alla figura
del custodiam praestare elaborata dai
prudentes (Cannata, Le
obbligazioni in generale, cit., 60 s., testo e nt. 71).
[62] La questione storica
è impostata esattamente, quindi, dal Cannata,
Le obbligazioni in generale, cit., 42
s. e 56; C.M. Bianca, Diritto civile, IV. L’obbligazione, Milano, 1993 (rist. agg.: 2004), 98 s., in part. 99,
richiama Grosso, Obbligazioni, cit., 246, rilevando come
le fonti romane non fossero univoche; per la configurazione del problema
nell’attuale ordinamento, mi limito ad un rinvio a U. Breccia, Le
obbligazioni, in Tratt. Iudica-Zatti,
Milano, 1991, 216 ss., e 259 per altra letteratura, nonché all’accurata
trattazione di A. di Majo, Dell’adempimento in generale, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma,
1994, sub art. 1178 c.c., 16 ss., in
part. 23 ss. per il problema delle regole di individuazione della specie.
[63] Il precipitato
storico della distinzione non rileva solo nella formulazione di due diverse
norme nel nostro codice civile – gli artt. 1176 e 1178 c.c. – ma altresì le
scelte di altri conditores: cfr., ad
esempio il § 243 BGB (sul punto, cfr.
di Majo, Dell’adempimento, cit., sub
art. 1178 c.c., 24 ss.); per i problemi posti dalla CVIM, cfr. C.M. Bianca (coord.), Convenzione di Vienna sui contratti di vendita internazionale di beni
mobili, in NLCC, XII, 1989, 150
s., nonché V. Buonocore, A. Luminoso
(cur.), Codice del vendita, II ed.,
Milano, 2005, sub art. 35 CVIM (C. Dalia), 1378 ss. Per un quadro
comparatistico alla luce delle proposte normative suggerite dalla prassi
commerciale internazionale, cfr. quindi Commissione
per il diritto europeo dei contratti, Principi di diritto europeo dei contratti, Parte I e II, a c. di C.
Castronovo, Milano, 2001, sub PECL
art. 6:108, 352 s. Per i problemi posti dall’art. 664 c.c., cfr. infra, § 11.
[66] In questi passi la
qualità appare a volte specificata come ‘bonitas’:
più che pensare necessariamente ad una sovrapposizione giustinianea, come
ipotizzava il Beretta, Qualitas e bonitas, cit., passim (sarebbe giustinianea
l’identificazione tra i due concetti; ma cfr. già esattamente la critica del Grosso, Obbligazioni, cit., 235 nt. 1), la ‘bonitas’ appare semplicemente una specificazione della qualitas (per la classicità di alcuni
riferimenti alla bonitas, con attenzione
a Paul. D. 19.6.65.6 e Iav. D. 17.1.52, di cui ci occuperemo in seguito, cfr.
S. Tafaro, «Pars rei» e «Proprium quiddam», in Labeo, XVIII, 1972, 194 nt. 10). Con il Mantovani, Le formule, cit., 49 (n. 22), che sul punto concorda con O. Lenel, Das Edictum Perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung, III
ed., (d’ora in avanti EP) Leipzig,
1927, 239 s., mi pare debba ritenersi che, contro l’idea di questo autore,
nell’intentio della condictio triticaria accanto alla qualitas ben potesse figurare anche il
riferimento alla sua specificazione, cioè la bonitas: s. p. Nm
Nm Ao Ao tritici Africi – vale a dire
la qualitas del triticum – optimi –
vale a dire la bonitas – modios centum dare oportere, et rell.
[67] Questa qualificazione
è irrilevante, in quanto tale, dal nostro punto di vista: semplicemente va
detto che, nel caso dell’obbligazione avente ad oggetto cose fungibili,
l’obbligazione è necessariamente generica; nel caso, invece, dell’obbligazione
avente ad oggetto cose infungibili, come i servi,
essa è generica solo se le cose fungibili sono dedotte come genus, variamente determinato (cfr. Talamanca, Istituzioni, cit., 522).
[68] Pomponio parrebbe,
quindi, ignorare i problemi, avvertiti in particolare dai giuristi del terzo secolo
e, molto probabilmente, già noti a Labeone, della cd. ‘datio ad inspiciendum’ (Ulp. 32 ad
ed. D. 19.5.20.2; Ulp. 9 ad Sab.
D. 13.6.10.1; Ulp. 28 ad ed. D.
19.5.17.2), la cui distinzione dal comodato appare controversa ancora ai tempi
di Ulpiano. Sul punto, cfr. Knütel, Die Haftung für
Hilfspersonen, cit., 381 ss.
[69] In più occasioni A. Burdese (Sul riconoscimento civile dei contratti innominati, in IVRA, XXXVI, 1985, 41; Recenti prospettive in tema di contratti,
in Labeo, XXXVIII, 1992, 212 e 214; I contratti innominati, in Hom. Murga Gener, cit., 82) ha segnalato
questo passo come la verosimile prima testimonianza dell’actio e non del più generico agere
praescriptis verbis, in un’ipotesi
ritenuta esattamente affine al contratto reale (cfr. ancora Id., Ancora in tema di contratti innominati, in SDHI, LII, 1986, 449): al riguardo, cfr. la prudente perplessità di
M. Talamanca, Pubblicazioni pervenute alla Direzione
(a proposito di Burdese, Sul riconoscimento civile, cit., 41), in
BIDR, XCII-XCIII, 1992-93, 736 (il
riferimento da parte di Pomponio a questo mezzo sarebbe «tutto da provare») e di F.
Gallo, Synallagma e conventio nel
contratto, I, Torino, 1992, 242; Id.,
op. cit., II, Torino, 1995, 228 ss., 233
s. (andrebbe comunque escluso che Pomponio avesse configurato un’azione ad hoc per le convenzioni innominate:
così anche E. Stolfi, Studi sui «libri ad edictum» di
Pomponio,
II. Contesti e pensiero, Milano,
2001, 213 ss., in part. 231). J. Kranjc,
Die actio praescriptis verbis als
Formelaufbauproblem, in ZSS, CVI,
1989, 456, 459 considera genuino il testo ma pensa (ivi, 451) che un precedente
fosse stato ammesso da Proculo; cauto M. Artner,
Agere praescriptis verbis. Atypische
Geschäftsinhalte und klassisches Formularverfahren, Berlin, 2002, 156 nt.
460.
[70] Burdese, Sul riconoscimento, cit., 42 nt. 70; Id., Osservazioni in
tema di c.d. contratti innominati, in Estudios
en homenaje al profesor J. Iglesias, I, Madrid, 1988, 145; Id., I contratti innominati, cit., 81 s.
[73] È andata perduta,
infatti, l’ultima parte del testo confluito in D. 19.5: cfr. Th. Mommsen, Digesta, I, cit., 580.
[74] Esattamente Artner, Agere praescriptis verbis, cit., 166: «vielmehr entspricht die
beschriebene Abwandlung dem Schema dedi
ut dares». Sul piano del linguaggio adoperato dal giurista, il riferimento a
‘reddere’ e non a ‘dare’ nella descrizione della
fattispecie (‘si tibi … dedi, ut … mihi
redderes’) sembra condizionato dalla circostanza che, nonostante la
consegna degli scyphi sia descritta
come un ‘dare’, in prima analisi
Pomponio (che parla di ‘reddere’
anche a proposito della prestazione del mutuatario: 27 ad Sab. D. 12.1.3, infra,
§ 7, sicché eviterei un’eccessiva dogmatizzazione di questo linguaggio) pensa
al comodato, in cui la consegna non ha effetto traslativo né impone, di
conseguenza, al comodatario una prestazione di ‘dare’; la reale configurazione della prestazione imposta all’accipiens, vista nell’ottica della
convenzione innominata, emerge, piuttosto, quando il giurista fa il caso
dell’obbligazione alternativa (‘sed, si
uti vel hos scyphos vel ut eiusdem ponderis argentum dares, convenit’).
[77] Per la configurazione
della questione, cfr. Talamanca, Istituzioni, cit., 555 s., 561 e
612. Hanno riesaminato accuratamente
questi problemi L. Pellecchi, L’azione in ripetizione e le qualificazioni
del dare in Paul. 17 ad Plaut. D. 12.6.65. Contributo allo studio della
condictio, in SDHI, LXIV, 1998, 69
ss. (dal punto di vista, in particolare, dei contenuti di Paul. 17 ad Plaut. D. 12.6.65) e A. Saccoccio, Si certum petetur. Dalla condictio dei veteres alle
condictiones giustinianee, Milano,
2002, passim, 591 ss. per le
conclusioni; dal punto di vista della funzione sottesa alla datio, cfr. quindi T. dalla Massara, Alle origini della causa del contratto. Elaborazione di un concetto
nella giurisprudenza classica, Padova, 2004, 249 ss.
[78] In questa
prospettiva, a parte le considerazioni svolte in ordine alla funzione
dell’azione, potrebbe forse risultare in una certa misura contraddittorio
ipotizzare (Gallo, Synallagma, II, cit., 233 s.) che in
Pomp. D. 19.5.26 l’azione praescriptis
verbis sia riconducibile ad una condictio
certi utilis, in quanto o si riconosce che in taluni casi la formula dell’agere praescriptis verbis non contenesse la clausola di buona fede
(perplessità sulla condictio, con
riferimento alla «Besonderheit des
Geschäftes», esprime anche Artner,
Agere praescriptis verbis, cit., 166
nt. 510, che pure è cauto su questa costruzione della formula, ivi, 51, amplius
46 ss.), oppure dovrebbe ammettersi in questo caso una singolare condictio certi ex fide
bona (singolare perché se il iudicium fa riferimento alla buona fede, troverei difficile parlare
di certum petere).
[79] C.A. Cannata, Contratto e causa nel diritto romano, in L. Vacca (cur.), Causa e
contratto nella prospettiva storico-comparatistica (Atti ARISTEC, Palermo,
7-8 giugno 1995), Torino, 1997, 35-61, 44 ss. In buona sostanza, secondo questa
dottrina l’a. praescriptis verbis sarebbe
un’azione munita di speciale demonstratio
(vale a dire la praescriptio posposta
alla nomina del giudice), seguita dalla normale intentio delle azioni civili di buona fede. Si tratta di una
riproposizione della posizione della dottrina maggioritaria: al riguardo, cfr.
gli autori richiamati da Burdese,
Sul riconoscimento, cit., 14 ss. ed Osservazioni, cit., 128 nt. 3-4; di
recente, cfr. anche la messa a fuoco di L.
Pellecchi, La praescriptio. Processo, diritto sostanziale, modelli
espositivi, Padova, 2003, 453 s., che alle nt. 8, 10, 11 propone comunque
un’accurata discussione qui improponibile (ivi ulteriore letteratura). Mi
limito semplicemente a rilevare che, quantunque la questione paia destinata a
rimanere ancora aperta, la tesi di fondo di R.
Santoro, Actio civilis in factum,
actio praescriptis verbis e praescriptio, in Studi in onore di C. Sanfilippo, IV, Milano, 1983, 683 ss.; Id., Il contratto nel pensiero di Labeone, in AUPA, XXXVII, 1983, 78 ss.; Id.,
Aspetti formulari della tutela delle
convenzioni atipiche, in N. Bellocci
(cur.), Le teorie contrattualistiche
romane nella storiografia contemporanea, Napoli, 1991, 83 ss., per cui la praescriptio sarebbe preposta alla
nomina del giudice (ivi, 85 ss.), si espone sicuramente alle perplessità
rilevate dal Pellecchi, op. cit., 454 nt. 10 (su questa tesi,
cfr. anche quanto osserva l’a. a 101 ss. e 294 ss., in part. 298 s., per la
problematica connessione della questione con Gai. 4.134-137). Un’equilibrata
dottrina – per diverse vie Kranjc, Die actio praescriptis verbis, cit., 434 ss.; Burdese, Sul riconoscimento, cit., 23 nt. 28; Id., Sul concetto di
contratto e i contratti innominati in Labeone, in Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano
(Milano, 7-9 aprile 1987), I, Milano, 1988, 34 ss. (ma cfr. anche quanto l’A.
sostiene in I contratti innominati,
cit., 73); Gallo, Synallagma, I, 229 s., 240 nt. 202; II,
143 ss., che pensa ad una definitiva cristallizzazione nella codificazione
giulianea – ipotizza che la praescriptio
fosse originariamente estrinseca alla formula,
ma, in un momento successivo, ormai consolidata all’interno della sua struttura
(il che può essere già ragionevolmente possibile ai tempi di Pomponio): in
generale, però, secondo me ha ragione M.
Talamanca, voce Processo civile
(dir. rom), in EdD, XXXVI, Varese,
1987, 39 nt.
[80] Possiamo tentare di
meglio visualizzare il problema indicando quella che, grosso modo, sarebbe
potuta essere la conceptio verborum
della formula dell’azione. Nel caso
esaminato per primo da Pomponio, si può pensare a qualcosa di simile (a
seguire, da ultimo, Cannata, Contratto e causa, cit., 44 s.): C. Aquilius iudex esto. Quod As As No
No scyphos argenteos dedit ut Ns Ns pondus
argenti Ao Ao daret (redderet?) quantum in illis esset,
qua de re agitur, quidquid
[81] Per varie vie – ed a
prescindere dal problema della riferibilità di questo linguaggio a specifici
contributi tra i prudentes –
riconoscono che nella formula dell’agere praescriptis verbis fosse
contenuto il riferimento alla buona fede, oltre Cannata, Contratto e
causa, cit., 44 s. e, fondamentalmente, M.
Kaser, Das römische Privatrecht,
I (II ed.), München, 1971, 580 ss.; Id.,
op. cit., II (II ed.), München, 1975,
419 ss., Kranjc, Die actio praescriptis verbis, cit., 436
ss.; Gallo, Synallagma, I, cit., 243 (Id.,
Eredità dei giuristi romani in materia
contrattuale, in Bellocci
[cur.], Le teorie contrattualistiche,
cit., 37 ss.); Burdese, Sul riconoscimento, cit., 18 s: (amplius 14 ss., cui rinvio per l’esame
dello status quaestionis), Id., Concetto, cit., 37; Id.,
Recenti prospettive, cit., 211 s.; Id., I contratti innominati, cit., 73 s., con letteratura; M. Talamanca, La tipicità dei contratti romani fra ‘conventio’ e ‘sttipulatio’ fino a
Labeone, in F. Milazzo
(cur.), Contractus e pactum. Tipità e
libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana (Atti Copanello, 1-4
giugno 1988), 97 ss., in part. 99. Attualmente, la posizione più radicale – la
tutela delle convenzioni sine nomine
sarebbe esclusivamente in factum ed i
riferimenti all’a. praescriptis verbis sarebbero
sistematicamente interpolati – pare difesa soltanto da M. Sargenti, ‘Actio
civilis in factum’ e ‘actio praescriptis verbis’. Ancora una riflessione,
in Iuris vincula. Studi in onore di M.
Talamanca, VII, Napoli, 2001, 237 ss. (ma cfr. ancora A. Burdese, Divagazioni in tema di contratto romano tra forma, consenso e causa,
in Iuris vincula, cit., I, 315 ss.,
in part. 343). Da ultimo, esprime una certa cautela in ordine alla sistematica
ricorrenza della clausola di buona fede nella formula dell’agere
praescriptis verbis Artner, Agere praescriptis verbis, cit., 51 (amplius 46 ss.).
[85] Così, testualmente, Talamanca, La ‘bona fides’, in Garofalo (cur.), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., 298 nt. 811 (ma cfr.
l’intero § 53 del saggio).
[86] Cfr. ancora, per il
problema, Stolfi, Bonae fidei interpretatio, cit., 139 ss.
(162 per il ricorso all’aequitas in
rapporti di stretto diritto).
[89] Come esattamente
sostiene il Talamanca, La ‘bona fides’, cit.,
301, non v’è alcuna ragione ostativa a considerare l’aequitas come regola operazionale valida anche al di fuori della
materia regolata da iudicia bonae fidei.
Per l’idea secondo cui l’aequitas
esprime una disciplina «ispirata all’esigenza di una parità
di trattamento» cfr. ivi, 298 nt. 811.
[90] Cfr. M. Talamanca, Pubblicazioni pervenute alla Direzione (a proposito di G. Sacconi, «Conventio» e «mutuum», in Index,
XV, 1987, 426), in BIDR, XCI, 1988,
834. L’esegesi della Sacconi, ad ogni modo, impone in fin dei conti la medesima
precisazione che può farsi circa la tesi del Vassalli,
Delle obbligazioni di genere, cit.,
184. Nemmeno deve pensarsi ad una condicio
tacita, non tanto perché la parte finale del passo sia interpolata (così H.L. Légier, Tacita condicio, in RHDFE,
XLIV, 1966, 17 nt. 84), quanto perché è l’aequitas
ad integrare, sul piano ‘normativo’, il contenuto del rapporto obbligatorio.
Muovono dal contenuto dell’oportere,
seppur senza valorizzare la funzione dell’aequitas,
anche R. Knütel, Stipulatio und pacta, in Festschrift für M. Kaser zum 70. Geburtstag,
München, 1986, 208 s.; M. Kaser, Mutuum und stipulatio, in Eranion in honorem G.S. Maridakis, I,
Atene, 1963, 173 s.; ne valorizza la funzione, invece, F. Pringsheim, Id quod
actum est, in ZSS, LXXVIII, 1961,
81 s. Cfr. anche U. von Lübtow, Beiträge zur Lehre von der Condictio nach römischem und geltendem Recht,
Berlin, 1952, 104. Trova alterato il testo il Beretta,
Qualitas e bonitas, cit., 221 s.,
senza adeguata giustificazione.
[91] Il Pellecchi, L’azione in ripetizione, cit., 84, testo e nt. 37, considera
infatti genuino il testo ed indica argomenti convincenti contro la più
risalente impostazione della sua esegesi interpolazionistica: ripercorrendo il
suo ragionamento, si può osservare come, quanto al problema del mutamento di
soggetto (prospettato nella critica di Pernice, Labeo, II, 2.1, cit., 105, E.
Betti, Sul valore dogmatico della
categoria ‘contrahere’ in giuristi proculiani e sabiniani, in BIDR, XXVIII, 1915, 80 nt. 1 e M. Kaser, ‘Quanti ea res est’. Studien zur Methode der Litisästimation im klassischen römischen Recht, München, 1935, 116 nt. 8), così
come quanto al problema del riferimento alla bonitas (indicato come segno di alterazione anche da E. Siber, ‘Retentio propter res donatas’, in Studi in onore di S. Riccobono, III, Palermo, 1936, 251 nt. 25; Von
Lübtow, Die Lehre der condictio, cit., 79), la
critica abbia formulato rilievi «di carattere
prevalentemente formale e comunque abbastanza compatibili con l’impianto
riassuntivo della rappresentazione». Richiamando, invece, la critica alla tesi
del von Lübtow da parte di di M.
Talamanca, rec. di U. von Lübtow,
Beiträge zur Lehre von der Condictio nach römischem und geltendem Recht,
Berlin, 1952 e di F. Schwarz, Die Grundlage der Condictio im klassischen
römischen Recht, Münster-Köln,
[92] Se si ritiene che il
testo facesse riferimento allo sponsor,
per via del ricorso alla forma ‘spopondit’,
il condicere del garante potrebbe
essere riconducibile all’a. depensi
(così ipotizza Lenel, EP, cit., 215 nt. 1; cfr. anche M. Kaser, ‘Unmittelbare Vollstreckbarkeit’ und Bürgenregreß, in ZSS, C, 1983, 131 nt. 194; B. Eckardt, Iavoleni epistulae, Berlin, 1978, 61 ss., in part. 63; G. Wesener, Die Durchsetzung von Regressansprüchen im
römischen Recht, in Labeo, XI,
1965, 343; P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni. Corso di diritto romano, I. Le garanzie personali, Padova, 1962, 165). Per il genere letterario,
cfr. P. Cugusi, Evoluzione e forme dell’epistolografia
latina nella tarda Repubblica e nei primi due secoli dell’Impero con cenni
sull’epistolografia preciceroniana, Roma, 1983, 124 s.
[93] Non mi convince, al
riguardo, la traduzione del Vassalli,
Delle obbligazioni di genere, cit.,
174, che legge il passo in questi termini: «se il debitore, avendo
già pronto il grano col quale poteva soddisfare il suo debito, lo dia invece al
garante, e questi intenti la condictio
per riavere quel grano che egli ha prestato migliore, potrà essere rimosso
coll’eccezione di dolo malo». A parte l’assenza di un concreto significato
della frase (il garante accetterebbe una solutio
del peggior grano dal garantito per poi condicere
il migliore?), in realtà il testo afferma che il debitore è semplicemente ‘paratus fideiussori dare’, non già che ‘fideiussori dedit’. Ciò significa
unicamente che il debitore principale è pronto a dare al garante il frumento con cui egli si sarebbe potuto
liberare, ma questi rifiuta e pretende il migliore in quanto la bonitas connota la sua solutio.
[96] Il principio opera,
infatti, nei rapporti tra garante e creditore, non tra garante e debitore
principale (mi limito ad un rinvio a Talamanca,
Istituzioni, cit., 575 s.). Ne traeva
impropriamente un argomento a favore dell’interpolazione il Beretta, Qualitas e bonitas, cit., 219: in ogni caso, dal riferimento nel
testo all’assenza di una precisazione sulla qualità nella conceptio verborum della sponsio
del garante (‘sine adiectione bonitatis’)
non può dedursi alcunché, in quanto si deve dare per presupposto (che appare
coerente con lo sviluppo dell’argomentazione) che anche il garantito abbia
promesso ‘sine adiectione bonitatis’.
Sicché il garante, pur essendosi obbligato in
eandem causam (sicché la garanzia è validamente prestata), pone in essere
la solutio consegnando validamente,
ma di sua libera iniziativa, frumento della miglior qualità quando avrebbe
potuto liberarsi consegnandone della peggiore.
[97] Cfr. Pugliese, Sitzia, Vacca, Istituzioni, cit., 519; Burdese, Manuale, cit., 570 nt. 25, che ricorda anche Paul. 4 ad Sab. D. 33.6.4 (irrilevanza della bonitas nel caso di legato obbligatorio
di genere; Voci, Istituzioni, 412 nt. 11, che ricorda anche
Marc. 22 dig. D. 46.3.72.5 (la solutio avente ad oggetto un servus è valida purché sia realizzato
l’effetto traslativo); sul punto cfr. anche Vassalli,
Delle obbligazioni di genere, cit.,
174; Albertario, La qualità della specie, cit., 378); W. Ernst, Gattungskauf und Lieferungskauf im römischen Recht, in ZSS, CXIV, 1997, 299 e 328 nt. 266.
[98] Mi pare ragionevole
la posizione di G. Mac Cormack, Dolus in the Law of the Early Classical
Period, in SDHI, LII, 1986, 260
s., che esclude che la funzione dell’exceptio
sia «to penalise the guarantor’s fault».
[99] Si tratta dell’azione
fondata sul mandato che intercorre tra garante e garantito, operante,
normalmente, in caso di fidepromissio
e fideiussio (per tutti, Talamanca, Istituzioni, cit., 576). Per chi ritenga che, in questo caso, il condicere sia da ricondurre all’a. depensi, anche a prescindere dalla
possibilità o meno di un concorso tra questo rimedio e l’a. mandati contraria (per l’ammissibilità cfr. Frezza, Le garanzie, I, cit., 166), l’exceptio
doli proietterebbe, comunque, nel iudicium
il contenuto del rapporto obbligatorio di buona fede che normalmente regola,
nella più matura esperienza classica, i rapporti tra garante e debitore
principale: mi pare intuiscano questo problema – pensando all’a. depensi – tanto il Frezza, op. cit., 166, quanto W.
Osuchowski, Quelques remarques sur
la ‘deductio bonorum emptoris’ et l’interpretation de D. 16.2.2, in Studi in onore di E. Volterra, II,
Milano, 1971, 472 ss. (l’exceptio non
realizza, però, secondo me, una compensazione, come ipotizza l’Osuchowski). Sul
problema del rapporto di questo condicere
con il mandato, cfr. anche H.H. Jakobs,
Fiducia und Delegation, in ZSS, CX, 1993, 376.
[100] Non mi pare, quindi,
contraria a questa soluzione, come ipotizzava, invece, il Beretta, Qualitas e bonitas, cit.,
219 nt. 48, quella che figura in Cels. 38 dig. D. 17.1.50.1: sive, cum
frumentum deberetur, fideiussor Africum dedit sive quid ex necessitate solvendi
plus impendit quam est pretium solutae rei, sive Stichum solvit isque decessit
aut debilitate flagitiove ad nullum pretium sui redactus est, id mandati
iudicio consequeretur. Il passo è chiaramente riferibile ad una solutio il cui valore supera quello
della res con cui il debitore principale
si sarebbe potuto liberare, ma essa appare pur sempre imposta dalla necessitas solvendi (il garante, cioè,
non avrebbe potuto procurarsi una diversa qualità di frumento: cfr. A. Watson, Contract of Mandate in Roman Law, Oxford, 1961, 155 ss. e 163 ss.),
specie ove si segua la congettura del Mommsen, che ricostruiva il testo come ‘sive, cum frumentum deberetur, fideiussor
Africum dedit ex necessitate solvendi sive quid plus impendit quam est pretium
solutae rei’. Mi pare, tuttavia, che anche ove non si segua questa
congettura (comunque plausibile in quanto è quanto meno verosimile un errore
dovuto alla ripetizione di ‘sive’),
l’intera argomentazione del giurista sia centrata sulla circostanza che l’electio non ha nulla a che vedere con
uno specifico contributo volitivo del garante, che quindi non viola la bona fides: non la violerebbe qualora il
suo maggior dispendio sia imposto dalla necessitas
solvendi né qualora trasferisca la proprietà di Stico e successivamente il
valore del servus divenga pari a zero
per eventi esterni alla sua ‘sfera d’azione’;
sicché se i tre esempi sono sullo stesso piano per la coordinazione tramite ‘sive’, è difficile pensare che il caso
della solutio Africi, vale a dire il
primo di essi, non fosse inquadrabile nella medesima logica.
[101] A questo punto,
risulta infondato il condicere del
garante: al riguardo, va sottolineato come tale esito non consegua ad una pluris petitio (si pone il problema l’Eckardt, Iavoleni epistulae, cit., 62, dal punto di vista dell’intentio dell’a. depensi), in quanto, a prescindere da qualsiasi altra
considerazione, ove il convenuto non avesse chiesto l’exceptio doli non si sarebbe posto un problema di recte agere; piuttosto, l’assoluzione è
conseguenza della fondatezza dell’exceptio
e, quindi, dell’accertata violazione di un dovere di praestare sussidiario all’attuazione della electio secondo il canone della fides
bona, che si riverbera iure honorario
sul rapporto obbligatorio di stretto diritto.
[102] In quanto la
violazione della buona fede rileva, in questo caso, direttamente nel rapporto
obbligatorio avente ad oggetto la prestazione di genere.
[105] Incidentalmente, se
non fraintendo il riferimento, M. Kaser,
Studien zur römischen Pfandrecht, II.
Actio pigneraticia und actio fiduciae,
in TR, XLVII, 1979, 232 nt. 204,
parrebbe considerare classica anche la seconda parte del passo; cfr. anche G. Mac Cormack, Dolus in Decisions of the Mid-classical Jurist, in BIDR, XCVI-XCVII, 1993-94, 87 e A. Wacke, Zum dolus-Begriff der actio
de dolo, in RIDA (III ser.) XXVII,
1980, 359. Interpolato il testo per P.
Voci, Diritto ereditario romano
(d’ora in avanti DER), II2,
Milano, 1963, 262 nt. 55, cui rinvio anche per la configurazione della scelta
nel legato di genere, nonché per Grosso,
Obbligazioni, cit., 247.
[106] Basti pensare al
ruolo che ha avuto il ‘dogma’ della perpetuatio
obligationis nella formazione delle regole della responsabilità (cfr. al
riguardo, da ultimo, C.A. Cannata, ‘Quod veteres constituerunt’. Sul
significato originario della ‘Perpetuatio obligationis’, in M.J. Schermaier, J.M. Rainer, L.C. Winkel
[hrsgg.], Iurisprudentia universalis.
Festschrift für Theo Mayer-Maly, Köln-Weimar-Wien, 2002,
85 ss., in part. 95 s.; più in generale, sul ruolo del modello della stipulatio, Id., voce Obbligazioni
in diritto romano, medievale e moderno,
in DDP, IV ed., Torino, 1995, 438
ss.; per il ruolo ‘sproporzionato’ del ‘dogma’ nella cultura della Pandettistica, R. Cardilli, Il ruolo
della ‘dottrina’ nella elaborazione del ‘sistema’: l’esempio della
responsabilità contrattuale, in Roma
e America. Diritto romano comune, I, 1996, 90 = Id., Un diritto comune
in materia di responsabilità contrattuale nel sistema giuridico romanistico,
in Riv. dir. civ., XLIV, 1998, I,
318; per le sue conseguenze nel nostro ordinamento, il mio Dovere di diligenza e «rischi funzionali», Napoli, 2005, 88 ss.) o, per limitarci alla sua inadeguatezza
nelle logiche dell’esperienza giuridica romana, la configurazione del problema
della buona fede nelle azioni per la restituzione della dote individuata da F. Goria, Bona fides ed actio ex stipulatu per la restituzione della dote: legislazione
giustinianea e precedenti classici, in Garofalo
(cur.), Il ruolo della buona fede
oggettiva, II, cit., 241 ss., in part. 259 ss.
[107] Le fonti, al
riguardo, sono note e, almeno in parte, controverse: cfr., in particolare, il
rescritto di Severo ricordato in Ulp. 21 ad
Sab. D. 30.37pr. (di cui, peraltro, si sospettava l’interpolazione del
riferimento alla qualità media: cfr. Vassalli,
Delle obbligazioni di genere, cit.,
178 s.; Albertario, La qualità della specie, cit., 379; Bonfante, Corso, IV. Le obbligazioni,
cit., 183, Voci, DER, II, cit., 262 nt. 53; Grosso, Obbligazioni, cit., 248), e, quindi, Iust. C. 6.43.3.1b (a. 531),
in tema di legato obbligatorio (cfr. Vassalli,
op. cit., 182 ss., e Albertario, op. cit., 384 s.), nonché Iust. C. 8.53.35.1-2 (a. 530), in tema di
donazione (cfr. Grosso, op. cit., cit., 250). Cfr. infine i
richiami del Voci, Istituzioni, cit., 412 nt. 12, del Burdese, Manuale, cit., 570 nt. 26 e del Pastori,
Gli istituti romanistici, cit., 857.
[109] Così, testualmente, G. Astuti, voce Obbligazioni (dir. interm.), in EdD,
XXIX, Varese, 1979, 109.
[110] Di cui mi sono
occupato di recente in ‘Emptio perfecta’
e vendita di genere: sul problema del ‘tradere’ in Alex. Sev. C. 4,48,2, di
prossima pubblicazione negli «Atti del Seminario su La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto
romano» (Alba di Canazei, 25-27 luglio 2006 – Cortina d’Ampezzo, 21-23
settembre 2006), passim: rinvio, sul
punto, a quanto ivi rilevato nonché, comunque, a Talamanca, voce Vendita,
cit., 362 nt. 305; 362 s.; 458 nt. 1602, nonché Id., Considerazioni sul
«periculum rei venditae», in SC, VII, 1995, 291 s. Sul problema dell’art. 1378 c.c. in rapporto al
contenuto dell’art. 1178 c.c., cfr. quindi di
Majo, Dell’adempimento, cit.,
24 ss.; F. Galgano, in F. Galgano, G. Visintini, Effetti del contratto. Rappresentanza.
Contratto per persona da nominare, in Comm.
Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, sub
art. 1378 c.c., 128 ss.; V. Roppo,
Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001, 518 s.; A. Luminoso, La
compravendita, IV ed., Torino, 2004, 78 s. e 88; generaliter P. Rescigno (cur.),
Codice civile (V ed.), I, Milano,
2003, sub art. 1378 c.c. (M.A. Livi), 1652 s.
[111] Sul punto, cfr. A. Palazzo, Le successioni, II, Milano, 1996, 672 ss. e, da ultimo, G. Bonilini, in G. Bonilini, G.F. Basini, I
legati, in Tratt. Notariato
Perlingieri, VIII.6, Napoli, 2003, 260 ss.
[112] Cfr. Bonilini, Legati, cit., 261; A. Masi,
voce Legato, in EGI, XVIII, 1990, 6; Id.,
Dei legati (art. 649-673), in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma,
1979, sub art. 664 c.c., 116 ss., in
part. 117 s.; C.M. Bianca, Diritto civile, II (III ed.) La famiglia – Le successioni, Milano, 2001,
700, secondo il quale «in mancanza di indicazioni del testamento sulla qualità
dei beni, supplisce il generale criterio dettato in tema di adempimento e
riaffermato nella disciplina del legato di genere (664.1 c.c.), e cioè il
criterio della qualità media»; ma cfr. anche Id.,
Dell’inadempimento delle obbligazioni,
II ed., (art. 1218-1229), in Comm.
Scialoja-Branca, sub art. 1228
c.c., Bologna-Roma, 1979, 107 ss. In generale, cfr. altresì la sintesi in Rescigno (cur.), Codice civile5, I, cit., sub art. 664 c.c. (E.
Carosone), 816 s.
[114] Cfr. G. Baudry-Lacantinerie, L. Barde, Delle obbligazioni, II, in G.
Baudry-Lacantinerie (dir.), Trattato
teorico pratico di Diritto Civile3 (trad. it. P. Bonfante, G. Pacchioni,
A. Sraffa), Milano, 1915, § 1469, 573 e nt. 2; l’art. 1022 del code civil sarebbe «pura applicazione del diritto comune» (cfr. G. Baudry-Lacantinerie, M. Colin, Delle donazioni fra vivi e dei testamenti,
II, in Baudry-Lacantinerie
[dir.], Trattato, cit., Milano, s.d.,
§ 2565, 305).
[115] Sul punto cfr. C. Gangi, I legati nel diritto civile italiano, I, Padova, 1933, 150 ss.; Id., op. cit., II, Padova, 1932, 11 s.; sul passaggio al Codice del
1942, cfr. ancora Id., La successione testamentaria nel vigente
diritto italiano, Milano, 1948, 282 s., in cui l’autore sottolinea il
rapporto con l’art. 1178 c.c.
[118] Si tratta dell’insegnamento
che mi pare risalga a Cass. civ., sez. un., 28 aprile 1989, n.
[119] Per questa idea, cfr.
L. Garofalo, Perimento della cosa e azione redibitoria in un’analisi
storico-comparatistica, in Europa e
diritto privato, 1999, 870 ss., in part. 871.
[121] Cfr. al riguardo Baudry-Lacantinerie, Barde, Delle obbligazioni, cit., § 1469,
[123] Cfr. Iust. C. 8.53.35.1 (a. 530); Iust. C. 6.43.3.1b (a. 531);
Afr. D. 30.110 (l’interpolazione finale); Ulp. D. 30.37pr.: cfr. supra, nt. 107 e in generale Pugliese, Sitzia, Vacca, Istituzioni, cit., 879.
[125] Cfr. di Majo, Dell’adempimento, cit., sub
art. 1178 c.c., 18 e nt. 6, nonché il Münchener
Kommentar zum Bürgerlichen Gestzbuch, IV ed., IIa, (red. W. Krüger), München, 2003, sub §
243 BGB, 339 ss., ivi altra
letteratura.
[126] M. Giorgianni, L’inadempimento, III ed., Milano, 1975, 282 ss., in part. 300, da
cui la citazione testuale; cfr. comunque anche Bianca, Dell’inadempimento,
cit., sub art. 1218 c.c., 107 ss.
[127]
Breccia, Le obbligazioni, cit., 220.
L’impostazione sarebbe configurabile in questi termini in quanto, in una
società industriale, normalmente il debitore non dispone delle res dedotte in obligatione, ma deve
procurarsele: il che, tuttavia, introdurrebbe una differenza ingiustificata tra
genus limitato (da individuarsi,
cioè, all’interno di una scorta appartenente al debitore) e genus illimitato, che mi pare estranea
al contenuto della norma.
[131] Cfr. quanto dico in Dovere di diligenza, cit., 101 nt. 53,
103 nt. 59, 104 nt. 60, 106 nt. 67.
[133] Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 40, testo e nt. 12; Id., Sul problema della responsabilità, cit., 121 ss. in part. 134 ed
ora, sul problema della perpetuatio
obligationis, la più recente esegesi dell’A. in Quod veteres constituerunt, cit., 85 ss.
[134] Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 42 e 56 ss.; ma cfr. anche Id.,
Dai giuristi ai codici, dai codici
ai giuristi, in Riv. trim. dir. proc.
civ., XXXV, 1981, 1012. Questa lettura è tenuta presente da Rescigno (cur.), Codice civile5, I, cit., sub art. 1178 c.c. (M.B.
Chito), 1319 s. anche per quanto concerne il significato dell’art. 1178
c.c.