N. 5 – 2006 – Tradizione
Romana
Pierangelo
Catalano
Università di
Roma “
Alcuni concetti e principi
giuridici romani secondo Giorgio La Pira*
Sommario: Notizie preliminari. I. “Genesi del sistema” e “istituzioni”. 1. Scienza
giuridica e “concetti fondamentali”. – 2. Continuità e
coerenza del pensiero giuridico di Giorgio La Pira “personalità
monolitica”. – 3. I
principî e la “sistemazione”. – 4. La “sistematica” delle
“Istituzioni” secondo Gaio e secondo Giorgio La Pira. –
5. “Diritto obiettivo romano” e diritto
naturale (l’“immagine dei circoli concentrici”). Cicerone.
II. Principî (1939/1940). 1. La tripartizione dello ius
privatum e l’ordine espositivo di “Principî”.
– 2. Alcuni
concetti fondamentali di “Principî”. – 3. Principio della “solidarietà
umana” (e diritto canonico). III.
Diritto romano (la concezione
cristocentrica). 1.
La nozione di Diritto romano. – 2. Concezione cristocentrica
della storia e unicità storica della scienza giuridica romana.
– 3. La cattedra “strumento
sacro”. – 4. Contro le
“tendenze antiromane”. – 5. Il punto di vista del 1968:
prospettiva mediterranea. – 6. La
“strategia romana” di Cristo e degli Apostoli (rinvio). –
7. Europa e America
Latina (1974). IV.
Dio. 1. Contro il
“sentimento di dispersione”. – 2. Sapere scientifico e
immagine di Dio. – 3.
“Lex aeterna che è in Dio” e lex
naturalis. – 4. Concezione
teocentrica del mondo. – 5. Ancora
Cicerone. - 6. L’Assemblea
Costituente della Repubblica Italiana. – 7. Rifiuto dello “Stato laico” e
dell’ateismo. V. Persona. 1.
La sistematica di Gaio.
– 2. Uomo e diritto
(secondo Ermogeniano). – 3. Il
concepito è già una “persona umana”. – 4.
“Non sostanzialità degli enti collettivi”.
– 5. Lo sciopero “diritto della
persona”. VI. Popolo. 1.
Cicerone e Seneca. Differenza
tra “popolo” e “stato”. – 2. Il console Menenio Agrippa e
San Paolo. VII. Famiglia. 1. “Carattere
costituzionale” della famiglia in diritto romano. – 2. Il “posto” dei concepiti nella famiglia
romana. – 3. Contro
lo Stato totalitario e l’individualismo borghese. – 4. Famiglie di popoli e famiglia umana. – 5. La “persona” del concepito e la pace del
“corpo delle nazioni”. VIII.
Proprietà
e possesso. 1. Proprietà
classica (quiritaria) e sovranità territoriale. – 2. Proprietà moderna tra
“età preatomica” ed “età atomica”.
– 3. Teoria romana
del possesso, ordine pubblico e pace. IX.
Città e cittadinanza
romana. 1. Il “valore delle
città” e la “contestazione”. – 2. A proposito del concetto di
“città”. – 3. I
“fondamenti della civiltà mediterranea”: Gerusalemme, Atene
e Roma. “Iniziare da Betlemme”. – 4. “Strategia” e cittadinanza romana. I centurioni. X. Orbis “organismo
internazionale”.
1. ‘Ius gentium’, ‘fides’ e
‘natura’ (solidarietà umana). – 2. Contro il soggettivismo
giuridico. – 3. Giustizia e
pace. – 4. Guerra giusta e
“pace inevitabile”. – 5. “Contestazione”
dello ius belli e del “diritto di proprietà privata di
grandi dimensioni”. – 6. “Totus
mundus est quasi una res publica”.
Appendice
bibliografica. [Bibliografia
Romanistica di Giorgio La Pira. A)
Scritti editi. – B) Su alcuni inediti.]
1.
– Ricordo la lettera di Giorgio La Pira a Emilio Betti del 21 febbraio
1927: «Io ho ben netta dinanzi a me la meta che debbo prefiggermi (e che
mi sono prefissa): lo studio del diritto romano – Ella lo sa – mi
è particolarmente caro: esso trascende il senso comune di studio, per
assumere – direi – valore di strumento della mia medesima
formazione interiore. Ha un valore ideale grandissimo e costituisce il tratto
caratteristico della mia ‘persona’»[1].
Giuseppe
Grosso, professore di Diritto romano dell’Università di Torino,
democratico cristiano, Presidente della Provincia e poi Sindaco di quella
città, scrisse nel 1963: «Giorgio La Pira, studioso, romanista,
uomo di governo, pubblico amministratore locale, forma una personalità
monolitica, che ha il suo fulcro in una profonda carica mistico-religiosa [...]
La Pira sindaco non rientra nei normali schemi amministrativi; egli stesso
dichiara che la legge in virtù della quale amministra è quella
del Vangelo e del diritto romano [..]»[2].
Questa
linea interpretativa del diritto si trova sintetizzata, dallo stesso Giorgio La
Pira, Sindaco di Firenze, in un telegramma-lettera del 1 agosto
«[...] Conosco
queste cose e potrei anche rispondere oltre che con insegnamento diritto romano
anche con insegnamento evangelo relativo all’uomo guarito di sabato
nonostante
2. – Ho cercato di riflettere sulla vita di Giorgio La
Pira, per dir così, internamente: cioè attraverso le sue note
autobiografiche. Per individuare, da un punto di vista lapiriano, i momenti principali
della vita di Giorgio La Pira, dobbiamo, ovviamente, basarci sulle note
autobiografiche scritte sulla prima pagina della copia dei Digesta Iustiniani da lui utilizzata[4].
L’analisi delle note autobiografiche conferma l’intuizione di
Giuseppe Grosso: risulta evidente l’inscindibilità dei vari
aspetti del pensiero e dell’azione, siano essi di scienza giuridica, di
politica, di religione.
Delle venticinque note autobiografiche quattro fanno riferimento
a Contardo Ferrini: 10 luglio 1926; 17 ottobre 1927; 29 aprile 1930; 8 febbraio
1931. Nella “Prolusione” fiorentina (1934)[5]
il La Pira ricordò l’annotazione alla data del 17 ottobre 1927:
«Nel 25° anniversario
della morte di C. Ferrini (17 ottobre 1902) e nel giorno stesso in cui ne
viene introdotta la causa di beatificazione, il Signore mi chiama, attraverso
la decisione della Facoltà giuridica fiorentina, all’insegnamento
del diritto romano». Il volume La successione ereditaria
intestata e contro il testamento (1930)
era stato dal La Pira così dedicato: «A Contardo Ferrini che per
tutte le vie mi ricondusse alla casa del Padre».
Giorgio La Pira è morto sabato 5 novembre 1977, alla
vigilia del giorno in cui
3.
– È facile vedere nella “Prolusione” del 1934 il punto
di partenza di una rapida fase di intensissimo lavoro scientifico, di cui
La
“Prolusione” fiorentina segna un momento importante degli studi
romanistici italiani[10].
D’altra parte, il tema della “Prolusione” corrisponde alle
riflessioni epistemologiche contenute nell’articolo Il diritto naturale nella concezione di S. Tommaso d’Aquino (pubblicato
esso pure nel 1934) [11].
E questo articolo si concludeva con una critica del tecnicismo giuridico quando
ignori che hominum causa ius constitutum
est (secondo il noto passo di Ermogeniano D. 1,5,2) e cada
nell’astrattismo.
Il
secondo filone del lavoro
scientifico di Giorgio La Pira, che muove appunto dal pensiero di S. Tommaso,
si sviluppa anche negli anni Quaranta e attrae l’attenzione di Jacques
Maritain, il quale, nell’opera La
personne et le bien commun (1947), richiama uno scritto lapiriano del 1943[12].
Certo la
Seconda Guerra mondiale e l’Assemblea Costituente hanno inciso nello
sviluppo del pensiero e dell’azione di Giorgio La Pira: sia per
l’aspetto costituzionale[13]
sia per l’aspetto internazionale[14].
Per parte mia, considero centrale la relazione alla Settimana Sociale dei
Cattolici d’Italia del 1945 ed in essa l’accostamento (su cui forse
non si è finora meditato) della costituzione dell’antica
Repubblica romana a quella dell’Unione Sovietica del 1936:
«Facciamo un salto di duemila anni», scriveva il La Pira[15].
Peraltro, dalle note autobiografiche non risulta alcuna cesura in
corrispondenza di quegli eventi; anzi, dopo vent’anni senza annotazioni,
si ha per l’8 dicembre 1954 un richiamo alla conversione religiosa, del
1924: «inizio di Unione col Maestro».
Nel 1974,
ultimo anno dell’insegnamento universitario, Giorgio La Pira tiene
all’Abbazia di Fossanova (nel Mercoledì Santo 10 aprile) il
discorso per il VII Centenario della morte di S. Tommaso d’Aquino: vi
è riaffermata, con forza, la convergenza della scienza giuridica,
fondata dai giuristi romani nell’ultimo secolo della repubblica, e della
scienza teologica[16].
4. – Intendo
porre in risalto, attraverso alcuni esempi, la continuità del pensiero
lapiriano rispetto all’antico pensiero giuridico romano che, secondo il
La Pira, prelude al Cristianesimo. Gli esempi saranno incentrati su alcuni dei concetti
che il La Pira considera (esplicitamente o implicitamente) fondamentali per il
diritto: Dio, persona, popolo, famiglia, proprietà e possesso,
città e orbe.
Altri
esempi potrebbero, ovviamente, essere aggiunti: non tratterò qui
principalmente di “interpretazione” né di
“legge”, né di “eredità”, né di
“contratto”, né di “domus”, né di “nazione”, né di
molti altri concetti fondamentali.
Le riflessioni sui
concetti evidenziati non possono certo essere esaustive: tanto più
avendo raccolto materiali giuridici da tutti gli scritti editi di Giorgio La
Pira[17].
Nelle note autobiografiche di Giorgio La Pira la
“Prolusione” del 1934 segna, potremmo dire, quasi un nuovo inizio[18];
essa costituisce l’avvio
della rapida fase di intensissimo lavoro scientifico, cui appartengono i
quattro studi su La genesi del sistema
nella giurisprudenza romana[19].
Nel 1936, all’inizio del quarto di questi studi, il La Pira
dichiara che la meditazione e la ricerca, che lo “occupano da vario
tempo”, mirano a dar fondamento alle seguenti tesi:
«1) Che la giurisprudenza romana -
fatto unico nella storia della cultura e fattore essenziale della storia del
pensiero giuridico antico e moderno – pose, sin dall’ultimo secolo
della repubblica, le basi ed i muri maestri del primo e più grande
edificio scientifico del diritto.
2) Che a questo fine essa – senza venir
meno alla sua vocazione all’equità ed alla pratica e senza perdere
il merito che le deriva dall’essere la vera creatrice della scienza
giuridica – assimilò, per applicarlo al diritto, il metodo logico
dei greci (geometri, logici etc.).
3) Che, per effetto di questa organizzazione
scientifica, essa costruì le categorie fondamentali di ogni scienza
giuridica (quindi, esplicitamente posti o implicitamente contenuti nei
principî, i concetti fondamentali delle dommatica moderna)».
“Fini” della ricerca “per legittimare le
tesi” sono:
«1) mostrare cosa si intenda per
scienza nel mondo culturale dell’ultimo secolo della repubblica e quali
sono gli strumenti che vengono indicati come necessari per la costruzione di un
edificio scientifico;
2) vedere se, da chi, ed in che modo, questi
strumenti della scienza logica dei greci (geometri, logici etc.) furono
effettivamente usati per la costruzione della scienza giuridica romana.
3) studiare il sistema giuridico che
derivò da questa applicazione della logica al diritto e studiarlo in due
sensi: a) nella sua organizzazione
esterna b) e, più, nella sua
organizzazione intrinseca. Studiarlo, cioè, da un lato, nell’ampia
membratura delle sue divisioni, partizioni etc. e, dall’altro, nel
rigoroso concatenamento interno dei principî che dà al sistema una
perfetta coerenza interiore e che, nonostante la sua ampiezza, gli conferisce
il sigillo della scienza: quello dell’unità.
4) Infine vedere se realmente la scienza
giuridica moderna mutui – lo sappia o no - proprio da questo sistema i
suoi dommi fondamentali.»
Orbene, a conclusione
di questo studio, il La Pira scrive che la soluzione, e la relativa ricerca, di
parte dei problemi prospettati all’inizio (e si riferisce evidentemente
ai “fini” 3 e 4) «va riservato ad altri studi».
Viene
così indicata una linea che si realizza già con l’articolo
su La personalità scientifica di Sestio Pedio[20]
e con la relazione su Problemi di sistematica e problemi di giustizia nella
giurisprudenza romana al V Congresso nazionale di Studi Romani (1938)[21],
poi attraverso i fascicoli di Principî
(1939-1940), fino alla commemorazione del VII Centenario della morte di San
Tommaso (1974). La linea di pensiero è ininterrotta: la seconda guerra
mondiale non segna un mutamento di pensiero ( v. supra, “Notizie preliminari”, 3). Lo sviluppo
intellettuale del La Pira è caratterizzato, anche, dalla profonda
coerenza: ne vedremo esempi quanto ad alcuni concetti fondamentali: Dio,
persona, popolo, famiglia, città, guerra (pace).
In questa
linea emerge la “personalità monolitica” di Giorgio La Pira,
“studioso romanista, uomo di governo, pubblico amministratore
locale” (uso sempre le parole di Giuseppe Grosso). I risultati di questa
linea di ricerca, che coinvolge l’intera “persona” del La
Pira, non ci sono stati lasciati dall’autore in uno studio sistematico,
cioè in uno studio che ponga in evidenza la relazione dei concetti
fondamentali con i principî e con l’intero sistema.
L’edificio giuridico lapiriano appare, tuttavia, chiaro nelle sue parti,
se si assume un punto di vista lapiriano. Le note autobiografiche scritte sulla
prima pagina del volume dei Digesta
Iustiniani posseduto da Giorgio La Pira iniziano nel 1924, per
l’inizio dell’”Unione col Maestro” e terminano nel 1974
(anno del collocamento fuori ruolo). Gli scritti romanistici pubblicati (vedi infra, “Appendice bibliografica”) indicano la ricerca
dei concetti fondamentali, confermata e sviluppata negli inediti romanistici e
negli altri scritti.
Il titolo stesso della pubblicazione fiorentina Principî (1939) mostra come il La
Pira intendesse procedere secondo il metodo scientifico che egli così
aveva descritto nel 1935 in riferimento ai giuristi dell’ultimo secolo della
Repubblica:
«Nello sforzo grandioso che i giuristi
di questo periodo fecero per far passare la giurisprudenza dalla fase empirica
a quella scientifica (tecnica, ars)
essi dovettero affrontare i tre fondamentali problemi che offre la costruzione
di qualsiasi scienza (che sono, poi, i tre problemi del metodo): 1) quello del
ritrovamento e della enunciazione dei principî; 2) quello della deduzione
in base ai principî posti; 3) quello della sistemazione per genera, species etc. della trattazione scientifica. Era, dunque, il metodo
della scienza dimostrativa – il metodo severo e mirabile dei geometri e
dei logici – che veniva a fondare sopra basi veramente scientifiche il
nuovo edificio della giurisprudenza romana»[22].
Dobbiamo pertanto cercare, con una prima approssimazione,
attraverso il pensiero dello stesso La Pira, quali siano «esplicitamente
posti o implicitamente continuati nei principî, i concetti fondamentali
della dommatica moderna»[23].
L’ordine
espositivo è essenziale nell’opera dei giuristi romani e su questo
tema sono “sempre fondamentali” gli studi di Giorgio La Pira (uso
le parole di Riccardo Orestano)[24].
D’altro lato, l’importanza della sistematica nel pensiero lapiriano
mi induce a porre in rilievo che il professore fiorentino mantiene identico
l’ordine delle istituzioni dal Corso
del 1939-40[25]
fino alla riedizione della IV edizione delle Istituzioni di diritto romano nel 1973[26].
Mi riferisco alle pagine su “Diritto obbiettivo romano”,
“Personalità giuridica”, “Principî generali
relativi ai rapporti giuridici”, “Rapporti giuridici
familiari”, “Tutela e cura”, “Il processo
romano”, “Teoria della successione”.
E’ da notare inoltre come il La Pira sottolinei che per quanto
riguarda i rapporti familiari (“quattro fondamentali”) la
trattazione «seguirà molto da vicino la sistematica di Gaio»[27].
E si badi che nel Corso del 1939-1940
egli aveva assunto esplicitamente la sistematica gaiana per la propria opera e
“per la scienza giuridica in generale”:
«Premessa. Partizioni del corso.
Il nostro studio avrà per
oggetto la civitas –
cioè l’ordinamento giuridico romano classico (e postclassico)
– dal punto di vista del diritto privato: “ius quod ad
utilitatem privatorum spectat” in contrapposto al diritto pubblico che
“ad statum rei publicae spectat” e che “in sacris, in sacerdotibus,
in magistratibus consistit” (D. 1,1,1,2).
Sarà quindi tripartito
perché:
1) considererà anzitutto le norme giuridiche di questo
ordinamento, avuto riguardo alla loro natura, alla loro fonte alla loro
interpretazione etc. (diritto obbiettivo);
2) passerà poscia a determinare
gli elementi essenziali della personalità giuridica,
3) e infine passerà
all’analisi dei rapporti giuridici.
Come si vede si riproduce pel diritto
romano la sistematica che avevamo già delineato per la scienza giuridica
in generale. Ed è codesta la sistematica delle Istituzioni di Gaio: in
esse, infatti, dopo una breve introduzione relativa alle norme giuridiche (ius civile, ius gentium, I, 1-7) si
passa allo studio delle “personae” (de iure personarum) e si affronta poscia tutta l’ampia
nervatura dei rapporti (familiari, reali, successori, obbligatori,
processuali).
Omne
ius quo utimur – dice infatti Gaio (I, 8) – vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad actiones.
Il presente corso di
“Istituzioni di Diritto Romano” sarà quindi composto delle
seguenti tre parti: I) Il diritto obbiettivo, II) La personalità
giuridica, III) L’analisi dei rapporti giuridici, a sua volta divisa in:
a) Analisi dei rapporti familiari. b)
Analisi dei rapporti processuali. c) Analisi dei rapporti reali. d) Analisi dei rapporti obbligatori. e) Analisi dei rapporti successori.
Tale tripartizione, come abbiamo detto
sopra, si uniforma esattamente alla partizione dell’opera gaiana.
E’ dunque assolutamente necessario che lo studioso, nel seguire il
presente Corso di istituzioni di Diritto Romano faccia anche oggetto di studio
accurato l’opera suddetta “Gaii
Institutiones”»[28].
Non
è dunque irrilevante l’ordine espositivo scelto dal La Pira per il
“diritto obbiettivo romano”:
“ius civile”, “ius gentium”, “ius
praetorium”, “ius naturale”[29].
Esso sembra capovolgere l’ordine del Titolo I (“De iustitia et
iure”) del I libro dei Digesta
Iustiniani, a cui il La Pira pur ricorre ripetutamente in queste pagine.
Ma, a ben vedere, trattando inizialmente dello ius civile e finalmente dello ius
naturale, il La Pira può meglio esaltare la dottrina della lex di Cicerone e S. Tommaso e
concludere con “l’immagine comune dei circoli concentrici”:
«Accanto allo ius civile,
praetorium, gentium, le fonti romane pongono anche lo “ius
naturale”. Ulpiano (D. 1.1.3) dice: “ius naturale est quod natura
omnia animalia docuit ”, e porta come esempio la procreazione ed
educazione della prole; Paolo (D. 1.1. 11) dice “ius naturale est quod semper
aequum ac bonum est ”, Gaio, infine, (Ist. I, 1) parla di una
“naturalis ratio” la quale detterebbe certi percetti fondamentali a
tutti gli uomini anzi è in questa “naturalis ratio” che gaio
vede il fondamento dello ius gentium (“quod vero naturalis ratio inter
omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque
ius gentium”).
Uno studio accurato di questa dottrina
dello ius naturale (di cui ci dà una bella ed ampia trattazione Cicerone
nel De Legibus libri I, II) porta a
questi risultati: i giureconsulti romani considerano lo ius naturale come il
substrato etico delle norme di diritto positivo (civile, pretorio etc.).
[…] Il diritto positivo, dunque, non deve discordare da quello naturale;
anzi non deve esserne che una esplicazione ed uno sviluppo: la “lex
naturalis” può considerarsi rispetto alla norma giuridica
(positiva) come il germe in cui è in potenza contenuto ogni ulteriore
sviluppo.» [30].
«Abbiamo quindi: a) lex
aeterna, che è il principio fontale [in Istituzioni cit.: fondamentale] trascendente di ogni legge di
verità e di giustizia, ed è Dio stesso, b) lex naturalis,
attuazione della “lex aeterna” nella creatura razionale
(l’uomo); c) lex humana – o diritto positivo – che
è costituita dal complesso di norme poste dalla civiltà e
derivate dalla “lex naturalis”.
Questa dottrina di origine aristotelica,
accolta e ampliata da Cicerone, ricevette nella Summa di S. Tommaso una sistemazione scientifica completa: S.
Tommaso ci offre un’analisi delicata e totale dei rapporti fra questi tre
tipi di “lex” (I II della Summa
q. 90 e segg.).
Riportiamo qualche testo del “De legibus”. In I,5, 18,
Cicerone dice che prima di trattare del diritto positivo (“ius
civile”e “ius publicum”) vuole trattare della fonte prima del
diritto che si trova nell’anima dell’uomo. “Natura enim iuris explicanda nobis est esque ab hominis repetenda
natura”.
In questa natura dell’uomo si trova una
legge naturale: “lex est ratio summa insita in natura quae iubet ea, quae
facienda sunt, prohibetque contraria”. E’ da questa
“lex” che bisogna derivare il diritto: “a lege ducendum est
iuris exordium: ea est enim naturae vis, ea mens ratioque prudentis. Ea iuris
atque iniuriae regula”. Perciò “ … constituendi vero
iuris ab illa summa lege capiamus exsordium, quea seculis omnibus ante nata est
quam scripta lex ulla aut quam omnino civitas constituta” (I, 6, 18-19).
Per dimostrare l’esistenza di questa
legge inserita nell’uomo Cicerone comincia con l’affermare
l’esistenza della “lex aeterna” – Dio –
trascendente ogni legge naturale. Posta l’esistenza di Dio e la creazione
dell’uomo, Cicerone passa ad una fine analisi della struttura razionale
unitaria dell’uomo.
Ed è appunto in questa unità
razionale dell’uomo – creato per la verità e per la
giustizia (“… nos ad iustitiam esse natos”) – che si
fonda l’unità fontale del diritto: “neque opinione sed
natura constitutum esse ius”.
Tutto il trattato ciceroniano è ricco
di questa dottrina sana e luminosa che egli, del resto, deriva dalla filosofia
platonica ed aristotelica e che non è costruzione arbitraria della mente
ma rilevazione riflessa e meditata della natura intrinseca dell’uomo.
E’ questa la “lex nauralis”
di cui S. Paolo dice (Rom. 2,15)
che è scritta nel cuore dell’uomo: “qui ostendunt opus legis
scriptum in cordibus suis, testimonio reddente illis coscientia ipsorum”.
Quanto abbiamo detto serve a risolvere
chiaramente il problema dei rapporti tra diritto e morale.
Norma giuridica è quella positiva;
norma etica è quella non positiva, ma solo dettata dalla coscienza
morale dell’uomo: però la norma giuridica derivando da quella
etica è essa stessa, sostanzialmente, norma etica: quindi obbliga non
solo giuridicamente perché posta dalla civitas, ma anche eticamente,
interiormente, perché riposa anche nella coscienza morale
dell’uomo.
Possiamo riprendere l’immagine comune
dei circoli concentrici: la norma etica è nel circolo più ampio
rispetto a quello più ristretto della norma giuridica»[31].
La riflessione lapiriana parte dal giurista Ulpiano, risale a
Cicerone e trova la coincidenza nella dottrina cristiana. Mette conto notare
che Cicerone è l’unico autore non cristiano citato nel Catechismo della Chiesa cattolica:
appunto a proposito della «legge morale naturale» (n. 1956).
L’ordine
degli iura (naturale, gentium, civile) si trova, a mio avviso, sotteso
implicitamente all’ordine espositivo di Principî, “Supplemento” a Vita cristiana. Vediamo i primi quattro fascicoli. La
“Premessa” al numero 1 inizia con il problema delle “linee
architettoniche naturali”, in particolare le “leggi naturali”
che reggono struttura, sviluppo, finalità dell’uomo. Il discorso
trova sbocco nelle ultime pagine del numero 4, con le letture su “la città
celeste e la città terrena” (S. Agostino),
“solidarietà umana” (Cicerone), “la guerra”
(Francisco de Victoria).
I cinque
fascicoli seguenti, dal maggio al dicembre 1939 (numeri 5, 6-7, 8-9, 10,
11-12), in cui è crescente la preoccupazione per la guerra[32],
risultano incentrati sulle nozioni di ius
gentium e società internazionale (societas gentium).
L’ultimo
fascicolo, di gennaio-febbraio 1940 (n. 1-2), riguarda la legge e la libertas: “Primato della
legge”, “difesa della libertà” di fronte agli Stati,
in particolare ai regimi tirannici.
Intravvedo
in questo ordine espositivo di Principî
un riflesso della tripartizione dello ius
privatum secondo Ulpiano e Giustiniano: ius
naturale, ius gentium, ius civile. All’interno di tale
sistematica troviamo un’analisi concettuale (e storica) che supera ogni distanza
tra antico e moderno, grazie anche alle “Letture dei Padri e dei
pensatori”. Questa sistematica può essere assunta come guida per
seguire alcuni sviluppi del pensiero scientifico e politico di Giorgio La Pira,
fino all’apparente capovolgimento della dottrina della “guerra
giusta”. Gli sviluppi risulteranno tanto estesi quanto radicati, appunto,
negli studi romanistici del La Pira degli anni Venti e Trenta. Bastino alcuni
esempi. Dello ius naturale: famiglia
e nascituri; dello ius gentium:
città e pace; dello ius civile:
interpretazione delle leggi.
Vediamo
dunque alcuni concetti fondamentali sui quali è costruito l’ordine
espositivo di Principî.
Una prima
facile riflessione deve essere compiuta osservando i titoli degli scritti
firmati da Giorgio
«Riproporre, in piena conformità con la fede
cattolica e con gli stessi termini con cui li propone la più esatta
scienza teologica (quella di S. Tommaso), i grandi universali di tutti i tempi,
di tutti i luoghi, di tutte le culture) temi dell'uomo: – chi è Dio?
Che “definizione” ha, che valore, che struttura, che
finalità possiede la persona umana? Quale struttura e quale
finalità hanno la società umana e la storia umana? Cosa è
lo stato e la società degli stati? Cosa è il diritto (“la
legge positiva”) e quali limiti invalicabili, “naturali” esso trova nella sua genesi, nella sua
finalità, nella sua applicazione e nel suo sviluppo? La guerra è
lecita? Come, quando?
Non si trattava di temi soltanto culturali, spirituali,
filosofici, e giuridici: si trattava (purtroppo!) di temi che toccavano nel
vivo – e tanto spesso tragicamente! – il dramma storico (meglio, la
tragedia storica) di quei
tempi!»[33].
La ricerca dei concetti fondamentali attraverso
l’ordine espositivo di Principî
deve essere più approfondita. Si potrà così vedere la
profondità della base su cui poggeranno gli sviluppi costruttivi fino
agli anni Settanta. Osserverò brevemente.
a) Nei
primi tre numeri ricorre costantemente una sistemazione dei principî
riconducibili ai concetti “Dio”, “uomo”,
“società”, che corrisponde alle “Letture dei
Padri” del N. 1.
b) Nei
numeri 4 e 5 dei Principî viene
prima “precisato” poi “applicato” il concetto di
“Gerarchia di valori”, che si trova poi anche all’inizio del
fascicolo N. 6-
c) Il
numero 4 termina con un capitolo (il III delle “Letture dei Padri e dei
pensatori”) sulla “guerra”, concetto che ritorna nel numero 5
(vedi il capitolo IV delle “Letture dei Padri e dei pensatori”).
d) A
partire dal N. 8-9 (dell’agosto – settembre 1939) fino al N. 11-12
(novembre-dicembre 1939) il concetto intorno a cui viene sistemata la materia
è quello di “guerra”. Qui emergono i concetti di
“ordine internazionale cristiano” (p. 180), “universale
sovranità del Pontefice” (p. 181), “guerra giusta” (p.
189), “crociata” (p. 204; 231; cfr. N. 1 del 1940, p. 27),
“diritto romano” (p. 207), “diritto delle genti” (p. 235),
“solidarietà” (p. 236).
e) Il fascicolo n. 1
del 1940 (l’unico pubblicato in quell’anno, prima della
soppressione disposta dai fascisti per “mancanza di carta”) tratta
dei concetti di “libertà” e di “legge”, in
funzione di critica di «quella mistica dello Stato che è la
più grande eresia del nostro tempo».
Nella
pagina ora citata della “Nota introduttiva” del 1974 risulta
riassuntivamente, come sia essenziale, nella visione lapiriana della
“tragedia del mondo”, la concezione del diritto:
«L’“idealismo assoluto” di Hegel (specie
nella «trascrizione gentiliana») costituiva il fondamento (di
sabbia!) su cui era costruito (destinato alla sicura e terribile rovina!)
l'intiero edificio culturale (senza alternative possibili e senza critiche
possibili) del tempo! “Lo stato è l'incarnazione di Dio sopra la
terra” dice (è quasi incredibile!) Hegel: è il solo Valore
Assoluto: il diritto è ciò che esso “vuole” (il
diritto naturale, la legge naturale, limite e misura del diritto positivo,
della legge positiva, non esiste!); l'uomo singolo, la persona è
un’”onda”: egli trae valore e destino solo dallo Stato nel quale (come onda nel fiume) è inserito;
la guerra è valore supremo, è espresso dallo stato germanico (nel
quale si incorpora la razza germanica). Queste idee non erano soltanto il
tessuto costitutivo di un'opera di pensiero (dei “Lineamenti di filosofia
del diritto” di Hegel editi in Italia sin dal 1913 dal Laterza:
traduzione di Francesco Messineo): non erano soltanto (per professori e
studenti) temi di filosofia (più o meno aberranti) statuale e storica:
erano purtroppo, l'ossatura stessa del “Mein Kampf” di Hitler e
dell'apparato militare che preparava - annullando tutti i diritti degli uomini
e dei popoli - l'invasione e la distruzione “millenaria” da parte dello
stato germanico e della razza germanica, degli stati e dei popoli e delle altre
“razze” dell’Europa e del mondo»[34].
Il
principio di “solidarietà umana”, «vincolo che unisce
in armonica unità questo universo umano», è spiegato nel
1939 da Giorgio La Pira attraverso la lettura non solo di San Tommaso e del
Suarez, ma anche di Cicerone e di Seneca (vedi Principî 3, pp.
59 s.; 71 s.; 4, pp. 92 ss.; 5, pp. 115 s.).
Nello stesso anno il La Pira pubblica un breve (ma a mio
avviso importante) articolo dal titolo “Finalità del Diritto
Canonico e di ogni Diritto”[35],
che approfondisce lo studio del carattere giuridico del “principio di
solidarietà”:
«L’ordinamento
giuridico canonico costituisce l’ordinamento limite, l’ordinamento
esemplare, di tutti gli altri ordinamenti e il valore di ogni ordinamento
è misurato dalla sua assimilazione a quello canonico.
Quanto più un
ordinamento giuridico rispecchia in sé la struttura universale, unitaria
e gerarchica di quello canonico tanto più esso vale.
Così dicasi per
l’idea che deve unificare ogni ordinamento giuridico: quella della
solidarietà e della fraternità umana. […]
Come l’ordinamento canonico ha per fine
la partecipazione all’uomo della carità di Cristo, così gli
altri ordinamenti non possono che avere un fine analogo: attuare, nei rapporti
sociali, quella giusta solidarietà fra gli uomini che è il
fondamento saldo della umana fraternità».
In questo articolo è evidenziata la prospettiva della
“teologia cristocentrica”, secondo la quale sono considerati dal La
Pira l’intero divenire storico, la storia di Roma e il Diritto romano (v.
infra, III).
La nozione lapiriana di diritto romano
(ispirata da Contardo Ferrini: v. supra, “Notizie
preliminari” 3, e infra 4)
implica l’esigenza non solo dell’insegnamento ma anche
dell’applicazione attuale (vedi i capitoli seguenti, a
proposito di persona, famiglia, proprietà e possesso). La nozione
risulta da una incisiva frase della relazione al V Congresso Nazionale di Studi
Romani del 1938 (v. supra, I, 2).
«Codificazione e giurisprudenza del
diritto privato di tutto l'occidente – checché dicano e facciano
in contrario certe tendenze così ingiustamente antiromane! – sono
ancora, nella loro sostanza, diritto romano».
In Germania il Partito Nazionalsocialista era programmaticamente
avverso al diritto romano (v. infra,
4); in Unione Sovietica l’insegnamento romanistico fu ristabilito solo
nel 1945.
La nozione di diritto romano emerge nel pensiero del La Pira
dalla constatazione dell’unicità storica della “scienza
giuridica romana” e della conseguente funzione dello studio di essa (e
più in generale, appunto, del “diritto romano”). Tutto
ciò si trova già formulato nella “Prolusione” del
1934.
Sulla unicità della “scienza giuridica romana”
vedi supra, I,1. Ma tale
unicità è vista alla luce della concezione cristocentrica della
natura e della storia:
«Se pensate a
Platone, ad Aristotele, ai grandi artisti di Grecia, ai grandi matematici, ai
grandi uomini di stato della repubblica romana, ai poeti ed ai giureconsulti
nostri, come non elevare l’animo grato a Dio per aver fatto splendere
nell’antichità tanti soli, preannunzio di quel sole di giustizia
che doveva portare in terra
Questa concezione tradizionale storico-giuridica avrà uno
sviluppo decisivo a partire dal discorso di Brescia dell’8 dicembre 1970:
Giorgio La Pira scorgerà la “strategia romana” del Cristo e
degli Apostoli (v. infra 6 e IX, 4).
L’unicità storica dà fondamento alla funzione
dello studio:
«Permettete che questa similitudine io
applichi ai nostri studi; che in essa vi sia una crisi di tiepidezza è,
a mio avviso, cosa vera; nonostante le apparenze di un fervore notevole (di cui
potrebbero sembrare indici le c. d. battaglie per il metodo che caratterizzano
lo stato attuale della nostra ricerca) tuttavia una stasi, nel profondo,
c’è: si lavora, certamente: le riviste nostre hanno sempre
apparente ricchezza: ma o si tratta delle solite ricerche senza eco, particolari nei quali non risulta il
segno dell’unità, contributi di cui indovinate a priori il valore
(per leggere uno di questi lavori basta limitarsi alla lettura della prima o
dell’ultima pagina); o si tratta di appelli di rinnovamento nel metodo:
ma anche l’esistenza di tali appelli è indice che la ricerca
subisce nel profondo una crisi.
Ciò che manca alla ricerca
contemporanea è il panorama dell’insieme: lo studio del
particolare ha fatto oscurare la bellezza armoniosa del tutto: il mezzo
è diventato fine:la ricerca papirologia ed interpolazionistica
anziché tendere al suo scopo – quello di porre in luce sempre
maggiore le linee grandiose dell’edificio sistematico della
giurisprudenza romana – è diventata fine a sé stessa.
E’ giunto il momento in cui è veramente necessario fermarsi
alquanto e porsi a meditare intorno a questo punto: perché io studio
diritto romano? Lo studio come studierei un qualsiasi altro diritto storico,
poniamo come si studia il diritto dei papiri, o il diritto babilonese o il
diritto attico? Esso è per il mio spirito oggetto di una
curiosità, sia pure di una dotta curiosità storica? La conoscenza
del diritto romano ha soltanto la funzione di arricchire il mio patrimonio
culturale o esso, ad es., come la logica di Aristotile, ha per la mia
intelligenza una funzione veramente vitale di sviluppo? Lo studio del diritto
romano ha una efficacia davvero decisiva per l’educazione del mio
pensiero, in quanto educa la mia intelligenza a pensare scientificamente,
sistematicamente, dandomi quel gusto dell’unità del sapere –
plura in unum cognoscere – che
costituisce la legge fondamentale del pensiero scientifico? Se questo non
è il fine dello studio del diritto romano, le nostre intelligenze si
rifiutano davvero di continuare più oltre l’esplorazione di questo
campo: millenni di ricerca dovrebbero alfine bastare! […]
Dicevo dunque: lo studio del diritto romano
ha una funzione decisiva per l’educazione del pensiero, in quanto educa
l’intelligenza a pensare sistematicamente? Ha, dunque, sotto questo
aspetto, una funzione vitale?
Il pensiero giuridico – cioè
pensiero essenzialmente sistematico – trova, perciò, in tutti i
tempi, di che alimentarsi nelle fonti romane?
Mi ritornano alla mente certe parole di
ammirazione uscite da grandi anime che allo studio del diritto romano
dedicarono tanta parte della loro vita: quali esaltazioni entusiaste per
l’armoniosità del sistema romano nelle opere di Cuiacio! Lo studio
del diritto romano forma per G. B. Vico il fondamento delle sue grandi
costruzioni filosofiche e storiche: la
scienza nuova, il de uno principio
etc., e tutte le altre opere vichiane mostrano nel loro nucleo centrale i
principî basilari della giurisprudenza romana; Leibniz fissa con
contemplazione amorevole il suo occhio di filosofo e di matematico nelle
costruzioni geometriche del sistema romano: nessuna mente grande, che abbia
studiato il corpus iuris, è
rimasta senza una parola di ammirazione dinnanzi ad uno spettacolo così
bello di armonia e di luce! E si capisce: lo spirito umano – come dice
Leibniz –, quando veramente costruisce, imita nella sua costruzione lo
spirito di Dio: costruisce con ordine, crea edifici insieme complessi ed
unitari; pone nelle sue opere armonia e luce: c’è geometria
ovunque, diceva Keplero, così nelle opere di Dio, come nelle opere dello
spirito umano; e la contemplazione di queste opere armoniose dello spirito
umano dà il medesimo gaudio e forse a volte, un gaudio maggiore di
quello che dà la contemplazione silenziosa del firmamento stellato!
Chi non ha sostato a lungo, attratto dalla
bellezza del panorama, avanti alle opere di Aristotile e di Tommaso
d’Aquino? Questa unità possente che tutto a sé coordina e
tutto a sé riconduce e tutto a sé deriva, questa visione unitaria
delle cose, questo universum
intellettuale che non ha nulla da invidiare, per compattezza e luce,
all’universo invisibile, è cosa talmente bella che dopo di essa
non vi può essere che Dio!
Ora voi ben comprendete quale sia la nostra
gioia quando alle menti assetate di unità e di armonia noi romanisti si
possa dire: volete fermare la vostra speculazione sopra una creazione grande
del pensiero umano? volete contemplare un’opera che darà al vostro
spirito il senso dell’unità e della grandezza? Che vi farà
gustare la bellezza dell’intelligenza umana, come ve la farebbe gustare,
poniamo, lo studio di Platone o di Aristotele? Ecco, diciamo noi: non vi resta
che esplorare questo edificio immenso e semplice della giurisprudenza romana.
Dopo codesta esplorazione voi non guadagnerete solo in cultura: ma
conquisterete quella struttura di intelletto che è necessaria alle menti
costruttive e che è la condizione indispensabile per essere giuristi. [
…].
Certo a cominciare dalla fine del III secolo
e poi nel IV e nei successivi, molti istituti, specie familiari e obbligatori,
subiscono, sotto l’influenza delle nuove dottrine, notevoli modifiche: si
pensi alla manumissio, alla
fisionomia cognatizia della famiglia e così via: ma non sta qui la sola
ragione, per cui il diritto romano è venuto sino a noi e giungerà
ancora a tante e tante altre
generazioni: la ragione, ripeto, sta nel fatto che esso, per effetto della
elaborazione sistematica della giurisprudenza, ha assunto nella storia del
diritto quello stesso posto che ha assunto Aristotile nella storia della
filosofia. Come Aristotile ha, per dir così, scoperte e formulate le
leggi del pensiero – le categorie del pensiero – così i
grandi giureconsulti di Roma hanno
scoperte e formulate le categorie del pensiero giuridico.
Certo si può pensare logicamente anche
senza conoscere Aristotile e si può pensare giuridicamente anche senza
conoscere il diritto romano: ma chi volesse rendersi consapevole delle leggi del suo pensare e chi
volesse rendersi consapevole delle leggi della sistematica giuridica non
potrebbe non incontrarsi, l’uno, con il grande stagirita e l’altro
con i grandi giuristi del primo secolo dell’impero.
Appare ormai chiaro il
compito che viene affidato alla nuova schiera di romanisti: ritorno alle fonti,
ritorno al sistema, ritorno all’unità. E’ l’unico
mezzo che ci permetterà di uscire dalla stasi attuale e che darà
alla ricerca vigoria nuova e nuova fecondità»[37].
Assai prima, già almeno nel 1927, Giorgio La Pira aveva
dichiarato che lo studio del diritto romano costituiva il “tratto
caratteristico” della sua “persona”: si veda la lettera a
Emilio Betti del 21 febbraio 1927 (supra “Notizie
preliminari”, 1) [38].
Si veda poi la “lettera a casa” del 16 novembre 1927,
circa l’inizio delle lezioni:
«[…] Ho iniziato da due giorni le
mie lezioni: la lezione di ieri fu abbastanza ben congegnata ma ebbe qualche
incertezza: oggi ho conquistato una lucidità compiuta, che ho vista
riflessa nell’attenzione e nel consentimento di circa 40 alunni.
Quale gioia parlare a delle menti e toccare
qua e là i problemi capitali della nostra anima! Sento che il Signore mi
ha dato per Sacerdozio questo compito: educare le anime che egli mi affida.
Perché attraverso la parola della scienza vibra, credetelo, sempre ed
irresistibile quella della Fede. In queste due prime lezioni ho trattato della
primitiva storia di Roma, premettendo nozioni generali sulla famiglia e sulla
storia in genere: ed il nucleo centrale delle lezioni è stato questo:
che dagli avvenimenti umani come ci appaiono organizzati dopo tanti secoli,
dalla coerenza della storia, salta fuori evidente l’azione della
Provvidenza: è Dio che coordina i fatti, che usando i mezzi naturali
dell’uomo organizza le cose in modo che esse conducano alla salvezza del
genere umano. […]
Ma, credete, mi sono mantenuto entro i limiti
di una esposizione logica e scientifica affinché l’idea della
Provvidenza balzasse fuori necessariamente, come
testimonianza diretta delle cose […]»[39].
E ancora la lettera a Salvatore Pugliatti dell’11 dicembre
1933:
«[…] Provo tanta gioia nel mio
insegnamento: gli studenti mi seguono: ad essi io mi sforzo di mostrare le
bellezze geometriche del diritto romano. Credilo, c’è tanta luce
in questo panorama di istituti che offrono allo sguardo linee architettoniche
così belle!
Il Diritto romano va insegnato così:
mostrando queste prospettive ricche di simmetria; solo così il nostro
insegnamento ha una funzione educativa di grande importanza. […]
Totò la cattedra è uno
strumento sacro e noi dobbiamo servircene per la verità»[40].
Nel 1938, al V Congresso
nazionale di Studi romani, nel contesto politico delle “tendenze
antiromane” dei nazionalsocialisti, Giorgio La Pira dichiara
“immutabile” l’edificio del diritto privato “eretto dai
Romani” e rivolge un monito evangelico agli studiosi (quelli che nella
“Prolusione” aveva accusato di “tiepidezza”).
«[… ] Vorrei dire ai miei giovani
colleghi: - dove miriamo con i nostri studi? Il diritto romano ci interessa
davvero come un documento di giustizia degno ancora di essere meditato? Come
una luce che può ancora rischiarare settori spesso così oscuri
della vita sociale odierna? Ci serve come un contributo amorevole alla
comprensione più profonda fra gli uomini?
Se
non fossero questi i nostri obbiettivi, la nostra opera sarebbe inutile
de egoista: lasciate che i morti seppelliscano i morti!»[41].
Nell’ottobre
1939, scoppiata ormai la guerra, Principî
pubblica una “Difesa del diritto romano”, che si richiama a
“parole profetiche” di Contardo Ferrini:
«La polemica intorno al diritto romano è diventata
molto viva dopo i nostri provvedimenti che praticamente escludono dalle
università germaniche – già un tempo sedi fiorentissime di
studi romanistici! – lo studio del diritto romano.
In Germania non sono mancati in questi ultimi tempi segni di una
vivace reazione: basta notare i vigorosi lavori dello Schulz (Prinzipien,
Monaco, 1934) e del Koschaker (Die Krise des röm. Recht, Monaco,
1939: cfr. l’ampia recensione critica di Betti, Riv. Dir. Comm.,
1939, N. 3-4).
In Italia si è avuta una forte eco di questa polemica
nelle decise parole pronunziate recentemente dal ministro guardasigilli S. E. Grandi: “le frontiere del
diritto romano – egli ha detto – vanno difese come le frontiere
geografiche e politiche della Patria”.
Queste parole richiamano alla mente quelle altre parole
profetiche pronunziate da Contardo
Ferrini a Milano nel 1901 (Opere,
4° vol., p. 413-435).
Come ogni cosa eccelsa – disse il grande romanista –
il diritto romano è segno “d’inestinguibil odio e di
indomato amor”: e soggiunse (p. 435): se
i tedeschi trascurassero per boria o falso orgoglio nazionale la grandissima
eredità di Roma, tanto più gelosamente la custodiremo e
studieremo noi, a cui ne incombe il sacro il dovere; e allora – non
dubitate! – passerà
poco tempo, e li vedrete rivalicare le Alpi e ritornare qui
un’altra volta alla nostra scuola!»[42].
Nel 1941 Francesco De Martino (futuro Segretario del Partito
Socialista Italiano) pubblicò un ampio saggio su Individualismo e diritto romano privato, a difesa del Diritto
romano, rifiutandone le interpretazioni individualistiche e respingendo le
critiche dei nazionalsocialisti. Nel marzo 1942 Giorgio La Pira, membro della
Commissione che aveva conferito l’ordinariato al De Martino (allora
professore all’Università di Bari), scrisse la seguente lettera:
«Caro De Martino, grazie. Tutto
è stato fatto e con onore! Ho letto con vivissimo interesse
“Individ. et”.
Bisogna stare ritti su questa trincea della
dignità della persona: è un tema essenziale per la civiltà
umana e cristiana. Con affetto La Pira».
Il La Pira, nel momento delle incerte vittorie hitleriane,
coglieva i motivi più profondi dello scritto del De Martino[43].
La funzione del Diritto romano viene costantemente riaffermata da
Giorgio La Pira negli anni postbellici.
Bastino
due esempi del 1968. La 1° lezione dell’anno accademico 1968-69, che
risponde alla domanda “Cosa è questo diritto romano
contestato?”[44];
e la lettera scritta nell’ottobre 1968 al presidente dell’Istituto
di biologia umana dell’Università di Tunisi in occasione della
Settimana di studi sull’uomo mediterraneo:
«Perché? Perché questa “civiltà
mediterranea” poggia – per così dire – su tre
fondamenti di roccia che la storia nuova, i secoli e le generazioni non
potranno mai corrodere: sono infatti tre “incontestabili
fondamenti”della storia totale degli uomini e dei popoli!
Su questi tre fondamenti sono, per così dire, iscritti
– come nelle pietre fondamentali della Gerusalemme celeste – tre
nomi: quello di Gerusalemme (il senso della storia); quello di Atene (il metodo
logico e scientifico e la bellezza e contemplazione artistica); quello di Roma
(l’organizzazione scientifica e tecnica – per tutte le genti
– del diritto e della politica).
[…] Il compito dell’uomo mediterraneo si precisa
sempre più, dunque, sempre più si amplia: indicare il senso della
storia, l’idea motrice che la finalizza; ed indicare il significato di
fondo delle grandi componenti che danno volto a questa nostra età tanto
nuova e tanto avventurosa: la componente nucleare – apocalittica! –
quella spaziale, quella demografica e quella liberatrice e contestativa.
Resta la componente “scientifica e tecnica” che
specifica tanto marcatamente la nostra età: anche su di essa hanno
qualcosa da dire e da fare l’uomo mediterraneo e la civiltà
mediterranea? La risposta è, qui pure, precisa: sì! La nostra
età scientifica e tecnica diverrà sempre più a tutti i
livelli “età logica”; “età della logica
formale” (delle definizioni, del sillogismo, delle divisioni per generi e
per specie): età, perciò, di organizzazione del pensiero
(età del metodo) e di tutta l’attività umana (compresa
quella politica e giuridica). Le nuove generazioni saranno sempre più
educate all’apprensione “del metodo”; s’impossesseranno
sempre più inevitabilmente degli strumenti della logica formale:
Aristotele – il fondatore, in un certo senso, della logica formale
– sarà di nuovo, sempre più il loro maestro.
E, per quanto concerne l’organizzazione giuridica e
politica (per la scienza giuridica cioè per la strutturazione politica
unitaria del mondo) i grandi giuristi romani edificatori della scienza
giuridica ed i grandi politici romani, organizzatori dell’unità
politica del mondo, saranno sempre più i loro maestri!
Organizzazione del pensiero (metodologia
logica), organizzazione del diritto (scienza giuridica), organizzazione
politica (unificazione politica del mondo): ecco tre compiti che non saranno
mai sottratti all’uomo mediterraneo e alla civiltà mediterranea:
il “servizio” che l’uomo mediterraneo e la civiltà
mediterranea sono chiamati a svolgere in questa età
“millenaria” del mondo è fondamentale ed essenziale davvero!»[45].
Vedi anche infra, IX, 1-2, circa il “valore delle
città”.
La
concezione cristocentrica[46]
del divenire di Roma e del diritto romano trova espressione compiuta tra il
1955 e il 1970[47],
nella visione della “strategia romana” di Cristo e degli Apostoli
(v. infra IX, 4).
Nell'intervento
alla seduta conclusiva (30 novembre 1974) del Seminario dell'ASSLA -
Associazione di Studi Sociali Latinoamericani, organizzato presso l'IILA -
Istituto Italo-Latino Americano, Giorgio La Pira afferma che Europa e America
Latina «formano una unità», anche giuridica, sulla base del
diritto romano[48].
Particolare
attenzione rivolge il La Pira alle figure brasiliane del Padre Antonio Vieira
(XVII secolo)[49]
e di Dom Helder Camara (XX secolo).
La
“Prolusione” del 2 febbraio 1934 (primo dei quattro studi
intitolati La genesi del sistema nella
giurisprudenza romana, presenta, come è notissimo, una profonda ispirazione
religiosa (vedi supra, “Notizie
preliminari”, 2); ma in essa Giorgio La Pira rifiuta l’apologia,
che non recherebbe “alcun bene alla diffusione della luce
cristiana”.
L’“idea” di Leopoldo Wenger di
“costituire una scienza giuridica universale dell’antichità”
è secondo il La Pira “frutto di un sentimento di
dispersione”:
«[…] si ha dispersione quando ci si è smarriti
nei particolari della vita intima ed esterna abbandonando la visione luminosa
dell’unità di Dio»[50].
Rifacendosi
al discorso tenuto a Vienna, nel 1917, da Ludovico Mitteis, il quale negava la
“possibilità di tale scienza giuridica universale
dell’antichità”, il La Pira afferma con forza:
«[…] di scienza giuridica dell’antichità
– lo possiamo dire senza errare – non ce n’è che una sola:
è quella romana dell’epoca classica.
Dico
dell’epoca classica e della prima e più luminosa epoca classica.
La scienza giuridica posteriore non segna, in quanto scienza,
alcun progresso: il mondo postclassico non ha potere creativo e non agisce che
negativamente sull’edificio classico, con superstrutture che non segnano
certamente un avanzamento nella compattezza del sistema e qualche volta
nell’equità del contenuto.
Si potrebbe obiettare: e l’efficacia rinnovatrice del
Cristianesimo?
Certamente non vorrete accusarmi di nutrire
poco amore per Colui che la mia anima, con
E tuttavia, io non posso dire, per verità storica, che il
diritto romano – in quanto scienza – assume la sua grandezza e la
sua perennità per effetto del cristianesimo. Sarebbe cotesta
un’apologia senza fondamento, apologia che non reca certo alcun bene alla
diffusione della luce cristiana. Una apologia siffatta parte da un gravissimo
errore: dal supporre, cioè, che anche prima della venuta di N. S.
l’anima umana non sia stata capace – sul terreno naturale –
di ascendere alle vette supreme del pensiero e, per quanto era possibile, anche
della vita. Quante luci, invero nel mondo antico!»[51].
Nell’“Introduzione”
al Corso di Istituzioni, ove
approfondisce il concetto di ‘sistema’ (e quindi quelli di
‘sistema giuridico’, ‘scienza giuridica’, per
domandarsi “C’è una scienza giuridica romana?”), il La
Pira ricorre al pensiero del Leibniz:
«[…] qualunque cosa la mente umana concepisce, lo
concepisce sempre in funzione dell’essere.
Il sapere scientifico dunque, è sapere sistematico,
cioè organico: esso è costruito secondo le stesse leggi con cui
sono costruiti gli organismi nella natura: ha, cioè, fondamento sopra un
principio (o sopra pochissimi principi) e da questo principio si ramifica la
più ampia diversità di conoscenza.
Nasce spontanea una domanda: perché il pensiero umano crea
i suoi sistemi con una architettura analoga a quella con cui sono a quella con
cui sono create le cose in natura?
Potremmo rispondere con Leibniz, che l’anima umana è
una immagine vivente di Dio capace di conoscere il sistema dell’universo
e di imitare qualche cosa con saggi architettonici (Mon. 83). Altrove
(Principia, par.14) Leibniz dice più ampiamente: “Lo spirito non
è solo uno specchio vivente dell’universo delle creature (come lo
è ogni monade) ma anche una immagine di Dio. Esso non ha solo una
percezione delle opere di Dio, ma è ancora capace di produrre qualcosa
che loro assomigli, benché in piccolo … la nostra anima è
architettonica anche nelle azioni volontarie e, con lo scoprire le scienze
secondo le quali Dio ha regolato le cose, essa imita nella sua opera e nel suo
piccolo mondo, in cui le è permesso esercitarsi, ciò che Dio fa
nel grande”»[52].
Nella
Parte I del Corso di Istituzioni,
dedicata al “Diritto obbiettivo romano”, a proposito delle
“singole fonti”, il La Pira, dopo aver osservato che «accanto
allo “ius” civile, “praetorium”, “gentium”,
le fonti romane pongono anche lo “ius naturale”», ed aver
ampiamente citato Ulpiano, Gaio, Paolo e Cicerone, scrive:
«La ragione poi della identità di struttura
razionale nell’uomo e le naturali inclinazioni della mente
all’essere e della volontà al bene (inclinazioni che non sono
annullate, ma anzi confermate quando l’uomo anziché secondarlo
liberamente, ad esso si oppone) sono da ricercare nell’unica “Lex aeterna” che è in Dio
e dalla quale la lex naturalis deriva. Questa “lex aeterna” –
che è legge di verità di giustizia e di bene e che Dio stesso
– è il modello sul
quale l’uomo è creato: ecco perché la lex naturalis insita
nella costituzione stessa dell’uomo presenta questi caratteri di vero e
di bene perché l’anima umana è in certo modo,
un’analogia, un riflesso della mente divina».
Dopo
essersi riferito a S. Tommaso (v. supra,
I, 5) il La Pira torna quindi a citare brani del De legibus di Cicerone osservando:
«Posta l’esistenza di Dio e la creazione
dell’uomo, Cicerone passa ad una fine analisi della struttura razionale
unitaria dell’uomo»;
e
aggiunge:
«È questa la “lex naturalis” di cui San
Paolo dice (Rom. 2,15) che è scritto nel cuore dell’uomo:
“qui estendunt opus legis scriptum in cordibus suis, testimonio reddente
illis conscientia ipsorum”»[53].
I problemi che motivano la pubblicazione di Principî sono dal La Pira enunciati nel n. 1 di questo
“supplemento” a Vita
cristiana (gennaio 1939), dopo aver osservato “la complessità
e la disarmonia sociale e culturale del nostro tempo”:
«II. I problemi che esigono questa
chiarificazione toccano l’intiera concezione della vita: chi è
Dio? Quale è, se ne ha una, la vocazione e la grandezza dell’uomo?
Quali sono le linee architettoniche naturali della società? Vi sono, per
la soluzione di questi problemi, dei principî immobili che sfuggono
all’arbitrio e alla mutabilità dell’uomo?
Questi principî esistono: essi derivano
da due verità , l’una all’altra correlative. La prima
è questa: Dio ha creato tutti gli
esseri secondo le leggi eterne a loro connaturali; la seconda è
questa: la struttura, lo sviluppo e le
finalità degli esseri obbediscono all’azione di certe leggi ad
esse intrinseche. Il compito dello studioso sta appunto
nell’osservare gli esseri e nel rivelarne le leggi costitutive.
Orbene: queste verità valgono anche
per l’uomo.
Per quanto dotato di libertà,
l’uomo non si pone da sé né il fine ultimo verso il quale
necessariamente tende, né le inclinazioni fondamentali che lo spingono
verso questo fine. È anche lui sotto l’azione di certe leggi
naturali che reggono la sua struttura, il suo viluppo e la sua finalità.
Ciò importa due precisi atteggiamenti
di pensiero; per un verso quello propriamente filosofico e teologico, significa
innestarsi nella grande corrente di pensiero cristiano che, mettendo a profitto
gli immensi apporti della meditazione greca (specie Platone ed Aristotele) e
latina, è stata generata dalla meditazione ispirata dei Padri e dei
Dottori della Chiesa (S: Agostino e S. Tommaso in ispecie): essa, nonostante
tutto, è pur sempre il fermento vitale della più alta meditazione
moderna.
Per altro verso, quello sociale e giuridico,
significa riallacciarsi alle più sane correnti giusnaturaliste che, esse pure derivate dalla
meditazione dei greci e dei romani, sono giunte, purificate e perfezionate dal
pensiero dei Padri e dei Dottori, sino alla soglia del nostro tempo.
III. L’universo intiero non si è
fatto da sé e non pende dall’arbitrio del caso; è retto da
leggi naturali, riflesso di quelle eterne, che ne disegnano la struttura, ne
dirigono il movimento, ne determinano il fine.
Così dicasi del mondo sociale umano;
esso non pende, nonostante la libertà di cui l’uomo è
dotato, dall’arbitrio dell’uomo: vi è anche in esso una
legge naturale primigenia, partecipazione di quella eterna di Dio, che ne
disegna la struttura, ne dirige il movimento ne determina il fine.
Da ciò una conseguenza: l’azione
umana, per quanto cavata dalla
libera determinazione della volontà trova già tracciato il suo
itinerario: la struttura giuridica e politica della società non pende
né dall’arbitrio del legislatore né dall’arbitrio del
politico: ha una causa esemplare superiore che deriva, pel tramite della legge
naturale, dalla legge eterna di Dio»[54].
Tale “concezione teocentrica del mondo” viene
approfondita nel n. 4 (aprile 1939), a proposito del «valore unico al
quale si dirigono tutti i desideri della nostra anima: Dio», e quindi a
proposito della “Gerarchia dei valori”. Essa trova conseguenze
quanto al “Valore della persona umana” (n.1 gennaio 1939, pp. 5
ss.), alla “Gerarchia dei valori sociali” (n. 6-7, giugno-luglio
1939, pp. 131 ss.), e quanto al
“Valore della libertà” (n.1-2, gennaio-febbraio 1940, pp. 8
ss.).
In Principî
n. 3 (del marzo 1939) pp. 58 sg., nella rubrica “Letture dei pensatori,
I, Dio”, si osserva: «La prova dell’esistenza di Dio tratta
dall’ordine e dalla armonia della natura è la più diffusa
presso i pensatori antichi», e sono riportati e tradotti due passi del De natura deorum di Cicerone (II, 5, 15
e 35, 90).
A proposito di Cicerone vedi supra,
I, 5.
Nella Relazione sui
principi relativi ai rapporti civili (I Sottocommissione
dell’Assemblea Costituente, vol. II, 1946, pp. 14 ss.)[55],
Giorgio La Pira propone la formula:
«Il popolo italiano […] proclama,
al cospetto di Dio e della comunità umana,
Il 9 settembre 1946 si svolge una importante discussione tra il
La Pira e i comunisti Marchesi e Togliatti; sono da ricordare particolarmente
le affermazioni del La Pira:
«Dio è nominato sia nel 1793 sia
nel 1848 […] tutta la civiltà dell’Europa gravita intorno a
questo pensiero»[57].
Nella seduta dell’Assemblea del 22 dicembre 1947 Giorgio La
Pira sostiene la proposta (già da lui presentata la sera prima alla
Presidenza) di far precedere il testo costituzionale dalla formula: «In
nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione». Ma
di fronte alla “disunione fra gli animi”, egli accetta di ritirare
la proposta[58].
Aveva scritto nel 1940:
«Definita la legge dell’essere
del pensiero è definita anche la legge del dover essere del pensiero.
Esso va esercitato nella direzione che ha come punto di riferimento Dio»[59].
E nel 1942:
«… è stolto ogni uomo che
creda di fondare su altre basi che non siano quelle di Dio – basi di
fraterno amore e di giustizia – l’ordine individuale e
collettivo»[60].
Coerentemente, nel 1948, nel libro Architettura di uno Stato democratico,
più volte ripubblicato (vedi anche l’edizione argentina, Buenos
Aires 1956), Giorgio La Pira rifiuta, perché contraddittoria, la nozione
di “stato laico”[61]:
«… la libertà delle
coscienze non significa che la società statale – che ha per fine
essenziale la organizzazione giuridica di tutto il corpo sociale – si edifichi senza fare un fondamentale
giudizio di valore: senza, cioè, riconoscere che l’orientazione
religiosa è essenziale all’uomo»[62].
Nel 1956 rileverà:
«… dovunque il ritorno a Dio
diventa più vasto e più intimo: e non solo come fatto personale e
privato ma come fatto pubblico e collettivo»[63].
E nel 1957, nell’invito al VI Convegno
per la pace e la civiltà cristiana (poi rinviato):
«L’esistenza di Dio, la libertà originale
della persona umana, la “personalità” e vocazione dei
popoli: ecco i tre punti essenziali di questa unità organica fra gli
uomini: perché la loro “coesistenza” non è un fatto
meccanico e fisico: è un fatto organico e spirituale»[64].
Nel 1959
scriverà a Nikita Kruscev:
«E del resto voglio proprio dirvi una cosa che forse vi
riuscirà nuova: questa: l’ateismo, l’anticristianesimo,
è un fatto tipicamente illuminista, ‘borghese’,
‘capitalista’: non è un fatto popolare: è, invece, il
‘fatto mistico’ un fatto essenzialmente popolare, comunitario,
ecclesiale, unitivo … »[65].
Nelle Istituzioni, il La Pira considera lo ius personarum dal punto di vista dei
“rapporti giuridici familiari”, preannunciando:
«La nostra trattazione seguirà molto da vicino la
sistematica di Gaio, il quale espone i rapporti giuridici familiari nel I libro
(“De Iure Personarum”) delle sue Istituzioni. Sono qui riportati
alcuni tra i più indispensabili passi: ma è assolutamente
necessario che lo studioso segua attentamente, insieme al presente corso, il
trattato gaiano» [66].
Seguendo
la “sistematica” di Gaio (I, 9; 48; 142) viene evitata la scissione
(tutta moderna) tra “diritto delle persone” e “diritto di
famiglia”, e i servi, in quanto persone, sono chiaramente compresi
nell’ambito familiare[67].
Il La
Pira rileva una differenza:
«[…] mentre la potestas classica è la causa
della famiglia, la potestas familiaris giustinianea come quella moderna
è effetto della famiglia. Insomma in diritto classico si può
dire: c’è una famiglia perché si esercita (o si potrebbe
esercitare) la potestas, in diritto giustinianeo, invece, si deve dire:
c’è una famiglia fondata sul matrimonio e attuata con la
procreazione (o con l’adozione a questa assimilata) e quindi si esercita
la potestà»[68].
Egli sviluppa quindi l’esame della concezione
giustinianea della famiglia e del matrimonio[69],
che richiamerà poi all’Assemblea Costituente (v. infra V, 3).
Il contrasto tra la giurisprudenza romana e la
“statolatria” è posto in evidenza dal La Pira, già
nel 1943, sulla base di D. 1,5,2:
«Non la persona per lo Stato, ma lo Stato per la persona e
per tutti gli sviluppi naturali e soprannaturali della persona: ecco la legge
base del vero ordine giuridico; già i romani l’avevano
magistralmente precisata: Hominum causa
omne ius constitutum est (D. 1, 5, 2). L’infausta formula della
statolatria egheliana – la formula classica della tirannia –
rovescia questo rapporto»[70].
Il noto
passo di Ermogeniano D. 1,5,2, che spiega la ragione della sistematica
giustinianea (e già gaiana), secondo cui stanno al primo posto le personae, cui seguono res e actiones, viene dal La Pira ripetutamente citato nel 1948.
Quando
imposta il “problema di una nuova costruzione costituzionale”,
tenendo conto del “crollo” della costituzioni di “tipo
statalista” e di “tipo individualista”:
«Questo assetto giuridico, dunque, deve essere proporzionale all’uomo (hominum causa ius constitutum est,
dicevano i Romani)»[71];
e quando
considera il valore della Costituzione italiana[72].
Qui,
inoltre, a proposito dei diritti dell’uomo, «che preesistono ad
ogni istituzione», egli utilizza, interpolandola, la dottrina romanistica
degli status: l’uomo
«avrà tanti diritti fondamentali inviolabili quanti sono i
fondamentali status che costituiscono
la sua complessa ed organica personalità giuridica»; ed elenca: status libertatis, status familiae, status
religionis, status civitatis, status professionale[73].
Il
“grande principio del diritto” hominum
causa ius constitutum est, è di nuovo richiamato nel
«il diritto è per l’uomo e non l’uomo
pel diritto: o, come dice l’Evangelo, il sabbato è per
l’uomo e non l’uomo per il sabbato».
L’interpretazione
lapiriana del passo Ermogeniano rifiuta implicitamente quella soggettivistica
(e individualistica) del Savigny, ma senza cadere nel suo opposto (come accade invece a
Riccardo Orestano, sulla scorta di Vincenzo Arangio-Ruiz: vedi R. Orestano, Il “problema
delle persone giuridiche” in diritto romano, Torino 1968, p. 104 n.
6). L’interpretazione lapiriana prelude, se così posso dire,
all’uso frequente che dell’antica massima fa Giovanni Paolo II: si
vedano, ad esempio, il discorso del 24 maggio 1996 al Simposio su “Evangelium
vitae e diritto” e quello al Parlamento italiano del 14 novembre 2002
(entrambi citati nella delibera della Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Roma “
Nel
Già
in precedenza il concetto di persona
viene precisato dal La Pira sulla base della definizione di Boezio («individua substantia rationalis naturae»)
da cui trae una conclusione giuridica romanisticamente corretta:
«Il concetto di persona è, perciò, la
risultante di due concetti: a) quello
di individuo (in se indivisum, ab aliis distinctum [S. Tomm. Summa th.] I, 29, 3); b) quello di spiritualità, che
importa la capacità a compiere le caratteristiche operazioni dello
spirito (pensare, amare, volere). L’attribuzione della personalità
ad altri enti (agli enti collettivi quali la famiglia, la città, lo
stato, ecc. ) costituisce soltanto una comoda estensione analogica e, forse
più esattamente, una fictio
giuridica»[76].
Si tratta
della “non sostanzialità degli enti collettivi”[77]:
qui il pensiero del Maritain (La personne
et le bien commun, 1947) converge espressamente con quello del La Pira:
vedi supra, “Notizie preliminari” 3 nota 12; infra VII, 3.
Coerentemente
il La Pira dichiara all’Assemblea Costituente che «il diritto di
sciopero è un diritto della persona» e che «lo sciopero
è un atto di rivendicazione, non soltanto economica ma politica»
(Commissione per
Ritengo
utile riportare qui, in parte, il contenuto di due delle lettere (tuttora
inedite) indirizzatemi da Giorgio La Pira, sul “potere negativo”
(20 giugno 1970) e sullo sciopero (15 settembre 1970):
«[il potere negativo] è l’emergenza nuova tanto
caratteristica, di un diritto costituzionale visto “dall’altra
faccia”: l’altro lato della Costituzione».
«[…] il fine politico è il fine ultimo,
inevitabile di ogni fine intermedio (economico, rivendicativo etc.): ogni
sciopero è, in ultima analisi, un (grande) atto politico (di pressione
politica): tende alla trasformazione della società e della
civiltà di cui manifesta le carenze; è “iuris civilis
corrigendi gratia”».
Vedi
anche infra, IX,1, a proposito della
“contestazione”[79].
Coerente con il concetto di
“persona” è, nella dottrina di Giorgio La Pira, il concetto
di “popolo”.
Egli
fonda il suo linguaggio nella definizione che Cicerone dà nel De republica:
«[…] tutta la trattazione è imperniata sulla
definizione che della res publica
viene data nel 1° libro:- Farò quello che volete, dice Scipione ai
suoi interlocutori: comincerò la trattazione secondo quel criterio che
credo debba essere posto a fondamento ogni qualvolta si tratta qualche
argomento: cioè che si dia anzitutto la definizione della cosa intorno
alla quale si volle trattare. E poiché nel caso questa trattazione verte
sulla res publica, Scipione pone
subito la definizione: est igitur res
publica, res populi: populus autem non omnis hominum coetus, quoquo modo
congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione
sociatus (De Rep. i § 39).
E da questa definizione l'autore ricava tutti gli argomenti coi
quali, specie nel III libro, dimostra che non vi è propriamente res publica cioè res populi, quando non vi sia
quell'equilibrio fra populus, magistratus, senatus in cui sta l'essenza della costituzione della civitas. Nelle forme, quindi, di
demagogia, di oligarchia e di tirannia non c'è più una res publica, cioè una res populi: perché appunto in
tutti e tre i casi non vi è più quella societas iuris dalla quale la res
populi deriva»[80].
Popolo
è dunque una “multitudine” avente certe caratteristiche. Non
si tratta di una cosa “personificata”, quale lo “Stato”[81].
Il La Pira interpreta anche sulla base del passo del giurista Alfeno Varo
(contemporaneo di Cicerone) D. 5,1,76[82].
Converge
con la nozione ciceroniana di “popolo” quella di
“patria” in Seneca, De ira
2,31,7:
«Invitiamo il lettore a meditare questa pagina di Seneca ed
a fare il confronto fra questa dottrina buona e consolante professata da un
pagano romano e le dottrine cattive e rattristanti che il neo paganesimo fa
circolare da qualche tempo in Europa.
Nuocere alla patria
è delitto: dunque è delitto anche nuocere a un cittadino,
poiché egli fa parte della patria. Le parti sono sacre, dal momento che
il tutto è degno di venerazione. Dunque è delitto anche nuocere a
un uomo, poiché egli è tuo concittadino in una città
più grande. Che succederebbe se le mani volessero far male ai piedi? O
gli occhi alle mani? Come tutte le membra del corpo umano funzionano in armonia
tra di loro, poiché è nell’interesse dell’insieme la
conservazione di ogni singola parte, così gli uomini dovranno
risparmiare i singoli individui, perché sono nati per vivere in comune.
La società non può essere salvata che a patto della sicurezza e
dell’amore delle sue parti. (trad. Guidacci)»[83].
La
convergenza del pensiero di Seneca con quello di Cicerone è sottolineata
dal La Pira a proposito del “corpo sociale”[84].
Si tratta
della “non sostanzialità degli enti collettivi”: vedi supra V, 4.
Ben si
comprende che, negli anni quaranta, il Maritain si rifaccia al pensiero del La
Pira (v. infra VII, 3).
Correttamente
il La Pira scorge già all'inizio della repubblica, nel pensiero del
console Menenio Agrippa, questa concezione del rapporto tra l'individuo e la
collettività:
«Anche qui c'è coincidenza fra la concezione naturale
e quella soprannaturale: l'apologo di Menenio Agrippa ha la sua riproduzione
soprannaturale nella concezione paolina del corpo mistico di Cristo»[85].
È
essenziale proprio l’osservazione che l’apologo del console trova
la «riproduzione soprannaturale» nel pensiero di San Paolo.
E a
proposito del “popolo fiorentino”:
«[…] il genere umano, come tutti i popoli, è
un corpo unico, e come ogni corpo, ha le braccia, la testa, il cuore, le gambe
(lo diceva anche Menenio Agrippa nella sua parabola)»[86].
Conclusiva
è l'individuazione del rapporto popolo-vescovo, sottolineato nel
La concezione
romana della famiglia è il nucleo del pensiero giuridico di Giorgio La
Pira: da essa si sviluppa tutta la costruzione giuridica, per quanto attiene al
diritto pubblico e al privato (e alle loro connessioni) e poi anche, a ben
vedere, per quanto attiene agli aspetti internazionali del diritto. Tale nucleo
si può chiarissimamente scorgere in una lettera indirizzata al
Pugliatti, datata Pozzallo, 21 settembre 1925, ove il giovane laureando
sintetizza i suoi pensieri sul “carattere costituzionale” della familia in diritto romano:
«Ho pensato in questi giorni che la mia tesi sul carattere
costituzionale (in senso di costituzionalità dell’ordine
giuridico) della Familia in diritto
romano è suscettiva di pregevoli conseguenze per la concezione stessa dello
stato: lo stato – cioè
l’ordine giuridico – non
è che il principio armonico della consistenza delle
‘persone’ che lo costituiscono. Gli individui – prima collettivamente, poi individualmente – sono sempre i primi costitutivi dell’ordine
giuridico: il quale non è una sovrapposizione esterna, ma procede quale
esigenza intrinseca del coesistere degli individui e delle familiae. Cioè l’astratta autonomia delle persone cede un che della sua assolutezza, accetta
una eteronomia per una intrinseca necessità di vita e di sviluppo: da
questa eteronomia (or più or meno sviluppata nel corso storico) è
costituito l’ordine giuridico e lo stato che lo rappresenta. Ma ogni
sfera giuridica ha proprio ex se e
non per attribuzione statuale un limite intrinseco di autonomia, che non
può mai né ridursi né mancare»[88].
La
“tesi” viene via via precisata tecnicamente: in un articolo negli Studi in onore di P. Bonfante (datato
Firenze, Natale 1928)[89]
e nel volume La successione ereditaria
intestata e contro il testamento in diritto romano (stampato a Firenze nel
1930, con la dedica: «A Contardo Ferrini che per tutte le vie mi
ricondusse alla casa del Padre»). La Pira ha «chiarito e
approfondito in modo nuovo la dottrina di Vico» (sono parole dello
storico S. Mazzarino) a proposito della posizione giuridica delle donne secondo
le XII Tavole e la «giurisprudenza eroica»[90].
Quanto ai
nascituri, egli ha osservato che nella famiglia romana i “posti” di
eredi (sui) esistono non solo per i
figli nati ma anche per i concepiti: «Il concepimento determina il
sorgere di un nuovo posto di suus nella familia»[91].
Conseguentemente, nell’articolo L’aborto non è soltanto
l’uccisione di un nascituro ma uno sconvolgimento nel piano della storia,
pubblicato nel 1975 (Prospettive, n.
43) [92],
il La Pira riprende il “principio”, già proprio del diritto
romano classico, secondo cui «i concepiti sono da considerare come
già esistenti» (D. 1,5,26 Qui
in utero sunt ... intelleguntur in
rerum natura esse):
«Questo principio – che la giurisprudenza romana
creativa del tempo augusteo introdusse solo nel sistema dello ius civile, operando davvero un
mutamento qualitativo nelle strutture del pensiero sociale e giuridico non solo
romano ma altresì della intera civiltà umana – diviene, col
cristianesimo, una delle basi universali costitutive dell’edificio dei
diritti inviolabili dell’uomo: il diritto alla vita!».
È
implicito il rifiuto degli astrattismi di origine tedesca, che avevano
influenzato il Codice Civile italiano del 1942 (in particolare l’art. 1
concernente la «capacità giuridica»).
Implicita
è altresì la riaffermazione (conforme alla filosofia tomista) del
primato del concetto di «essere», su cui poggia l’intelletto
speculativo e l’ordine delle inclinazioni naturali, cioè
«conservazione dei proprio essere» e «moltiplicarsi del
proprio essere» (da cui «il fondamento naturale della
famiglia»). La Pira aveva pubblicato nel 1934 (l’anno stesso della
famosa prolusione fiorentina su La genesi del sistema nella giurisprudenza
romana) un articolo su Il diritto
naturale nella concezione di S. Tommaso d’Aquino[93], che si concludeva con una critica dei
tecnicismo giuridico quando ignori che hominum
causa ius constitutum est (secondo il noto passo di Ermogeniano D. 1,5,2),
e cada nell’astrattismo[94].
La prima
nota di quell’articolo richiamava passi di Ulpiano, Gaio e Cicerone
concernenti il diritto naturale. Veniva così confermata una base
solidissima per la critica delle concezioni positiviste e stataliste del
diritto, critica che Giorgio La Pira svilupperà negli anni 1939-40 con
la pubblicazione di Principî, riallacciandosi
«alle più sane correnti giusnaturaliste ... derivate dalla
meditazione dei greci e dei romani ... purificate e perfezionate dal pensiero
dei Padri e dei Dottori» (come si legge nella «Premessa» al
n. 1)[95].
Per combattere l’idea dello Stato totalitario e l’individualismo
riaffermando il primato del bene comune, il quale implica il riferimento alla
persona umana, Jacques Maritain (nell’opera La personne et le bien commun, 1947) richiama uno scritto di La
Pira del 1943: «Come giustamente osservava Giorgio La Pira, i peggiori
errori riguardanti la società sono nati dalla confusione tra il tutto
sostanziale dell’organismo biologico e il tutto collettivo, composto
anch’esso di persone, della società»[96].
Il
contrasto giuridico di fondo riemerge in Italia negli anni settanta: questa
volta si tratta di far fronte contro la «concezione individualista
borghese del contratto» e a questo proposito Giorgio La Pira pubblica (in Prospettive, n. 31, novembre-dicembre
1973) un articolo su La famiglia sorgente
della storia[97]. Il
romanista La Pira ha studiato come il Cristianesimo abbia influito nella
sostituzione alla famiglia agnatizia, ancora salda in età imperiale,
della famiglia cognatizia («naturale»), «rinsaldando
potentemente i vincoli di sangue e configurandoli come vincoli sacri»[98].
Il La
Pira costituente del 1947 vuole ora interpretare l’art. 29 della
Costituzione («
Ma, prima
ancora della «radice giuridica», il La Pira cerca nel pensiero dei
giuristi antichi la «ragione ontologica», per tornare a mostrare la
«strutturale diversità fra il contratto consensuale di diritto
privato e l’atto bilaterale matrimoniale che esce dallo spazio del
diritto privato e si situa nello spazio del diritto pubblico», Egli
spiega:
«È atto bilaterale (marito e moglie), consensuale (consensus facit nuptias, dicevano i
romani), il quale crea che cosa? È evidente: crea un organismo; un
essere nuovo una unità (ontologica) sociale nuova: fonda una
società nuova che i romani (come Cicerone dice) videro giustamente quale
‘principium urbis’, ‘seminarium rei publicae’,
‘pusilla res publica’; pietra in certo modo fondamentale della
civitas e della società umana
intiera (Seneca!). […] I giuristi romani avevano ‘visto’
– definendo il matrimonio – questa creazione della nuova
unità ontologica, questa strutturale ‘comunione’ dei due
coniugi che li fa diventare(in certo modo) un solo essere ed una vita sola (conjunctio maris et feminae, consortium
omnis vitae, divini atque humani juris communicatio, D. 23,2,1; ... individuam consuetudinem vitae continens, Inst.
1,9,1): fa nascere un corpus familiae (D.
50.16.195.2)»[100].
Il
concetto di famiglia della Costituzione della Repubblica italiana viene
così basato su quello romano precristiano. Ai fondamenti ontologici e
giuridici della concezione del matrimonio il La Pira aggiunge la ragione
«teleologica» e quella «biblica»:
«Duo ... unum! (Genesi I 26-27; II 23-24; Matt. XIX 3-6). Eccoci all’alba
della storia: questa unità
bipolare – fondazione della
famiglia! – è la pietra d’angolo sulla quale si edifica la
storia di Israele e dei mondo (e la storia romana): e Cristo divinamente la
conferma (duo ... unum: S. Matteo, XIX 3-6)»[101].
Il
riferimento alla storia di Israele e alla storia romana si connette con
l’uso lapiriano del termine “famiglia” nel campo internazionale
e in quello interreligioso: uso non privo di tecnicità giuridica. Ne
abbiamo un esempio nel discorso conclusivo del III Colloquio Mediterraneo
(Firenze, 19-25 maggio 1961)[102];
il 20 maggio si erano aperti ad Evian i primi colloqui ufficiali franco-algerini.
Le osservazioni del Sindaco di Firenze hanno fondamento romano.
La prima
osservazione è: «l’epoca della pace è
incominciata»; egli trae spunto («non posso dimenticare di essere
professore di diritto romano!» esclama) da un testo dei Digesta di Giustiniano concernente i
termini pactio e pax (D. 2,14,1,1-2).
La
seconda osservazione, complementare alla prima, riguarda i rapporti tra i
popoli del Mediterraneo e quelli dell’intero continente africano, che
possono essere «praticamente espressi dicendo che si tratta di famiglie
di popoli appartenenti, in certo modo, alla medesima spirituale discendenza
(quella d’Abramo); alla medesima antica casa (la casa di Abramo); alla
medesima storia e civiltà (la storia e la civiltà, una e plurima
insieme, della discendenza spirituale di Abramo, dalla sua prima vocazione ad
oggi). Potremmo dire – con una felice espressione giuridica romana (D.
50,16,195) – ... qui ex eadem domo
et gente proditi sunt; ... quasi ab
eodem fonte orti»[103].
Si tratta di un frammento di Ulpiano concernente i significati della parola familia.
La
tecnicità giuridica del discorso lapiriano va innanzi nel rinnovamento
dei soggetti del diritto internazionale (le città, i popoli), con la
nuova età storica che il La Pira verrà definendo come
«spaziale» e poi «ecologica»[104].
Basti qui un esempio che riguarda l’intera «famiglia umana»:
«Le generazioni attuali non hanno il diritto di distruggere
una ricchezza che è stata loro affidata in vista delle generazioni
future […]. Ci troviamo di fronte a un caso che i Romani definivano
sostituzione fidecommissaria, cioè di un fidecommesso di famiglia
destinato a perpetuare in seno al gruppo familiare l’esistenza di un
determinato patrimonio [...]. Ecco definita con mordente chiarezza la posizione
giuridica degli Stati e delle attuali generazioni di fronte alle città
che sono state loro trasmesse dalle generazioni precedenti: ne domus alienaretur, sed ut in familia
relinqueretur!»[105].
Il passo riportato di Papiniano, D. 31,69,3,
è ivi connesso con D. 31,32,6 (di Modestino).
Nell’affermare, attraverso il diritto romano,
il diritto alla vita del concepito, Giorgio La Pira giunge a stabilirne il
posto nell’intera famiglia umana. L’uccisione del concepito[106],
che è persona, “intacca” il “piano teleologico della
storia”, essendo fine della storia «quello della salvezza,
dell’unità e della pace nel mondo (del corpo delle
nazioni)». Richiamata altresì la ragione del “riposo interiore”
e della “pace” della donna, Giorgio La Pira definisce, in
conclusione, l’aborto: «triste segno di un’epoca che, con la
guerra che essa portava con sé, è destinata ormai a tramontare
per sempre»[107].
Nelle Istituzioni il La Pira tratta prima del
possesso e poi dei diritti reali, tra cui la proprietà[108].
A
proposito del dominium ex iure Quiritium
rileva la “intrinseca differenza” rispetto alla proprietà
moderna:
«Facendo
quindi un confronto fra questo concetto di proprietà classica e quello
del diritto moderno balza netta agli occhi la loro intrinseca differenza: la
proprietà moderna ha un contenuto economico, in quanto attribuisce al
titolare la disponibilità e il godimento di una cosa nei limiti delle
leggi e dei regolamenti: quella romana (classica), invece, ha un contenuto
illimitato di signoria che può avvicinarsi al concetto moderno di
sovranità territoriale» (Istituzioni
cit. p. 193).
E quanto
alla proprietà moderna il La Pira afferma, nel 1943:
«Si deve impedire la ristabilizzazione del capitalismo. Ma
vogliamo l’assoluto rispetto della personalità umana che include
fra l’altro il rispetto assoluto dei beni di uso e degli strumenti del
lavoro»[109].
Coerenti
sono gli interventi all’Assemblea Costituente del 25 settembre e del 3
ottobre 1946[110].
Il pensiero lapiriano si rifà all’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno (1931)[111];
e si mantiene coerente negli anni della “contestazione” giovanile[112].
L’argomentazione è fondata sulla distinzione tra “età
preatomica” e “età atomica”:
«Comment faire pour appliquer
à une époque atomique, post-industrielle, époque de paix
inévitable et de “conversion” (économique, technique,
culturelle, politique, etc. ), les modèles établis pour
l’âge préatomique voué, par sa structure, à la
guerre entre les peuples?
Voici la racine
théorétique – appelons-la ainsi – de la contestation:
les droits, jusqu’ici fondamentaux, des constitutions étatiques
sont contestés de façon absolue par les nouvelles
générations: le droit de guerre surtout (quelle guerre? celle
entre armées – désormais dénuée de sens
– ou celle entre missiles destinés à la destruction de la
planète?) et le droit de propriété (plus exactement, de la
proprieté privée de grandes dimensions qui, par la
répartition incontrôlée du profit, provoque les terribles
injustices du monde et entraîne l’immense et croissante richesse
des uns et l’immense et croissante pauvreté des autres)»[113].
Nel
diritto romano il La Pira trova uno strumento per difendere i lavoratori.
Trascrivo la considerazione finale dell’ordinanza del Sindaco di Firenze
del 16 febbraio 1955, per la requisizione dello stabilimento della Fonderia
Officine delle Cure:
«[…] l’atto di requisizione, strutturalmente
collegato, come funzione all’ordine pubblico, ha la stessa
finalità di pace che aveva in diritto romano l’analogo interdetto uti possidetis in quanto che con tale
interdetto il Pretore si intrometteva come paciere fra le parti in causa
ordinando che, per evitare pubblici turbamenti, nell’attesa che la
questione fosse sottoposta ad un giudizio di merito, la situazione controversa
non subisse mutamenti di sorta (le cose stiano come stanno … ‘Uti nunc possidetis … quominus ita
possideatis vim fieri veto’ [cfr. Gaio 4, 160; D. 43,17,1
pr.])»[114].
Corretta
dogmaticamente è l’assimilazione della figura del Sindaco a quella
dell’antico Pretore, magistrato eletto dal popolo.
«L’unico
diritto che ha elaborato una teoria del possesso è il diritto
romano»[115],
notava Giorgio
La dottrina lapiriana
sulle città ha certamente un fondamento antico e medioevale, di cui
troviamo espressione già in Principî,
particolarmente nel numero (6/7) del giugno-luglio 1939, ove si tratta dei «gruppi sociali
naturali», a proposito della gerarchia dei valori (cfr. numero 2,
febbraio 1939): «La società verso cui la persona umana tende
include ordinatamente – in modo cioè graduale, partendo dalla
famiglia ed attraversando la città, la nazione, la stirpe –
l’universo genere umano» (p. 35).
Ma nel 1954 il
pensiero di Giorgio La Pira compie, per dir così, un balzo in avanti
profetico. Esso ha la sua espressione già completa (e più
sintetica) nel discorso su Il valore
delle città pronunciato il 12 aprile
Proprio in
quell’anno, in cui affinava l’uso dei diritto romano per difendere
«il diritto all’esistenza che hanno le città umane»
(ed anche per difendere il diritto al lavoro), il professor La Pira riprese a
scrivere, dopo vent’anni dal 1934, le note autobiografiche sulla prima
pagina del Digesto (vedi supra, “Notizie Preliminari”,2).
Il 1954 fu Anno Mariano e dal citato discorso di Ginevra trarranno origine,
nell’ottobre 1955, i Convegni dei sindaci delle città capitali.
Nella terza sessione della Tavola rotonda Est-Ovest (iniziativa
di uomini di cultura svedesi) convocata a Mosca il 4 dicembre 1963, il
professor La Pira preciserà:
«Cari
amici, e veniamo ora alla seconda domanda: qual è il titolo che
legittima la presenza dei Sindaco di Firenze in questa tavola rotonda e qual
è il “messaggio di Firenze” e la “tesi di
Firenze” di cui egli è portatore?
Ho riflettuto su questa domanda ed ecco la risposta: il titolo
dell’invito è quel medesimo titolo in base al quale egli fu
inviato nell’aprile del 1954 alla conferenza internazionale della Croce
Rossa di Ginevra (correlativa alla prima conferenza per il disarmo allora in
corso): cioè in quanto Sindaco di una città che a causa dei
convegni per la pace e la civiltà cristiana indetti a partire dal 1952
era diventata la città che esprimeva la voce unanime e l’unanime
attesa delle città di tutto il mondo: la voce dei disarmo e della pace e
l’attesa dei disarmo e della pace.
Le città non vogliono morire:
perché una guerra sarebbe la morte di tutte le città della terra,
piccole e grandi; ecco la tesi sostenuta a Ginevra: gli stati non hanno il
diritto di distruggere un patrimonio fedecommissario di cui le generazioni
presenti non sono che eredi soltanto fiduciari: gli eredi fedecommissari sono
le generazioni future cui quella eredità è destinata: patrimonio
che le generazioni presenti devono accrescere e non dilapidare e tanto meno
distruggere.
Tutte le città della terra,
perciò, piccole e grandi, chiedono a gran voce il disarmo e la pace. Le
città ed i popoli che le abitano cercano, invece della guerra che
distrugge, le cose che edificano: cercano le case per le famiglie, le officine
ed i campi per il lavoro, le scuole per l’apprendimento, la scienza e la
cultura, gli ospedali per la guarigione, le chiese ed i monasteri per la preghiera!
Ecco il titolo che legittimò la presenza del sindaco di
Firenze a Ginevra nel 1954 ed ecco la tesi – che in tacita ed ardita
rappresentanza di tutte le città del mondo – egli sostenne: una
tesi che fu ascoltata da tutti con tanta delicata attenzione.
Ebbene,
amici, il Sindaco di Firenze è oggi qui presente allo stesso titolo e
per la stessa tesi, anche se più specificata ed aggiornata.
Il titolo della sua presenza – una presenza dovuta al
vostro amabile invito (è già la terza volta che voi mi invitate:
ricordo, con tanto vivo interesse, la tavola rotonda di Roma del 1962 ) –
è sempre lo stesso: il Sindaco di Firenze rappresenta, ancora una volta,
per tacita rappresentanza (gestione di affari, come diciamo noi giuristi), i
sindaci e le città grandi e piccole di tutto il mondo.
Questa
rappresentanza tacita ha, del resto, anche un certo fondamento giuridico: esso
è costituito dal tanto significativo patto di amicizia stretto a Firenze
il 4 ottobre 1955 (festa di San Francesco) fra i Sindaci di ogni parte del
mondo (dell’est come dell’ovest, del nord come del sud). Un patto
che resterà davvero – non è ardito dirlo – come un
punto di genesi e di speranza nella storia presente dei mondo: perché
per la prima volta in Santa Croce ed in Palazzo Vecchio (nel Salone dei
Cinquecento) le due parti dei mondo (l’est e l’ovest), attraverso i
Sindaci delle rispettive capitali, si diedero fraternamente la mano»[119].
La nota
autobiografica nel Digesto «6.4.1958
Pasqua» è certo da connettere anche al primo «viaggio di pace in Terra
Santa», iniziato a Hebron e poi, nel Natale
Gli avvenimenti del
1968, e in particolare la “contestazione” giovanile, sono oggetto
di una attenta riflessione, anche giuridica, del Professore. Ne è
esempio significativo la prima lezione del corso di Istituzioni di Diritto
Romano dell’anno accademico 1968-1969 (tenuta il 18 novembre 1968), ove
si situa il diritto romano nel «contesto geografico e storico» del
tempo di Augusto («anno 1») e del «nostro tempo» e del
«prossimo tempo»[120].
Nel 1970 (ero
professore di Diritto Romano nell’Università di Sassari) ricevetti
da Giorgio La Pira due brevi lettere (20 giugno e 15 settembre) a proposito,
rispettivamente, del «potere negativo»
(«“l’emergenza nuova”, tanto caratteristica, di un
diritto costituzionale visto “dall’altra faccia”:
l’altro lato della costituzione!») e dello sciopero.
Nel 1971, da me
invitato a scrivere per la rivista giuridica Studi Sassaresi (nel volume su Autonomia
e diritto di resistenza), Giorgio La Pira indicò la tesi che avrebbe
voluto sviluppare se ne avesse avuto il tempo. Riprodurrò parte della
lettera (del 9 settembre 1971), ove il rapporto tra città e Stati
è visto nel quadro della «situazione nuovissima della
storia» e quindi delle «due contestazioni fondamentali»:
«[…]Ebbene:
data questa situazione nuovissima della storia, la struttura e la
finalità degli Stati (come sino ad ora – sino a quando cioè
si pensa ancora follemente ad una possibile guerra!) viene, in certo senso,
radicalmente mutata: fra l’altro gli Stati perdono il diritto di guerra
(lo jus belli): e viene pure (perché strutturalmente mutata) contestato in
radice (in certo senso) il diritto di proprietà (che viene finalizzato
dal “pieno impiego” esteso ai popoli di tutti i continenti).
Due
contestazioni fondamentali, perciò: contestato in radice (sradicato!) il
diritto di guerra (perché la guerra come si concepiva
nell’età preatomica è “estinta”: è una res nova, ora: perché, se
avvenisse, distruggerebbe il pianeta): contestata la struttura e la
finalità del diritto di proprietà.
Chi
sono i contestatori? Chi gli attori di questa contestazione? Le città,
le nazioni, le regioni: i popoli, in una parola attraverso le loro
organizzazioni di base: perché essi (i popoli, le città etc.)
sarebbero le vittime di una guerra nucleare ed essi sono le vittime di una
proprietà male strutturata e male finalizzata!
E
“convenuti” sono gli Stati: contro lo ius civile insorge lo ius
praetorium corrigendi gratia! Ecco il
“diritto di resistenza” etc.: ecco la grande “litis
contestatio” che caratterizza, specificandola, l’età
presente della storia (politica, giuridica, culturale, etc.).
Dovrei sviluppare questo pensiero: ma permetta che soltanto io
glielo indichi: una prospettiva di speranza – la prospettiva e la
speranza di Isaia! – verso la quale (nonostante tutto) è avviata
la storia della Chiesa e dei popoli!
Levate oculos
vestros et videte! »[121].
Nell’ottobre
«Per
quanto concerne le città di tutto il mondo ed i popoli dei Medio Oriente
(arabi ed israeliani) ed anche i popoli dell’Asia, abbiamo, in certo
senso, legittimità a parlare? Siamo una voce, in certo senso,
autorizzata?
Sì:
ecco qui un “patto di amicizia” firmato a Palazzo Vecchio il 4
ottobre 1955.
(S. Francesco!) dai Sindaci di quasi tutte le città
capitali del mondo un Convegno mondiale, ispirato ai cinque principi della
coesistenza pacifica di Bandung (elaborati da Nehru e Ciu En Lai) e preparato a
Firenze, nel 1954, con l’ambasciatore Bogomolov e con autorevoli
rappresentanti della politica italiana (Fanfani) ed estera (specie francesi).
Quale promessa si scambiarono solennemente i Sindaci di tutto il
mondo – a nome delle loro rispettive città e dei loro popoli, in
rappresentanza di tutte le città del mondo (c’era anche Pekino e
c’erano i sindaci di tutte le città asiatiche)? Promessa di
amicizia e di pace!
Una
tela di pace si era stesa su tutto il pianeta! In nome di quel patto, oggi
più valido di ieri, noi abbiamo, dunque, voce qualificata in questo
Convegno!
Quel
patto fu, in certo senso, rinnovato a Parigi – settembre 1967 –
quando, in occasione della elezione a Presidente della F.M.V.J., assumemmo il
mandato di “unire le città
per unire le nazioni”; e fu rinnovato a Leningrado quando in
occasione delle nuove elezioni (luglio 1970) assumemmo il mandato di “far convergere le città per far
convergere le nazioni”; “al negoziato globale non
c’è alternativa”; alla coesistenza pacifica non
c’è alternativa; alla “convivenza pacifica” non
c’è alternativa: ecco l’appello che in tre diverse occasioni
le città hanno responsabilmente lanciato agli stati di tutta la
terra!»[122].
Il La Pira rinnova
così la concezione stessa dell’ordinamento internazionale,
facendovi partecipare direttamente le città e i popoli (v. supra VII, 4), intesi concretamente come
enti collettivi (v. supra V, 4).
Giorgio La Pira
elabora, fin dal 1922, una concezione reale (concreta) non quantitativa e,
fondamentalmente, giuridico-religiosa della città.
I presupposti
giovanili si trovano in due inediti del 1922, su «Mosca, la città
sacra», ripubblicati criticamente da Giuseppe Miligi, che segnano la
rottura con il fascismo: Roma e Mosca
(tra il 12 e il 16 novembre?); Mosca e
Roma (17 novembre)[123].
La base del discorso
giuridico sta, peraltro, nel concetto romano di res sanctae, che il La Pira richiama
per un parallelismo con la “sovranità” del pater
familias:
«Come
il paterfamilias è sovrano rispetto ai membri alieni iuris, così
egli è sovrano rispetto al territorio. […] Un segno esteriore di
questa sovranità è costituito dalla limitatio, con cui in antico
si rendevano santi (come le mura della città) i confini dei fondi»[124].
Nella conferenza La
città celeste e la città di pietra tenuta nel 1960 alla
Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, il La
Pira precisa:
«Se ci pensiamo bene, l’avvenire più che degli Stati
è delle città. Lo Stato è la forma giuridica. Dissi al Sindaco
di Mosca quando venne qui: vede, gli Stati cambiano, ma le città
restano. C’era Napoleone, poi altri ecc., ma Mosca c’è
ancora, resta. Passano le forme giuridiche, resta la città, resta un
valore permanente.
E nell’ottobre
1951, salutando il Sindaco di Nuova York, Vincenzo Impellitteri, aveva detto:
«E
difatti qual è il consuntivo ideale, storico, di questo vostro
viaggio.Avete iniziato con Roma (centro spirituale del mondo) poi via via le
grandi città italiane […]»[126].
Affermato il valore di tutte le città, Giorgio La Pira
prende dunque in particolare considerazione le loro diversità e
specificità da diversi punti di vista: soprattutto quello
storico-geografico e quello teologico. Ciò porta all’individuazione
dei fondamenti della civiltà mediterranea.
Nel 1968 Giorgio La Pira scrive al presidente dell’Istituto
di Biologia Umana dell’Università di Tunisi:
«L’uomo mediterraneo – la civiltà
mediterranea, la spiritualità e la cultura mediterranea, che nel corso
dei secoli si sono radicate lungo le sponde di questo grande lago di Tiberiade
– ha ancora oggi (ed avrà ancora domani, nel corso dei secoli che
verranno) una “funzione permanente” da svolgere per
l’edificazione della storia nuova del mondo!
Perché?
Perché questa “civiltà mediterranea” poggia –
per così dire – su tre fondamenti di roccia che la storia nuova, i
secoli e le generazioni non potranno mai corrodere: sono infatti tre
“incontestabili fondamenti” della storia totale degli uomini e dei
popoli!
Su questi
tre fondamenti sono, per così dire, iscritti – come nelle pietre
fondamentali della Gerusalemme celeste – tre nomi: quello di Gerusalemme
(il senso della storia); quello di Atene (il metodo logico e scientifico e la
bellezza e contemplazione artistica); quello di Roma (l’organizzazione
scientifica e tecnica – per tutte le genti – del diritto e della
politica).
[...]
Gerusalemme, Atene e Roma – per limitarmi, con Valéry, ad esse,
poiché da esse “partono” e ad esse
“confluiscono” tutte le altre città essenziali del
Mediterraneo e dell’Europa (Costantinopoli, Cairo, Tunisi, Algeri, Fez,
Madrid, Parigi, Firenze e tutte le altre) – hanno un messaggio permanente
per la edificazione della storia nuova (prossima e lontana) e della civiltà
nuova dei mondo!»[127].
Ma Betlemme,
più di ogni altra città, ha secondo Giorgio La Pira un rapporto
strettissimo con Roma e con la pace[128].
Il fortissimo
rapporto tra Betlemme e Roma è stato individuato e analizzato nei discorsi
di Brescia, 8 dicembre 1970, e di Roma, 21 marzo 1971[129],
in cui Giorgio La Pira ha sviluppato l’esame della «strategia
romana» di Cristo e degli Apostoli[130].
L’importanza dei due discorsi si trova sottolineata in una lettera ad
Amintore Fanfani, del 1° luglio
Il primo discorso,
che chiuse, nella «significativa e augurale festività
dell’Immacolata, Mater Ecclesiae», le celebrazioni bresciane per il
cinquantesimo anniversario del sacerdozio di Paolo VI (dopo il suo
«viaggio asiatico»), riguarda specificamente la «strategia di
san Paolo» (pubblicato in Il
Focolare, 28 febbraio 1971[132]:
«Col suo terzo viaggio, san Paolo
– sotto la “pressione” di Cristo che gli appare e lo
sollecita ad attuare un disegno apostolico che sarà determinante per
l’intiera storia della Chiesa e dei popoli (At 23, 11) – mira alla
conquista di Roma (al “battesimo di Roma”, come Fornari ha
felicemente detto): egli mira al vertice dell’impero romano; mira –
per convertirla – alla più alta dirigenza culturale, militare e
politica di Roma!
Questa strategia dei vertici è in san Paolo il tratto specifico del
suo apostolato: risponde alla sua stessa vocazione iniziale: “ ... Egli è per me strumento di elezione
per portare il mio nome innanzi ai Gentili, e ai re e ai figli di Israele” (At 9, 15): Cristo Risorto a questo lo
destina!
San
Paolo è fedele a questo “mandato dei vertici”, a questa
“strategia dei vertici” (nel rendere testimonianza sia ai piccoli
che ai grandi, At 26, 22): a Cipro (nel primo viaggio) converte il proconsole
Sergio Paolo (At 13, 7); a Cesarea, cerca di convertire il re Agrippa (At 26,
28... E Agrippa a Paolo: ancora un poco e
mi persuadi a farmi cristiano); a
Malta (durante il terzo avventuroso viaggio verso Roma) converte Publio,
governatore dell’isola (At 28, 7): ed a Roma? È evidente che
nell’appello a Cesare (At 25, 10) c’è la grandiosa
intenzione apostolica di pervenire sino al vertice dell’impero romano per
convertirlo a Cristo e per conquistare così a Cristo, coi vertice
dell’impero romano (il vertice politico di tutte le genti),
l’intiero corpo delle nazioni!
Conquistata Roma –
“battezzata” Roma – il lievito dell’Evangelo si sarebbe
diffuso organicamente e rapidamente in tutto il corpo dei popoli (come san
Leone Magno disse) che aveva, appunto, in Roma, nel suo “Augusto”,
il proprio vertice, il proprio centro.
La strategia di san Paolo.
La strategia del terzo viaggio di san Paolo è
“globale”: indubbiamente è una strategia che tende a Nerone
(At 25, 12); alla casa di Cesare (Fil I, 12); alla dirigenza culturale (a
Seneca!); tende, cioè, alla “conquista” di Roma e,
perciò, di tutto l’impero: e attraverso Roma alla conquista dei
popoli di tutta la terra; tende al centro per guadagnare l’intiera
circonferenza!
Questa
strategia paolina è la strategia stessa di Cristo Risorto (Cristo
partendosi da questo mondo aperuit futura
omnia quae Petrus et Paulus Romae predicaverunt, Lattanzio VI, 21), dello
Spirito Santo che “partecipano” a san Paolo questo disegno
grandioso della conquista – a Roma – del mondo: la notte seguente il Signore apparve a Paolo
e gli disse: fatti animo; perché come mi hai reso testimonianza in
Gerusalemme, così occorre che tu me la renda a Roma (At 23, 11); Ma apparve in questa notte un angelo di
quel Dio di cui sono ed a cui servo dicendomi: non temere Paolo: tu devi
comparire innanzi a Cesare: ed ecco che Dio ti ha fatto dono di tutti coloro
che navigano teco (At 27, 25); E dopo
essere stato colà – diceva –
bisogna che io vada a Roma (At 19,21).
A questa strategia di Dio nella storia del mondo va ricondotto
l’intiero mistero di Roma: la pienezza dei tempi include
l’unità politica del mondo nel tempo di Augusto, la pace del mondo
(l’Ara Pacis inaugurata, il tempio di Giano chiuso) ed il censimento dei
mondo (Lc 2, 1 ss.) nel quale furono censiti, a Betlemme, Cristo e
Maria!»
Nel secondo discorso,
Il tema delle scelte, pronunziato a
Roma il 21 marzo 1971 (pubblicato in Il
Focolare, 4 luglio 1971)[133],
Giorgio La Pira colloca la «strategia romana» di Paolo nel quadro
di quella che egli chiama la «scelta di Cesarea», e così pone in risalto che Paolo era
cittadino romano:
«Cristo
stesso fece questa scelta [...] questa scelta avvenne, appunto, a Cesarea di Filippo
(dopo il viaggio a Tiro, sino alle sponde dei Mediterraneo, porta degli oceani
e del mondo intiero; sei giorni avanti
Non ha, la scelta del luogo, un significato profetico? Non viene,
con essa, profeticamente predeterminato il centro, a partire dal quale
La domanda è legittima: ed essa appare oggi, in questa
età unitiva ed apocalittica, ancora più piena di significato:
mostra il “disegno organico di Gesù” in relazione al moto
globale, millenario, della Chiesa: un moto centripeto, organico, che doveva
investire il mondo intiero ed avere come centro (e lo ha avuto nel corso di
questi duemila anni) la sede romana di Pietro. Se si riflette sulla
“dinamica degli Apostoli” – sul finalismo storico e
geografico del moto missionario degli Apostoli (specie di san Paolo) –
questa “scelta romana” fatta a Cesarea di Filippo assume un rilievo
grande: appare come il polo orientatore, finalizzatone, del moto missionario
della Chiesa!
Già san Pietro stesso (col Battesimo della famiglia romana
del Centurione, avvenuto nell’altra città romana di Palestina,
Cesarea marittima [cfr. At 101, muove verso
La
“strategia romana” domina, finalizzandole, la struttura e la
finalità dell’apostolato paolino [...].
Il piano del Risorto, il soffio motore dello Spirito Santo,
è questo, “va a Roma” [cfr. At 22, 21; 23, 11]: questo il
comando; non verso l’Asia ma verso Roma – per guadagnare Roma
– deve essere orientato il
terzo viaggio paolino!
Non a
caso Cristo ha scelto un cittadino romano per aiutare Pietro a guadagnargli il
centro del mondo!
Bisogna riflettere profondamente, proprio oggi, sulla strategia
apostolica romana di Gesù e sulla strategia apostolica romana di Pietro
e di Paolo.
Paolo
viene a Roma – spinto dallo Spirito Santo – per guadagnare a Cristo
il centro del mondo! A Roma (come già ad Atene) svolge un piano
apostolico ben determinato. Mirò alla base (agli schiavi) come ai
vertici [...]».
La «tesi di
Cesarea» («che il Signore mi ha dato la grazia di intuire»,
scrive Giorgio La Pira nella citata lettera del 1° luglio 1971) trova
corrispondenza in un libro del Padre Redentorista Benedetto D’Orazio, Il Mistero di Roma, edito nel 1965
(«ieri ho preso un libro molto interessante [...] in vendita a Via
Merulana 31» scrive il La Pira al Fanfani). Si veda soprattutto il Capo
XV «Cristo alla conquista di Roma». Aveva scritto il Padre
D’Orazio:
«Dobbiamo dire che i primi germi della fede cristiana, che
poi ebbero in Roma tanto meraviglioso sviluppo, furono posti nel cuore di
militari e funzionari romani residenti nelle provincie orientali. Ricordo qui
il centurione di Cafarnao, il centurione del Calvario, il centurione Cornelio
con i soldati della coorte italica, il proconsole di Cipro Sergio Paolo, il
centurione Giulio che accompagnò Paolo a Roma, il tribuno Lisia con i
legionari del presidio di Gerusalemme, ed il proconsole di Corinto Gallione,
che difesero Paolo dalle furie omicide dei giudei».
Forse un primo nucleo
della «tesi» è già nell’articolo Roma e la nuova etnarchia, scritto su
invito del Padre Gemelli e pubblicato in Vita
e Pensiero, 3 8 (1955), 11, pp. 615 ss.: a proposito di Pietro e il
centurione Cornelio; e a proposito di san Paolo: «“Va a Roma”
disse il Signore a san Paolo (che voleva invece andare altrove)».
La «tesi di
Cesarea» è sviluppata in articoli pubblicati nel periodico Il Focolare del 17 ottobre e del 5
dicembre 1971, del 30 gennaio, 23 aprile e 16 luglio 1972, attraverso
l’iniziativa della tre giorni di studio del novembre 1972 e 1973: vedi La pace non si può fermare, in Prospettive, 24 (settembre-ottobre
1972), pp. 10 ss.; Arco di Costantino:
riflessione storico-politica, in
Prospettive, 33-35 (marzo-agosto
1974), pp. 134 ss.
Ma la «tesi di
Cesarea» ha la sua completa formulazione (a mio avviso) nell’articolo
intitolato Chi è il Crocefisso (pubblicato in Il Focolare del 23 aprile 1972)[134]
ove è intuito il «rapporto profondo e misterioso» tra la
risposta di Pietro a Cesarea e la risposta del Centurione «a guardia di
Gesù»:
«Chi è il
Crocefisso? È
la stessa domanda che Cristo, otto mesi avanti la sua morte, aveva Egli
stesso posto a Cesarea di Filippo, quasi in modo provocatorio, agli Apostoli:
– chi dicono gli uomini che io sia?
E voi, chi dite che io sia? – (Mt
16, 15 ss.).
Ecco la
risposta: “Il Centurione e quelli che stavano con Lui, a guardia di
Gesù, vedendo il terremoto e quanto succedeva, presi da gran timore,
dissero: – veramente, costui era il
Figlio di Dio” (Mt 27, 54;
Mc 15, 39) – Ed il centurione che stava lì, dirimpetto a Lui, vistolo così spirare esclamò:
– “veramente quest’uomo era il Figlio di Dio”. La
risposta del centurione e quella di Pietro mostrano fra di loro un rapporto
profondo e misterioso; si richiamano a vicenda: l’una è infatti
quasi eco e preannuncio dell’altra! “Tu sei il Cristo, il Figlio
del Dio vivente” aveva detto appunto Pietro (Mt 16, 16)»[135].
Nelle Istituzioni la definizione dello ius gentium è ricavata da Gaio (I,
3), ed il famoso passo del De officiis
di Cicerone 3, 17, 68-69, è considerato dal punto di vista del diritto
privato. Peraltro gli istituti sono incentrati nel concetto di fides; ed è proprio in un
capitolo intitolato “Fides” del n. 3 di Principî (marzo 1939) che, sulla base del De officiis di Cicerone ed in
particolare dell’esempio di Attilio Regolo (1,13,39), Giorgio La Pira
afferma:
«Il fondamento della giustizia e, quindi, della pacifica
convivenza umana è la fides.
Il popolo romano considerò questo principio di giustizia come la base di
ogni virtù e di ogni grandezza»[136].
La stessa
opera di Cicerone (De off. 3, 5, 21
ss.) è ripresa nell’ultimo fascicolo di Principî (1940, pp. 29 s.):
«“La natura non tollera che aumentiamo con le spoglie
degli altri le nostre facoltà, il nostro prestigio, la nostra
ricchezza”. Parole scritte circa cent’anni prima della venuta di
Cristo! Che dire se le mettiamo a confronto con le più comuni dottrine e
con la frequente pratica del nostro tempo?».
“Solidarietà
umana” è intitolato il capitolo di Principî ove è riportato il passo di Cicerone citato
per ultimo, e così pure il capitolo del n. 4, aprile 1939[137],
in cui è riportato Cicerone, De
off. 3, 6, 26 ss. La solidarietà implica il rifiuto delle concezioni
individualistica e soggettivistica del diritto e impone, in particolare nel
diritto internazionale, di «andare al di là della norma pacta sunt servanda cara al positivismo
giuridico» (Principî, n.
10, ottobre 1939, p. 193 n. 12) Il La Pira segue qui il Verdross: cf. ibid. p. 189 n. 2; 192 n. 9; n. 11-12, nov. - dic. 1939, p. 218).
Ecco il
fondamento romano:
«Tutte queste norme sono riducibili alla norma fondamentale
nella quale si sustanzia la giustizia: la legge della solidarietà.
I tria praecepta iuris dei
giuristi romani: honeste vivere, alterum non laedere, suum unicuique tribuere (D. 1, 1, 10,
§ 1) non sono che gli aspetti primi di questa legge: perché il
presupposto di ogni solidarietà sta appunto nel rispetto della esistenza
e della personalità altrui: così fra gli Stati come fra gli
individui.
Tutti i diritti e gli obblighi internazionali - il rispetto dei
patti (pacta sunt servanda), il
rispetto delle promesse (promissio est
servanda), il rispetto delle regole pattizie o consuetudinarie del diritto
internazionale etc., hanno la loro fonte prima in questa legge della
solidarietà internazionale che sposta le basi del diritto internazionale
trasferendole dalla concezione individualistica e subbiettiva del diritto a
quella sociale ed obbiettiva»[138].
Nell’articolo
pubblicato nel 1930 su Il concetto di
legge secondo San Tommaso, a proposito del «nesso organico fra i
singoli enti ed il tutto», Giorgio La Pira presenta il “principio
di giustizia” con le parole di Ulpiano (Digesta Iustiniani 1,1, 10 pr.): «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi»,
e vi connette il concetto agostiniano di pax:
«Questa giustizia che si profonda in ogni singolo ente e
che tutti gli enti fra loro unisce ed armonizza in un equilibrio sempre
mantenuto ha la sua esteriore manifestazione nella pace: perché col nome di pace devesi esprimere
l’acquietarsi dei singoli enti nei loro fini particolari e di tutti gli
enti nel loro unico fine universale: pace è, infatti, la
tranquillità dell’ordine (S. Aug. De Civit. Dei XIX, 13)…»[139].
Al
“grande principio di giustizia” nemini
aliquid detrahere, che sta a fondamento della società umana
(Cicerone, De off. 3, 6, 26 ss),
corrisponde l’affermazione ciceroniana che la guerra è «un
modo di risolvere le questioni proprio delle belve» (Principî, n.
5, maggio 1939, p. 116).
Su questo
principio Giorgio La Pira vede svilupparsi la dottrina cattolica della guerra,
in particolare nel pensiero di Francisco de Victoria, «domenicano
spagnolo del secolo XVI, fondatore del diritto internazionale moderno»
(vedi Principî n. 4, pp. 94
ss.; n. 5, pp. 116 ss.), che rielabora una dottrina già formulata da S.
Agostino e S. Tommaso. Vedi anche gli articoli firmati da Giorgio La Pira in Principî, n. 8-9, agosto-settembre
1939, pp. 160 ss. (cf. 177; 180); n. 10, ottobre 1939, pp. 189 ss.; n. 11-12,
novembre-dicembre 1939, pp. 213 ss.
Commentava
il La Pira:
«E se nel secolo V, nel XIII e nel XVI la dottrina
cattolica riconosceva con tanta estrema cautela la possibilità di guerre
giuste, si pensi alla vera impossibilità in cui essa si troverebbe oggi
a legittimare un conflitto dal quale non potrebbe derivare che una sola cosa:
la distruzione della civiltà umana e cristiana dell’Europa»[140].
Il punto
di partenza della riflessione lapiriana è dato, oltre che dal De officis di Cicerone, dal
“grande principio romano” la cui formulazione risale al giurista
Cassio, secondo un passo dei libri ad
edictum di Ulpiano riportati nei Digesta
Iustiniani: «vim vi repellere
licere Cassius scribit idque ius natura comparatur: apparet autem, inquit, ex
eo arma armis repellere licere» (D. 43, 16, 1, 27; Principî,
n. 8-9, p. 160). Per altri riferimenti al diritto romano, quanto ai concetti di
pax, pactio, domus, vedi supra, VII, 4.
Ma il
punto di arrivo è la “tesi fiorentina” del “crinale
apocalittico della storia” (si veda il citato volume Unità, disarmo, pace, Firenze 1971) e quindi la negazione, a
nome delle città, dello ius belli
degli Stati e l’affermazione che
«la pace e, perciò, l’unità fra i
popoli di tutta la terra è, malgrado tutto, inevitabile»[141].
Orbene, la coerenza della dottrina cattolica e di questo
suo “aggiornamento” lapiriano passa attraverso la precisazione
fatta chiaramente da Francisco de Victoria: «si bellum utile sit uni reipublicae cum damno orbis aut
christianitatis, puto eo ipso bellum esse iniustum», che il La Pira
così parafrasa:
«che la guerra, nonostante presenti gli altri titoli di
legittimità, non rechi grave danno all’organismo internazionale e,
in ispecie, alla cristianità» (Principî,
8-9, p. 163; cf. 180).
Coerente
con questa dottrina è l’intervento in Assemblea Costituente: v. infra par.6.
Giorgio
La Pira fa riemergere, nell’ordinamento internazionale, per la ricerca
della pace, il ruolo delle città e dei popoli e anche delle nazioni; i
termini “popolo” e “nazione”, secondo una corretta
tradizione terminologica e concettuale romanistica, non sono usati come
sinonimi. Vedi supra, VII, 4.
Viene
“contestato” lo ius belli
degli Stati (v. supra IX, 1), e a
ciò corrisponde la “contestazione” del «diritto di
proprietà privata di grandi dimensioni» (v. supra VIII, 2).
A questo
aggiornamento del diritto internazionale, “fondato” (secondo
Giorgio La Pira) da Francisco de Victoria, sono funzionali i concetti di
“famiglia umana” e di “casa di Abramo”, di uso
frequentissimo negli scritti lapiriani: v. supra
VII, 4.
All’Assemblea
Costituente, nell’adunanza plenaria dell’11 marzo 1947, Giorgio La Pira,
nell’appoggiare gli artt. 3 e 4 del Progetto, respinge quelle teorie (da
Kant a Hegel) secondo cui «non c’è un diritto internazionale
anteriore a quello statale» o addirittura «la pace è un
armistizio; la guerra è, invece, lo stato normale, vitale delle
nazioni». A questa dottrina il La Pira contrappone quella cattolica ( a
partire da Francisco de Victoria):
«esiste una res
publica civile, che è la res
publica Christianorum, che fa si che totus
mundus est quasi una res publica, cioè tutto il mondo è
coordinato come un’unica città»[142];
«E io richiamo anche l’attenzione sugli articoli 3 e
4 del nostro progetto. L’art.3 dice: “L’ordinamento giuridico
italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute”, e l’art.4 con una maggiore audacia, dice, in
sostanza, che
L’ultima
nota autobiografica nel Digesto di Giorgio La Pira fa riferimento
all’enciclica Pacem in terris: «2.2.74 [40 anni dopo 2.2.34:
a Siena: pacem in terris]»[144].
1) Contenuto
processuale del senatus consultum di Augusto ai Cirenei (Studi italiani
di filologia classica 7 [1929] 59-83).
2) La sostituzione
pupillare (Studi in onore di P. Bonfante III [Milano 1930,
estratto Pavia 1929] 271-347).
3) Precedenti
provinciali della riforma giustinianea del diritto di patronato (Studi
italiani di filologia classica 7 [1929] 145-154).
4) La successione
ereditaria intestata e contro il testamento in diritto romano (Firenze
1930) xxvii, 598 pp.
5) Riflessi
provinciali del diritto tutelare classico romano (BIDR 38 [1930]
53-73).
6) Frammenti
papiracei di un κατα πόδα del
Digesto (BIDR 38 [1930] 151-174).
7) Il concetto di
legge secondo S. Tommaso (Rivista di filosofia neoscolastica 22
[1930] 208-217).
8) Un registro
catastale e un libro processuale dalla Marmarica nel nuovo papiro vaticano (BIDR
39 [1931] fasc. IV-VI, 19-39) (in collaborazione con C. Gallavotti).
9) Un caso di
“vadimonium iureiurando” nel papiro vaticano della Marmarica (Studi
in memoria di A. Albertoni I [Padova 1935, estr. 1931 445-452).
10) “Compromissum”
e “litis contestatio” formulare (Studi in onore di S. Riccobono
II [Palermo 1932] 189-226).
11) La struttura
classica del pignus (Studi in onore di F. Cammeo II [Padova 1936,
estr. 1932] 1-22).
12) Necrologio di
U. Ratti (Studi Senesi 46 [1932] 541-544).
13) Recensione di
U. E. Paoli, Studi di diritto attico (BIDR. 41 [1933] 305-320).
14) Esegesi del
Papiro Vaticano (Documento della Marmarica) (BIDR 41 [1933]
103-141).
15) La struttura
classica della conventio pignoris (Studi Senesi 47, n. 1-2
[1933] 1-34 estratto); anche in Studi in memoria di U. Ratti (Milano 1934)
225-246.
16) Rilievi di
Meciano sul concetto di “hereditas” (Studi Senesi 47, n.
3 [1933] 1-14 estratto).
17) La genesi del
sistema nella giurisprudenza romana. I. Problemi generali (Studi
in onore di F. Virgilii [Siena 1934] 159-182).
18) La genesi etc.
II. L’arte sistematrice (BIDR. 42 [1934] 336-355).
19) La genesi etc.
III. Il metodo (SDHI. 1 [1935] 319-348).
20) La genesi etc.
IV. Il concetto di scienza e gli strumenti della costruzione scientifica
(BIDR. 44 [1936-1937] 131-159).
21) Il diritto
naturale nella concezione di S. Tommaso d’Aquino (Indirizzi e
conquiste della filosofia neoscolastica italiana [Milano 1934] = Rivista
di filosofia neoscolastica, Supplem. speciale al vol. 26 [1934] 193-206).
22) La stipulatio
Aquiliana nei papiri (Atti del IV Congresso di Papirologia [Milano
1936], 479-484).
23) La
personalità scientifica di Sesto Pedio (BIDR 45 [1938]
293-334).
24) Problemi di
sistematica e problemi di giustizia nella giurisprudenza romana (Atti
del V Congresso di Studi Romani (1938), V [Roma 1946] 22-31).
25) Corso di
Istituzioni di diritto romano [policopiato] (Firenze 1940). Successive
edizioni, Istituzioni di diritto romano: 1944, 1948, 1952, 1954, 1955,
1956, … 1973 (le edizioni dal
Dall’inventario
degli oggetti presenti nella camera del professor Giorgio La Pira, al primo
piano di via G. Capponi
Questi manoscritti
sono conservati in un lato dell’armadio, entro due scatole di cartone,
cui se ne sono aggiunte altre due (per contenere i manoscritti, prevalentemente
romanistici, conservati dapprima nei due cassetti). Nell’altro lato dell’armadio
è conservato, tra i molti libri di diritto, filosofia e storia,
religione e politica, il volume I del Corpus Iuris Civilis (Berolini
1920) su cui il La Pira annotò alcune date della sua vita.
I manoscritti
appaiono raccolti con cura dal professor
Ho scelto per una
prima pubblicazione il gruppo di fogli dal titolo “Riassunto 1a lezione
18/XI/68”. La trascrizione è stata curata da Antinesca Tilli. Vedi
Index 23, 1995, pp.11 ss.
* Articolo pubblicato
in Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza giuridica storica e
contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto
Burdese, a cura di Luigi Garofalo, Volume I, Padova 2003.
[1] Lettera pubblicata
(parzialmente) da F. Mercadante nella “Presentazione” del volume G.
[2] G. Grosso,
[3] Il telegramma-lettera
è datato «Sant’Ignazio di Loyola 1955»: ora pubblicato
in G. Merli - E. Sparisci,
[4] Corpus Iuris Civilis, I, Berolini
1920, conservato nell’armadio della camera del prof.
[6] Su Gino Segré
come “primo discepolo” di Contardo Ferrini vedi S. Schipani, Le scuole di diritto
romano nella cultura contemporanea a Roma, in Iuris vincula. Studi in
onore di Mario Talamanca, VII, Napoli 2001, 371 ss. Scriveva alla metà del secolo
scorso Giuseppe Grosso, nella “Prefazione alla
quarta edizione” del Manuale di Pandette di C. Ferrini (Milano 1953): «il libro
del Ferrini appare oggi più vivo che mai […] una trattazione che
metta a fuoco come primo piano il diritto giustinianeo, con una visione
stereoscopica sulle prospettive storiche. E una impostazione siffatta rende
l’opera di più immediata consultazione e utilizzazione per i
giuristi odierni, in particolare per i tecnici del diritto […]».
Parole di Contardo Ferrini erano state riprese da Giorgio
[10] A proposito di systema
e ars, R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, 28 nt.
6, rinvia al
[11] Vedi infra, VII, 2. Sul “tomismo
lapiriano” vedi la rassegna di P.
A. Carnemolla, Un cristiano siciliano. Rassegna degli studi su
Giorgio
[12] Vedi infra, VII, 3. Sulle differenze tra il
pensiero del Maritain e quello del
[13] Gli scritti
riguardanti il diritto costituzionale sono stati oggetto di vari studi, tra cui
quello del professore fiorentino Ugo De
Siervo (attualmente giudice della Corte Costituzionale), nel volume che
raccoglie vari scritti di Giorgio
[14] Gli scritti
riguardanti l’ordinamento internazionale (guerra e pace,
“sovranità” del pontefice romano, “valore delle
città”), nei quali l’originalità del
[15] Vedi G.
[16] Il discorso è
pubblicato in
[17] In quanto “censore
teologo” nella Causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio
professor Giorgio
[19] Studi pubblicati tra
il 1934 ed il 1937. Citerò dalle “Dispense ad uso degli
studenti”: G.
[21] Stampato
dopo la guerra: Atti del V Congresso
nazionale di Studi Romani, vol. V, Roma 1946, 22-31.
[25] Corso di Istituzioni di diritto romano. Gruppo universitario
fascista, Firenze, anno accademico
1939-1940, XVIII (dispense poligrafate ad uso degli studenti), Editrice
Universitaria, Firenze 1940, 680 pp.
[26] Istituzioni di diritto romano, Editrice Universitaria Firenze 1948,
444 p. (litografato); 1973, 161 pp. (dispense ad uso degli studenti); v. infra,
“Appendice bibliografica”.
[28] G.
[29] Corso di Istituzioni di diritto romano,
cit., 27-44; Istituzioni di diritto romano, cit., 1-11.
[32] Vedi la “Nota
introduttiva” del 1974, VI: «Bisogna leggere così i dodici numeri di
Principî: vedere ogni numero come si vede un barometro che indica la
tempesta che si approssima!».
[35] In Bollettino di Studium, V, maggio 1939,
n. 3, 6 [= G.
[39] G.
[40] Vedi G.
[43] La lettera
è pubblicata in Index 30 (2002). Il Centro per gli studi
su Diritto romano e sistemi giuridici del CNR (ora Sezione di Roma
‘Giorgio
[46] Vedi già
l’articolo “Tendere al centro” in Il
Carroccio, 11 (1932), 408 ss. (= G.
[47] Sulla «intima
trama teocentrica della storia» e gli «eventi della storia di
Roma» vedi già “Spiritualità cristiana e
spiritualità laica” in Studium
44 (giugno 1948) nr. 6, ripubblicato, nel giugno
[48] Vedi l'intervento
pubblicato in Quaderni latinoamericani
1 (1977), Firenze, Cultura Editrice, 79; cfr. Index 23 (1995), 42; Il
Veltro 41, 5-6 (settembre - dicembre 1997), 364 s.
[49] Il gesuita Antonio
Vieira, difensore degli indios e
degli ebrei, fu autore della teoria del “Quinto Imperio”, da lui
difesa con efficacia di fronte all’Inquisizione. Giorgio
[65] Vol. XII, 152. Cfr. P. Catalano, A proposito dei
Seminari “Da Roma alla Terza Roma”, in Index 23 (1995), 459 e Id.,
Elementi romani della cosiddetta laicità, ibid., 479, su Virgilio «profeta laico» secondo il
[67] Loc. cit. Tuttavia, nel
sovrapporre a Gaio (2,13, e 1,54) i concetti moderni di “soggetto”
e “oggetto”, l'autore finisce con dire dei servi: «Non sono
soggetti ma oggetto di diritto, quindi non possono essere titolari di rapporti
giuridici propri» (Istituzioni cit., 45); cfr. l'uso dei
concetti moderni di “personalità giuridica”,
“capacità giuridica”, “capacità di
agire”, “persona giuridica”, ibid. 15-28.
[70] Vedi
[71] Architettura di uno Stato democratico, Roma 1948 (= G.
[73] Loc. cit.; vedi
altresì gli Atti della Commissione per
[76] Azione Fucina, 10 ottobre 1941, n. 31(= vol. IV, 301). Sulla
“persona umana” vedi il libro Il
valore della persona umana, I ed. 1947 (la “Premessa” è
datata «Festa dell'Assunta 1943»), II ed. 1962 (= vol. XXVII); vedi
già in Principî; poi in Studium 37 (luglio 1941) n. 7 (= vol.
IV, 284 ss.): «Tutto converge verso questo centro: il
“valore” di Cristo»; cf. Studium
46, dic. 1950, n. 12 (= vol. VI, 515). Si ricordino soprattutto le lezioni su I problemi della persona umana, tenute
presso l'Accademia Romana S. Thomae Aq. et Religionis Catholicae, pubblicate
nel 1943 (= vol. IV, 427 ss.): «l'individualismo è la patologia
della persona» (437).
[78] Vol. V, 355. Mette
conto notare che per lungo tempo gran parte del potere giudiziario e la stessa
Corte Costituzionale volevano distinguere lo “sciopero politico”,
per non considerarlo lecito. In una linea interpretativa analoga a quella di
Giorgio
[79] Sulla nozione di
“potere negativo” vedi, inizialmente, in Aggiornamenti sociali, le osservazioni del direttore di questa
rivista, Mario Castelli (Aggiornamenti sociali, giugno 1967, 451;
cfr. ibid., aprile 1981, 283) e,
dello stesso autore, un articolo inedito conservato nel “Fondo
Castelli” (presso la sede nazionale delle ACLI in Roma). Sul Padre
Castelli vedi P. Parisi e altri, Mario Castelli S.J., laicità come profezia, Soveria Mannelli
1998.
[86] “Colloquio a
Badia”, domenica 5 marzo
[89] G.
[90] S. Mazzarino, Vico, l’annalistica e il diritto, Napoli 1971, 67.
Fondamentale è, nell’insegnamento del
[91] G.
[92] Anche con il titolo Di
fronte all’aborto in L’Osservatore Romano, 19-20 marzo 1976;
ristampato in G.
[93] Sulla correlazione
tra le riflessioni epistemologiche contenute in questo articolo e il tema della
«Prolusione» vedi P. Grossi,
Stile fiorentino. Gli studi giuridici
nella Firenze italiana 1859-1950 , Milano 1986, 118 s.
[94] G.
[96] J. Maritain, La persona e il bene comune (trad. ital.), Brescia 1978, 18; cfr. G. Galeazzi, Maritain e
[97] L’articolo, datato
Firenze, gennaio 1974, è ripubblicato in G.
[104] Vedi i discorsi
tenuti a Torino ed a Budapest nel 1971: Il
sentiero di Isaia cit., 499 ss.; 511 ss.
[105] G.
[106] Per un uso
dell’interpretazione lapiriana vedi P.
Catalano, Vigenza dei principi del diritto romano riguardo ai
“diritti dei nascituri” in Per una dichiarazione dei diritti
del nascituro, a cura di A. Tarantino, Milano 1996, 131 ss. Id., Il nascituro tra diritto romano
e diritti statali in Culture giuridiche e diritti del nascituro,
Milano 1997, 87 ss. Lo scontro tra sistemi giuridici va considerato nel quadro
del conflitto demografico: v. Id.,
in Index 25 (1997), 83 ss. Per un’applicazione odierna del diritto
romano a vantaggio dei concepiti, vedi R.
Lotufo, Investigação de paternidade e alimentos en
favor do nascituro, in Index vol. ult. cit., 201 ss.
[107] G.
[112] Si veda ad es. il
messaggio per il convegno di Studi Sassaresi su “Autonomia e
diritto di resistenza” (1971), riportato infra, IX, 1.
[113] G.
[114] Testi riportati
più ampiamente in Index 23 (1995), 35 ss. La dottrina
è così espressa già nel 1953 (vol. VIII, 279); cf. la
lettera a Pella del 3 dicembre 1953
(ibid. 345).
[116] Lo ricordava Paolo Frezza in Index 23 (1995), 21; vedi anche F.
Fabbrini, L’influenza del diritto romano sulla
spiritualità di Giorgio
[117] Questo mi conferma Mario Primicerio, collaboratore del
Professore in quel viaggio, docente della Facoltà di Scienze
matematiche, fisiche e naturali dell’Università di Firenze, Sindaco
della città alla fine del XX secolo. Sugli aspetti politici (e religiosi) della vicenda vedi P.
A. Carnemolla, Un cristiano siciliano cit., 65-67; brevemente M. De Giuseppe, Giorgio
[118] Vedi Valeur des villes. Discours prononcé par M. Le Professeur
Giorgio
[121] Vedi la rivista Studi Sassaresi, Serie III, vol. 3 (anno
accademico 1970-71), ed. Giuffrè, Milano 1973, 7 s.
[123] G. Miligi, Gli anni messinesi e le
“parole di vita” di Giorgio
[124] Vedi Istituzioni
di diritto romano cit., 194; 196. Vedi supra (VIII,1) circa la
“intrinseca differenza” rispetto alla “proprietà
moderna”.
[128] Su Gerusalemme,
Betlemme e Roma, sulla “stella della pace” e il Corano, vedi P. Catalano, Da Roma a Betlemme.
A proposito della “strategia romana” di Cristo e degli Apostoli
secondo Giorgio
[129] Pubblicati nel
periodico Il Focolare. Vedine la ripubblicazione: Il fondamento e il
progetto di ogni speranza, a cura di C Alpigiano
Lamioni e P. Andreoli,
prefazione di G. Dossetti, Città
del Vaticano 1992.
[130] La dottrina lapiriana
della “strategia romana” ha profonde radici nel cristianesimo dei
primi secoli. A proposito del censimento a Betlemme e della “cittadinanza
romana” di Gesù, mette conto ricordare alcuni passi delle Historiae adversus paganos di Paolo
Orosio: «Igitur eo tempore, id est
eo anno quo firmissimam verissimamque pacem ordinatione Dei Caesar conposuit,
natus est Christus, cuius adventui pax ista famulata est, in cuius ortu
audientibus hominibus exultantes angeli cecinerunt “Gloria in excelsis
Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis”. [...] Tunc igitur natus
est Christus, Romano censui statim adscriptus ut natus est. [...] hanc urbem
nutu suo auctam defensamque in hunc rerum apicem provexerit, cuius potissime
voluit esse cum venit, dicendus utique civis Romanus census professione Romani». Paolo Orosio, sacerdote spagnolo, esule dalla patria invasa dai
Vandali, si recò prima in Palestina e poi presso Agostino, per consiglio
del quale scrisse, intorno al 417, la storia dell’umanità dalla
creazione del mondo sino ai giorni suoi. Come è noto, le Historiae adversus paganos di Paolo
Orosio furono ampiamente utilizzate da Ibn Khaldun.
[131] Lettera pubblicata in
A. Fanfani, Giorgio
[135] La riflessione sulla
milizia romana e la sua disciplina, e in particolare sul ruolo dei
centurioni nel Nuovo Testamento, ha profonde radici nella letteratura cristiana
antica: basti ricordare il panegirico del centurione Gordio scritto da Basilio
di Cesarea, che riferisce le parole del martire. Della “fede” del
centurioni tratterò in uno scritto (già preannunciato in
occasione del Convegno di Padova e Venezia): “Non inveni tantam fidem
in Israel”.
[139] In Rivista di filosofia neoscolastica,
22 (1930), 211 (= G.
[141] G.
[144] La trascrizione di
questa riga è dovuta ad Antinesca
Tilli, già segretaria di Giorgio
[145] Sul lavoro
universitario di Giorgio