N. 5 –
2006 – Tradizione Romana
Presidente emerito della Corte Costituzionale
italiana
Mommsen nella romanistica italiana
Or sono cento anni, il 1° novembre 1903, Teodoro
Mommsen moriva. Appena dieci mesi dopo, nel settembre 1904, usciva per i tipi
della casa editrice milanese di Francesco Vallardi, la traduzione italiana del Disegno del diritto pubblico romano[1],
curata da Pietro Bonfante, allora professore nell’Università di
Pavia. Il Disegno è opera di
sintesi della monumentale trattazione del Römisches
Staatsrecht[2]
edito per la prima volta nell’aprile del 1876, per la seconda
nell’agosto del 1887. Indugiamo in questa cronologia per sottolineare che
l’Abriss des römischen
Staatsrechts[3]
esce nel maggio 1893, quando il suo autore aveva 76 anni, e a lui consigliata,
come egli si esprime nella prefazione, da «persona autorevole»
desiderosa di un’opera che «bastasse ai giuristi, che non sono in
pari tempo filologi».
«Opera senza pretese», la dichiara il Mommsen,
«magro riassunto», eccezione alla regola che non si deve dare al
pubblico «asserzioni discompagnate da prova», giustificata dal
fatto che nel suo caso per le prove si poteva rinviare ad opera più
ampia, cioè al Römisches
Staatsrecht.
Ma nelle ultime battute della breve prefazione Mommsen
rivela che si è giovato «della brevità imposta da questo
compendio» per dare risalto al «nesso sistematico» dei cinque
libri in cui raccoglie popolo, Stato, magistrati, comizi e senato, più
di quanto non gli fosse stato possibile nell’opera maggiore dominata
dall’apparato filologico.
La distanza di oltre un quarto di secolo tra
Proviamo ad esaminare alcune di queste note che valgano a
cogliere almeno qualche profilo della ricezione di Mommsen in Italia.
Mommsen fondava la famiglia romana sul vincolo di sangue
giuridicizzato nel matrimonio. L’acquisto della potestas del padre su tutti i componenti della famiglia era
nient’altro che manifestazione della proprietà. Tra i vari
argomenti, Mommsen impiega anche quello della assoluta subordinazione della
donna, non mitigata ma indurita nel corso del tempo fino a quando
l’influenza della vita ellenica nel tardo Impero non si fece valere anche
in questo campo. Mommsen è qui contestato da Bonfante non solo per la
concezione della patria potestas come
emanazione del diritto di proprietà, ma per la posizione della donna
«elevatissima in Roma, assai più che non nella colta
società dell’Ellade, che il Mommsen mette a riscontro, e forse
così elevata come in nessun’altra società umana dei tempi
passati». Quanto ai filii familias
essi potevano adire le più alte cariche dello Stato. Non proprietario
dunque il pater, che non significa
genitore, ma signore, e che esercita il ius
vitae et necis, potere identico al ius
necis vitaeque civium, «espressione suprema e simbolo della
sovranità pubblica»[5].
Questa nota è più un colpo di spada che non
un’osservazione in punta di penna. La costruzione bonfantiana della
natura politica del potere del pater
dà ragione in altra nota dell’acquisto della cittadinanza da parte
dello schiavo manomesso.
E invero debole è la congettura del Mommsen che la
resistenza romana alla concessione della cittadinanza a stranieri cedeva
dinanzi allo schiavo, il che si spiegherebbe «con la lieve estimazione
originaria della cittadinanza nelle sfere patrizie»[6].
Quanto alla centuria dei proletari che sarebbero censiti capite come padri di prole,
corregge Bonfante che proletarius
deriva forse meglio da proletum,
popolo, ed ha il senso di «uno del popolo», citando Bréal[7].
Altra nota riguarda le Vestali che, secondo Mommsen,
sarebbero potute essere plebee per non avere rappresentanza dello Stato verso
la divinità. Bonfante obietta che il requisito richiesto per esse di
essere patrimae e matrimae[8]
allude, secondo Servio[9],
alla nascita da nozze confarreate e la confarreatio
è rito patrizio[10].
Anche qui è insidiata la filologia di Mommsen, di cui si sarebbe semmai
dovuta discutere la rigidità della categoria, assunta per ordinare i
sacerdoti patrizi e plebei, della cosiddetta rappresentanza dello Stato.
Il libro secondo intitolato a La magistratura si apre con l’assioma che la volontà
del singolo si annulla nella volontà generale del populus, e proprio questo caratterizza il vincolo
dell’associazione statuale. Bonfante obietta che ciò si verifica
in ogni associazione e che l’esempio adottato dal Mommsen per le curie e
il Senato non è valido perché qui si tratta sempre di organi
dello Stato.
L’antitesi volontà singola e volontà
generale si manifesta invece pienamente nel collegium
magistratuale[11].
Mommsen sosteneva che l’origine del ius civile fosse nei magistrati e non nei
pontefici. Bonfante dissimula a fatica la sua riprovazione per questa tesi:
«Forse l’esagerazione ed anche l’imprecisione sono dalla
parte di Mommsen». E la nota descrive il passaggio dai pontefici in
giuristi laici quale è a tutt’oggi acquisito dalla nostra
storiografia, con una incidentale correzione enfatizzata da un punto
esclamativo «ius honorum (e non
propriamente civile!) è quello dei magistrati»[12].
Più oltre, a proposito della nomina del magistrato
da parte del predecessore, Mommsen sosteneva che essa sarebbe stata introdotta
nell’ordinamento repubblicano per compensare il magistrato supremo della
perduta durata vitalizia della carica, abbandonandosi così la nomina da
parte dell’interrex come usava
nella monarchia arcaica. Bonfante è di tutt’altro avviso. La
nomina con dilazione era già possibile nel regno, perché è
paragonabile alla designazione del successore nel testamento. La designazione
è riscontrabile in tutte le monarchie fino al finire del medioevo quando
si stabilizza la successione del primogenito.
In più Bonfante torna a ribadire che tale istituto
non nasce né nel diritto privato né nel diritto pubblico, ma
è espressione della funzione originaria del trapasso della
sovranità[13].
In tema di collegialità, Bonfante
rimprovera Mommsen di abusare di un criterio metodologico, che è quello
di dimostrare un principio di diritto con il ricorso ad una invenzione
pragmatica. La collegialità non è introdotta con il regime
repubblicano, come voleva Mommsen. Scrive Bonfante: «Siamo in presenza di
un concetto originalissimo e fondamentale del diritto romano, che è la
più splendida confutazione dei creatori logici di costituzioni e la
più magnifica prova che la storia, come la natura, se obbedisce a leggi
fatali nel suo svolgimento, consacra sovente nelle sue creazioni
l’assurdo. Se si volesse infatti costruire a priori un sistema inverosimile di governo, non si riuscirebbe a
idearne uno così sorprendente come la collegialità romana, non
tanto per la pluralità dei sovrani (il che non appare certo
un’ideale forma del potere esecutivo), quanto pel modo con cui è
intesa questa pluralità che riesce ad un vero nichilismo di stato; il
dissenso dei pareri sull’agire in un modo o nell’altro non si
risolve nemmeno col criterio della maggioranza, non si risolve in nessun modo,
bensì arresta l’azione e può arrestare tutta la macchina
dello Stato». Bonfante conclude che la collegialità «deve
avere radice nell’intima essenza della società romana, e
richiamarsi allo spirito e alla logica primitiva delle istituzioni»[14].
Altre tesi mommseniane sono contraddette da
Bonfante, come quella che attribuisce alla Repubblica la distinzione del
processo in due fasi in iure e apud iudicem[15].
Ma ricorrente è in genere la censura su deduzioni razionalistiche.
Significativo è questo monito: «[…] pericoloso il
trasportare nell’età primitiva le nostre categorie della
potestà legislativa, elettorale, ecc. Il vizio del concetto [scil. della
legge] risulta già dal fatto che il Mommsen lo applica alle relazioni
internazionali e ai comizii giudiziarii;
o perché non allora ai comizii
elettorali, se non fosse che qui l’assurdo è evidente? Gli esempi
sono infelici quanto mai: l’arrogazione e il testamento non vanno dinanzi
al popolo perché deviazioni dall’ordine regolare e legislativo, ma
per essere atti di importanza grave per la famiglia, non altrimenti che pel
comune l’aggregazione di un territorio o la nomina di un
magistrato»[16].
Malgrado le note, la traduzione di Bonfante
ebbe il merito di far conoscere al pubblico italiano l’opera di Mommsen,
che nel 1907 usciva in Germania in seconda edizione. Esaurita l’edizione
italiana e non facilmente reperibile la seconda in tedesco, Adolfo Omodeo
chiese a Vincenzo Arangio-Ruiz di curare una nuova edizione della traduzione
bonfantiana, per la sua Biblioteca Storica. Arangio aderì
all’invito con consapevole motivazione: «sembra infatti
particolarmente utile - egli scrive, nella Introduzione
del 1942 – in questa epoca di profonda revisione e rimeditazione
politica, che il punto di vista romano sia rimesso sotto gli occhi degli
studiosi in questa esposizione severamente giuridica eppure tutta quanta
percorsa da un senso vive e partecipe delle esigenze politiche». Omodeo e
Arangio ritennero di riutilizzare la traduzione «già apprestata
dal più forte pubblicista fra i romanisti della passata
generazione» che loro appariva «per adeguatezza di espressione
tecnica, per dignità di stile e per fedeltà all’originale
difficilmente superabile». Ma Arangio, oltre a ritocchi stilistici, decide
di omettere le note polemiche di Bonfante, per essere queste dovute alle idee
che caratterizzano le originali ricostruzioni storiche di questo capofila della
nuova romanistica italiana, e nelle sue opere ampiamente sviluppate e a portata
di mano di ogni romanista. Arangio preferisce invece nella sua introduzione
restituire Mommsen a quel secolo XIX «del quale egli ha sentito
potentemente i grandi problemi, dall’affermarsi dei liberi ordinamenti
alla costituzione dell’Impero germanico»[17].
Ma egli vede nello Staatsrecht una
somiglianza con il Lehrbuch des
Pandektenrechts[18]
di Bernhard Windscheid, con la differenza che il pandettista costruiva un
sistema da valere per il presente, impiegando tesi manipolate dai maestri
beritesi, dai compilatori di Giustiniano, e poi dalla tradizione europea dai Glossatori
a lui, mentre Mommsen attingeva dalla diretta documentazione delle fonti
letterarie ed epigrafiche per costruire concetti come li avrebbe formulati un
romano scientificamente educato.
Così Mommsen edificava il suo Staatsrecht come un sistema perfettamente
razionale, andando incontro alla obiezione fondamentale di Gradenwitz se si
possa «subordinare l’intera empiria
della storia a concetti comprensivi», accolta da Arangio, che aggiunge:
«In verità, un sistema che ha l’ambizione di valere per
tutti i tempi della storia di Roma, dalle origini ai Severi, è una
specie di quadratura del circolo; e già le commessure fondamentali
scricchiolano paurosamente sotto la pressione della multiforme realtà
che dovrebbe contenere»[19].
La tricotomia, magistratura assemblea senato, «non sembra capace di
contenere tutte le istituzioni che nel millennio si sono succedute. […]
quando nel terzo libro troviamo in testa all’elenco delle magistrature il
regno e in calce il principato e i suoi funzionari, e non sospettare che ciò
avvenga a scapito del concetto stesso di magistratura»[20].
Non è essenziale alla magistratura la
temporaneità insieme alla elezione popolare, l’una e l’altra
fondanti la libertas repubblicana in
negazione del Regnum? Queste domande,
scrive Arangio, Mommsen se le è poste, ma vi ha risposto
«più con un atto d’impero che con una dimostrazione».
L’atto d’impero è costituito dall’affermazione che il
magistrato ha creato il popolo e non viceversa. Il magistrato riceve il mandato
dal suo predecessore non dal popolo, la volontà del popolo non è
di per sé efficace, affermazione quest’ultima evidente petizione
di principio.
Se occorre concedere molta elasticità
allo schema mommseniano per ricomprendere nella magistratura anche il re
arcaico, «quello che nessuno sforzo umano – scrive Arangio –
può costringere a star nello schema è il regime fondato da
Augusto; o piuttosto esso vi può stare soltanto se considerato nella sua
struttura giuridica formale di prosecuzione della repubblica, cioè se ci
si rassegna a considerare il princeps
come un elemento estraneo. […] il capitolo XI del libro terzo, destinato
ad inscrivere nello schema il principe stesso, sembra annaspare intorno ad una
verità irraggiungibile»[21].
Arangio ricorda come nel 1930 Pietro De Francisci abbia dimostrato
conclusivamente che malgrado sia cittadino romano e titolare di magistrature
repubblicane, il principe è «fuori dello Stato, autorità
superiore e quasi divino che vigila sulla republica
Romanorum allo stesso modo che i re protettori dell’ellenismo hanno vigilato
sulle città greche formalmente sovrane»[22].
Arangio misura la distanza tra l’età mommseniana che aspirava alla
perfezione tecnica del dogma giuridico e quella novecentesca che tende alla
maggiore adeguazione alla varietà delle costituzioni romane. Non dunque
principi ideali raggiunti per via di astrazione, ma strutture e funzioni come
apparivano agli occhi dei contemporanei, questo è l’obiettivo
della ricerca storica del nuovo secolo. Arangio ritiene che la formulazione
giuridica dei risultati della ricerca storica «dovrà accostarsi il
più possibile al modo in cui la vita dello Stato, coi suoi fini e i suoi
organi e le sue funzioni, si presentava alla meditazione degli antichi»[23].
La introduzione di Arangio si chiude con una
intonazione di presagio: «Aspirazioni vaghe, che se tali non fossero
avrei già scritto io stesso il libro che vado auspicando, o almeno sarei
in grado di scriverlo. Forse chi sarà in grado non è ancora nato;
o forse è un ingegno che in qualche parte del mondo si va maturando
attraverso le angosce dei terribili tempi in cui viviamo. Ma ingegno sovrano
dovrà essere perché possiamo aspettarcene un’opera degna di
essere posta accanto al purissimo diamante che oggi ripresentiamo al lettore
italiano»[24].
Quell’ingegno auspicato da Arangio-Ruiz
si sarebbe rivelato di lì a poco. E sarebbe stato considerato il Mommsen
italiano. E’ Francesco De Martino che con la sua Storia della costituzione romana[25]
ha dato di Roma, dall’età arcaica al tardo Impero, una descrizione
tutt’affatto diversa da quella raccolta negli schemi mommseniani o nella
storiografia giuridica e generale della prima metà del Novecento. Il
primato dei fatti, la molteplicità dei fattori in campo nei processi
storici, la sostanza economica degli assetti sociali, i rapporti di classe sottesi
agli ordinamenti politici fanno il telaio complesso della Storia di De Martino, come i dogmi giuridici facevano quello dello Staatsrecht e dell’Abriss di Mommsen. Ma come ben vedeva
Arangio sono due età diverse del mondo. Quella del Mommsen fu del travaglio
liberale per un cittadino libero dallo Stato e contemporaneamente rappresentato
nello Stato e dallo Stato. Era inevitabile che Mommsen cercasse nella Storia del diritto pubblico romano un
modello di stabilità giuridica cui aspirava la civiltà liberale,
e in quelle egli stesso, per equilibrare la libertà del singolo e
l’autorità dello Stato. Nella seconda metà del Novecento
restava aperta l’antitesi tra lotta di classe e ordinamento politico
della società di classi, rendendo anacronistica una visione dogmatica
delle strutture di potere dello Stato.
De Martino è attento alle tendenze e ai
processi di trasformazione piuttosto che a descrizioni di categorie ancorate a
quadri di stabilità.
Si veda questo passaggio sul principato
augusteo: «la tendenza augustea era dunque di trasformare la costituzione
cittadina in una costituzione, nella quale l’elemento monarchico fosse
accettato, mediante l’accentramento di poteri di governo nelle mani del princeps, ma non fossero cancellati gli
organi dello stato repubblicano, né tanto meno fosse cancellato il
rapporto tradizionale civitas-libertas e
sostituito da un nuovo rapporto di totale subordinazione del suddito al
monarca. I tratti fondamentali del nuovo regime corrispondevano dunque alla
teoria del governo misto, entro il quale l’equilibrio si era modificato a
vantaggio dei nuovi organi di potere nei confronti di quelli tradizionali. Da
questo aspetto Augusto era anche un tutor
rei publicae, ma l’idea della funzione protettiva non si era tradotta
in concrete forme costituzionali e restava come uno degli elementi ideologici
del nuovo regime»[26].
E per la costituzione dell’Impero, dopo
Augusto fino a Diocleziano e Costantino, la linea guida della storia
demartiniana è quella di «penetrare l’arcano della
costituzione sostanziale, la quale non può essere compresa se non
mediante lo studio degli atti di governo, delle vicende politiche e del
rapporto tra lo stato e la società nel suo insieme»[27].
Una rotazione totale si è compiuta da
Mommsen a noi nella romanistica giuspubblicistica italiana. Ma veniamo ad
un’altra grande opera mommseniana il Römisches
Strafrecht edito nel 1899, e sei anni dopo l’Abriss.
La sequenza temporale può forse dare
ragione della convenzione di Mommsen che il diritto penale si collochi in
«un posto intermedio tra il diritto e la storia», com’egli si
esprime nella Prefazione[28].
In una penetrante nota del suo Processo
penale e società politica nella Roma repubblicana[29]
Carlo Venturini collega questa professione metodologica con quella tematica,
che la precede nella prefazione mommseniana, e cioè che «il
diritto penale senza la procedura penale è come un manico di coltello
senza lama e la procedura penale senza il diritto penale come una lama di
coltello senza manico». Venturini vede bene che Mommsen allude a due
bersagli polemici, contro August Wilhelm Zumpt, che con il suo Der Criminalrecht der römischen
Republik[30]
del 1865-1868 aveva ridotto il diritto a procedura, e contro
l’esposizione analitica dei singoli crimini, esemplare e tradizionale
nelle opere di Wilhelm Rein, Das
Kriminalrecht der Römer von Romulus bis auf Justinian[31]
del 1844, e di Ferdinand Walter, Geschichte
des römischen Rechts bis auf Justinian[32],
dello stesso anno, tradotto in italiano da E. Bollati nella edizione torinese
del 1851.
Continuando ad utilizzare la utile concisione
della nota di Venturini, è da ricordare che il Diritto penale romano[33]
di Contardo Ferrini è considerato da Gian Gualberto Archi «quasi
un completamento» del coevo Strafrecht
mommseniano. E Ferrini non fa che trattare la teoria generale del reato
aggiungendovi una parte speciale sui singoli crimini. La considerazione sembra
dettata da una corrispondenza tra le due opere, la mommseniana e la ferriniana,
con le esigenze e le vedute della Scuola classica del diritto penale in Italia
e in Germania. Insomma la storia in funzione del diritto. Si ripeterebbe per il
diritto penale quel piegare la storia al dogma, come era accaduto con la
massima possibile perfezione nella Pandettistica, e per quel che tocca Mommsen,
nello Staatsrecht e nell’Abriss?
Per una risposta soddisfacente e complessa a
questa domanda troppo rudimentale, non basterebbe esplorare la letteratura
romanistica italiana novecentesca che, secondo una osservazione di Orestano,
per quanto riguarda il diritto e la procedura penale, usa Mommsen secondo le
utilità del contraddittorio accademico. Del resto, gli studi di insieme
in questo settore non sono comparabili con quelli dedicati al diritto privato e
al diritto costituzionale, fatta eccezione per l’organica trattazione del
Diritto e processo penale
nell’antica Roma[34]
di Bernardo Santalucia del 1989. Abbiamo la fortuna di una ricerca penetrante
su Mommsen e il diritto penale romano del 1995, di un allievo di Mario Bretone,
Tommaso Maniello.
Tralasceremo la parte di questa ricerca che
riguarda il metodo mommseniano di coniugazione di filologia e diritto, di
storia e sistema. Sono particolarmente significativi alcuni tratti per
intendere la costruzione mommseniana. Mommsen fonda l’intero organismo
del diritto penale sulla legge: «la legge designa obbiettivamente gli
atti immorali contro i quali si deve intervenire in nome della comunità
[…]; la legge organizza la procedura d’inchiesta nella sua forma
positiva; la legge fissa per ciascun delitto la pena conveniente» (Strafrecht 56)[35].
«Il diritto penale abbraccia in un sol
tutto i doveri morali dell’uomo sia nei riguardi dello Stato cui
appartiene sia nei riguardi di altri uomini. Questa unità non è
conosciuta né poteva esserlo dalla scienza giuridica romana […] e
tuttavia non si può rinunciare a considerare il diritto penale nel suo
insieme, la violazione della legge morale e la repressione ch’essa
reclama da parte dello Stato sono nozioni fondamentali che uniscono intimamente
i due rami del diritto penale» (Strafrecht
4)[36].
Alla legge sono sottoposti sia i magistrati sia il popolo. Dunque l’idea
dello Stato di diritto specie nell’età repubblicana domina la vita
romana fino a quando lentamente nell’Impero non rinasceva
l’arbitrio del sovrano, quasi un ritorno alla coercizione illimitata del
re arcaico.
«Entrambe le leggi [scil. la legge
morale e la legge penale] sono instabili; quella morale, in quanto espressione
dello sviluppo dei popoli, è un perpetuo movimento ondulatorio, fatto di
ascese e di cadute; quella penale è la risultante di prescrizioni
esterne e precisamente delle norme morali che in un’epoca determinata
sono imposte da una comunità politicamente organizzata al singolo
individuo […]» (Strafrecht
523)[37].
La legge penale deve razionalmente non
discostarsi dalla legge morale, e quando si tratti di leggi dettate
dall’opportunità politica, le pene comminate non debbano mai
essere eccessive perché non troverebbero consenso nella coscienza
individuale. E’ questa l’estrema garanzia di quella libertà
del singolo che nel liberalismo militante di Mommsen è l’altro
polo rispetto a quello della forza rappresentativa dello Stato.
La conoscenza che abbiamo oggi delle scritture
di Mommsen e della biografia, ch'egli avrebbe voluto tenere celata ai posteri,
consente di illuminare ogni interferenza tra il suo pensiero e i contesti
culturali e politici nei quali si svolse la sua vita intellettuale e pratica.
La databilità di Mommsen nel cuore della civiltà liberale europea
del XIX secolo non esclude la sopravvivenza dell’opera e della figura sua
nell’età successiva che è ancora la nostra. Ma
paradossalmente egli sopravvive come nelle sue opere escono da ogni strenger Schematismus le forze storiche
disobbedienti alla logica di un sistema e perciò irrazionali.
Testimone egli stesso della delusione per
quanto si attendeva dalle premesse e promesse etico-politiche del liberalismo
in una nuova Germania: «Ich
wünste ein Bürger zu sein».
[3] Id., Abriss des römischen
Staatsrechts, in Systematisches
Handbuch der Deutschen Rechtbswissenschaft unter Mitwirkung der Professoren H.
Brunner… [et al.], herausgegeben
von Karl Binding, Leipzig 1893.
[9] S.M. HONORATUS, Servii Grammatici qui ferunt in Vergilii Bucolica et Georgica
commentarii/recensuit Georg Thilo, Hildesheim 1986, 1.31.
[17] V.
ARANGIO-RUIZ, Introduzione del
curatore, in TH. MOMMSEN, Disegno del
diritto pubblico romano, trad. di P. Bonfante, Milano 1943 [riv. anast. CELUC (1973)], 10.
[29] C.
VENTURINI, Processo penale e
società politica nella Roma repubblicana, Pisa 1996, 13, nt. 1.
[32] F. WALTER, Geschichte
des römischen Rechts bis auf Justinian, Bonn 1840; tr. it. Storia del diritto di Roma sino ai
tempi di Giustiniano, Torino 1851.