N. 5 – 2006 – Tradizione
Romana
Università
di Sassari
I diritti d’uso pubblico nella dottrina di Flaminio Mancaleoni fra
interpretazione e creazione del giurista
Poco più di un
secolo ci divide ormai da quando Flaminio Mancaleoni fu chiamato quale
professore straordinario di diritto romano nell’Ateneo sassarese.
Da allora la nostra
scienza è stata investita da qualcosa di simile a un vento di tempesta.
Con un giuoco di parole si potrebbe dire che lo storicismo non ha giovato alle
scienze storiche, le quali si sono trovate, come Alice, impigliate nel gioco di
specchi di un relativismo di cui l’affinamento stesso della loro
metodologia ha contribuito a moltiplicare gli effetti.
E non minore crisi ha
attraversato e sta attraversando il mondo del diritto, coinvolto nella profonda
trasformazione della società la cui vita è teso a regolare.
Secondo le pessimistiche previsioni del Savigny[1],
l’aureo sistema della codificazione sembra andato in frantumi[2].
Si sono appannati i lineamenti degli istituti che da molti secoli costituivano,
al suo interno, il fondamento del diritto privato (la proprietà, la
famiglia), e stiamo assistendo, nello sconcerto generale, allo sfumare interno
e internazionale di quella che consideravamo la sua fonte di produzione: la
sovranità dello Stato. Sicchè quel tempo, quel tempo a noi
vicino, si è fatto già lontano, è divenuto oggetto di
storia, si lascia avvicinare attraverso lo stesso filtro metodologico
necessario per lo studio di qualunque altro tempo.
A un tale
avvicinamento, per la verità, io mi propongo di contribuire nei limiti
di un aspetto molto particolare dell’attività dello studioso per
ricostruire il cui itinerario scientifico siamo qui riuniti: le servitù
d’uso pubblico. Su questo tema è incentrato uno degli ultimi studi
di Mancaleoni, comparso negli “Studi
sassaresi” del 1923, con il titolo Sulla natura dei diritti d’uso pubblico in relazione ai modi d’acquisto,
e visibilmente collegato con una controversia che opponeva ad un privato il
comune di Sennori, delle cui ragioni il Mancaleoni fu vittoriosamente avvocato
sia in appello che in cassazione.
A dare lo spunto all’articolo
è dichiaratamente la pubblicazione dell’ultima monografia del
corso di diritto civile del Bianchi[3],
ove non si teneva conto dei nuovi orientamenti della suprema Corte in tema di
modi d’acquisto dei diritti d’uso pubblico. Di tali nuovi
orientamenti il Mancaleoni rivendicava la paternità, per cui si era
sentito spinto – come egli scrive – «a esporre, richiudendole
in conciso ragionamento» le considerazioni che gli parevano decisive in
materia.
Un tale genere di
approccio, di per sé, attira subito la nostra attenzione, perchè
si lega al delicato rapporto della dottrina con la produzione del diritto. Una
produzione che dai trionfi della communis
opinio, la serrata dello Stato
moderno, suggellata dalla rivoluzione francese, aveva formalmente ridotto al
rigido monopolio dello Stato. Quelli di Mancaleoni, erano gli anni di uno Stato
garantista e controllore, gli anni della onnipotenza della Legge, arbitro
– per definizione neutrale – del vivere civile[4].
Da questo punto di
vista, l’apertura dell’articolo è sorprendente: Mancaleoni
sembra parlare, invece, di un diritto che va oltre il puro testo della legge,
un diritto che abbisogna di una particolare opera maieutica che non si confonde
con la sola interpretatio del giudice
e che fa già vacillare il primato della statualità.
E’ naturale, a
questo punto, essere indotti a rivolgere la nostra attenzione al caso che ha
fornito lo spunto allo studio di cui si tratta. Come si è accennato,
questo vede opporsi da un lato il comune di Sennori, dall’altro il
proprietario di un fondo, sito nel territorio dello stesso Comune, in contrada
Crabiolu; fondo nel quale esisteva una fonte, cui da tempo i cittadini del
Comune usavano attingere acqua. Il proprietario del fondo aveva cinto con un
muro il terreno, incorporando la fonte e impedendo così ai cittadini di
usarne. Il Comune di Sennori aveva assunto la difesa del diritto dei suoi
cittadini, sostenendo che la fonte era soggetta a servitù d’uso
pubblico, e quindi il proprietario del fondo era tenuto a garantirvi l’accesso.
Gli interessi
contrapposti si inserivano, come si può intuire, in un contesto spinoso.
Sul piano concreto,
il rapporto con il suolo rappresentava ancora, nel nostro Paese (e soprattutto
in Sardegna), la più importante fonte di ricchezza. Sul piano del
diritto, bisogna tenere conto del fatto che all’epoca della formazione
del codice francese, sul quale si modellò il nostro, la risistemazione
teorica e normativa della proprietà (che si volle concepire come le pouvoir juridique le plus complet d’une
personne sur une chose[5]) trascinò con sé la
profonda modificazione dell’istituto delle servitù, che conobbero
un drastico dimagrimento. E’ appena il caso di ricordare che l’ancien régime aveva ereditato
dall’età di mezzo un ben altro tipo di proprietà: a parte
la distinzione fra fondi nobili e fondi plebei, il diritto faceva largo spazio
a oneri reali che gravavano i proprietari dei fondi. Ovunque, le popolazioni
del contado cercavano di trarre qualche vantaggio dal fondo del signore
spigolandovi, cogliendovi erba o legna, o portandovi le greggi a pascolare.
Quae
consuetudo – scriveva il De Luca – videtur fere universalis per
Europam ipsi iuri naturae, seu naturali rationi innixa et quodammodo necessaria
ne cives et incolae inermem vitam ducant[6].
Questi diritti
– che oggi qualifichiamo come usi civici[7]
– dalla dottrina di diritto comune erano stati collocati fra le
servitù, poiché quella dottrina utilizzava, il più delle
volte deformandole, le figurae del
diritto romano[8].
Grande però era stato lo sforzo per individuarne la specificità.
La scuola del diritto naturale aveva addirittura fatto sorgere una presunzione
di esistenza di usi civici, presunzione che aveva contribuito non poco a
renderli invisi[9]
e a trascinarli nel generale rifiuto di tutto quanto avesse il vecchio sapore
del feudalesimo, anche quando ciò si scontrava con le reali esigenze
della società[10].
Erano ancora vivi, in Sardegna, i segni lasciati dalla cosiddetta legge delle
chiudende[11].
L’odio per qualunque onere reale che gravasse la proprietà affiora
ancora nei lavori preparatori del Codice del 1865, perchè
La lite per la fonte
Crabiolu rimbalzò con una rapidità per oggi purtroppo impensabile
(ma per la procedura civile del tempo, domine della lite erano le parti[13])
per vari gradi di giudizio. Il Tribunale rigettò la domanda del Comune,
Va a questo punto
ricordato che, in tema di servitù, il codice civile italiano del 1865
conosceva una partizione teorica e generale fra servitù continue e
discontinue (art. 617). Quanto poi alla loro costituzione, l’art. 630
recitava testualmente:
Le
servitù continue non apparenti e le servitù discontinue, siano o
meno apparenti, non possono stabilirsi che mediante un titolo. Il possesso, benché
immemorabile, non basta a stabilirle.
Le radici della norma
risalivano all’art. 691 del Codice Napoleonico[15],
recepito poi dall’art. 649 del Codice per gli Stati di S. Maestà
il Re di Sardegna[16].
Il secondo comma di quest’ultimo era, nel 1865, divenuto materia dell’art.
21 delle disposizioni transitorie per l’attuazione dello stesso codice
civile. Tale articolo stabiliva che le servitù, le quali al giorno dell’attuazione
fossero state acquistate col possesso secondo le leggi anteriori, venivano
conservate[17].
Questo faceva sì che si discutesse sovente se una servitù
discontinua (ad esempio quella di cui si trattava nella causa che ci interessa)
fosse o meno stata acquistata prima che il codice civile fosse attuato, e la
discussione si faceva particolarmente complessa quando non regnava l’accordo
circa l’identità della legge anteriore al codice del 1865.
La regola per
distinguere l’una dall’altra categoria veniva vista in ciò:
che il contenuto delle servitù continue implicasse sempre uno stato di
fatto, mentre quello delle discontinue si esaurisse in una attività del
titolare. In sostanza venivano ritenute continue o discontinue le
servitù, a seconda che fosse o meno necessario, per il loro esercizio, il fatto attuale dell’uomo[18].
L’argomento, come vedremo, non era nuovo.
La servitù di
attingere acqua da una fonte posta in fondo altrui o nel corso perenne che vi
trascorra (servitus haustus) era una
figura giuridica che discendeva da quel diritto romano di cui Mancaleoni era
maestro. L’aquae haustus si
distingue dall’acquedotto perchè consiste nel diritto di estrarre
acqua dal fondo servente andando ad attingerla[19],
così che nell’haustus
è compreso l’iter,
cioè l’aditus ad fontem[20].
Secondo i romanisti del tempo, tale figura giuridica si doveva ritenere
sopraggiunta a lato di quelle che avrebbero rappresentato svolgimenti e
concrete applicazioni del primitivo aquaeductus[21]. I problemi sorgevano riguardo alla sua
costituzione. Come di norma, anche nelle servitù prediali si distingueva
in proposito fra diritto classico e diritto giustinianeo; e nel diritto
classico fra fondi italici e fondi provinciali[22].
Ma dei diversi possibili modi di acquisto, l’usucapione era il più
problematico. Ammessa, secondo l'opinione oggi dominante, dal diritto
più antico proprio per le servitù rustiche[23],
era stata poi abolita da una lex
scribonia della fine della Repubblica[24].
Alcuni[25]
ammettevano che già in epoca classica fosse stato riammesso, ma i testi
che ne facevano menzione[26]
erano stati contestati proprio in forza di quel metodo interpolazionistico cui
Mancaleoni fu uno dei primi ad aderire[27]. Certamente l’usucapione delle
servitù tornò in vigore in periodo giustinianeo, perché ad
esse venne estesa la praescriptio longi
temporis[28].
Il tema – oggi
superato[29]
– venne molto discusso in dottrina, a partire da Ascoli[30],
Bonfante[31],
Perozzi[32],
Albertario[33].
Minori discussioni suscitava invece ormai, sul piano storiografico, la
distinzione fra servitù continue e servitù discontinue[34],
che la critica testuale aveva dimostrato non avere le sue radici nel diritto
romano.
La partizione, in
realtà, era sorta per opera dei giuristi dell’età
intermedia. Già Azzone distingue, a proposito del termine necessario per
l’usucapione, fra le servitù che hanno continuam causam e le altre[35],
e il requisito assume rilievo anche per la Glossa[36],
affermandosi particolarmente in forza dell’interpretazione della lex foramen[37].
In realtà, la norma romana richiedeva che la servitù rispondesse
ad una causa giuridica suscettibile di durare nel tempo[38].
La distinzione fra servitù continue e discontinue era dunque una
creazione del diritto comune che, come si sa, fu un diritto di formazione
sapienziale[39].
Stravolgendo le leggi romane per farle seguire ai bisogni di una diversa
società, quel diritto ci addita quali fossero tali bisogni, con tanta
maggior evidenza quanto più accentuata è la stortura da esso
operata rispetto a quelle.
Così se la
Glossa alla predetta lex chiarisce
che le servitù ivi indicate non
habent perpetuam causam cum omnes manu fiant e più avanti precisa quod manu fiat ille usus cuius servitus manu
exercetur[40],
con Cino da Pistoia la distinzione diviene funzionale ai fini della
prescrizione:
Quinto
quaeritur quanto tempore habeant praescribi servitutes? Breviter distinguo:
quaedam sunt servitutes quae habent usum discontinuum, ut est servitus eundi et
aquam portandi et tales praescribuntur a tempore a quo non exstat memoria, ut ff
de aqua quoti. et aestiv. l. hoc iure § ductus aquae. Quaedam vero sunt
quae habent usum continuum, ut est servitus altius non tollendi, et aquam
ducendi. Et tales longo tempore praescribuntur, ut 10
ann. inter praesentes, 20 ann. inter absentes, ut infra eo. l. pen. et fin. et
de serv. urba. praed. l. foramen[41].
E più avanti:
Quaedam sunt servitutes quae habent usum continuum ut est
servitus altius non tollendi et aquam ducendi. Et tales longo tempore
praescribuntur ut 10 ann. inter praesentes, 20 ann. inter absentes...servitus
quae habet usum discontinuum tollitur spacio temporis a quo non extat memoria,
hoc est centum annorum[42],
ma lo stesso Cino avvertiva che la questione era ancora
controversa e che lo stesso Jacques de Revigny aveva lasciato il problema
insoluto.
E’ soprattutto
da Bartolo in poi che la distinzione delle servitù in continuae et apparentes e discontinuae et non apparentes diventa
determinante in rapporto al loro modo di acquisto e alla loro perdita.
Servitus, quae non
habet causam continuam, non potest adquiri tempore et causam continuam non
habet omnis servitus, ad cuius usum factum hominis requiritur et damnum, quod
ex servitute non iure debita contingit venit in actione damni infecti[43].
Bartolo suggerisce
anzi una regola pratica per riconoscere quali servitù avessero e quali
non avessero causa continua:
qualiter
autem cognoscens utrum servitutis habeat causam continuam aut non, do tibi
regulam infallibilem. Si quidem ad usum servitutis requiratur factum hominis
numquam dicitur habere causam continuam; quam homo non potest operari continue.
Si vero non requiritur factum hominis dicitur habere causam continuam vel quasi[44].
Secondo tale teoria,
quindi[45],
unicamente le servitù continue erano soggette alla prescrizione
acquisitiva di dieci o venti anni (fra presenti o fra assenti) potendosi invece
le discontinue acquistare solo con il possesso immemorabile, il quale, come
è noto, presenta dei caratteri che lo distinguono nettamente dalla
usucapione[46].
Sul punto si era affermata una solida opinio
communis. Ancora Gotofredo notava in proposito:
Servitutes
non habentes perpetuam causam, vel quasi, non usucapiuntur neque praescribuntur
nisi tanto tempore cuius non extat memoria[47].
Nella dottrina di
impronta umanistica, che applicava anche allo studio del diritto gli strumenti
offerti dalla critica testuale, la concezione di Azzone e di Bartolo perse,
come si può ben capire, terreno. Se Cuiacio avverte: Servitutes non aestimantur ex continuo usu
sed ex causa perpetua[48]. Donello[49]
parla di vulgaris error, e come lui anche Duareno[50],
Pothier[51]
e la dottrina successiva ragionano in termini di prescrittibilità di
tutte indistintamente le servitù, suscettibili o no di continuo e
ininterrotto esercizio di fatto[52].
Ma nei Paesi con una
forte impronta del mos italicus si
continuò a seguire prevalentemente la dottrina dei giuristi medievali[53]
e, con riferimento alla distinzione fra servitù continue e discontinue
si affermò che mentre le prime necessitavano della praescriptio longi temporis cui si doveva unire la scientia e patientia del proprietario del fondo servente, le seconde si
acquistavano con l’immemorabile; e così pure accadde nell’ambito
dell’usus modernus in Germania[54].
Anche nella prassi
dei nostri tribunali, la distinzione aveva mantenuto un predominio
pressocchè indisturbato, probabilmente perchè a tale soluzione
veniva riconosciuto un contenuto di ordine sociale che giustificava tale
diverso trattamento. Se il Pecchio[55]
manifesta i suoi dubbi circa la sua correttezza teorica, per Cepolla[56],
De Luca[57],
Capobianco[58],
la distinzione era universalmente accolta dalla curia[59].
E d’altra parte, come ci attesta il prezioso Repertorio del Merlin[60],
la stessa cosa è da dirsi della prassi dei tribunali francesi. Questi,
sia nei paesi di diritto scritto sia in quelli di diritto consuetudinario
continuarono generalmente a considerare rilevante la distinzione e a richiedere
l’immemorabile per le servitù discontinue.
Si potrebbe dunque
pensare che con la sentenza della Corte di Cassazione del 1915 la causa per la
fonte Crabiolu fosse decisa, ma così non fu. La sentenza, in
realtà, si allontanava dall’orientamento che si andava affermando
nella Suprema Corte romana, teso a tornare a dare rilievo, all’interno
delle servitù prediali, ai diritti d’uso esercitati da una
comunità e ad affermare che si dovesse distinguere questi da quelli che
venivano esercitati da un privato[61].
«Liberati
ormai dal pregiudizio che niuna forma di proprietà collettiva sia utile,
dobbiamo invece salvarne le reliquie, ricostituire i demani comunali, educare
gli individui al godimento sociale dei beni»;
così, nel
1914, scriveva Brugi nelle sue Istituzioni
di diritto civile[62].
Fondamentale a tal
fine era stata la vertenza che aveva opposto al principe Borghese il popolo di
Roma, a proposito dell’uso di quest’ultimo di passeggiare per
Pur ammettendo la
carenza, nel codice vigente, di norme atte a regolare tale specie di diritti,
si era giunti ad affermare che questo ne contemplava però l’esistenza
rinvenendovi le pur non frequenti ricorrenze dell’espressione "uso
pubblico", e richiamando in vita l’istituto degli usi civici per
invocare lo ius civitatis che essi
implicavano. Era stato egualmente merito del Mancini l’avere suggerito
che la regolamentazione di questa nuova categoria di diritti non andasse
cercata nel diritto privato ma nel pubblico.
L’opinione
dominante, a questo punto, rispecchiava l’esigenza che simili diritti,
nati a favore della cittadinanza per soddisfare così bisogni materiali
come anche artistici o culturali, dovessero venire assicurati nella maniera
più efficace. Essi venivano qualificati dal Giorgi come usi civici che
non consistevano in una partecipazione ai prodotti del fondo, bensì
«nella servitù di passo pubblico, nella facoltà di prendere
acqua, aria, giocare, passeggiare in qualche fondo privato; nell’accesso
pubblico in qualche biblioteca, galleria o museo privato per goderne i tesori
artistici che vi stanno rinchiusi»[65].
Il problema era come
costituire tali diritti ex novo. Per
l’uso di passeggiare per
E’ a queste
argomentazioni che Mancaleoni si riconnette per ottenere ragione sia nel
giudizio di rinvio (che ha tutta l’aria di aver utilizzato in larga
misura le sue suggestioni), sia nella definitiva sentenza della Cassazione a
sezioni unite del 1917: egli sostiene qui che le servitù d’uso
pubblico costituiscono diritti reali sui
generis dettati da speciali contingenze della vita sociale, in armonia con
i principi generali del diritto[67].
Ma sostiene inoltre che, in mancanza di norme specifiche, non era dato
disciplinare tali servitù altrimenti che valendosi del dettato
dell’art. 3 delle disposizioni preliminari del codice civile (del 1865)
ricorrendo cioè all’analogia[68].
Una tale analogia, però, andava cercata non già nella norma che
vietava l’acquisto per usucapione delle servitù non continue
(norma da considerarsi eccezionale) bensì nel principio generale per cui
la prescrizione trentennale era riconosciuta come mezzo di acquisto per tutti i
diritti tanto reali quanto personali.
Richiamandosi ai
“principi generali del diritto” Mancaleoni rinviava a un problema di cui già Brugi aveva denunciato
l’attualità, rilevando essere il diritto codificato solo a
metà, e, pel rimanente, affidato allo ius receptum (talora ius
controversum) e alle analogie di legge. Per supplire
alle lacune, il Brugi proponeva di attuare il sogno di Filippo Serafini:
servirsi del diritto romano per correggere e completare il Codice civile[69].
Da altri, la soluzione veniva invece intravista nel ricorso
all’unitarietà e stabilità dei principi[70].
In effetti, la necessità del rinvio ai principi generali del diritto era
nata con le codificazioni, quando ci si era posti, di fronte alla gloriosa
tradizione giuridica europea, in un rapporto di riflessione qualificato in
senso nazionale e politico. Ma ciò aveva significato al medesimo tempo
creare una frattura con quella stessa tradizione, isterilendone la funzione integrativa.
A una tale funzione dovevano provvedere ora i “principi”, i quali
potevano essere utilizzati per dare regolamentazione a casi cui non
corrispondevano norme specifiche. L’espressione, tuttavia, lasciava
impregiudicata la definizione del contenuto sostanziale dei principi stessi. Così l’Allgemeines Landrecht prussiano del 1749, § 49 aveva fatto
rinvio ai “principi generali accolti nel codice”, mentre
l’ABGB del 1811 al § 11 aveva fatto rinvio ai “Principi del
diritto naturale”. In questo senso li avrebbe concepiti Giorgio
del Vecchio in un suo noto lavoro del 1921[71].
Ma mentre buona parte della dottrina
riteneva che un tale diritto naturale si potesse ritrovare nello ius gentium romano[72],
la formulazione dell’art. 3 comma 2 delle disp. prel. del codice civile
del 1865 rinviava piuttosto al modello prussiano. Tale articolo infatti
recitava:
Qualora una controversia non si possa decidere con una
precisa disposizione di legge, si avrà riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe: ove il caso rimanga tuttavia dubbio,
si deciderà secondo i principi generali del diritto[73].
Ma per Mancaleoni era
chiaro che l’indicazione di positività connessa al riferimento
all’ordinamento giuridico dello Stato non poteva essere letta come rinvio
all’insieme disorganizzato delle disposizioni legislative vigenti, ma
alla conoscenza complessiva di esse nella sistemazione datane dalla dottrina
sulla scorta dell’esperienza.
La sentenza della
Cassazione a sezioni unite che seguì[74]
riprese questa linea di pensiero e la sviluppò al punto da volgere al
contrario le stesse argomentazioni che due anni prima erano state efficacemente
usate dalla parte avversa a Mancaleoni: il diritto in esame non poteva
classificarsi né fra le servitù prediali nè fra quelle
personali, e doveva considerarsi come un diritto autonomo di natura
particolare, appartenente in gran parte al diritto pubblico. Perciò era
ai «recenti progressi di tale diritto» che si doveva guardare senza
cercare di trarre dal diritto privato la disciplina di istituti che
appartenevano ad un altro ramo della scienza giuridica. Dunque non poteva
applicarsi la regolamentazione delle servitù e in particolare l’art.
630.
Si veniva così
delineando una categoria teorica che per la sua natura collettiva serviva, da
un lato, a riconoscere ai diritti d’uso pubblico una natura giuridica
propria e differenziata rispetto alle servitù prediali, dall’altro
ad escludere l’applicabilità di norme a carattere cogente come il
già citato art. 630. La giurisprudenza in sostanza andava così
riconoscendo che al di là dei rapporti interprivati sussistevano
situazioni reali improntate a collettività che perciò solo
prescindevano dalle strettoie poste dal diritto moderno agli iura in re aliena.
Sul punto, venne poi
ritenuto che la norma di carattere generale che consentiva questo tipo di
operazione fosse l’art. 2 (art. 11 del cod. vigente) laddove disponeva
che «i comuni ...godono dei diritti civili secondo le leggi e gli usi
osservati come diritto pubblico». Attraverso il richiamo di questa norma
veniva ad essere legittimato un principio che era di pura elaborazione
giurisprudenziale, un principio secondo il quale le comunità di abitanti
acquistano diritti collettivi a carattere reale su beni privati in virtù
dell’uso protratto nel tempo (necessario ad usucapire) senza essere
soggette alle norme limitative poste dal codice in materia di diritti reali[75].
Nell’articolo
pubblicato successivamente, Mancaleoni ribadisce questi concetti: si deve
abbandonare l’attribuzione dei diritti d’uso pubblico alla
categoria delle servitù personali, giacché si tratta di diritti
che escono dalla sfera del diritto privato e, se pure gravano sopra una cosa di
proprietà privata, la gravano come una limitazione pubblica[76]. Dunque – egli conclude –
si tratta di diritti reali di demanio pubblico su cosa altrui.
Il Mancaleoni
contribuiva così insieme al Mancini, al Giorgi, al Ranelletti[77]
e altri alla creazione di una categoria giuridica speciale[78],
le cui coordinate si distaccano dalle servitù come ne erano stati
staccati gli usi civici ormai in via di estinzione, con i quali condivide il
carattere collettivo dell’imputazione. Ma mentre gli usi civici hanno ad
oggetto il godimento dei frutti o prodotti del fondo sul quale gravano, e non
ammettono costituzioni ex novo, gli
usi pubblici riguardano solo l’uso del bene, e grazie all’accoglimento
della teoria di Mancaleoni possono essere usucapiti[79]. E se la categoria degli usi civici,
aveva ormai perso l’interesse della dottrina (se si eccettua il Venezian
che le aveva dedicato il discorso inaugurale per l’anno accademico 1887
nella Università di Camerino[80]
e, nel 1910, una memoria critica sugli interventi legislativi in progetto[81]), quella degli usi pubblici mostrava una
vitalità e una tendenza definitoria straordinarie, tanto da far pensare
che fosse proprio a questi modelli che Mancaleoni pensava scrivendo di
evoluzione regressiva degli istituti giuridici. Per Mancaleoni l’istituto
regressivo è in rapporto dialettico con l’istituto progressivo.
«Bisogna – egli scrive – cercare di non confondere gli
elementi decadenti e quelli ascendenti soprattutto per valutare l’importanza
che essi hanno nella interpretazione analogica e nella estensione della norma
come di ius comune o di ius singolare».
Attraverso vicende
come queste, la visione borghese di un diritto "neutrale" pura
silloge di testi normativi, si frantuma già di fronte alle pressioni
dell’esperienza concreta e al riconoscimento del carattere normativo
della fattualità filtrata dalla dottrina. Come nota Grossi,
«Demitizzati il codice e il diritto romano, resta una sola salvaguardia
per l’ordine giuridico, ed è l’interpretazione»[82].
L’interprete si porrà sempre di più come un mediatore fra
la legge immobile e la società in corsa, e tenderà a tornare un
protagonista.
Di questa funzione il
Mancaleoni era acutamente consapevole. Lo si vede chiaramente nella prolusione
al corso di diritto romano tenuta a Napoli il 5 febbraio 1920[83],
ove al contempo egli accenna alla frattura lasciata dalla guerra appena
conclusa, lasciando trasparire timori profetici per l’immediato e
più che mai validi ancor oggi:
«Gli
avvenimenti che hanno sconvolto il mondo hanno pure sconvolto le menti e, nella
frattura tellurica della crosta storica delle genti si è perduto il
senso della continuità della vita sociale, si è perduta la via
larga e si tentano i viottoli per riprendere il cammino dell’Umanità.
E i viottoli sono le ideologie e gli apriorismi, le fedi mistiche nelle
instaurazioni arbitrarie della giustizia e del diritto, che trascurano i
procedimenti storici di adattamento e di modificazione graduale, perchè
il presente carico di nebbie fumiganti toglie non solo la conoscenza esatta
dello stato attuale, ma ha cancellato la visione del passato, e sembra a
moltissimi che il presente sia esso stesso inizio di cose nuove senza
precedenti e non continuazione di cose vecchie che si rinnovano e devono
rinnovarsi secondo le leggi delle trasformazioni storiche. Ricondurre le menti
a queste leggi è togliere le aberrazioni e ridare calma agli animi,
riprendere la sicura coscienza di sé e delle condizioni nelle quali si
è vissuto, si vive e si vivrà».
[1] Fondatore, come
è noto, della scuola storica, Savigny affermava che il diritto non
può essere liberamente posto, ma va fondato sulla moralità, la
fede, il sentimento, le tendenze intellettuali di ciascun popolo. Pertanto esso
si sviluppa organicamente insieme col popolo cui appartiene, la parte
essenziale dell’ordinamento dovendo restare di natura consuetudinaria e
arbitrio divenendo, di conseguenza, ogni intervento dello Stato sull’articolarsi
della struttura sociale, arbitrio suscettibile di conseguenze nefaste sulla
sfera della certezza e dell’oggettività. Vedi F.C. Savigny, La vocazione del nostro
secolo per la legislazione e la giurisprudenza, Verona 1857, 104-105; ma
anche A.F.J. Thibaut-F.C. Savigny, La polemica sulla codificazione (a cura
di G. Marini), Napoli 1982, 162. Cfr. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione politica nell’ottocento tedesco, Milano 1979, 118.
[2] Ha ormai più
di un quarto di secolo la monografia di N. IRTI, L’età della decodificazione, Milano 1979.
[3] Si tratta del Corso di codice civile italiano di
Francesco Saverio BIANCHI, edito dalla UTET, e consistente di nove monografie;
l’ultima delle quali, Retroattività
delle leggi, di Donato FAGGELLA, pubblicata nel 1922, è quella che
il Mancaleoni cita, per contrastarla.
[4] Che, però, la
consapevolezza della crisi dello Stato liberale già circolasse nella
coscienza dei giuristi più sensibili emerge lucidamente dalle pagine di
P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico
1860-1950, Milano 2000, 149 ss.
[5] C. aubry-C.H. rau, Cours de droit civil français d’après
la méthode de Zachariae, II, Paris 1869, §190, 169.
[6] J.B. DE LUCA, Theatrum veritatis et
iustitiae, l.IV, De servitutibus praedialibus, usufructu et
utroque retractu, disc. 37, n. 4, Romae 1669,
98-99. Al tempo stesso era interdetto al signore di chiudere i fondi o
procedere alle cosiddette «inforestazioni» allo scopo di escluderne
l’uso delle popolazioni locali. In tal senso stava la prammatica
napoletana di re Ferdinando (1483), tesa a vietare la chiusura dei terreni e la
istituzione di nuove foreste absque
nostra concessione: vedi Alfeno
Vario, Pragmaticae, edicta,
decreta, interdicta regiaeque sanctiones regni neapolitani, Neapoli 1772, IV, prag. I, f. 2
§9.
[7] La letteratura in
tema di usi civici è assai cospicua. Vedi per tutti U. Petronio, Usi e demani civici fra tradizione storica e dogmatica giuridica, in La
proprietà e le proprietà (Atti del Convegno di Pontignano, 30
settembre – 3 ottobre 1985), a cura di E. Cortese, Milano 1988; Idem, voce Usi civici, in Enciclopedia del diritto, XLV (1992),
930 e ss.; L. Bussi, Terre comuni ed usi civici: dalle origini
all’alto Medioevo, in Storia del Mezzogiorno, III, Alto medioevo, Napoli 1990; P. Grossi, Un altro modo di possedere, Milano 1977; G. Astuti, Vecchi
feticci in tema di usi civici, in
La giurisprudenza italiana, CVI (1954); Idem, A proposito di
vecchi feticci in tema di usi civici,
in L’italia agricola,
XII (1955); Idem, Una curiosa polemica a proposito di usi
civici, in Rivista di diritto agrario, XXXV (1956), ora (come i primi due) in Idem, Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli
1984; G.I. Cassandro, Storia delle terre comuni e degli usi civici
nell’Italia meridionale, Bari
1943, ora in Idem, Lex cum moribus, II, Bari 1994.
[8]
[9] Vedi I.F. CAPOBIANCO,
Tractatus de iure et officio baronum erga
vassallos et burgenses, Neapoli
1711, 279. L’a. riporta la celebre prammatica di Carlo V de baronibus (1535) con cui si
stabilì che la difesa o chiusa dei terreni non potesse costituirsi se
non quando vi fosse l’assenso di tutti i cittadini e l’approvazione sovrana. La giurisprudenza affermò
poi il principio che gli usi civici fossero inalienabili e imprescrittibili.
Circa le ripetute violazioni che tuttavia subiva tale principio vedi G.
RAFFAGLIO, Diritti promiscui, demani comunali e usi civici, Milano 1905, 54 ss.
[10] Nel Regno di Napoli,
erano state tali esigenze, nonostante l’eversione della feudalità
(che aveva comportato la ripartizione come proprietà privata
nonché dei territori feudali anche dei demani promiscui e comunali), e
quasi come atto riparatore, a sancire con la legge del 12 dicembre 1816 (art.
188) che le terre demaniali addette all’uso civico avrebbero dovuto
essere sempre riservate a tale destinazione. Vedi Raffaglio, op. cit.,
103. Ma già il Codice napoleonico (art. 648) aveva stabilito che il
proprietario potesse liberarsi dall’onere del compascolo chiudendo i
terreni ad esso destinati.
[11] L’editto,
pubblicato il 4 aprile 1823, era diretto, come asserisce il proemio, a
«favorire le chiusure dei terreni principalissimo mezzo d’assicurare
ed estendere la proprietà e... promuovere l’agricoltura».
Vedilo in C. SOLE,
[12] «Si può
altresì stabilire il diritto di passaggio, nonché quello di
attingere o far decorrere l’acqua in un fondo a favore di un Comune, di
un villaggio, di una borgata». Vedi Progetto
di revisione del codice civile albertino proposto dalla Commissione nominata
con decreti del Ministro di grazia e giustizia (Cassinis) in conformità
di relazione per esso presentata alla Camera dei Deputati nella tornata del 13
giugno, al senato nella tornata del
21 giugno 1860, s.l. (1860), 24.
[13] Vedi L. Mortara, Commentario del Codice e delle Leggi di Procedura civile, III, Milano 1905, 551: «Esso (il
sistema processuale vigente) conferisce alle parti la piena facoltà di
provvedere all’istruzione della lite e di sottoporla a decisione
definitiva quando reputino di aver esaurito tale compito».
[14] Vedi Foro italiano, 1915, col. 1128: Veccia (avv.nSechi) contro Comune di Sennori
(avv. Mancaleoni).
[15] L’articolo 691
del Codice del Regno d’Italia: recitava: «Le servitù
continue non apparenti e le servitù discontinue siano o non siano
apparenti, non possono stabilirsi che mediante titolo. Il possesso,
benchè immemorabile, non basta a stabilirle, senza che però si
possano attualmente impugnare le servitù di questa natura acquistate di
già col possesso in quei Paesi ove potevano in tal modo
acquistarsi». In ciò, il dettato della tradizione francese era
molto diverso dal codice austriaco. Questo ammetteva (§ 480): «Il
titolo di servitù si fonda nel contratto, nella disposizione di ultime
volontà, o nella sentenza di un giudice pronunziata sulla divisione di
un fondo comune, o finalmente nella prescrizione». G. Basevi, Annotazioni pratiche al codice civile austriaco, Milano 1852, 175, nota come il Codice
austriaco non parli di quella specie di servitù legale che dipende dalla
situazione dei luoghi (defluenza naturale delle acque dai fondi superiori agli
inferiori): «E da che in questo paragrafo si dice che il titolo della
servitù si fonda nella prescrizione, ciò induce a credere che
siasi voluto mantenere la massima del diritto comune, escludendo la
necessità del titolo per l’intrinseca ragione che l’esercizio
di una servitù non concessa né da contratto né da
sentenza, si fonda piuttosto nella perdita fatta dal proprietario di parte del
suo dominio, che nell’acquisto che se ne sia da altri fatto».
[16] «Le
servitù continue non apparenti e le servitù discontinue, siano o
non siano apparenti, non possono stabilirsi che mediante un titolo. Nulla
dimeno le servitù di passaggio per servizio di certi determinati fondi
possono anche acquistarsi col possesso di trent’anni, purchè non
possa tale passaggio rivelarsi abusivo; e sarà considerato abusivo
sempre che esista altro passaggio sufficiente per servizio degli stessi fondi.
Quanto alle altre, il possesso, benchè immemorabile, non basta a
stabilirle, senza che però si possano impugnare le servitù di
questa natura, acquistate di già col possesso».
[17] Dunque era con tali
leggi anteriori che doveva fare i conti l’eventuale usucapione, a meno
che la fattispecie non ricadesse nell’art. 542 c.c.: «Il
proprietario della sorgente non può deviarne il corso quando la medesima
somministri agli abitanti di un comune o di una frazione di esso l’acqua
che è loro necessaria: ma se gli abitanti non ne hanno acquistato l’uso,
o non l’hanno in forza di prescrizione, il proprietario ha diritto ad una
indennità» I codici francese, napoletano, albertino ed estense
avevano stabilito negli stessi termini.
[18] Cfr. L.V. BERLIRI, Sulla distinzione delle servitù in
continue e discontinue, in Archivio
giuridico CVI, fasc. II, (IV serie 22, fasc. II); e CVII, fasc. I (IV
serie, 23, fasc. I), 99 dell’estr. Nelle conclusioni del suo studio, l’a.
inoltre notava che: «L’essenza,
il criterio discriminante, della distinzione fra servitù continue e
discontinue sta nella
suscettibilità o meno di esercizio ininterrotto. La ragione del differente regime giuridico
delle due categorie sta nella rispettiva continuità o
discontinuità del peso imposto al fondo servente, con la conseguente maggior
probabilità di aderenze del fatto al diritto nel primo caso e non nel
secondo» (il corsivo è nel testo).
[19] Ancora in periodo
tardo repubblicano e classico sembra che si conoscesse una configurazione
alternativa per il diritto di attingere acqua su fondo altrui: cioè il
proprietario del fondo dominante sarebbe stato anche proprietario della fonte.
Vedi M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano
1990, 456.
[21] Così E. Costa, Storia del diritto romano privato. Dalle origini alle compilazioni
giustinianee, Torino 1925, 244: gli interdetti de fonte o de fonte
reficiendo proteggevano la servitù di aquae haustus come quella pecoris
adpulsus con la connessa facoltà di riattare e ripulire il fons, lacus, puteus, piscina. In tal
senso (Ulp.) D. 43.22.1.
[22] Per il diritto
classico, le servitù sui fondi italici si costituivano iure civili, mediante mancipatio (se rustiche) e mediante in iure cessio (tanto se rustiche,
quanto se urbane); inoltre, iure pretorio
si costituivano mediante quasi traditio
ex iusta causa. Esse si potevano costituire anche: mediante deductio nell’atto in cui mancipatione, vel in iure cessione venisse
alienato il fondo sul quale si volevano costituire; mediante legatum per vindicationem; mediante
aggiudicazione per usucapione. Sui fondi provinciali, come non si poteva
acquistare un vero e proprio dominio, così neppure si potevano
costituire vere e proprie servitù. Pertanto, a tale scopo, si
utilizzavano espedienti indiretti come un patto rafforzato dalla stipulatio poenae; in seguito dovette
essere utilizzata anche qui la quasi
traditio. Vedi G. Pacchioni, Corso di diritto romano, Torino 1920, II, 456.
[23] Ma lo sarebbe stata
invece per le urbane per A. Corbino,
voce Servitù (dir. rom.), in Enc. del diritto, 42, 251; cfr. Tomulescu,
Sur la loi Scribonia de usucapione
servitutum, in RIDA,
1970, XVII, 330 e ss. Non si pronuncia Talamanca,
op. cit., 465.
[24] Vedi A. Ascoli, La usucapione delle
servitù nel diritto romano, in
Archivio giuridico 38, 1887, 16. La legge è di data incerta. Secondo
Talamanca, op. cit., 468, sarebbe del
[25] G. Pacchioni, Corso, cit., 457. L’Ascoli
(op. cit., 51 e segg.), ad esempio,
sembra propendere per la classicità della praescriptio. A sostegno della propria tesi, egli richiama C.
III.34.2 che parla di servitus tempore
quaesita e D. 8.5.10 che sembra decisamente riferirsi ad uno ius aquae acquistato diuturno usu et quasi longa possessione. Quest’ultima
lex (un passo di Ulpiano) recita: Si quis diuturno usu et quasi longa possessione ius aquae ducendae
nactus sit, non est ei necesse docere de iure quo aqua constituta est, veluti
ex legato, vel alio modo, sed utilem habet actionem, ut ostendat per annos
forte tot usum se non vi non clam non precario possedisse. Agi autem hac
actione poterit non tantum cum eo, in cuius agro aqua oritur, vel per cuius
fundum ducitur, verum etiam cum omnibus agi poterit, quicumque aquam non ducere
impediunt, exemplo ceterarum servitutum et generaliter quicumque aquam ducere
impediat, hac actione cum eo experiri potero. Vedi P. Bonfante, La praescriptio longi temporis delle servitù, in Rivista
italiana per le scienze giuridiche, XVI, 1893, 177, ora in Id., Scritti giuridici vari, II, 956 ss.
[27] Nonché a
contribuirvi: vedi Mancaleoni, Contributo allo studio delle interpolazioni, in Il
Filangieri, 2, 1901, ove studia l’uso del termine pecunia al plurale.
[28] Come l’Albertario,
S. Perozzi, Scritti giuridici vari, II, 956 ss., considerava l’istituto
della praescriptio longi temporis, applicato alla servitù, come un
istituto di origine giustinianea, al pari della quasi possessio e della quasi traditio. Secondo Perozzi, laddove
la giurisprudenza classica non ammetteva usucapione di servitù, e
soltanto riteneva che il lungo esercizio (vetustas)
facesse prova che la servitù era stata validamente costituita,
Giustiniano ammise la prescrizione acquisitiva. Il Bonfante (op. loc.
cit.) si trova d’accordo con il Perozzi e con l’Albertario nel
ritenere che la praescriptio longi
temporis sia, per la servitù, un istituto che non esisteva nel
diritto classico. Egli, tuttavia considera in massima parte genuini i testi che
i due studiosi consideravano interpolati, e vede in essi un embrionale
precedente, che sarebbe consistito nell’applicare la vetustas all’acquedotto e nel concedere una actio utilis a chiunque avesse posseduto
una servitù per lungo tempo nec vi
nec clam nec precario.
[32] S. Perozzi, I modi pretori di acquisto delle servitù, in Rivista italiana per le scienze giuridiche,
23.I, 1897.
[34] In particolare, Ascoli, op. cit., 58 ss., dimostra l’infondatezza della relazione fra
usucapione della servitù e natura discontinua e continua delle stesse.
[35] Azzone, Summa codicis, a C. III, De
servitutibus, 34.3, ed. Augustae
Taurinorum 1966, 232: Sed videtur contra
ff eo.servitutes praediorum et ideo quidam glossaverunt longi id est
longissimi, hoc est eius cuius non extat memoria: ut ff. de aqua pluvia arcenda
l. 1 § ult. et l. 2 § antepenultimo. Vel inhaerens verbo intellige de
longo tempo X vel XX ann. et dic quod praedicte leges locum habent in servitute
quae non habent continuam causam, ut in itinere et similibus. Anche
più avanti, precisando che la scientia
domini est necessaria in usucapienda servitute, Azzone, alla possibile
obiezione posta da ff de aqua cot. et
aestiva, ribatte: sed hic loquitur
quando duxit de possessionem privati: aliud si de fonte publico, vel ibi non
ducebatur aqua continuo et ita non habet continuam causam quia si haberet
sufficeret longum.
[36] Vedi gl. quaesisti a C. III.34.2, ed. Lugduni
1604, col. 651.
[37] La distinzione
sembrava venir fuori da D. VIII.2.28: (Paulus, libro quinto decimo ad Sabinum) Foramen in imo pariete conclavis vel
triclinii quod esset proluendi pavimenti causa, id neque flumen esse, neque
tempore adquiri placuit. Hoc ita verum est, si in eum locum nihil ex coelo
aquae veniat. Neque enim perpetuam causam habet quod manu fit: at quod ex coelo
cadit et si non adsidue fit, ex naturali tamen causa fit et ideo perpetuo fieri
existimatur. Omnes autem servitutes praediorum perpetuas causas habere debent:
et ideo neque ex lacu neque ex stagno concedi aquae ductus potest. Stillicidii
quoque immitendi, neturalis et perpetua causa esse debet. Per S. PEROZZI, Istituzioni di diritto romano, I, Roma
1928, 767, il passo andava interpretato nel senso che non si potesse derivare
acqua che da una fonte viva, cioè alimentata da sorgente. Un’acqua
simile i Romani avrebbero chiamato perennis,
dicendo di essa che habet perpetuam
causam, ossia che ha carattere
perenne. Quindi si poteva condurre acqua da un fiume o da un lago perenne, non
da un torrente o da una cisterna. Tale a. riteneva dovesse essere sciolto così
un requisito che non si sapeva come interpretare per renderlo consentaneo alle
fonti.
[39] E. BUSSI, Lineamenti di un sistema del diritto comune,
Milano 1949, 52; ma vedi anche, dello stesso a., Intorno al concetto di diritto comune, Milano 1935, 35. La visione del diritto comune quale
“diritto senza Stato” è stato ultimamente sostenuta da in P.
Grossi, L’ordine giuridico medievale, Bari 1995, 151 ss.
[40] Vedi la glossa Fit in D. VIII.2.27, ed. Venetiis 1584,
991. Ma anche la glossa Forte in D.
8.5.10 (ed. cit., 1035) precisava: Sed
quod? Responde X inter praesentes, et XX inter absentes, exemplo rerum
immobilium ut C de servitutibus et aqua l. 2 (C. III.34.2) habet enim perpetuam causam ut supra de
servitutibus urb. praed. l. foramen § fin (D. VIII.2.28). Alii dicunt: tanto tempore quod non extet
memoria: ut argu. infra de aqua plu. arcenda l. 1 § pen. (D.
39.3.1.23). Sed prima verior est. Item contrainfra de aqua
quot. et aest. l. hoc jure § ductus (D.
43.20.3). Sed ibi
in ea quae non habet perpetuam causam: et hic sic. Vel ibi in ea quae ex
flumine publico: hic ex loco privato.
[41] Cino da Pistoia, In codicem et aliquot titulos primi pandectarum tomi id est digesti
veteris commentaria, ad l. si quas (C.
III.34.1) ed Francofurti ad Moenium 1578 = Torino 1964, 175.
[43]
BartolO, Prima in digestum vetus commentaria, ad
l. foramen (D. VIII.2.28), ed.
Lugduni 1555, 228. Vedi pure, dello stesso Bartolo, il commento alla l. si quas (C. III.2), ed. Roma 1966, VII, 127: Servitus quae habet causam continuam acquiritur longo tempore nisi
fuerit interrupta... In his ergo qui causam continuam non habent non currit
praescriptio nisi eius temporis cuius initio memoria non existit, ut d.
§ductus aquae. Sed contra hac opponitur omnis actio praescribitur 30 vel
40 annis lex sicut et l. cum notissimi de praescriptio triginta annorum. Si
igitur negatoria tollitur 30 annis, ergo 30 annorum requiritur servitus. In
effectu glossa dat duas solutiones, ista est vera...quia ad hoc ut
praescribatur servitus quaeritur quasi possessio servitutis sed ista quasi
possessio nihil aliud est quam adversarii patientia, ut l. pen. ff eo. haec
atque patientia non potest esse nisi duobus concurrentibus quod ego utar et
ipse sciat. Merito scientia requiritur.
[44]
Bartolo, ad l.
[45] Quaero quottuplex est dominium...scilicet duo sunt... et probo per l.
[46] Sul punto si
espresse, insieme al Bensa, proprio quello che viene ritenuto fra i maestri di
Mancaleoni. Vedi Fadda, Note alle Pandette del Windscheid, vol.
IV, note ss , tt al libro II, rist.
Torino 1926, 681.
[48] Cuiacio, In tit. II de servitutibus,
l. VIII Digestorum, ad l. XXVIII, ed. Prati 1860, III, col.
314.
[49] Vedi Hugoni Donelli, Opera omnia commentariorum,
III, Maceratae 1829, 333: De usucapione servitutum. Non aliquas
tantum, ex his usucapi posse, sed omnes tam rusticorum praediorum quam
urbanorum. Et refutatus hic vulgaris error dividentium servitutes in continuas
et discontinuas: in illis usucapionem recipientium, in his repudiantium. Omnes
servitutes continuas possessionem habere; omnes pariter usucapi.
[52] Per le vicende della
tanto discussa distinzione vedi L.V. Berliri,
Sulla distinzione delle servitù in
continue e discontinue, in Archivio Giuridico, 106-107, 1931. Si
era venuto così chiarendo che era lo stesso fondamento logico posto a
sostegno della distinzione a non essere adatto a sostenerla. Come si poteva,
infatti, ammettere che soltanto nelle servitù continue la causa fosse
continua, se il possesso retinetur solo
animo? Così acutamente W. BIGIAVI in una nota a sentenza in tema di Servitù discontinue negli Stati ex
pontifici e possesso immemorabile, in Il
Foro Italiano, LXI, 1936, fasc.
IV.
[54] La dottrina dell’usus modernus in Germania presenta
caratteri peculiari tanto che si parla di servitus
iuris germanici. Questa dottrina elaborò una concezione più
duttile della categoria delle servitù prediali, ricomprendendovi figure
come il dir. di pesca e di caccia su fondo altrui, praticati per via
consuetudinaria. Vedi A. Mazzacane,
Scienza logica e ideologia nella
giurisprudenza tedesca del sec. XVI, Milano 1971, 112 n. 45.
[55] F.M. PECCHI
(1618-93), Tractatus de servitutibus, Florentiae 1839: l’a. riguarda il
problema nell’ottica umanistica del ritorno alle fonti nel loro
significato genuino, e pertanto lega la distinzione fra servitù all’uso
che può essere continuo o discontinuo. Vedi op. cit., q. XV, n. 81, 66.
Anche altrove il Pecchi parla di falsa
distinctio continuarum et discontinuarum servitutum, che sarebbe stata in uso, sostenendo
di essere contrariae sententiae
servitutes non dici continuas vel discontinuas ab illarum exercitio, sed a sua
causa, a qua dependent.
[56] Per la prescrizione
acquisitiva, il Cepolla riteneva necessari l’animus, la bona fides (non necessaria in caso di longissimus tempus); il decorso del
tempo (qui interveniva la distinzione fra servitù continue e
discontinue) la scientia e la patientia del titolare del fondo
serviente e infine la proprietà del fondo dominante. Vedi B. CEPOLLA, Tractatus de servitutibus tam urbanorum quam
rusticorum praediorum, Coloniae
Allobrogum 1794, cap. XX, 192-194.
[57]
De Luca, Theatrum, cit., 82 (Romana putei pro ducissa laterae Sabella Farnesia cum Paulo Maccarano):
...magis communem et in Curia receptam
opinionem esse, huiusmodi servitutes habentes causam discontinuam, potissime
vero ubi actus de sui natura ad jus precarium seu facultativum referri potest,
exigere praescriptionem immemorabilem iuxta plene deducta decisio 101 par. 4
rec. tom.2 canonizata in Romana servitutis 29 Ianuarii 1666 coram Cerro, et de
qua causa habetur supra disc. 33; nel disc. 33 (Mutinensis aquae haustus) ancora una volta De Luca ribadisce: Quod servitus habens causam discontinuam
exigat tempus immemorabile: Vel quod in omnem eventum, tamquam in servitute,
habente causam discontinuam quia nemo potest diu noctuque ac semper aquam
haurire, requiruntur praescriptio immemorabilis, iuxta magis communem opinionem
quam etiam sequitur Rota, reassumendo in hoc quaestionem ab alto, atque cum
magno cumulo allegationum, referendo auctoritates pro utraque opinione, atque
tam ob auctoritatum numerum, quam ob rationes, summo studio probare curando
hanc esse magis communem et veram, itaut cuilibet parum experto tale responsum
inspicienti, illud videntur nimium doctum et elaboratum, ibidem 85.
[60] Vedi P.A. Merlin, Dizionario Universale, ossia
repertorio ragionato di giurisprudenza e questioni di diritto, tr. it. F. Carillo, Venezia 1842, XIII,
187.
[61] La giurisprudenza
aveva cioè cominciato a sostenere che quando il codice parlava di
servitù stabilite per pubblica utilità (art. 533), affidandole a
speciali leggi e regolamenti, non intendeva riferirsi alle sole servitù
legali, ma anche a quei diritti d’uso pubblico menzionati in speciali
leggi e regolamenti, e che la servitù contemplata nell’art. 542
era da considerarsi uno di questi diritti: allorché tale norma limita il
diritto del proprietario d’una sorgente che somministra l’acqua
agli abitanti di un Comune o di una frazione e vieta che egli ne possa deviare
il corso. Vedi. Cass. Firenze, 1
marzo
[63] Vedi P.S. Mancini, Il diritto del popolo romano sulla Villa Borghese in giudizio di
reintegrazione in grado di appello, Roma 1885. La causa viene ricordata
anche da E. Conte, Intorno a Mosè. Appunti sulla
proprietà ecclesiastica prima e dopo l’età del diritto
comune, in A Ennio Cortese, I, Roma
2001, 359.
[65] G. Giorgi, La dottrina delle persone giuridiche e corpi morali esposta con
speciale considerazione del diritto moderno italiano, 2a ed., Firenze 1900,
263.
[67] La sentenza ricorda
come nel Progetto Cassinis fra i componenti
[68] L’art. 3 del
c.c. del 1865 disponeva: «Nell’applicare la legge non si può
attribuirle altro senso che quello fatto palese dal proprio significato delle
parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore.
Qualora una controversia non si possa
decidere con una precisa disposizione di legge, si avrà riguardo alle
disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe: ove il caso rimanga
tuttavia dubbio, si deciderà secondo i principi generali del
diritto».
[69] B. Brugi, Diritto romano classico, diritto giustinianeo, diritto romano comune,
in Archivio Giuridico “Filippo Serafini”, 1904.
[70] La critica sociale
aveva capovolto le certezze offerte dal codice: già a partire dagli anni
ottanta il nuovo codice era dichiarato vecchio. Su ciò G. Cazzetta, Critiche sociali al codice e crisi del modello ottocentesco di
unità del diritto, in Codici.
Una riflessione di fine millennio, Milano 2002, 323.
[71] G. Del Vecchio, Sui principi generali del diritto, ora in Studi sul diritto, I, Milano 1958, 210. Che la tesi fosse in
dissonanza con le posizioni della prevalente dottrina viene rilevato da P. Grossi, Scienza giuridica, cit., 135.
[72] Su ciò S. Schipani, Principia iuris potissima
pars principium est. Principi generali
del diritto. Schede sulla formazione di un concetto, in Nozione, formazione e interpretazione del
diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate
al professor Filippo Gallo, III, Napoli 1997, 660.
[73] La materia è
divenuta oggetto della previsione normativa dell’art. 12 del codice
attuale. Benchè nell’avvento della Costituzione repubblicana si
sia visto il ridimensionato di tale problema (vedi S. Bartole, voce Principi
del diritto (dir. cost.), in Enciclopedia
del diritto, xxxv, 502), i
“principi generali” sembrano indicare un rinvio ai principi stessi
d’organizzazione dell’ordinamento o a elementi che caratterizzano l’ordinamento
stesso (vedi G. GAIA, Principi del
diritto (dir. internaz.), in Enciclopedia
del diritto, XXXV, 533). Sicché la previsione dell’art. 12
potrebbe intendersi estesa ai cosiddetti principi istituzionali cioè a
quelli rivelatisi attraverso la concreta configurazione e maniera d’essere
delle singole istituzioni e dello Stato medesimo.
[75] In tema vedi P.S. Mancini, Del diritto d’uso pubblico del comune e del popolo di Roma sulla
Villa Borghese, in Il Filangieri,
1886, I, 1, 49, 119; M. D’Amelio,
Servitù pubbliche, I, Servitù amministrative, in Digesto Italiano, XXI, pt. III, sez. I,
1895-1902; Beneduce, I diritti d’uso pubblico, Napoli
1905.
[77] Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico, in Giurisprudenza italiana, 1897, IV, 325 e seg., 1898, IV, 113 e
seg.
[80] G. Venezian, Reliquie della proprietà collettiva in Italia. Discorso letto il
giorno 20 novembre 1887 per l’inaugurazione degli studi nella
Università di Camerino, ora in Opere
giuridiche, II, Studi sui diritti
reali e sulle trascrizioni, le successioni, la famiglia, Roma 1930. Tema
ereticale e dissacrante lo definisce, in rapporto allo spirito dell’epoca
P. GROSSI, Scienza giuridica, cit.,
27. Sul Venezian vedi anche, dello stesso a.,
La cultura del civilista italiano.
Un profilo storico, Milano 2002, 34.