N. 5 – 2006 –
Tradizione Romana
Emerito
dell’Università di Padova
L’eccezione di dolo generale in rapporto alle altre
eccezioni
Sommario:
1. Considerazioni
preliminari: in particolare l’exceptio
doli in rapporto alla exceptio metus.–2.
L’ exceptio doli quale sussidiaria
dell’exceptio pacti.–3.
L’exceptio doli in alternativa all’exceptio pacti. – 4. Il rapporto tra exceptio doli ed exceptio rei venditae et traditae. – 5. Il rapporto tra exceptio doli ed exceptio non numeratae pecuniae. – 6. Il rapporto fra exceptio doli e in generale altre
eccezioni. – 7. Considerazioni
conclusive.
Parlando di eccezione di
dolo generale (o presente) si intende di massima far riferimento, in termini
che non trovano precisa corrispondenza terminologica nelle fonti romane,
all’applicazione dell’exceptio
doli, basata sulla seconda clausola ‘neque (in ea re dolo malo
A’A’) fiat’
della formulazione edittale riferitane da Gai
Vi è tuttavia un testo (D.
44.4.4.33, Ulp. 76 ad ed.) in cui si
ravvisa un raffronto dell’exceptio
doli con l’exceptio metus,
la cui formulazione edittale, sulla scorta del testo medesimo, suona ‘si in ea re nihil metus causa factum est’
e comunque non può non riferirsi ad un metus, indotto da violenza provocata ante litem contestatam, incidente quale vizio della volontà
sulla conclusione del negozio in base al quale l’attore deduce in
giudizio la sua pretesa, per cui l’exceptio
relativa non può che raffrontarsi con l’applicazione basata sulla
prima clausola della sua formulazione edittale riferita da Gai 4.119 (si in ea re nihil dolo malo AiAi factum sit)
e concernente anch’essa, in quanto eccezione di c.d. dolo speciale (o
passato), a ipotesi di comportamenti illeciti determinanti vizio della
volontà nella conclusione del negozio su cui si fonda l’azione
alla quale l’eccezione è opposta.
Si dice in quel testo che metus causa
exceptionem Cassius non proposuerat contentus doli exceptione quae est
generalis mentre utilius visum est
etiam de metu opponere exceptionem in quanto quest’ultima è in rem scripta fondandosi su metus da chiunque provocato (tramite vis), mentre l’exceptio doli contiene
l’indicazione della persona (in via di principio la controparte
processuale) autrice del dolo. Non è possibile stabilire chi sia stato
il Cassius di cui si parla (non
necessariamente il giurista Gaio Cassio Longino, spesso citato da Ulpiano solo
come Cassius), pur certamente
trattandosi di un pretore che aveva preferito non proponere nel suo editto una apposita exceptio metus ritenendola ricompresa nella previsione edittale
dell’exceptio doli (v. il mio
precedente contributo in questa stessa raccolta, cit., al § 2). Si
potrebbe pertanto ipotizzare che già in editti precedenti fossero state
previste entrambe le due eccezioni, anche tenendo presente che la clausola
edittale relativa alla tutela dei pacta
in base a Cic. de off. 3.24.92,
accanto al limite costituito dall’essere essi inficiati da dolus malus, conteneva, diversamente
dalla successiva formulazione riferitane da Ulpiano in D. 2.14.7.7, pure il
limite costituito dall’essere essi inficiati da vis[2]:
la ricomprensione dell’exceptio
metus nell’exceptio doli
non si sarebbe tuttavia potuta ipotizzare da Cassio, per un verso, se non dopo
che la concezione del dolus malus si
fosse distaccata dal suo originario riferimento all’idea di inganno
fraudolento ancora presente nella definizione labeoniana riportata da Ulpiano
in D. 4.3.1.2, per ricomprendere anche comportamenti illeciti volontari pur non
connotati da inganno[3];
e presumibilmente, per altro verso, se quale
metus rilevante ai fini della concessione di specifica exceptio si fosse già considerato, o quantomeno
consolidato, quello provocato pure da terzi altrochè dalla controparte
processuale[4].
Solo su questi presupposti il pretore Cassio avrebbe potuto considerare generalis l’exceptio doli in quanto riferita a un dolus comprensivo anche di
vis determinante metus, per
quanto la constatazione, in D. 44.4.4.33, del carattere generale riguardante il
più ampio ambito di applicazione ipotizzabile dell’exceptio doli (quae est generalis), sembrerebbe piuttosto essere di Ulpiano, che
riconosceva, a fondamento dell’utilità di un’apposita exceptio quod metus causa,
l’essere essa in rem scripta
sulla base della sua particolare formulazione: per cui risulta opponibile da
chiunque, e non solo dall’attore, sia stato provocato quel metus, quamvis de dolo auctoris (actoris
secondo F2) non obiciatur. Con
quest’ultima espressione Ulpiano sembrerebbe implicitamente non escludere
la possibilità di esperire l’exceptio
doli, come eccezione di dolo c.d. speciale o passato, in alternativa
all’exceptio metus,
considerando dolo malo AiAi factum
quanto factum per metus provocato dall’autore stesso, anche se non sussistono
altre testimonianze di una simile parziale alternatività tra le due
eccezioni[5].
Resterebbe la qualifica di generalis
data all’exceptio doli per la
sua più estesa applicazione, come eccezione di dolo c.d. generale o
presente, rispetto all’exceptio
metus.
All’infuori di
questa ipotesi, il problema di un rapporto tra exceptio doli ed altre eccezioni si pone nelle fonti solo in riferimento
all’ipotesi di dolo riscontrabile nel fatto stesso dell’esperimento
dell’azione, all’atto della
litis contestatio. Si tratta di volta in volta di un rapporto di
sussidiarietà da intendersi nel senso di ricorso all’una eccezione
al di là del possibile ambito di operatività di altra[6],
ovvero di concorso alternativo tra le due o anche di sostituzione
dell’una all’altra, a seconda dell’opinione storicamente
evolventesi di giuristi diversi in base a soluzioni casisticamente elaborate:
talora rispetto ad altra eccezione si affianca in applicazione estensiva o si
aggiunge in via alternativa l’exceptio
doli, mentre talaltra è una diversa exceptio ad essere utilizzata in funzione specificativa,
alternativa o sostitutiva dell’exceptio
doli. La maggior parte dei casi riportati dalle fonti riguarda peraltro il
rapporto tra l’exceptio pacti
(edittale), di più antica data risalendone le originarie radici alle
stesse dodici Tavole, e l’exceptio
doli[7],
le cui origini sono da collocarsi nella prima metà del I secolo a.C.,
mentre un unico testo affermerebbe la spettanza di questa in alternativa alla
opponibilità di qualsiasi eccezione (anche edittale), altrochè in
particolare di quelle (decretali) in
factum.
La più risalente
testimonianza di un’applicazione dell’exceptio doli in funzione sussidiaria dell’exceptio pacti per il caso che questa
non si ritenga applicabile appare riferita, in D. 2.14.10.2 (Ulp. 4 ad ed.), a Trebazio il quale avrebbe
manifestato l’opinione (Trebatio
videtur, qui putat, quindi con qualche margine di opinabilità e
forse per primo)[8]
che il patto (de non petendo)
concluso dal creditore col procurator
(presumibilmente omnium bonorum)[9]
del debitore avrebbe potuto giovare a quest’ultimo tramite opposizione di exceptio doli al creditore stesso che
avesse ciononostante agito contro di lui: motivazione ne sarebbe la simmetrica
efficacia di quel patto a svantaggio del creditore ove concluso tra il suo procurator ed il debitore[10].
Probabilmente in tale seconda ipotesi Trebazio considerava direttamente
opponibile da questi l’exceptio
pacti in virtù di un riconoscimento della rappresentanza, quale era
sentita nella coscienza sociale, più facilmente ammessa contro che non a
favore del rappresentato, nel qual caso sarebbe risultata più
difficilmente superabile l’antica regola civilistica di D. 50.17.73.4 (Q. Mucius Scaevola l.s.) per cui nec paciscendo ... quisquam alteri caveri
potest: non ritenendo quindi applicabile l’exceptio pacti, Trebazio avrebbe ammesso
l’opponibilità in via sussidiaria dell’exceptio doli, con evidente riferimento a ipotesi di dolo c.d.
presente, che sarebbe consistito da parte del creditore nel far valere in
giudizio una pretesa contrastante la volontà da lui espressa tramite
l’accordo concluso col procurator
(del quale si è riconosciuta la rappresentanza) del debitore[11].
Nel testo ulpianeo la presa di posizione di Trebazio si presenta
esemplificativa dell’affermazione corrente (plerumque solemus dicere) della sussidiarietà dell’exceptio doli rispetto all’exceptio pacti, onde per Giuliano, col
quale altri per lo più concorderebbero, si potrebbe ricorrere all’exceptio doli quando non fosse possibile
avvalersi dell’exceptio pacti,
ove i quidam qui exceptione pacti uti non
possunt, menzionati da Giuliano secondo quanto riferisce Ulpiano,
parrebbero individuabili sulla base di una casistica di determinate circostanze
afferenti in concreto al patto concluso[12].
Un primo di tali casi,
considerato dallo stesso Giuliano, potrebbe essere quello del procurator paciscente al posto del
debitore, già prospettato da Trebazio e presentato nel testo di Ulpiano
ad esemplificazione dell’affermazione giulianea[13].
Ed ancora a ricorso in via sussidiaria dell’exceptio doli è probabile si riferisse, in affinità
col caso di patto concluso dal procurator
del debitore, quello di patto concluso dal tutore, che giova al di lui pupillo
secondo quanto scritto da Giuliano e riportato da Paolo (3 ad ed.) in D. 2.14.15[14].
Il riferimento di
Giuliano all’exceptio doli,
usata in via sussidiaria rispetto all’exceptio
pacti, che si afferma preferibilmente (magis)da
non concedersi nel caso specifico, è poi esplicito nella finale di D.
2.14.21.2 (Paul. 3 ad ed.), per il
caso di patto concluso dal pater ne a se neve
a filio petature del quale potrebbe avvalersi il filius, riterrei, sia ancora
vivo patre – ipotesi cui è più di recente propenso a
considerare circoscritta la decisione giulianea Mannino[15]
–, sia anche alla morte del pater –
ipotesi alla quale invece aveva considerato esclusivamente riferita la
decisione stessa Brutti[16]
–. Ciò sul presupposto che la sola inopponibilità
dell’exceptio pacti, attribuita
da Giuliano in D. 2.14.17.4 (Paul. 3 ad
ed.) senza menzione della possibilità di avvalersi in merito dell’exceptio doli, per il caso analogo di
patto ne a se neve a filia peteretur
(ove al filius è sostituita la filia, incapace di obbligarsi
civilmente come di rispondere in giudizio
vivo patre, e sembrerebbe in concreto trattarsi di patto di non chiedere,
concluso dal padre in ordine all’obbligo da lui assunto di conferire la
dote per la figlia stessa) con espresso riferimento alla di lei avvenuta
successione ereditaria paterna, si giustifichi per essere interessato Paolo nel
testo solo al principio della impossibilità di sanatoria, per fatti
sopravvenuti (nella specie, la successione ereditaria), di patto
originariamente invalido[17],
senza sentire peraltro la necessità di riferire per esteso il pensiero
di Giuliano in merito.
Diversa da Giuliano era l’opinione di
Celso, di cui D. 2.14.33
(Cels. 1 dig.) e D. 23.4.10 (Pomp. 26
ad Sab.), in ordine a patto di non chiedere neve a se neve a filio la dote promessa dall’avo a favore
della nipote, ritenendosi in tal caso opponibile dal figlio, in quanto erede
del padre, direttamente l’exceptio
pacti. È ivi riscontrabile una tendenza ad estendere l’ambito
di efficacia del pactum, che trova
più generale conferma in D. 22.3.9, egualmente tratto da Celso (1 dig.)e secondo cui, pur in assenza
della menzione dell’erede nel patto, in base alla interpretazione
dell’effettivo intento perseguito dalle parti spetterebbe
all’attore e non all’erede provare la limitazione
dell’accordo alla persona del paciscente ad esclusione dell’erede,
posto che normalmente (plerumque) si
intende cautelare i propri eredi quanto se stessi. Attenzione questa
all’effettiva volontà delle parti, altrochè alla sua
manifestazione, quale appare risalire a Pedio, di cui è riferita in D.
2.14.7.8 (Ulp. 4 ad ed.)
l’affermazione che la menzione della persona di chi pattuisce per lo
più è fatta non per stabilire l’efficacia personale del
patto bensì solo per indicare chi sia il paciscente[18].
Più letterale interpretazione dell’efficacia da attribuirsi al
patto di non chiedere, pur ammettendo in sua vece, con richiamo a Giuliano,
l’opponibilità dell’exceptio
doli, è ancora in D. 2.14.25.2 (Paul. 3 ad ed.), cui si ricollega, nella compilazione giustinianea, il
seguente D. 2.14.26 (Ulp. 4 ad ed.),
che potrebbe considerarsi, come riconosce Brutti, parte integrante della formulazione
giulianea o aggiunta esplicativa di Ulpiano[19].
Il patto concluso dal fideiussore per regola non gioverebbe al debitore
principale, il quale tuttavia potrebbe per lo più avvalersi
dell’eccezione di dolo, in quanto ciò risulti effettivamente voluto
dalle parti: qui l’individuazione dell’effettiva volontà dei
paciscenti, al di là della letterale espressione in personam usata, non basterebbe ad estendere l’efficacia
del patto al debitore principale che non vi ha partecipato, risolvendosi
tuttavia in identico risultato pratico con la utilizzazione all’uopo
dell’exceptio doli contro chi
agendo si comporti contro la volontà da lui stesso manifestata[20].
Concerne invece la rilevanza del patto di non chiedere concluso dall’un
cofideiussore nei confronti dell’altro, ove è riconosciuta
l’opponibilità in proposito di
exceptio doli mali, ma senza che vi si faccia peraltro espresso riferimento
in proposito alla inefficacia del patto, un ulteriore testo giulianeo di
difficile interpretazione, D. 46.1.15.1 (Iul. 51 dig.). Secondo l’interpretazione preferita, pur con qualche
incertezza, da Brutti del testo originale, questo andrebbe depurato da qualche
intervento glossatorio, con la conseguenza di ritenere avanzata la richiesta di
pagamento da parte del creditore sempre non al primo (come risulterebbe
dall’inciso a priore fideiussore),
ma al secondo fideiussore, a seguito del pagamento effettuato o promesso dal
primo cofideiussore di parte di metà dell’intero credito
garantito, dietro accordo che altro non gli sarebbe stato più richiesto.
Presupponendosi l’introduzione adrianea del beneficium divisionis tra cofideiussori paralizzante in via di
eccezione la richiesta del creditore che non ne tenesse conto ma solo tra
cofideiussori solvibili, e ipotizzandosi altresì la insolvibilità
nel caso concreto del cofideiussore parzialmente adempiente, al creditore che
agisse contro il secondo cofideiussore per il residuo del credito totale non
sarebbe opponibile alcuna eccezione – né di patto di non chiedere,
da lui non concluso, né ex
epistula divi Hadriani –, mentre se avesse richiesto l’intero
credito si sarebbe visto opporre l’exceptio
doli mali, che sarebbe servita in tal caso a far valere il beneficium excussionis, sia pure nei
limiti dell’insolvenza del primo cofideiussore, con la conseguenza di
vedersi respinta l’intera pretesa[21].
In un ultimo testo
giulianeo, D. 39.6.18.2 (Iul. 60 dig.),
cui corrisponde, con notevoli semplificazioni, D. 34.3.3.26 (Ulp. 23 ad Sab.), è prevista
un’alternativa tra exceptio pacti
conventi e, rispettivamente, doli
mali ma, secondo quanto sostenuto ancora da Brutti, non sul presupposto di
un’identica fattispecie bensì a seconda che sia o meno in concreto
individuabile, in base a diversi elementi di fatto, l’esistenza di un pactum de non petendo[22].
La creditrice ha consegnato i documenti da cui risulta il credito a terza
persona con l’incarico di trasferirli, dopo la morte della creditrice
stessa, ai debitori a titolo di donazione: avvenuto tale trasferimento, contro
l’erede della creditrice che pretende l’adempimento del credito
Giuliano prospetta la possibilità di opporre l’eccezione di patto
o quella di dolo. Ora, se i documenti fossero stati direttamente consegnati
dalla creditrice ai debitori, sarebbe stata da loro opponibile contro il di lei
erede l’exceptio pacti,
intravvedendosi in detta consegna un patto tacito di remissione del debito; ma
essendo la consegna avvenuta tramite terzo, si sarebbe potuto riconoscere
esistente un patto tacito col donante soltanto sul presupposto che i donatari
fossero stati consapevoli dell’intento remissorio del donante sin
dall’inizio e non solo all’atto della consegna dei documenti, nel
qual secondo caso non risulterebbe da essi opponibile l’exceptio pacti, pur potendovisi
sopperire, con identico effetto pratico, tramite opposizione dell’exceptio doli per essere l’azione
esperita dall’erede del creditore contro la volontà di
quest’ultimo. Tenendo presente tale possibile differenza negli elementi
di fatto su cui fondare l’exceptio,
Giuliano avrebbe prospettato l’opponibilità delle due eccezioni,
non come rimedi equivalenti applicabili in concorso alternativo ad una medesima
fattispecie, bensì ancora in applicazione dell’idea di
sussidiarietà dell’exceptio
doli per il caso in cui non apparisse in concreto opponibile l’exceptio pacti.
Analogamente a Giuliano,
risulterebbe applicato in fattispecie concrete il principio della funzione
sostitutiva dell’exceptio doli
rispetto all’exceptio pacti da
Marcello, secondo quanto riferirebbe Ulpiano in D. 2.14.7.18 (4 ad ed.)[23].
I due casi nei quali Marcello, non riconoscendo validità al patto
concluso, sia pure dopo esitazioni, avrebbe ammesso l’opponibilità
dell’exceptio doli
nell’impossibilità di ricorrere all’exceptio pacti, sembrerebbero essere quelli del filius familias che, istituito erede da un terzo, ha concluso un pactum de non petendo coi creditori di
lui e dopo essere stato emancipato è divenuto erede del debitore ed
è convenuto in giudizio dai creditori medesimi, nonché del filius familias il quale, avendo
concluso ancora vivo il padre il patto di non chiedere con i di lui creditori,
è da questi egualmente convenuto in giudizio una volta che abbia
acquisito l’eredità paterna. Osta in entrambi i casi alla
validità del patto, e quindi all’opponibilità di una exceptio su di esso fondata, il fatto
che sia stato concluso dal convenuto quando era ancora alieni iuris, come lo stesso Marcello risultava aver
precedentemente detto, nell’ambito del testo considerato, a proposito di
patto concluso da chi era ancora servus,
caso nel quale la successiva ammissione finale dell’opponibilità
di exceptio doli da parte
dell’affrancato divenuto erede del debitore sembra piuttosto ascrivibile
a Ulpiano. Si tratta tuttavia di un ostacolo meramente formale, basato
com’è su status di
ordine civilistico, che, almeno per i
filii familias, Marcello finisce per considerare equitativamente superabile
in pratica col riconoscere doloso, ai fini della opponibilità della
relativa exceptio, il comportamento
del creditore che va contro quanto da lui stesso pattuito. E se Marcello in D.
39.6.28 (l.s. resp.) riconosce
senz’altro l’opponibilità di exceptio doli, in un’ipotesi di rinunzia al credito mortis causa che si fonda su
manifestazione unilaterale di volontà del testatore, è
perché in tal caso manca ogni presupposto per pensare ad eventuale exceptio pacti, fondata su patto
implicito[24].
Compatibile con il
principio della sussidiarietà, come vorrebbe Brutti[25],
non mi sembra invece apparire il responso di Scevola riportato in D. 22.1.13
pr. (1 resp.): al quesito se in caso
di pagamento per più anni da parte del debitore di usurae inferiori alla misura promessa, senza opposizione da parte
del creditore, all’erede di questi che torni a richiedere le usurae nella misura promessa possa
opporsi l’exceptio doli vel pacti,
il giurista risponde positivamente, senza peraltro pronunciarsi sul tipo di
eccezione utilizzabile: l’alternativa che pertanto sembra risultarne tra exceptio doli ed exceptio pacti potrebbe sottendere la utilizzabilità della
prima, sul presupposto del mancato rispetto della volontà implicitamente
espressa dal proprio de cuius, per il
caso che non si ritenesse opponibile il patto nei confronti dell’erede
del creditore[26];
non si tratterebbe peraltro qui di fondare detta alternativa sul distinto
presupposto di elementi di fatto diversi, come in D. 39.6.18.2 di Giuliano,
bensì di una incerta valutazione interpretativa della estensione di
efficacia di una fattispecie che parrebbe configurare patto tacito,
sicché l’alternativa stessa non sarebbe suscettibile di essere
lasciata alla scelta del convenuto, né si ricadrebbe nel considerare
equivalenti le due eccezioni[27].
Resta in ogni caso assodata la tendenza di Giuliano a intendere il rapporto
tra exceptio pacti ed exceptio doli in termini di sussidiarietà,
intesa nel senso di ricorso alla seconda qualora non appaia efficacemente
opponibile la prima, anziché di indifferenziata alternatività tra
le due. E se è attribuito a Trebazio in D. 2.14.10.2 il primo esempio di
riconoscimento di exceptio doli in assenza
della possibilità di ricorrere all’exceptio pacti[28],
esso costituisce altresì la prima applicazione di cui abbiamo notizia
dell’exceptio doli quale
eccezione di dolo c.d. generale (v. il mio precedente contributo, cit., al
§ 5), per cui si tratta di vedere quando, oltre a trovarsi
quest’ultima applicabile in funzione ausiliaria della prima, si sia fatto
ricorso all’uso alternativo tra le due, quali considerate equivalenti e
interscambiabili, sovrapponendosi la concessione dell’exceptio pacti alla applicazione
dell’exceptio doli (c.d.
generale), già per se stessa di più elastica portata in ordine
alla valutazione sostanziale del rapporto tra le parti[29].
Dallo stesso tenore dell’affermazione corrente (plerumque solemus dicere), riferita da Ulpiano in D. 2.10.10.2,
della sussidiarietà dell’exceptio
doli rispetto all’exceptio
pacti, risulta poi non tramontata presso la giurisprudenza dei Severi
l’impostazione giulianea di detta sussidiarietà nell’uso
dell’exceptio doli in funzione
di rimedio estremo[30].
La più risalente testimonianza di una alternatività tra exceptio pacti ed exceptio doli parrebbe attribuibile a Sabino e Cassio in D. 8.1.4
pr. (Pap. 7 quaest.), testo secondo
il quale, pur non potendo costituirsi servitù a termine finale o
iniziale o sotto condizione sospensiva o risolutiva, tuttavia, in presenza di
loro apposizione all’atto costitutivo (si haec adiciantur), a chi rivendicasse la servitù contro
quanto in esso stabilito (contra placita)
sarebbe opponibile un’eccezione o di patto o di dolo, in
conformità a un responso di Sabino, approvato da Cassio. Ma il testo
appare gravemente alterato, potendosi in definitiva ritenere genuina
l’opponibilità di exceptio
contra placita solo relativamente a vindicatio
di servitù costituita per atto
inter vivos a termine finale o a condizione risolutiva, ove quindi la
stessa indicazione alternativa tra exceptio
pacti vel doli, anche per la forma incompleta in cui viene espressa (<per> pacti vel per doli exceptionem etc.), può apparire di
dubbia genuinità[31].
Pur ammettendo la sostanziale attribuzione a Papiniano di siffatta alternativa,
non è peraltro detto che anche ad essa, e non più genericamente
alla tutela in via di eccezione, egli intendesse riferire il sintetico richiamo
al conforme parere di Sabino e Cassio. Infatti, come ha notato Brutti[32],
da un lato il riconoscere nella fattispecie un placitum tra le parti parrebbe presupporre la teoria pediana della conventio e dall’altro è
presumibile risalga a Cassio la soluzione, di cui in D. 8.3.13 pr. (Iav. 10 ex Cassio), nel senso della concessione
di exceptio doli mali avverso il
rivendicante la servitù dopo che si fosse avverata una condizione
risolutiva apposta alla sua costituzione.
Se sembra dunque
risalire ai primi Sabiniani, nelle fattispecie considerate, la concessione
della più generica exceptio doli
(mali)e non dell’exceptio pacti, per casi affini Giuliano
risulta invece riconoscere l’exceptio
pacti (conventi) in D. 45.1.56.4
(Iul. 52 dig.), ove detta exceptio è ammessa, scaduto il
termine, contro l’azione intentata dall’erede dello stipulante,
ovvero del costituente (dal lato attivo) una servitù, a termine finale.
Ciò in coerenza con l’ordine di idee di Giuliano, già sopra
considerato (al § precedente) riguardo alla applicazione sussidiaria
dell’exceptio doli rispetto
all’exceptio pacti quando a
questa non si ritenga possibile far ricorso, e secondo il quale alle due
rispettive eccezioni si tende a riconoscere diversità di ambiti
applicativi, sulla base di fattispecie tra loro differenziate. Diversa invece
è la posizione di Paolo, rapportabile a quella di Papiniano secondo D.
8.1.4 pr., e risultante da D. 44.7.44.1e2(74
ad ed. praet.), ove per i casi di stipulatio
a termine finale, e rispettivamente a condizione risolutiva, avverso lo
stipulante che agisca dopo il termine, o il verificarsi della condizione, si
afferma opponibile un’eccezione (vel) doli mali vel pacti conventi[33].
Siffatto concorso alternativo tra le due eccezioni è ribadito da Ulpiano
in D. 44.4.2.4 (76 ad ed.) per il
caso di espresso pactum de non petendo
oltre un certus dies, successivo alla
conclusione della stipulatio: ci si
domanda se, decorso il termine, si possa opporre all’azione dello
stipulante l’exceptio doli (mali), che nel precedente § 3
trovava applicazione in caso di
stipulatio sine causa o di venir meno della causa successivamente all’atto della stipulatio come in ipotesi di promessa stipulatoria di
restituzione di somma che ci si aspetti di ricevere a mutuo ove non ne sia conseguita
la relativa datio, casi tutti in cui
l’assenza di causa rileva
comunque al momento della litis
contestatio solo procedendo alla quale l’attore incorre in dolo[34];
e malgrado che in presenza di pactum de
non petendo non sia dubbia la spettanza dell’exceptio de pacto convento, in presumibile opposizione alla tesi
giulianea della sussidiarietà dell’exceptio doli ritenuta utilizzabile solo se improduttivo di effetti
o non configurabile in via interpretativa il patto di non chiedere, sarà
nella disponibilità delle parti scegliere l’esperimento
dell’eccezione di dolo, non potendosi negare che incorra in dolo chi
agisce contrariamente al patto da lui stesso concluso[35].
Ne consegue l’interscambiabilità per l’età dei Severi
tra le due eccezioni in un ambito in cui si prospettino sussistere i
presupposti di applicazione di entrambe, sempre salva restando la più
ampia sfera di applicazione dell’exceptio
doli (c.d. generalis), largamente
documentata già in testi di Labeone (v. il mio contributo precedente,
cit., al § 6) ove manchino gli estremi, sia pure successivamente allargati
con il suo espandersi in sede interpretativa, del riconoscimento di patto
tacito sulla base di una più ampia nozione di conventio – ricollegabile a Pedio e Celso (v. infra, al § precedente) –
fondata sulla ricerca dell’effettivo intento delle parti.
Analoga disparità
di vedute tra Giuliano ed Ulpiano trasparirebbe pure da testimonianze relative
a casi di inefficacia per mancanza di formali presupposti dell’acceptilatio. In D. 18.5.5 pr. (Iul. 15 dig.), nel caso di acceptilatio di obblighi nascenti da contratto consensuale,
invalida sua natura per non essere
utilizzata a estinguere (verbis)
un’obligatio altrettanto
costituita verbis, Giuliano dice che
ciononostante vale potestate conventionis,
riconoscendo quindi in essa implicito, sulla base della nozione di conventio, il presupposto di
applicazione, è da ritenere, dell’exceptio pacti conventi[36].
Invece Ulpiano in D. 46.4.19 pr. (2 reg.),
in ipotesi di acceptilatio di obligatio re, anche qui anziché verbis, contracta, prevederebbe la possibilità di opporre al
creditore agente in giudizio l’exceptio
doli mali in alternativa all’exceptio
pacti conventi[37].
Tuttavia, in caso di acceptilatio
inutilis ancora Paolo in D. 2.14.27.9 (3
ad ed.), sulle orme di Giuliano, si limita a riconoscere l’intento (id actum videtur) di non chiedere per tacita pactio, con la conseguenza della
esperibilità dell’exceptio
pacti senza richiamo all’exceptio
doli mali, mentre Ulpiano in D. 46.4.8 pr. (48 ad Sab.) pone il problema se possa riconoscersi implicito un pactum utile sottostante ad acceptilatio inutilis, e vi risponde
affermativamente a meno che non vi fosse mancato il relativo consenso, come
potrebbe avvenire se il creditore avesse fatto acceptilatio pur senza consentire ai suoi effetti essendo
cosciente della sua invalidità: ma in tal caso, stante la mancanza di pactum e quindi
l’inopponibilità della relativa exceptio, sembrerebbe equo che ci si potesse avvalere dell’exceptio doli, la quale quindi
tornerebbe a sopperire in funzione sussidiaria[38],
almeno se il consenso a non chiedere fosse mancato solo da parte del creditore
agente, ove peraltro, se nel perdurare della sua ignoranza di ciò il
convenuto avesse fatto ricorso all’exceptio
pacti anziché all’exceptio
doli, l’attore non dovrebbe poter far valere in iudicio l’inesistenza di patto implicito dovuta a propria
riserva mentale.
In alternativa tra exceptio doli mali ed exceptio pacti conventi, sul
presupposto di un’unica fattispecie, pone il problema se si possa
così eccepire Gai 3.179 in ipotesi di
stipulatio novatoria sottoposta a condizione sospensiva, ritenuta iure civili produttiva di effetti,
contro l’opinione di Servio, solo a condizione avvenuta, per il caso in
cui nel frattempo il creditore agisca, in quanto appare implicitamente
convenuto tra le parti di detta
stipulatio che la richiesta del credito sia rinviata al verificarsi della
condizione[39].
Diversamente per un’ipotesi di stipulatio
novatoria iure civili invalida per essersi
con essa il creditore fatto promettere da uno schiavo quanto un terzo gli
doveva, Gaio in D. 2.14.30.1 (1 ad ed.
prov.) riferisce il quesito, relativo alla exceptio pacti conventi, se questa sarebbe potuta essere
efficacemente opposta all’azione successivamente intentata dal creditore
contro il terzo sul presupposto che apparisse pattuito di non chiedere:
l’opinione di Giuliano è in senso positivo in presenza di un
complesso di circostanze tale da far ritenere degna di protezione, a vantaggio
del debitore, la rinuncia a chiedere implicita nella stipulatio novatoria[40];
ove tuttavia a fondamento dell’eccezione da questi opponibile (che
sarebbe stata allora l’exceptio
doli) pare, da parte di Giuliano, doversi riconoscere, sulla base di quelle
circostanze oggettive, efficace verso il debitore, più che non un patto,
l’intento di non chiedere implicito nella stipulatio intercorsa tra altri, ad analogia del patto concluso
col debitore dal procurator o dal
tutore[41].
L’alternativa tra exceptio pacti conventi ed exceptio doli è poi affermata da
Paolo in D. 2.14.27.5 (ad ed.) per il
caso di patto di non chiedere venti quando siano dovuti solo dieci,
riconoscendone l’efficacia solo limitatamente a quanto dovuto: con
richiamo al principio enunciato alla fine del precedente § 4, per cui conventio in alia re facta non
può nuocere in alia re, in
base ad una valutazione formalistica della disparità tra l’oggetto
del patto di non chiedere e quello dell’obbligo, potrebbe apparire dubbia
la validità del patto, mentre in base alla considerazione, in sede
interpretativa, della volontà delle parti, se ne afferma la
validità; se ne è pertanto voluta ricavare la più certa
opponibilità, nel caso, dell’exceptio
doli rispetto all’exceptio
pacti, mentre alla prima potrebbe pure adattarsi, e non alla seconda,
un’eventuale riserva mentale del creditore paciscente[42].
Occorre tuttavia notare, per un verso, che l’alternativa tra le due
eccezioni verrebbe a fondarsi su di una valutazione interpretativa
sicché non sarebbe suscettibile di essere sciolta in iure dal convenuto al fine di una scelta tra le due eccezioni[43],
e per altro verso che se, nel perdurare da parte sua della ignoranza della
riserva mentale dell’attore, il convenuto avesse eccepito di patto,
parrebbe non doversi poter far valere da controparte in iudicio l’inesistenza del patto dovuta a detta riserva
mentale[44].
Un’ultima
testimonianza della alternatività, intesa come fungibilità, tra
le due eccezioni, è costituita da un rescritto di Antonino Caracalla,
dell’a. 213, contenuto in C. 2.3.5. In caso di pagamento di parte della
somma dovuta, accompagnato da patto di non chiedere la restante parte,
l’imperatore riconosce avvenuta la liberazione del debitore per una parte iure civili e per l’altra iure praetorio, potendo questi
respingere la richiesta avanzata dal creditore per il residuo debito
avvalendosi dell’exceptio perpetua
pacti conventi vel doli mali, mentre avrebbe potuto agire in restituzione
qualora avesse pagato per ignoranza[45].
Inoltre, come ha
osservato Brutti[46],
i brani dei commentari di Paolo (3 ad ed.)
e di Ulpiano (4 ad ed.)
rispettivamente inseriti dai compilatori in D. 2.14.11.13 e 15 e D. 2.14.12 e
14 a ridosso del riconoscimento, da parte di Giuliano e Trebazio,
dell’opponibilità dell’exceptio
in base al pactum de non petendo
concluso col procurator del debitore,
si esprimono in termini, e si richiamano ad argomenti, attenti al problema
sostanziale della validità del
pactum, tendendo a risolvere in essa la giustificazione della
opponibilità dell’exceptio
doli, con conseguente indifferenza per il mezzo processuale usato.
Nel complesso, a seguito di un
originario utilizzo, ancora sul finire dell’età repubblicana,
dell’exceptio doli in via
sussidiaria rispetto all’exceptio
pacti per il caso di mancanza di patto di non chiedere cui si riconosce
efficacia, e di contro alla posizione di Giuliano, seguito da Marcello, diretta
a mantenere distinti i rispettivi ambiti di applicazione delle due eccezioni
(pur tendendo ad estendere il riconoscimento del patto sul presupposto della
concezione di conventio risalente a
Pedio), sembra testimoniata da Gaio e Scevola per casi singoli una incertezza
nella applicabilità dell’exceptio
dolio dell’exceptio pacti,
mentre la loro alternatività a scelta del convenuto appare ribadita poi
in età dei Severi non solo dalla giurisprudenza come dalla cancelleria
imperiale in ordine a soluzioni casistiche, ma anche, in sede di affermazione
teorica in particolare da Ulpiano il quale, come già abbiamo ricordato,
in D. 2.14.2.4 perviene a supportare la concomitante spettanza di exceptio pacti e di exceptio doli con il constatare che dolo facere eum, qui contra pactum petat, negari non potest.
Ciò non toglie che lo stesso Ulpiano in D. 2.14.10.2, come parimenti
già visto, continui a rifarsi all’opinione di Giuliano, per cui
chi non può utilizzare l’exceptio
pacti potrà usare l’exceptio
doli, nel presentare come corrente attualmente ai suoi tempi la
affermazione della funzione sussidiaria (subsidium)
della prima rispetto alla seconda. Anche dato il contesto in cui viene fatta
tale affermazione, nell’ambito del commentario all’editto de pactis, essa non può
riferirsi genericamente al fatto che l’exceptio doli trova comunque un più vasto campo di
applicazione al di fuori di qualsiasi richiamo alla realtà pattizia,
quanto piuttosto riflette la circostanza che, in specie, il ricorso all’exceptio doli si è casisticamente
venuto ponendo in ipotesi di incertezza dell’esistenza stessa di un patto
o della sua sfera di efficacia[47],
costituendo l’estremo rimedio per l’eventualità che appaia
improponibile la difesa del convenuto basata su quella realtà. In sede
di procedura formulare a tale incertezza si impegnò a trovare soluzione
la giurisprudenza, evitando di lasciare al convenuto una scelta aleatoria
dell’exceptio pacti tra i due
mezzi riconvenzionali, col ricollegarli, come Giuliano, a diversi presupposti
di fatto o, in età dei Severi, col pervenire a riconoscere
interscambiabili i due rimedi. E a ciò appare tendere Ulpiano, ma non
diversamente Paolo, nel commento edittale, spostandosi dalla
sussidiarietà quale punto di partenza della trattazione del rapporto tra
le due eccezioni ad un piano sostanziale di loro alternatività, in
concomitanza con quanto già doveva avvenire nell’ambito della cognitio extra ordinem[48].
Preliminare problema che
si pone in merito sarebbe quello di stabilire se l’exceptio rei venditae et traditae anziché essere
edittalmente prevista, salvo precisarne in tal caso da quando, si sia sempre
conservata quale mera eccezione decretale,
in factum, da concedersi da parte del pretore di volta in volta causa cognita in base alle circostanze
del caso concreto, sia pure ruotanti attorno a un ambito tipico di
applicazione, costituito dall’acquisto tramite compravendita e traditio di res mancipi rivendicata dal suo effettivo dominus ex iure Quiritium. Se così fosse, sarebbe
ragionevole ricavarne che l’exceptio
rei venditae et traditae avesse rappresentato una semplice variante, in
presenza di particolari circostanze, dell’exceptio doli edittale: alla sua opposizione all’attore, in
luogo di quest’ultima, il convenuto avrebbe fatto ricorso, richiedendone
al pretore la concessione, quando si trovasse in difficoltà a provare il
dolo, inteso come mala fede, dell’attore, non invece, più
limitatamente, gli elementi di fatto oggettivi sui quali si fondava la
specifica eccezione, cui si sarebbe fatto luogo solo a seguito di un processo
evolutivo rispetto all’originario e più generico rimedio
dell’exceptio doli, che avrebbe
peraltro conservato la sua funzione di modello pur sempre eventualmente
utilizzabile. Questa è la ricostruzione di recente proposta dalla
Elsener[49],
che rinvia, con ampi e dettagliati richiami e solo apportandovi qualche
variazione secondaria, alla tesi a suo tempo sostenuta dal Krüger[50],
secondo il quale la stessa sedes materiae
della casistica relativa all’exceptio
rei venditae et traditae, riportata dai compilatori del Digesto nel titolo
23.3, sarebbe stata ricavata dalla trattazione di Ulpiano in tema di exceptio doli a titolo esemplificativo
dell’affermazione ivi fatta, di cui in D. 44.4.2.5 (Ulp. 76 ad ed.), generaliter ex omnibus in factum exceptionibus doli oriri exceptionem
(sul testo v. infra, al § 6).
Alla contraria opinione del carattere edittale dell’exceptio rei venditae et traditae, unitamente all’ipotesi che
questa avesse preceduto, nella sistemazione dell’editto, l’exceptio doli, secondo quanto ha
ritenuto il Lenel[51],
ma con lui anche la prevalente dottrina seguita allo studio del Krüger[52],
la Elsener si è limitata, altrochè a richiamarsi ad esso, ad
opporre genericamente la fragilità del supporto testuale nonché
l’apparente misconoscimento della problematica relativa all’exceptio doli[53].
A quest’ultimo
proposito, senza potere in questa sede prendere in esame l’insieme dei
problemi coinvolti e della relativa documentazione testuale apportata dal
Krüger, e richiamata dalla Elsener, a sostegno della tesi da loro
propugnata e rispettivamente condivisa, mi limiterò a qualche
considerazione generale ed all’analisi dei testi più rilevanti, in
particolare di quelli discussi dalla Elsener, con specifico riferimento al
rapporto tra le due eccezioni in oggetto.
La dottrina dominante
è anzitutto concorde nel far risalire tra la fine del II e la prima
metà del I secolo a.C., e più probabilmente al 67 a.C.,
l’introduzione dell’actio
Publiciana nell’editto del pretore[54],
ed è largamente condivisa l’opinione che essa abbia trovato
emblematica applicazione a favore dell’acquirente di res mancipi dal suo dominus
ex iure Quiritium tramite compravendita e successiva traditio,in base alla finzione che il suo possesso, nel frattempo
perduto da detto acquirente, sia durato quanto sufficiente per la sua
usucapione, altrochè, in più generale e probabilmente successiva
applicazione, anche a favore dell’acquirente a non domino tramite traditio
ex iusta causa in buona fede di qualsiasi cosa, mancipio nec mancipi,
che egualmente ne abbia perduto il possesso prima del decorso di un tempo
sufficiente per usucapirla[55].
Ora, a tutela, tramite actio Publiciana,
dell’acquirente dal dominus di res mancipi tramite compravendita e traditio, che agendo in rem contro il dominus rientrato in possesso della cosa si veda da questi opporre
un’eccezione c.d. iusti dominii
fondata sulla di lui proprietà ex
iure Quiritium, è apprestata da parte del pretore una difesa, in
forma di replicatio, basata
sull’avvenuta vendita e traditio
effettuatagli dal dominus, e
corrispondente alla analoga difesa, in forma di exceptio, che gli sarebbe valsa quando avesse conservato il
possesso della cosa e fosse convenuto in rivendica dal dominus stesso[56].
È peraltro probabile che l’originario intervento pretorio fosse
indirizzato, tramite actio Publiciana
ed exceptio rei venditae et traditae,
a tutelare tale caso di vendita e
traditio di res mancipi
effettuata dal dominus ex iure Quiritium[57] ed appare persino essersi presentata
più immediatamente l’esigenza di tutelare tramite exceptio l’accipente ancora in
possesso della cosa, che fosse convenuto in rivendica dal dominus, prima che non il medesimo accipiente che avesse perduto
il possesso della stessa. Resta comunque il fatto che pare possa ritenersi
risalire l’exceptio rei venditae et
traditae quantomeno a ridosso dell’introduzione dell’actio Publiciana e quindi ad un periodo
in cui l’exceptio doli non
risulta essere stata utilizzata, prima di Trebazio e Labeone, se non in caso di
dolo preterito, antecedente la litis
contestatio, anche se dell’altra eccezione, che l’avrebbe preceduta,
non abbiamo traccia testuale anteriormente a Labeone (in D. 19.1.50, Labeo 4 post. a Iav. epit.)[58]:
se ne potrebbe inferire l’impossibilità di considerare
quest’ultima mera variante, in presenza di particolari circostanze,
dell’exceptio doli,e avvalorata
la sua inserzione in editto, ancorché con possibilità di sua
ulteriore applicazione in factum per
casi concreti che si ritenessero fuoriuscire dalla previsione edittale[59].
Si tenga inoltre presente, da un lato, che un’alternativa tra le due
eccezioni, solo esistente a seconda degli elementi di prova a disposizione,
pare difficile da sostenere, posto che, almeno una volta ammessa
l’introduzione dell’exceptio
rei venditae et traditae per una sua specifica funzione distinta da quella
originaria dell’exceptio doli
applicata a ipotesi di dolo antecedente la litis
contestatio, il ricorso all’exceptio
doli sarebbe stato ipotizzabile ove non si ritenessero esistenti, o non
fossero provabili, i presupposti della prima e viceversa esistenti altri
elementi qualificanti il dolo; dall’altro, che la presenza di più
espressioni usate nelle fonti a indicare quest’ultima si trova
analogamente in ordine a diversi mezzi edittali[60],
altrochè potersi spiegare quale adattamento di una sua formulazione
tipica a circostanze specifiche.
Tra i testi che i compilatori
giustinianei hanno inserito nel titolo 21.3 (De exceptione rei venditae et traditae) del Digesto, eliminando in
quanto non più attuale il caso principale e originario di applicazione
costituito da acquisto di res mancipi a
domino, e limitando l’istituto ad ipotesi di acquisto di res a non domino, prendiamo anzitutto
in considerazione con la Elsener[61]
D. 21.3.1.3 (Ulp. 76 ad ed.) in cui
è riferita l’affermazione di Celso che se chi ha ricevuto mandato
a vendere cosa altrui ad un prezzo determinato la vende a prezzo inferiore, la
cosa non appare trasferita in proprietà (alienata) e al mandante proprietario il quale la rivendichi non
potrà opporsi questa eccezione (haec
exceptio) che con tutta evidenza, nel contesto del titolo del Digesto e,
secondo l’opinione comune, anche di quanto in materia ci rimane del libro
76 ad edictum di Ulpiano così
come palingeneticamente letto dal Lenel, risulta essere l’exceptio rei venditae et traditae.
Sembra trattarsi di una res nec mancipi
che il proprietario ha dato mandato ad alienare tramite vendita a prezzo
determinato e che il mandatario avrebbe trasferito in proprietà
all’accipiente se si fosse mantenuto nei limiti del mandato ricevuto[62]:
non avendolo fatto, la proprietà è rimasta al mandante che agisce
in rivendica contro l’accipiente, il quale non potrà opporgli
l’eccezione, che parrebbe essere la tipica exceptio rei venditae et traditae, eventualmente con
l’aggiunta, date le circostanze concrete, voluntate domini. Se non che la Elsener finisce per ipotizzare
trattarsi invece di exceptio doli,
sulla base di un’analisi comparata del testo con D. 41.4.7.6 (Iul. 44 dig.).
Si fa qui il caso di un procurator
(che si può ritenere omnium
bonorum, anche considerando l’ampiezza della sua legittimazione a
vendere un fondo senza preventivo limite di prezzo da parte del dominus)[63]
il quale, potendo vendere il fondo a prezzo ben superiore, lo ha venduto a
prezzo assai più basso al solo scopo di recar danno al suo dominus: se il compratore è in
buona fede, potrà usucapire il fondo, di cui si presuppone quindi gli
sia stata fatta traditio dal procurator, mentre non lo potrà
se avesse corrotto quest’ultimo dandogli del denaro per acquistare a
minor prezzo; vi si aggiunge che in tale seconda ipotesi, se avesse provato ad
avvalersi, contro il dominus del
fondo agente in rivendica contro di lui, di un’exceptio rei voluntate eius venditae, gli si sarebbe potuta
efficacemente opporre una replicatio doli.
Questo caso è diverso da quello discusso da Celso in quanto si tratta di
vendita e traditio di un fondo (res mancipi) del dominus da parte del suo
procurator che non ha ricevuto incarico di vendere a un determinato prezzo
e quindi può negoziare con ampio margine di discrezionalità,
sicché l’accipiente potrà validamente opporre al dominus rivendicante (come del resto,
si può ricavarne, anche se fosse stato in buona fede e pertanto divenuto
possessore ad usucapionem) l’exceptio rei venditae et traditae, con
la precisazione voluntate domini in
quanto il tutto può dirsi a rigore avvenuto per volontà di lui
implicita nella praepositio
procuratoria (ove il solo richiamo nel testo alla vendita e non alla traditio può giustificarsi per
essere l’intera questione incentrata sull’ammontare del prezzo di
compravendita), diversamente dal caso di cui in D. 21.3.1.3 di Celso[64].
Di un’exceptio espressa nella forma si non auctor meus ex voluntate tua
vendidit è menzione anche in D. 6.2.14 (Ulp. 16 ad ed.) ove è riportato il caso discusso da Papiniano di
divieto da parte del dominus al procurator di procedere alla traditio di cosa da questi venduta per
volontà del dominus stesso e
poi tradita malgrado il divieto
ricevutone: il procurator
potrà richiedere al dominus,
tramite actio mandati, ciò che
avesse dovuto prestare al compratore in quanto questi sarebbe potuto risultare
soccombente alla rivendica del dominus
mandante alla vendita per non avergli opposta, per ignoranza delle circostanze
di fatto, l’eccezione che gli avrebbe dovuto opporre, basata
sull’essere stata venduta la cosa per di lui volontà; pare quindi
che detta eccezione sia l’exceptio
rei venditae et traditae, ma adattata al caso concreto per limitarsi a
menzionare la vendita e non la traditio
che contrariamente alla prima non è stata effettuata voluntate domini per il divieto intercorso, ove detto divieto
sembra aver avuto l’effetto di invalidare iure civili l’alienazione della cosa, risultando peraltro
irrilevante ad effetti pretori[65].
Affine a questo è
il caso proposto in D. 21.3.1.2 (Ulp. 76
ad ed.) di un mandato a vendere cosa del proprietario mandante, alla cui
rivendica il compratore che l’avesse ricevuta per traditio potrà efficacemente opporre haec exceptio (identificabile, secondo quanto abbiamo visto a
proposito del successivo § 3, con l’exceptio rei voluntate domini venditae et traditae), a meno che non
si provi che il mandato era a tradere
solo dopo avvenuto il pagamento del prezzo: si può anzitutto supporre
trattarsi di res mancipi,
perché altrimenti non sarebbe occorsa l’exceptio essendosi verificato il trasferimento civile di
proprietà; inoltre appare implicito che, per la mancanza di efficacia
dell’exceptio, si presupponga
avvenuta la traditio senza pagamento
di prezzo da parte del compratore contrariamente all’incarico di vendere
a condizione che il compratore paghi il prezzo prima di poter pretendere la traditio della cosa, sicché ne
risulterebbero mancanti i presupposti di applicazione della exceptio, non diversamente dal caso del § 3, per avere il
mandatario proceduto già alla vendita (anziché alla sola traditio come in D. 6.2.14) a
condizioni diverse da quelle volute dal mandante[66].
Riguarda poi ipotesi
complesse di vendita e traditio di
schiavo proprio ritenuto altrui, e rispettivamente di schiavo altrui ad
acquirente del quale sia divenuto erede il proprietario del medesimo, D.
17.1.49 (Marcell. 6 dig.).
In ordine a entrambe le
ipotesi, di un possessore di schiavo altrui che, avendolo comprato in buona
fede da terzi, dà mandato al proprietario, ignaro di esserlo, di
effettuarne la vendita, e rispettivamente del medesimo possessore di buona
fede, che ne ha effettuato la vendita per mandato del proprietario, il quale
per avventura sia divenuto erede del compratore, ci si interroga in merito a
problemi inerenti l’(eventuale) evizione ed il mandato. Marcello, nella
prima ipotesi, ritiene il proprietario, che ha venduto lo schiavo proprio
ritenendo di farlo in veste di rappresentante (quasi procurator), tenuto nei confronti del compratore (per
l’eventuale evizione) sicché se ne avesse effettuato traditio non gli si sarebbe potuta
concedere la rei vindicatio, mentre
non sarebbe stato responsabile nei confronti del mandante contro il quale
avrebbe a sua volta potuto agire di mandato per l’eventuale interesse che
avrebbe avuto di non vendere: il diniego della rivendica al proprietario
venditore pare fondato sull’opportunità semplificatrice di evitare
un’evizione della quale resterebbe poi responsabile ex vendito lo stesso rivendicante, ove non viene in gioco l’exceptio voluntate domini rei venditae et
traditae probabilmente per la rilevanza dell’errore, inficiante in
merito la sua volontà, in cui incorre il venditore tradente sulla
spettanza della appartenenza dello schiavo, quanto piuttosto una denegatio actionis sostitutiva,
nell’evidenza in iure dei
fatti, di un’exceptio doli[67].
Più complessa risulta, nell’individuazione dei fatti e dei
relativi effetti giuridici, la seconda ipotesi, in ordine alla quale peraltro
gravano non infondati sospetti di rimaneggiamento del testo: senza entrare in
ulteriori particolari, ammettendo che lo schiavo si trovasse ancora posseduto
dal mandatario venditore, si giustificherebbe, per semplificazione dei mezzi
processuali in analogia con l’ipotesi precedente,
l’opponibilità da parte sua dell’exceptio doli avverso la rivendica del proprietario il quale a sua
volta potrebbe, in qualità di erede del compratore, rivalersi sul
venditore per l’eventuale evizione da lui stesso procurata, mentre
potrà più semplicemente agire
ex empto per riavere lo schiavo, altrochè in base al mandato per
ottenere il prezzo che sia stato pagato al mandatario dal compratore, senza che
venga comunque in considerazione l’exceptio
rei venditae et traditae[68].
Resta da considerare a
quale eccezione andasse incontro la rivendica di chi effettuasse vendita e traditio di cosa altrui della quale
fosse divenuto nel frattempo proprietario, e rispettivamente del proprietario
che fosse succeduto a titolo universale a chi avesse effettuato vendita e traditio di cosa di lui. Si tratta dei
casi trattati in D. 23.1.1 pr1 (Ulp. 76
ad ed.), in apertura del titolo di D. 23.1 (De exceptione rei venditae et traditae) dai compilatori, a seguito
della eliminazione, dovuta alla scomparsa della mancipatio e della distinzione tra res mancipi e nec mancipi,
dell’ipotesi primaria di applicazione della eccezione relativa avverso il dominus ex iure Quiritium che rivendica
la res mancipi da colui il quale ne
ha effettuato vendita e traditio.
Nel principium del frammento è riferita l’affermazione di
Marcello, cui pare aderisca Ulpiano, secondo la quale la rei vindicatio di chi ha venduto un fondo altrui
(presupponendosene anche effettuata la traditio)
e ne ha successivamente acquistato la proprietà, è efficacemente
paralizzabile tramite questa eccezione (hac
exceptione, anche qui, come già abbiamo detto per i successivi
§§ 2 e 3 del frammento, più facilmente identificabile con
l’exceptio rei venditae et traditae)[69].
Sembra poi che nel susseguente § 1 sia Ulpiano a estendere la decisione di
Marcello all’ipotesi analoga di rivendica di quel fondo da parte di chi
sia divenuto erede del suo proprietario, dopo averne effettuato vendita e traditio al convenuto[70].
Senonché il caso
preso in considerazione da Marcello risulterebbe risolto prima di lui, tramite
opponibilità di exceptio in factum
comparata vel doli mali, da Giuliano secondo quanto riferisce Ulpiano, che
parrebbe per ciò stesso condividerne l’opinione, sia pure
nell’ambito di una più complessa fattispecie, in D. 44.4.4.32
(Ulp. 76 ad ed.), testo che compare
altresì, in versione più ristretta e priva in particolare di
qualifica dell’exceptio di cui
si tratta, in D. 6.1.72 dello stesso Ulpiano (76 ad ed.) e in D. 21.3.2 di Pomponio (2 ex Plaut.)[71].
Si fa ivi
l’ipotesi di chi abbia venduto e consegnato con traditio, dietro pagamento del prezzo, un fondo non suo ad un
primo acquirente e, divenuto successivamente erede del proprietario del fondo
stesso, lo rivenda e ne effettui traditio
(avendone quindi nel frattempo ricevuto in qualche modo il possesso: ma
è più probabile che il testo originale parlasse qui di mancipatio anziché di traditio) ad un secondo: si ritiene
più equo che il pretore tuteli (avverso il secondo acquirente) il primo,
in quanto questi contro lo stesso venditore rivendicante il fondo (in
qualità di suo dominus ex iure
Quiritium) avrebbe potuto opporre efficacemente exceptio in factum comparata vel doli mali ovvero esperire contro
di lui, se si fosse trovato nel possesso del fondo, l’actio Publiciana, opponendo replicatio ad eventuale exceptio iusti dominii, donde si ricava
che egli aveva venduto al secondo acquirente un fondo che non si trovava
più nei suoi beni (in quanto già in bonis del primo acquirente).
Ora, non sembra potersi
seriamente dubitare che Giuliano parlasse di opponibilità dell’exceptio doli, posto che, come
riconosciuto dal Lenel, il testo ulpianeo è tratto dal commento edittale
alla medesima (all’editto Publiciano D. 6.1.72, mentre è incerta
la collocazione palingenetica di D. 21.3.2). Non è peraltro escluso che,
in alternativa ad essa, egli ammettesse l’opponibilità di
un’exceptio in factum, che
potrebbe ritenersi applicazione decretale dell’exceptio (ed eventuale
replicatio) rei venditae et traditae
per il caso, ancora considerato fuoriuscente dall’ipotesi tipica
originaria di acquisto di res mancipi,
tramite vendita e traditio da chi
fosse stato già in allora dominus,
mentre risalirebbe a Marcello la diretta applicazione, estesa al caso, della
formulazione dell’eccezione tipica edittale: l’alternativa
giulianea potrebbe ritenersi rimessa alla valutazione del pretore, che potrebbe
negare la concessione di exceptio in
factum, piuttosto che alla scelta del convenuto[72].
Una volta ammessa la diretta applicazione al caso di questa azione edittale,
l’alternativa con l’exceptio
doli sarebbe stata vista, in particolare da Ulpiano, come concorso
alternativo, a scelta del convenuto, tra le due azioni: né può
stupire che egli in D. 44.4.4.32 abbia conservato, riportandola fedelmente, la
trattazione fatta da Giuliano del caso proposto, il cui interesse al di
là della specifica qualificazione dei mezzi processuali utilizzabili,
poteva essere, dal giurista severiano, sostanzialmente vista nella soluzione
equitativa del conflitto tra due successivi acquirenti in buona fede di res mancipi dal medesimo soggetto,
divenutone dominus solo dopo che la
prima vendita e traditio,
accompagnata dal pagamento del prezzo, già si era verificata[73].
Né è, da ultimo, altresì escluso che Ulpiano in D.
21.2.17 (29 ad Sab.), cui si
ricollega nel Digesto il successivo frammento 18 di Paolo (5 ad Sab.), nel dichiarare indubbia la
spettanza dell’exceptio doli
avverso il dominus il quale dopo
esserne divenuto tale rivendicasse la cosa da lui precedentemente venduta (e
consegnata) al convenuto, con richiamo all’impossibilità del
tentativo di evincere l’avente causa da se stesso, si sia rifatto a
soluzione già sabiniana[74],
ove non potrebbe poi stupire il fatto che Ulpiano, nel giustificare la
spettanza dell’exceptio doli
sulle orme di Sabino, non abbia sentito la necessità di ricordare la
concorrente exceptio rei venditae et
traditae.
Nel complesso si può ritenere probabile che l’exceptio rei venditae et traditae sia
stata originariamente applicata come eccezione edittale avverso la rivendica di res mancipi da parte del dominus ex iure Quiritium che ne avesse
effettuato vendita e traditio al
convenuto, prima che si sia potuto porre, sul finire dell’età
repubblicana, il problema dell’applicazione al caso di una exceptio doli rivolta a sanzionare il
c.d. dolo presente, in cui si sia incorsi solo all’atto della litis contestatio. A sua volta,
nell’ambito di tale sua generale applicazione, l’exceptio doli si troverebbe utilizzata
come rimedio sussidiario della exceptio
rei venditae et traditae già da Sabino in ipotesi fuoriuscente dal
caso tipico di applicazione di questa, in particolare per essere opposta al
rivendicante che fosse divenuto dominus
della res mancipi di cui aveva
effettuato vendita e traditio prima
di averne acquistato il dominium ex iure
Quiritium. Per tale ipotesi Giuliano avrebbe sostenuto la
opportunità di ottenere dal pretore l’estensione causa cognita in via decretale della
tipica eccezione proposta in editto, pur ribadendo, in mancanza,
l’applicabilità dell’exceptio
doli, mentre sulle sue orme Marcello avrebbe riconosciuto direttamente
applicabile al caso, in via interpretativa della sua formulazione edittale, la
tipica exceptio rei venditae et traditae,
con probabile tendenza a riconoscere opponibile l’exceptio doli ancora in via sussidiaria, al di fuori dell’ambito
di applicazione diretta dell’exceptio
rei venditae et traditae edittale, in ulteriori casi di possibile sua
estensione causa cognita in via
decretale. Presso i giureconsulti dell’età dei Severi, quando si
presta ormai più attenzione alla questione sostanziale che non alla
differenza di mezzi processuali basata sulla doverosità ovvero sulla
discrezionalità nel concederli da parte del pretore, nell’ambito
in cui si ritenga applicabile comunque, in via diretta o estensiva, la tipica exceptio rei venditae et traditae, essa
sembrerebbe riconosciuta in concorso alternativo con l’exceptio doli c.d. generalis, senza aleatorietà di scelta da parte del pretore
o del convenuto.
Non v’è
dubbio che in tal caso il rapporto si pone tra una exceptio doli edittale, già precedentemente applicata su
vasta scala a varie ipotesi di dolo c.d. presente sin da Labeone, e una exceptio non numeratae pecuniae, che
troviamo per la prima volta menzionata da Ulpiano in particolare in D.
44.4.4.16 (76 ad ed.),
nell’ambito della trattazione da lui dedicata all’exceptio doli, come exceptio in factum, concessa decretalemente dal pretore causa cognita, in luogo dell’exceptio doli, nei confronti di
genitori, ascendenti e patroni (adversus
parentes patronosque) dell’attore, per l’ipotesi, già
presentata più dettagliatamente da Ulpiano in D. 44.4.4.3 (76 ad ed.) nell’ambito del suo
commento edittale all’exceptio doli,
come esempio di un caso di applicazione relativo a chi, avendo promesso in
forma di stipulatio di restituire
denaro che era in procinto di ricevere a credito e non lo abbia poi in effetti
ricevuto, venga egualmente convenuto in giudizio per la sua restituzione.
Siffatta ipotesi
è già chiaramente descritta in Gai 4.116 a, quale esempio
concreto in cui trova ormai consolidata applicazione (placet), per ragioni di equità, l’exceptio doli mali. E poco oltre Gaio nelle sue Istituzioni (4.119)
presenta la stessa formulazione di detta
exceptio con richiamo a quel medesimo esempio di dolo, anche se qui la
descrizione del caso è più sintetica, senza precisazione che
l’attore abbia agito in base a
stipulatio della pecunia non numerata
richiesta in restituzione. Né vi è alcun indizio per ritenere
che, nello stesso caso, fosse in allora già conosciuta
l’applicabilità discrezionale, dietro decretum pretorio, di una
exceptio in factum non numeratae pecuniae, tecnicamente qualificata come
tale dalla sua formulazione indicativa delle specifiche circostanze in base
alle quali fosse concessa[75].
In effetti la prima
menzione di una tale exceptio si
trova presso Ulpiano nel sopra ricordato brano del suo commentario edittale
all’exceptio doli in D.
44.4.4.16 (76 ad ed.), nonché
in D. 17.1.29 pr. (7 disp.)
nell’ambito di una serie di casi dubbi discussi in tema di fideiussione[76].
Nel primo dei due testi
ulpianei, l’exceptio appare
utilizzata in funzione sussidiaria dell’exceptio doli, per il caso in cui questa non potesse essere opposta
all’attore, trattandosi di persona (parens
o patronus) alla quale è
dovuta reverentia, sicché si
fa luogo a exceptio in factum,
caratterizzata nella sua formulazione dalla indicazione degli elementi
oggettivi di fatto su cui essa si fonda, donde la sua denominazione tecnica[77].
Nel secondo, ci si chiede
se il fideiussore il quale, non avendo avuto conoscenza che non erano stati
dati al debitore principale i denari alla cui restituzione questi si era
impegnato (tramite stipulatio), ne
avesse effettuato fideiussionis causa
il pagamento al creditore, avrebbe potuto rivalersi nei confronti del debitore
tramite actio mandati (contraria), e si risponde che egli
sarebbe apparso in dolo (cui si equiparerebbe la dissoluta neglegentia), se
sciens (conoscendo cioè il mancato versamento dei denari al debitore
principale, avesse omesso di opporre al creditore (agente contro di lui)
l’eccezione vel doli vel non
numeratae pecuniae, mentre se
ignorans nulla gli si potrebbe addebitare (e gli sarebbe quindi spettata
l’actio mandati contraria per
la rivalsa contro il debitore)[78].
Risultano in tale testo ammissibili in alternativa le eccezioni di dolo e
rispettivamente non numeratae pecuniae,
denominazione quest’ultima usata pure qui tecnicamente a indicare una
specifica eccezione a sé stante e non solo i presupposti di fatto di
un’unica eccezione generale di dolo, ma senza che se ne possa ricavare un
qualche criterio su cui fondare l’applicazione dell’una o
dell’altra, per cui non si può stabilire con certezza se, come
è più probabile, la scelta tra le due fosse di massima lasciata
al convenuto, salva eventuale discrezionalità del pretore nel concedere
la seconda trattandosi di exceptio in
factum, ovvero se questa fosse ancora ammessa solo quale sussidiaria alla
prima come in D. 44.4.4.16[79].
Un’ultima
testimonianza giurisprudenziale in merito potrebbe in fine indirettamente
ricavarsi da D. 12.1.30 (Paul. 5 ad
Plautium), dove si afferma dipendere, da chi abbia promesso in forma di stipulatio a futuro creditore la
restituzione di somma che attende gli sia da lui data a credito, il non
obbligarsi tramite l’accettazione del denaro, quando si ipotizzasse
implicitamente riconosciuta con ciò una tutela del debitore, il quale
non lo abbia ricevuto, tramite exceptio
dolio non numeratae pecuniae[80].
Sembra comunque certo
che nei testi giurisprudenziali sin qui esaminati si faccia esclusivo
riferimento a tutele apprestate nell’ambito del processo formulare,
né vi risultano applicate, per il caso cui esse si riferiscono, regole
specifiche di regime, in ordine ad un limite temporale entro cui farle valere
ed alla sopportazione dell’onere della prova.
Di non numerata (o non reddita) pecunia è poi menzione in un
rescritto di Settimio Severo e Antonino Caracalla, riportato gemino in due
varianti in C. 4.30.1 e rispettivamente C. 8.32.1[81],
e di exceptio doli seu non numeratae
pecuniae in successivo rescritto di Caracalla riportato in C. 4.30.3.
Quanto al primo
rescritto, del 197 d.C., e quindi anteriore ai testi ulpianei sopra visti
risalenti per lo meno non prima dell’impero di Caracalla, vi si dice che
chi è in condizione di provare (probaturus)di
non aver ricevuto il denaro e pertanto di averne inutilmente rilasciato cautio, cioè documento scritto
con ogni probabilità privo di clausola stipulatoria[82],
e dato un pegno, può in rem
experiri, e cioè rivendicare il bene pignorato[83]:
infatti, si aggiunge, l’intentio
dati pignoris neque numeratae (redditae
nella variante di C. 8.32.1) pecuniae,
col che parrebbe farsi riferimento alla opposta pretesa avanzabile dal presunto
creditore pignoratizio (con actio
Serviana) fondata sull’avvenuto pignoramento e sul mancato pagamento
del debito garantito, la quale non avrà valore se non consistesse la fides debiti, non fosse cioè
constatata l’esistenza del debito garantito; così interpretata,
questa frase parrebbe anticipare e strettamente collegarsi con quella
successiva del testo secondo cui per la stessa ragione (data dalla preesistenza
del debito garantito) si dovrà accertare la reale situazione se la
controparte avrà intentato azione contro il pignorante che si trovasse
in possesso del pegno[84].
Se così fosse, mentre nulla a che vedere con l’exceptio non numeratae pecuniae avrebbe
il richiamo alla numerata (o reddita) pecunia
nelle due rispettive versioni del rescritto, all’azione in rem avanzata dal presunto creditore,
pignoratizio o ipotecario, si dovrebbe ipotizzare sottintesa
l’opponibilità di un’exceptio
(non necessaria in ipotesi di cautio
non stipulatoria) che comunque non vi sarebbe ragione per ritenere non numeratae pecuniae piuttosto che doli, anche stante
l’anteriorità del rescritto severiano rispetto alla redazione
ulpianea di D. 44.4.4.16[85].
E in ogni caso nulla risulta dal testo circa il tipo di processo cui si fa
riferimento, né su di un eventuale termine entro cui sollevare
l’eccezione né su particolari regole in merito alla spettanza
dell’onere della prova[86].
Molte incertezze lascia
pure la lettura di un rescritto di Caracalla del 213 d.C., riportato in C.
4.30.2 a seguito del precedente sotto il titolo rubricato de non numerata pecunia. Vi si prospetta il caso di chi abbia
rilasciato cautio per una somma
maggiore di quella ricevuta: se ciò sarà constatato avanti
all’organo giudicante, questi gli ordinerà di restituire solo la
somma effettivamente ricevuta, con gli interessi dedotti in stipulatio. Sembra pertanto trattarsi di processo svolgentesi in
sede di cognitio extra ordinem[87].
Pare poi incerto se la cautio
prestata dal debitore sia un documento scritto con clausola stipulatoria o se
la stipulatio fosse limitata ai soli
interessi[88],
con la conseguenza comunque che sarebbe dovuta, oltre a questi, solo la somma
effettivamente ricevuta. Mancando quindi menzione del mezzo riconvenzionale
adoperato, è dubbio che si sia trattato dell’exceptio non numeratae pecuniae[89]
e nulla è detto circa l’onere della prova[90].
In ogni caso non se ne può ricavare alcuna informazione sulla exceptio non numeratae pecuniae o su
rimedi ad essa affini.
Altrettanto dicasi per
un secondo rescritto di Caracalla riportato in C. 4.7.1 sotto il titolo
rubricato de conventione ob turpem causam,e
senza data ma risalente tra il 211 ed il 215 d.C. Il convenuto in base a cautio sarà assolto se
avrà provato all’organo giudicante di non aver ricevuto alcun
denaro e prestato cautio in base a
causa turpe e illecita. Si tratta anche qui con tutta probabilità di cognitio extra ordinem[91].
La cautio rilasciata appare essere stipulatoria in quanto su di essa
si fonda l’azione[92],
avverso la quale il convenuto dovrà provare l’invalidità
dell’atto per causa immorale e antigiuridica, per cui dovrebbe opporre exceptio doli piuttosto che exceptio non numeratae pecuniae[93].
Sulle due eccezioni
ragguagli maggiori offre un terzo rescritto di Caracalla dell’a. 215,
riportato in C. 4.30.3 e già sopra richiamato. Chi sia convenuto in base
a cautio avendone dato ipoteca, con
l’opporre exceptio doli seu non
numeratae pecuniae costringerà l’attore a dar prova di avergli
versato il denaro, mancando la quale seguirà l’assoluzione.
È probabile si tratti anche qui di processo svolto in sede di cognitio extra ordinem, come ritiene la
dottrina maggioritaria, benché nessuno degli argomenti addotti a riprova
di ciò appaia del tutto appagante[94].
E pure qui la cautio sembra essere
stipulatoria in riferimento ad un prestito di denaro, in quanto su di essa si
basa l’esperimento dell’azione[95].
Invece per la prima volta troviamo affermato in questo rescritto imperiale il
principio secondo cui spetta al creditore l’onere di provare
l’avvenuto versamento del denaro al debitore, da farsi valere, senza che
ve ne sia indicato un termine, tramite opposizione dell’exceptio tanto doli quanto non numeratae
pecuniae, le quali si direbbero spettare in concorso alternativo tra di
loro[96].
Mentre un terzo
successivo rescritto di Caracalla, riportato in C. 4.30.4 senza data, in cui
è fatta per la prima volta menzione di una querella de non numerata pecunia, dicendo che il debitore non la
può avanzare dopo aver riconosciuto, col pagare anche solo una parte del
debito capitale o degli interessi relativi, la veridicità della relativa cautio (o documento scritto) in
proposito rilasciata, non riguarda la corrispondente exceptio[97],
a questa si riferiscono tre ulteriori rescritti di Settimio Severo, riportati
in C. 4.30, rispettivamente 5, 6, 7, l’ultimo dell’a. 223[98],
ma senza che vi si avanzino per essa nuove regole di regime e comunque possa
inferirsene alcunché in ordine ad una eventuale alternativa con l’exceptio doli. Viceversa in un rescritto
di Alessandro Severo, riportato in C. 4.30.8, dell’a. 228, si dà
implicitamente per scontata, come preesistente, l’esistenza di un termine
entro cui potersi opporre l’exceptio
non numeratae pecuniae non diversamente dalla presentazione della
corrispondente quaerimonia
(identificabile con la querella di
cui alla precedente costituzione di Caracalla riportata in C. 4.30.4)[99]
e si deve ammettere che, ove si ipotizzasse persistere ancora all’epoca
la possibilità da parte del debitore di scegliere alternativamente tra exceptio non numeratae pecuniae ed exceptio doli, pur se non più documentata
nelle fonti, ad evitarne l’altrimenti facile aggiramento del prescritto
termine di opponibilità, questo avrebbe dovuto trovare applicazione
anche alla seconda, almeno ove fondata sul medesimo presupposto della non numerata pecunia, e ciò per
ogni tipo di processo, vuoi di cognitio
vuoi formulare[100].
All’exceptio non numeratae pecuniae fanno,
esplicitamente o implicitamente, riferimento successivi testi[101],
da una costituzione di Gordiano dell’a. 240 (C. 2.6.3) a numerosi
rescritti dioclezianei (C. 4.30.9, 10, 11 e 12, C. 4.2.5, C. 4.9.4, C.
8.39[40].3[4], C. 2.17[18].4 e in Epitome Cod. Hermog. Wis. 1 con relativa interpretatio) sino a Lex Rom. Burg.
31.2 ed Epit. Gai 2.9.11, senza che venga comunque in considerazione un suo
rapporto con l’exceptio doli.
In particolare in C. 4.30.9, nel titolo rubricato de non numerata pecunia, si dice da concedersi un’exceptio in factum (in factum dandam exceptionem convenit), che potrebbe essere una
variante dell’exceptio non numerate
pecuniae nel caso specifico di mancata dazione a mutuo al debitore, ad
opera del creditore stipulante la sua restituzione, solo di una parte di quanto
stipulato[102].
In definitiva, il quadro
risultante anzitutto dalle fonti giurisprudenziali sembra nel senso della
applicazione, in ambito di procedura formulare, avverso l’azione da stipulatio con cui si richiede la
restituzione di una somma di denaro promessa in vista di una sua dazione a
mutuo, in un primo tempo della sola eccezione edittale doli mali (v. Gai 4.116 a, e 119): applicazione che viene riferita
ancora da Ulpiano in D. 44.4.2.3, nell’ambito del commentario
all’editto relativo, come prima[103]
in un elenco esemplificativo dei casi in cui si estrinseca il dolo sanzionato
da detta exceptio. Dallo stesso
Ulpiano a questa si trova quindi affiancata in D. 44.4.4.16 una exceptio non numeratae pecuniae,
presentata come autonoma actio
(decretale) in factum, cui farsi
ricorso in un caso nel quale appare improponibile l’exceptio doli,e quindi con carattere sussidiario rispetto ad essa.
Ma lo stesso Ulpiano in D. 17.1.29 pr. menziona genericamente in alternativa le
due azioni, donde potrebbe ipotizzarsi che si sia potuti passare da un rapporto
di sussidiarietà ad un rapporto di concorso alternativo tra le due
(nulla potendosi invece ricavare, sia pure in via indiretta e ipotetica, da D.
12.1.30 di Paolo)[104].
Ancora ad
opponibilità di exceptio doli,
nel caso considerato, sembra dovesse riferirsi un rescritto di Severo e
Caracalla del 197 d.C. (in C. 4.30.1 = C. 8.32.1) e quanto ai rescritti
successivamente emanati (tra il 213 ed il 215) dal secondo, probabilmente
riferentisi a processi che si svolgono in sede di cognitio extra ordinem, mentre nulla di certo si può
ricavare circa l’applicabilità di eventuale exceptio non numeratae pecuniae da C. 4.30.2 e sembrerebbe
piuttosto ipotizzabile il ricorso ad
exceptio doli in C. 4.7.1, si trovano nuovamente menzionate in alternativa
le due azioni, stabilendosi per la prima volta l’inversione
dell’onere di provare la numeratio
pecuniae, posto a carico dell’attore anziché la sua mancanza a
carico del convenuto, in C. 4.30.3 dell’a. 215. All’età di
Caracalla pare dunque risalire al più tardi l’applicazione in
concorso alternativo delle due azioni in sede di cognitio extra ordinem, pressoché contemporaneamente riconosciuta
anche da Ulpiano in ambito di procedura formulare, ove non poté fare a
meno di essere estesa ad entrambe l’eccezionale inversione
dell’onere probatorio: è peraltro presumibile un originario
riconoscimento, in rapporto di sussidiarietà rispetto all’exceptio doli per ipotesi in cui questa
non poteva trovare applicazione, della autonoma exceptio non numeratae pecuniae, quale azione in factum, a seguito di intervento pretorio; in ulteriori
costituzioni imperiali, a partire da Settimio Severo, non si trova poi
più menzione alcuna dell’exceptio
doli, che tende ad essere definitivamente sostituita, nel caso di specie,
dall’exceptio non numeratae
pecuniae, in ambito di unitario processo cognizionale[105].
Infine Giustiniano lascia sporadicamente sussistere l’exceptio doli, ma la sostituisce in I.
4.13.2, rispetto a Gai 4.116 a, con l’exceptio
non numeratae pecuniae[106].
È fondamentale in
merito il brano del commento edittale di Ulpiano all’exceptio doli, riportato in D. 44.4.2.5 (Ulp. 76 ad ed.), in cui si affermerebbe che in
via generale (generaliter) da ogni exceptio in factum, e cioè
decretale[107],
scaturisce (sciendum est ... oriri)l’ exceptio doli perché è in
dolo chiunque avanzi una pretesa cui possa essere opposta una qualsiasi
eccezione (e quindi pure edittale), in quanto anche se durante le fasi iniziali
del rapporto (inter initia) egli non
ha tenuto alcun comportamento doloso, lo tiene nel momento stesso in cui avanza
la pretesa, a meno che, si aggiunge, sia tale la sua ignoranza da escludere il
dolo. Di contro a radicali critiche di precedente dottrina, si è venuto
più di recente ammettendo, malgrado indubbi segni di rimaneggiamento del
testo, un suo sostanziale nucleo genuino, che tenderebbe a riconoscere la
possibilità di esperire l’eccezione di dolo ogniqualvolta
sussistessero i presupposti dell’applicabilità di qualsiasi
eccezione, non solo decretale, ma anche edittale, sulla base del principio già
espresso da Papiniano in D. 49.4.12 (3
quaest.) secondo cui l’eccezione di dolo soccorre chiunque abbia la
possibilità di opporsi alla pretesa dell’attore avvalendosi di un
fondamento equitativo di difesa (qui
aequitate defensionis infringere actionem potest, doli exceptione tutus erit)[108].
Si è sostenuto
che la scelta da parte del convenuto di avvalersi dell’exceptio doli anziché di
eccezioni più specifiche (edittali o decretali) potrebbe trovare
giustificazione nella difficoltà di provare i fatti su cui si basa
l’eccezione specifica opponibile nel caso[109]
o nella opportunità (rispetto all’opponibilità di eccezione
fondata su fatti specifici) di allargare l’ambito di ricerca del dolo da
parte del giudice[110],
salvo al contrario preferirsi l’eccezione decretale per una
semplificazione nell’assunzione delle prove[111]:
il tutto peraltro varrebbe solo sul presupposto che sia lasciata al convenuto
la scelta alternativa di altra eccezione rispetto a quella di dolo.
Fermo restando che il
dolo in oggetto, quale dolo c.d. presente, si verifica all’atto stesso
della litis contestatio nel processo
formulare (v. D. 45.1.36, Ulp. 48 ad Sab.:
... ipsa res in se dolum habet ... hoc ipso dolo facit, quod petit), che
il dolo risulterà comunque sussistere sulla base dell’accertamento
di fatti (v. D. 44.4.1.2, Paul. 76 ad ed.:
... an dolo quid factum sit, ex facto
intellegitur), e che nel caso in esame l’attore per essere in dolo
dovrà conoscere il perché non debba chiedere (D. 50.17.177.1,
Paul. 14 ad Plaut.: nemo videtur dolo exsequi, qui ignorat
causam, cur non debeat petere), nell’agire malgrado
l’opponibilità di eccezione egli dovrà essere a conoscenza
della stessa, sicché trattandosi di
exceptiones in factum la cui concessione è rimessa alla
discrezionalità del pretore, si è rilevato doversi riconoscere sufficiente
che all’attore consti una prassi pretoria di concessione in altri casi di
quell’eccezione decretale o anche solo il riconoscimento sociale
dell’equo fondamento dell’eventuale concessione di nuova eccezione[112],
naturalmente essendo da un lato l’attore, in sede di fase in iure, venuto a conoscenza della
contestazione che intende muovergli il convenuto, e d’altro lato potendo
conseguire alla discrezionalità del pretore, che non sia disposto a
concedere un’eccezione specifica, il ricorso da parte del convenuto
all’exceptio doli, mentre poi
la fondatezza del rimedio riconvenzionale, inserito nella formula su cui avviene la
litis contestatio, dipenderà dall’accertamento dei fatti sui
quali esso si basa.
In realtà non si
trovano riferimenti nelle fonti ad un rapporto dell’exceptio doli con altre eccezioni edittali che non siano quelle
già di volta in volta considerate (oltre all’exceptio quod metus causa relativamente a dolo cosiddetto passato,
l’exceptio pacti e l’exceptio rei venditae et traditae), mentre
al di là del caso di exceptio non
numeratae pecuniae se ne danno altri nei quali l’exceptio doli appare concessa in alternativa ad exceptio in factum.
Più che non la
concessione di una specifica exceptio in
factum, appare anzitutto piuttosto un’applicazione estensiva
dell’exceptio pacti, basata su
interpretazione implicita di quanto inteso tra le parti, la difesa prospettata
in D. 44.4.4.8 (Ulp. 76 ad ed.) da
Nerva e Atilicino per il caso in cui cose date a pegno affinché fossero
restituite soluta pecunia siano
andate perdute per colpa del creditore e questi, malgrado ciò, chieda la
restituzione del denaro prestato, mentre Ulpiano vi preferisce
l’applicazione dell’exceptio
doli[113],
senza che vi risulti qui comunque presentata una scelta tra le due diverse
eccezioni.
Una replicatio in factum in mancanza della quale ci si potrà
giovare della replicatio doli mali è
quanto prevede Giuliano in D. 46.1.14 (47
dig.) a favore del creditore nel caso in cui, succeduto il debitore
principale al fideiussore e quindi estinta l’obbligazione (accessoria) di
fideiussione, egli agisca contro il debitore, vedendosi opposta
un’eccezione attinente al rapporto fideiussorio[114].
A sua volta Paolo in D.
12.5.8 (3 quaest.) riconosce al
debitore la possibilità di opporre l’exceptio doli mali o un’exceptio
in factum avverso il creditore che agisca contro di lui sulla base di una stipulatio a causa (bilateralmente)
turpe, mentre gli nega la possibilità di ripetere una volta che avesse
pagato[115].
Restano due testi
giurisprudenziali: D. 46.2.4 (Ulp. 5 ad
Sab.) e D. 23.3.7.3 (Ulp. 31 ad Sab.).
Nel primo, che peraltro Lenel ascriverebbe a Pomponio, si dice che in caso di
delegazione (attiva) del proprio debitore di usufrutto (ad altro creditore),
pur non verificandosi novazione, il delegato dovrà essere tutelato
tramite exceptio dolio exceptio in factum avverso il delegante
anche dopo la morte del delegatario[116].
Nel secondo si dice che se le cose date in dote dalla donna (si discute in
dottrina con quale tipo di negozio traslativo) a condizione che le nozze
susseguano siano da lei rivendicate prima di aver effettuato notifica della
rottura del fidanzamento (ante nuntium
remissum), le si potrebbe opporre l’exceptio doli o un’exceptio
in factum, a tutela della destinazione al matrimonio dei beni rivendicati[117].
Ancora di una
possibilità di avvalersi di
replicatio doli mali vel in Factum è parola nel rescritto
dioclezianeo di C. 2.4.28.1 (dell’a. 294) da parte di chi, avendo
pattuito una prestazione in cambio della rinuncia a esperire una rivendica, si veda
opporre ad essa l’exceptio pacti prima
che sia adempiuta la prestazione promessa[118].
Da ultimo va ricordato
che nelle Istituzioni giustinianee 4.13.1 è data un’exceptio in factum composita in
opposizione ad azione fondata sull’errore del promittente, ove i classici
avrebbero applicato l’exceptio doli[119].
Dal sintetico excursus sui testi surriferiti, mentre
sembra risulti in D. 44.4.4.8 soltanto la tendenza dei primi proculeiani, come
poi anche di Celso (v. supra, al
§ 2), alla applicazione estensiva dell’exceptio pacti, dal modo di esprimersi di Giuliano in D. 46.1.14
pare che egli tenda ad attribuire nel caso concreto all’exceptio doli carattere sussidiario,
qualora mancasse da parte del pretore la pur auspicabile concessione di exceptio in factum, in analogia con
l’atteggiamento dello stesso Giuliano sui rapporti tra exceptio pacti ed exceptio doli (v. supra,
al § 2). Negli altri testi giurisprudenziali, da Pomponio (se a lui va
riferito D. 46.2.4) a Paolo (in D. 12.5.8) e Ulpiano (D. 23.3.7.3), appare poi
prospettata una più diretta scelta alternativa tra le due eccezioni, doli vel (o aut) in factum (con
attenuazione della discrezionalità pretoria nel concedere la seconda),
in analogia con la tendenza della tarda giurisprudenza classica a individuare
un concorso alternativo tra exceptio doli
ed exceptio pacti. Con Diocleziano in
C. 2.4.28.1 il richiamo alla realtà del processo formulare è solo
più formale, essendo in particolare venuta meno la
discrezionalità magistratuale in merito alla concessione di exceptio, la cui qualifica in factum cessa di avere pratico
significato rispetto a quella riferentesi al dolo, sicché
l’alternativa presentata nel rescritto risulta essere soltanto più
nominale. Infine, in I. 4.13.1 i giustinianei preferiscono riferire
genericamente l’eccezione in oggetto alla situazione di fatto sulla quale
essa si fonda piuttosto che al dolo dell’attore, analogamente al
successivo § 2, ove si sostituisce l’indicazione della non numerata pecunia al dolo quale
fondamento qualificante l’exceptio
(v. supra, al § 5).
Quanto ai rapporti tra exceptio doli ed altre eccezioni
edittali, quello tra exceptio doli ed exceptio quod metus causa si pone, in
un solo testo, quale alternativa con riferimento, in linea di principio, ad
ambiti diversi di applicazione per fatti anteriori alla litis contestatio, ipotesi di dolo raggiro da un lato e di
violenza morale dall’altro, incidenti sul precedente negozio su cui si
fonda l’azione avverso la quale l’eccezione è opposta.
Molto frequenti sono le
testimonianze testuali, relativamente all’exceptio doli nelle sue applicazioni al dolo individuabile da parte
dell’attore cui l’eccezione è opposta solo all’atto
della litis contestatio, concernenti
il rapporto tra exceptio doli ed exceptio pacti, che presuppone la
preesistenza edittale della seconda alla prima, quantomeno nella applicazione
di questa al dolo c.d. presente. In merito, è chiaramente riscontrabile
la tendenza, in linea di massima, a passare da un rapporto di
sussidiarietà, intesa come funzione ausiliaria dell’exceptio doli per casi in cui non si
riconosca efficacia al patto per non essere esso stato concluso tra i soggetti,
rispettivamente attore e convenuto, nel giudizio per il quale è in
discussione l’inserimento dell’exceptio,
ovvero non si ritengano ravvisabili gli estremi per il riconoscimento del patto
stesso, a un rapporto di alternatività, intesa come concorso
alternativo, tra le eccezioni in questione. La prima applicazione dell’exceptio doli in funzione sussidiaria
dell’exceptio pacti appare
risalire sul finire dell’età repubblicana a Trebazio, ma è
poi particolarmente ravvisabile in Giuliano, che mira a fissare, con maggiore
restrittività di quanto non sembrino fare i primi proculeiani e poi Celso
oltre a Sesto Pedio, i presupposti di fatto sulla base dei quali applicare
l’exceptio pacti, al fine di
stabilirne una precisa linea di demarcazione rispetto
all’applicabilità dell’exceptio
doli, in ciò seguito da Marcello, mentre in casi trattati rispettivamente
da Gaio e da Scevola la scelta tra le due eccezioni sembra farsi dipendere
dalla differente valutazione interpretativa, quale sufficiente o meno a farvi
riconoscere concluso un patto tacito, donde si ricaverebbe una incerta
determinazione del confine applicativo tra le eccezioni stesse. Viceversa il
concorso alternativo tra di esse, a scelta del convenuto, appare testimoniato
in singole decisioni della giurisprudenza severiana da Papiniano a Paolo e
Ulpiano, ma anche in via generale, da parte di quest’ultimo, che pure
continua a riprendere l’affermazione giulianea della sussidiarietà
dell’exceptio doli rispetto
all’exceptio pacti, in quanto
estremo rimedio cui potersi ricorrere ove non appaia in concreto riconoscibile
un patto a fondamento dell’exceptio.
Sul presupposto che
anche l’exceptio rei venditae e
traditae sia stata edittalmente riconosciuta prima almeno che l’exceptio doli trovasse applicazione a
casi di c.d. dolo presente, pure questa seconda eccezione risulta aver avuto dapprima
funzione sussidiaria, forse già con Sabino, in caso fuoriuscente
dall’ipotesi tipica di applicazione dell’exceptio rei venditae et traditae, per il quale Giuliano avrebbe
ritenuto estensibile in via decretale, e poi Marcello direttamente applicabile
la stessa exceptio edittale rei venditae et traditae, salvo
continuare entrambi a riconoscere, per casi ulteriormente fuoriuscenti
dall’ambito di applicazione di questa, funzione sussidiaria all’exceptio doli. Ed anche qui, come tra exceptio doli ed exceptio pacti, si sarebbe passati, ad opera della giurisprudenza
severiana, ad un rapporto alternativo tra le due eccezioni, ritenendosi
parimenti opponibili, a scelta del convenuto, l’exceptio doli in tutti i casi in cui fosse applicabile, in via
diretta o estensiva, l’exceptio rei
venditae et traditae.
Mentre non si hanno poi
attestazioni nelle fonti di rapporti dell’exceptio doli con altre specifiche eccezioni edittali, circa i
rapporti della prima con eccezioni decretali
in factum, le uniche testimonianze che li riguardino con riferimento ad
eccezione avente una propria denominazione tecnica in quanto rispondente ad una
esigenza tipica particolarmente sentita nella prassi, attengono al rapporto
dell’exceptio doli con l’exceptio non numeratae pecuniae. Diversamente
dai casi precedenti, qui la seconda appare sorta tardi, presumibilmente solo
sul finire dell’età classica, quale specificazione della prima,
forse originariamente applicata al suo posto ad evitarne l’effetto
infamante e poi in alternativa ad essa, con tendenza a sostituirla, in casi
rispondenti ad un unico modello tipico, per i quali si introducono,
nell’ambito della procedura formulare come della cognitio extra ordinem, apposite regole di regime.
Non mancano quindi nelle
fonti sporadiche attestazioni di un’applicazione dell’exceptio doli alternativamente ad
apposite actiones in factum, in
singoli casi specifici, ove la discrezionalità pretoria nel prestarsi o
meno alla concessione di azione decretale renderebbe sussidiaria, in caso
negativo, l’utilizzazione dell’eccezione edittale di dolo, come
parrebbe riscontrabile in Giuliano, mentre tenderebbe ad affermarsi
praticamente, con la giurisprudenza dei Severi, un concorso alternativo a
scelta del convenuto tra i due tipi di eccezione. Tanto meno risulta rilevante
la differenza tra di essi, divenuta meramente nominale, nell’ambito della cognitio extra ordinem, specie in
età postclassica. E così anche nel diritto giustinianeo, che pur
conserva le vestigia del diritto classico, da valutarsi ormai in chiave
sostanziale, al di là delle regole processuali proprie del processo
formulare[120].
In questo quadro resta
ancora nel Digesto l’affermazione teorica generale, nella sostanza
ascrivibile al commento edittale di Ulpiano all’exceptio doli, della opponibilità della medesima qualora sia
opponibile ogni altra exceptio in factum,
come qualsiasi eccezione quindi anche edittale, in quanto costituirebbe
comportamento doloso avanzare in giudizio una pretesa comunque paralizzabile in
aderenza a principi di equità.
[1]
V. il mio precedente contributo a questa stessa raccolta, intitolato L’eccezione di dolo generale da
Aquilio a Labeone, al §1.
[2]
Su tale evoluzione storica della formulazione edittale dell’exceptio pacti v. B. Biscotti, Dal ‘pacere’ ai ‘pacta conventa’. Aspetti
sostanziali e tutela del fenomeno pattizio dall’epoca arcaica
all’editto giulianeo, Milano, 2002, 472 ss.: cfr. dottrina precedente
in G. Romano, Ulpiano, Antistia e la ‘fides humana’, in AUPA, XLVI, 2000, 259, nt. 4.
[3]
Che Cassio (il giureconsulto) non richiedesse, necessariamente, ai fini della
concessione dell’exceptio,il dolus dell’attore quale intento
fraudatorio rileva G. MacCormack,‘Dolus’ in the Law of the Early
Classical Period, in SDHI, LII,
1986, 256. Concezione questa di dolus
che appare già superata, ai fini della applicazione della relativa actio, da Ateio, allievo di Servio, in
D. 39.3.14 pr. (sul quale v. MacCormack, ‘Aliud simulatum, aliud actum’,
in ZSS, CIV, 1987, 644 s.),
altrochè dallo stesso Labeone in D. 4.3.7.6.
[4] Ritiene che l’exceptio
metus non fosse ancora non solo prevista nell’editto ma neppure
corrente nella prassi all’età di Cassio (il giureconsulto) C.A. Cannata, Corso di Istituzioni di diritto romano, II, 1, Torino, 2003, 35 s.
[6]
Sicché risulterebbe quanto meno equivoco, con richiamo
all’affermazione ulpianea di D. 2.14.10.2 doli exceptionem subsidium esse pacti exceptione, parlare in
proposito di sussidiarietà, secondo A.
Wacke, Zur Lehre vom ‘pactum
tacitum’ und zur Aushilfsfunktion der exceptio doli, in ZSS, XC, 1973, 230 s., la cui sottile
distinzione di significati tra sussidiarietà dell’actio de dolo e funzione ausiliaria
dell’exceptio doli susciterebbe
qualche dubbio secondo G. Melillo,‘Pacta in rem, pacta in
personam’: una divisione classica?, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, Napoli, 1984, III,
1473, nt. 34. Evita espressamente di parlare di impiego sussidiario dell’ exceptio doli rispetto all’exceptio pacti U. Elsener, Les
racines romanistes de l’introduction de l’abus du droit,
Bâle, 2004, 104.
[9]
Cfr. M. Brutti, La problematica del dolo processuale
nell’esperienza romana, Milano, 1973, 639 e U. Elsener, Les
racines, cit., 108 e nt. 227: parla di
procurator autorizzato A. Wacke, Zur Lehre, cit., 229 e nt. 49.
[11]
Cfr. A. Wacke, Zur Lehre, cit., 229 s. e M.
Brutti, La problematica, cit.,
I, 174 ss. e II, 625 ss.
[12]
Interpreta la posizione di Giuliano, nel riferimento fattone da Ulpiano, nel
senso che nella maggior parte dei casi verrebbe ad evidenza il dolus del creditore, che agisca
malgrado il patto, quando mancasse o non fosse chiara la conventio, G. Melillo,‘Pacta in rem’, cit., 1474.
[13]
Cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 627 s.
[14]
Cfr. M. Brutti, La problematica,
cit., II, 639 e 697. Che si tratti di
exceptio pacti ritiene A. Wacke, Zur
Lehre, cit., 230, nt. 36.
[15]
Cfr. G. MacCormack,‘Dolus’ in Decisions of the
Midclassical Jurists (IulianMarcellus), in BIDR, XXXV-XXXVI,1993-1994, 109 e V.
Mannino, Sulla
trasmissibilità dell’‘exceptio pacti’, in Labeo, XL, 1994, 190192, nt. 57 (con
precedente letteratura sul testo, alla quale
adde M. Magagna, I patti dotali nel pensiero dei giuristi
classici. Per l’autonomia privata nei rapporti personali tra i coniugi,
Padova, 2002, 113 ss.). Va peraltro ricordata la tesi, da ultimo sostenuta da S. Longo,‘Filius familias se obligat’? Il problema della
capacità patrimoniale dei ‘filii familias’, Milano,
2003, secondo cui i filii familias in
età classica non si sarebbero potuti obbligare civilmente, né
chiamare a risponderne in giudizio, se non nell’ambito della loro
autonomia patrimoniale in ordine al peculio castrense (ma v. la mia recensione
critica in SDHI, LXXI, 2005, 597
ss.).
[16] La problematica,
cit., II, 628 ss. A entrambe le ipotesi riferiva il testo A. Wacke, Zur Lehre, cit., 245 ss., relativamente a debiti peculiari del
figlio.
[17]
Su ciò cfr. anche P. Cerami, La concezione celsina del
‘ius’. Presupposti culturali e implicazioni metodologiche, in AUPA, XXXVIII, 1985, 211 e V. Mannino, Sulla trasmissibilità, cit., 180 s.
[18]
Su tutto ciò v. M. Brutti, La problematica, cit., II, 632 ss.
Cfr., anche con generale riferimento alla distinzione tra pacta in reme in personam,
in relazione alla trasferibilità agli eredi dell’efficacia dei
patti, A. Wacke, Zur Lehre, cit., 236 ss., G. Melillo,‘Pacta in rem’, cit., 1459 ss., M. Mannino, Sulla
trasmissibilità, cit., 170 ss.; M.
Magagna,I patti dotali, cit.,
103 ss. e U. Babusieaux, ‘Id quod actum est’. Zur Ermittlung des
Parteiwillen im klassischen Römischen Zivilprozess, München, 2006, 133 ss.
[19]
Così M. Brutti, La problematica,
cit., II, 640. Tuttavia il testo, se di Ulpiano, potrebbe essere riferito alla
opponibilità diretta dell’exceptio
pacti e non dell’exceptio doli:
cfr. U. Babusieaux, ‘Id quod actum est’, cit.,
141 s.
[20]
Sui due testi, oltre a M. Brutti, La problematica, cit., II, 640 ss.,
cfr. A. Wacke, Zur Lehre, cit., 284 ss., G.
Melillo,‘Pacta in rem’,
cit., 1466 ss., V. Mannino, L’estensione al garante delle eccezioni
del debitore principale nel diritto romano classico, Torino, 1992, 411 (in
nt. 21), G. MacCormack,‘Dolus’ in Decisions, cit.,
109 e U. Elsener, Les racines, cit., 111.
[21]
V. M. Brutti, La problematica, cit., II, 642 ss.: cfr. V. Mannino,
L’estensione, cit., 42, nt. 22 e 106, nt. 13. Diversamente MacCormack,‘Dolus’ in Decisions, cit., 100 s., secondo cui il
primo fideiussore avrebbe pattuito, col dare al creditore o promettergli di
pagare parte di metà del debito garantito, di non rispondere ulteriormente,
ed al secondo (in base al testo originario, e non al primo come avrebbe
equivocato un malaccorto glossatore) sarebbe spettata l’eccezione non di
patto, al quale egli non aveva partecipato, bensì di dolo, qualora fosse
stato convenuto dal creditore per il pagamento, altrochè
dell’intero residuo di credito garantito, anche della parte che il primo
fideiussore avesse solo promesso di pagare, salvo rendersene poi insolvente.
[22]
Cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 649 ss. Si
limita invece a vedervi un concorso tra le due eccezioni G. MacCormack,‘Dolus’ in Decisions, cit., 103 s.
[23]
V. M. Brutti, La problematica, cit., II, 656, nt. 4. Cfr. in generale sul testo A. Wacke, Zur Lehre, cit., 241 ss. e G.
MacCormack,‘Dolus’ in
Decisions, cit., 125 s.
[26]
V. Papiniano in D. 2.14.40 pr. (2 resp.):
cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, I2, Milano, 1967, 245.
[27] E nemmeno mi pare essere determinante in questo caso, al
fine di ritenere sussidiaria l’exceptio
doli, lasciare al pretore la scelta tra le due eccezioni, come lo sarebbe
in ipotesi di loro equivalenza (cfr. M.
Brutti, La problematica, cit.,
II, 658 e 694), poiché spetterebbe pur sempre al giudice, eventualmente
guidato dalla giurisprudenza, la decisione in merito ad una questione di
interpretazione relativa alla estensibilità del patto implicito
all’erede del creditore, non esplicitata nella formulazione dell’exceptio pacti.
[28]
Un’applicazione dell’exceptio
doli per la tutela di un accordo implicito da parte di giuristi proculeiani
è poi attestata, nel caso di
solutio di aliud pro alio, da Gai
3.168: cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 692.
[31]
V., per un’ampia analisi critica del testo, G. Grosso, Le
servitù prediali nel diritto romano, Torino, 1969, 116 ss., che (a
p. 121, nt. 15) lascia incerto se e quale delle due eccezioni costituisca una
innovazione postclassica. Cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 676 s., che
farebbe risalire a Papiniano l’aggiunta dell’exceptio doli rispetto alla presa di posizione di Giuliano in D.
45.1.56.4 i. f., sul quale v. subito
infra nel testo.
[32] La problematica,
cit., II, 680 s. Propende per non far risalire a Sabino e Cassio l’exceptio doli anche G. MacCormack,‘Dolus’ in the Law, cit., 254, nt. 50.
[33]
Per l’esegesi di entrambi i paragrafi del frammento v. M. Brutti, La problematica, cit., II, 671 ss.; sul § 5 cfr. U. Babusieaux, ‘Id quod actum est’, cit., 148 ss.
[34]
Sulle difficoltà che il § 3 presenta in ordine alla formulazione
delle ipotesi di causa inesistente al
momento della stipulatio, ovvero di iusta causa esistente in quel momento
ma di inesistenza di causa idonea al
momento dell’agire in giudizio, o ancora di causa certa stipulationis nel frattempo non secuta aut finita cfr. M.
Brutti, La problematica, cit.,
II, 702 ss.
[35]
Così M. Brutti, La problematica, cit., II, 710 ss. Cfr. A.
Wacke, Zur Lehre, cit., 231
s., di cui non ritengo sia da condividere lo spostamento, nell’ambito del
testo, della precisazione quia hoc actum
sit, e U. Elsener, Les racines, cit., 105 s.
[36]
Cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 669) s., che
si richiama ad analoga rilevanza della
conventio tramite exceptio pacti
conventi, riconosciuta da Giuliano secondo quanto riferisce Gaio in D.
2.14.30.1 (1 ad ed. prov.),e U. Babusieaux, ‘Id quod actum est’, cit., 116 s.
[37]
Cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 677 s., che
però, pur ammettendo l’equivalenza teorica tra le due eccezioni,
vi riterrebbe ricondotto l’intervento pretorio allo schema dell’exceptio doli nel caso di mancanza
dell’effettiva esistenza di accordo tra le parti, ma senza appigli nel
testo in oggetto.
[38]
In tal senso cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 683 s. Non
distingue, in entrambi i testi di Paolo e Ulpiano, tra le due eccezioni U. Babusieaux, ‘Id quod actum est’, cit., 122 s.
[39]
Cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II. 678 ss. Sul
testo da ultima v. P. Lambrini, La novazione. Pensiero classico e
disciplina giustinianea, Padova, 2006, 74 ss., la quale peraltro ritiene
potersi ipotizzare un utilizzo delle due eccezioni sulla base di presupposti
diversi: l’exceptio doli
sarebbe opponibile durante la pendenza della condizione per essere in tal caso
scorretta l’escussione del credito, mentre l’exceptio pacti conventi lo sarebbe a mancato avveramento della
condizione per essere in tal caso l’escussione del credito contraria alla
volontà delle parti, sottesa alla
stipulatio condizionata: pare tuttavia a me che in ambedue i casi
l’escussione del credito risulti contraria alla volontà delle
parti e quindi, nel contempo, scorretta. Non distingue fra i due casi U. Babusieaux, ‘Id quod actum est’, cit., 86 ss.
[40]
Cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 669 ss., il
quale, ritenendo concessa da Giuliano l’exceptio pacti, parla di
conventio implicita nella stipulatio
novatoria, sulla base del riconoscimento della posizione di delegante del
debitore, di delegatario del creditore e di delegato dello schiavo, pur senza
che risulti dal testo effettivamente avvenuta una delegazione su cui
eventualmente fondare il riconoscimento di un patto implicito di non chiedere
tra delegante e delegato, reso operativo dalla esecuzione della delega tramite stipulatio conclusa dal delegatario con
lo schiavo delegato, alla quale si ricollega l’obbligo de peculio del di lui dominus, a sua volta debitore del
delegante.
[41]
Nel successivo § 2 di D. 2.14.30.2 Gaio si pone il problema se sia
possibile al debitore opporre egualmente l’exceptio pacti conventi alla pretesa del creditore che abbia
stipulato da un terzo sotto condizione quanto dovutogli pure dal primo debitore, qualora la condizione sia venuta a
mancare: la risposta è preferibilmente (magis) negativa in quanto di regola non sussistono elementi che
facciano supporre l’intento del creditore di liberare il creditore. Cfr.
sul testo P. Lambrini, La novazione, cit., 75 s.
[45]
Sul testo cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 698 ss., il
quale giustificherebbe il ricorso all’intervento imperiale supponendo che
il caso specifico fosse complicato dall’avere il debitore già
pagato parte del prezzo residuo, suscitando il dubbio di aver con ciò
espresso una volontà contraria a quella insita nel precedente patto.
[50] H. Krüger, Beiträge zur Lehre von der
‘exceptio doli’: das Verhältniss der ‘exceptio doli
(generalis)’ zur ‘exceptio rei venditae et traditae’ und zur
‘exceptio pacti’, Halle, 1892. Lo segue ancora G. Wesener, Nichtediktale Einreden, in
ZSS, CXII, 1995, 146, nel ritenere, con richiamo a Wieacher, che l’exceptio doli originariamente
esercitasse la funzione dell’exceptio
rei venditae et traditae, la quale ne avrebbe costituito applicazione
specifica, come exceptio in factum,
salvo ammettere (a p. 150) che essa sia potuta essere stata introdotta
successivamente nell’editto.
[51] Das edictum perpetuum3,
Leipzig, 1927, 511 s.: cfr. Palingenesia
iuris civilis, Lipsiae, 1889, II, 860.
[52] Cfr. gli autori citati da M. Kaser, Das römische Privatrecht. I. Das altrömische, das vorklassische und
klassische Recht2, München, 1971, 439, nt. 10.
[54]
V. per tutti L. Vacca, Il c.d. ‘duplex dominium’ e
l’‘actio Publiciana’, in La proprietà e le proprietà (Pontignano, 30 settembre 3
ottobre 1985), a cura di E. Cortese, Milano, 1988, 40, nt. 1.
[55]
Per i casi di applicazione dell’actio
Publiciana, sulla scorta della formula che ne riferisce Gai 4.36, cfr. per
tutti C.A. Cannata, Corso di Istituzioni di diritto romano,
I, Torino, 2001, 540 ss. Sulla ipotetica ricostruzione della relativa clausola
edittale cfr. A. Burdese, Editto Publiciano e funzione della
compravendita romana, in Vendita e
trasferimento della proprietà nella prospettiva storicocomparatista.
Atti del Congresso internazionale. Pisa
Viareggio Lucca, 1721 aprile
[56]
Anche per i casi di applicazione di questi rimedi processuali cfr. C.A. Cannata, Corso, I, cit., 545 s.
[57]
In tal senso M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano,
1990, 448. Che la dottrina dominante, sulle orme di P. Bonfante,
Sull’‘exceptio rei venditae et traditae’, in Scritti giuridici vari, II, Proprietà e servitù,
Torino, 1918, 450 ss., sia orientata a ritenere l’exceptio rei venditae et traditae se non esclusivamente applicata,
almeno originariamente introdotta per i soli casi di traditio a domino di res mancipi,
riconosce L. Vacca,‘Duplex dominium’, cit., 41,
nt. 3. Cfr. già, tra altri, S.
Tondo, Convalida del pegno e
concorso di pegni successivi, Milano, 1959, 94 s.
[58]
Per una diligente elencazione dei testi in cui, pur con varietà di
espressioni,viene indicata direttamente o indirettamente o anche soltanto
ipotizzata in sede di interpretazione ricostruttiva la nostra eccezione, v. J. Gonvers, L’exceptio rei venditae et traditae. Thèse de licence et
de doctorat, Lausanne, 1939, 25 ss.
[59]
Pur riconoscendone il carattere edittale, pare propenso a considerarla mera
variante dell’exceptio doli C.A. Cannata, Corso, I, cit., 545, nt. 264.
[62] Sulla legittimazione del mandatario ad alienare tramite traditio cosa del mandante v. A. Burdese, Autorizzazione ad alienare in diritto romano, Torino, 1950, 57 ss.
e, in particolare su D. 21.3.1.3, 81 s.
[63]
Sulla legittimazione ad alienare del
procurator omnium bonorum cose del
dominus v. A. Burdese, Autorizzazione, cit., 46 ss. e, in
particolare su D. 41.4.7.6, 54 s., ove tuttavia non sono oggi più
propenso a riconoscere carattere di glossa, che comunque rifletterebbe pensiero
classico, alla finale del testo. Parla invece di procurator unius rei, pur diverso dal mandatario, U. Elsener, Les racines, cit., 66, nt. 145.
[64]
Diversamente U. Elsener, Les racines, cit., 66 s., parlando nel
caso di D. 44.4.7.6 di superamento dei limiti della procura, oltre i quali
sarebbe venuta meno la voluntas domini
alla vendita, non vede sotto questo aspetto diversità con il caso
trattato da Celso in D. 21.3.1.3, mentre, di fronte alla ammissione dell’exceptio rei venditae et traditae, sia
pure nella specie neutralizzata da replicatio
doli, da parte di Giuliano, ipotizza che Celso non avrebbe potuto negarla
in via generale, sicché avrebbe piuttosto inteso far riferimento alla
non opponibilità di exceptio doli.
[67]
V., in quest’ordine di idee, A.
Burdese, Autorizzazione, cit.,
69 s.: cfr anche Il c.d. error in dominio
nella traditio classica, in Annali
Ferrara, serie X, vol. II, n. 2, 1953, 106 s. e in Archives de droit privé, XVI, 1953, 27 s. Invece U. Elsener, Les racines, cit., 68 s., pur ammettendo nel caso la
possibilità di ricorso all’exceptio
doli, non esclude che Marcello abbia pensato all’exceptio in factum rei venditae et traditae, quale rimedio
specifico.
[68]
V., in quest’ordine di idee, la stessa U.
Elsener, Les racines, cit., 69
ss. Ipotizzavo invece, ma senza fondamento testuale, una rivendica da parte del
proprietario tradente avverso il terzo compratore cui il mandatario avesse
effettuato traditio, in Autorizzazione, cit., 71 s. (cfr. anche
Il c.d. error, cit., 107 s. e
rispettivamente 28 s.).
[69]
Cfr. da ultimo G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., 121 s.
(con autori citati alla nt. 74) e 146, il quale ipotizza che sia stata
accordata in caso siffatto per il primo da Marcello (così già S. Tondo, Convalida, cit., 96, nt. 8).
[70]
Cfr. S. Tondo, Convalida, cit., 99 e nt. 14, il quale non esclude poi che
Marcello potesse accordare anche l’exceptio
doli. In critica all’opinione di Krüger, il quale dal sed si con cui inizia il § 1
vorrebbe dedurre che l’applicazione dell’exceptio rei venditae et traditae fatta da Ulpiano si opponesse ad
una contraria opinione di Marcello che avrebbe applicato in questo caso exceptio doli come in D. 17.1.49, v. la
stessa U. Elsener, Les racines, cit., 76 s. in nt. sub C).
[71]
Sulle problematiche del testo cfr. G.
MacCormack,‘Dolus’ in
Decisions, cit., 107 ss. e G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., 120 ss.
(con autori da loro citati alle rispettive nntt. 63 e 72, ai quali adde M.
Kaser, Nochmal zu ‘in bonis
habere’, ora in Römische
Rechtsquellen und angewandte Juristenmethode, Wien-Köln-Graz, 1986,
353, nt. 31 e L. Vacca, Il c.d. ‘duplex dominium’,
cit., 65) e 145 s., nonché U.
Elsener, Les racines, cit., 71
ss.
[72]
Si richiama invece ad una scelta, da parte del convenuto, del mezzo più
opportuno in base agli elementi di prova a sua disposizione U. Elsener, Les racines, cit., 74 s.
[73]
Che, contro la rivendica intentatagli dal secondo acquirente (per mancipatio) a domino, il primo compratore e accipiente di buona fede dallo
stesso prima che questi fosse divenuto
dominus, avrebbe potuto avvalersi piuttosto della sola exceptio doli, anziché di una exceptio in factum come sostenuto in particolare da J. Gonvers, L’ exceptio, cit., 57 e 70 ss. e da P.
Koschaker, Fr. 4.32 D. 44.4.
Contributo alla storia ed alla dottrina della convalida nel diritto romano,
in Iura, IV, 1953, 3 e 77, ritengono G. MacCormack, ‘Dolus’ in Decisions, cit., 108 s. e V. Mannino, Sulla trasmissibilità, cit., 206 s. Che poi per i
tardoclassici non si facessero più grandi differenze tra actiones utiles e in factum per cui non sarebbe strano che Ulpiano potesse
richiamarsi da un lato all’exceptio
in factum comparata di Giuliano (in D. 44.4.4.32) e dall’altro
all’exceptio rei venditae et
traditae di Marcello (in D. 23.1.1 pr.), afferma G. Wesener,
Nichtediktale Einreden, cit., 122. Da ultimo, sulla rilevanza
dell’intervenuto pagamento del prezzo (ritenuto interpolato: v. P. Koschaker, Fr. 4.32 D. 44.4, cit., 82 ss.) da parte del primo acquirente in
merito alla tutela equitativa della sua posizione v. A. Burdese, Editto
Publiciano, cit., 128.
[74]
Cfr. H. Krüger, Beiträge, cit., 50; P. Bonfante, Sull’exceptio, cit., 457 e P.
Koschaker, Fr. 4.32 D. 44.4,
cit., 25 (con nt. 67). Anodini sul punto J.
Gonvers, L’exceptio,
cit., 47 (con nntt. 57) e G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., 121 (con
nt. 73, richiamata a p. 122, nt. 78).
[75]
Sui due testi gaiani v. per tutti W.
Litewski, ‘Non numerata
pecunia’ im klassischen römischen Recht, in SDHI, LX, 1994, 407 s.
[76]
A supporto dell’exceptio non
numeratae pecuniae in entrambi i testi, rileva W. Litewski, ‘Non
numerata pecunia’, cit., 413, che essi sono tratti da due distinte
opere dello stesso giurista, utilizzati dai giustinianei in due diversi titoli
del Digesto e appartenenti rispettivamente alle masse edittale e sabiniana.
[77]
Cfr. sul testo, in senso conservativo circa i sospetti di alterazione su di
esso avanzati in dottrina, W. Litewski,
‘Non numerata pecunia’,
cit., 408 ss. e autori ivi citati, ai quali
adde G. Sacconi, Ricerche sulla ‘stipulatio’,
Napoli, 1989, 57 ss. e V. Mannino, L’estensione, cit., 66 s., con
altri autori ivi citati; v. da ultimo D.
Mantovani, L’editto come
codice e da altri punti di vista, in
La codificazione del diritto dall’antico al moderno, Napoli, 1998,
168 ss. Non ritiene ravvisabile nel testo una sussidiarietà dell’exceptio non numeratae pecuniae, che
tenderebbe a sostituirsi all’exceptio
doli in quanto più individuata rispetto alla situazione di fatto cui
fa riferimento, salvo non essere opponibile, a differenza di questa, a parentes e patroni, M. Brutti, La problematica, cit., II, 729 s., nt.
154.
[78] Sul testo, in senso conservativo circa i sospetti di
alterazione su di esso avanzati in dottrina, v. W.
Litewski, ‘Non numerata
pecunia’, cit., 411 s. e autori ivi citati (ai quali adde G.
Sacconi, Ricerche, cit., 54
s., V. Mannino, L’estensione, cit., 65 ss. e G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., 137, con autori ivi citati).
[79]
Non esclude, contrariamente a Krüger, il rapporto di sussidiarietà W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’, cit., 413 e nt. 68. Nel senso
di un concorso alternativo, in quanto ritiene sfumarsi la differente
impostazione dei due mezzi, l’uno riferito all’elemento soggettivo
della mens actoris e l’altro al
fatto obiettivo della mancata numeratio
pecuniae, è orientata G.
Sacconi, Ricerche, cit., 55,
alla quale si richiama V. Mannino, L’estensione, cit., 67, nt. 72.
[80]
V. in proposito, anche con riferimento a D. 20.3.4 (Paul. 5 resp.), ove si dice essere in potestà del debitore non
ricevere il denaro per la cui restituzione abbia effettuato cautio, che potrebbe però ritenersi consistere in un mero
documento scritto, W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., 413 s. e autori ivi citati, ai quali adde M.
Brutti, La problematica, cit.,
II, 710, nt. 32 e G. Sacconi, Ricerche, cit., 63 s.
[81]
Sulle quali v. W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., 415 (che si limita a ritenere in C. 4.30.1 probabilmente inserita da
amanuense, anziché dai compilatori giustinianei come ammesso dai
più, la parola adseris) e
autori ivi citati.
[82]
Cfr. particolarmente M.R. Cimma,‘De non numerata pecunia’,
Milano, 1984, 49, nt. 127. Incerto in merito W.
Litewski, ‘Non numerata
pecunia’, cit., 417, con citazioni di altri autori e di testi
bizantini alle nntt. 103 e 104.
[83]
V. W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., 415 s., con citazioni dei Basilici e di letteratura, alla quale adde G.
Sacconi, Ricerche, cit., 53 s.
[84]
Perviene a ipotizzare una inversione tra le due frasi, dovuta ad un copista, o
una inserzione della prima da parte di un glossatore, J.Ph. Levy, A quels
faits la ‘querela non numeratae pecuniae’ tendait-elle à
remédier?, in Studi in onore
di C. Sanfilippo, Milano, 1983, IV, 343, nt. 9. Non comprendo invece la
posizione di W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., il quale (con molte citazioni di fonti bizantine e di interpreti moderni)
a p. 414 e nt. 81 sembra recepire il significato di intentio, comparente nel testo, come opposizione, mentre a p. 416
ne rifiuta il significato di exceptio
per affermarne quello di ‘intento’, senza comunque spiegarne i successivi
genitivi di specificazione (dati pignoris
neque numeratae pecuniae).
[87]
Così la dottrina dominante citata da W. Litewski,‘Non numerata pecunia’, cit., 418, nt. 116, il quale
tuttavia non se ne mostra sicuro.
[88]
Orientato nel secondo senso è W.
Litewski, ‘Non numerata
pecunia’, cit., 418, con citazioni conformi di fonti bizantine e
contrarie di letteratura alle nntt. rispettivamente 109 e 110.
[89]
Cfr. W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., 418, con citazioni di fonti bizantine e di letteratura rispettivamente
alle nntt. 113 e 114.
[92]
Cfr. W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., 419 e nt. 121 con citazioni di fonti bizantine e dottrina.
[93]
Cfr. W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., 418 s., con citazioni di dottrina e fonti bizantine.
[94]
Vedine una rassegna critica in W.
Litewski, ‘Non numerata
pecunia’, cit., 422, con ampie citazioni di dottrina. In ogni caso
non vi sarebbe ragione per non applicare anche al processo formulare,
altrochè alla cognitio extra
ordinem, il nuovo principio in tema di spettanza dell’onere della
prova, affermato nel rescritto.
[95]
Cfr. W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., 419 s., con ampia citazione di letteratura (cui adde G. Sacconi, Ricerche, cit., 52 s.).
[96]
Ritiene possibile, contro l’opinione comune, che pure qui come in D.
44.4.4.16 l’exceptio non numeratae
pecuniae conservi ancora carattere sussidiario rispetto all’exceptio doli W. Litewski, ‘Non
numerata pecunia’, cit., 420, al quale rinviamo in generale (a p. 420
s.) anche per le citazioni di fonti bizantine e di letteratura, specie per
quanto concerne la critica ai sospetti di non genuinità di volta in
volta avanzati in dottrina in ordine all’una o all’altra delle due
eccezioni.
[97]
Cfr. sul testo W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., 422 s., con citazioni di dottrina e di fonti bizantine.
[98]
Sui quali, anche per i vari problemi in essi implicati, cfr. W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’, cit., 423 ss.
[99]
Cfr. sul rescritto di Alessandro Severo, in generale, ancora W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’, cit., 427 ss. (con autori ivi
citati, ai quali adde A.M. Busca, Ancora in tema di ‘exceptio n. n. p.’, in SDHI, LI, 1985, 485 ss.), che lo
ritiene non necessariamente riferibile a processo di cognitio.
[103]
Anche secondo le congetture palingenetiche di Krüger, sulle quali cfr. M.
Brutti, La problematica, cit., II,
723 s., nt. 154.
[104]
Riporterebbe l’origine dell’exceptio
non numeratae pecuniae ad intervento pretorio, tra il I ed il II secolo d.
C. quale alternativa all’exceptio
doli, allo scopo di farne ricadere l’onere di prova della numerata pecunia sul creditore, il che
non risulta peraltro, come già visto
supra, prima del rescritto di Caracalla dell’a. 215 (C. 4.30.39, A.M. Busca, Ancora in tema, cit., 482 s. e 489.
[105]
Cfr. W. Litewski, ‘Non numerata pecunia’,
cit., 448 ss., anche con riguardo al caso di
cautiones non stipulatorie, che nel processo formulare non avrebbero
richiesto l’opposizione di una
exceptio (diversamente, per il ricorso all’exceptio non numeratae pecuniae nell’ambito del processo
formulare anche in ipotesi di cautiones
non stipulatorie, v. ancora G. Sacconi, Ricerche, cit., 60, nt. 99 e 65 ss.).
[107]
Sulle exceptiones in factum (anche in
rapporto alle exceptiones utiles)
come eccezioni non previste nell’editto e concesse discrezionalmente in
casi concreti dal pretore mediante decreto, v. per tutti M. Brutti, La problematica, cit., II, 715, nt. 138, G.
Sacconi, Ricerche, cit., 56,
nt. 93, G. Wesener,
Nichtediktale Einreden, cit., in specie 148 s., U. Elsener, Les
racines, cit., 63, nt. 141 e L.
Pellecchi, La
‘praescriptio’. Processo, diritto sostanziale e modelli espositivi,
Padova, 2003, 131, nt. 66.
[108]
Cfr. soprattutto M. Brutti, La problematica, cit., II, 712 ss. e
720 ss., che pur critica, in particolare, il
generaliter iniziale (col quale, nel passare dall’exceptio pacti,di cui si tratta alla
fine del precedente § 4, alle
exceptiones in factum, parrebbe ricomprendersi la prima nelle seconde),
l’indistinto riferimento a quaeque
exceptio (oltre l’ambito delle
exceptiones in factum in discorso), la genericità
dell’espressione inter initia
(che non si sa se riferita agli inizi del rapporto sostanziale o processuale),
il richiamo ad una ignorantia
esclusiva del dolo (la quale non potrebbe sussistere in relazione ai fatti
addotti dal convenuto, stante il contraddittorio cui si addiveniva nella fase in iure del processo formulare), da
ultimo la sfasatura del discorso imperniato sulle exceptiones in factum rispetto al successivo § 6 (nel quale
si torna a parlare di exceptio pacti e
sul quale v. A. Wacke, Zur Lehre,
cit., 257 s.), finendo per riconoscere nel § 5 una digressione originata,
nell’ambito della trattazione dell’exceptio pacti che continua nel § 6, dall’aver
ricordato, al termine del precedente § 4, la alternativa con questa
dell’exceptio doli. Lo segue
sostanzialmente G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., 146 s.,
salvo rilevare anche il carattere inusuale dell’espressione oriri di una eccezione da altra. A sua
volta U. Elsener, Les racines, cit., 63 e 104 ss.,
ipotizzando la caduta di un passaggio intermedio tra il § 4 ed il §
5, ricostruisce l’iter logico
seguito da Ulpiano nel senso che l’exceptio
doli ricomprenderebbe, come talune eccezioni edittali quale l’exceptio pacti, così anche tutte
le eccezioni in factum e più
in generale tutte le eccezioni.
[111]
V. M. Brutti, La problematica, cit., II, 723 ss. e U. Elsener, Les
racines, cit., 106, nt. 225.
[113]
Cfr. M. Brutti, La problematica, cit., II, 626, nt. 3 e
G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., 117 s. (con citazioni di
letteratura).
[114]
Così G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., 122 s. e
autori ivi citati. Diversamente G.
MacCormack,‘Dolus’ in
Decisions, cit., 99 s., seguendo Lenel, considera insiticio nel testo
l’inciso fideiussioni competente,
ritenendo che nell’originale il debitore avesse opposto al creditore
un’eccezione attinente alla sua obbligazione principale, alla quale
sarebbe stato opponibile il fatto che egli abbia nel frattempo assunto la veste
di successore universale (in qualità di bonorum emptor o di erede) del fideiussore.
[115]
Sul testo v. P. Voci, Le obbligazioni romane (Corso di Pandette).
Il contenuto dell’obligatio, I, 1, Milano, 1969, 187 s., G. Sacconi, Ricerche, cit., 58, nt. 96 e 125 s. e G. Wesener,
Nichtediktale Einreden, cit., 129 s., con autori ivi citati.
[116]
Sul testo cfr. G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., 131 e
autori ivi citati. L’assenza di novazione si ritiene comunemente dovuta
alla mancanza del requisito dell’idem
debitum: ove tuttavia si seguisse l’opinione ultimamente sostenuta da
P. Lambrini, La novazione, cit., che tale requisito non fosse richiesto dai
classici, dovrebbe diversamente giustificarsi il persistere della originaria
obbligazione del delegato, sulla base del carattere personale
dell’obbligo di dare l’usufrutto, in funzione della persona del
delegante creditore e pertanto non trasferibile in alcun modo a favore di
altri.
[117]
Sul testo cfr. G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., 132 e M. Magagna,I patti dotali, cit., 40, nt. 58, con gli autori da loro citati.