N. 5 – 2006 – Monografie

 

 

Cap. II della monografia: O. Sacchi, Regime della terra e imposizione fondiaria nell’età dei Gracchi. Testo e commento storico della legge agraria del 111 a.C., [Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della Seconda Università di Napoli. Sezione Monografie, XXIX] Napoli, Jovene Editore, 2006. Indice Sommario

 

 

 

Osvaldo Sacchi

Seconda Università di Napoli

 

La normativa sul regime fondiario dei possedimenti in Italia. Terra dichiarata privata in conseguenza dell’attività graccana, tipologia di terreni e regime del possesso privato

(commento alle linee 1-10)

 

 

Sommario: 1. Le linee 1-10: descrizione e precisazioni di ordine terminologico/lessicale. – 2. La nozione di ager publicus populi Romani. – 3. Dalla nozione augurale di ‘ager’ alla nozione laica di ‘ager privatus’. – 4. Etimologia, valore giuridico e affermazione del concetto politico di terra Italia. – 5. Le formule ager-locus, ager-locus-aedificium: ‘ager non est terra.6. La clausola quod non modus maior siet e la nozione di vetus possessor: commento alla linea 2 (ma anche 13, 16, 17 e 21). – 7. L’attività delle commissioni agrarie graccane: commento alle linee 3, 4 e 5.8. Il sistema di assegnazione viritano e delle colonie: il modus agri. – 9. La dissoluzione del modus agri. – 10. Dall’alienazione di una quota al trasferimento di un bene specifico. – 11. Il riferimento a urbs, oppidum e vicus nella linea 5. – 12. Le clausole di eccezione ‘extra eum agrum’ e ‘exceptum cavitumve est nei divideretur’ delle linee 4 e 6 relative ai possedimenti assegnati in base alla legislazione agraria di Caio Gracco del 122 a.C.13. Lo status giuridico dell’ager Campanus all’epoca della legge agraria. – 14. I terreni e i possedimenti iscritti in formas tabulasve: commento alla linea 7. – 15. La nozione di ager privatus della linea 8. – 16. La formula agri publici privatique. – 17. La nozione di uti frui habere possidere nella lex agraria del 111 a.C. – 18. La possessio di beni immobili in Cicerone. – 19. Dalla possessio dell’ager publicus al dominium quiritario. 20. Un’ipotesi sull’emersione dell’idea di dominium nei giuristi dell’età cesariana. – Conclusione.

 

 

1. – Le linee 1-10: descrizione e precisazioni di ordine terminologico/lessicale

 

La sezione dedicata ai possedimenti in territorio italico, che rappresenta anche in senso quantitativo la parte più importante di tale legge, comincia con la descrizione di un elenco di categorie di terreni (linee 1-7) che avevano costituito l’oggetto della regolamentazione di Tiberio Gracco nel 133 a.C. (lex Sempronia agraria), fatta eccezione per i terreni esclusi dalla divisione di Caio Gracco[1].

La legge poi incarica i censori di iscrivere nei pubblici registri (censuique censendo) tutte le categorie di cespiti da questi precedentemente elencate (linee 7-8) e poi statuisce nel senso di assicurare il godimento ai possessori individuati e di garantire tale godimento contro ogni azione di magistrati, senato o chiunque altri (linee 9-10). Determinando quindi delle clausole di protezione.

In questa parte il legislatore si occupa dei seguenti tipi di possedimenti: i terreni che i veteres possessores avevano acquisito in base alla legislazione di Tiberio Gracco (a]grum locum sumpsit reliquitve) e che all’epoca di questa legge erano nei limiti quantitativi posti dal tribuno (linee 1-2). Poi le assegnazioni successive effettuate dalle commissioni agrarie (IIIvir sortitio ceivi Romano), secondo leggi o plebisciti (quoieique de eo agro loco ex lege plebeive sc[ito), entro determinati limiti (quod non modus maior siet) (linee 2-3)[2]. Inoltre, alcune categorie di terreni individuate come possedimenti avuti a titolo di scambio (commutati) (linee 3-4). Ancora, lotti di terreno costituenti l’oggetto delle assegnazioni delle commissioni agrarie graccane in città o villaggi (in urbe, oppido, vico) fuori di Roma (quod eius extra urbem Romam est) (linee 4-5). Infine, le assegnazioni di edifici o di cantieri edilizi (ager locus aedificium) fatte, delle commissioni agrarie rinvenibili nei pubblici registri (IIIvir dedit adsignavit reliquit inve formas tabulasve), ai vecchi o a nuovi possessori (omnis quei supra scriptu[s) (linee 6-7).

Le prime dieci linee offrono spunti di riflessione molto interessanti. Vengono in evidenza anzitutto le nozioni di ager publicus populi Romani[3] e di terra Italia[4]. Segue l’impiego dell’endiadi ager(/agrum) locus e della formula tripla ager(/agrum) locus aedificium per designare i possedimenti fondiari. La clausola quod non modus maior siet è un altro inciso chiaramente leggibile nel tratto epigrafico della linea 2 (quod non modus maior siet, quam quantum unum hominem ex lege plebeive scito sibei sumer[e relinquereve licuit) ed è da riferire alla legislazione di Tiberio Gracco del 133 a.C.[5].

C’è poi anche una clausola di esenzione relativa ai possedimenti assegnati in base alla legislazione agraria di Caio Gracco quale si evince dal combinato disposto delle norme di cui alla linea 4 (reso con la clausola extra eum agrum) e alla linea 6, resa con la formula: lege plebive scito, quod C. Sempronius Ti. f. tr. pl. rogavit, exceptum cavitumve est nei divideretur.

Rileva poi, come abbiamo visto, un articolato riferimento all’attività delle commissioni agrarie graccane sotto vari profili. Il regime delle terre assegnate in lotti ai cittadini romani (linee 2-3); quello delle terre date in regime di scambio (linee 3-4); ovvero di quelle site in città o villaggi (linee 4-5). Viene regolamentato anche il regime delle porzioni di terreno comprensive di edifici o di cantieri in costruzione (linee 6-7). La qualificazione dello status giuridico dei cespiti fondiari privati individuati da tale legge si contrappone quindi in modo netto a quella dei cespiti definibili pubblici, perché questi sono stati dichiarati ager publicus populi Romani prima ancora che nella dogmatica giuridica comparisse la nozione di dominium ex iure Quiritium (linee 7-10)[6].

Più in dettaglio vedremo che la legge apre con un’indicazione di status dei possedimenti dichiarati ager publicus populi Romani nel 133 a.C.

Alla linea 8 tutti i possedimenti elencati vengono dichiarati privati. In base alla linea 19, inoltre, si arguisce che una precedente legge potrebbe aver già dichiarato alcune categorie di terreni ager privatus. In base alle linee 16-17 si deduce che le assegnazioni graccane ai nuovi assegnatari sarebbero state gravate da una clausola di non alienazione, pur venendo considerate agri privati. Vedremo meglio questi aspetti nella parte dedicata al commento delle linee 11-24. Ad ogni modo, è possibile che i possedimenti dei veteres possessores fossero stati già dichiarati ager privatus da una legge precedente, e che la legge agraria de qua sia intervenuta per chiarire una situazione evidentemente diventata confusa[7].

Un’ultima considerazione riguarda il riferimento ai censori della linea 8. Questo potrebbe significare che le categorie di possedimenti fondiari dichiarati privati ed elencati in questa parte della legge riguardino esclusivamente i cittadini Romani (linea 3: ceivi Romano dedit adsignavit). A differenza di quanto invece accade nel secondo capitolo dove vedremo che il legislatore alle linee 20-22 si occupa probabilmente dei possedimenti di soggetti privi della cittadinanza romana[8].

 

2. – La nozione di ager publicus populi Romani

 

Appena dopo la praescriptio, in apertura al testo di legge[9], si leggono abbastanza chiaramente alla linea 1 le seguenti parole: quei ager poplicus populi Romanei in terram Italiam P. Muucio L. Calpur[nio cos. fuit.

Viene subito enunciata la formula ager poplicus populi Romani in terram Italiam che sarà uno dei referenti principali dell’intero disposto normativo[10]. Nella parte dedicata alle terre comprese in territorio italico, tale formula descrittiva/qualificativa compare infatti sistematicamente (linee: 1, 4, 5, 13, 15, 21, 22, 27, 29, 33).

Per analizzare al meglio tale formula normativa ho scelto di procedere separando i vari termini della formula epigrafica cominciando dal doppio sintagma ager publicus populi Romani[11].

Il dato che mi pare significativo e che ritengo debba essere sottolineato fin d’ora è che in questo contesto la formula ager publicus sembra essere usata dal legislatore in modo tecnico proprio ad indicare l’appartenenza della terra alla res publica romana.

Alla nozione di ager publicus populi Romani e ai conseguenziali profili di rilievo storico, politico e giuridico di tale qualificazione ho già dedicato alcune pagine di approfondimento in altra sede[12].

Un aspetto certamente di grande interesse posto dalla legge che stiamo commentando, concerne tuttavia la possibilità di valutare in modo separato le due espressioni ager poplicus e populi Romani. Mi pare giustificata infatti un’ipotesi di lavoro che parta dall’idea che l’uso congiunto, ripetuto e contestuale, di tali espressioni [(ager) publicus/populi (Romani)] in un ambito tecnico possa essere valutato come indice di un diverso impiego semantico delle parole. Forse, di per sé stesso, rivelatore di una storia dei concetti sottesi alle parole stesse ed ai loro significati. In altri termini penso che il legislatore del 111 a.C. non abbia usato le forme poplicus e populus come sinonimi e che le ragioni di questo fatto possono essere indagate in chiave etimologica.

Punto di partenza può essere la legislazione agraria di Tiberio Gracco del 133 a.C. quale momento di riferimento (dies a quo) per l’affermazione nel linguaggio giuridico del legislatore romano di una nozione di ager publicus. Al contrario, l’idea di una nozione di ager publicus quale connotazione originaria dello spazio territoriale della più antica comunità cittadina ritengo sia un topos dottrinario non più insuperabile.

A parte il pregiudizio, diventato tralaticio nella speculazione degli storici dell’antichità e del diritto romano moderni, derivante dalla tesi di Mommsen[13] su un’equivalenza ‘Stato/popolo’, rimessa in discussione da studiosi successivi[14], ma tutto sommato quasi mai disapplicata, e naturalmente condizionata dall’idea hegeliana di uno ‘Stato di diritto’ come ente metastorico[15], ho già discusso le argomentazioni di carattere storico/giuridico che farebbero pensare ad una comparsa tarda (come consapevolezza qualificante) del concetto di ager publicus (inteso come effettività storico/giuridica) nel lessico istituzionale di Roma repubblicana. In senso storico non penso che si possa parlare correttamente (e propriamente) di ager publicus populi Romani prima dell’età graccana[16]. Qualsiasi anticipazione in tal senso sarebbe da dimostrare con dati di fonti attendibili alla mano[17]. Sciogliendo il significato etimologico di ciascun elemento costitutivo di questa formula, la cui giuridicità ovviamente è data in primo luogo dal contesto (un testo giuridico), si comprendono le ragioni storiche di tale affermazione.

A parte quanto già esposto in altra sede basti ribadire che, fatta eccezione per una notizia di Nonio relativa all’annalista Cassio Emina (come è noto di una generazione successiva a Catone), tutti gli scrittori antichi che parlano di ager publicus sono di età posteriore ai Gracchi[18]. Le indicazioni di Livio e Dionigi potrebbero quindi aver risentito sensibilmente dell’influenza di fonti dell’età graccana o di fonti che sono a questa immediatamente successiva.

Ad ogni buon conto, l’espressione ager publicus, o suoi equivalenti, compare in modo storicamente plausibile in fonti non anteriori dell’età annibalica. Testimonianze di natura letteraria consentono, è vero, di estendere il discorso sino all’età di Catone, ma a parte la contiguità cronologica, inequivocabili attestazioni epigrafiche fanno riferimento in modo costante sempre e soltanto all’età dei Gracchi. La stessa nozione di ager occupatorius(/occupaticius) [un’alternativa possibile almeno per spiegare la natura dei territori conquistati al nemico a partire dall’epoca in cui Roma (ossia il populus=l’esercito[19]) comincerà la sua espansione verso l’Italia: cioè dalla presa di Veio del 396 a.C.] sembra essere attestata da fonti attendibili non prima dell’età annibalica[20].

Non che l’ordinamento romano non contemplasse dei sistemi di qualificazione del territorio, ma il problema veniva risolto a livello sacrale con il sistema dei genera agrorum augurali di cui ci dà notizia Varrone nel cui elenco, neanche a dirlo, non figura la categoria di ager publicus. Del resto, non va dimenticato che nelle competenze dell’agrimensore antico vi era anche la consultazione degli auspici, che comprendeva anche la brontoscopica e l’ornitomantica[21]. Il fatto poi che dietro al rituale sacerdotale ci fosse l’aspetto molto pregnante dell’obbligo di pagare all’erario il prezzo dei sacrifici (piacula), secondo quanto attesta Gaio nel passo molto conosciuto dedicato alla legis actio per pignoris capionem, fa capire quale può essere stata la ragione di una così forte e radicata sopravvivenza dei riti sacerdotali fino ad età classica inoltrata[22]. La stessa nozione di ager privatus optuma lege che è contemplata dalla legge che stiamo commentando alla linea 28 (su cui ritorneremo nel terzo capitolo), se esprime un concetto analogo a quello espresso dalle fonti per indicare civitas optuma lege come una forma di cittadinanza esente da pesi di natura fiscale o sacrale, lascerebbe spazio per intendere anche una categoria di terreni esenti da pesi di ogni genere. Se vogliamo una sorta di laicizzazione anche questa. Ma questo è un tutto un altro discorso che sarà ripreso più avanti.

Guardando però soltanto un po’ più da vicino la teoria dei genera agrorum di Varrone (l.L. 5.5.33) possiamo facilmente renderci conto di come, in fondo, la ripartizione delle cinque categorie di ager rifletta in sé le tracce di un’evoluzione storica.

A parte la questione dell’ager Gabinus, che è comunque legata ad un’idea di spazio molto risalente, il primo confine ideologico ad essere superato nella mentalità dei Romani fu molto probabilmente quello (corrispondente alla nozione spaziale) di ager Romanus. Dalle nozioni di ager Romanus e Gabinus si passerà in seguito gradatamente a quelle di ager peregrinus (prima), di ager hosticus (poi), e di ager incertus (infine)[23].        La nozione di ager publicus affermatasi in età graccana, sembra avere invece origini diverse. Nel secolo degli Scipioni[24], la felice commistione di elementi culturali di matrice greca e italica aggregatasi intorno al gruppo di intellettuali gravitanti intorno a questa grande famiglia romana può forse aver determinato il gran salto di qualità per Roma che, da città egemone (prima) regionale (Lazio), e poi interregionale (penisola italica), diventò nel corso di due/tre generazioni una potenza mediterranea.

Il sintagma populi Romani esprime quindi una nozione diversa. È una categoria politico istituzionale che pare già intimamente legata alla nozione di res publica. Come è noto, questa nozione appare compiutamente teorizzata in Cicerone, ma non è difficile cogliere in essa l’influenza di pensiero delle argomentazioni degli intellettuali del Circolo degli Scipioni (de re p. 1.25.39: ‘Est igitur’, inquit Africanus, ‘res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus’). Essa sembra effettivamente una locuzione appartenente in modo più proprio alla cultura politico giuridica dell’età dei Gracchi[25].

La tradizione riporta che la Politica di Aristotele sarebbe apparsa a Roma non prima dell’inizio del primo secolo a.C. quando Silla portò a Roma nell’86 a.C. le opere del grande filosofo greco che il mercante bibliofilo ateniese Apellicone aveva a sua volta acquistato a Scepsi[26]. Ragionando solo in base a questo dato si potrebbe anche pensare che la nozione di res publica, che Cicerone, come abbiamo visto, attribuisce a Scipione Africano Minore[27], sia assolutamente priva di ogni influenza aristotelica, ma va anche considerato che il distruttore di Cartagine e Numanzia, figlio di L. Emilio Paolo, che fu a sua volta adottato dal figlio del vincitore di Annibale (l’Africano Maggiore), ricevette un’educazione alla greca e che quindi questi potrebbe aver mutuato le basi culturali per la definizione ciceroniana proprio in tali ambienti, al di là della risaputa amicizia di questi con lo storico Polibio[28].

Ma ritorniamo al testo della legge agraria del 111 a.C. Come si rileva nella parte del testo di cui ci stiamo occupando, strettamente legata alla nozione di ager publicus è la nozione di populus, almeno nel senso di publicus come di ‘ciò che è pubblico’, ossia del popolo. Evito di prendere in considerazione i riferimenti di fonti come Livio, Gellio e lo stesso CIL. all’espressione populus Romanus Quirites o populus Romanus Quiritium perché anche se riferite a varie formule di diritto divino (queste certamente antichissime) resta il sospetto che tali fonti restituiscano la realtà del loro tempo proiettata ad epoca più risalente[29].

Altrove[30] ho espresso dei dubbi anche in ordine all’attribuibilità ad epoca particolarmente risalente dell’indicazione (populo Romano Quiritibus reique publicae populi Romani Quiritium) rilevabile nel noto passo di Varrone relativo alle Tabulae Censoriae ed ai Commentaria Consularia a proposito delle convocazioni dei cittadini alle assemblee di questi magistrati[31].

In ogni modo, fermo restando quanto ho esposto altrove sull’uso di populus nelle fonti più antiche[32], adesso mi interessava definire il senso del sintagma ager publicus per chiarire ciò che potrebbe aver voluto intendere il legislatore del 111 a.C. usando queste parole[33].

Anzitutto, ritengo si debba riconoscere al vocabolo ager un significato prevalentemente economico[34]. Secondo Varrone (l.L. 5.6.34) il sostantivo ager avrebbe il significato di ‘territorio da sfruttare economicamente’: ager dictus in quam terram quid agebant, et unde quid agebant fructus causa. Evidentemente la nozione di ‘ager’ per la mentalità romana[35] – a differenza di quanto lo stesso Varrone lascia intendere per il valore semantico del corrispondente greco di tale vocabolo: ali<i> quod id Graeci dicunt ¢grÒ<n>. Ut ager quo[d] agi poterat, sic qua agi actus –, non era un concetto meramente geografico, ma rispondeva a delle esigenze pratiche. Non vedo quindi particolari motivi per non interpretare il vocabolo ‘ager’ impiegato nella legge che stiamo commentando alla stregua dell’indicazione varroniana dato che il legislatore del 111 a.C. procede ad una regolamentazione dello status giuridico dei possedimenti sotto il controllo romano proprio in chiave economica. Del resto, non è di ostacolo in tal senso l’indicazione che viene da Isidoro che a sua volta si rifà esplicitamente a Varrone[36].

In secondo luogo, va considerato che etimologicamente il vocabolo poploe potrebbe derivare dall’etrusco puple nel significato di ‘atto alle armi’. Come spiega Carlo Battisti la differenza tra publicus e populus sarebbe da considerare una prerogativa endolatina[37]. In effetti il concetto espresso in latino con populus non pare corrispondere all’indoeuropeo teuta, ma piuttosto provenire da un termine di origine militare[38] rispecchiando, forse, lo ‘stato’: “in quanto esercito nella sua fase di ordinamento centuriato”[39]. In questo modo si può dire che gli studiosi di linguistica considerino ormai da più di mezzo secolo un dato acquisito riconoscere in pop(u)lus un prestito etrusco[40].

L’indicazione del doppio sintagma insieme alla nozione di terra Italia dimostra tuttavia quale fosse l’idea di territorio come espressione del dominio conquistato per la classe dirigente romana verso l’ultimo scorcio del secondo secolo a.C.

Spostando il discorso sul piano politico istituzionale credo che l’attestazione epigrafica della compresenza (come uso congiunto) del sintagma ager publicus con quello di terra Italia nel linguaggio giuridico di una lex della res publica, come stiamo riscontrando per la lex agraria del 111 sia la prova migliore che alla fine del secondo secolo a.C. il processo di formazione dell’autoconsapevolezza nella classe dirigente romana di aver acquistato una dimensione imperialistica si era compiuto. Forse fu questo uno dei lasciti più significativi del formidabile ‘secolo degli Scipioni’ al costituendo impero romano. La formula lessicale usata in questa legge quei ager poplicus populi Romanei in terra Italia contempla in una sola espressione ciascuno dei vari elementi che abbiamo visto comparire nelle fonti in un arco temporale che spazia dall’età di Catone, all’immediata epoca postgraccana. Segno che ormai il processo si era compiuto.

 

3. – Dalla nozione augurale di ‘ager’ alla nozione laica di ‘ager privatus’

 

In due occasioni diverse ho approfondito il discorso del passaggio da una nozione augurale di ‘ager’ alla nozione di ‘ager publicus populi Romani[41].

Lo scopo era di dimostrare che il 211 e il 111 a.C. possono essere presi come i due termini ideali di questo passaggio. Nel 211 l’ager Campanus era ancora un territorio straniero e ostile e la fictio di ager Romanus del console Crispino nel 208 a.C. lo dimostra in modo evidente[42]. Così come la consecratio del campus Stellatis ad opera di un Servilio augure[43]. Questo vuol dire anche che nell’ultimo scorcio del III sec. a.C. il rapporto tra territorio conquistato e res publica veniva interpretato ancora all’antica, ossia veniva gestito in chiave ‘sacrale’.

La cosa non deve sorprendere. Come spiega Dario Sabbatucci, in un saggio molto denso di suggestioni, nella interpretazione dei giurisiti antichi l’aggettivo ‘sacer’ conteneva in sé anche il significato di ‘publicus[44]. In D. 1.8.6 (Marc. 3 inst.) leggiamo: Sacrae autem res sunt hae, quae publice consecratae sunt, non privatae. E ancora in D. 1.8.9 pr. (Ulp. 68 ad ed.): Sacra loca ea sunt quae publicae sunt dedicatae.

Attraverso Gaio comprendiamo anche quale può essere il significato del ‘publice usato da Marciano: Gai. 2.5: Sed sacrum quidem hoc solum existimatur quod ex auctoritate populi Romani consecratum est, veluti lege de ea re lata aut senatusconsulto facto. Mi pare sia questo il quadro di riferimento normativo e giuridico cui fare riferimento per descrivere la natura dei provvedimenti emanati dal Senato romano in occasione della debellatio del 211 a.C. di Capua. Una realtà che si potrebbe considerare ancora attuale circa mezzo secolo più tardi in occasione della distruzione di Cartagine e Corinto nel 146 a.C.

Il principio dell’identificazione tra sacrum e publicum, tipico della cultura augurale potrebbe essere riconosciuto come effettivo anche nella lex del 111 a.C. Pensando che nella legge del 111 fossero ancora applicate le regole augurali, in base alle quali ogni territorio che si poteva considerare preda bellica si sarebbe potuto definire, se non già ager Romanus, forse non ‘hostilis’, ma probabilmente ‘peregrinus’ o, tutt’al più ‘incertus’. Nel nostro caso credo che in base a Fest. sv. Peregrinus ager (L. 284, 17): Peregrinus ager est, qui neque Romanus, neque áhostiliusñ habetur si possa parlare ancora di ager peregrinus. Del resto si vedrà nel corso del commento a questa legge come in tale testo normativo si faccia specifico riferimento a figure di non Romani come i Latini, i peregrini e i non italici ed anche a realtà territoriali ancora del tutto estranee al mondo romano.

È del tutto lecito quindi pensare che i Romani nel disciplinare le norme della legge del 111 abbiano agito in uno spazio che non deve essere considerato propriamento quello dello ius civile in senso stretto. Una conferma indiretta viene da Isidoro che definisce lo ius gentium in questo modo: etym. 5.6.1: Ius gentium est sedium occupatio, aedificatio, munitio, bella, captivitates, servitutes, postliminia, foedera, pacis, indutiae, legatorum non violandorum religio, conubia inter alienigenas prohibita. Et inde ius gentium, quia eo iure omnes fere gentes utuntur. Come si vede l’erudito dell’epoca giustinianea include nel novero delle fattispecie iuris gentium anche l’occupatio e l’aedificatio[45]. Colpisce la presenza in questo catalogo di riferimenti come questi che potrebbero collegarsi direttamente all’occupatio dell’ager publicus e alla disciplina degli aedificia contemplata, come vedremo diffusamente nella legge del 111[46].

Si chiarisce quindi attraverso questo percorso tortuoso lo spazio di operatività entro cui può essersi mosso il legislatore del 111. Usando la doppia endiadi ager publicus populi Romani esso non si discosta dall’ortodossia giuridica perché abbiamo visto secondo Gaio e Marciano che, ancora quasi tre secoli più tardi, è sacrum(=‘publicum’) anche ciò che viene consacrato per autorità del popolo romano (quod ex auctoritate populi Romani consecratum est) con legge o senatoconsulto (veluti lege de ea re lata aut senatusconsulto facto). Si comprende però come può essersi perfezionato il processo di acquisizione dei territori conquistati gradatamente dalla res publica nei secoli centrali dell’età repubblicana. Una giusta commistione tra pieno rispetto delle regole giuridiche tradizionali e apertura verso una progressiva ‘laicizzazione’ (nel rapporto tra Roma e territorio) delle regole più antiche che nella legge del 111 trova il suo compimento.

La categoria di ‘ager privatus’ è forse la conseguenza più vistosa di questa sinergia tra il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’ in un quadro storico di profondo mutamento. L’ager privatus nel disposto normativo della legge del 111 appare come una categoria nuova (non nuovissima perché essa appartiene già al lessico di Catone) perché non rientra nell’elenco dei genera agrorum augurale ed è, per questa stessa ragione, una categoria ‘laica’ rispetto allo stesso ‘ager publicus’ che resta pur sempre permeato di una confluenza tra sacer e publicus nel senso appena prospettato (ager publicus populi Romani). L’ager privatus per essere tale non ha più bisogno di una consecratio deorum (come fu per il campus Stellatis e in negativo per i territori di Cartagine e Corinto), ma come dimostra la lex del 111, per trovare una sua ragione di essere nel contesto ordinamentale della res publica è sufficiente che una legge un plebiscito o un’altra fonte normativa equipollente lo qualifichino come tale. Sulle implicazioni di carattere più specifico in ordine alla categoria del dominium ex iure Quiritium torneremo più avanti[47].

 

 

4. – Etimologia, valore giuridico e affermazione del concetto politico di terra Italia

Etimologia

 

Ritorniamo al commento della legge del 111 a.C. Sempre alla linea 1 si legge una chiara indicazione del sintagma terra Italia. Questo riferimento si completa con il combinato disposto delle linee 21: quei in eo agro loc[o civis] Romanus sociumve nominisve Latini, quibus ex formula togatorum[milites in terra Italia inperare solent; e 50 …socium nominisve Latini, quibus ex formula t]ogatorum milites in terra Italia inperare solent da cui si evince chiaramente quale fosse l’idea di italici per il legislatore del 111 a.C.

Gli abitanti della penisola italiana erano anzitutto i cittadini romani e i loro alleati; oppure i latini. Tutti erano soggetti alla consuetudine di fornire soldati secondo la formula dei togati in terra italica: Romanus sociumve nominisve Latini, quibus ex formula togatorum[milites in terra Italia inperare solent[48].

Procediamo con ordine cominciando dall’etimologia dello stesso toponimo Italia.

Il racconto mitografico, ossia la mitopoiesi di tale termine, può cominciare con i famosissimi versi di Virgilio che descrivono Acate che per primo tra i marinai di Enea scorse l’Italia dal mare: Verg. Aen. 3.521: Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis,/ cum procul obscuros collis humilemque videmus/ Italiam. Italiam primus conclamat Achates,/ Italiam laeto socii clamore salutant.

Molto interessante (e altrettanto antica) è tuttavia la discussione sull’etimologia di questo appellativo. È noto il mito che spiega il nome Italia come la ‘terra dei vitelli’. Si tratta di una tradizione assai risalente facente capo ad Ellanico di Lesbo (vissuto nel V secolo a.C.) che riferisce di una favola antica raccontata da Ercole che attraversando l’Italia per portare in Grecia le mandrie tolte a Gerione (nel corso di una delle dodici mitiche fatiche), avrebbe perso un vitello. Nel cercarlo, il figlio di Alcmena e Zeus avrebbe appreso che il nome di quest’animale nella lingua indigena era vitulus. Di qui il nome dell’intera regione.

Grazie a Dionigi di Alicarnasso (che sembra tuttavia propendere per la versione eponimica), abbiamo un resoconto abbastaza dettagliato di tale filone mitologico[49]. Anche Tucidide (1.97) manifesta serie perplessità sull’esattezza del sistema cronologico di Ellanico di Lesbo ed inoltre, la versione eponimica riferita a sua volta anche da Antioco di Siracusa (FGH. 555 F5) ed Aristotele che vorrebbe il nome Italia derivare dal principe enotrio Italo[50], smentisce lo scrittore di Mitilene[51].

Effettivamente non hanno torto coloro che manifestano dei dubbi sul fatto che il toponimo Italia possa essere scientificamente spiegato ricorrendo soltanto alle paretimologie delle fonti appena ricordate. Già foneticamente Giovanni Semerano ha notato da ultimo che la i- di vitulus, è breve mentre quella di Italia è lunga. Effettivamente la scomparsa della V- iniziale torna effettivamente nella leggenda Viteliu delle monete osche battute durante la guerra sociale con il disegno del toro[52], laddove è chiara l’influenza di un’interferenza fonetica dei Greci dell’Italia meridionale[53], ed è altrettanto immediato il richiamo alla teofania taurina di Marte che coinvolge appunto gli Itali, qualche dubbio resta sulla possibilità di spiegare nel modo prospettato dalle fonti citate l’etimologia del termine Italia.

Come superare l’impasse? Proviamo a tirare le fila del discorso. Da tutta la congerie di spiegazioni sin qui raccolte si rileva anzitutto un filone etimologico di matrice sacrale che vorrebbe tale nome come ‘regione in cui esiste la vita’. Come dice lo pseudo Servio: alii Italiam a bubus quibus est Italia fertilis, ma in questo quadro si potrebbe porre anche la base giustificativa della paretimologia gelliana (terram Italiam de Graeco vocabulo appellatam scripserunt, quoniam boves Graeca vetere lingua ÞtaloÛ vocitati sint, quorum in Italia magna copia fuerit, bucetaque in ea terra gigni pascique solita conplurima).

In ogni caso il filone mitologico è molto nutrito. Abbiamo visto la versione che vorrebbe Italia come un derivato dal re augure dei Siculi Italus. Ma c’è la paretimologia greca legata al mito di Eracle e poi la preziosa testimonianza del commentatore di Servio (daniel) che dimostra quanto numerose siano le versioni del filone eziologico fondato sul meccanismo dell’eponimia: alii a rege Ligurum Italo, alii ab advena Molossio; alii a Corcyreo; alii a Veneris filio, rege Lucanorum; alii a quodam augure, qui cum Siculis in haec loca venerit quamque his regionem inauguraverit; plures atare tenari nepote desatura Minois. regis Cretensium, filia Italiam dictam. Una terza opzione, infine, da alcuni ritenuta di maggiore spessore scientifico e che è stata definita storico-filologica, vuole il nome Italia derivato dall’osco Víteliú=‘terra dei (guerrieri) vitelli’[54].

Un tratto che accomuna tutte queste versioni è il contesto sacrale in cui è facile riconoscere la matrice comune più risalente. Insieme ai fratres Aquilii sono ricordati all’epoca del re Tarquinio i fratres Vitelli e la gens Vitellia (Liv. 2.4.1). Una città (oppidum) dal nome Vitellia era a nord-est dei colli Albani (Liv. 2.39.4). Plinio riferisce del populus dei Vitellenses come di uno dei trenta popoli albani [n.h. 3.(9).68] e lo stesso imperatore Vitellio si vantava di discendere dalla dea Vitula che era festeggiata a Roma l’8 luglio (Suet. Vit. 1-2).

Senonché c’è da chiedersi con P. Catalano piuttosto come mai i Romani abbiano scelto di accogliere la forma grecizzata ‘Italia’ piuttosto che la versione osca Víteliú[55]. È molto interessante (anche se non risolutiva) la soluzione proposta da questo studioso per cui i Romani, scegliendo la versione greca, avrebbero conservato aspetti pregnanti del passato aggiungendovi una forza nuova[56]. La spiegazione appena prospettata, che trae origine da una giusta considerazione di K. Sittl per cui l’adozione di questo nome sarebbe stata determinata dalla diffusione a Roma della cultura della Magna Grecia nel terzo secolo a.C. e dall’educazione greca dei primi scrittori romani[57], è da condividere senz’altro. Fabio Pittore e le sue fonti dovevano conoscere probabilmente le ‘Cronache cumane’ di Iperoco e quindi dovevano conoscere i miti dell’epoca eraclea[58]. La rappresentazione iconografica del taurus che atterra la lupa durante la guerra sociale spiega poi perché i Romani non avrebbero potuto scegliere di adottare la versione osca[59].

Non sorprende quindi la notizia del tentativo di formazione in età tardo repubblicana di una comunità indipendente da Roma, con capitale Corfinium, chiamata appunto Viteliu (Italia)[60]. Sin qui si è ragionato ex post.

A questo punto vorrei cercare tracce per risalire ad un’epoca che sia anteriore alla stessa epoca eraclea. Dunque impostare un discorso ex ante.

Non è una questione facile. Anzitutto c’è da rilevare che dietro la paretimologia di stampo ellenistico c’è naturalmente il solito processo di trasposizione del mito in chiave metastorica. Insomma, dietro le ‘favolette’ dei logografi greci si può avvertire una precisa concezione geografica di Italia che non è difficile distinguere tra i vari autori. I concetti espressi con le parole ƒItlÛa, ƒItaliÅtai,ƒItalikoÛ, come ha evidenziato molto bene già Pierangelo Catalano[61], avevano infatti per i Greci un preciso valore etnico-politico, che restava limitato alla parte ellenizzata della penisola[62].

Nella stessa descrizione dionisiana (1.35) il principe enotrio che avrebbe dato il nome di Italia alla penisola lo avrebbe fatto limitandosi al territorio esteso tra il golfo di Squillace e quello di S. Eufemia. Tucidide, del resto, fa cominciare il suolo italico da Metaponto (7.33.4) ed Ecateo colloca in Italia Caulonia, Medma e Locri[63].

Ed allora, se è plausibile l’idea che i Romani abbiano adottato un concetto di Italia che potevano aver appreso dai Greci stanziati nella penisola italica (rispetto alla quale la versione osca attestata numismaticamente in forma Viteliu può essere considerata solo una variante), c’è da capire se è possibile individuare uno strato etimologico ancora più antico rispetto a questo. Certamente anteriori all’epoca eraclea sono le paretimologie di Italia che si riferiscono ai miti aborigeni eponimi come Italo, re Siculo (contemporaneo di Turno), ovvero Italo, re Ligure, o ancora, legati all’epoca saturnia di cui ancora Dionigi afferma di aver trovato tracce in età augustea nei libri sibillini (Dion. 1.34.5). Del resto sono note le allusioni in tale senso dell’Origo gentis Romanae e i riferimenti di questa alla saga virgiliana[64].

Gli esperti di archeologia linguistica sanno tuttavia che il nome più antico dell’isola d’Elba era Aithalia e questo dato certamente risale ad epoca più antica di quella eraclea. Le stesse fondazioni di Pitecusa e Cuma vanno inquadrate come presìdi Greci lungo la via del ferro verso l’occidente.

Il riferimento etimologico più risalente di Italia può essere allora il nome originario dell’isola d’Elba, Athalia, appunto. La versione latina del nome di quest’isola è Ilva, circostanza spiegabile con il dominio che vi avrebbero avuto i Liguri (Ilvates) forse prima ancora che gli Etruschi (richiamo il suggestivo riferimento di pseudo Servio al nome di un re di stirpe ligure: alii a rege Ligurum Italo) ne conquistassero il controllo. La parola greca AÞyalÛa o AÞyalÛn, ‘la fuligginosa’, è un chiaro riferimento all’attività metallurgica esercitata nell’isola. Un’attività che come suggerisce Strabone veniva poi perfezionata a Populonia, altra località etrusca su cui è dubbio se popolazioni liguri o corse abbiano esercitato un’influenza prima degli Etruschi[65].

 

Valore giuridico e affermazione del concetto politico di terra Italia

 

Altra questione, anche se intimamente connessa al problema etimologico, è quella del valore giuridico (connesso con quello dell’affermazione del significato politico) del sintagma terra Italia nel testo della legge del 111. Anche qui dobbiamo fare i conti con una storia evolutiva che è tutt’altro che scontata. Perché, se è vero che troviamo in Livio per la prima volta l’espressione terra Italia riferita all’epoca della prima guerra punica (Liv. 25.7.4: donec hostis in terra Italia esset), il concetto giuridico e l’idea politica d’Italia, secondo la dottrina tradizionale, potrebbero essere sorti solo nel I secolo a.C., anche se però in base ad una serie di circostanze determinatesi nel II secolo a.C.

Procedendo ad un’analisi più attenta non è difficile, tuttavia, rendersi conto che già per la metà del terzo secolo a.C. si può parlare di una differenza sul piano religioso tra il territorio d’Italia e quello extra Italia. È stato dimostrato che già dalla metà del secondo secolo a.C. esisteva una differenza di carattere religioso tra il territorio italico e quello situato fuori da tali confini[66]. Su questa base Santo Mazzarino ha stabilito un collegamento diretto tra concetto e termine stesso di terra Italia e concetto e termine stesso di terra Etruria che segnava i confini (tular) di questa stessa terra. L’ambito spaziale sarebbe stato proprio quello della sfera di operatività del diritto, cioè lo ius Tuscorum che all’epoca si estendeva a tutta l’Italia [(Cato Orig. 67 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 350)]: paene omnis Italia quia in Tuscorum ivre paene omnis Italia fuerat[67].

Ad ogni buon conto l’espressione terra Italia è usata in modo tecnico nelle fonti giuridiche solo a partire dalla seconda metà del secondo secolo a.C.[68]. L’espressione più antica pare quella della lex (Acilia?) repetundarum del 123 o 122 a.C.: FIRA. 1.92,31: conquaeri in terra Italia in oppedeis foreis conciliab[oleis e naturalmente subito dopo vengono le indicazioni della legge agraria che stiamo commentando. Essa però si ritrova anche in un famosissimo frammento delle orazioni di Catone: Orat. 142 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 352): Cumque Hannibal terram Italiam laceraret atque vexaret; in Valerio Anziate (ann. frgm. 21) e in Varrone che però pone l’accento più sul dato culturale che su quello tecnico giuridico: Varro r.r. 1.9.1: Communi, ut cum dicimus orbem terrae et terram Italiam aut quam aliam[69].

Un’altra norma molto importante sul rapporto tra concetto giuridico di terra Italia e territorio per l’ordinamento romano riguarda l’impossibilità che il suolo non italico fosse oggetto di dominium ex iure Quiritium. La norma è riportata da Gaio ed è evidente che si tratta di una previsione tarda, riguardante il rapporto tra Stato, principe, popolo romano e territorio. A parte il fatto che un problema in generale di dominium ex iure Quiritium per l’età repubblicana sembra che non si possa porre, visto che questa categoria giuridica sembrerebbe essersi affermata tardi nel linguaggio dei giuristi e del legislatore romano, dal tenore delle parole di Gaio si ricava anche un’indicazione interessante. Vediamo il frammento: Gai. 2.7: Sed in provinciali solo placet plerisque, solum religiosum non fieri, quia in eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris, nos autem possessionem tantum vel usumfructum habere videmur. Sembrerebbe che per il diritto di Gaio la nozione di ager publicus e quella di dominium ex iure Quiritium siano incompatibili. Se vi è il primo, per le regole del diritto in ogni caso non vi può essere il secondo. Vedremo più avanti come la questione dei confini italici sia rilevante anche perché connessa con il modo stesso di considerare il territorio italico come provincia e come questo fatto sia rilevante ai fini della datazione della regola dell’inclusione delle terre in Italico solo nella categoria delle res mancipi e della norma stessa sulla non usucapibilità dei fondi in territorio provinciale.

Se guardiamo al concetto di terra Italia in senso politico possiamo risalire invece alla metà del IV secolo a.C. Infatti l’idea politica d’Italia[70], diversa dal concetto di ƒItalÛa dei Greci, sembrerebbe risalire, come abbiamo visto, alla fine del IV, inizi del III secolo a.C.[71].

Un altro elemento va tuttavia ancora considerato. Esso riguarda la qualificazione giuridica del territorio italico valutata da un punto di vista finora trascurato. Vi abbiamo accennato prima. Nel modo di considerare il territorio italico da parte del Senato romano si riscontra in effetti, fino ad una certa epoca, dell’ambiguità. Questo fu spesso considerato in atti ufficiali (attività decretale) come la provincia di un console o di entrambi i consoli anche se coloro ai quali questa provincia fu assegnata ebbero solo dei compiti militari. Anche questo dato è importante perché contribuisce a chiarire quale poteva essere il significato del sintagma terra Italia nel lessico del legislatore del 111 a.C.

Abbiamo visto come la penisola italica nei decenni a cavallo tra la fine del terzo e l’inizio del secondo secolo a.C. si estendesse fino alle Alpi, mentre dopo il 200 furono mandate delle spedizioni in Gallia Cisalpina e in Liguria[72].

Fortunatamente la dinamica di questi eventi è documentata da Livio. Lo storico infatti descrive questo fenomeno con riferimento ai consoli del 201: (Cn. Cornelius Lentulus e P. Aelius Paetus). Liv. 30.40.12: Patres igitur iurati – ita enim convenerat – censuerunt uti consules provincias inter se compararent sortirenturve uter Italiam, uter classem navium quinquaginta haberet; del 194: (P. Cornelius Scipio Africanus e T. Sempronius Longus): Liv. 34.43.3: De provinciis cum relatum esset, senatus frequens in eam sententiam ibat ut, quoniam in Hispania et Macedonia debellatum foret, consulibus ambobus Italia provincia esset. [4] Scipio satis esse Italiae unum consulem censebat, alteri Macedoniam decernendam esse; e del 190: (L. Cornelius Scipio Asiaticus e C. Laelius). Liv. 37.1.7: Tum de consulum provinciis coeptum agi est; 37.1.10: ac prope omnes Scipioni Graeciam, Laelio Italiam decreverunt.

Riferendosi ai consoli del 171 lo storico poi contrappone la città di Roma al resto di Italia usando l’espressione terra Italia: 42.29.1: P. Licinio Crasso C. Cassio (n.d.r., Longino) consulibus non urbs tantum Roma nec terra Italia.

La stessa cosa è rilevabile per altre due coppie consolari. Quella del 169: (Q. Marcius Philippus e Cn. Servilius Caepio): Liv. 43.11.12: Consules designati ubi primum magistratum inissent, de Macedonia referre ad senatum iussi; destinataeque provinciae iis sunt Italia et Macedonia e quella del 168: (L. Aemilius Paullus e C. Licinius Crassus): Liv. 44.17.10: Consulum Aemilio Macedonia, Licinio Italia evenit.

J.W. Rich inoltre ha notato a questo riguardo che il Senato non sempre formulasse i suoi decreti semplicemente usando il nome ‘Italia’. Altre volte si vede che esso menziona direttamente delle regioni come la Gallia Cisalpina o la Liguria che pur erano parte della penisola. Ha notato altresì che a partire dalla guerra annibalica l’uso di Italia viene usato prevalentemente per contrasto con le provincie d’oltremare[73].

Il dato molto interessante per noi è che, come attesta Sallustio, nel 111 l’Italia fu ancora considerata una provincia consolare: b.Iug. 27.3-4: Sed ubi senatus delicti conscientia populum timet, lege Sempronia provinciae futuris consulibus Numidia atque Italia decretae, consules declarati P. Scipio Nasica, L. Bestia Calpurnius; Calpurnio Numidia, Scipioni Italia obvenit[74].

Se questo è vero, allora la regola della inclusione del fondo in Italico solo nella categoria delle res mancipi e quella della non riconoscibilità del dominium ex iure Quiritium in territorio provinciale non possono che essere considerate come successive alla legge del 111 a.C. perché in quest’epoca l’Italia è ancora una provincia consolare (di uno od entrambi i consoli).

 

Conclusione

 

Le notizie relative al concetto di ‘Italia’ e di ‘terra Italia’ che abbiamo visto relative alla metà/fine del terzo secolo a.C. dimostrano che, in corrispondenza degli eventi bellici contro i Cartaginesi di Annibale, i Romani recepirono già in chiave giuridica il concetto politico, geografico ed etnico di Italia, non solo in rapporto ai foedera, ma anche in relazione alle norme di diritto augurale che rappresentano l’ambito di regolamentazione giuridica dello spazio normale per i Romani prima che si completasse il fenomeno della completa laicizzazione del diritto civile intorno alla fine del secondo, inizi del primo secolo a.C.[75].

La migliore dimostrazione di ciò è nella notizia della fondazione da parte di Cornelio Scipione (il futuro Africano Maggiore) della città di Italica in Betica nel 206 o 207 a.C.[76]. Forse, meno di cinquant’anni prima della distruzione di Cartagine, nell’Africano Maggiore era già presente un disegno di egemonia italiana. Se nel 210 il Senato si oppose alla nomina di un dittatore in Sicilia perché in territorio siciliano non poteva esserci ager Romanus e nello stesso tempo (208 a.C.) si compiva ancora una fictio dictatoris in territorio campano, vuol dire (se Livio è attendibile) che, alla fine del terzo secolo a.C., il territorio italico, veniva gestito ancora con le regole del diritto augurale e che il concetto giuridico-spaziale di Italia veniva fatto corrispondere ancora (con evidente forzatura) ad un concetto augurale di ager.

La famosa regola per cui la proprietà individuale, ossia il dominium ex iure Quiritium, del cittadino romano era limitata al territorio italico non penso sia ancora ascrivibile a questa epoca, ma potrebbe risultare di circa un secolo più tarda e rappresentare proprio il momento in cui il concetto giuridico di terra Italia venne fatto corrispondere ad una nozione giuridica laica di proprietà[77].

Abbiamo visto che una prima differenziazione tra concetto di territorio italico e territorio extra Italiae potrebbe essere nata verso la metà del terzo secolo a.C. o anche prima (Ziolkowski), e che le prime attestazioni dell’espressione Italia in senso tecnico giuridico risalgono all’età di Catone [sono emblematiche le parole di Cato Orat. 142 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 352): Cumque Hannibal terram Italiam laceraret atque vexaret][78] e sono riportate copiosamente da Livio (ma non solo) all’età annibalica[79]. Inoltre si è potuto accertare che in questa fase il concetto giuridico di terra Italia riguardava forse ancora il diritto augurale.

Le testimonianze epigrafiche del sintagma terra Italia che viene attestato per la prima volta nella lex (Acilia?) repetundarum del 123 o 122 a.C. (FIRA. 1.92) e poi come abbiamo visto nella lex agraria epigrafica che stiamo commentando, forse sono espressione di una fase successiva[80]. Una fase in cui il legislatore usa l’espressione in senso tecnico, tuttavia fuori dal diritto augurale una, o forse due generazioni prima che, nel linguaggio dei giuristi laici, comparirà perfettamente intellegibile la nozione giuridica di dominium ex iure Quiritium nella sua interezza. [D. 8.3.30 (Paul. 4 epit. Alf. dig.)]: Qui duo praedia habebat, in unius venditione aquam, quae in fundo nascebatur, et circa eam aquam late decem pedes exceperat: quaesitum est, utrum dominium loci ad eum pertineat an ut per eum locum accedere possit. Respondit, si ita recepisset: ‘circa eam aquam late pedes decem’, inter dumtaxat videri venditoris esse.

È interessante notare come insieme al termine dominium compaia in questo caso il vocabolo locum (dominium loci)[81].

Ha forse ragione invece Andrea Giardina quando nota che le entità che il legislatore menziona esplicitamente nella legge che si sta commentando sono solo il popolo romano e il nomen Latinum. Le altre etnie sono indicate ancora soltanto con il termine generico di peregrini[82].

Questo dato si coordina con l’altro ampiamente attestato dalle fonti relativo all’uso di considerare lItalia’ come una provincia consolare di uno o di due consoli da parte del Senato. Abbiamo anche visto che questo uso cadde in progressiva desuetudine in epoca repubblicana, ma non prima della prima metà del primo secolo a.C. Tutto ciò non può che essere letto come indice del fatto che sia inapplicabile fino a questa epoca per definizione il concetto civilistico di dominium ex iure Quiritium e che per il Senato, e quindi anche per la classe al potere (a cui appartenevano i giuristi più noti), il territorio della penisola italica non poteva che essere considerato al modo antico, cioè come territorio ancora non romano nel senso giuridico/augurale del termine.

Allo stesso tempo, la valorizzazione del concetto politico di terra Italia che è un tema già presente nella cultura romana dell’epoca di Catone, dimostra che su un altro piano (il nuovo che avanza) si sia incominciato già a pensare del territorio italico anche come ager publicus in senso graccano (=‘territorio della res publica’) che è anche una chiave giuridica di lettura nuova.

Per quanto riguarda il legislatore del 111 credo che le fonti evidenziate prima sul modo di considerare l’Italia come provincia di uno o entrambi i consoli dimostrino che non si sia ancora determinata una differenza netta tra il territorio italico e quello di Africa e di Grecia nella mentalità dei giuristi romani.

 

5. – Le formule ager-locus, ager-locus-aedificium: ‘ager non est terra

 

Alla linea 2 troviamo incisa chiaramente leggibile l’endiadi ager(/agrum) locus. Si tratta di una costante che resterà tale per tutto il testo normativo (13, 20, 22, 23, 33, 44, 48, 49, 51, 52, 65, 66, 67, 75, 76, 80, 94), anche se già alla linea 7 appare come parte della formula ager locus aedificium che, tuttavia, si ripete molto di meno (7, 8, 9, 10, 12, 101).

Prima di procedere sarà bene chiarire il significato di tali espressioni perché non credo come J. Granet, che queste siano da considerare semplicemente come dei sinonimi[83].

Cominciamo pertanto dal termine ager/agrum[84]. Anche l’impiego di questo vocabolo nel lessico delle fonti romane ha una sua storia. Insieme all’aggettivo privatus, chiaramente in contrapposizione al valore del sintagma ager publicus, esso è già presente nel lessico catoniano: Cato Orat. 114 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 356): Agrum quem vir habet, tollitur; 206 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 420): Accessit ager, quem privatim habent, Gallicus, Samnitis, Apulus, Bruttius. La prima previsione di ager privatus [da *ag- =‘portare’ (morfema lessicale o tema) + ‘er’ (suffisso dei termini giuridici)] diventerà stabile in modo definitivo, ossia ager optimo iure cioè, in sostanza, il suo possesso non sarà più precario (almeno nelle intenzioni del legislatore) solo con la legge agraria epigrafica del 111 a.C. La sicurezza del titolo o stabilità dei possessi rappresenta uno dei caratteri principali di tutta la legge.

Ma ‘ager’, come abbiamo visto, aveva anche il significato di unità di misura di sfruttamento economico: Varro l.L. 5.6.34: ager dictus in quam terram quid agebant, et unde quid agebant fructus causa; aliáiñ quod id Graeci dicunt Žgrñn. Ut ager quoádñ agi poterat, sic qua agi actus[85]. La qual cosa, a mio parere dimostra come tale nozione per la mentalità romana non fosse un concetto meramente geografico (ager=‘territorio’), ma rispondesse anche a delle esigenze pratiche (ager=‘unità economica’). Così anche Isidoro: etym. 15.13.7: Rura veteres incultos agros dicebant, id est silvas et pascua; agrum vero, qui colebatur.

Passiamo al termine aedificium[86]. Partendo da un dato piuttosto tardo leggiamo in Isidoro che esiste una relazione strettissima tra le parole aedificium e aedes. Per designare tutte le tipologie di edifici, gli antichi avrebbero usato il termine aedes: Isid. etym. 15.3.2: Omne aedificium antiqui aedem appellaverunt. Alii aedem ab edendo quiddam sumpsisse nomen existimant, dantes exemplum de Plauto (Poen. 529): ‘Si vocassem vos in aedem ad prandium. Hinc et aedificium, eo quod fuerit prius ad edendum factum’. Il dato non è di poco conto perché sappiamo da Cicerone che i giuristi, estendendo la regola dell’usucapione biennale dei fondi anche agli edifici, utilizzarono proprio tale termine.

Rivediamo questi due passi molto conosciuti: Cic. top. 4.23: Quoniam usus auctoritas fundi biennium est, sit etiam aedium. At in lege aedes non appellantur et sunt ceterarum rerum omnium quarum annus est usus e Cic. pro Caec. 19.54: Lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium; at utimur eodem iure in aedibus, quae in lege non appellantur.

Diversamente da Cicerone, Gaio conferma che nelle XII tavole era prevista la regola dell’usucapione annuale per i beni mobili e il termine biennale per i beni immobili, ma li qualifica come fundi e aedes: Gai. 2.42: Usucapio mobilium quidam rerum anno completur, fundi vero et aedium biennio; et ita lege XII tabularum cautum est[87].

Senza la testimonianza di Cicerone penseremmo che i termini fundus e aedes appartenessero al lessico del legislatore romano del V secolo e che questi li usasse per specificare la categoria dei beni immobili. Invece, seguendo il retore, dobbiamo escludere la presenza di aedes e attribuire al linguaggio dei decemviri solo la parola fundus ed invece collocare nella categoria delle cose mobili la dizione di ceterae res[88]. Alla luce di queste indicazioni si deve allora interpretare un’altra norma famosa attribuita alle dodici tavole: Cic. de leg. 2.24.61: Duae sunt praeterea leges de sepulchris, quarum altera privatorem aedificiis, altera ipsis sepulchris cavet. Nam quod “rogum bustumve novum vetat propius sexaginta pedes adigi aedes alienas invito domino”, incendium veretur acerbum [vetat]. Come suggerisce il Serrao la norma riferita da Cicerone dovrebbe riferirsi ai fondi rustici (anche se non si può escludere che la norma potesse riferirsi proprio al problema della contiguità degli edifici sotto il profilo della prevenzione degli incendi), stando a quanto previsto dalla Tab. 10.1 sul divieto di seppellimento in urbe[89]. È tuttavia interessante notare l’uso di Cicerone dei due vocaboli aedificium e aedes. Mi pare chiaro che il sintagma privatorem aedificiis, riferito alle costruzioni private, sia usato in modo analogo (e quindi un tecnicismo) a quello del legislatore del 111 a.C. La parola aedes è usata invece per indicare le abitazioni, ma in un contesto letterale che non corrisponde certamente alla lettera della norma evocata e che potrebbe riferirsi al problema della prevenzione degli incendi nelle zone ad alto tasso di urbanizzazione[90].

Per l’impiego dell’espressione aedificium/aedificare nel significato di ‘costruzioni di tipo urbano in campagna’, oltre a quanto già evidenziato con la norma decemvirale in materia sepolcrale riportata da Cicerone, dobbiamo fare riferimento ad una testimonianza del de agri cultura di Catone:

 

Cato de agri c. 4.3.1: Ubi aetas accessit ad annos XXXVI, tum aedificare oportet, si agrum consitum habeas. Ita aedificies, ne villa fundum quaerat.

 

Questa fonte conferma l’ipotesi del Franciosi per il quale l’affermazione del termine aedes nel lessico dei giuristi romani presupporrebbe necessariamente il fenomeno dell’urbanesimo, tra la fine del terzo e gli inizi del secondo secolo a.C.[91].

Molto più complesso è il problema legato all’uso del morfema locus e delle sequenze lessicali ager-locus e ager-locus-aedificium impiegate dal legislatore del 111 a.C. perché si tratta di espressioni comunemente usate nel linguaggio tecnico dei giuristi classici e perché la parola fundus, nonostante si tratti di una parola usata in modo tecnico da epoca certamente anteriore, non è usata dal legislatore del 111 a.C. Del resto essa non compare neanche nelle formule edittali sui rapporti di vicinato come ad es. in D. 43.27.1.7 (Ulp. 71 ad ed.) e D. 43.28.1 (Ulp. 71 ad ed.)[92].

Qualcosa del genere, ma con vocaboli diversi, si trova già nel lungo testo della famosa precatio di Catone dove ritorna tre volte la formula fundum agrum terramque meam: in de agri c. 141.1,6 (fundum agrum terramque meam); in 141.2,8 (agrum terram fundumque meum) e in 141.3,6 (fundi terrae agrique mei lustrandi). È noto agli studiosi che anche in altre antiche preghiere si trovano spesso ripetizioni triple in funzione enfatica come ad esempio nel caso di precor veneror veniamque peto, o di metum formitudinem obliuionem, ovvero di fuga formidine terrore[93]. Si può fare l’esempio del carmen di evocatio di Cartagine ricordato da Macrobio[94] e lo stesso Gellio dice che Catone usava impiegare tre vocaboli dallo stesso significato per dare l’idea di una grande prosperità: Gell. 13.25.13: Item M.Cato in orationis principio, quam dixit in senatu pro Rhodiensibus, cum vellet res nimis prosperas dicere, tribus vocabulis idem sententibus dixit. Non credo però sia questo il caso.

Nel lessico dei giuristi dell’età classica sappiamo che ager, fundus e terra avevano dei significati ben precisi e diversi. In un frammento tratto dal 17 libro ad edictum di Ulpiano leggiamo ad esempio che (D. 50.16.27): Ager est locus, qui sine villa est. Ancora, in D. 50.16.60 (lib. 69 ad edictum), leggiamo che per i più: ‘Locus’ est non fundus, sed portio aliqua fundi: ‘fundus’ autem integrum aliquid est. et plerumque sine villa ‘locum’ accipimus. Mentre il giurista dell’età dei Severi dimostra di avere un’idea diversa: ceterum adeo opinio nostra et constitutio locum a fundo separat, ut et modicus locus possit fundus dici, si fundi animo eum habuimus. non etiam magnitudo locum a fundo separat, sed nostra affectio.

Attraverso Ulpiano risaliamo, tuttavia, anche a Labeone dal quale deduciamo che il termine locus si applicava di regola ai terreni rustici (anche se poteva essere usato per indicare i praedia urbana) e che la nozione di fundus veniva assimilata a ciò che noi potremmo definire oggi una ‘particella’ (sed fundus quidem suos habet fines): D.50.16.60 pr. (Ulp. 69 ad ed.): ‘Locus’ est non fundus, sed portio aliqua fundi: ‘fundus’ autem integrum aliquid est. et plerumque sine villa ‘locum’ accipimus: ceterum adeo opinio nostra et constitutio locum a fundo separata, ut et modicus locus possit fundus dici, si fundi animo eum habuimus. non etiam magnitudo locum a fundo separat, sed nostra affectio […] 1. Loci appellationem non solum ad rustica. verum ad urbana quoque praedia pertinere Labeo scripsit. 2. Sed fundus quidem suos habet fines, locus vero latere potest, quatenus determinetur et definiatur […].

Il locus, inoltre, come espressione di un possesso immobiliare, sembra che per Labeone riguardasse in genere estensioni di terreno senza confini (locus vero latere potest, quatenus determinetur et definiatur)[95]. Di qui l’espressione locupletes ampiamente usata nelle fonti della tarda repubblica/età augustea[96]. Viene in mente il sistema di misurazione dei lotti secondo il meccanismo del modus agri che era proprio un’estensione di terreno non delimitata da confini (una quantità nella centuria)[97].

Il quadro si chiude con Fiorentino, quasi contemporaneo di Gaio, il quale definisce il fundus come un’ager su cui c’era anche una costruzione. Mentre il locus, è considerato un terreno senza costruzione che si definiva area in città e ager nelle campagne[98]:

 

D. 50.16.211 (Florent. 8 inst.): ‘Fundi’ appellatione omne aedificium et omnis ager continetur. sed in usu urbana aedificia ‘aedes’, rustica ‘villae’ dicuntur. locus vero sine aedificio in urbe ‘area’, rure autem ‘ager’ appellatur. idemque ager cum aedificio ‘fundus’ dicitur.

 

Come si vede, nella tradizione giuridica romana (a partire da Labeone), i vocaboli ager e fundus presentano dei significati affatto diversi. Inoltre, si può notare che nella costruzione dogmatica dei giuristi classici, mentre il concetto di terra tende a scomparire, quello di locus sembra assumere un ruolo sempre più centrale. Quest’ultima circostanza forse dipende dal fatto che il legislatore del 111 a.C. per indicare i possedimenti di terra in Italia (ma anche in Africa e Grecia) scelse di adoperare insieme a quello di ager anche i concetti di locus e di aedificium[99].

La lustratio agri invece appartiene all’epoca di Catone Censore ed è un testo che come abbiamo visto si proietta nel passato (sempre se non vogliamo pensare ad un testo linguisticamente riadattato). Quindi il principale referente per noi non può essere che Varrone, il quale, fu allievo di Elio Stilone. Esperti entrambi come è noto anche di diritto augurale e, il secondo, autore di quegli Aeliana studia che rappresentano uno dei modi attraverso i quali l’antico sapere italico si trasmise nella scienza dei giuristi dell’ultimo secolo della repubblica[100].

Poiché è molto probabile che Stilone abbia scritto anche un commento alle XII tavole di poco successivo ai Tripertita (questo fatto è molto interessante se confronta con il dato proposto da Mario Bretone per il quale il commento alle XII tavole di Elio Stilone Preconiano sarebbe collocabile negli anni tra il 117 e il 106 a.C.)[101], è altrettanto possibile che le definizioni di Varrone esprimano dei concetti che risalgono, se non proprio agli anni intorno al 111 a.C., almeno all’epoca di Sesto Elio (l’autore dei Tripertita). Aggiungerei che l’assenza del termine locus nel lessico della lustratio forse è indice del fatto che la redazione del testo della formula fosse anteriore all’epoca dell’affermazione della villa in Italia e comunque relativa ad un epoca in cui la laicizzazione del diritto augurale non era ancora compiuta[102].

Ed allora potremmo spiegare l’assenza dei vocaboli domus e fundus nella legge che stiamo commentando, nel primo caso, per ragioni di ordine etimologico. Laedificium è la costruzione, quindi un bene immobile; la domus, invece, è il luogo della famiglia, il luogo dove il pater familias è dominus, e dispiega tutta la sua autorità. Anche prima della trasformazione semantica di familia dall’antico significato di ascendenza italica come ‘gruppo di schiavi’ (famul=‘schiavo’ è un espressione osca)[103] a quello corrispondente moderno come persone unite da un legame che è insieme di sangue (cognatio) e giuridico (adgnatio). Più di tutto, in latino, la domus non è la ‘costruzione’, né un ‘edificio’; e non è neanche un ‘bene immobile’ per il linguaggio tecnico dei giuristi.

Il vocabolo fundus non c’è nella legge del 111 perché probabilmente all’epoca della lex del 111 esso serviva ancora a designare il terreno adibito alle colture arbicole (di qui la presenza nel lessico catoniano, se non vogliamo credere ad un riadattamento linguistico del lessico della lustratio agri in Cato de agri c. 141). A meno di credere ad Isidoro che propone un’improbabile paretimologia che afferma una coincidenza tra fundus e aedificium: etym. 15.13.4: Fundus dictus quod eo fundatur vel stabiliatur patrimonium. Fundus autem et urbanum aedificium et rusticum intellegendum est[104].

All’epoca di Fiorentino (circa 180 d.C.), il vocabolo fundus appare come termine giuridico ricomprensivo delle categorie di ager e di aedificium (‘Fundi’ appellatione omne aedificium et omnis ager continetur). Anzi, a seguire tale giurista, il fundus sembrerebbe proprio potersi definire come un ager con la costruzione. Già all’età di Gaio (poco prima, o poco dopo[105]) esso veniva utilizzato nel significato di un ager più l’aedificium. E questo forse spiega l’assenza di tale vocabolo nelle formule edittali riportate da Ulpiano in D. 43.27.1.7 (Ulp. 71 ad ed.) e D. 43.28.1 (Ulp. 71 ad ed.).

In ogni caso, riferimenti epigrafici come quelli relativi al cd. fundus Aufidianus in Tunisia settentrionale, a circa 30 km. a nord della valle del Bagradas, dimostrano in concreto cosa volessero significare i giuristi della fine del II, inizi III secolo d.C. con l’impiego del vocabolo fundus. Esso risulta essere riferito ad una tenuta di estensione molto rilevante, forse molto più di 1.500 ha, organizzata secondo un sistema di decentralizzazione articolato in una serie di fattorie autonome (di qui forse il concetto di terreno più l’edificio). Nel caso di specie ne sono state contate almeno dodici[106].

A sua volta il locus (evidentemente una nozione mutuata dal lessico augurale ma recepita nel nuovo linguaggio dei giuristi laici) era considerato l’area di terreno in città e l’ager in campagna. In età severiana, infine, l’ager era considerato il locus senza la villa, ma nel linguaggio giuridico la differenza tra fundus e locus sfuma sensibilmente, come abbiamo visto.

Ed allora. In Varrone (l.L. 7.2.18) leggiamo che: ‘ager non est terra’ perché il concetto di ager era un concetto tecnico che derivava dal diritto augurale (Varro l.L. 5.5.33)[107]. Anche il concetto di terra, come dice Stilone, era conosciuto agli áuguri, ma veniva usato in un significato più generico anche se molto antico come attesta la forma senza la doppia (‘tera’): Varro l.L. 5.4.21: Terra dicta ab eo, ut Aelius scribit, quod teritur. Itaque tera in augurum libris scripta cum R uno. A proposito dell’ager invece, come abbiamo visto, leggiamo: l.L. 5.6.34: Ager dictus in quam terram quid agebant, et unde quid agebant fructus causa. Ed anche il fundus è descritto in Varro l.L. 5.6.37 già come una porzione di terreno produttiva di frutti, sia come un terreno adibito al pascolo (ager quod videbatur pecudum ac pecuniae esse fundamentum). Il vocabolo fundus sembra invece un terreno adibito alla coltivazione prevalentemente arbicola (fundus dictus, aut quod fundit quotquot annis multa). A questo punto mi pare difficile pensare che Catone abbia potuto usare la formula ‘agrum terram fundumque meum’ senza avere alcuna consapevolezza della diversità di significato di tali vocaboli. Questi tre termini della forma lustrale, del resto, dovrebbero essere rappresentativi di un epoca in cui il possesso dell’ager publicus era per definizione ancora precario e il complesso passaggio dal diritto augurale a quello laico nella riflessione dogmatica dei giuristi doveva essere appena agli inizi, invece il legislatore del 111 voleva consolidare le posizioni giuridiche dei possedimenti terrieri già fatti oggetto delle assegnazioni graccane o del Senato in sede di distribuzione dei territori conquistati.

Tirando le somme, lo scarto di significato che si rileva nella terminologia dei giuristi (da Sesto Elio a Q. Mucio, attraverso Catone Censore e la generazione di P. Mucio e di Elio Stilone Preconiano) che trovano nuovi vocaboli per designare fattispecie non precedentemente contemplate dal lessico giuridico dimostra quanto radicale sia stata l’evoluzione del lessico giuridico nel corso del II secolo a.C. Un esempio tra i tanti possibili è certamente la sequenza semantica per designare il cespite immobiliare agricolo qualificato, come abbiamo visto, come ager, fundus, terram nella lustratio agri di Catone, salvo poi ad evolvere in ager, locus, aedificium nella legge del 111 a.C.

 

6. – La clausola quod non modus maior siet e la nozione di vetus possessor: commento alla linea 2 (ma anche 13, 16, 17 e 21)

 

Terminate le digressioni che ho ritenuto necessarie per inquadrare nel loro tempo storico alcune espressioni molto significative usate dal legislatore del 111 torniamo al testo della legge.

La linea 2 reca, quasi integralmente leggibili, le seguenti parole: agrum locum sumpsit reliquit ve, quod non modus maior siet, quam quantum unum hominem ex lege plebeive sc(ito) sibei sumer[e. C’è l’indicazione alla terra ‘che qualcuno prese o mantenne per sé’ (sibei sumpsit reliquitve). La legge in questo caso consente che il possesso di questa terra sia conservato purché la quantità di terra posseduta non ecceda i limiti posti dalla legge o dal plebiscito (quod non modus maior siet).

Si pone immediatamente a questo riguardo un problema molto interessante. Nonostante si legga chiaramente l’indicazione dei veteres possessores solo nelle linee 13: e]xtraque eum agrum, quem vetus possesor ex lege plebeive; 17-18: quoi is ager vetere prove vetere possesore datus adsignatusve; e 21-22: agrum lo]cum publicum populi Romanei de sua possesione vetus possesor prove vetere possesor[e, non c’è dubbio che anche questa parte della legge faccia riferimento a questa categoria di possessori[108]. Chi sono dunque questi veteres possessores di terre appartenenti alla categoria più ampia dell’ager publicus populi Romani che la legge che stiamo commentando renderà ager privatus? Ed ancora, chi sono invece i pro vetere possessores che la legge stessa contrappone ai primi nelle linee 21-22, 16, 17 e 21?

Secondo il Mommsen sarebbero veteres possessores tutti coloro che nel passato fossero entrati in possesso di ager publicus in modo legale da quando questo fu possibile[109]. Invece per pro vetere possessore il maestro di Garding intende coloro che sarebbero entrati in possesso di terra senza poter dimostrare di averlo fatto in modo legale, ma comunque da molto tempo[110]. Mi pare pertinente l’accostamento con quanto dice Cicerone in de lege agr. 3.2.7: “ut quae optimo iure privata sunt”. Etiamne meliore quam paterna et avita? Questa fonte a mio avviso dimostra la considerazione che ricevevano nella mentalità dei giuristi (Cicerone non era un giurista ma conosceva i giuristi e il diritto molto bene e parlava in pubblico) dell’ultimo secolo della repubblica i possedimenti di terra (ager publicus) tramandati di padre in figlio per generazioni.

Andrew Lintott preferisce un’altra ricostruzione: pro vetere possessore potrebbe essere colui che le commissioni agrarie (in fase di riorganizzazione dei possedimenti) avrebbero persuaso a scambiare la terra posseduta originariamente con un nuovo possedimento a condizione che questo fosse tenuto agli stessi termini di come se questi lo avesse posseduto prima della legislazione di Tiberio Gracco[111].

Tutto sommato sono abbastanza deboli le critiche che il Crawford rivolge contro la ricostruzione del Mommsen. Lo studioso anglosassone per contestare la nozione di vetus possessor proposta dal grande storico tedesco cita tre noti passi di Cicerone, uno tratto dal secondo libro de lege agraria (de lege agr. 2.21.57: qui agrum Recentoricum possident, vetustate posessionis se, non iure, misericordia senatus, non agri condicione defendunt), un secondo dal de officiis (de off. 1.7.21: Sunt autem privata nulla natura, sed aut vetere occupatione, ut qui quondam in vacua venerunt, aut victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex quo fit, ut ager Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum; similisque est privatarum possessionum discriptio), un terzo dal de legibus (de leg. 1.21.55: quoniam usus capionem duodecim tabulae intra quinque pedes esse noluerun, depasci veterem possessionem Academiae ab hoc acuto homine non sinemus nec Mamilia lege singuli, sed e XII tres arbitri fines regemus). Il ragionamento dello studioso anglosassone è il seguente: la nozione di vetere/vetus possessio in base a Cicerone viene ritenuta fuori dal diritto (‘contrasting vetustate possessionis and iure’) perché il diritto romano contemplava l’usucapione biennale sui fondi, dunque la proposta del Mommsen sarebbe carente di legittimazione sul piano giuridico[112]. In altre parole una categoria di vecchi possessori non avrebbe senso se commisurata ad un termine maggiore dei due anni occorrenti per l’usucapione dei beni immobili (fundi).

L’autore sembra però dimenticare che la lex agraria del 111 è anteriore alla stessa nascita del retore (3 gennaio del 106 a.C.), è essa stessa una legge ad esclusivo oggetto agrario, ed è una fonte epigrafica, dunque una fonte molto attendibile per comprendere il linguaggio giuridico dell’epoca medio-tardo repubblicana. Approfondirò l’argomento della natura dell’ager privatus rispetto a quella dell’ager publicus, e quindi il dettaglio delle fonti utilizzate dal Crawford, più avanti. Basti però ribadire contro le argomentazioni del Crawford, e questo mi sembra un argomento veramente forte, che per il diritto romano [in base a Gai. 2.10-11, D. 41.3.9 (Gai. 4 ad ed. prov.) e Front. 2. de contr. agr. (Lach. 54 s.)] le porzioni di ager publicus erano inusucapibili per definizione.

La ragione principale per cui dissento dall’opinione di M.H. Crawford è tuttavia la scarsa attenzione che questi riserva alla clausola f(undus) p(ossessoris) vet(eris) trovata sulla parte superiore di un cippo graccano di Rocca S. Felice[113]. Essa dimostra che all’epoca di Tiberio Gracco la categoria di vetus possessor aveva un significato molto importante (fu una delle categorie giuridiche applicate per disciplinare la controversa questione delle terre in ager Campanus? Un escamotage inventato dai giuristi esperti delle commissioni graccane per qualificare giuridicamente in qualche modo le situazioni pregresse?). In ogni caso ancora nella lex agraria epigrafica questo significato sembra aver conservato intatta tutta la sua importanza e sembra giustificare in pieno la ricostruzione del Mommsen[114].

Si diceva a proposito della ricostruzione del Mommsen che, in base alle linee 17 e 21, pro vetere possessore sarebbe stato colui, o la persona dalla quale, la sua richiesta deriva (avente causa), che non avrebbe potuto provare la legittimità del suo possesso, ma che poteva reclamare un possesso da tempo molto risalente. In secondo luogo, il sintagma stesso vetus possessor, così come si evincerebbe dalla linea 21, dimostrerebbe che le precedenti acquisizioni legittime di ager publicus sarebbero state dimenticate prima dell’approvazione di tale legge. Infine, in base alla linea 13, sembrerebbe che l’artefice di questa situazione sia stato Tiberio Gracco[115]. Allo stato delle fonti non si può pertanto non condividere la posizione del Crawford il quale in base alla lettera del dettato legislativo conclude nel senso di riconoscere nella menzione di vetus possessor una qualificazione giuridica. Sarebbe tale il ‘primo possessore legittimo’ e, molto probabilmente, pro vetere possessore il suo avente causa[116].

Quanto alla clausola quod non modus maior siet non pare si possa dubitare del fatto che questa vada riferita ai limiti legali della possessio dell’ager publicus ripristinati da Tiberio Gracco nonostante la lex Licinia Sextia o altra legge più recente risalente agli inizi del secondo secolo a.C.[117]. In effetti è del tutto plausibile che in questo caso il legislatore abbia sentito la necessità di distinguere, all’interno della categoria dei veteres possessores tra coloro che hanno sempre posseduto entro i limiti legali e coloro che sotto questo profilo mostrano di essere inadempienti. Condivido pertanto la considerazione di M.H. Crawford il quale, contrariamente a quanto sembrerebbe potersi evincere da Appiano (b.civ. 1.27.122), suggerisce che non tutti possedimenti di terra furono riconosciuti ed assegnati dalle commissioni agrarie quando la attività di queste commissioni cessò, ma solo quelle che rientravano nei limiti dei 500 iugeri pro capite più l’addizionale di 250 per ciascun figlio (fino ad un massimo di due)[118].

Un’ultima considerazione sulla espressione sibei sumpsit reliquitve, ossia alla terra ‘che qualcuno prese o mantenne per sé’. Una serie di indicazioni, nelle fonti epigrafiche e non, fornirebbero elementi per tradurre il verbo relinquere nel senso di ‘mantenere allo stato precedente/originario’. In tal senso deporrebbero le linee 7: Italia IIIvir dedit adsignavit reliquit e 81: ]e eum agrum locum, quem Xvirei, quei ex [lege] Livia factei createive fuerunt, Uticensibus reliquerunt adsignaverunt: ceterum della legge che stiamo esaminando; la linea 6 (relinquito) della lex Osca Tabulae Bantinae; e Cic. ad Att. 5.21.12: Scaptius rogat…ut rem sic relinquam[119].

La questione è connessa al disposto delle linee 16-17 che riguardano le garanzie poste dalla legge nei confronti degli originari possessori, i loro eredi ed aventi causa. Hinrichs e Johannsen inseriscono nella lacuna tra le linee 2 e 3 un riferimento all’attività delle commissioni commissioni triumvirali, cioè alle assegnazioni di terra fatte da questi magistrati[120]. Questo significherebbe che ogni assegnazione di pubblica terra eccedente il limite legale, che fosse fatta dopo, o non, dalle commisssioni triumvirali (la situazione descritta da Appiano in b.civ. 1.27.122 dopo la ‘seconda legge’) non sarebbe stata riconosciuta come titolo legittimo di possesso dalla legge epigrafica[121]. Lintott esclude tale possibilità in quanto la linea 16-17 non contempla una menzione relativa ai possessori di terra che sibei sumpsit reliquere e dunque limita la clausola di cui alla linea 16-17 alle sole situazioni di possessi di terra registrati dalle commissioni graccane[122].

 

7. – L’attività delle commissioni agrarie graccane: commento alle linee 3, 4 e 5

 

La legge che stiamo commentando contiene numerosi e precisi riferimenti alle commissioni agrarie istituite dai Gracchi[123]. La prima menzione chiaramente distinguibile è nella linea 3 che riguarda i terreni che queste hanno assegnato in lotti ai cittadini romani (quoieique de eo agro loco ex lege plebeive sc(ito) IIIvir sortito ceivi Romano dedit adsignavit)[124]. Segue un riferimento possibile alla linea 4 a delle terre assegnate in cambio di altre terre cedute alle commissioni (ager commutatus?). Sicuro è invece il riferimento alle terre assegnate dalle commissioni agrarie situate in Italia, fuori Roma, in urbe, oppido o vico presente nella linea 5: quisq]ue agri locei publicei in terra Italia, quod eius extra urbem Romam est, quod eius in urbe oppido vico est, quod eius IIIvir dedit adsignavit, quod…[. Infine, alla linea 7 si distingue chiaramente un riferimento a quelle terre assegnate dalle commissioni inserite in pubblici registri (formas tabulasve) e su cui insistono degli edifici (in terra…Italia IIIvir dedit adsignavit reliquit inve formas tabulasve retulit referive iusit: ager locus aedificium omnis quei supra scriptus).

La dottrina prevalente interpreta il significato della linea 3 ritenendo che il legislatore del 111 in questo caso abbia inteso riferirsi soltanto ad assegnazioni coloniarie che avvenivano per sorteggio (sortitio)[125].

Sul punto si registra tuttavia una forte corrente di opinione minoritaria che fa capo al Saumagne che invece tende a riconoscere in tale linea soltanto una categoria di terreni che le commissioni graccane avrebbero assegnato a sorte a dei cittadini romani.

In effetti, la presenza nella linea 3 della frase IIIvir sortito ceivi Romano dedit adsignavit costringe gli interpreti a considerare il metodo del sorteggio quale elemento distintivo per la qualificazione dei terreni contemplati in questa linea della legge. Ebbene per il Mommsen, che trascura le modalità di distribuzione delle terre viritim: “quomodo ager viritanus datus sit, ignoratur”[126], e riempie le lacune delle linee 19 e 20 nel senso che il legislatore avrebbe abolito il vectigal, giustifica l’apparente incongruenza di una norma che avrebbe eliminato il vectigal per terreni che non ne sarebbero stati assoggettati per definizione (dato che le terre coloniali sarebbero esenti da imposizione), affermando che la legge antigraccana avrebbe cercato di evitare la costituzione di nuove colonie proprio inserendo nel testo di legge questa categoria di terreni.

Per il Saumagne che, all’opposto, sostiene la tesi che il legislatore del 111 con le linee 19 e 20 avrebbe confermato il vectigal, la presenza di una categorie di terreni assegnati in sede di deduzione coloniaria alla linea 3 dà fastidio nel senso che l’ager coloniarius non avrebbe potuto essere assoggettato al vectigal. Ed allora esclude che alla linea 3 la frase ager sortitio civi datus possa riferirsi a terre coloniali. Afferma così che il legislatore alla linea 3 avrebbe inteso riferirsi a dei lotti di terreno assegnati dalle commissioni triumvirali a cittadini romani estratti a sorte. Pur se resi privati, tali possedimenti sarebbero tuttavia stati sottoposti comunque a vectigal. La presenza di terre rese private in aree coloniali contrasta infatti con la tesi di fondo dello studioso perché le terre delle colonie per definizione erano esentate dal vectigal. Contrasta però anche con la visione del Mommsen perché sarebbe altrettanto un’incongurenza del legislatore contemplare una categoria di terreni come quella dei lotti inseriti nelle aree coloniali e nello stesso tempo statuire una norma di abolizione del vectigal.

Il Saumagne giustifica l’incongruenza rilevando (forse con ragione) che la parte della legge agraria epigrafica dedicata ai possedimenti italici contempla circa 3.800 lettere delle quali almeno 2.000 sono andate perdute, mentre le restanti da sole non propongono un’interpretazione coerente[127]. Si capisce però che questa stessa argomentazione può essere utilizzata anche per avvalorare la tesi da lui avversata. La questione come si vede è molto complessa.

In effetti l’attribuzione viritana di terra è attestata dalle fonti anche in sede di deduzione coloniaria[128]. Cornelio Frontone – che Gellio riferisce di aver visto commentare con competenza e amor antiquae orationis il tredicesimo libro degli Annales di Claudio Quadrigario (13.29.3) –, afferma [ad ver. imp. (Naber 125)]: Gracchus …Carthaginem viritim dividebat. Dove è noto che Caio Gracco fondò la Colonia Iunonia Carthago. Così è per la fondazione della colonia di Volscos: Coloniam in Volscos, quo tria milia civium romanorum scriberentur, deducendam censuerant, tre virique ad id creati terna iugera et septunces viritim diviserant.

Lo stesso si può dire per la controversa proposta agraria di Spurius Maecilius e Metilius tendente ad imporre un vectigal sui possedimenti dei patrizi nel 417 a.C., poi forse trasfusa nella rogatio Sextia de agris dividendis et de colonia Bolam deducendo del 415/414 a.C.[129] Livio collega le assegnazioni viritane di tali rogationes alla fondazione della colonia di Labico: 4.47.6: senatus censuit coloniam Labiscos deducendam; 4.49.4: Excursiones inde in confinem agrum Labicanum factae erant novisque colonis bellum inlatum; 4.49.6: qua Bolas quoque, sicut Labicos, coloni mitterentur. Il Mommsen rileva che Labico non fu una colonia, dato che, a Vulci, Livio scambia una adsignatio per una deductio, ma trova significativo che lo storico abbia considerato possibile un accostamento tra una proposta di assegnazione viritana e la deduzione di una colonia[130].

Infine, lo stesso heredium, veniva distribuito viritim e veniva chiamato anche sors perché la distribuzione viritana era accompagnata da un sorteggio.

Nonostante l’acutezza e la forza argomentativa del Saumagne sul punto la tesi argomentativa della dottrina più recente pare più convincente.

Una volta fatta la centuriazione del territorio da dare e assegnare, la distribuzione di terra in lotti era comunque il modo usuale di procedere per le assegnazioni individuali da parte delle commissioni agrarie[131]. Va rilevato infatti che l’apparizione di assegnazioni in lotti di questo tipo alle linee 15-16 [Ager publicus populi Romanei, quei in Italia P. Mucio L. Calpurnio cos. fuit, eius agri IIIvir a(greis) d(andeis) a(dsignandeis) ex lege plebeive scito sortito qoui ceivi Romano dedit adsignevit] dove il legislatore si occupa delle concessioni fatte in via giudiziaria appena prima di un capitolo di legge relativo alle conferme giudiziarie relative ai possedimenti dei veteres e pro veteres possessores[132], dimostrerebbe che le assegnazioni di cui si parla alla linea 3 riguarderebbero proprio le deduzioni coloniarie fatte per la prima volta da Tiberio Gracco[133].

Più complesso, invece, è il problema interpretativo legato alla restituzione della linea 4. Un punto fermo mi pare sia quello indicato dal Lintott relativo alla presenza congiunta delle parole redditus connessa al sintagma datus adsignatus[134]. Ciò vuol dire che questa parte della legge si occupa in ogni caso di terre che in qualche modo sono assegnate da un’autorità. Questo dato va messo in relazione con la famosa notizia di Appiano in b.civ. 1.7.27, per il quale, parte dell’ager conquistato (occupatorius), poteva essere coltivato da chi volesse, purché autorizzato dallo Stato, attraverso un editto magistratuale (™pek»rutton). Questo a significare che già con le porzioni di ager conquistato c’era necessità di un provvedimento dello Stato[135].

Il De Martino contesta invece la restituzione di Mommsen che è quella riportata in corsivo nel testo della lex agraria epigrafica che ho trascritto nel capitolo precedente (quei agrum privatum in publicum commutavit, pro eo agro loco a IIIviro datus commutatus redditus est)[136] e preferisce seguire, non senza qualche riserva, la ricostruzione del Rudorff perché ritenuta più logica (de eo agro loco quei ager locus veteri possessori prove vetere contra ius ademptus, deinde a IIIviris causa denuo cognita redditus est)[137]. Afferma il De Martino che secondo la restituzione del Mommsen si avrebbe un’inutile ripetizione di quanto previsto nelle linee 23-24 (dove si parla della terra data in permuta in occasione della fondazione di una colonia) e 27-28 (dove si parla della terra privata scambiata con terra pubblica anche se questa terra privata era ager patritus) ed, inoltre, che alla linea 7 non si fa menzione né di ager redditus, né di ager commutatus[138].

In effetti il De Martino fonda la sua convinzione partendo dall’idea di ager commutatus formatasi in base alle linee 23-24 e 27-28 e che, ai sensi di quanto dispone la legge agraria epigrafica alla linea 27, fu dichiarata ager privatus: is ager locus do]mneis privatus ita, utei quoi optuma lege privatus est, esto. L’ager commutatus sarebbe il terreno avuto dalle commissioni agrarie in cambio di precedenti possedimenti: “…cioè i terreni dati in cambio di quelli in coloniam contributi, vale a dire tolti ai precedenti possessori, anche se non eccedevano i limiti legali, per rendere possibile le centuriatio nella deduzione di colonie. Ma se veniva commutato un fondo, che era in piena proprietà quiritaria, allora anche quello ricevuto in cambio era privatus optima lege, cioè anch’esso nella stessa condizione giuridica”[139]. Si tratta di una posizione discutibile almeno per quanto riguarda la possibilità che esistesse, se non all’età della lex agraria epigrafica, almeno a quella della riforma di Tiberio Gracco, una categoria di fondo posseduto a titolo di piena proprietà quiritaria.

Sull’argomento ritornerò ampiamente.

Restiamo invece sulla linea che stiamo commentando. L’obiezione del De Martino sembrerebbe di per sé corretta, ma nulla dice che alla linea 4 il legislatore non abbia inteso riferirsi ad una categoria di ager permutato (commutatus), o scambiato, diversa da quella prevista nelle linee 23-24 e 27-28. In fondo è da qui che parte il Mommsen, riprendendo un’indicazione già formulata dallo Zumpt[140].

Possiamo ricorrere ad Appiano che descrive molto bene il clima politico del 129 a.C.:

 

Appian. b. civ. 1.18.74 - 77: KaÜ taxç pl°yoV ·n dikÇn xalepÇn: ÷sh gŒr llh plhsizousa t»de ¤p¡prato ³ toÝV summxoiV ¤pidi¹rhto, diŒ tò t¯sde m¡tron ¤jhtzeto pasa, ÷pvV te ¤p¡prato kaÜ ÷pvV ¤pidi¹reto, oìte tŒ sumbñlaia oëte tŒV klerouxÛaV ¦ti ¤xñntvn pntvn: d¢ kaÜ eêrÛsketo, ŽmfÛloga ·n. [75] ƒAnametroum¡nhV te aêt°V oá m¢n ¤k pefuteum¡nhV kaÜ ¤paæleon ¤V cil¯n metetÛyento, oá dƒ ¤j ¤nergÇn ¤V Žgròn µ lÛmnaV µ t¡lmata, oêd¢ t¯n Žrk¯n ÉV ¤pÜ dorikt®toiV Žkrib° pepoihm¡noi t¯n dianom®n.[76]KaÜ tò k®rugma, t¯n Žn¡mhton ¤jergzesyai tòn ¤y¡lonta prol¡gon, ¤p»re polloçV tŒ klerÛon ¤ktonoèntaV t¯n ¤kat¡raV öcin sugx¡ai: xrñnoV te ¤pelyÆn ¤neñxmvse pnta.[77] KaÜ tò tÇn plousÛvn ŒdÛkema kaÛper ön m¡ga dusepÛgnvstov ·n. KaÜ oéd¢n Žllƒ µ pntvn ŽnstasiV ¤gÛgneto metaferom¡nvn te kaÜ metoikizom¡nvn ¤V Žllñtria[141].

 

Alla luce di questo racconto credo si comprenda agevolmente come mai le commissioni agrarie possano aver sentito la necessità di rimuovere alcuni possedimenti dai loro possessori e compensarli con altre terre in cambio; e, questo, non necessariamente in un quadro esclusivo di deduzione di colonie. A questo tipo di ager commutatus è dedicato esplicitamente il capitolo di cui alle linee 20-24 della legge. Mentre, le due previsioni relative ai terreni scambiati con le commissioni agrarie, che da privati diventano pubblici e che da pubblici diventano privati, cioè quelle previste alle linee 26-27, secondo Lintott sarebbero da riferire alle strade fabbricabili e a terreni che diventerebbero proprietà private a pieno titolo (optimo iure). Ritorneremo sul punto in sede di commento di queste linee[142].

Alla linea 5 leggiamo le seguenti parole: quisq]ue agri locei publicei in terra Italia, quod eius extra urbem Romam est, quod eius in urbe oppido vico est, quod eius IIIvir dedit adsignavit. Il riferimemento è dunque ancora relativo alle terre pubbliche fatte oggetto di assegnazioni dalle commisssioni agrarie all’epoca molto probabilmente di Caio Gracco e geograficamente ubicate extra urbem Romam. Laconico il commento di Crawford il quale al riguardo sottolinea soltanto che tale indicazione autorizzerebbe a dire che porzioni di ager publicus populi Romani potevano essere ubicate anche nel perimetro delle città[143]. In realtà dietro la breve indicazione di questo capitolo della legge si nasconde un problema molto grosso che è quello dell’estensione delle assegnazioni delle commissioni graccane anche ai non Romani, ossia ai Latini e ai soci italici.

Aderendo all’impostazione della Johannsen[144], A. Lintott esclude l’idea che la legge in questo caso stia parlando di assegnazioni ai non Romani adducendo come principale argomento il fatto che poco più avanti il legislatore statuirà nel senso di obbligare al censore romano di registrare questi possedimenti come terre private (linea 8). Sostiene, invece, che i non-Romani privi di ius commercium non avrebbero potuto possedere in proprietà terre di Roma[145].

Sebbene questo argomento non mi sembri del tutto persuasivo perché si basa su un’idea di proprietà privata della terra francamente inaccettabile sul piano storico (l’esistenza o meno del ius commercium in ordine al problema dell’organizzazione dell’ager publicus in età graccana mi pare abbastanza marginale rispetto a quelli che dovevano essere i moventi di natura ideologica e politica che potevano muovere le fazioni in conflitto tra loro), mi suggestiona l’accostamento con l’indicazione appianea di cui in b.civ. 1.7.26[146]. Effettivamente questo aggancio consentirebbe di includere nella previsione della lex agraria epigrafica anche i terreni (colti ed incolti) conquistati sin dall’epoca delle confische dei territori delle popolazioni defenzionate contro Roma all’epoca della seconda guerra punica (ager occupatorius?)[147]. Il Lintott commenta: “The home territory of a Roman colony or municipium (as opposed ti land leased by it from the Roman people, once it had been assigned, as in lines 31 ff) can hardly have remained public land of the Roman people, once it had been assigned”[148].

Secondo il De Martino si tratterebbe di assegnazioni fatte dalle commissioni graccane senza sorteggio ai Latini e ai soci italici ed in effetti, in questo caso, non vedo particolari ragioni per non seguire l’impostazione di questo grande Maestro. Alla linea 3, come abbiamo visto, si parla di assegnazioni a cittadini Romani (sortitio ceivi Romano) alla linea di cui stiamo occupando si parla di assegnazioni extra urbem Romam e, soprattutto, senza sorteggio[149]. Quindi disposizioni di legge che molto probabilmente si riferiscono ai Latini e agli Italici, in base alle quali tutte le facoltà riconosciute ai cittadini Romani sull’ager publicus nel 133 a.C. verrebbero riconosciute anche a queste categorie di cittadini non Romani. Lo stato di diritto sarebbe quello vigente nel 112 a.C. che è l’anno del consolato di M. Livio e L. Calpurnio e tali facoltà sarebbero state riconosciute (ex lege plebeive scito exve foedere) e confermate (sed fraude sua facere liceto). Secondo il De Martino i diritti del Latini o peregrini avrebbero potuto essere contemplati o nella legge di Caio Gracco o derivare da un foedus. Il riferimento all’anno 112, e non al 133 o 123, dimostrerebbe inoltre che la legislazione graccana non contemplava previsioni verso queste categorie di soggetti. Forse affidava alle commissioni triumvirali il compito di procedere con l’attuazione della riforma anche nei confronti di queste categorie[150].

 

8. – Il sistema di assegnazione viritano e delle colonie: il modus agri

 

Abbiamo visto che la linea 3 riguarda i terreni assegnati in lotti ai cittadini romani dalle commissioni agrarie: quoieique de eo agro loco ex lege plebeive sc(ito) IIIvir sortito ceivi Romano dedit adsignavit.

In effetti, prima dell’età dei Gracchi, le fonti registrano una serie di provvedimenti in materia agraria che sostanzialmente si riferiscono alla deduzione di colonie e ad assegnazioni viritane di terra pubblica[151]. Sia per le assegnazioni viritane (assegnazioni individuali, distribuzioni di terre ai veterani o ad altri beneficiari) che per quelle coloniarie (insediamenti territoriali di collettività agrarie coese) veniva seguita una procedura prestabilita che si modificò anche nel corso del tempo[152].

A questo riguardo si deve distinguere tra il sistema della conternatio mediante il quale si procedeva alle assegnazioni viritane e quello della decuriatio che per Weber sarebbe stato il sistema tipico delle deduzioni coloniarie[153]. Tra queste due forme di insediamento il legame era comunque molto stretto se si tiene conto di Tacito che in ann. 14.27.2-3 afferma che il successo delle deduzioni coloniarie più antiche era dovuto al fatto che in esse si procedeva all’insediamento di universae legiones, con i tribuni, i centurioni e i soldati di ciascun ordine. Secondo Tacito nella legione vi era un embrione di res publica, che una volta lasciate le armi, sarebbe stata pronta ad evolvere in una comunità vitale[154]. Il dato conferma indirettamente la giusta prospettiva di chi pensa ad una assimilazione tra il valore semantico originario di populus e l’esercito.

Entrambi sono descritti dalle fonti gromatiche. Il primo, la conternatio, appunto, era un meccanismo retto dal principio di base della uguaglianza formale degli assegnatari. Si estraevano a sorte tre coloni per ogni centuria. A sua volta, ogni centuria veniva divisa in tre lotti di eguale estensione ed alla fine della procedura ogni colono sceglieva il proprio lotto di terra[155]. Questo sistema, ritenuto più antico, avrebbe avuto come caratteristica il fatto che non si sarebbe proceduto ad una stima reale della qualità (valore) delle singole particelle.

Il procedimento tipico delle assegnazioni coloniarie era invece quello della decuriatio. Le commissioni raggruppavano i coloni in decuriae e formavano delle sortes di terra sufficienti per ognuna delle dieci assegnazioni. Tutte queste procedure, naturalmente, avvenivano per sorteggio. Sempre mediante estrazione a sorte, si attribuiva una sors a ciascuna decuria, e poi, entro la decuria stessa, per ogni colono veniva estratta una particella di terreno che veniva definita accepta[156].

Sulla diminuzione di ciascun lotto di terreno e sul criterio di assegnazione a ciascun colono, come è noto, c’è una vexata quaestio.

Secondo Weber le acceptae sarebbero state misurate ex ante, la qual cosa spiegherebbe il motivo per cui le parti assegnate avevano una diversa estensione. Le continuae possessiones infatti, all’occorrenza, sarebbero state assegnate dalle commissioni agrarie all’uopo deputate in compensazione ai percipientes[157]. Il Mommsen, come è noto, critica questa posizione evidenziando che l’idea di una stima ex ante delle particelle oggetto delle assegnazioni non sarebbe giustificata dalle fonti. Il principio dell’uguaglianza delle assegnazioni sarebbe stato infatti già assicurato dalla possibilità per tutti gli aventi diritto di avere accesso al sorteggio[158]. Al di là di questo aspetto tecnico del sistema di assegnazione coloniario, mi interessa sottolineare come per Weber, il sistema del sorteggio fosse espressione diretta di una preoccupazione di uguaglianza sostanziale che, a suo modo di pensare, avrebbe ispirato ab initio la disciplina delle organizzazioni agrarie antiche. Dietro questa considerazione vi era l’idea di Weber della sequenza evolutiva che caratterizzò la storia dei rapporti fondiari in Roma antica. Ma su questo aspetto dovremo ritornare.

Vorrei solo aggiungere che l’idea di Weber, che interpreta la distribuzione della terra ai coloni, ossia la divisione in centuriae senza individuazione dei singoli lotti, come dettata da un mero interesse dello Stato alla sola imposta patrimoniale (di qui la necessità dell’indicazione della sola misura dell’assegnazione), mi pare plausibile[159].

Da un punto di vista storico, come punto di riferimento per considerare certamente avviato il processo di centuriazione di Italia, possiamo prendere il 329 a.C., data (attestata archeologicamente) della fondazione della colonia romana di Tarracina sulla vecchia Anxur. Una prospettiva molto interessante viene suggerita da Gennaro Franciosi che considera questo termine può essere preso come dies a quo anche per considerare in modo concreto il problema della evoluzione storica dell’acquisto per usus dei fondi[160]. Ma procediamo con ordine.

 

9. – La dissoluzione del modus agri

 

L’esistenza di un sistema di assegnazione del modus agri basato su un’idea astratta di quota e non sull’identificazione specifica di una particella di terreno dipende dal fatto che le prime assegnazioni coloniarie e viritane avvenivano mediante un’attribuzione pro capite o in sortem, cioè a misura e non a corpo[161].

Questo sistema, se presentava il vantaggio di rendere assolutamente fungibili tutti i lotti di terreno idea perfettamente coerente con il principio della indisponibilità delle res sacrae=publicae, aveva tuttavia dei limiti che nel corso del tempo ne avrebbero determinato la dissoluzione. La questione non è di poco conto perché, come già intuì Weber, le forze che portarono al superamento di questo sistema in materia di gestione dei rapporti agrari determinarono anche il superamento dell’antico sistema collettivistico (Haufenverfassung, letteralmente: ‘la costituzione del mucchio’) in favore della proprietà individuale[162].

Il problema è molto complesso e bisogna procedere quindi con ordine. Anzitutto, si deve capire il perché del modus agri e perché questo risultava legato ad un’idea di quota dato che, si deve ribadire, il modus agri era comunque una misura astratta. In altre parole, i magistrati della res publica non assegnavano terreni concretamente delimitati da confini certi e individuati, bensì delle quote che erano parte dell’intero territorio soggetto al provvedimento di assegnazione viritana o di deduzione coloniaria.

La cosa si può spiegare pensando che l’ager publicus populi Romani per definizione, almeno quello che costituì l’oggetto della lex Sempronia agraria, ma come vedremo anche quello che costituì l’oggetto delle assegnazioni viritane più antiche, era un territorio non suscettibile di appropriazione privata nelle forme definitive della proprietà così come viene intesa in senso moderno e dai giuristi romani dell’ultima repubblica con l’espressione dominium ex iure Quiritium. Questo non solo perché perché tale istituto non era probabilmente ancora emerso dal magma delle conoscenze guridiche più antiche, ma anche perché, in quanto pubblico (e quindi sacer), era anche sottratto al commercio privato.

Per la lex Sempronia agraria la natura del diritto dei vecchi possessori, non fu mai quella della proprietà privata, ma quella di un possesso irrevocabile (perpetuo) da parte della res publica purché rientrasse nei limiti imposti dalla legge[163].

Per quanto riguarda le assegnazioni viritane e in particolare la qualificazione giuridica della natura dei diritti acquistati dai beneficiari si possono citare due passi famosi, quasi contigui, tratti da un contesto omogeneo e molto autorevole. Il primo è una glossa di Festo in cui si dice che i ‘possedimenti’ erano i terreni pubblici e privati che, non in virtù di mancipatio, ma di ‘usus’ venivano posseduti e che chiunque li avesse occupati li avrebbe posseduti: Fest. sv. possessiones (L. 277,4): Possessiones appellantur agri late patentes publici privatique, quia non mancipatione, sed usu tenebantur, et ut quisque occupaverat, possidebat[164]. Il secondo è un altro luogo della glossa festina in cui è riportata la nota definizione del giurista (grammatico) Elio Gallo: Fest. sv. Possessio (L. 260,28): Possessio est, ut definit Gallus Aelius, usus quidam agri, aut aedifici, non ipse fundus aut ager. Secondo la definizione di Gallo, oggetto di possessio sarebbe stata non la cosa in senso fisico (fundus aut ager), ma l’usus, ossia la sua disposizione effettiva. Come afferma Mario Bretone (da cui ho parafrasato la traduzione di questo passo festino) una ennoia o una notio in senso stoico-ciceroniano[165].

Sul significato storico-giuridico di tale testimonianza ritornerò più avanti, quel che vorrei sottolineare fin d’ora è che in questa fonte, ogni forma di possesso di terra (agri late patentes publici privatique) o di bene immobile (quidam agri, aut aedifici, non ipse fundus aut ager), appare, da un lato, assolutamente svincolato dal rischio di una qualsiasi forma di usucapione acquisitiva, mentre dall’altro, risulta qualificato in senso astratto in modo del tutto simile al concetto di quota che c’è dietro il modus agri[166].

Si potrebbe quindi riconoscere anche una corrispondenza teorico-dogmatica (quindi non solo funzionale) tra il sistema del modus agri e quello della possessio dell’ager publicus. Sugli aspetti di carattere dogmatico giuridico relativi a tali fattispecie mi soffermerò in chiusura di questo capitolo. Quanto alle ragioni della dissoluzione di questo sistema appare persino intuitivo pensare che questo fenomeno è andato di pari passo (in un rapporto di dissolvenza incrociata) con quello dell’affermazione nella scienza giuridica romana di un concetto di proprietà individuale. Se si considera che le varie misure del terreno erano quote assegnate mediante lex o plebiscitum, quindi con atti autoritativi, il rischio di una modificazione o di una revocabilità di queste, era sempre presente. Il possesso, quale che fosse la sua fonte, era sempre una situazione di fatto pur se riconosciuta dall’ordinamento giuridico. La complessa articolazione della varie figure di possedimenti (assegnazioni viritane, coloniarie, agri redditi, commutati, etc.), così come si evince dalla stessa legge agraria del 111 a.C., e gli interventi in chiave regolatrice delle complesse vicende che dalla gestione di queste posizioni potevano scaturire, dimostrano proprio la precarietà di tali assegnazioni[167].

Furono probabilmente queste le motivazioni di fondo che spinsero il legislatore del 111 a legiferare anche nel senso di una trasformazione delle situazioni di possesso della terra pubblica in ager privatus (anche se questa misura da sola non risolveva tutti i problemi) e probabilmente fu questo uno dei punti più deboli della riforma graccana che invece fondava la sua strategia certamente sui principi dell’inalienabilità dei fondi e delle assegnazioni (misure necessarie per conferire stabilità ai possedimenti privati), oltre che sulla irrevocabilità dei possessi degli assegnatari[168]. Un principio di inalienabilità che, a prescindere dalla legge di Livio Druso che già nel 121 a.C. abolì formalmente tale vincolo per i terreni oggetto delle leggi Sempronie, era comunque facile disattendere come dimostra Appiano riferendosi al divieto di alienazione ventennale posto da Cesare con la lex Iulia agraria del 59 a.C.[169].

Di questo Max Weber fu certamente il primo a rendersene conto[170]. Lo studioso di Erfurt infatti giustamente individua nella regola dell’usucapione biennale estesa ai beni immobili (fundi e aedes) il meccanismo fondamentale che alla lunga garantirà l’armonizzazione della disciplina della proprietà alle aspettative sociali decisive per il successo della rivoluzione agraria dell’epoca graccana.

A questo punto si presenta un ostacolo di non poco momento con cui dover fare i conti, dato che per Weber, e d’altronde anche per la dottrina romanistica prevalente, la regola dell’usucapione biennale dei fondi e la sua estensione alle aedes, così come prospettata da Gaio, sarebbe stata introdotta dalle dodici tavole nella metà del quinto secolo a.C. Seguendo Gaio, Weber imposta la sua ricostruzione del passaggio in Roma antica da un sistema collettivistico della terra, alla proprietà individuale, proprio sul presupposto dell’introduzione decemvirale della norma sull’usucapibilità biennale dei beni immobili[171]. Condizionato quindi dalle notizie delle fonti giuridiche del secondo secolo d.C. che hanno anticipato tale regola all’età dei decemviri secondo un meccanismo già noto che è quello dell’incorporazione dell’interpretatio nel precetto decemvirale, riferendo alle dodici tavole la norma sull’usus biennale di tutte le res immobiles[172].

L’introduzione della regola sull’usucapione biennale dei beni immobili è interpretata da Weber (in modo assolutamente condivisibile) come l’elemento decisivo che portò a soluzione il contrasto tra alcune delle tesioni fondamentali esistenti nel diritto privato romano in materia di rapporti agrari (ma non solo): il conflitto tra mancipatio e traditio e quello tra la proprietà quiritaria e la cd. proprietà bonitaria[173]. Si diceva prima del meccanismo del sorteggio. Nel sistema romano di assegnazione della terra si sarebbe passati per Weber da una fase in cui si assegnavano solo delle quote di arativo e pascolo, dove l’esigenza preminente era fra l’altro quella di mantenere non frazionati i possedimenti fondiari per mantenere la posizione dell’erede nella tribù rustica individuata dalla dislocazione del fondo e dalla appartenenza alla classe di censo, ad un sistema detto di continuae possessiones, cioè basato sull’assegnazione di fondi compatti[174].

È questo il contesto in cui si sarebbe affermato il modus agri che era la quantità di terra (ossia, un certo numero di iugera all’interno della centuria) che i magistrati assegnavano a ciascun colono. Si trattava di una misura di terra in un territorio assegnato dallo Stato. Nelle formae veniva inscritta la misura del modus assegnata a ciscun colono ed era questo l’oggetto giuridico specifico del procedimento di assegnazione.

 

10. – Dall’alienazione di una quota al trasferimento di un bene specifico

 

Una novità sostanziale per Weber sarebbe stata quella della possibilità di alienare il modus agri mediante mancipatio. Una possibilità certamente innovativa rispetto al principio dell’inalienabilità delle quote di arativo e di pascolo. A parte la testimonianza di Gaio che, ancorché tarda, è molto significativa: Gai. 2.29: Sed iura praediorum urbanorum in iure cedi tantum possunt; rusticorum vero etiam mancipari possunt. L’ipotesi è certamente plausibile se si pensa che le fonti, già per il terzo secolo a.C., dimostrano chiaramente un uso della mancipatio (si pensi ai negozi per aes et libram) in funzione astratta e non più solamente reale (come mero strumento di alienazione dei beni mobili). Mi limito a citare a questo riguardo il testamentum per aes et libram, la costituzione di dote, il negozio costitutivo di manus maritalis, etc. Così è perlomeno possibile pensare con Weber che la mancipatio dei fundi italici sarebbe diventato lo strumento più comodo per commerciare la terra a iugeri (come dimostrano anche le linee 45-47 della legge agraria epigrafica) in tutti quei casi fosse stato possibile alienare un fondo. Roma, dal canto suo, che era il luogo in cui venivano custodite le carte topografiche e i registri del censo, sarebbe diventata centro di un commercio fondiario senza eguali nella storia[175]. Storicamente il fenomeno dovette raggiungere il suo apice durante il II secolo a.C., una volta risolta la questione annibalica.

Weber pensava di provare il suo assunto in base al capitolo undicesimo del Digesto che titola si mensor falsum modum dixerit. In base ai testi ivi raccolti si evincerebbe che la terra veniva alienata a iugeri e che gli agrimensori erano chiamati a misurare un apezzamento corrispondente al modus agri indicato dai contraenti, che giova ripetere, era la misura concreta di un’ideale (penso alla propensione verso l’astratto tipica della scuola giuridica dei Mucii) partecipazione al possesso dei lotti coloniali[176]. L’ipotesi è scartata da Biagio Brugi per l’età classica, ma il discorso resta valido per l’epoca arcaica[177].

Si deve convenire che anche questa ipotesi è molto suggestiva. In effetti la legge agraria attesta che nel 111 il legislatore si pose anche il problema di regolamentare la posizione di quei possessori, di quei titolari, di quegli aventi diritto, che in ordine ad appezzamenti di terreno a vario titolo avuti in assegnazione, ovvero acquistati mediante atti di alienazione inter vivos o mortis causa, potevano avere dei problemi in ordine alla titolarità o alla tutela delle proprie posizioni possessorie. Il legislatore del 111 a.C., come vedremo, disciplinerà tutta una serie di posizioni giuridiche che riguardano le figure di riferimento alle posizioni di garanti o di praedes e publicani; ma, soprattutto, nel testo della legge del 111 si legge chiaramente anche il termine manceps. Lo si vede nella linea 48: quei ob eu]m agrum locum manceps praesve factus est, quodque [pr]aedium ob [eam rem in publico obligatum est…q]uei ager locus in Africa est, quei Romae publice e nella linea 100: manceps prae]videsque nei magis solutei sun[to; eaque]nomina mancupu[m[178].

È evidente il legame con il termine arcaico mancipium ma non credo che da questo solo dato si possa dedurre che il legislatore del 111 nella linea di legge citata si riferisca ad una modalità negoziale realizzata mediante mancipatio. Facendo riferimento al frammento dell’epitome paolina del vocabolario di Festo che riporto in nota, dovremmo dedurre allora che l’emptio-venditio fosse una forma di mancipatio. Sarei più propenso a credere che invece l’uso di definire il pubblicano con un termine così pregnante sotto il profilo semantico derivi dal fatto che ormai la mancipatio come strumento negoziale aveva esaurito tutta la sua tipicità cusale per essersi invece trasformato in un modello utile a realizzare anche scopi diversificati in ragione di una sopraggiunta astrattezza causale riconosciuta peraltro come tale anche dai giuristi dell’età medio repubblicana. Fin qui il discorso potrebbe bastare, ma le voci di Festo su manceps (L. 137,12) e (L. 115,19), richiamano molto da vicino la definizione di fundus (L. 79,3) su cui ci siamo soffermati prima: Fundus quoque dicitur populus esse rei, quam alienat, hoc est auctor. Mi pare di poter dire che qualsiasi cosa fosse il fundus per il diritto romano arcaico, questo era perfettamente trasmissibile e negoziabile per i suoi titolari. Abbiamo altresì visto in Frontino (Lach. 29, 30=Thul. 13, 20) che il fundus era in origine un’unità fissa di terreno corrispondente a mezzo iugero e quindi corrispondente, nella misura equivalente dei bina iugera alla sors coloniale [1/2(fundus) x 4=2 iugera=actus=sors]. Curiosamente questa corrispondenza equivale alla misura agraria più risalente che conosciamo, ossia l’acnua etrusco (=bina iugera) e tutto questo corrisponde alla misura agraria più risalente che le fonti antiche riportano, ossia l’heredium. Le fonti quindi attestano una possibile corrispondenza tra il fundus arcaico e l’heredium. Sappiamo che l’heredium era la forma più antica di proprietà in un senso che può essere accostato a quello moderno. Una quantità (a questo punto si può dire) che era quanto meno trasmissibile iure ereditario e comunque difendibile processualmente [nelle forme dell’actio sacramenti in rem? In un primo momento come difesa di status (fundus=appartenenza alla comunità), come sostiene Max Weber?]. A far tempo dall’epoca delle conquiste coloniali si può ipotizzare che l’unità di misura delle assegnazioni viritane fosse stata concepita sull’esempio dell’heredium. Di qui la corrispondenza tra la misura dei bina iugera e della sors come unità di misura delle divisioni coloniali. La sors non aveva però la caratteristica di bene oggetto dell’antica hereditas in senso reale come l’heredium perché era pur sempre una forma di possesso (di ager publicus). In quanto assegnazione viritana poteva essere però commerciata, trasmessa ereditariamente e difesa processualmente (mediante, come abbiamo visto, la possibilità di esperire un’actio de modo e poi de loco)[179].

Tutto questo è un discorso che va approfondito in altra sede, non possiamo stupirci però se fundus è assente nella legge del 111 e se i giuristi romani dell’età classica trovarono così tante difficoltà nel definire il fundus in relazione all’ager, al locus e all’aedificium.

 

11. – Il riferimento a urbs, oppidum e vicus nella linea 5

 

Ritorniamo al commento della legge che era arrivato alla linea 5. Aggiungerei a questo riguardo due ulteriori considerazioni.

La prima. Il riferimento alla tricotomia urbs, oppidum e vicus per descrivere le unità territoriali extra urbem Romam diverse dalle colonie e i municipia di cui la legge si occupa più avanti, evidenzia forse il modo di concepire la struttura del territorio italiano all’epoca della legge agraria per la classe di governo a Roma[180]. Quanto meno siamo di fronte ad un riscontro molto significativo sul piano del linguaggio tecnico giuridico (anche se nel caso di specie sarei propenso ad interpretare quod eius in urbe oppido vico est della linea 5 in senso descrittivo e non qualificativo). È noto che in senso augurale urbs era la città pomeriale, ossia la città fondata ritu Etrusco, cioè secondo il rituale degli auguri[181]. Invece l’oppidum, oltre che la città fortificata, era (sempre in senso augurale) l’abitato privo di pomerio. Il vicus era, infine, il distretto territoriale privo di tali caratteristiche ma che in senso rurale costituiva il primo elemento di aggregazione delle comunità sparse per l’ager[182]. Mi pare importante in questa sede sottolineare il fatto che la legge epigrafica in ragione della menzione testè evidenziata, qualifichi tali nozioni anche dal punto di vista del diritto laico[183]. In altre parole, la nozione certamente molto risalente di urbs, quella più recente (età delle conquiste) di oppidum, e quella di vicus rurale (mai scomparsa dalle fonti) appaiono livellate in un contesto giuridico omogeneo[184]. In questo contesto è chiaro che il legislatore si riferisca ancora alla figura del vicus arcaico[185].

Si può rilevare allora una consistenza del vicus come unità di suddivisione del territorio legata più ad una razionalizzazione dello stesso (frutto di mentalità giuridica? Ancora i Mucii?), piuttosto che un effetto naturale della presenza dello stesso in una circoscrizione territoriale inserita in un contesto territoriale dominato dal principio di uno ‘stato etnico’ o di tipo tribale arcaico. Una certa confusione terminologica nelle fonti che per indicare i rioni della città serviana (Roma quadrata), usano sia il termine pagus che il vicus; ovvero che registrano come festa attinente agli abitanti del vicus i Compitalia(= festa dei ‘crocicchi’) che erano all’incrocio delle linee di demarcazione dei campi – in cui si sacrificava una scrofa gravida (piena di grano), la porca precidanea, tutto questo sempre in occasione della nascita del nuovo grano –, si può forse spiegare pensando che queste fonti appartengono ad un’epoca in cui Augusto aveva già abolito il sistema dei pagi con l’istituzione dei vici, e quindi decretato la fine del pagus arcaico (o forse, sarebbe meglio dire, l’epoca in cui si completerà il processo di urbanizzazione e razionalizzazione del sistema territoriale italico). L’assenza del pagus nella legge agraria epigrafica forse consente di retrodatare tale fenomeno almeno alla fine del II secolo a.C. Forse le previsione della legge agraria può rappresentare il momento in cui il vicus arcaico prese il sopravvento sul pagus arcaico, in una società ormai definitivamente proiettata verso un’urbanizzazione massiccia.

E siamo alla seconda considerazione.

La legge agraria del 111, come è stato appena sottolineato, non menziona affatto il pagus, né si può pensare che questa previsione sia stata nascosta dalle lacune del testo[186]. La cosa non sorprende se si pensa che in un noto frammento ciceroniano si registra la stessa mancanza: Cic. de re p. 1.2.3: Equidem quem ad modum “urbes magnas atque inperiosas”, ut appellat Ennius, viculis et castellis praeferendas puto, sic eos, qui his urbibus consilio atque auctoritate praesunt, iis, qui omnis negotii publici expertes sint, longe duco sapientia ipsa esse anteponendos. La circostanza interessante è che Cicerone cita Ennio ed è possibile che l’endiadi viculis et castellis provenga dallo stesso testo enniano. Storicizzando la questione si può dire in senso generale che la cosa potrebbe spiegarsi perché quasi certamente il pagus dell’età monarchica di Roma non può essere in qualsiasi modo assimilato al pagus che rileva nelle fonti gromatiche e giuridiche del corpus giustinianeo. Probabilmente, all’epoca della legge agraria epigrafica, questa figura era stata già soppiantata dal vicus arcaico nei modi di strutturazione del territorio extra urbano, romano. Tutto ciò forse alimenta l’idea già presente in Pap. Oxy. 2088, 11 s. per cui Servio Tullio avrebbe radicalmente riformato il sistema di ripartizione territoriale sostituendo al sistema per pagos et gentes un meccanismo articolato in vici e tribù[187].

A ben vedere, la figura del pagus più antico che è presente copiosa nelle fonti annalistiche e non per l’età più antica di Roma, si configura come qualcosa che ‘preesiste’ ma che poi viene se non soppiantata, almeno affiancata, da un ‘altro’. Sembra evidenziarsi in altre parole una vocazione ‘quasi naturale’ di tale fattispecie rispetto ad una vocazione molto più tecnica (perché forse giuridicamente caratterizzata) del vicus (se guardiamo appunto all’epoca post arcaica o anche all’età augustea) o della tribù (se guardiamo all’epoca delle riforme serviane). In epoca domizianea il pagus sembra riemergere, ma solo in contrapposizione alla civitas come criterio residuale di qualificazione delle ripartizioni territoriali. Il contesto storico sociale però è profondamente mutato e in nessun caso assimilabile alla realtà arcaica (cioè fino al IV secolo a.C. circa)[188].

Il tratto caratteristico della storia del pagus (ossia di questo tipo di configurazione territoriale per tutta l’età repubblicana), almeno per l’ambiente di Roma, sembra essere stato quello di aver vissuto una tendenza involutiva almeno per l’età repubblicana[189]. Pur avendo un’origine antichissima (non avrebbero senso altrimenti i riferimenti di Dionigi e Plutarco in qualche caso addirittura all’età pre-monarchica di Roma), sembrerebbe che tale fattispecie abbia perso progressivamente importanza rispetto ad altre forme di ripartizione territoriale[190]. La qual cosa non per una decadenza della fattispecie in sé, quanto per l’affermazione di altre forme di insediamento territoriale più moderne ed evidentemente funzionali al sistema di insediamento romano via via che si è venuto estendendo a tutta la penisola. In questo quadro la vocazione del pagus arcaico, quale forma di insediamento territoriale delle genti italiche mi pare acquisti la sua dimensione più autentica.

La definizione dell’abitante del pagus come di un abitante di pianura, pur significativamente sostenibile, già per l’ultimo secolo della repubblica appare superata invece a fronte di attestazioni come quelle relative ad un pagus Montanus (CIL. 6.3823=FIRA. 1.272) o ad un pagus Ianiculensis (CIL. 6.2219). Non credo si possa contestare l’affermazione di Remo Martini per cui queste indicazioni toponomastiche si spiegherebbero per la zona di Roma con il fatto che si tratta di insediamenti successivi rispetto alla maggioranza dei pagi più antichi.

Se questo è vero allora già per l’epoca del SC. de pago Montano la dicotomia potrebbe considerarsi storicamente superata. E siamo forse al secondo vero punto di svolta per la storia del pagus come modello di insediamento territoriale per l’epoca repubblicana. Qui viene in aiuto un frammento di Livio.

Nel testo di una delibera senatoria del 212 a.C. sarebbe stata fatta menzione dei pagi insieme ai fora e ai conciliabula. Le circostanze erano drammatiche, si dovevano reclutare degli uomini per la leva al fine di costituire l’esercito che doveva contrastare i Cartaginesi. Il dato rilevante è che, posto il limite di cinquanta miglia da Roma, le commissioni triumvirali avrebbero dovuto setacciare ogni pagus, forum o conciliabulum posto al di qua o al di là di tale limite (Liv. 25.5.6-7): triumviros binos creari iussit; alteros qui ultra, alteros qui citra quinquagesimum lapidem in pagis forisque et conciliabulis omnem copiam ingenuorum inspicerent, et…etiamsi nondum militari aetate essent, milites facerent per reclutare quanti più uomini era possibile. La cosa interessante è che il modello del pagus compare insieme a quelo dei fora o dei conciliabula, segno del fatto che nuovi modelli di insediamento territoriale si erano affermati nel territorio soggetto al controllo romano. Tuttavia, a distanza di cento anni, l’ottica del legislatore romano sembra essere completamente cambiata come abbiamo visto dalla lettera della linea 5 del testo epigrafico.

Da ciò si deducono delle conseguenze a mio parere significative e che credo meritino di essere sottolineate anche in questa sede.

Il modello arcaico del pagus può essere venuto in conflitto con il sistema di ripartizione territoriale delle colonie dei fora e dei conciliabula ed era a questo certamente preesistente. Dico questo perché condivido l’impostazione di F. De Martino per il quale nel corso del tempo la fondazione della città, la deduzione di colonie e l’ordinamento territoriale avrebbero tolto al pagus (arcaico?) ogni rilievo[191]. Quindi la dicotomia pagus/milites forse è espressione di una realtà già tarda. Potrebbe infatti legarsi al sistema di insediamento romano per colonie. Secondo uno schema che potrebbe essere così semplificato. Da un lato gli abitanti del pagus (=pagani), dall’altro i coloni (=milites). Dovremmo essere quindi almeno in un’epoca successiva alla prima limitatio di Terracina del 329 a.C. che fu il primo insediamento territoriale in chiave espansionistica di Roma storicamente attendibile dell’età repubblicana. In questo quadro a mio avviso entra in gioco anche la nozione di paganus come di abitante del borgo, come di qualcuno che non è un miles, perché sarebbe oltretutto impensabile una nozione del genere prima che si affermasse a Roma il sistema per colonie. Ritorna il motivo suggerito dalle fonti di ‘qualcosa’ che storicamente si caratterizza per una tendenza di tipo involutivo. Del resto, il territorio, come ogni fenomeno reale, subì dei cambiamenti nel corso dell’evoluzione storica. Uno degli effetti dei nuovi modelli di ripartizione territoriale (che erano criteri comunque imposti dal diritto) probabilmente fu quello di determinare lentamente la fine dell’antico sistema, uno dei tanti effetti della fine dell’arcaismo. D’altra parte, per l’epoca più antica, abbiamo visto che precise testimonianze attestano con sufficiente attendibilità l’esistenza del pagus (di questo tipo di insediamento territoriale) in epoca pre-romana anche in territori non romani. Basti pensare al pagus ligure su cui ha scritto pagine esemplari Emilio Sereni. Anche se tale figura è attestata fra le popolazioni celtiche, elleniche, germaniche, slave[192].

Probabilmente al di là degli aspetti forse eminentemente terminologici credo che la differenza tra pagi e vici sia tutto sommato evidente. L’abitante del pagus abita per definizione (nell’ottica delle fonti romane) in un luogo di pianura perché nessuna fonte lo definisce ‘montano’ ed è altresì chiaro che con tale espressione si poteva fare riferimento ad agglomerati sparsi anche di notevole dimensione. La presenza di insediamenti territoriali ‘per pagi’ nel Sannio, inoltre fa pensare che la realtà descritta dalle fonti antiquarie per Roma non sia generalizzabile[193]. L’abitante del vicus è colui che risulta invece insediato in un territorio strutturato anzitutto secondo una scansione viaria (strigatio e scamnatio? centuriazione romana?), ma tale impostazione sembra riferibile principalmente alla realtà della tarda repubblica, del principato e dell’età classica. In questo quadro, al di là del vicus augusteo (sulle cui origini e sulla cui natura non credo si possano avere dubbi dato che la concordanza di Dione Cassio e Svetonio mi pare abbastanza convincente) chiaramente nato in epoca successiva, si potrebbe pensare che dal punto di vista della storia degli insediamenti territoriali, alla più risalente dicotomia pagani/montani si sia sovrapposta quella più recente di abitante del pagus/abitante del vicus, non prima delle prime colonizzazioni caratterizzate, come è noto, dalla linea di centuriazione della limitatio romana. Penso questo ricollegandomi alla dicotomia (secondo questa chiave di lettura non più tanto misteriosa) tra i pagani (=appartenenti al pagus) e i milites (appartenenti alla centuria) che potrebbe riflettere come detto un’ulteriore livello di sovrapposizione tra la dimensione del pagus arcaico e la realtà successiva della centuriazione romana (dies a quo: Terracina nel 329 a.C.).

Così il vicus potrebbe costituire una novità alternativa (ma perfettamente integrata) rispetto all’urbs o all’oppidum, come attesta la lex agraria del 111 a.C., anche in realtà territoriali diverse da Roma[194].

Ritornando alla notizia di Livio sulla necessità di reclutare soldati in pagi, fora e conciliabula, il secolo di distanza forse esprime la misura dell’evoluzione della struttura del territorio nella penisola italiana in rapporto con l’espansione territoriale romana, mentre la ragione per cui nel testo della legge agraria non compare una menzione del pagus si spiega probabilmente per due motivi principali. Primo. Perché urbs, oppidum e vicus, pur nelle loro diversità, sono sempre delle forme di insediamento territoriale che esprimono un organizzazione strutturale urbanizzata: l’oppidum (centro fortificato) e il vicus (insediamento territoriale o villaggio di tipo sub urbano), insomma, dipendono dall’urbs nella rete di strutturazione del territorio. Secondo. Il pagus non è una forma di insediamento territoriale strutturata in modo urbanizzato, ma per definizione è un insediamento sparso[195].

 

12. – s Le clausole di eccezione ‘extra eum agrum’ e ‘exceptum cavitumve est nei divideretur’ delle linee 4 e 6 relative ai possedimenti assegnati in base alla legislazione agraria di Caio Gracco del 122 a.C.

 

La clausola di eccezione ‘extra eum agrum’ è una clausola che si intuisce chiaramente presente già nella linea 4 (extra eum agrum, quei ager ex lege…) e che si costruisce nella sua interezza in base al confronto con la linea 6: lege plebive scito, quod C. Sempronius Ti. f. tr. pl. rog(avit), exceptum cavitumve est nei divideretur. La dottrina prevalente interpreta questa clausola come una chiara allusione a delle categorie di possedimenti dell’ager publicus populi Romani che sarebbero state escluse dalla legislazione graccana. Forse Caio Gracco fu più attento del fratello a specificare le varie categorie di possedimenti esclusi dalla legge di riforma. Il Crawford elenca i casi seguenti: l’ager censorius, questorius, compascuus, l’ager in trientabulis e l’alpeggio[196]; le terre cedute alle colonie e ai municipi Così A. Burdese, Studi sull’ager publicus 92 s.[197]; forse le terre cedute ai Latini e agli italici[198]; l’ager Campanus nella sua totalità[199].

L’idea di riferire i possedimenti compresi in agro Campano a quest’ultima categoria di terreni, che sarebbero stati esclusi dalla legislazione graccana cui si sarebbe riferita la clausola extra eum agrum di cui ci stiamo occupando, fu formulata per la prima volta del Mommsen in base a due famosissimi passi di Cicerone[200]:

 

Cic. de lege agr. 2.29.81: Maiores nostri non solum id, quod de Campanis ceperant, non imminuerunt, verum etiam, quod ei tenebant, quibus adimi iure non poterat, coemerunt. Qua de causa nec duo Gracchi, qui de plebis Romanae commodis plurimum cogitaverunt, nec L. Sulla, qui omnia sine ulla religione, quibus voluit, est dilargitus, agrum Campanum attingere ausus est.

 

Cic. de lege agr. 1.7.21: qui ager ipse per sese et Sullanae dominationi et Gracchorum largitioni restitisset.

 

La questione è stata nuovamente approfondita grazie ad una ricerca condotta prevalentemente su questi temi da un gruppo di lavoro della Seconda Università di Napoli (a cui io stesso ho partecipato). I risultati, recentemente pubblicati, dimostrano che in senso conforme ai due testi appena citati di Cicerone, l’ager Campanus sembrerebbe essere stato effettivamente escluso dall’attività delle commissioni graccane[201].

Non è possibile pertanto seguire Andrew Lintott nella misura in cui sembra dare maggiore credito a quella parte della dottrina facente capo al De Martino che ritiene le affermazioni di Cicerone discutibili[202]. Né si può dare credito all’ipotesi di una fondazione di una colonia a Capua da parte di Caio Gracco (così come del resto da parte di Silla). L’intervento graccano nell’ager Campanus ebbe carattere ricognitivo e fu compiuto molto probabilmente soltanto a fini restitutori[203].

Un punto su cui la storiografia contemporanea pone giustamente molta attenzione riguarda il ritrovamento di numerosi cippi graccani, dei quali, uno ritrovato a S. Angelo in Formis (quindi in agro Campano[204]) sembrerebbe effettivamente provare che l’ager Campanus non fu escluso dalla legislazione graccana. Inoltre, i risultati di una famosa ricerca del gruppo di Besançon (Chouquer et alii) sembrebbero suggestivamente alludere ad una centuriazione dell’ager Campanus anteriore all’età di Cesare, ossia proprio all’età dei Gracchi[205].

A parte le argomentazioni addotte da Gennaro Franciosi sul cippo graccano di S. Angelo in Formis (effettivamente dalla natura meramente restitutoria), quanto riferisce Lintott sul combinato disposto di queste due notizie fa effettivamente riflettere sull’effettiva sorte dell’ager Campanus all’epoca delle riforme graccane[206].

Le testimonianze epigrafiche più significative di cui disponiamo e che in qualche modo possono essere ricondotte alla centuriazione dell’ager Campanus e all’attività dei Gracchi riguardano la zona di S. Angelo in Formis, molto ricca di ritrovamenti (dal punto di vista dei cippi terminali), dove sono stati trovati due cippi anepigrafi pertinenti al territorio dei praedia Dianae Tifatinae, ritenuti esterni alla centuriazione dell’ager Campanus, e attribuiti quindi a Silla, ed altri cinque termini inscritti dell’età di Vespasiano (77 a.C.) che riguardano la restitutio della terre donate da Silla al santuario ex forma divi Augusti[207]. Sempre relativo alla centuriazione dell’ager Campanus è il famoso termine graccano di S. Angelo in Formis che insieme ad altri cippi terminali ritrovati altrove costituisce un serbatoio di conoscenza notevole ai nostri fini[208]. Altre attestazioni epigrafiche riguardano la fondazione coloniaria di Cesare del 59 a.C.

È facile comprendere quindi che le più antiche attestazioni epigrafiche di centuriazione dell’ager Campanus riguardano l’epoca graccana. Mentre per cominciare a trovare una corrispondenza tra le notizie delle fonti letterarie e quelle dei ritrovamenti epigrafici si dovrà attendere l’epoca sillana e poi, in massima parte, la deduzione coloniaria di Cesare.

La dottrina prevalente, a cominciare dal Mommsen, ritiene l’intervento graccano nell’ager Campanus meramente restitutorio (cioè in funzione di limitazione e terminazione, ma non di assegnazione), e credo che di questo non si possa dubitare stando alla sigla III VIR A I A inscritta sul cippo più importante (dal punto di vista epigrafico) di S. Angelo in Formis (triumviri agris iudicandis adsignandis) e anche in termini graccani scoperti in altre sedi[209]. In testimonianze epigrafiche rinvenibili nella lex Bantina (l. 15), de repetundae (ll. 13,16,22) ed agraria del 111 a.C. (l. 15) si rinviene invece la sigla triumviri A(gris) D(andis) A(adsignandis). Ancora, in CIL. 1.718 si legge A(gris) D(andis) A(dsignandis) I(udicandis). Tutto questo in conformità di quanto riferisce Val. Max. 7.2.6: idem ut secundum legem eius per triumviros ager populo viritim divideretur egregie censuit. La differenza rispetto alle indicazioni del tipo A I A forse si spiega col fatto che Caio Gracco avrebbe privato le commissioni triumvirali del potere di giudicare in ordine alla titolarità dei beni (per aver istituito tribunali speciali)[210].

Dunque il cippo graccano di S. Angelo in Formis aveva principalmente una funzione ricognitivo/restitutoria (limitazione e terminazione) e, probabilmente, solo in via del tutto eventuale, assegnatoria. Il fatto però che sia l’unico termine giunto fino a noi di un’intera centuriazione e che sia stato piantato a ridosso del tempio di Diana Tifatina lascia pensare che l’assegnazione avesse riguardato una particolare parte del territorio legata alle vicende delle terre del tempio di Diana[211].

Rivediamone il dettaglio. CIL. 1.552: C SeMPRonius ti f grac/ AP CLAVDIVS C F POLC/ P LICINIVS P F CRAS/ III VIR A I A. Sul vertice della colonna reca incisa la dicitura sciolta K(itra) K(ardinem) undecimo, S(inistra) D(ecumanum) primum.

Questo cippo però non è fortunatamente l’unico termine graccano rinvenuto in Italia meridionale. Esistono altri sette termini già noti (uno nei pressi dell’antica Suessula, uno a Sicigliano degli Alburni, tre in provincia Apuliae presso Aeclanum, due in Lucania a Sala Consilina e Atena Lucana)[212]. Vale la pena di ricordare ancora brevemente i più significativi.

Cominciamo da un cippo terminale, rinvenuto in agro Salano, che è simile a quello di S. Angelo in Formis: CIL. 1. 642(=553): AP CLAVD/ P LICINIVS/ III VIR A I A. Sul vertice della colonna vi è inciso soltanto il riferimento al K(ardo)V. Lo stesso si può dire sul termine graccano rinvenuto nel campus Atinas, nella valle del fiume Tanagro, tra Atena Lucana e Sala Consilina. Il cippo graccano reca la seguente dicitura: CIL. 1. 639: C. SEMPRONIVS TI F/ AP CLAVDIVS C F/ P LICINIVS P F/ III VIR A I A. Anche qui compare, come per il cippo di S. Angelo in Formis, un’indicazione gromatica. Certamente leggibile è l’indicazione relativa al cardine: K(ardo) VII. La particolarità è spiegata considerando che il termine fosse collocato sul decumano massimo che in quel tratto corrispondeva alla via Popilia. Era dunque inutile fornire indicazione sul decumano, potendo bastare solo quella del cardine[213].

Nell’antico agro di Suessula, nei pressi di Capo di Conca (Arienzo), è stato ritrovato invece il cippo seguente: CIL. 1.641(=1504): C SEMPRONIVS ti F/ AP CLAVDIVS C f/ P LICINIVS P F/ III VIR (132/131 a.C.). Qui siamo appena oltre il margine sud orientale dell’ager Campanus, la mancanza di indicazioni gromatiche si può spiegare con il fatto che si tratta di un cippo (purtroppo) tronco, tuttavia è interessante rilevare l’attestazione di un cippo terminale anche in questa zona. Dato che la griglia di centuriazione (dell’ager Campanus) non può arrivare sin qui, la testimonianza dimostra che l’intervento graccano in questa zona non toccò questo territorio in senso stretto[214].

Abbiamo forse elementi già sufficienti per provare a tirare delle prime conclusioni[215]. Credo anzitutto di poter escludere che le commissioni graccane fecero la centuriatio dell’ager Campanus. Lo dimostra il fatto che l’indicazione terminale non è uguale in tutti i casi ma si adegua invece alla situazione dei luoghi. Il termine di S. Angelo in Formis non è infatti l’unico ad interessare la zona dell’ager Campanus (c’è il termine anepigrafe di Trentola e quello di Suessula, seppure quest’ultimo fuori dall’ager Campanus in senso stretto), tuttavia è l’unico che reca un’indicazione gromatica completa (cardo e decumano). Questo può significare che la commissione graccana impiantò il termine su una griglia di centuriazione già esistente[216]. Il che dovrebbe far riflettere gli studiosi del gruppo di Besaçon. L’indicazione sul vertice della colonna [K(itra) K(ardinem) undecimo, S(inistra) D(ecumanum) primum.] starebbe a dimostrarlo e, come ha già giustamente sottolineato il Mommsen, questo fatto può spiegarsi solo come un riferimento ad una forma agri già esistente[217]. Questo dato è molto importante per l’economia del nostro discorso perché potrebbe essere l’argomento decisivo per spostare la data della prima centuriazione dell’ager Campanus in epoca pregraccana[218].

Se quindi, in base a questa breve disamina, siamo in grado di escludere che le indicazioni su una presunta centuriazione dell’ager Campanus fatta dai Gracchi siano in qualche modo fondate; e se questo fatto, messo in relazione al cippo di S. Angelo in Formis e agli altri anepigrafi, non dimostra che l’ager Campanus fosse compreso nella lgislazione graccana, poco fondamento sembra avere anche la suggestiva soluzione proposta da quegli autori che tentano di conciliare un presunto intervento legislativo di Tiberio Gracco (argomentato in base al ritrovamento del cippo di S. Angelo in Formis) con la clausola contemplata nella lex agraria. Secondo questa ipotesi, Tiberio Gracco avrebbe pensato di redistribuire i terreni dell’ager Campanus, ma il fratello avrebbe deliberatamente escluso questi dalla sua legge di riforma perché intenzionato a fondare una colonia a Capua[219]. L’obiezione di Andrew Lintott sembra però su questo punto decisiva; la clausola di esenzione di cui stiamo discutendo, alla linea 22, sembrerebbe fare esplicito riferimento proprio a dei terreni assegnati in occasione di fondazioni coloniarie[220]. Con riferimento al cippo del Tifata il pensiero corre subito alla testimonianza di Liv. 32.7.3 (sub Tifatis Capuae agrum vendiderunt). Le commissioni graccane potrebbero essere intervenute per ristabilire i confini esatti delle ‘vendite’ cui fa riferimento lo storico patavino[221].

 

13. – Lo status giuridico dell’ager Campanus all’epoca della legge agraria

 

In realtà per risolvere la questione bisogna aver presente quale fu la sorte dell’ager Campanus dall’epoca della deditio del 211 a.C. fino alla definitiva fondazione della colonia di Capua da parte di Cesare nel 59 a.C. Mi sono occupato dell’argomento in altra sede, ma forse è il caso, sia pure molto brevemente, di richiamare il quadro della situazione[222].

In linea generale occorre dire che la politica di Roma nei confronti delle città italiche con cui veniva a che fare era quella di lasciare quanto più forte possibile in vigore il sistema di organizzazione civile e amministrativa vigente. Questa forse la ragione per cui si hanno notizie per Capua di magistrature autoctone (meddices) e della rilevanza di strutture insediative particolari (come il pagus) anche in fase di romanizzazione avanzata. Vedremo che lo stesso si potrà dire per il territorio africano in cui la presenza romana si caratterizza per una particolare tolleranza di strutture autoctone e modelli di insediamento preesistenti, purché bilanciata da un interesse di tipo politico o economico.

Fatta questa precisazione, i fatti per noi rilevanti relativi alla ripartizione del territorio capuano si svolgono tutti nel quindicennio che va dal 209 al 194 a.C.[223]. La sequenza degli avvenimenti comincia nel 209 a.C. quando una parte dell’ager Campanus fu data dai censori ai privati dietro pagamento di un vectigal. Livio così riporta l’episodio: Liv. 27.3.1: Capuae interim Flaccus dum bonis principum vendendis, agro qui publicatus erat locando-locavit autem omnem frumento-tempus terit[224]. Nel 205 a.C. fu venduta ai privati la parte di territorio tra la cd. fossa Graeca e il mare. Il compito fu affidato ai questori: Liv. 28.46.4-5: Et quia pecunia ad bellum deerat, agri Campani regionem a fossa Graeca ad mare versam vendere quaestores iussi, indicio quoque permisso qui ager civis Campani fuisset, uti is publicus populi Romani esset; indici praemium constitutum, quantae pecuniae ager indicatus esset pars decima[225]. Nel 198 a.C. si procedette alla vendita del territorio attorno al monte Tifata, sempre da parte dei censori. Ne riferisce Liv. in 32.7.3: sub Tifatis Capuae agrum vendiderunt. Nel 194 a.C., come abbiamo già riferito, furono infine dedotte le colonie di Volturnum, Puteoli e Liternum (Liv. 34.45.1)[226].

Il senso giuridico di tali avvenimenti riguarda molto da vicino il modo di intendere il sistema di organizzazione agrario usato dai Romani in età medio repubblicana[227]. I terreni conferiti ai cittadini erano fatti oggetto di censimento e ricavati in base ad una tecnica di misurazione che le fonti chiamano ager divisus et assignatus per limites in centuriis[228]. Non c’è dubbio che a partire da questo momento, proprio la prima regolamentazione agraria del Senato di Roma dimostra che ciascuna delle parti di ager Campanus che era stata assegnata dai Romani era diventata ager publicus(/ager vectigalis). Lo dimostra la disposizione della linea 7-8 relativa all’obbligo per i censori di iscrivere in pubblici registri tutte le categorie di cespiti[229].

Al di là di questi limiti, i titolari erano liberi di gestire con la massima libertà la porzione (quota) di ager publicus loro assegnata. Sono quindi da considerare tecnicamente dei possessores (possibile tutela processuale attraverso la controversia de modo ovvero de loco) quindi, di fatto, veri e propri proprietari, anche se in senso giuridico soltanto possessori. Le assegnazioni coloniarie dovevano avvenire in modo che tutti i beneficiari ricevessero parti uguali. Di qui la necessità di procedere ad una stima della qualità del terreno che veniva suddiviso in parti disuguali, per poi costituire quote di eguale valore da assegnare mediante sortitio[230]. Dovrebbero rientrare in tale categoria di ripartizione territoriale tutte le assegnazioni di colonie relative al periodo che stiamo studiando. Gli esempi da fare sarebbero numerosi: Cales, Suessa e Sinuessa alla fine del quarto secolo a.C. La deduzione delle cinque colonie in oram maritimae del 194 a.C. e forse l’inauguratio del campus Stellatis[231].

Una parte dell’ager publicus populi Romani, non destinata all’occupazione, era invece riservata all’affitto e faceva parte quindi della categoria di terreni definiti dal Weber ‘di minor diritto’.

In questi casi (terre concesse in affitto ereditario, con imposizione di oneri viari, terreni da assoggettare ad imposta) i censori procedevano ad una ripartizione per scamna et strigas[232]. Dovrebbero rientrare in tale categoria l’assegnazione censoria del 209 a.C. voluta dal console Flacco (Liv. 27.3.1) e quella approvata dalla plebe su autorizzazione del comizio che incaricò i censori Cornelio Cetego e Sempronio Tutidano di appaltare il territorio capuano (Liv. 27.11.8). A condizione di considerare la notizia attendibile rientrerebbe in tale categoria anche la locazione censoria di parte dell’ager publicus ai trecento coloni (di Liternum?) adscripti secondo la volontà del Senato (Liv. 32.7.3: fruendum locarunt colonosque eo trecentos-is enim numeros finitus ab senatu erat- adscripserunt).

Erano fuori dalla categoria dei terreni cd. di minor diritto, e quindi dal sistema di vendita censoria, i terreni non imponibili e quelli soggetti ad imposizione secondo il sistema del modus[233]. Si tratta delle antiche porzioni di terreno dette trientabula e dell’ager quaestorius. In particolare lo Stato ricorreva a quest’ultimo sistema di ripartizione territoriale quando aveva bisogno di denaro. I terreni venivano gravati da un canone di ricognizione (perché serviva a provare il diritto di appartenenza allo Stato) e ceduti come garanzia a creditori o a finanzieri con facoltà di riscatto. Non sembra che tali terreni venissero ripartiti con il sistema della limitatio. Per il periodo storico che stiamo studiando questo tipo di ripartizione territoriale dovrebbe corrispondere a quella fatta nel 205 a.C. dai questori impegnati nella assegnazione del territorio tra la cd. fossa Graeca e il mare[234].

Un’ulteriore forma di misurazione della terra che probabilmente fu adottata in questa fase storica per l’ager Campanus fu l’ager per extremitatem mensura comprehensus. I censori (?) rilevavano e trascrivevano soltanto i confini esterni di una zona le cui porzioni di territorio venivano lasciate o assegnate a comunità in cambio di stipendium, ovvero nel caso in cui l’assegnazione riguardasse dei possedimenti templari (ad es. i terreni del tempio di Diana sub Tifata monte)[235]. La vendita censoria cui allude Livio dovrebbe riguardare proprio questa parte di ager Campanus (Liv. 32.7.3: sub Tifatis Capuae agrum vendiderunt)[236]. Le vendite di Flacco del 209 a.C. dovrebbero appartenere invece al primo caso[237].

Nonostante gli sforzi considerevoli del Senato romano di cui sono una chiara testimonianza gli eventi narrati dalle fonti, la situazione del territorio di Capua ancora all’epoca del consolato di Cicerone (64 a.C.) dovette restare in fondo invariata. In questo senso la prevalente dottrina interpreta il seguente noto passo di Cicerone: Cic. de lege agr. 2.31.84: totus ager Campanus colitur et possidetur a plebe, et a plebe optima et modestissima; quod genus hominum optime moratum, optimorum et aratorum et militum, ab hoc plebicola tribuno plebis funditus eicitur[238]. Una deduzione di colonia dell’intero territorio di Capua forse sarebbe stata la soluzione migliore, ma questo provvedimento, per l’epoca che abbiamo studiato, non poteva forse ancora essere adottato, per evitare il rischio di ricostituire di nuovo un nucleo di potere antagonista forte come era stato finora la città di Capua per Roma[239].

Mi pare che in base a quanto esposto finora sia alquanto difficile sostenere che le commissioni graccane possano essere intervenute in qualche modo per regolamentare in tutto o in parte terreni dell’ager Campanus. Tutto lascerebbe supporre che Tiberio Gracco e poi suo fratello abbiano fatto le loro riforme, magari tenendo presente la situazione dell’ager Campanus, ma quasi certamente lasciando fuori dalle loro regolamentazioni i terreni posti in agro Campano. Tutto ciò a supporto della tesi del Mommsen che in fondo dava credito alle testimonianze di Cicerone delle quali abbiamo visto che non ci sono seri motivi per dubitare[240]. Questo significa anche che, se le leggi dei Gracchi riguardarono soltanto le terre appartenenti all’ager publicus populi Romani non formalmente distribuite, assegnate o assoggettate a vendite/locazioni censorie, cioè gli agri occupatorii secondo l’ottica dei gromatici e di Appiano[241], allora non ci sarebbe stato bisogno da parte di Caio Gracco di esentare esplicitamente l’ager Campanus dalle sue riforme; se è vero che, come abbiamo visto, una buona parte dell’ager Campanus fu fatto oggetto di esplicite assegnazioni censorie[242].

Evidentemente la soluzione più semplice è proprio quella che vuole l’ager Campanus escluso dalle riforme graccane relative alle assegnazioni di terre. Per usare le parole di Lintott: “The fact that the ager Campanus was not in fact redistributed in this period into long-term holdings, which eventually became private, is the strongest argument that il must have been specifically exempted by C. Gracchus and hence also by this law”[243]. Secondo M.H. Crawford, Tiberio Gracco avrebbe evitato di intervenire nell’ager Campanus e Caio Gracco avrebbe specificato più in dettaglio le categorie di legge escluse dalla disciplina della sua legge[244]. A mio parere si potrebbe rilevare invece una continuità tra l’attività del Senato in ordine alla gestione dell’ager Campanus e quella di Tiberio e poi Caio Gracco. Non dimentichiamo che già il console Postumio tentò di intervenire con l’aiuto del tribuno Lucrezio nel 172 a.C. Tuttavia solo un altro tribuno, P. Cornelio Lentulo riuscirà nel 165 a.C. a redigere una forma agri Campani e forse a dichiarare così l’ager Campanus finalmente ager puplicus populi Romani. Del resto, non bisogna dimenticare che Tiberio, il padre dei fratelli Gracchi, fu un esponente di primissimo piano della classe politica romana proprio nella prima metà del secondo secolo a.C.

 

14. – I terreni e i possedimenti iscritti in formas tabulasve: commento alla linea 7

 

Proseguiamo con il commento. In dettaglio, la linea 7 contempla i terreni assegnati dalle commissioni graccane che avessero anche la caratteristica di essere dei terreni edificati (agri locei aedificiei) e iscritti in una forma censuale: i]n terra…Italia IIIvir dedit adsignavit reliquit inve formas tabulasve retulit referive iusit: ager locus aedificium omnis quei supra scriptu[s est[245]. Analogo riferimento alla forma del censo si rinviene più avanti alle linee 78: idque in formas publicas facito ute[i referatur i(ta) u(tei) e r(e) p(ublica) f(ide)]q(ue) e(i) e(sse) v(idebitur). IIvir, quei ex h. l. factus creatusve erit, is facito in diebus CCL proxsumeis, quibus h. [l.] populus plebesve iuserit (formas publicas) e 80: quod eius ex h. l. in [f]ormam publicam rellatum (formam publicam). È evidente che siamo di fronte ad un riferimento preciso alla forma agri di cui un precedente illustre è dato dalla forma agri di P. Cornelio Lentulo mediante la quale è molto probabile che l’ager Campanus sia diventato legalmente (e per la prima volta) ager publicus populi Romani[246]. Intendo dire che la redazione di una forma agri (forse la stessa centuriazione dell’ager Campanus oggi ancora visibile) e l’omologazione di tale documento nel tempio della Libertà (che dall’età imperiale era il deposito delle tabulae censoriae) sono elementi forse sufficienti per affermare che in quest’occasione l’intero ager Campanus fu trasformato in modo ‘istituzionale’ (con atto pubblico di un organo costituzionale dello Stato romano), da terreno ‘confiscato’=ager publicatus, in ager publicus populi Romani.

L’atrium Libertatis era il luogo in cui venivano depositate le tabulae censoriae[247]. Famosa è l’accusa di Cicerone a Servilio Rullo di aver manomesso le tavole dei censori per trovare la lista delle Italiae possessiones[248]. Con riferimento all’ager Campanus operazioni di vendita censoria (o questoria) che possono aver dato luogo alla redazione di tavole possessorie come quelle menzionate dalla legge possono essere state quelle compiute nel 209, 205, 198, 194, 174 (a Calatia). Ed anche la ‘vendita’ tentata dal tribuno Lucrezio in seguito alla ricognizione di Postumio del 172, che per parte della tradizione annalistica avrebbe dovuto rientrare in questa categoria (Liv. 42.19.1: M. Lucretius tribunus plebis promulgavit, ut agrum Campanum censores fruendum locarent).

Un altro precedente famoso, ma vedi i riferimenti dei gromatici[249], è dato dalla forma di Aurasio[250].

La notizia di Granio Liciniano per cui in atrium Libertatis venivano conservate le leggi relative alle operazioni catastali romane (formamque agrorum in aes incisam ad Libertatis fixam reliquit)[251] trova una conferma in Catone il quale, in Fest. sv. Probrum (L. 277,10), afferma: lex fixa in atrio Libertatis cum multis. Non so se il riferimento dell’oratore all’incendio che avrebbe distrutto la legge sullo stupro della vestale, come altre, proprio in atrium Libertatis possa riguardare (e quindi aver coinvolto) anche la forma agri di Lentulo (Cato 74, fragm. 199: lex fixa in atrio Libertatis cum multis alis legibus incendio consumpta est). Questo spiegherebbe il mancato ritrovamento della catastazione di Lentulo, ma si dovrebbe provare che l’incendio di cui riferisce Catone sia stato successivo al 162 a.C. Certo, sono incerti sia la cronologia che le circostanze in cui fu pronunciata l’orazione de auguribus cui fa riferimento la glossa festina, sta di fatto però che l’ultima orazione di questo grande personaggio fu pronunciata da questi nell’anno della sua morte, il 146 a.C., all’età di ottantacinque anni. E, del resto, non è detto che l’inciso di Liciniano (Gran. Licin. 28.29-36: quam postea Sullam corrupit) non possa essere preso in senso metaforico[252].

Un’ultima annotazione su questo tema va fatta pensando che secondo la tradizione il tempio della Libertà sarebbe stato fondato da Tiberio Sempronio Gracco padre intorno al 186 a.C.: Liv. 24.16.19: Digna res visa ut simulacrum celebrati eius diei Gracchus, postquam Romam rediit, pingi iuberet in aede Libertatis quam pater eius in Aventino ex multaticia pecunia faciendam curavit dedicavitque.

Come si vede, anche su questa versione dei fatti in ordine ad un aspetto molto particolare della storia agraria romana ritorna in modo puntuale l’ombra dei Gracchi.

Il riferimento del legislatore del 111 a.C. ai possedimenti che agri locei aedific[iei della linea 6 e all’ager locus aedificium omnis quei supra scriptu[s della linea 7 suggerisce anche un’altra considerazione. È la prima volta che compare il riferimento nella legge a terreni edificati e/o a cespiti immobiliari costituiti da edifici. Se in questo frangente il legislatore ha inteso proprio riferirsi alle aree edificate rileva anche un ulteriore elemento di novità dovuto al fatto che la trasformazione della società romana nel senso di una sensibile urbanizzazione, quale effetto della trasformazione dovuta alle conseguenze di medio e lungo periodo della seconda guerra punica, troverebbe in questo caso una significativa conferma.

 

15. – La nozione di ager privatus della linea 8

 

Le linee 8-10 chiudono la prima parte della sezione della legge agraria epigrafica dedicata alle terre e ai possedimenti ager publicus populi Romani in terram Italiam. Tutte le categorie di cespiti fondiari elencate sin qui ai sensi di questa legge, vengono dichiarate ager privatus[253]. Lo si deduce chiaramente dalle prime parole leggibili della linea 8: utei ceterorum locorum agrorum aedificiorum privatorum est, esto[254]. Si stabilisce altresì con la stessa linea un obbligo per i censori di curarne l’iscrizione nelle tavole del censo: Censor que queicomque erit fa[c]ito, utei is ager locus aedificium, quei e[x hace lege privatus factus est, ita, utei ceteri agri loca aedificia privati, in censum referatur, …deque eo agro loco aed]ificio eum, quoium[is ager locus aedificium erit, eadem profiterei iubeto, quae de cetereis agreis); ed inoltre viene sancito il divieto assoluto, anche di fronte a provvedimenti del senato: linea 9: loceis aedificieis quoium eorum quisque est profiterei iusserit…]est. Neive quis facito, quo, quoius eum agrum locum aedificium possesionem ex lege plebeive scit[o ess]e oportet oportebitve, eum agrum l[ocum aedificium possesionem minus oetatur fruatur habeat possideatque…n]eive quis de ea re ad sen[atum referto); o di magistrati, di turbarne il godimento: linea 10: nevie pro magistratu inpe]riove sententiam deicito neive ferto, quo quis eorum, quoium eum agrum locum aedificium posse[sio]nem ex lege plebeive scito esse oport[et oportebitve…eum agrum locum aedificium possesionem minus oetatur fruatur habeat possid]eatque quove possesio invito, mor[tuove eo heredibus eius inviteis auferatur.

Il riferimento all’iscrizione da parte dei censori nelle tavole censuarie è importante perché forse questa norma pone fine alla vexata quaestio della redistribuzione nelle classi di censo dei vecchi possessori e anche dei nuovi beneficiari delle riforme graccane. In dottrina infatti non vi è chi non abbia visto in questo uno dei caratteri precipui dell’intera legge che stiamo commentando[255]. Ma su tale punto ritorneremo nel prossimo capitolo commentando le linee 15 e 17.

La trasformazione di questi possedimenti in ager privatus è però un dato che non può essere revocato in dubbio. A parte il riferimento della linea 8 che è inequivocabile, anche in altri due luoghi della legge lo si legge altrettanto chiaramente a proposito della volontà del legislatore di trasformare i piccoli possedimenti abusivi di 30 iugeri (colendi causa) in ager privatus. Alla linea 14: in eum agrum agri iugra non amplius XXX possidebit habebitve: [i]s ager privatus esto; e a proposito delle terre (esenti da tributo?) menzionate alla linea 19: to exve h. l. privatum factum est erit ve[256].

Quale può essere una ricostruzione attendibile dell’etimologia di privatus? Va detto anzitutto che tale nozione di ager era già nota a Catone che parla esplicitamente di acquisizioni di ager privatus in Orat. 79 fragm. 206: Accessit ager, quem privatim habent, Gallicus, Samnitis, Apulus, Bruttius. Invero tale accezione sembra pienamente in uso all’epoca di Catone dato che troviamo conferma dell’uso di tale vocabolo nel senso di ‘singolo’, di ‘cittadino’ in contrapposizione di ciò che è invece esprime una carica pubblica, in Plauto: Capt. 166: hic qualis imperator nunc privatus est e ancora di più, in senso più maturo in Cic. de leg. 3.19.43: Deinde de promulgatione, de singulis rebus agendis, de privatis magistratibusve auduendis[257]. Il dato trova conferma anche nel tardo Isidoro: etym. 9.4.30: Privati sunt exstranei ab officiis publicis. Est enim nomen magistratum habenti contrarium, et dict privati quod sint ab officiis curiae absoluti.

L’aggettivo rinvia alla nozione di privus[258]. Abbiamo su questo il vocabolario festino (nella versione epitomata di Paolo) che alla voce Privos privasque rende in modo bicipite, e sostanzialmente confermando l’impressione che si ricava dalle fonti appena citate, un’accezione ambivalente del termine: Paul.-Fest. sv. Privos privasque (L. 252,20): Privos privasque antiqui dicebant pro singulis. Ob quam causam et privata dicuntur, quae uniuscuiusque sint; hinc et privilegium et privatus; dicimus tamen et privatum, cui quid est ademptum.

Come si vede il vocabolo privus venne usato dagli antiqui per indicare i singoli individui (antiqui dicebant pro singulis). Di qui si dicevano ‘private’ anche le cose che appartenevano ad un singolo individuo, quindi non al gruppo inteso come gens o famiglia (ob quam causam et privata dicuntur, quae uniuscuiusque sint). Da questo termine derivano anche le espressioni ‘privilegio’ e ‘privato’ (hinc et privilegium et privatus)[259]. Come si vede la definizione dell’epitome paolina si chiude in modo ambiguo perché privatus è (dicimus tamen et privatum) anche cui quid est ademptum. Quindi, da un lato ciò che è del singolo, dall’altro ciò che è ‘sottratto’: come due facce della stessa medaglia. Il dato trova conferma già in Plauto (Poen. 775: ut eo me privent atque inter se dividant) e Cesare b.civ. 3.90.3: rem publicam alterutro exercitu privare. Nel senso di ‘privarsi la vita’ si può citare ad esempio Tac. ann. 4.30.2.

Un valore semantico di privatus come di qualcosa che esprime il senso di una ‘proprietà privata’ si evidenzia particolarmente, ed in modo chiaro, solo con fonti del principato. Indicativo è Ovidio fasti 5.286: vindice servabat nullo sua publica volgus,/ iamque in privato pascere inertis erat. Poi ci sono Livio (2.24.7: ex tota urbe proripientium se ex privato; 30.44.11: nunc quia tributum ex privato conferendum est) e Seneca in cui l’espressione per privatum è usata nel senso metaforico di ‘attraversare la proprietà’ di un singolo: Sen. epist. 89.20: Inlustrium fluminum per privatum decursus est et amnes magni magnarumque gentium termini usque ad ostium a fonte vestri sunt.

Appare chiaro che quindi l’uso del vocabolo privatus in forma tecnica da parte del legislatore del 111 presuppone una solida esperienza culturale alle spalle. A questo punto penso sia interessante guardare più da vicino la teoria di Dario Sabbatucci sulla doppia opposizione tra sacer/profanus e publicus privatus laddove è chiaro che l’evidenza terminologica del testo di legge che stiamo commentando dimostra che nel 111 a.C. è legittimo parlare di operatività della contrapposizione publicus/ privatus.

Come si arriva a questo? Secondo Sabbatucci prima ancora che vigesse un sistema giuridico sociale qualificato dalla doppia endiadi ‘sacer/profanus’-‘publicus/privatus’ la nozione di riferimento era quella del nomen Romanum perché con esso si designava, nella mentalità arcaica, le nationes e le gentes da un punto di vista prevalentemente genetico. Ebbene, in questa fase, ogni comunità farebbe parte di un fanum individuato dal dio e a cui esso appartiene. Il nomen Romanum, a sua volta risulta suddiviso, in tanti nomina, le gentes appunto[260].

Rilevo che nel testo della legge agraria del 111 troviamo con riferimento al territorio italico indicazioni etniche come Latini e peregrini e non altro (linee 29, 31). Sotto il profilo territoriale a questa situazione corrisponde il regime dell’ager Romanus non ancora distinto in ager publicus e in ager privatus[261]. Le unità territoriali sono poste sotto la giurisdizione di singoli fana. La terra e i prodotti sono quindi del fanum. Per usare i prodotti della terra è necessario allora deporne una parte, la decuma, a vantaggio appunto del fanum. Va svolta insomma un’attività che in linguaggio tecnico arcaico è detta pro fano. Quello che resta è a vantaggio del singolo (privus) che ha compiuto il rito della profanatio (cioè l’offerta primiziale, o della decima al fanum). Una volta compiuta la profanatio, cioè l’offerta, quello che resta è nello stesso tempo privatus e profanus. Nel caso di una raccolta di grano non c’è differenza tra la parte offerta e la parte restante perché l’oggetto della profanatio è tutto il raccolto dell’annata. Tutto questo trova una sua spiegazione nel fatto che il fine ultimo della profanatio è di ‘rendere libero dal sacro’, cioè di rendere profano ciò che in condizioni storico, politico-sociali mutate diventa privatus, proprio perché, ed in quanto, non più publicus. È chiaro che nel contesto normativo della legge del 111 l’ager privatus è ciò che non è più publicus. Se il significato originario di publicus è populus=‘esercito’ è altrettanto chiaro che l’ager privatus è la stessa terra ‘sottratta al publicus’ e data ai singoli (viritim). Quindi nasce come espressione di qualcosa che non è più publicus, prima di diventare ‘pro singulis[262]. Anche in considerazione di tutto questo credo sia difficile riconoscere subito alla nozione di ager privatus una qualificazione giuridica di proprietà. Ciò che viene assegnato, riconosciuto o concesso uti singulis non è detto che lo sia per sempre. Fuori dai casi tecnici delle locazioni censorie e/o delle vendite questorie la preoccupazione del legislatore, ancora nel 111 a.C. come dimostra il testo della legge agraria è quella di assicurare la stabilità delle concessioni e di riconoscere la loro trasmissibilità iure ereditario. Il riferimento del legislatore all’ager patritus, ai veteres possessores e ai lotti o gli edifici trasmessi ereditariamente dimostra che nel 111 a.C. l’ager privatus non era ancora parte dell’oggetto dell’antica hereditas.

In chiave giuridica viene affrontato dalle stesse fonti romane la contrapposizione sacer/publicus[263]. In un frammento notissimo delle Institutiones di Marciano D. 1.8.6, libro tertio, si legge che sono sacre le cose che sono state consacrate pubblicamente, ma non le private (sacrae autem res sunt hae, quae publice consecratae sunt, non privatae). Sappiamo però a cosa si riferisce il giurista quando afferma: si quis ergo privatim sibi sacrum constituerit, sacrum non est, sed profanum. Non entro nel merito della definizione di Ulpiano (D. 1.8.9, Ulp. 68 ad ed.) perché siamo in un contesto ormai distante dal tempo di cui ci stiamo occupando: Sacra loca ea sunt, quae publice sunt dedicata, sive in civitate sint sive in agro. Sciendum est locum publicum tunc sacrum fieri posse, cum princeps eum dedicavit vel dedicandi dedit potestatem.

Gaio, da parte sua, in Inst. 2.5 dice che è ritenuto sacro solo ciò che è stato consacrato per iniziativa (ex auctoritate) del popolo romano, sia mediante legge che mediante senatoconsulto (lege de ea re lata). Considerato il valore dei decreta senatoriali e delle leggi e dei plebiscita all’epoca della legge del 111 si può dire che la definizione gaiana sia ancora applicabile per il contesto di cui ci stiamo occupando e che la doppia endiadi esprima in sé il passaggio dalla condizione più antica a quella più recente. Una doppia endiadi che naturalmente trova la sua giustificazione nelle fonti: Hor. Ars poet. 394: Fuit haec sapientia quondam/publica privatis secernere, sacra profanis. E ancora di più Cicerone che per stigmatizzare le malefatte di Verre dice che costui non rispettò nulla: neque privati, neque publici, neque profani neque sacri (de signis 4.1.2).

Sempre Cicerone però contrappone publicus e privatus: Cic. Verr. 5.136: tibi privata navis oneraria maxima publice est aedificata. Ma in un frammento delle Verrine che trovo molto significativo fa anche una distinzione ulteriore tra diritto pubblico, privato e civile: Cic. Brut. 214: Nullum ille poetam noverat, nullum legerat oratorem, nullam memoriam antiquitatis conlegerat; non publicum ius, non privatum et civile cognoverat. Questo vuol dire che l’ipotesi di una fattispecie particolare di ager privatus distinta dal mero possesso e dal dominium ex iure Quiritium prospettata da Saumagne e poi da Leandro Zancan, troverebbe una sua giustificazione nelle fonti.

Su questo punto specifico ritorneremo, adesso è possibile fare un’ultima considerazione sulla natura giuridica dell’ager privatus identificato dal legislatore del 111. Mi pare che le fonti giustifichino l’idea che si tratti di una forma di possesso, si potrebbe dire, ‘qualificato’. Lo dimostra la procedura di tutela delle posizioni dei singoli possessori prevista da questa legge stessa con la disciplina di cui alla linea 18 contro lo spoglio violento nelle forme dell’interdictum unde vi. I frammenti di Festo e Isidoro che parlano di possessio sia per l’ager publicus che per quello privatus. C’è poi un altro frammento ciceroniano, sempre preso dalle Verrine, in cui il retore considera il matrimonium come qualcosa che è privatus: Cic. Verr. 2.26: matrimonia privata et singularia faciens. I matrimoni sono questioni private e individuali. Viene in mente la associazione tra possessio e matrimonium che sono accumonati nella disciplina del ius postliminium proprio perché res facti.

Per concludere su quanto considerato finora si può dire che la qualificazione dei lotti di terreno fatta dal legislatore del 111 come di ager privatus (ma anche le posizioni di coloro che si videro assegnare dei lotti di terreno all’epoca di Catone e poi, dobbiamo presumere, in ragione della disciplina delle leges Semproniae agrariae) abbia un significato preciso e che non può essere revocato in dubbio. Sul piano politico, religioso, sociale, ma soprattutto giuridico, la categoria dell’ager privatus ha quindi valore come espressione di qualcosa che è contrapposto a publicus, nel significato di ‘qualcosa che è sottratto’ (come dice l’epitome paolina: dicimus tamen et privatum, cui quid est ademptum) e, nello stesso tempo, che è ‘riservato al singolo’. Tutt’altro che estemporanea la configurazione di tale forma di appartenenza nelle forme del possesso, se si pensa che dietro la riforma di Tiberio Gracco vi fu P. Mucio e, dietro il legislatore del 111 a.C., probabilmente, Quinto Mucio l’augure.

Andiamo adesso al dettaglio della legge. Gli editori si sono posti anzitutto il problema di capire se tale legge è stata la prima a dichiarare private le categorie di terreni elencate[264].

La Johannsen ha posto in rilievo che in base alla linea 19 si dovrebbe dedurre che alcune categorie di questi possedimenti non furono dichiarati privati per la prima volta da questa legge quod eius ex lege plebeive sci]to exve h. l. privatum factum est eritve[265]. In effetti, nelle linee 13-14, si nota una previsione normativa che dichiara privati (con differente procedura quindi) i possedimenti entro i trenta iugeri di estensione in eum agrum agri iugra non amplius XXX possidebit habebitve: [i]s ager privatus esto e comparando il contenuto delle linee 15-16[266] con quello delle linee 16-17[267] si rileva la differenza tra quei possedimenti che sarebbero stati soltanto trasferiti dagli assegnatari ai loro eredi e quelle terre il cui possesso sarebbe stato girato anche ad un compratore (avente causa).

Secondo Max Kaser delle categorie di possedimenti contemplati alle linee 1-7 alcune sarebbero state già dichiarate private prima della promulgazione della legge[268]. In effetti, anche se non risulta che Tiberio Gracco abbia dichiarato tali i provvedimenti che furono oggetto delle sue assegnazioni, esistono attestazioni in tal senso che sono già chiare in Catone con riferimento al territorio della Gallia Cisalpina, del Sannio, dell’Apulia e dei Bruzzi [Cato Orat. 79,206: Accessit ager, quem privatim habent, Gallicus, Samnitis, Apulus, Bruttius].

Si pone allora il problema di valutare la questione dovendo ammettere che, ancorché privati, alcuni provvedimenti avrebbero potuto subire delle limitazioni di diritto pubblico (per usare un’espressione moderna) come la sottoposizione ad un canone (vectigal o decima) o ad un vincolo di legge (inalienabilità)[269].

Andrew Lintott invece ritiene che la legge agraria non avrebbe confermato la natura di agri privati a quei possedimenti dichiarati tali da leggi recenti, ma avrebbe bensì disposto nel senso che soltanto le terre rese pubbliche nel 133 a.C., così come specificate nel dettaglio della legge commentato finora (linee 1-7), sarebbero diventate private. Mi pare corretta la conclusione tratta da questa premessa: le trasformazioni cominciate da Tiberio Gracco nel 133 a.C., con la legge che stiamo commentando, avrebbero trovato così una conclusione soddisfacente[270].

Non meno importante è l’espressione uti, frui, habere possidere, forse già usata nella linea 9: eum agrum l[ocum aedificium possesionem minus oetatur fruatur habeat possideatque per effetto della ricostruzione fatta in base al testo della linea 11: ei oetantur fruantur habeant po[ssideantque. Un impiego di tale formula si riscontra anche nella lex Antonia de Termessibus del 68 a.C. (linee 17-18: iei habuerunt/possederunt usei fructeive sunt, quae de ieis rebus), ma anche altre fonti dimostrano che tale formula sia un topos del linguaggio dei giuristi dell’epoca graccana. Questa espressione molto probabilmente indicava la posizione giuridica del possessore (proprietario) prima che nel linguaggio tecnico dell’ultimo secolo della repubblica (penso come terminus post quem all’età di Cesare) la categoria di dominium ex iure Quiritium si affermi nella dogmatica dei giuristi. È vero che gli assegnatari potevano gestire con la massima libertà la porzione (quota) di ager publicus loro concessa, tuttavia, questi soggetti, pur godendo di una posizione molto simile a quella di un proprietario, sono da considerare in senso giuridico ancora e comunque dei possessores. Basta guardare la tutela processuale che veniva loro concessa: una controversia de modo ovvero de loco[271]. Una tutela che in entrambi i casi risulta legata in origine, e fino a quasi tutta l’età repubblicana, a tematiche possessorie[272].

L’importanza di questo riferimento da questo punto di vista è quindi rimarchevole. Se la lex agraria epigrafica (in cui, come abbiamo visto, il sintagma ager publicus compare insieme a quello di terra Italia), non parla ancora in termini espliciti di proprietà (dominium ex iure Quiritium), ma usa piuttosto perifrasi come questa che stiamo commentando, ossia uti frui habere possidere, vuol dire che siamo ancora lontani dallo schema giuridico della proprietà che i giuristi successivi qualificheranno come dominium ex iure Quiritium.

Inoltre c’è la questione dei veteres possessores. Abbiamo visto chi può essere stato considerato come tale dal legislatore del 111. Indipendentemente dal fatto che si tratti dei beneficiari delle commissioni di Tiberio Gracco, ovvero di altri, l’esistenza di questa categoria di titolari di terra dimostra l’impossibilità di applicare il regime dell’usucapione sulle res immobiles di cui parla Gaio in 2.42: Usucapio mobilium quidem rerum anno completur, fundi vero et aedium biennio; et ita lege XII tabularum cautum est sui possedimenti che furono oggetto delle riforme agrarie.

Questo dato trova conferma nella regola generale per cui l’ager publicus era escluso dall’applicabilità del regime di acquisto della proprietà immobiliare mediante usucapione e questo fatto si deduce da Front. 2. de contr. agr. (Lach. 55,1): neque ullo modo abalienari posse a re publica e D. 41.3.9 (Gai. 4 ad ed. prov.): Usucapionem recipiunt maxime res corporales, exceptis rebus sacris, sanctis, publicis populi Romani… Regola, a sua volta, che spiega la stessa testimonianza di Gaio sulle res extra patrimonium e, tra queste, sulle res publicae: Gai. 2.10: Hae autem quae humani iuris sunt, aut publicae sunt aut privatae. 11. Quae publicae sunt, nullius videntur in bonis esse; ipsius enim universitatis esse creduntur[273]. Sull’altro versante, gli agri dati, adsignati o ricevuti in sortes potevano anche essere negoziati, altrimenti non si spiegherebbe la norma sulla non alienabilità dei lotti posta da Tiberio Gracco di cui parla Appiano[274]. E abbiamo anche visto che al di là delle vendite in senso tecnico, cioè le locazioni censorie o questorie, nel testo della legge del 111 si riscontra frequentemente un uso del verbo emere coniugato in terza persona. Inoltre, a parte l’uso della parola manceps corroborato dalla spiegazione festina, c’è anche Gaio che attesta un uso specifico della mancipatio nelle alienazioni immobiliari.

Si potrebbe ritenere quindi che lo schema negoziale della mancipatio venisse applicato anche nella compravendita di cespiti immobiliari sia nella forma del modus che in quella del locus e questo fatto non era condizionato dalla natura giuridica del bene oggetto di trasferimento. Del resto, tanto per fare un solo esempio tra i tanti possibili, la coëmptio matrimonii causa veniva usata come strumento per la costituzione della manus maritalis e questo però non vuol dire che le donne venissero vendute o passassero nella proprietà del coëmptionator[275]. Tutto ciò mi pare che porti elementi di supporto all’idea che l’ager publicus populi Romani durante l’età repubblicana seguì un percorso autonomo ed anche che non è possibile chiarire la sua dimensione giuridica attraverso le norme sulla proprietà dell’età classica.

 

16. – La formula agri publici privatique

 

Passiamo adesso ad analizzare più da vicino la teoria della cd. privata possessio che è stata formulata dal Saumagne (ma ripresa e integrata da Leandro Zancan[276]) proprio sulla scorta delle indicazioni di questa prima parte della legge agraria del 111 (ritornerò su tale argomento occupandomi delle questioni relative al vectigal nel secondo capitolo, nella parte di commento alle linee 19-20)[277]. Essa in sostanza distingue, all’interno della categoria dei terreni che il legislatore del 111 dichiara privati, una categoria di ager privatus, puro e semplice, da un’altra categoria di ager privatus optimo iure[278]. Lo Zancan in aggiunta rileva che il legislatore del 111 alla linea 19 preciserebbe: ex lege plebeive scito exve hac lege[279].

Esisterebbero quindi due categorie di terreni.

Una prima, costituita da quei possedimenti che il legislatore del 111 si sarebbe soltanto limitato a confermare come privati, essendo stata tale qualificazione già precedentemente conferita ex lege plebeive scito[280]. Lo proverebbero la formula usata ex lege plebeivescito (non quindi ex hac lege) e il sintagma oportet oportebitve. Apparterrebbero a questa categoria di terreni anche i terreni relicti dei veteres possessores e quelli assegnati dai triumviri, così come nella proposta di legge di Rullo, e così come per i possedimenti e le assegnazioni sillane[281]. La seconda sarebbe costituita invece da quei possedimenti che la legge del 111 avrebbe trasformato in privati (linee 11-14: privatum est eritve), ossia probabilmente quelli assegnati dai triumviri ai viasii vicani e le occupazioni posteriori alla lex Sempronia non superiori ai trenta iugeri (trientabula)[282].

Non considerando i terreni viasii vicani perché, per quello che vedremo, è forse preferibile l’impostazione del Mommsen per cui i viasii vicani sarebbero rimasti ager publicus, rimarrebbe ad integrare la categoria degli agri privati ex hac lege solo quella dei trientabula.

A sostegno della teoria del Saumagne testè enunciata c’è anche la teoria del Rudorff a proposito dell’ager publicus privatusque costruita in base a Fest. sv. Possessiones (L. 277,4): Possessiones appellantur agri late patentes publici privatique, qui[a] non mancipatione, sed usu tenebantur, et ut quisque occupaverat, possidebat[283]. L’ager privatus vectigalisque sarebbe una tipologia di posedimento fondiario dalla qualificazione giuridica mista. Reso privato dall’autorità, ma assoggettato (o assoggettabile) al vectigal e che i privati non mancipatione sed usu tenebatur[284]. Di qui M. Kaser è giunto inoltre ad affermare che già Tiberio Gracco avrebbe dato questa categoria di terreni ai suoi nuovi assegnatari in possesso perpetuo[285].

Si comprende facilmente quindi come la questione già di per sé complessa, lo diventi ancor più considerando che in materia giochino almeno due pregiudizi molto condizionanti. Il primo è che l’ager privatus non possa essere soggetto a vectigal perché assimilato (secondo pregiudizio) al dominium ex iure Quiritium. Non stupisce allora se la dottrina (dal Mommsen in poi) si sia concentrata sulla questione del vectigal come se questo potesse valere come principale referente per qualificare guridicamente il possesso di terra in età tardo repubblicana. Vedremo più avanti che questa posizione potrà essere rivista.

In questa prospettiva va letta la formula agri publici privatique riportata da Festo e ripresa da Isidoro di Siviglia in etym. 15.13.3. È molto discusso se questa indichi due categorie di agri ovvero uno solo, ossia l’ager publicus occupato e posseduto dai privati[286]. È sempre il problema della difficoltà di considerare la categoria dell’ager privatus come categoria di possesso di un privato cittadino gravato da un peso, per effetto del pregiudizio di voler assimilare a tutti i costi l’ager privatus al dominium ex iure Quiritium.

Feliciano Serrao esclude che il sintagma publicus privatique si possa riferire a due categorie diverse di agri, ed esclude altresì errori di copisti incolti o ‘completomani’. Richiamandosi ad Isidoro, lascia piuttosto la questione insoluta ritenendo sufficiente il richiamo al frammento di Festo sui modi di acquisto della possessio dell’ager publicus derivante dalla loro occupatio in base alla possibilità o alla speranza di coltivarli[287].

Anche se Isidoro si fosse ispirato a Festo e non indipendentemente dal glossografo su fonti gromatiche [non vedo infatti come si possa dubitare di una stretta relazione tra le due fonti. In Festo leggiamo: (L. 277,4): Possessiones appellantur agri late patentes publici privatique, qui[a] non mancipatione, sed usu tenebantur, et ut quisque occupaverat, possidebat. In Isidoro: etym. 15.13.3: Possessiones sunt agri late patentes publici privatique, quos initio non mancipatione, sed quisque ut potuit occupavit atque possedit; unde et nuncupati], la sostanza del discorso non cambierebbe. Si deve pensare ad una fase della storia evolutiva delle figure di possesso fondiario in cui gli agri publici privatique erano tenuti usu sed non mancipatione. Erano cioè fuori dalle regole del ius civile che disciplinava la proprietà sulle res mobiles.

Prima della legge del 111 a.C., che è la fonte di qualificazione normativa cui fare riferimento in questa materia per l’età tardo repubblicana, il discorso va fatto caso per caso, dato che questa legge è la prima fonte giuridica ad occuparsi di tali questioni, si potrebbe dire, ex professo.

Il problema però è reso ancora più complesso per lo stato lacunoso di questa fonte che non consente di sciogliere in modo definitivo alcuni punti nodali dell’intero discorso come il rapporto tra l’ager privatus e l’ager publicus e il rapporto tra il primo e il dominium ex iure Quiritium. Ma il quadro generale di riferimento è sufficientemente chiaro. Le regole relative alla posizione del possessore; ad una tutela interdittale concessa a chi possedesse nec vi, nec clam, nec precario (linea 18); l’uso di uti, frui, habere, possidere (linee 32, 40, 41, 42, 81, 91); espressioni tipo ager privatus (linee 4, 8, 12, 14, 19, 23, 27, 63, 80) e ager privatus vectigalisque (linee 49, 66); il riferimento alle operazioni di vendita solo nella forma della vendita censoria (linee 63, 74, 85, 87, 89); la considerazione della posizione dei veteres possessores che evidentemente non avevano usucapito i loro fondi (linee 2, 13, 16, 17, 21); sono tutti elementi che fanno pensare al regime fondiario della lex del 111 come ad un regime di ‘possesso’, e non di ‘proprietà’ nelle forme del dominium ex iure Quiritium.

In questa chiave, la formula agri publici privatique, riportata da Festo alla voce possessiones (L. 277,4) e ripresa da Isidoro di Siviglia in etym. 15.13.3 a cui si accennava sopra, forse non è il dato di riferimento migliore per comprendere il regime giuridico della legge del 111. Condivido su questo punto la ricostruzione del Falcone che collega tale fonte alla tradizione gromatica e la riferisce all’antico criterio occupatorio[288]. Bisognerà invece concentrare l’attenzione specialmente sull’altra glossa festina cui si faceva riferimento prima, il frammento del giurista-grammatico Elio Gallo, perché a mio avviso è intorno a questa testimonianza che ruota tutto il problema della natura giuridica della possessio dei terreni della res publica all’epoca della legge che stiamo studiando.

Prima di passare ad esaminare più in dettaglio il problema della natura della possessio contemplata dal legislatore del 111, dobbiamo però riconoscere sulla natura dell’ager privatus una prima evidenza che viene dettata immediatamente dalle fonti. In ogni caso, non è possibile parlare di ager privatus in mancanza di una fonte normativa (occupatio, legge o plebiscito, atto negoziale privato o di organo della res publica) che qualifichi qualsiasi porzione di terreno come tale, da quando questo fu possibile (publicatio + adsignatio a qualsiasi titolo)[289].

 

17. – La nozione di uti frui habere possidere nella lex agraria del 111 a.C.

 

Con la legge agraria del 111 a.C. un ager privatus, qualificato in negativo rispetto alla categoria di ager publicus secondo il senso etimologico e giuridico che abbiamo appena evidenziato, avrebbe dovuto diventare quindi, nella sostanza, un possedimento stabile (nel senso di una posizione giuridica non più precaria per il suo titolare) con o senza imposizione di vectigal. È possibile (anche se non ci credo) che il legislatore del 111 abbia usato la categoria dell’ager privatus optuma lege per indicare ogni possedimento reso stabile ed esente da qualsiasi peso od onere in territorio italico; in altre parole, per designare una vera e propria ‘categoria di possesso esclusivo/individuale’ (ager privatus), esente da pesi (ager privatus optuma lege). In ogni caso non credo che l’abbia usata per distinguere una ‘categoria di proprietà’ (dominium ex iure Quiritium), rispetto ad un’altra qualificabile come di ‘mero possesso’ (ager privatus). L’imposizione del vectigal non sembra quindi un criterio decisivo per distinguere un possedimento come privatus o publicus; così come, in terra d’Africa e nell’ager di Corinto, l’ager privatus vectigalisque non deve essere considerato un ibrido giuridico.

Sull’ager privatus optima lege e l’ager privatus vectigalisque ritornerò più avanti. È tuttavia in questo quadro che si colloca la famosissima definizione festina di possessio (L. 260,28 ss.) già incontrata prima da cui si evince con chiarezza che giuristi come Elio Gallo qualificarono la posizione del titolare del bene immobile in termini non ‘materiali’. Riferendo cioè il titolo giuridico della possessio all’uso del bene, ma non al bene stesso. Ritorniamo su questa fonte valutando in questo caso anche aspetti relativi alla migliore ricostruzione letterale del testo[290]:

 

Fest. sv. Possessio (L. 260,28): Possessio est, ut definit Gallus Aelius, usus quidam agri, aut aedifici, non ipse fundus aut ager[291]. Non enim possessio est áin iisñ[292] rebus quae tangi possunt ánequeñ[293] qui dicit se possidere, áis suam remñ[294] potest dicere. Itaque in legitimis actionibus nemo ex áex his quiñ[295] possessionem suam vocare audet, sed ad interdictum venit, ut praetor his verbis utatur: “Uti nunc possidetis eum fundum quo de agitur, quod nec vi nec clam nec precario alter ab altero possidetis, ita possideatis, avdersus ea vim fieri veto”.

 

Come si vede, secondo Elio Gallo si possederebbe il diritto, e non il bene (Possessio est, ut definit Gallus Aelius, usus quidam agri, aut aedifici, non ipse fundus aut ager. Non enim possessio est in iis rebus quae tangi possunt neque qui dicit se possidere, his vere is suam rem potest dicere). È un discorso analogo a quanto detto sopra sul rapporto tra modus agri e possessio loci[296].

Si deve a Giuseppe Falcone se questo notissimo lemma è stato sottoposto di nuovo ad un attento vaglio critico[297]. Secondo lo studioso palermitano la definizione eliana si discosterebbe da un modo improprio (‘traslato’) di qualificare la possessio, in voga alla fine del secondo/inizio primo secolo a.C.[298], consistente in una concezione ‘materialistica’ della possessio immobiliare per cui il possidere si identificava non più soltanto con l’uso (uti frui), ma con il bene stesso: habere possidere del fundus o dell’ager (nell’ottica della legge agraria nell’habere possidere dell’ager locus o aedificium)[299].

A questo punto mi chiedo perché il giurista dell’ultimo secolo della repubblica avrebbe dovuto rivendicare: “il corretto significato giuridico del vocabolo contro un uso improprio generalizzato?”[300]. Un uso che, a parte il dettato della legge agraria, addirittura riscontriamo solidamente attestato nella tradizione giuridica (e non isolatamente, ma lungo tutto l’arco dell’esperienza giuridica romana), come dimostrano i riferimenti puntuali, per altro, dello stesso Falcone agli excerpta di Giavoleno Prisco in D. 50.16.115 (Iav. 4 epist.) e di Paolo in D. 41.2.1 pr. (Paul. 54 ad ed.) che a sua volta cita Labeone e Nerva. Senza contare i giustinianei che, come dimostra la presenza stessa di questi brani nel Digesto, hanno voluto conservare la testimonianza di questa tradizione.

Rileggiamo allora questi indagatissimi frammenti:

 

D. 50.16.115 (Iav. 4 epist.): Quaestio est, fundus a possessione vel agro vel praedio quid distet. ‘fundus’ est omne, quidquid solo tenetur. ‘ager’ est, si species fundi ad usum hominis comparatur. ‘possessio’ ab agro iuris proprietate distat; quidquid enim adprehendimus, cuius proprietas ad nos non pertinet aut nec potest pertinere, hoc possessionem appellamus: possessio ergo usus, ager proprietas loci est. ‘praedium’ utriusque supra scriptae generale nomen est: nam et ager et possessio huius appellationis species sunt.

 

Su questo testo di Giavoleno la critica è divisa tra coloro che, ritenendo il frammento sostanzialmente genuino, vi colgono un nesso con la definizione di Elio Gallo (nel senso che il giurista di età flavia avrebbe con la frase ‘possessio ergo usus, ager proprietas loci est inteso rifarsi proprio alla definizione del giurista repubblicano); e coloro che invece, valutando questo passo corrotto[301], pensano che in ogni caso Giavoleno si sia distaccato dalla definizione di Elio Gallo, e comunque che questi sia portatore di una nozione ‘materiale’ di possessio[302].

 

D. 41.2.1 pr. (Paul. 54 ad ed.): Possessio appellata est, ut et Labeo ait, a sedibus quasi positio, quia naturaliter tenetur ab eo qui ei insistit, quam Graeci katok®n dicunt. Dominiumque rerum ex naturali possessione coepisse Nerva filius ait eiusque rei vestigium remanere in his, quae terra mari caeloque capiuntur: nam haec protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum adprehenderint.

 

Questo secondo passo, in cui i giuristi chiamati in causa vertono sul dominium e la possessio in rapporto al concetto di proprietà, è stato finemente interpretato rilevando che Paolo e Labeone, discutendo evidentemente della nuova rappresentazione della possessio come strutturalmente costituita da corpus e animus, nella prima parte (evidentemente di introduzione storica), abbiano in realtà fatto riferimento all’antica concezione della possessio, proprio per contrapporla a quella più moderna che si andava affermando al tempo del principato[303]. Ho voluto riportare di nuovo questa testimonianza perché in qualche modo il suo contenuto è legato all’idea di una concezione ‘materiale’, o ‘traslata’ (o ‘reale’) della possessio repubblicana. Ebbene, di fronte a testimonianze autorevoli come queste (della legge del 111 ci occuperemo subito), ma soprattutto in mancanza di altre ulteriori attestazioni di segno diverso, sarei più cauto nel definire il modo di qualificare le possessiones in senso non conforme a quello di Elio Gallo come ‘improprio’, ‘traslato’ o ‘atecnico’[304].

Leggendo in modo non pregiudiziale le parti della legge agraria in cui si distingue chiaramente il termine possessio si ricava infatti un’impressione diversa.

I frammenti sono: l. 10: agrum locum aedificium posse[sio]nem ex lege plebeive scito esse oport[et; 16: ve]tere possesionem dedit adsignavit reddidit; 18: ex possesione vi eiectus est, quod eius is quei eiectus est possederit, quod neque vi neque clam neque precario possederit ab eo, quei eum ea possesione vi eiec[erit; 21: agrum loc]um publicum populi Romanei de sua possesione vetus possesor prove vetere possesor[e dedit, 92: quem agrum possesionemve quoiusve agri possesionisve superficium q(uaestor) pr(aetor)ve pu[blice vendiderit…o]b eum agrum locum possesione[m agrive superfic]ium scripturam pecoris, 93: is ager ex s(enatus) c(onsulto) datus adsignatus est, ei agrei, quei s(upra) s(criptei) s(unt), possesionesque, ea omnia eorum h[ominum…dum magistratus quo de] ea re in ious aditum erit.

Vediamo più da vicino. Si è detto che nella legge del 111 si rileverebbe un impiego del termine possessio in senso ‘materiale’ e che Elio Gallo avrebbe tratto spunto per la sua precisazione anche da questo dettato legislativo. Sin qui la documentatissima e convincente disamina di Giusepe Falcone fornisce elementi utili per convincersi che Elio Gallo abbia scritto la sua opera forse proprio intorno al 100 a.C. ed è parimenti accettabile l’idea che il giurista possa aver conosciuto, se non proprio avuto presente al momento della formulazione della sua definizione, il testo della legge agraria. Avrei invece qualche riserva sull’interpretazione del significato storico e sulla qualificazione dell’uso del termine possessio in questo contesto normativo.

Escluderei anzitutto qualsiasi atteggiamento generalizzante e vedrei caso per caso. Il riferimento, ad esempio, della linea 16 al trinomio dare adsignare reddere in relazione ad ‘ager’, locum’, aedificium’ è stato giudicato in effetti espressione di un significato ‘materiale’[305]. In questo caso si tratta però di vecchi possessi (vetere possessionem) che si sono consolidati nel tempo e dunque di situazioni in ogni caso atipiche di possesso. Lo stesso si deve dire della linea 21.

Quanto alla possessio della linea 9, che Max Kaser ha definito apertis verbis come ‘proprietà privata’, qui siamo in tema di ager privatus, fatto tale da questa legge, con riferimento ai terreni assegnati con le leggi graccane[306]. Lo stesso si può dire della possessio della linea 10 (che ha titolo nella legge o in un plebiscito) e delle possessiones di agri scriptuarii della linea 92.

Sull’interpretazione di tali fattispecie concordo con Giuseppe Falcone. Siamo effettivamente di fronte a delle forme atipiche di possesso, dove il confine con l’idea della proprietà è molto sottile. La stessa formula lessicale uti frui habere possidere riassume le varie posizioni giuridiche in cui potevano venirsi a trovare i titolari di ager ai sensi di questa legge[307].

Ma il problema riguarda la questione stessa della natura dell’ager privatus che è il nostro tema probandi. Se volessimo ragionare ex post potremmo dire con Gaio (2.40) che questa forma di possessio materiale fosse l’unica forma di dominium ex iure Quiritium conosciuta presso i Romani (apud peregrinos quidem unum esse dominium ita ut <aut> dominus quisque sit, aut dominus non intellegatur) prima della ‘divisione’ nel ‘doppio dominio’. Uno storico del diritto dovrebbe tuttavia ragionare ex ante, e allora non resta che pensare all’attestazione di una forma di appartenenza come l’habere già per il 111 a.C. Una figura atipica, fuori dalle regole del diritto augurale, quindi laica, imposta dalla realtà politica, che risulta convivere con altre figure meglio note di possessio[308].

Tanto è vero che, nel caso della linea 18, dove c’è l’interdictum unde vi: sei quis eorum, quorum age]r s(upra) s(criptus) est, ex possesione vi eiectus est, quod eius is quei eiectus est possederit, quod neque vi neque clam neque precario possederit ab eo, quei eum ea possesione vi eiec[erit; e in quello della linea 93 dove, insieme all’ager datus adsignatus ex s(enatus) c(onsulto), agli agri quei s(upra) s(criptei) s(unt), il legislatore contempla delle figure di possessio in senso lato (si tratta della regolamentazione di ipotesi concernenti una chiamata in causa davanti al magistrato: de]ea re in ious aditum erit. Mi pare evidente che in tutti questi casi si possa parlare di possessio nel senso più proprio del termine. Questa considerazione a mio avviso dovrebbe far cadere definitivamente il ragionamento per cui il tenore del testo legislativo che stiamo commentando sarebbe relativo esclusivamente ad una nozione di possessio in senso ‘materiale’[309].

La definizione di Elio Gallo potrebbe allora essere spiegata come una testimonianza ulteriore del processo di riflessione e di ripensamento del diritto (e quindi dei termini giuridici), che fu una tendenza tipica dei giuristi dell’età ciceroniana[310]. Talvolta questi studiosi intervenivano anche in senso critico nei confronti di scelte normative che avrebbero potuto apparire discutibili sul piano dell’ortodossia giuridica (in questo Falcone non ha torto, la causa Curiana e le polemiche che questa suscitò dimostrano che in quegli anni la disputa scientifica era molto accesa). Del resto, Elio Gallo (se proprio non vogliamo considerarlo un giurista) non fu l’unico esperto di grammatica che discusse anche di diritto e che tentò di applicare alla metodologia giuridica anche le nuove correnti interpretative provenienti dalla Grecia. Mi pare che dei pochi frammenti superstiti di questo autore non si possa negare un suo impegno anche nell’analisi dei vocaboli e un’attenzione anche ad un approccio etimologico nello studio del diritto[311].

Forse la definizione di Elio Gallo rappresenta effettivamente la fine di un’epoca nel senso che dimostra che i giuristi Romani avevano cominciato a distinguere tra il fatto di possedere e il diritto di possedere. La qual cosa effettivamente è un presupposto per riconoscere la differenza tra possesso e proprietà[312].

Non è possibile affrontare in questa sede un problema di così ampia portata, tuttavia ritengo che l’interpretazione più fedele al dettato normativo della legge agraria sia quella che riconosce in tale legge una considerazione ‘tecnica’ (si pensi anche al modus agri delle assegnazioni coloniarie) della figura giuridica della ‘possessio’ ed insieme una decisa tendenza a spingere questa posizione verso una connotazione più ‘reale’ o ‘materiale’ di tale rapporto. Anzi, direi di più (e lo vedremo poco più avanti) per questa contaminazione, forse consistente in una (ri)lettura in senso materiale (patrimonialistico) della possessio dell’ager publicus, potrebbe aver influito un pensiero consapevole e proveniente da una delle scuole giuridiche più attive (quella dei Mucii Scaevola?) durante l’epoca di passaggio tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. Esperti del ius praediatorum dell’epoca immediatamente post graccana potrebbero aver sentito infatti la necessità di adottare questa figura di possessio che effettivamente non sembra conforme alla più alta tradizione giuridica romana, dando così una risposta concreta anche alla soluzione di un grave problema politico.

 

18.    La possessio (habere possidere) di beni immobili in Cicerone

 

Si potrebbe allora ribaltare il modo di affrontare la questione. Piuttosto che riconoscere nel legislatore del 111; in Cicerone in più occasioni; e poi, in seguito, in Giavoleno Prisco e nel giurista Paolo (che a sua volta riprende Labeone) un modo impreciso di interpretare la figura della possessio dei beni immobili, considerando come corretto solo il modo di Elio Gallo, si potrebbe pensare che tutte queste fonti siano invece l’attestazione di una fase molto particolare della storia di tale istituto e della storia dell’intero sistema di gestione del patrimonio fondiario della res publica.

L’idea del Serrao di qualificare la fattispecie di possessio prevista dal legislatore del 111 come una forma di possesso tout court, abbiamo visto che non si giustifica appieno di fronte ad un più analitico esame del dettato normativo e lo stesso Falcone, commentando il frammento di Paolo, non esclude che questi avrebbe potuto riferirsi ad un’epoca in cui la possessio non era ancora separata dalla proprietà che è la condizione tipica, si potrebbe dire, ancora vigente nel sistema giuridico dell’età della legge agraria[313].

Rileggiamo allora alcuni noti frammenti dell’opera ciceroniana per verificare se è possibile stabilire una continuità anche tra la nozione di possessio contemplata nella legge del 111 e l’uso di tale termine nel lessico di Cicerone. Se così fosse, l’ipotesi di considerare il disposto normativo della legge agraria come espressione di un deliberato e cosciente modo di qualificare le forme di appartenenza fondiaria dell’epoca ne risulterebbe rafforzata.

Per questa breve ricognizione possiamo prendere le mosse dal de lege agraria in cui il tema del possesso/proprietà fondiaria è ovviamente particolarmente trattato[314]:

 

Cic. de lege agr. 3.2.7: Quid ergo ait Marianus tribunus plebis, qui non Sullanos in invidiam rapit? “QUI POST MARIUM ET CARBONEM CONSULES AGRI, AEDIFICIA, LACUS, STAGNA, LOCA, POSSESSIONES” – caelum et mare praetermisit, cetera complexus est – “PUBLICE DATA, ASSIGNATA, VENDITA, CONCESSA SUNT (a quo, Rulle? post Marium et Carbonem consules quis adsignavit, quis dedit, quis concessit praeter Sullam? –, “EA OMNIA EO IURE SINT” (quo iure? labefactat videlicet nescio quid. Nimium acer, nimium vehemens tribunus plebis Sullana rescindit), “UT QUAE OPTIMO IURE PRIVATA SUNT”. Etiamne meliore quam paterna et avita? Meliore. [8] At hoc Valeria lex non dicit, Corneliae leges non saciunt, Sulla ipse non postulat. Si isti agri parte aliquam iuris, aliquam similitudinem propriae possessionis, aliquam spem diuturnitas attingunt, nemo est tam impudens istorum, quin agi secum praeclare arbitretur. Tu vero, Rulle, quid quaeris? Quod habent, ut habeant? Quis vetat? Ut privatum sit? Sed ita latum est. Ut meliore iure tui soceri fundus Hirpinus sit sive ager Hirpinus – torum enim possidet – quam meus paternus avitusque fundus Arpinas? Id enim caves?

 

Come si vede, in questa testimonianza si rileva un uso della dicotomia ager privatus/ager privatus optimo iure basato sull’imposizione o meno di pesi da parte dello ‘Stato’. Qui si legge che la categoria dei beni paterna et avita era delle più tutelate (Etiamne meliore quam paterna et avita? Meliore). La dimensione giuridica resta però, come nella legge del 111 a.C., quella del possesso contemplato insieme a figure giuridiche di appartenenza privata [(habere possidere): si isti agri parte aliquam iuris, aliquam similitudinem propriae possessionis; Quod habent, ut habeant? Quis vetat? Ut privatum sit? Sed ita latum est]. E si tratta di AGRI, AEDIFICIA, LACUS, STAGNA, LOCA, POSSESSIONES” che “PUBLICE DATA, ASSIGNATA, VENDITA, CONCESSA SUNT”, che(…) OPTIMO IURE PRIVATA SUNT”[315].

Ma proseguiamo nella lettura.

Al paragrafo 9, troviamo ancora un’interessante serie di considerazioni sulla natura giuridica delle varie categorie di praedia contemplate nel progetto di legge di Rullo[316]. Anzi, in questo caso l’Arpinate assume addirittura un tono isagogico: Cic. de lege agr. 3.2.9: Optimo enim iure ea sunt profecto praedia, quae optima condicione sunt. Libera meliore iure sunt quam serva; capite hoc omnia, quae serviebant, non servient. Soluta meliore in causa sunt quam obligata; eodem capita subsignata omnia, si modo Sullana sunt, liberantur. Immunia commodiore condicione sunt quam illa, quae pensitant; ego Tusculanis pro aqua Crabra vectigal pendam, quia mancipio fundum accepi; si a Sulla mihi datus esset, Rulli lege non penderem.

In questa circostanza Cicerone sta commentando una clausola della rogatio di Rullo in base alla quale tutti i terreni gravati da ipoteca rientranti nella manovra agraria di Silla sarebbero stati liberati (eodem capita subsignata omnia, si modo Sullana sunt, liberantur). Appare chiaro però che i praedia optimo iure fossero i terreni non gravati da alcun peso (Optimo enim iure ea sunt profecto praedia, quae optima condicione sunt) e che tra i pesi rilevanti vi fosse anche la sottoposizione a vectigal (ego Tusculanis pro aqua Crabra vectigal pendam, quia mancipio fundum accepi; si a Sulla mihi datus esset, Rulli lege non penderem).

Il fatto che Cicerone stia parlando dei terreni confiscati da Silla è importante perché poco più avanti lo stesso prenderà chiaramente posizione ancora sulla natura giuridica di questi possedimenti[317]. Da un lato, vi sono i terreni quae sunt data, donata, concessa, vendita; dall’altro, quelli solamente posseduti (possessa). Il riferimento è quindi alla legittimazione di situazioni di mero possesso che furono conseguenza della publicatio sillana. Anche in questo caso l’ager privatus appare qualificato però come un terreno posseduto con titolo legittimo (dato, donato, concesso, venduto), e non come una piena proprietà. Di questi terreni, Cicerone accusa Rullo di voler fare dei possessi legittimi (His cavet, hos defendit, hos privatos facit). Il promotore di questa legge tanto avversata avrebbe voluto garantire quindi il possesso di coloro che occupavano possessi illegittimi soltanto in virtù del potere conferitogli dal consenso popolare (hos, inquam, agros, quos Sulla nemini dedit Rullus non vobis adsignare vult, sed eis condonare, qui possident) anche a costo di agire in difformità rispetto alla norma, e quindi violando le regole vigenti in materia di possesso fondiario. La fonte che stiamo citando è del 63 a.C. e i possedimenti cui si fa riferimento sono in Italia.

Vediamo adesso un frammento della pro Flacco (31.79-80) dove troviamo descritta ancora la situazione giuridica di titolari di possedimenti fondiari. Il contesto del discorso è naturalmente ancora fazioso, ma il linguaggio del retore è sempre quello di un conoscitore profondo del lessico giuridico:

 

Cic. pro Flacc. 31.79: At haec praedia etiam in censu dedicavisti. Mitto quod aliena, mitto quod possessa per vim, mitto quod convicta ab Apollonidensibus, mitto quod a Pergamenis repudiata, mitto etiam quod a nostris magistratibus in integrum restituta, mitto quod nullo iure neque re neque possessione tua; [80] illud quaero, sine ista praedia censui censendo, habeant ius civile, sint necne sint mancipi, subsignari apud aerarium aut apud censorem possint. In qua tribu denique ista praedia censuisti? Commisisti, si tempus aliquod gravius accidisset, ut ex isdem praediis et Apollonide et Romae imperatum esset tributum. Verum esto, gloriosus fuisti, voluisti magnum agri modum censeri, et eius agri qui dividi plebi Romanae non potest.

 

La testimonianza si riferisce come è noto alla difesa che Cicerone assunse nell’ottobre del 59 a.C. per Lucio Valerio Flacco in una quaestio de repetundis relativa all’esperienza di questo personaggio come governatore d’Asia. Il riferimento è quindi in questo caso a possedimenti extra italici. Il discorso, tuttavia, nella sostanza non cambia. Si rileva l’assenza del dominium ex iure Quiritium come categoria di proprietà immobiliare e la concezione della possessio è ancora in senso decisamente ‘materiale’[318].

La differenza rispetto alla lezione di Elio Gallo in Festo (L. 260,28) questa volta però è rimarchevole. Nella definizione lessicografica il possessore detiene un ‘diritto all’uso’ (uti frui) di un bene concreto (usus quidam agri aut aedifici); ma non è titolare del diritto (habere possidere) sul bene concreto (non ipse fundus aut ager). Nei casi della pro Flacco, contrapposta alla titolarità giuridica qualificata come ‘possessione’, c’è invece ‘re’ (nel de lege agraria avevamo letto di un fondo in agro Tuscolano ripetto al quale Cicerone aveva usato le parole quia mancipio fundum accepi)[319].

La maggiore caratterizzazione di questa qualificazione giuridica del possesso di terra che si riscontra nella testimonianza appena esaminata si spiega probabilmente perché l’actio Publiciana all’epoca della pro Flacco era già stata introdotta[320]. Era quindi stata già riconosciuta quella che Gaio più tardi definirà come una ‘forma di proprietà’ (in bonis habere pretorio) contrapposta al dominium ex iure Quiritium (Gaio in 1.54 e 2.40), ed era, se questo è vero, anche possibile esperire un’actio ficticia in alternativa alla rei vindicatio[321].  Sarebbe stato possibile quindi ottenere una tutela reale rispetto alla titolarità di un bene immobile anche fuori dai casi dell’azionabilità dell’interdetto uti possidetis (naturalmente accogliendo la tesi accolta in storiografia che colloca l’introduzione dell’actio Publiciana nel 67 a.C.)[322].

 

19. – Dalla possessio dell’ager publicus al dominium quiritario

 

Pur riservandomi di tornare con maggiore approfondimento su questo argomento in altra sede, le conseguenze che si traggono dalla lettura della legge agraria insieme ai noti passi di Cicerone appena esaminati suggeriscono una serie di riflessioni che non è possibile evitare[323].

Anzitutto, per valutare la questione nella sua più esatta cornice storica è preferibile non adottare lo schema tradizionale proposto da storiografia anche autorevole sulla ripartizione della proprietà in quattro tipologie specifiche (proprietà ex iure Quiritium, proprietà pretoria, proprietà provinciale, proprietà peregrina)[324]. Ha certamente senso invece seguire la prospettiva di Gaio (2.40) e distinguere tra una fase in cui la proprietà (dominium) era una sola come presso gli stranieri [apud peregrinos quidem unum esse dominium (…). Quo iure etiam populus Romanus olim utebatur] e quando invece questa sarà frazionata in due posizioni giuridiche distinte (il cd. duplex dominium)[325].

Sarebbe giusto però chiedersi quanto senso storico abbia una ricostruzione che non tenga conto del fatto che prima dell’introduzione dell’actio Publiciana (e della possibilità di esperire l’exceptio rei venditae et traditae) non è possibile pensare ad un’effettiva frantumazione di tale posizione giuridica nel senso prospettato da Gaio[326]. Il testo della legge agraria che stiamo studiando dimostra infatti che la categoria del dominium ex iure Quiritium era estranea al sistema giuridico (e forse anche al modo stesso di pensare) del legislatore del 111 a.C. Inoltre prova che l’ager privatus era una forma di possesso in senso tecnico ma, per l’epoca, e sul piano sostanziale, una fattispecie con caratteristiche miste (o ibride se ragioniamo ex post). Lo dimostra il fatto che nelle ipotesi di ager optimo iure essa effettivamente appare descritta come una forma di ‘proprietà’, qualificata però come habere possidere[327].

È sul piano processuale, che si rileva il vero tratto differenziale (rispetto alla concezione che vede l’uti frui habere possidere del legislatore del 111 come forma di proprietà) di tale istituto. L’ager privatus, nella legge che stiamo studiando, è una situazione giuridica ancora sprovvista di adeguata tutela. La previsione della linea 18, infatti, dimostra che l’actio Publiciana non era stata ancora introdotta durante il primo secolo a.C. o, quanto meno, che la nostra legge (che è stata definita forse non a torto come una lex de magistratibus[328]) non contemplasse questa possibilità[329]. Tanto è vero che alle linee 33-39 il legislatore sembra aver predisposto la possibilità che in caso di controversia sulla titolarità dell’ager si dovessero adire delle magistrature superiori. Andrew Lintott fa risalire l’introduzione di tale regola giuridica alla ribellione di Scipione Emiliano del 129 a.C. e spiega con questo fatto la circostanza che Caio Gracco non avrebbe conferito alle commissioni agrarie più la facoltà di giudicare sulla titolarità dei terreni. Il che spiegherebbe anche perché, tanto nella lex repetundarum, quanto in quella agraria del 111 a.C., i triumviri vengano designati con la formula a(gris) d(andis) a(dsignandis)[330].

C’è tuttavia un’altra considerazione da fare. Poiché la natura giuridica e sostanziale della figura dell’ager privatus in età repubblicana è quella della possessio (lo dimostra la legge agraria: uti frui habere possidere) e sappiamo che in origine questa riguardava soltanto i beni immobili, mi pare altresì corretto, come ha fatto del resto per prima Francesca Bozza, impostare la questione delle origini di tale istituto nel diritto romano nell’ambito della possessio dell’ager publicus. In altre parole, valutare la comparsa della figura del dominium ex iure Quiritium sui beni immobili, bisogna ragionare in termini di passaggio dalla possessio dell’ager publicus al dominium quiritario[331].

Si può dire allora che la storia della proprietà immobiliare in diritto romano repubblicano (a parte l’heredium) cominci con la storia della nozione di ager publicus che non aveva alcuna rilevanza per il diritto augurale (che pure era stato redatto da augures publici): Varro l.L. 5.5.33: Ut nostri augures publici disserunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus; né compare nel famoso elenco di Frontino che usa anche il giovane Weber per cominciare il suo trattato di storia agraria romana: Front. de agr. qual. (Lach. 1,1-5=Thul. 1): Agrorum qualitates sunt tres; una agri divisi et adsignati, altera mensura per extremitatem conprehensi, tertia arcifinii qui nulla mensura continetur. È un dato di fatto confermato dalle fonti che, fino all’epoca di Catone Censore, l’agro conquistato iure belli entrasse a far parte ancora, solo, ed esclusivamente dell’ager Romanus[332].

All’inizio del secondo secolo a.C. si rileva invece una svolta significativa perché il latino pop(u)lus sembra aver cominciato ad assumere il significato di ‘appartenente alla comunità’ in un valore semantico opposto a privatus (non più quindi populus=‘esercito’[333]) come chiaramente si legge, fra l’altro, anche in una frase del SC de bacchanalibus: FIRA. 1.241,15: neve in poplicod neve in/preiuatod neue exstrad urbem sacra quisquam fecise velet.

Questo fatto è indice di un cambiamento epocale ed è in questo quadro che collocherei (dies post quem) l’emersione della categoria di dominium ex iure Quiritium nella dottrina di alcuni giuristi romani dell’età cesariana. Sempre che abbia ragione la dottrina prevalente nel ritenere che l’espressione dominium loci di Alfeno Varo in D. 8.3.30 sia genuina[334].

L’affermazione tarda del dominium ex iure Quiritium potrebbe rappresentare allora l’esito finale di un lungo processo su cui potrebbe aver influito prima l’ingresso dei fundi nella categoria delle res mancipi[335], poi l’estensione della regola dell’usucapibilità biennale del fundus[336] alle aedes in età piuttosto tarda (ne riferisce ovviamente Cicerone in top. 4.23 e in pro Caec. 19.54)[337].

L’ultima fase di questa evoluzione potrebbe essere stata, infine, l’affermazione della traditio sulla mancipatio, quale strumento per alienare (e come modo di acquisto per) i beni immobili, che innestò un processo di trasformazione il cui esito sarà segnato, come sappaiamo, dalla comparsa dell’actio Publiciana in età cesariana (68/67 a.C.) e che risolverà, come abbiamo già detto, anche il problema di riconoscere adeguata tutela processuale all’habere possidere dei beni immobili[338].

 

20. – Un’ipotesi sull’emersione dell’idea di dominium nei giuristi dell’età cesariana

 

Ma allora in questo quadro come si possono collocare la figura del dominium ex iure Quiritium e il problema della sua emersione nell’ordinamento giuridico romano?

Per un’innovazione così radicale nel pensiero giuridico, come quella che porterà i giuristi romani ad accettare la duplicazione delle figure di dominium (Gai. 1.54: duplex sit dominium) che come abbiamo sinteticamente visto si era ormai consolidata nei fatti e nella prassi giudiziaria, dobbiamo pensare a qualcosa di molto profondo e significativo[339]. Bisogna forse cercare tracce di qualcosa che può aver influito persino nella trasformazione di una coscienza giuridica[340].

In questa direzione un ruolo non secondario potrebbe essere stato svolto dalla dottrina politica di Panezio di Rodi, l’esponente di maggiore prestigio del pensiero filosofico della media stoa, all’epoca dell’Africano Minore[341]. Un fatto possibile perché si inserisce in un quadro molto più ampio di feconda trasformazione del pensiero giuridico romano per effetto dell’assimilazione della metodologia filosofica delle scuole ellenistiche nelle scuole di diritto a Roma (che trasformarono la riflessione dei giuristi da pratica forense ad ars iuris civilis)[342].

Possiamo rilevare infatti un legame strettissimo tra il pensiero di tale filosofo, la riflessione giuridica di Cicerone e la concezione della proprietà privata degli immobili nel diritto romano. Nel suo ultimo anno di vita (quindi per l’ultima volta) Cicerone affronta, infatti, di nuovo il tema della proprietà fondiaria. Questa volta il taglio non è più quello che abbiamo riscontrato in altre occasioni (come appunto nel de lege agraria del 63 a.C. o nella pro Flacco del 59 a.C.) o che si può riscontrare ancora nel de re publica che fu pubblicato nel 51 a.C. (nella parte in cui Cicerone parla dello ‘Stato’ e della ‘proprietà’ dei re ellenistici)[343]. Questa volta l’occasione è data da un’opera dal taglio marcatamente teorico/filosofico e per questo da una modalità certamente innovativa rispetto al passato[344].

Nel 45/44 a.C. il retore/filosofo si occupa nel primo libro del de officiis proprio del concetto di proprietà privata. Il dato interessante è che il frammento che ci interessa potrebbe essere stato tratto direttamente dall’opera maggiore di Panezio di Rodi, Sul dovere morale (PerÜ toè kay®kontow), andata perduta[345]:

 

Cic. de off. 1.7.21: Sunt autem privata nulla natura, sed aut vetere occupatione, ut qui quondam in vacua venerunt, aut victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex quo fit, ut ager Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum; similisque est privatarum possessionum discriptio. Ex quo, quia suum cuiusque fit eorum, quae natura fuerant communia, quod cuique obtigit, id quisque teneat; e quo si quis sibi appetet, violabit ius humanae societatis.

 

La cosa che colpisce di più è che il catalogo (e il linguaggio usato per la descrizione) delle posizioni di appartenenza fondiaria descritto in questo passo non si discosta molto, anzi sembra corrispondere ancora (ed esattamente), all’assetto normativo della legge del 111 a.C. Nulla è posseduto per (legge di) natura, ma ‘si ha’ (id quisque teneat) comunque in ragione di un titolo giuridico, per antico possesso (vetere occupatione)[346] o per conquista bellica; per legge, contratto, convenzione, o sorteggio (aut victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex quo fit, ut ager Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum). Esattamente lo stesso si può dire, avverte Cicerone, per i possedimenti privati che sono definiti come forme di possesso e, aggiungo io, non di dominium (similisque est privatarum possessionum discriptio).

Come si vede, ancora nel 43 a.C. (o giù di lì), Cicerone, per descrivere le tipologie di possesso della terra, pur se sta parlando della nozione di ‘proprietà privata’ (se è vero che sta citando letteralmente Panezio che di questo si starebbe occupando) [347], ne parla ancora in termini di possessio e non ancora di dominum ex iure Quiritium. Inoltre è facile notare come rilevi ancora la doppia contrapposizione ager publicus/privatus e, all’interno di questa, la doppia endiadi uti frui habere possidere.

La differenza rilevante tuttavia è che Cicerone, anche quando parla di possessio, si riferisce a qualcosa che è parte del patrimonio personale del suo titolare ed esprime questo concetto alludendo chiaramente alla sua consistenza patrimoniale[348]. Insomma, come abbiamo visto anche prima, ad una forma di possessio che è ‘materiale’ e non più meramente ‘astratta’ come nella concezione di Elio Gallo in Fest. (L. 260,28)[349].

La cosa si può spiegare se si pensa che i giuristi romani, per arrivare ad una concezione astratta del concetto di dominium, dovettero maturare prima un’idea patrimonialistica del meum esse (che sappiamo nascere come prerogativa dal carattere eminentemente potestativo)[350]. Quest’ultimo, considerato non più espressione di una potestas indifferenziata, ma di un valore patrimoniale. Ritengo che questo sia un passaggio fondamentale per comprendere in termini esatti l’importanza della trasformazione che determinerà nel mondo giuridico romano l’affermazione del dominium ex iure Quiritium (dopo la frantumazione del concetto unitario di proprietà)[351].

Si tratta, per altro, di una caratterizzazione che potrebbe essere ascritta proprio all’elaborazione concettuale della scuola muciana[352].

Tanto è vero che, proprio un contemporaneo di Cicerone, Q. Mucio il pontefice massimo, si distinguerà per essere stato uno dei maggiori promotori di tale concezione in fase di rinnovamento del ius civile più antico. Mi riferisco ovviamente alla celeberrima versione del frammento decemvirale della Tab. 5.4 (uti legassit suae rei) che in questo discorso assume naturalmente un rilievo paradigmatico[353].

La realtà descritta dal legislatore del 111 e da Cicerone, ma che, come abbiamo visto, ritroviamo inequivocabilmente anche nei discorsi di ricostruzione storico antiquaria della letteratura giuridica successiva può quindi non essere vista semplicemente come espressione di una degenerazione, ma probabilmente essa fu effetto di una sofisticatissima elaborazione del pensiero giuridico dell’età graccana. La conseguenza di una profonda riflessione in funzione di un nuovo che si stava determinando[354]. Fa riflettere molto la notizia di Plutarco per cui P. Mucio fu uno dei consulenti giuridici di Tiberio Gracco per la prima lex Sempronia: Plut. T. Gracc. 9.1: “Comunque egli (n.d.r., Tiberio Gracco) non preparò da solo la legge, ma si avvalse dei consigli dei cittadini più eminenti per virtù e considerazione, fra i quali erano il pontefice massimo Crasso [n.d.r., Licinio Crasso Muciano (console nel 131 a.C., fratello di Publio Mucio Scevola, che era stato adottato da P. Licinio Crasso Divite: D. 1.2.2.40 (Pomp. lib. sing. enchir.): etiam Lucius Crassus frater Publii Mucii, qui Munianus dictus est: hunc Cicero ait iurisconsultorum disertissimum] il giurista P. Mucio Scevola [n.d.r., D. 1.2.2.39 (Pomp. lib. sing. enchir.): post hos fuerunt Publius Mucius et Brutus et Manilius, qui fundaverunt ius civile], allora console (nel 133 a.C.), e Appio Claudio[355], il suocero di Tiberio” e che lo stesso Quinto Mucio augure, insieme a Furio Filo e ad Aulo Cascellio sarebbe stato definito il massimo esperto de iure praediatoris dell’epoca sillana[356]. Se proprio non volessimo dare credito a Plutarco c’è sempre la nota indicazione di Cicerone negli Academica scritti negli anni 45/44 a.C.: Cic. Acad. 2.5.13: Duos vero sapientissimos et clarissimos fratres P. Crassum et P. Scaevolam aiunt Ti. Graccho auctores legum fuisse, alterum quidem (ut videmus) palam, alterum (ut suspicantur) obscuris. Fa sensazione, inoltre, il fatto che Cicerone negli anni dei suoi studi avesse frequentato sia la casa di Q. Mucio augure (ormai ultrasettantenne) che quella di Q. Mucio il pontefice massimo[357].

Torniamo allora alla nozione di proprietà. Il pensiero [in ordine al problema dell’emersione del concetto di proprietà fondiaria (nel senso di dominium ex iure Quiritium) affiancata all’in bonis habere pretorio (come forma di appartenenza dell’ager publicus in senso patrimoniale)] va subito, ovviamente, all’espressione dominium riferita al fondo di terra come cespite immobiliare forse presente in un passo di Alfeno Varo [D. 8.3.30 (Paul. 4 epit. Alfeni dig.)][358].

Nella ricostruzione di Lenel questo notissimo passo è collocato al n. 61 e si tratta del caso più tipico di esposizione di un responsum, giustificato da una necessità pratica[359]. Ebbene, in questo frammento, la doppia locuzione dominium loci, sul presupposto condiviso dalla storiografia prevalente della genuinità del termine dominium[360], è stata giustamente vista come un hapax legomenon, dato che non abbiamo testimonianze di altri giuristi coevi o anteriori in cui si ritrovi un’espressione analoga[361].

La supposizione è rafforzata (insieme ad altre considerazioni di carattere più generale) dal fatto che il legislatore del 111 a.C. non usa mai, in 105 paragrafi di legge, l’espressione dominium; inoltre, dal fatto che tale termine è assente nel lessico di Cicerone e, infine, che nel vocabolario festino troviamo la parola dominus legata a dubenus (L. 59,2)/heres (L. 88,28) (dunque inquadrata giuridicamente in una concezione potestativa), ma non ancora ad una definizione giuridica di proprietà[362].

Ed allora, se crediamo che Cicerone abbia utilizzato in Cic. de off. 1.7.21 del materiale paneziano, e non vedo come si possano superare, fra l’altro, le testimonianze di Gellio (13.28.1-4) e Plinio (praef. 22)[363], dobbiamo riconoscere che attraverso Cicerone è possibile stabilire un legame molto stretto anche tra la nozione di proprietà privata (come dominium immobiliare), la cultura stoica (della corrente più conservatrice), e il diritto romano dell’epoca scipionico/cesariana[364]. La cosa non sorprende se si pensa alla cd. ‘svolta ellenistica’ di giuristi come Ofilio, Trebazio e Aquilio Gallo, o allo stoicismo di Catone Uticense[365]. Del resto, risale a questo periodo anche lo sforzo dei giuristi di collegare l’actio aquae pluviae arcendae con l’actio negatoria[366].

Sulle modalità specifiche di tale passaggio e sul rapporto tra cultura giuridica romana e cultura filosofica ellenistica devo rinviare ad altra sede[367].

Il dato interessante, su cui credo valga la pena di fermarsi a riflettere, è che l’essenza dogmatica delle nozioni di res publica e di sovranità popolare che abbiamo visto enunciare da Cicerone, paiono basarsi sullo stesso principio dell’utilità che abbiamo anche visto poco sopra essere il fondamento teorico su cui i giuristi romani costruirono la base dogmatica della dicotomia publicus/privatus[368]. La stessa formula dell’actio Publiciana prevede, non a caso, la considerazione della bona fides: si quis id quod bona fide emit nondum usucaptum petet iudicium dabo[369]. Si può allora stabilire un legame diretto tra il tema dell’origine della proprietà e quello del fondamento dogmatico della nozione di dominium ex iure Quiritium ed affermare che entrambi abbiano tratto origine da uno dei filoni di costruzione concettuale filosofica che furono attivi nel circolo scipionico. Se poi una considerazione in chiave oggettiva (dominium) di tale istituto sia da ascrivere già al pensiero della scuola serviana ovvero, piuttosto, ad epoca più tarda, è questo un problema che esula dal tema di questa ricerca.

 

Conclusione

 

È arrivato il momento di concludere. Se il paradigma di riferimento per il legislatore del 111 fu la res publica con la gestione dei territori conquistati e di quelli regolamentati dalle riforme graccane, non dovette risultare di immediata rilevanza strategica (sul piano politico) porsi il problema dell’utilità, cioè dell’uti frui, e quindi di procedere ad una qualificazione della titolarità della situazione giuridica che veniva a determinarsi per effetto delle assegnazioni di particelle di questo territorio o in seguito al riconoscimento delle situazioni pregresse[370].

Il legislatore del 111 forse non si pose il problema di qualificare nel migliore modo possibile, rispetto al sistema esistente, la posizione dei titolari delle assegnazioni di terra (buona parte dei quali risultavano già possessori o aventi diritto a vario titolo).

Questo perché il solo interesse in gioco era quello della res publica in una fase storica in cui la necessità principale era di trovare una soluzione alla crisi graccana in difesa del nuovo modello economico basato su un intreccio di risorse costituito dalla disponibilità di terra, di manodopera schiavistica e di enormi liquidità di denaro. Tutto questo determinato dal circuito guerra-sfruttamento-appalti-profitti-(nuova) guerra che viene gestito dagli organi di governo in nuovi circuiti di mercato[371].

Per i Romani dell’epoca medio/tardo repubblicana, ma si dovrebbe dire per la classe aristocratica-colta al potere (di cui facevano parte anche i giuristi), dovette risultare sufficiente riconoscere nell’ambito di una categoria di evidenza pubblica così importante come l’ager publicus la possibilità che si potesse essere titolari di una porzione di tale territorio a vario titolo spettante al privato (ager privatus) e che questa potesse concretizzarsi in una privazione (‘privatizzazione’, appunto) dietro però il pagamento in compensazione di un corrispettivo in denaro (vectigal o scriptura) ovvero dell’assunzione di un vincolo legale avente ad oggetto prestazioni di altra natura (linee 7, 8, 14, 19, 23, 33, 80: privatum esse, privatum facere). Le fonti, infatti, come abbiamo visto, battono sempre sui problemi del precario e della revocabilità ex lege per i beneficiari, che erano dei problemi riguardanti principalmente l’effettività delle prescrizioni normative[372].

Sul problema della nozione di possesso enunciata da Elio Gallo in Fest. (L. 260,28) e sul rapporto di tale nozione con la concezione effettiva di tale legge, in estrema sintesi, vedrei almeno quattro elementi per considerare le tipologie di appartenenza della legge agraria del 111 come tutt’altro che improprie sul piano della tecnica giuridica rispetto alla soluzione proposta da Elio Gallo.

Primo. Il dato quantitativo. Se leggi della res publica (come appunto la legge de quo), fonti letterarie (Cicerone) e giuridiche (Giavoleno, Paolo, Labeone) dimostrano di avere avuto una considerazione della possessio in un senso ‘materiale’, mentre il solo Elio Gallo, si fece portatore di una concezione diversa, è forse preferibile pensare che l’uso corrente sia stato quello individuabile nelle fonti più numerose, piuttosto che il contrario.

Secondo. L’autorevolezza della lex agraria del 111 come fonte giuridica. Il redattore materiale del testo della legge del 111 si potè avvalere della consulenza di uomini esperti del diritto del livello di Q. Mucio augure (console nel 117 a.C.) che non era certo uno sprovveduto. Fra l’altro, la sua famiglia era scesa in campo anche affianco a Tiberio Gracco sostenendo il suo progetto di riforma agraria.

Terzo. La continuità del linguaggio giuridico. Abbiamo visto come Cicerone e le fonti giuridiche parlino della possessio di terreni, sia in senso proprio, che in senso ‘traslato’. E lo fanno nell’arco di svariati decenni usando sempre lo stesso linguaggio che è lo stesso della legge agraria. La qual cosa, come indice di una continuità nel linguaggio giuridico dell’ultimo secolo della repubblica, non dovrebbe in nessun caso descriversi come espressione di un uso improprio.

Quarto. Il taglio stesso dell’opera eliana. La tendenza a specificare il significato esatto delle parole, di cui ovviamente in campo giuridico il De verborum quae ad ius [civile][373] pertinent, significatione di Elio Gallo costituisce uno degli esempi più autorevoli, può non essere visto necessariamente come indizio di una volontà di intervenire di fronte ad una degenerazione nell’uso del linguaggio tecnico-giuridico delle fonti ufficiali della res publica dell’epoca a cavallo tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. Questa tendenza può, molto più semplicemente, essere valutata come espressione specifica in un quadro tendenziale più generale, che vide coinvolti anche altri personaggi di altissimo prestigio come Sesto Elio, Aulo Acilio, Elio Stilone e Varrone (questi ultimi furono anche frequentati da Cicerone, Servio Sulpicio Rufo e Q. Mucio il pontefice). Tutti impegnati in una riforma del lessico giuridico e nell’applicazione delle nuove metodologie applicative provenienti dalla Grecia (gli studi etimologico/linguistici).

Si capisce allora la ratio che può aver motivato la volontà di creare una nozione come quella di dominium ex iure Quiritum nelle scuole giuridiche di influenza serviana se il dominium loci di Alfeno Varo è genuino. Lo scopo potrebbe essere stato quello di sostituire l’aggettivo ‘privato’ (sempre espressione di un qualcosa di relativo con spiccata propensione al profilo patrimoniale), con una nozione giuridica (corrispondente a ciò che nelle lingue moderne sarà reso con il sostantivo ‘proprietà’ e nel latino classico e tardo classico con dominium e proprietas) che riuscisse a soddisfare l’aspirazione all’assoluto dei titolari di ager privatus all’indomani delle definitive attribuzioni di terra dell’età di Cesare. Un processo che fu avviato già (ovviamente con scopi di ben altro genere) da Tiberio Gracco, ma che sarà reso irreversibile come si spera di aver dimostrato proprio con la legge agraria del 111 a.C.[374].

 

 



 

[1] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.54.

 

[2] Per il Crawford (ed.), ibidem potrebbero essere limiti geografici.

 

[3] Linea 4, 5 e poi anche 15, 21, 22, 25, 29, 33.

 

[4] Linee 4, 5, 7 e poi anche 11, 13, 28, 29, 33, 49 (extra terra Italia) e 50.

 

[5] Linea 2.

 

[6] Cfr. L. Solidoro Maruotti, ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ nella storia giuridica europea, in Drevnee pravo-Ius Antiquum 2(14) (Mosca 2004) 7-50 che ribadisce a p. 17 ancora la mancanza nel II secolo a.C. di vocaboli atti a esprimere compiutamente un’idea astratta della signoria giuridica su una cosa, cioè un’idea astratta di proprietà. La parola dominium, che rappresenta per l’autrice la conquista dell’astratto, sarebbe comparsa solo nel I secolo a.C. ad opera di Alfeno Varo (D. 8.3.30) o del suo maestro Servio Sulpicio Rufo, senza escludere però la possibilità che l’autore dell’espressione dominium loci riferita ad una questione di servitù prediali sia stato il giurista Paolo. Già così però G. Franciosi, Usucapio pro herede. Contributo allo studio dell’antica hereditas (Napoli 1965) 183 ss. e nt. 149; Id., Studi sulle servitù prediali (Napoli 1967) p. 19 ss. e nt. 63; 22 e nt. 71 riprendendo R. Monier, La date d’apparition du dominium et de la distinction juridique des res en corporales et incorporales, in St. Solazzi (1948) 357 ss.; G. Pugliese, Res corporales, res incorporales e il problema del diritto soggettivo, in RISG. 5 (1951) 252; M. Lauria, Usus, in St. Arangio Ruiz 4 (1953) 493; M. Bretone, La nozione romana di usufrutto, 1 (Napoli 1962) 23. Così L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorum in età repubblicana 1 (Roma 1969) 71 ss.; 96 ss.; 493. In senso critico nei confronti del Franciosi v. L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorum in età repubblicana 2 (Milano 1976) 278, nt. 18 e passim. Poi, però, ancora G. Franciosi, Gentiles familiam habento. Una riflessione sulla cd. proprietà collettiva gentilizia, in G. Franciosi (cur.), Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana 3 (Napoli 1995) 48; A. Manzo, La lex Licinia de modo agrorum. Lotte e leggi agrarie tra il V e il IV secolo a.C. (Napoli 2001) 153, 85; O. Sacchi, I limiti e le trasformazioni dell’ager Campanus fino alla debellatio del 211 A.C., in Ager Campanus. Atti del Convegno internazionale “La storia dell’ager Campanus, i problemi della limitatio e sua lettura attuale”, S. Leucio 8-9 giugno 2001 (Napoli 2002) 31; Id., L’ager Campanus antiquus. Fattori di trasformazione e profili di storia giuridica del territorio dalla MESOGEIA arcaica alla centuriatio romana (Napoli 2004) p. 234, nt. 20; M. J. García Garrido, Derecho privado romano. Casos. Acciones. Instituciones13 (Madrid 2004) 211, nt. 24.

 

[7] Cfr. A. Lintott, Judicial reform 212.

 

[8] Cfr. A. Lintott, Judicial reform 213. Sul problema del possesso di ager publicus da parte di cittadini non Romani privi di ius commercii v. J.S. Richardson, The Ownership of Italian Land. Tiberius Gracchus and the Italians, in JRS. 70 (1980) 6 ss.

 

[9] Della praescriptio con cui si apre il testo legislativo è rimasto leggibile ben poco: [tr(ibuni) pl(ebei) plebem ioure rogavit plebesque ioure scivit in a(nte) d(iem)… Tribus…princi]pium fuit, pro tribu Q. Fabius Q. f. primus scivit. La dottrina prevalente ritiene che la lacuna sia colmabile facendo riferimento ad una precedente approvazione assembleare (tribù). Secondo la testimonianza di Appian. b.civ. 1.27.121-123 sarebbe stato un plebiscito. Sul significato di ‘sciscere’ quale attività tribunizia si v. W. Liebenam, sv. Comitia, in PW. 4.1 (Stuttgart-Weimar 1900) coll. 679,54-715,18, in part. 707; E. Kornemann, sv. Concilium, in PW. 4.1 (Stuttgart-Weimar 1900) coll. 801, 17-830,32, in part. 802. Su tutto si v. K. Johannsen, Die lex agraria 184 s.

 

[10] Analisi più approfondita in O. Sacchi, La nozione di ager publicus populi Romani nella lex agraria del 111 a.C. come espressione dell’ideologia del suo tempo, in Tij. 73 (2005) 19-42.

 

[11] Sul cumulo dei vocaboli nella produzione legislativa tardorepubblicana cfr. E. Sandys, Latin Epigraphy. An Introduction ti the study of Latin Inscriptions2 (Cambridge 1927) 37; J. Marouzeau, Sur deux aspects de la langue du droit, in Mél. Levy-Bruhl (1959) 435 ss.; J.B. Hofmann-A. Szantyr, Lateinische Syntax, in Handbuch der Altertumswissenschaft II.2.2 (München 1965) 303; H. Honsell, Der gesetzesstil in der römischen Antike, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino 4 (Napoli 1984) 1659 ss.; A. Lintott, Judicial reform 59 ss.

 

[12] Mi riferisco a O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus. Fattori di trasformazione e profili di storia giuridica del territorio 149 ss.; Id., Spunti per un’archeologia giuridica del linguaggio. Suggestioni ancestrali e terminologia giuridica nella lustratio agri in Cato de agri c. 141, in Drevnee pravo-Ius Antiquum 2(12) (Mosca 2003) 94-105 e Id., La nozione di ager publicus populi Romani nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. come espressione dell’ideologia del suo tempo 19 ss.

 

[13] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht [I, II.1, III.1 (Leipzig3 1887, Tübingen 1952)] I.21 ss., 22 e nt. 2; III.300 ss. Sulla derivazione del concetto mommseniano di ‘Staat’ dalla filosofia hegeliana v. A. Heuss, Theodor Mommsen und das 19. Jahrhundert (Kiel 1956) 22 ss.; A. Wucher, Theodor Mommsen. Geschichtschreibung und Politik (Göttingen 1956) 157 ss.; P. Catalano, Populus Romanus Quirites (Torino 1974) 41 ss.; 45, nt. 21.

 

[14] Cfr. A. Ormanni, Saggi sul ‘regolamento interno’ del Senato romano (Milano 1971) 52 ss., 63 e passim. Sulla concezione di ‘Stato’ nella dottrina giuridica tedesca all’inizio del XIX secolo cfr. R. Hohen, Der Individualistische Staatsbegriff und die juristische Staatsperson (Berlin 1935) 204 ss. Su tutto P. Catalano, Populus Romanus Quirites 41 ss. e passim. Cfr. anche L. Capogrossi Colognesi, Eduard Meyer e le origini dello stato, in Modelli di stato e di famiglia nella storiografia dell’8002 (Roma 1994) 279 ss.

 

[15] Un importante tentativo di storicizzare il concetto di ‘Stato’ è in F. Engels, Der Ursprung der familie, des Privateigenthums und des Staats (Zürich 1884) 72[= L’origine della famiglia della proprietà privata e dello stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan3 (Milano 1970) (Introduzione e note di Fausto Codino e tr. it. di Dante Della Testa)] che vede sorgere lo Stato (‘Staat’ in senso hegeliano-mommseniano) non nella comunità romana arcaica bensì nel periodo etrusco, con le riforme di Servio Tullio. Si cfr. P. Catalano, Populus Romanus Quirites 80. Lucida impostazione in tale autore che parlando della democrazia ateniese afferma [Der Ursprung 73=L’origine 137]: “al posto dell’effettivo ‘popolo in armi’ che proteggeva se stesso, con le sue gentes, fratrie e tribù, subentrava un ‘potere pubblico’ armato, al servizio di queste autorità statali, potere da adoperarsi anche contro il popolo”. Afferma Catalano (p. 80) che secondo Engels la ‘Verfassung’ serviana sarebbe stata costituita [Der Ursprung 93=L’origine 158]: “da quella parte di cittadinanza che doveva prestare servizio militare, di fronte non soltanto agli schiavi, ma anche ai cosiddetti proletari esclusi dal servizio militare e dal portare armi”. Importante la sottolineatura di Catalano (p. 80) per cui: “lo Engels parte da una interpretazione delle fonti, comune al Niebuhr e al Marx, secondo cui originariamente il populus Romanus non comprendeva la plebs”. È chiara l’allusione alla comunità delle gentes che nel pensiero engelsiano assume una forma definita con la descrizione degli elementi della ‘costituzione gentilizia’ che G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo allo studio della famiglia romana6 (Napoli 1999) 291 ss. e passim. Per avere un’idea sintetica del pensiero di Engels sul passaggio dal sistema per gentes ad uno di tipo statale sono significative le seguenti parole [Der Urpspung 93=L’origine 158]: “Così anche a Roma, già prima della soppressione della cosiddetta monarchia, fu distrutto l’antico ordinamento sociale fondato su vincoli di sangue personali, al suo posto subentrò una nuova, reale costituzione dello Stato, fondata sulla divisione territoriale e sulla diversità di censo”. Senonché lo stesso studioso si mostra perplesso sulla storicità della cronologia tradizionale in ordine alla data della riforma del censo di Servio Tullio. Prima così descrive la riforma [L’origine 157 s.]: “La nuova costituzione attribuita al rex Servio Tullio e poggiante su modelli greci e specialmente su Solone, creò una assemblea popolare che, senza distinzione, includeva o escludeva popolo e plebe, a seconda che prestavano o no servizio militare” che pensa di posporre; poi così conclude in nota [L’origine 157, nt. 1]: “Il sesto re di Roma, che secondo la tradizione regnò dal 578 al 535 a.C.; la costituzione a lui attribuita dovette essere introdotta in età più tarda”. Voglio infine riprendere le parole già in parte citate da P. Catalano, Populus Romanus Quirites 81 perché danno l’idea del superamento della dottrina hegeliana dello Stato e nello stesso tempo l’idea marxiana dello stesso [Der Urpspung 200=L’origine 135]: “Lo Stato dunque non è affatto una potenza imposta alla società dall’esterno e nemmeno la ‘realtà dell’idea etica’, ‘l’immagine e la realtà della ragione’ come afferma Hegel [Grundlinen der philosophie des Rechts (Berlin 1770-1831) paragr. 257 e 360]. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell‘ordine’; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato”. Ritorna sul tema P. Catalano, La religione romana “internamente”: il punto di vista giuridico, in SMSR. 62 (Roma 1996) 150 ss.

 

[16] E. Hermon, Habiter et partager les terres avant les Gracques (Rome 2001) 289 ss., 293 e passim, afferma [ma già in E. Hermon, La souveraineté populaire: “la loi et l’aher publicus au début de la République, in Iura 51 (2000) 55 ss., 72 ss.] che la prima applicazione storica del concetto di ager publicus si sia avuta in occasione della trasformazione del territorio sabino in ager publicus alla fine del IV secolo a.C.: “La transformation de la Sabine en ager publicus, la fin de la troisième guerre samnite, illustre les premières applications historiques du concept d’ager publicus, mis au point à la fin du IV siècle”. Tale affermazione coinciderebbe con l’emersione delle prime categorie di ager publicus, l’ager compascuus e l’ager scriptuarius: “La prise de conscience des possibilités d’exploitation de ces terres aurait été à l’origine des deux premières catégories connues sous le vocable d’ager compascuus et ager scriptuarius”. Tuttavia, la studiosa canadese, concludendo la sua monografia parla per l’età pregraccana di ager vacuus come categoria di ager publicus delimitata territorialmente nella misuara di un modus: “Sa sphère d’application ne correspond pas à celle du dominium sur les terres, ce qui explique l’essor de la colonisation latine, les assignations viritanes tardives et l’empiètement sur des territoires largement indigènes lors de la construction des espaces économiques à l’échelle de l’Italie. La manière de concrétitiser le dominium sur les terres, en dehors de la sphère d’application du concept d’ager publicus, peut nous donner la mesure des pratiques impérialistes de l’histoire agraire à partir de la deuxième moitié du III siecle”. Ancora (p. 287): “L’ager vacuus est le soul qui s’identifie à la définition même de l’ager publicus, reprise plus tard par les sources juridiques”. Ed anche (p. 288 s.): “Il ressort de cette analyse que l’ager publicus s’identifie, à partir de la fin du IV siècle, à une sorte d’ager vacuus pour toutes formes d’exploitation des terres”. Sulla nozione di ager vacuus propugnata da tale studiosa v. O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 182, 228, nt. 12.

 

[17] Feliciano Serrao, che ha dedicato molti studi al tema della questione agraria in Roma repubblicana, non sembra immune da questa pregiudiziale quando dà la sua definizione di ager publicus [Diritto privato economia e società nella storia di Roma. 1. Prima parte2 (Napoli 1999) 378]: “Col termine ager publicus è da intendere, in contrapposto all’ager privatus e all’ager gentilicius (nella misura in cui non è stato diviso tra i patres familias di ciascuna gens), tutto l’ager che al sorgere della comunità cittadina non apparteneva collettivamente ad alcuna delle gentes fondatrici della città, né a singoli patres delle familiae proprio iure, ma venne occupato direttamente dalla comunità cittadina, nonché tutto l’ager che man mano veniva conquistato e confiscato (ademptus) ai popoli vinti, ossia tutto l’ager captus o captivus. Esso è publicus in quanto è di piena appartenenza del populus Romanus”.

 

[18] Mi sono occupato in extenso del problema in O. Sacchi, La nozione di ager publicus populi Romani nella legge agraria del 111 a.C. 36 ss. ma v. anche O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 149 ss.

 

[19] Colpisce come, nonostante questa famosa intuizione momseniana fosse stata già recepita dalla dottrina romanistica specializzata, non vi sia stata data ad essa l’attenzione che avrebbe meritato. Mi riferisco alla nota tesi di L. Zancan, Ager publicus. Ricerche di storia e di diritto romano (Padova 1935) 6 ss. sulla natura originaria dell’ager publicus come di territorio del ‘popolo in armi’ sulla base della connessione etimologica di populus nel suo originario significato di ‘armati’, ‘popolo in armi’. Si v. sul punto O. Sacchi, Spunti per un’archeologia giuridica del linguaggio 97 s.

 

[20] Riferisco testualmente una recente presa di posizione sul problema della natura dell’ager publicus in età anteriore alla conquista di Capua. A. Ziolkowski, Storia di Roma (Milano 2000) 46 sul problema dell’ager gentilizio afferma: “Prima della presa di Veio nel 396, la prima grande conquista territoriale di Roma dopo la cacciata dei re, non si vede dove sarebbe stato quel presunto ager publicus. In altre parole, le contese attorno all’ager publicus sarebbero una delle tante proiezioni anacronistiche da parte degli scrittori tardo repubblicani della realtà dei loro tempi. Il potere delle gentes si sarebbe fondato esclusivamente sulla terra di loro proprietà”. Al riguardo mette conto di sottolineare la distinzione di Weber tra un ager occupaticius [in base a Fest. sv. Occupaticius áagerñ (L. 193,25), ricostruito da Lindsay 1913 così: occupaticius áager is esse dicitur qui desitusñ a cultoribus freáquentari propriis ab aliis est occupañri coeptus, ora però ricostruito in base a Paul.-Fest. sv. Occupaticius ager (L. 193,8): dicitur, qui desertus a cultoribus propriis ab aliis occupatur] ritenuto più antico e riguardante i possessi derivanti dal diritto di dissodare il terreno incolto, e un ager occupatorius, più recente, corrispondente ad una occupazione di terra consentita solo dietro pagamento di canone. Cfr. M. Weber, RAG., 126 s., nt. 8, 8a, 9=MWG., I-2 213 ss., ntt. 8, 8a e 9=SAR., 205 s., ntt. 10, 11 e 12. Weber [AV., 144=GASW., 197=SES., 253 s.] viene ispirato da un’interpretazione di Appian. b.civ. 1.7.27 di Otto Karlowa, Römische Rechtsgeschichte 1 (Leipzig 1885) 94 ss. che tuttavia non fa una distinzione esplicita. Cfr. R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 81, nt. 23. Sulla doppia nozione di ager occupaticius/occupatorius nelle fonti gromatiche v. con bibl. ivi G. Falcone, Sull’origine dell’interdetto uti possidetis 190 ss., e nt. 161; O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 226, nt. 10.

 

[21] V. sul punto S. Curletto, La norma e il suo rovescio. Coppie di opposti nel mondo religioso romano (Genova 1990) 28 ss.

 

[22] Gai. 4.28: Lege autem introducta est pignoris capio velut lege XII tabularum adversus eum, qui hostiam emisset, nec pretium redderet; item adversus eum, qui mercedem non redderet pro eo iumento, quod quis ideo locasset, ut inde pecuniam acceptam in dapem, id est in sacrificium, inpenderet.

 

[23] La nozione di ager peregrinus va intesa insieme a quella di ager hosticus. Secondo la testimonianza di Varrone era tale l’ager extra Romanum et Gabinum che veniva conquistato in guerra (peregrinus ager pacatus=‘pacato’, ‘pacificato’), ovvero qui neque Romanus, neque hostilius habetur. Si sarebbe trattato secondo Varrone del territorio che per primo sarebbe stato annesso a quello romano (eo [quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur). Sulla nozione di ager peregrinus è interessante notare che Varrone definisca questo tipo di territorio come il primo da cui i Romani avessero iniziato la loro espansione (eo [quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur), distinguendolo peraltro da quello Gabino solo per la sua peculiarità dal punto di vista del diritto augurale (ab reliquo discretus) dato che, a detta dello stesso scrittore reatino, sia per l’ager Romanus che per quello Gabinus l’osservazione degli auspicia avverrebbe nello stesso modo (qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his serváañntur auspicia).

 

[24] Le vicende della gens Cornelia [per i Cornelii in generale v. F. Münzer, sv. Cornelius 4.2 (Stuttgart 1901) col. 1249,12] e di alcuni tra i rami familiari più importanti di questo gruppo gentilizio (Scipioni, Sullae, Cinnae, Cethegi) attraversano emblematicamente la storia di Roma nei secoli centrali dell’era repubblicana, dalla fine della seconda guerra punica (202 a.C.) fino almeno alla morte di Silla (78 a.C.). Forse non è esagerato definire questo periodo della storia di Roma come l’età degli (Cornelii) Scipiones. Così A. Ronconi, Letteratura latina pagana. Profilo storico (Firenze 1960) 34 ss.; P. Grimal, Il secolo degli Scipioni. Roma e l’ellenismo al tempo delle guerre puniche [Brescia (tr. it. D. Plataroti) 1981] 9-380; E. Torregaray Pagola, Les Scipions et la royauté en Africa et Hispania, in M. Khanoussi, P. Ruggeri, C. Vismara (curr.), L’Africa Romana. Ai confini dell’impero: contatti, scambi, conflitti. Atti del XV convegno di studio, Tozeur 11-15 dicembre 2002 (Sassari 2004) 1-2119.

 

[25] Fra gli altri, v. sul punto ora L. Perelli, I Gracchi (Roma 1993) 144 ss. e passim. Cfr. con bibl. O. Sacchi, La nozione di ager publicus populi Romani 32 ss.

 

[26] La biblioteca di Apellicone di Teo fu portata a Roma da Silla dopo il saccheggio di Atene nell’86 a.C. Plut. Syll. 26. Sul punto C. Callmer, Antike Bibliotheken, in Opuscola archaeologica 3 (Lund-Leipzig 1944); L. Canfora, La biblioteca scomparsa (Palermo 1986) 59-63; P. Fedeli, Biblioteche pubbliche e private a Roma e nel mondo romano, in G. Cavallo (cur.), Le biblioteche nel mondo antico e medievale (Roma-Bari 1988) F. Pensando, Libri e biblioteche (Roma 1994) 7-94; C.A. Viano (cur.), Aristotele, Politica (Milano 2002) 10.

 

[27] Cfr. Cic. de re p. 1.9.14. Questo personaggio morì nel 129 a.C. all’età di cinquantacinque anni.

 

[28] Sulle fonti del de re publica di Cicerone v., con riferimenti specifici al problema, ampia disamina in F. Cancelli (cur.), Marco Tullio Cicerone, Lo Stato (Milano 1979) 15 ss. e passim. Secondo O. Hirschfeld, Zu Cicero’s Briefen, in Hermes 5 (1871) 298 ss. l’uso corrente sarebbe stato nel senso dei termini invertiti. Sulla differenza di pensiero tra la concezione dello ‘Stato’ di Aristotele e quella di Cicerone che sarebbe stata influenzata da quella di Panezio v. M. Pohlenz, L’ideale di vita attiva secondo Panezio nel de officiis di Cicerone [Brescia (tr. it. M. Bellincioni) 1970] 50: “È la stessa differenza che riscontriamo nella definizione dello stato. Aristotele, da filosofo, si limita ad accertare che lo stato è la società perfetta, atta a promuovere la vita buona (1252 b 27), mentre per Panezio (Cic. rep. 1,39 e 41; off. 2,73) esso è la società fondata sull’eguaglianza dei diritti e mirante all’utilità comune”.

 

[29] Così per il primo caso (populus Romanus Quirites) i riferimenti di Gellio alla captio delle vestali: Gell. 1.12.14: sacerdotem Vestalem facere pro populo Romano Quiritibus; ovvero alla conceptio dei Compitalia: Gell. 10.24.3: Dienoni populo Romano Quiritibus; i riferimenti nelle precationes nei ludi secolari [Comm. ludorum saec. quintorum 92 e passim. Cfr. I.B. Pighi, De ludis saecularibus populi Romani Quiritium (Milano 1941) 108 ss.; 140 ss.] o in atti dei Fratres Arvales che, anche se testimonianze epigrafiche risalgono all’epoca del Principato [CIL. 6.2025,20 (36 d.C.); CIL. 6.2064,20; 41 s. (86 d.C.)], sono poco affidanti almeno per l’epoca più antica nella loro formulazione letterale. Dello stesso avviso è il Catalano per quanto riguarda la seconda formula (populus Romanus Quiritium) riportata da Livio per l’indictio belli (Liv. 1.32.11-13) o la devotio (Liv. 8.9.6) che lo studioso ritiene frutto di un ammodernamento dei testi ufficiali. Cfr. P. Catalano, Populus Romanus Quirites 98. Penso siano da considerare alla stessa stregua anche le espressioni riportate in Liv. 1.32.6 (rerum repetitio); 1.36.11 (pater patratus); 8.9.4 (a proposito di devotio); 29.27.1-5; 5.21.2-3 (ipotesi di evocatio). Il discorso per l’indicazione riportata da Macr. sat. 3.9.6-13 è diverso perché se è vero che questi può aver preso l’espressione dal V libro Rerum reconditarum di Sereno Sammonico (morto nel 212 d.C.), a sua volta tratta da un’opera di un certo Furio, forse il console del 136 a.C. (L. Furio Filo), allora la considerazione potrebbe essere diversa. Certamente interessante è l’espressione contenuta in un altro testo epigrafico del 189 a.C., un decreto del proconsole Lucio Emilio Paolo. In questo caso l’indicazione è credibile perché è tratta da una fonte epigrafica. Anche se d’incerta attribuzione (è solo probabile la risalenza al secondo secolo a.C.) la forma poplicus è attestata anche in quattro cippi trovati ad Ostia CIL. 14.4702: C. CANINIUS C. F(ILIUS)/ PR(AETOR) URB(ANUS)/ DE SEN(ATUS) SENT(ENTIA) / POPLIC(UM) IOUDIC(AVIT). Quindi all’inizio del secondo secolo a.C. la nozione di populus sembrerebbe aver assunto un rilievo (per usare un’espressione moderna) ‘costituzionale’ nel senso proprio di res populica: CIL. 12.614: …ITEM POSSIDERE HABEREQUE IOUSIT DUM POPLUS SENATUSQUE ROMANUS VELLET. Del resto Cicerone (ad Fam. 15.2.4) sembra indicare che l’espressione normale dei senatusconsulta all’epoca fosse proprio populus senatusque Romanus. Cfr. sul punto E. Costa, Storia del diritto pubblico romano (Firenze 1906) 233 ss.

 

[30] O. Sacchi, La nozione di ager publicus populi Romani nella lex agraria del 111 a.C. 25 ss.

 

[31] Varro l.L. 6.9.86-88. Vale qui lo stesso discorso fatto sull’attendibilità di Livio e Gellio. Anche Varrone appartiene, come gli altri autori citati, ad un epoca in cui la storia più antica di Roma era stata già ‘riscritta’. Inoltre, sembrerebbe che la forma populus sia stata preceduta da popolus (CIL. 1.2.582,14) come mostra la sequenza riscontrabile nelle leges Bantia, repetundarum e la sententia Minuciorum rispetto alle indicazioni della lex epigrafica in cui la forma in u è più costante. La trasformazione della forma in u per o è considerata una variante linguistica che si è affermata solo verso la metà del secondo secolo a.C. Cfr. sul punto O. Prinz, De o et u vocalibus inter se permutatis in lingua latina (Halis Saxonum 1932) 18 ss. Anche W.M. Lindsay, Die Lateinische Sprache (Leipzig 1897) 169, 457; C. Juret, Dominance et résistance dans la phonétique latine (Heidelberg 1913) 120. Diverso è il rilievo che invece a mio parere si deve dare all’indicazione di Ennio ann. 24: Quam prisci casci populi tenuere Latini. L’uso nel significato ‘etnico’ della parola, alla fine del terzo secolo a.C., da parte del poeta dimostra almeno che l’espressione aveva un rilievo del genere già all’epoca, mentre la forma più moderna in u può significare che la trasformazione linguistica del fonema è più antica di quanto si pensi o che l’attribuzione enniana sia ‘ritoccata’. Già soltanto da questo breve excursus si deduce che da un punto di vista strettamente linguistico le attestazioni più sicure di publicus/poplicus nel senso di pluralità o moltitudine di individui possono essere ricondotte ad un’epoca oscillante in uno spazio che va dal quarto al secondo secolo a.C. Naev. in Fest. sv. Stuprum (L. 418,8); Enn. in Gell. 12.2.3; Plaut. Poen. 1039; Aul. 406; Terent. Eun. 1031; Adelph. 155; Cic. de leg. 1.23.61. Cfr. C. Meier, sv. Populares, in PW. suppl. 10 (Stuttgart 1965) coll. 550, 14-615,60, in part. 568 ss.; P. Catalano, Populus Romanus Quirites 116. A questa stessa epoca appartiene una nota testimonianza di Nevio sulla equivalenza tra la parola populares e cives: seseque i perire mavolunt ibidem/ quam cum stupro redire ad suos popularis/ sin illos deserant fortissimos viros/ magnum stuprum populo fieri per gentis.

 

[32] Ricordo, fra altri esempi possibili, primo fra tutti in ordine cronologico tra le fonti letterarie è un indagatissimo passaggio di Nonio Marcello che riferisce di una affermazione dell’annalista Cassio Emina: Non. sv. plebitatem (L. 217): Plebitatem, ignobilitatem. Cato pro Veturio: ‘propter tenuitatem et plebitatem’. – Hemina in Ann.: ‘quicumque propter plebitatem agro publico eiecti sunt’. Pur osservando tutte le cautele dovute al fatto che Nonio è un autore del IV secolo d.C. la più antica fonte in cui viene menzionato il sintagma ager publicus [l’annalista Cassio Emina era vivo nel 146 (Plin. 29.(6).12; Cens. de die nat. 17.11) Catone morì all’età di 85 anni nel 149 a.C. (Cic. Brut. 61;80;89; Cato m. 10;14;32; Plin. 29.(8).15)]. Cfr. O. Tescari, Storia della letteratura romana (Torino 1942) 69; H. Bardon, La littérature latine inconnue 1. L’époque républicaine (Paris 1952) 73] che può dirsi anche sufficientemente attendibile sul piano storico. Quanto alle fonti epigrafiche c’è da segnalare un inciso del famoso Elogio di Polla (la cui importanza era stata già segnalata da Max Weber) reca la dicitura agro poplico: CIL. 12.638: EIDEMQUE PRIMVS FECEI UT DE AGRO POPLICO/ ARATORIBUS CEDERENT PAASTORES/ FORUM AEDISQUE POPLICAS HEIC FECE[I]. Seguo Amalia Franciosi che dopo attenta disamina propone di collocare cronologicamente l’epigrafe all’epoca della lex Sempronia agraria del 133 a.C. [cfr. A. Franciosi, La romanizzazione del Vallo di Diano in età graccana e l’elogio di Polla, in G. Franciosi (cur.), La romanizzazione della Campania antica (Napoli 2002) 195 ss., in part. 196]. Non molto più recente è la Tavola di Polcévera (Minuciorum sententia inter Genuates et Viturios dicta) del 117 a.C. dove alle linee 8-10 si legge (FIRA. 3.507): QUEM AGRUM POPLICUM/ IUDICAMUS ESSE, EUM AGRUM CASTELANOS LANGENSES VEITURIOS PO(SI)DERE FRUIQUE VIDETUR OPORTERE.

 

[33] D. Sabbatucci, La religione di Roma antica dal calendario festivo all’ordine cosmico (Milano 1988) 95; G.B. Pighi, La poesia religiosa romana (Bologna 1958) 26 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali 155; Quint. inst. or. 1.6.39-41. Un’attestazione dell’uso di populus in età molto risalente si ricava dal riscontro della forma poplo nel Carmen Saliare. Questo morfema conservato dalla glossa festina fornisce infatti la testimonianza più antica che conosciamo di tale vocabolo: Fest. sv. Pilumnoe poploe (L. 224,4): Pilumnoe poploe in carmine saliari Romani, veluti pilis uti assueti: vel quia praecipue pellant hostis. Sembrerebbe che Pilumnoe poploe sia un nominativo plurale in una forma omologa ad espressioni come Quirites o populus Romanus Quirites [M. Leumann, Latenische Laut und Formenlehre, in M. Leumann-J.B. Hofmann-J.E. Szantyr, Latenische Grammatik I (München 1963) 271 ss., 275. P. Catalano, Populus Romanus Quirites 115]. Questa indicazione va coordinata con il dato per cui i canti saliari (axamenta o versa) composti in una lingua che risultava incomprensibile agli stessi eruditi dell’età varroniana, sarebbero stati fissati per iscritto solo nel quarto secolo a.C.

 

[34] Diversa è la considerazione augurale di ager basata sulla distinzione dei genera agrorum descritta da Varrone su cui v. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in ANRW. 260 (1978) 491 ss.; O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 149 ss.

 

[35] V. anche Isid. etym. 15.13.1: Ager Latine appellari dicitur eo quod in eo agatur aliquid. Alii agrum ex Graeco nominari manifestius credunt che segue evidentemente Varrone: l.L. 5.6.34.

 

[36] Isid. etym. 15.13.6-8.

 

[37] C. Battisti, Sul nome di Populonia, in SE. 27 (1959) 399.

 

[38] V. sul punto Pantzerhyelm-Skutsch, in Glotta 3 196-203; C. De Simone, L’aspetto linguistico, in C.M. Stibbe, G. Colonna, C. De Simone, H.S. Versnel, Lapis Satricanus. Archaeological, epigraphical, linguistic and historical aspects of the new inscription from Satricum (Staatsuitgeverij-‘s-Gravenhage 1980) 81. Cfr. anche O. Sacchi, Spunti per un’archeologia giuridica del linguaggio. Suggestioni ancestrali e terminologia giuridica nella lustratio agri in Cato de agri c. 141 97 ss.

 

[39] C. Battisti, Sul nome di Populonia 399.

 

[40] C. Battisti, ibidem. La radice etimologica sarebbe la forma *pupl- da cui sarebbero derivati anche i gentilizi publi(e) da cui Publiena e Publina a Chiusi e Perugia, ma anche il latino Publius e il meno latinizzato Popillius. Di qui il ramo principale dei Popilli Laenates documentato dal 385 a.C. e il toponimo Populonia. Anzi sembra che per il nome di tale città si possa stabilire una corrispondenza tra il rapporto semantico riconoscibile tra i morfemi puplu e pupluna e la creazione latina di civitas intesa come dimora dei cives. Mi interessa sottolineare in questo modo che la locuzione complessa ager publicus populi Romani potrebbe essere risolta etimologicamente attribuendo al vocabolo aggettivale publicus di ager il valore di ‘territorio dello stato’, in quanto ‘esercito’ nella sua fase di ordinamento centuriato, e al vocabolo populus il valore già seriore di aggregato ‘super tribale’. Il primo dei due sintagma (ager poplicus) appare più antico e potrebbe corrispondere all’ultimo stadio evolutivo della nozione spaziale di ager occupatorius (nel primo dei due sensi gromatici). Forse corrispondente alla nozione augurale di ager peregrinus/hosticus/incertus. Allo stesso tempo, il secondo (populi Romani) potrebbe corrispondere ad un nozione politico istituzionale di cui possiamo con quasi certezza riconoscere una matrice filosofica (della politica) riconducibile al Circolo degli Scipioni. Sul ruolo avuto in questo quadro dall’opera elaboratrice dei Mucii e sul rapporto tra potere e cultura espresso nel sodalizio degli Scipioni rinvio ad altra sede. Per le linee generali di questo processo molto complesso v. O. Sacchi, La nozione di ager publicus populi Romani nella legge agraria del 111 a.C. 19 ss.

 

[41] O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 149 ss.; Id., La nozione di ager publicus populi Romani nella lex agraria del 111 a.C. 29 ss.

 

[42] Secondo E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea (Padova 1997) 94, nt. 175 il passo di Livio andrebbe inteso nel senso che solo in Italia (alla fine del III secolo a.C.) sarebbe stato possibile costituire un fittizio ager Romanus: “Se così non fosse risulterebbe incomprensibile come, solo due anni più tardi, nel 208 a.C., il console Crispino, che probabilmente si trova nei pressi di Capua, venga richiesto da una legazione, qualora gli sia impossibile recarsi personalmente a Roma, di effettuare la nomina del dittatore ‘in agro Romano’(…). Di tale specificazione non vi sarebbe stata, evidentemente, alcuna necessità qualora tutto il territorio italico incorporato nelle tribù territoriali fosse tout court da considerarsi Romanus. Dal passo si desume, piuttosto, che la stessa fictio dell’ager Romanus era originariamente sottoposta a limiti scrupolosi che dovettero, poi, affievolirsi dato che un ager Romanus vien costituito, nel corso della guerra civile tra Cesare e Pompeo, presso Tessalonica” (p. 94, nt. 175). Sulla costituzione di un ager Romanus presso Tessalonica v. Dio Cass. 41.43.1-3 e cfr. E. Bianchi, Fictio iuris 98, nt. 186 e passim. Ritengo che si possa interpretare alla lettera il passo liviano, considerando che lo storico potrebbe aver riportato la nozione del suo tempo e non quella dell’epoca della dictio dictatoris del 208 a.C., compiuta presso Capua.

 

[43] Suet. div. Jul. 20. Cfr. O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 115 ss.

 

[44] D. Sabbatucci, L’edilità romana: magistratura e sacerdozio, in Atti Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche, VIII.6 (Roma 1954) 309 s.

 

[45] Per l’aedificatio v. anche Hermogenianus in D. 1.1.5 (lib. 1 iuris ep.): Ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes, regna condita, dominia distincta, agris termini positi, aedificia collocata, commercium, emptiones venditiones, locationes conductiones, obligationes institutae: exceptis quibusdam quae iure civili introductae sunt. Non è noto l’anno di nascita di Isidoro di Siviglia, si ritiene che questo personaggio possa essere nato tra il 556 e il 571 d.C. Su Isidoro cfr. A. Garcia Gallo, San Isidoro Jurista, in Isidoriana. Estudios sobre San Isidoro de Sevilla en el XIV centenario de su nascimiento (León 1961) 115-131; J. De Churruca, Presupuetos para el estudio de las fuentes jurídicas de Isidoro de Sevilla, in AHDE. 43 (1973); Díaz y Díaz, Introducción general en S. Isidoro de Sevilla, Etimologias (Madrid 1982) 94-111; Id., Problemas culturales en la Hispania tardorromana y visigoda, in De la Antigüedad al medioevo. Siglos IV-VIII. III Congreso de Estudios Mediavales (Madrid 1993). Si veda ora con rif. bibl. recenti A. Valastro Canale (cur.), Etimologie o Origini di Isidoro di Siviglia (in due voll.) 1 (Torino 2004) 11. Giustiniano, come è noto, morì il 14 novembre del 565 d.C.

 

[46] In altra sede ho sostenuto l’ipotesi che il Senato romano considerasse l’ager Campanus ancora all’epoca della deditio del 211 a.C. come territorio straniero (la fictio di ager Romanus del console Crispino del 208 a.C. è un chiaro segnale in tal senso, quanto meno dell’effettività del diritto augurale). Mentre il tentativo di fictio di ager Romanus in Tessalonica (quindi fuori della penisola italica) risalente all’età di Cesare e Pompeo dimostra che rispetto all’epoca della deditio di Capua può essere cambiato in modo sensibile il modo di considerare lo spazio conquistato da parte della classe dirigente romana. Quanto meno è da ritenere che fosse cambiato il modo di qualificare lo spazio italico. Cfr. O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 165 ss.

 

[47] In un’ottica del tutto diversa si colloca D.W. Rathbone, The control and exploitation of ager publicus in Italy under the roman republic, in J-J. Aubert (cur.), Tâches publiques et entreprise privée dans le monde romain, Actes du Diplôme d’Etudes Avancées, Universités de Neuchâtel et de Lausanne (Genève 2003) 135-178, in part. p. 138, che a proposito dell’inquadramento storico della categoria dell’ager privatus nell’età arcaica a Roma scrive: “The first point to note is the centrality of private property, including ager privatus, in Roman society and law. Private omnership, in my view, was the first legal category of land tenure to be formalized at Rome. Probably from the late sixth century, the political status of individual citizens was dependent on their census, that is their private property, particularly land. The Twelve Tables of the mid-fifth century contain sophisticated rules about the boundary rights of owners of plots of land, which arguably show Attic influence and so were newish, but equally imply that the fundamental concept of private ownership was well established”. Proprio in apertura al suo articolo l’a. afferma in modo apodittico (p. 135): “Most land in Italy annexed by Republican Roma was distribuited as private property, and the rest, which remained ager publicus populi Romani, ‘public land of the Roman people’, was normally left open to exploitation by the individual initiative of citizens”.

 

[48] Per Th. Mommsen, Droit public romain [Paris (tr. fr. P.F. Girard) 1889] 274, 285 s., 305[=Römisches Staatsrecht 3.1 (Leipzig 1887)] il legislatore del 111 non avrebbe inteso includere nella definizione resa con la frase …socium nominisve Latini, quibus ex formula t]ogatorum milites in terra Italia inperare solent i Greci del Mezzogiorno. Condivido la considerazione di Adam Ziolkowski [Storia di Roma 134] per il quale la definizione di ‘confederazione italica’ usata dagli studiosi moderni per definire la natura della signoria di Roma in Italia sarebbe fuorviante. L’uso della toga come indumento tipico dei Romani è indice dell’esistenza di un rapporto di stretta colleganza politica ma appare eccessivo considerare questo tipo di rapporto come paritario e soprattutto in modo generalizzato. L’espressione ‘togati’ sarebbe apparsa per la prima volta in un iscrizione greca proveniente dalla grecia ellenica e databile all’inizio del secondo secolo a.C. L’indicazione traslitterata del testo epigrafico sarebbe: ‘tebennoforuntes’=‘togati’ [cfr. sul punto A. Arbanitopoullos, Qessalicai ¤pigrfai, in AEphem (1910) 344 ss.; J. Hatzfeld, Les trafiquants italiens dans l’Orient hellénique (Paris 1919) 238 ss.; P. Catalano, Aspetti spaziali 539; A. Ziolkowski, Storia di Roma 135]. Per l’uso già da età anteriore al II secolo a.C. della formula togatorum per designare le milizie che i singoli socii dovevano fornire ai romani v. Liv. 22.57.10; 27.9.3; Polyb. 2.24.4. Nella categoria dei togati la lex agraria distingue tecnicamente tra i Latini e gli altri socii. Del problema si è occupato fra gli altri P. Catalano, Aspetti spaziali 540, il quale rileva che l’equivalenza del termine togati (ovvero, socii nominisve Latini) e Italici, circostanza che si riscontra in numerosi riferimenti delle fonti [Liv. 29.24.14; 30.41.5; 22.37.7. Cfr. anche il SC. de bacchanalibus del 186 a.C. (FIRA. 1.240: ceivis Romanus neve nominus Latini neve socium) e la lex de piratis persequendis del 101/100 a.C. (FIRA. 1.122: s[æmmaxoÛ]te ¤k t°V ƒItalÛaV LatÝnoi), si sarebbe dovuta verificare, pur restando la possibilità teorica della distinzione che evidentemente si fondava su ragioni storiche, quando tutti i popoli d’Italia diventarono socii di Roma. V. ora sulla formula togatorum E. Lo Cascio, I togati della formula togatorum, in AIIS. 12 (1991-94) 309 ss.; A. Giardina, Italia romana. Storie di un identità incompiuta (Roma-Bari 2004, ma già 1997) 60.

 

[49] Dion. 1.35.1-3: “Con l’andar del tempo la penisola assunse invece il nome di Italia dal nome di Italo, un sovrano. Antioco di Siracusa dice che fu uomo valente e saggio, che persuadendo alcuni popoli circonvicini con la diplomazia, altri assoggettandoli con la forza, ridusse in suo potere tutta quanta la terra compresa tra il golfo nepetino e scilletico, che così fu la prima terra ad essere chiamata Italia da Italo. (…). Sempre secondo Antioco di Siracusa egli era di stirpe enotra. [2] Ellanico di Lesbo diversamente afferma che, mentre Eracle conduceva i buoi di Gerione ad Argo ed era ormai giunto in Italia, un vitello balzò via dalla mandria e, fuggendo, attraversò sia la penisola, sia a nuoto, lo stretto di mare e giunse in Sicilia. Eracle si mise ad inseguire il vitello ed ovunque capitasse domandava sempre agli abitanti del luogo se per caso qualcuno lo avesse visto, ma quella popolazione, poco pratica del greco, per indicare quel tipo di animale nel proprio linguaggio, lo chiamava vitulus, come nel linguaggio odierno, così, da quell’animale prese nome Vitulia tutta quanta la regione attraversata dal vitello in fuga. [3] Non vi è del resto da meravigliarsi che, con l’andar del tempo, il nome si sia modificato sino alla forma attuale, dato che anche i nomi greci hanno subito analoghe trasformazioni. Comunque, a parte le diversità tra le due tradizioni e cioè, se, come dice Antioco, questo nome deriva da un condottiero, il che è probabilmente più credibile, oppure se, come ritiene Ellanico, dal nome del toro, quello che risulta chiaro da entrambi è che prese questo nome all’incirca ai tempi di Eracle, o poco prima, mentre anteriormente i Greci la chiamarono via Esperia ed Ausonia, gli indigeni a loro volta Saturnia, come ho già detto” [tr. Cantarelli 69]. Mi colpisce molto il dato riferito dallo storico di Alicarnasso da cui si ricava che prima dell’era eraclea ci sarebbe stata un’era saturnia.

 

[50] Arist. polit. 7.10 (1329b,8-22): fasÜ gŒr oß lñgioi tÇn ¤keÝ katoikoæntvn Italñn tina gen¡sqai Basil¡a t°w OÞnvtrÛaw, Žfƒ oð tñ te önoma metabalñntaV Italoçw Žntƒ OÞnvtrÇn kleq°nai kaÜ t¯n Žkt¯ taæthn t°V EérÅphV ƒItalÛan toënoma labeÝn, ösh tetæxhken ¤ntòV oïsa toè kñlpon toè Ekulletkoè kaÜ toè Lamhtikoè: Ž¡xei d¢ taèta Žpƒ Žll®lvn õdòn ²miseÛaV ²m¡raV. toèton d¯ l¡gousi tòn ƒItalòn nomŒdas toçV OÞnvtroçV övtaV poi°sai gevrgoæV, kaÜ nòmouV llouV te aétoÝV q¡sqai kaÜ tŒ sussÛtia katastt°sai prÇton: diò kaÛ nèn ¦ti tÇn Žpƒ ¤keÛnou tin¢V xrÇvtai toÝV sissitÛoiV kaÛ tÇn nñmvn ¤nÛoiV. Õkoun d¢ tò m¢n pròV t¯n TurrhnÛan ƒOpikoÜ kaÜ prñteron kaÜ nèn kaloæmenoi t¯n ¤pvnumÛan AësoneV, tò d¢ pròV t¯n ƒIapugÛav kaÛ tòn ƒIñnion XÇneV, t°n kaloum¡nhV SirÝtin: ¸san d¢ kaÜ oß XÇneV OÞnvtroÜ tò g¡noV. [tr. Viano 577]: “I cronisti dicono che uno degli abitanti dell’Enotria, un certo Italo, ne divenne re, che da lui gli abitanti del paese cambiarono il loro nome da quello di Enotrii in quello di Itali, e che la penisola dell’Europa che è compresa tra il golfo Scilletino e quello lametico, tra i quali c’è mezza giornata di cammino, ha preso il nome di Italia. La tradizione poi afferma che questo Italo trasformò gli Enotrii, che erano nomadi, in contadini, diede loro delle leggi e istituì tra l’altro le mense comuni, che perciò ancor oggi alcuni dei suoi discendenti praticano, così come osservano alcune delle leggi promulgate da lui. Abitavano la regione verso la Tirrenia gli Opici, un tempo e ora chiamati con il nome di Ausonii, mentre verso la Iapigia e il golfo Ionico, occdupando la regione della Siritide, abitavano i Coni, un altro ramo della stirpe degli Enotrii”. Come è noto la tradizione storiografica greca arcaica considerava gli Enotri come gli antichi abitanti della Calabria che si sarebbero stabiliti cento anni prima della guerra di Troia provenendo dalla Arcadia alla guida di Enotro (ver sacrum?). Si comprende la descrizione della regione italica fatta da Aristotele. Gli Opici o Ausonii avrebbero abitato il versante tirrenico fino all’Etruria in senso stretto a nord della Calabria(=Enotria), occupando Basilicata(=Lucania), Campania e Lazio. Sul versante ionico la Iapigia(=Puglia) sarebbe stata abitata dai Coni nella zona tra Sibari e metaponto. Aristotele avrebbe usato come fonte per la leggenda di Italo re degli Enotri Antioco di Siracusa vissuto nella seconda metà del V secolo a.C. Cfr. anche C.A. Viano, Aristotele, Politica (Milano 2002) 576, nt. 34. Sulla versione varroniana di Oenotro come re dei sabini v. Serv. ad Aen. 1.532: Oenotria autem dicta est vel a vino optimo, quod in Italia nascitur, vel ut Varro dicit ab Oenotro, rege Sabinorum.

 

[51] Questo stesso filone è peraltro chiaramente riconoscibile nella stessa saga virgiliana come dimostrano i seguenti notissimi versi: Verg. Aen. 1.530: Est locus, Hesperiam Grai cognomine dicunt,/ terra antiqua, potens armis atque ubere glaebae;/ Oenotri coluere viri; nunc fama minores/ Italiam dixisse ducis de nomine gentem. Ed affiora anche in un riferimento purtroppo eccessivamente sintetico delle Origines di Catone tratto da uno scolio isidoreo [Schol. Vallicelliana ad Isid. orig. 14.4.18 (Whatmough 154)= Orig. 7 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 294)]: Italiam Cato appellatam ait ab Italo rege. Già in Gellio emerge una versione etimologica più sofisticata che a sua volta poggia sull’autorità di Timeo di Tauromenio e Varrone. La terra Italia sarebbe stata così chiamata dall’abbondanza di animali e pascoli di tale paese, perché in greco arcaico i buoi venivano chiamati fitalo¤: Gell. 11.1: Timaeus in historiis, quas oratione Graeca de rebus populi Romani composuit, et M. Varro in antiquitatibus rerum humanarum terram Italiam de Graeco vocabulo appellatam scripserunt, quoniam boves Graeca vetere lingua fitalo¤ vocitati sint, quorum in Italia magna copia fuerit, bucetaque in ea terra gigni pascique solita sint conplurima. Chiude il quadro la nota voce serviana: Serv. (daniel) ad Aen. 1.533: Italiam Italus rex Siciliae ad eam partem venit in qua regnavit Turnus, quam a suo nomine appellavit Italiam: unde est fines super usque Sicanos non usque ad Siciliam; nec enim poterat fieri; sed usque ad ea loca, quae tenuerunt Sicani, id est Siculi a Sicano, Itali fratre. alii Italiam a bubus quibus est Italia fertilis, quia Graeci boves fitaloÁw, nos vitulos dicimus; alii a rege Ligurum Italo, alii ab advena Molossio; alii a Corcyreo; alii a Veneris filio, rege Lucanorum; alii a quodam augure, qui cum Siculis in haec loca venerit quamque his regionem inauguraverit; plures atare tenari nepote desatura Minois. regis Cretensium, filia Italiam dictam.

 

[52] Sul problema v. F. Altheim, Italien und Rom (Amsterdam-Leipzig 1941) 1.46; Id., Geschichte der lateinischen Sprache (Frankfurt 1951) 25, 30; F. Rauhut, Le origini delle parole Italia e Italiano, in Paideia 8.1 (1953) 1-13; R. Del Ponte, Dei e Miti Italici3 (Genova 1998) 156 s.

 

[53] G. Semerano, Le origini della cultura indoeuropea. Rivelazioni della linguistica storica [in due voll. (quattro tomi)] (Firenze 1984, rist. 2002) 1(2), 493.

 

[54] Secondo F. Altheim, Italien und Rom 1.46, Italia sarebbe la terra degli Itali che non erano buoi, ma uomini. Questi uomini sarebbero stati figli del dio toro. Sempre secondo tale autore [F. Altheim, Geschichte der lateinischen Sprache 25 e 30] gli Itali sarebbero stati una frazione dei Siculi e la loro lingua imparentata col latino. Del resto Tucidide e numerosi recenti riscontri archeologici indicano che nei secoli VIII e VII a.C. dei Siculi vivevano al di là dello stretto di Messina. Cfr. anche H. Philipp, sv. Italia, in PW. Suppl. 3 (München 1918) coll.1246,21-1293,7. Ma v. le critiche di G. Semerano, Le origini della cultura indoeuropea 1. Rivelazioni della linguistica storica 492.

 

[55] P. Catalano, Aspetti spaziali 539 e nt. 428.

 

[56] P. Catalano, Aspetti spaziali 539.

 

[57] K. Sittl, Der Name Italiens, in Archiv für lateinische Lexicographie 11 (1898) 123.

 

[58] Cfr. sul punto O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 68 ss., 36, nt. 11; 74, nt. 101; 80, nt. 114.

 

[59] Sul punto P. Catalano, Aspetti spaziali 491.

 

[60] Cfr. W.H. Harris, Roma fuori di Roma, in A. Giardina (cur.), Roma antica (Roma-Bari 2000) 334.

 

[61] P. Catalano, Aspetti spaziali 538, nt. 426.

 

[62] Plato epist. 7.327; leg. 2.659b; Gorg. 493a; Arist. metereolog. 1.6.342b; rhetor. 2.23.1398b; Theofr. hist. plant. 5.8.1; Callim. fragm. 493 (Schn.=653 Pf.).

 

[63] Vedi Dion. 1.35. G. Semerano, Le origini della cultura europea 493. Viene subito alla mente la teoria di Santo Mazzarino sulle dimensioni spaziali del concetto di terra Italia. Come è noto, questi, partendo dalla notizia del sacrificio di una coppia di Galli e di Greci nel 228, 216 e 114 a.C. (Liv. 22.57.6), espressione a suo dire di un’intuizione della terra Italia come di una regione ‘strutturata’ dall’Appennino, ha dimostrato quale fosse l’estensione territoriale di Italia in epoca pre-annibalica. Questo anche in base alla considerazione che il passo di Appiano (ann. 7.2.8), in base al quale lo studioso siciliano ha basato la sua teoria, sarebbe derivato da una fonte anteriore alla guerra marsica che considerava come terra Italia solo il territorio fino all’Appennino. Al di là di questo, la nostra fonte avrebbe visto una terra abitata non da Italiani, ma da Galli e Greci. Cfr. Appian. ann. 7.2.8 [tr. it. S. Mazzarino 214]: “tutta la parte a destra di essi (Appennini) è vera Italia; quanto all’altra parte degli Appennini verso lo Ionio, oggi è (detta) Italia anche questa, – e vi abitano Greci, lungo la costa ionica, e sul resto Celti”. Cfr. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico 2.1 212 ss. Tutto questo ancora almeno fino al tempo del sacrificio umano del 228 a.C. In quest’epoca, dunque, l’Italia era ancora ciò che stava al di là dell’Appennino verso occidente. Lo dice Appiano attingendo però da una fonte annalistica che potrebbe essere del secondo secolo a.C. e anzi risalire fino a Fabio Pittore. In questo quadro tutte le paretimologie fondate sul mito dell’Ercole italico sono evidentemente da considerare fortemente influenzate dal periodo eracleo quando l’esercito di Aristodemo, sconfiggendo la flotta etrusca nel 474 a.C., diventò padrona del Mezzogiorno. Un altro elemento di cui tenere conto in questo quadro è che proprio in quest’epoca nasce la ‘Cronaca cumana’ da cui sembra abbia attinto anche Fabio Pittore. Neanche a dire che proprio Ellanico di Lesbo fu un contemporaneo di questi fatti.

 

[64] Cfr. or.g.R. 3.1-9.

 

[65] Strabo 5.2.6 (C 223-224,16-19): Eàdomen d¢ kaÜ toçV ¤rgazom¡nouV tòn sÛdhron tòn ¤k t°V AÞqalÛaV komizñmenon: oé gŒr dænatai sullipaÛnesqai kamineuñmenoV ¤n t» n®sÄ: komÛzettai dƒ eéqçV ¤k tÇn ³peiron. [tr. Biraschi 99]: “Vidi anche quelli che lavoravano il ferro portato dall’isola di Aithalia: esso, infatti, non può essere portato a liquefazione e lavorato alla fornace sull’isola e viene perciò subito portato dalle miniere sul continente”. Sul punto v. C. Battisti, Sul nome di Populonia  38 ss. La radice semantica comune di tale derivazione etimologica è tuttavia l’idea di ‘ciò che sta ad occidente’, ‘tramonto’, ‘oscuramento’ dall’accadico ātalû, attalû, o dall’aramaico ātaljā. Infatti, attraverso riferimenti linguistici alle lingue che si parlavano nel mediterraneo durante il secondo millennio a.C. possiamo inoltre stabilire un legame tra l’antico babilonese Athalia, come derivato dal vocabolo attalu, e il siriaco atalja che significa ‘oscuramento, tramonto’ (‘eclipse’, ‘Verfinsterung’). Tutte queste parole a loro volta derivano da una lingua ancora più antica, il sumero, in cui antalu significa ‘ombra’. Tutto questo spiega il nome dell’Etolia (Aetolia) (regione occidentale della Grecia) e il nome di Atlantide che Esiodo pone ai confini della terra. A„qal…a era anche il nome di Lemno pelasgica. L’ombra di Tiresia compare in versione etrusca nel famoso specchio indicata dal vocabolo hintial che significa ‘anima, ombra’ riferendosi a ‘ciò che vive nell’adlilà’. Cfr. A. D’Aversa, La lingua degli etruschi (Brescia 1979) 349. Il valore semantico di ‘ombra’, ‘oscuramento’, terra lontana ai limiti del conosciuto, riecheggia anche nel riferimento al paese dei Cimmerii che troviamo in Omero (Od. 11.14 ss.) e nell’or.g.Rom. 10.1. Anzi la città dei morti era proprio Cimmerio la città delle ombre, ma anche la città della Sibilla, cioè Cuma era chiamata Cimmerio: or.g.Rom. 10.1: cumque comperisset ibidem Sibyllam mortalibus futura praecinere in oppido quod vocatur Cimmerium. Questa stessa città diede l’oracolo infausto per il sacrificio dei Galli e dei Greci nel 228 a.C., ma quello che più conta questa città era per i Greci l’estremo baluardo prima dell’Italia posta al di là dell’Appennino. La regione dove, prima ancora dell’era eraclea, c’era come Cuma e Pitecusa, l’isola d’Elba con il suo ferro, e gli Etruschi. Non mi sentirei di proporre un’ipotesi che indicasse il nome Athalia come la traslitterazione greca di un vocabolo etrusco (come hintial?) che designava il nome dell’isola, molto suggestiva e plausibile è l’idea che l’Elba per i Greci arcaici fosse il termine ultimo delle rotte commerciali. Strabone, citando Timeo di Tauromenio, ci fa capire l’idea che i Greci avevano dell’isola come ultimo approdo: Strabo 5.2.6 [tr. Biraschi 99 s.]: “Nell’isola di Aithalia c’è un porto, Argo, il cui nome dicono derivare dalla nave Argo. Là infatti sarebbe approdato Giasone, cercando la dimora di Circe perché Medea voleva vedere la dea. Dicono inoltre che le raschiature prodotte dagli strigili degli Argonauti, indurite rimangono ancora oggi sotto la forma dei sassolini colorati che sono sulla spiaggia. Ora, siffatte leggende testimoniano quello che ho detto e cioè che Omero non inventò tutto, ma, ascoltando tali storie così come erano raccontate da molti, aggiunse egli stesso lunghezza alle distanze e agli spostamenti e ha fatto anche per Giasone, dal momento che sia l’uno che l’altro hanno fatto un viaggio”. Per tutto cfr. G. Semerano, Le origini della cultura europea 493 s.; Id., Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua (Milano 2003) 59. Così come per lo scambio delle liquide r/l, Ilva sembrerebbe corrispondere all’accadico erbu=‘tramonto’, da cui l’ebraico ereb=‘sera’; e, del resto, c’è sempre da considerare che gli Ilvates erano ‘la popolazione che viveva ad occidente’. G. Semerano, Il popolo che sconfisse la morte 59.

 

[66] P. Catalano, Aspetti spaziali 534.

 

[67] Serv. ad Aen. 1.2.19 (daniel): sane non otiose fato profugum dicit Aeneam, verum ex disciplina Etruscorum. est enim in libro qui inscribitur litterae iuris Etruriae scriptum vocibus Tagae. Si v. anche Serv. ad Aen. 11.567.

 

[68] Per i significati più antichi in senso più ristretto v. P. Catalano, Aspetti spaziali 535, nt. 408.

 

[69] Indicazioni delle fonti al solo vocabolo Italia sono anche in Cato Orig. frgm. 39; 134; Polyb. 2.14; 2.23.13; 3.54; 6.52.10. Seguendo lo schema di Pierangelo Catalano, sotto il profilo giuridico, il concetto di terra Italia come unità territoriale rileverebbe nell’ordinamento romano per le seguenti norme. Il pontefice massimo non poteva lasciare la terra Italia. La testimonianza più antica di tale norma risale al 205 a.C. ed è Liv. 28.38.12: Quarto decimo anno Punici belli P. Cornelius Scipio et P. Licinius Crassus ut consulatum inierunt, nominatae consulibus provinciae sunt, Sicilia Scipioni extra sortem, concedente collega quia cura sacrorum pontificem maximum in Italia retinebat, Brutti Crasso [cfr. anche Liv. 28.44.11; Dio Ca. 57;52; Diod. Sic. 27.2; Liv. per. 59]. Ma verso la prima metà del II secolo a.C. non pare più applicata rigidamente come dimostra la vicenda del pontefice massimo M. Emilio Lepido nel 175 a.C.: Liv. 41.19 e 41.27. Inoltre, non era possibile compiere una dictio dictatoris (cioè una fictio di ager Romanus) in territorio non italico. Sempre Livio (27.5.15) riferisce di un episodio avvenuto nel 210 a.C. e che vide coinvolto M. Valerio Messalla (un possibile autore della glossa festina sulla nozione di ager peregrinus). Il senato avrebbe affermato che la dictio dictatoris non sarebbe stata possibile perché Valerio era fuori del territorio italiano (patres extra Romanum agrum – eum autem in Italia terminari – negabant dictatorem dici posse). Ambientato nel 252 a.C. è un altro famoso episodio riguardante Aurelio Cotta e riportato da Val. Max 2.7.4. Siamo in tema di repetitio auspicorum e il console Aurelio dovette recarsi Messana transiturus per poter compiere il rito: Val. Max 2.7.4: Nam C. Cotta Aurelium Pecuniolam, sanguine sibi iunctum, quem obsidioni Liparitanae ad auspicia repetenda Messanam transiturus praefecerat, virgis caesum, militiae munere inter pedites fungi coegit, quod eius culpa agger incensus, paene castra erant capta. In chiave derogatoria è interpretato un’altro episodio relativo alla inauguratio di un templum a Tessalonica fatta dai Pompeiani. Il carattere eccezionale di questa fictio di ager Romanus si evince chiaramente dal racconto di Dione Cassio. Semmai è significativo notare che per lo storico compiere la fictio di ager Romanus comportasse dichiarare il territorio oggetto del rito proprietà dello Stato. Cfr. Dio Ca. 41.43.1-2: TÒ d¢ ¤xom¡nÄ ¦tei dittoÛ te toÝV RvmaÛoiV rxounteV parŒ tò kaqesthkòV ¤g¡vonto kaÜ mŒxh megÛsth d¯ sunhn¡xqh. oß m¢n gŒr ¤n tÒ stei kaÛ êptouV tñn te KaÛsara kaÜ Poæplion SerouÛlion kaÜ strategoçV t te lla t¡lh tŒ ¤k tÇn nñmvn ¿rhnto, oß d¢ ¤n t» YessalonÛkh [2]toioèto m¢n oéd¢n propareskeusanto, kaÛtoi t°V te llhV Boul°V ¤V diakosÛouV, ËV fasÛ tineV, kaÜ toçV êptoçV ¦xonteV, kaÜ ti kaÜ xvrÛon ¤V tŒ oÞvnÛsmata, toè d¯ kaÜ ¤n nñmÄ d® tini aétŒ dokeÝn gÛgnesqai, demosiÅsanteV, Ëste kaÜ tòn d°mon diƒ aétÇn t®n te pñlin pasan ¤ntaèqa eänai nomÛzesqai. [tr. Norcio 235]: “L’anno seguente i Romani ebbero una doppia serie di magistrati, contrariamente alla regola, e ci fu una grandissima contesa. I Romani di Roma avevano eletto consoli Cesare e P. Servilio, e così pure i pretori e gli altri magistrati richiesti dalle leggi; invece i Romani di Tessalonica non fecero nessuna elezione di questo genere [2] quantunque avessero con loro circa 200 senatori, come alcuni dicono, e i due consoli, e avessero dichiarato proprietà dello stato romano un luogo scelto per gli auspici, affinché i loro atti mostrassero una certa apparenza di legalità, e si potesse credere, in quel modo, che il popolo e l’intera città di Roma si trovavano lì”.

 

[70] A. Lintott, Judicial reform 202 s. in sede di commento al sintagma terra Italia contenuto in tale legge pone l’accento sul significato politico della nozione di Italia sottolineando che tale nozione avrebbe avuto senso come parte della penisola italiana che non sarebbe stata né romana, né latina. Cfr. p. 202: “Italia by itself in 111 BC had a political sense as that part of Italy wich was neither Roman nor Latin”. L’autore poi ipotizza che terra Italia potrebbe escludere di per sé la città di Roma, che non fu oggetto della legislazione agraria (ibidem): “Terra Italia may also exclude by implication the city of Rome, wich was not the subject of agrarian legislation. It is true that Rome i explicity excluded in line 5, but that may be because the chapter in question is dealing with urban public land”. M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.156 s. pone l’accento sull’uso geografico dell’espressione rilevabile nel 151 a.C. grazie ad un frammento catoniano, v. Cato Orat. 142 (Cugusi-Sblendorio Cugusi 352).Così anche Liv. 25.7.4: neu in Italiam reportaretur donec hostis in terra Italia esset dove l’uso in senso geografico riferito all’età della seconda guerra Punica è chiarissimo. Sononché lo storico contesta la ricostruzione di Lintott (p. 157): “It is unlikely either that Italia by itself in 111 BC had a political sense as that part of Italy wich was neither Roman nor Latin or that the intention in using terra Italia was to exclude the city of Rome, as Lintott suggests”. M.H. Crawford (ed.), ibidem, seguendo H. Galsterer, Herrschaft und Verwaltung im republikanischen Italien: die Beziehung Roms zu den italischen Gemeinden vom Latinerfrieden 338 v.Chr. bis zum Bundesgenossenkrieg (Munich 1976) 37-41, pensa che il significato del sintagma sia quello di indicare il territorio non abitato dai Romani. A proposito dell’esclusione di cui alla linea 5 (quod eius extra urbem Romam est) credo, con il Crawford, che la giustificazione addotta da Lintott sia debole. Penso piuttosto che la questione dell’estensibilità del concetto territoriale di Italia, terra Italia e ager Romanus vada impostata e risolta nella contrapposizione tra il diritto augurale (ager Romanus) e il diritto civile (ager publicus populi Romani in terram Italiam) come ho cercato di porre in evidenza. Si tratta di due concetti entrambi giuridici ma operanti su piani e contesti storici diversi. L’uno attiene al diritto augurale l’altro al diritto laicizzato della tarda republica (P. Mucio Scevola?). La presenza dell’espressione in un testo legislativo a mio avviso sostiene l’ipotesi che questa possa essere stata utilizzata in un senso tecnico, quindi anche politico e non solo geografico, come è ovvio.

 

[71] Sul punto v. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico religioso romano 547 per il quale le premesse politiche e militari che avrebbero trovato forma nel concetto giuridico-religioso di Italia, sarebbero anteriori alla guerra contro Taranto. Cfr. anche S. Mazzarino, Il pensiero storico classico 2.1 (Bari 1966) 214 ss. Per il concetto di ‘coscienza italica’ v. ora A. Ziolkowski, Storia di Roma 134. La dottrina prevalente parla dell’esistenza di una vera e propria ‘coscienza italica’ che appunto sarebbe emersa proprio in questo periodo. È noto che Santo Mazzarino per primo fece notare che l’idea originaria dell’Italia come ‘terra patria’ (terra Italia), in senso appianeo (ann. 7.2.8), era limitata geograficamente all’arco appenninico. Continuando su questo versante Augusto Fraschetti, riprendendo il discorso già avviato dal maestro siciliano, in base alla notizia del macabro rituale di seppellire vivi una coppia di Galli e di Greci nel Foro Boario, ha mostrato che tale nozione di terra Italia può essere nata negli anni intorno al 349/348 a.C. che fu un momento in cui Roma ebbe come nemici contemporaneamente entrambi i popoli. V. sul punto A. Fraschetti, Le sepolture rituali del Foro Boario, in Le délit religeux dans la cité antique. Coll. de l’École Française de Rome 48 (Roma 1987) 51 ss. Secondo Ziolkowski un cambio di significato si noterebbe in Eutropio (che, come è noto, rappresenta la tradizione liviana) per cui il Senato romano, rifiutando la pace con Pirro avrebbe fatto sapere al re che nessun accordo si sarebbe fatto con lui fintanto che questi fosse rimasto in Italia. Eutr. 2.13.1. A. Ziolkowski, Storia di Roma 135. In base a Livio possiamo anche sostenere che all’epoca dell’alleanza romano-cartaginese ‘di Filino’ del 278 a.C. circa, i Cartaginesi si sarebbero impegnati a tenersi lontano dall’Italia. Liv. 21.10.8: Sed Tarento, id est Italia, non abstinueramus ex foedere (è Annone, capo fila dei pacifisti del senato di Cartagine, che parla nel 218 a.C.). Ad ogni modo nel foedus tertio renovatum di Livio del 306/305 i Romani sembrano aver concluso l’alleanza con i Cartaginesi propugnando un’idea di Italia estesa ancora alla penisola appenninica. Sui complessi problemi legati alla ricostruzione dei trattati romano-cartaginesi v. S. Calderone, Lezioni di storia romana (Napoli 1972) 77 ss.; B. Scardigli, I trattati romano-cartaginesi (Pisa 1991); L. Loreto, Sui trattati romano-cartaginesi, in BIDR. III. 37-38/98-99 (1995-1996) 779-821.

 

[72] Cfr. J.W. Rich, Silvae Callesque, in Latomus 45 (1986) 505 ss.

 

[73] J.W. Rich, Silvae Callesque 507, nt. 10 ss.

 

[74] J.W. Rich, Silvae Callesque 507. Pompeo Strabone nell’89 e poi Silla fecero della Gallia Cisalpina una provincia permanente e da questo momento fino al 42 l’Italia avrà come confine il Rubicone. Mentre, solo dopo il 78-77, 72 e 63-62, l’uso di considerare l’Italia come una provincia consolare diventerà obsoleto. Altre notizie circa lo spostamento del confine italico compiuto dai Romani sono in Strabone. Per il diritto augurale vi era una connessione tra l’ampliamento del pomerium e il suolo italico. Bisogna guardare le seguenti parole di Seneca: dial. 10.13.8: pomerium…numquam provinciali sed Italico agro adquisito proferre moris apud antiquos fuit. Esse presuppongono uno stretto rapporto tra il concetto di terra Italia e il pomerium. Il secondo fu ampliato probabilmente all’età di Servio Tullio e poi soltanto con Silla. In base a questo, Theodor Mommsen [Römisches Staatsrecht3 III.1 477 ss.] ritiene che la connessione tra il concetto di fines populi Romani e pomerio risalga all’età regia. Questa norma sarebbe nata invece per Pierangelo Catalano [Aspetti spaziali 534] già verso la metà del terzo secolo a.C. In 5.1.11 lo storico di Amasea riferisce del confine esistente tra la Celtica Cisalpina e il resto d’Italia costituito dalla catena degli Appennini. In 5.2.10 parla in modo più specifico di tale confine sul versante adriatico che sarebbe stato fissato dai Romani prima al fiume Aesis (tra Ancona e Sena) e poi spostato al Rubicone (che scorre tra Rimini e Ravenna). Nonostante qualche diversità di opinioni in dottrina, la presenza di un cippo graccano a Fanum Fortunae (ILLS. 1.474) e il fatto che Polibio dia questo spostamento per presupposto – Polyb. 3.86.1-2: KatŒ d¢ toçV t°V mŒxhV kairoçV GnŒioV SerouÛlioV õ prokaq®menoV ìpatoV ¤pÜ tÇn katƒƒApÛminon tñpvn [2]oðtoi dƒ eÞsÜn ¤pÜ t°V parŒ tòn ƒAdrÛan pleurV, oð sunptei tŒ GalatikŒ pedÛa proV t¯n llen ƒItalÛan, oé makrŒn t°V eÞV qlattan ¤kbol°V tÇn toè Pdou stomŒtvn. [tr. Palmisciano-Tartaglini 388]: “Al momento della battaglia, il console Gneo Servilio, che era di stanza nella zona di Rimini [2] – questa è situata lungo la costa dell’Adriatico, dove la pianura gallica si congiunge al resto dell’Italia, non lontana dal punto in cui le foci del Po si gettano in mare” –, farebbe propendere per la tesi di Walbank che data tale spostamento in età graccana. F.W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius2, in Class. & Med. 9 (1948) 396. Secondo U. Ewins, The early colonisation of Cisalpine Gaul, in Pap. Brit. Sch. of Rome 20 (1952) 76 e G. Mansuelli, I Cisalpini (Firenze 1962) 60 lo spostamento sarebbe avvenuto in età sillana quando fu stabilito lo status di provincia della Gallia Cisalpina. Su tutto v. N. Biffi, L’Italia di Strabone (Bari 1988) 246, nt. 106.

 

[75] P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico religioso romano 440 ss., 525 ss.

 

[76] Cfr. con ampio dettaglio di fonti e bibl. A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, cit., p. 57.

 

[77] Cfr. A. Ziolkowski, Storia di Roma 135; P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico religioso romano 440 ss., 525 ss. Probabilmente l’affermazione della norma per cui la proprietà individuale, ossia il dominium ex iure Quiritium, del cittadino romano era limitata al territorio italico dimostra l’avvenuto passaggio, in ordine alla regolamentazione giuridica della terra, dal diritto augurale a quello laico (ancora in età varroniana sembra che la disciplina dei genera agrorum augurali fosse ancora in auge. Varro: l.L. 5.5.34). Gennaro Franciosi ha scritto che l’individuazione dei fundi in solo Italico, come categoria contrapposta ai fondi provinciali, è una realtà ascrivibile ad un’epoca non anteriore al 241 a.C., che è l’epoca della conquista delle provinciae di Sicilia e Sardegna; ma, soprattutto, ha affermato che l’arco cronologico per la considerazione dei fondi italici come res mancipi, trasferibili con la mancipatio, è quello che va dal terzo al secondo secolo a.C. Su quest’ultimo punto specifico dovremo ritornare. Si v. G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica. Un capitolo della storia delle dodici tavole, in SDHI. 69 (2003) 146, nt. 96.

 

[78] Val. Ant. ann. (fr. 21); Varro r.r. 1.9.1; P. Catalano, Aspetti spaziali 534.

 

[79] Liv. 21.41.14; 23.5.10 ss.; 25.7.4; Front. Strat. 4.7.25; Polyb. 3.77 e 85; Liv. 22.7.5; 22.13.1.

 

[80] Affronta il problema A. Giardina, L’Italia romana 59 ss. il quale nota che l’etnicità italica veniva espressa in questo periodo solo all’esterno della penisola come dimostra la nota iscrizione di Delo italicei qui Deli negotiantur. Nel SC. de bacchanalibus del 186 a.C. si legge neve nominus Latini neve socium. Invece nella lex de repetundis della tabula Bembina si trova solo il nomen Latinum come espressione di etnicità.

 

[81] Per A. Lintott, Judicial reform 202, il termine Italia avrebbe un significato politico: “(…) Italia by itself in 111 BC had a political sense as that part of Italy wich was neither Roman nor Latin”. Diversamente M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.157 riconosce all’espressione terra Italia della legge agraria epigrafica un valore meramente geografico: “(…) terra Italia is used here for the geographical entity”. Sulla questione v. O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 159 ss. Quanto al problema sollevato in dottrina [A. Lintott, Judicial reform 202; M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.156] della mancata menzione di terra insieme al vocabolo Africa nella legge del 111 a.C., spiegherei la circostanza con Varro l.L. 7.2.18 dove si legge che ‘ager non est terra’ perché il concetto di ager era un concetto tecnico che traeva origine dal diritto augurale. Non così per il vocabolo terra che, come dice Elio Stilone, era presente negli scritti degli auguri, ma con un significato più generico: Varro l.L. 5.4.21: terra dicta ab eo, ut Aelius scribit, quod teritur. Itaque tera in augurum libris scripta cum R uno. Su tutto v. O. Sacchi, Spunti per un’archeologia giuridica del linguaggio 104. Sul significato del frammento di Alfeno v. però infra, p. 209, 213 ss.

 

[82] A. Giardina, L’Italia romana 60.

 

[83] J. Granet, La loi agraire epigraphique du 111, in Pallas 35 (1989) 126.

 

[84] L’espressione *agros è la parola indoeuropea per indicare la campagna. Essa viene attestata sia in Oriente che in Occidente, come testimoniano il sanscrito ájras, il greco égrÒw, l’armeno art, il latino ager, il gotico akrs, il tedesco Acker. La parola *agros deriva dalla radice (peraltro ben nota) *ag- che significa ‘portare’, da cui risulta che *agros in origine avrebbe significato ‘luogo dove si portano (gli animali a pascolare)’. Si parla però anche di un imprestito dal sumero agar che significa ‘terreno destinato alla coltivazione’, il che starebbe a dimostrare una influenza dell’Asia Minore per la nascita dell’agricoltura indoeuropea. Cfr. su tutto F. Villar, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa. Lingua e storia (Bologna 1997) 166. V. anche O. Sacchi, I limiti e le trasformazioni dell’ager Campanus 26 s.

 

[85] In questo senso è indicativo L. Capogrossi Colognesi, Persistenza e innovazione nelle strutture territoriali dell’Italia romana. L’ambiguità di una interpretazione storiografica e dei suoi modelli (Napoli 2002) 35 sul valore più o meno innovativo rispetto alla situazione precedente alla legge agraria del 111 a.C.: “La lex agraria, non dobbiamo dimenticarlo, non costituisce tanto un provvedimento volto a fotografare una realtà agraria e giuridica preesistente, disciplinandone e formalizzandone la fisionomia, ma (è un contesto normativo volto, n.d.r.) a incidere su strutture antiche, modificandole in profondità, anche attraverso la trasformazione della loro natura giuridica”. Va ricordato a tal proposito che F. De Visscher, Mancipium et res mancipi, in SDHI. 2 (1936) 295 ss.[=Nouvelles études de droit romain public et privé (Milano 1949) 227 ss.] include i fundi (così come le arcaiche servitù prediali) tra le res mancipi. Per la critica alle posizioni del De Visscher e in generale sul problema dell’inserimento dei fondi nella categoria delle res mancipi si veda F. Gallo, Studi sulla distinzione fra “res mancipi” e “res nec mancipi”. Con “nota di lettura” di Ferdinando Zuccotti, in (estr.) Rivista di diritto romano 4 (2004) 1-121. La disponibilità di ager per i Romani è tuttavia un fenomeno da valutare a seconda del momento storico cui si fa riferimento. Per il periodo che stiamo trattando la questione riguarda l’incremento di spazio territoriale che i Romani fu possibile acquisire in uno spazio temporale che va dal 290 a.C. [Plin. n.h. 18.(4).18: Mani quidem Curi post triumphos inmensumque terrarum adiectum imperio nota contio est: perniciosum intellegi civem, cui septem iugera non essent satis] all’età di Catone [Orat. 114; 206]. Questi elementi dovrebbero far riflettere perché a mio avviso già da dall’epoca della legge agraria epigrafica, per designare il patrimonio trasmissibile del pater familias, una formula come familia pecuniaque sembra inadeguata. Fra l’altro in un testo di legge in cui si riconosce (forse per la prima volta ex lege) anche la trasmissibilità ereditaria dei terreni posseduti dai privati. Un commento al codice decemvirale (di cui pare che Sesto Elio Peto Cato non abbia tenuto conto) era stato fatto anche da L. Acilio (forse nel decennio tra la censura di M. Porcio Catone, nel 184 a.C., e la morte di Ennio nel 169 a.C.). Cfr. sul punto Cic. de leg. 2.23.59 e C. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano e della giurisprudenza romana (Milano 1885) 26 ss. Ma v. anche F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana [Firenze (tr. it. G. Nocera) 1968] 165 s. il quale ipotizza che L. Acilio potrebbe aver pubblicato una nuova edizione del commento di Sesto Elio. In quest’epoca di fermento e di rinnovamento culturale, l’opera di Sesto Elio (i Tripertita) potrebbe essere stata il commento al codice decemvirale che ebbe maggior fortuna tra i diversi della sua epoca, non però l’unico. Elio Stilone Preconiano era stato allievo di Cratete di Mallo che si impegnò in una polemica molto accesa contro gli eruditi della scuola di Alessandria che erano molto conservatori sul valore del neologismo. Cfr. A. Ronconi, Letteratura latina pagana. Profilo storico 39. Ad esempio, la sostituzione di locuples ad adsiduus potrebbe essere una delle tante conseguenze di tale atteggiamento ideologico e, nello stesso tempo, frutto dell’applicazione di una metodologia filologica. Alla stregua di Panezio (altro allievo di Cratete) che seguendo la dottrina dei Pergameni (i krit‡kÒi) finirà con il valutare l’autenticità dei dialoghi platonici applicando quasi esclusivamente il metodo filologico, e di Varrone, che poco più tardi, userà (come, uno dei suoi maestri, appunto Stilone) lo stesso metodo per valutare l’autenticità delle commedie plautine, così anche Elio Stilone Preconiano potrebbe aver commentato le XII tavole fornendo una versione del testo legislativo che fosse aggiornata dal punto di vista lessicale (pur se comunque corretta sul piano filologico). In altre parole questo erudito potrebbe aver applicato la metodologia filologica anche per valutare aspetti di autenticità delle XII tavole in sede di commento a tale codice normativo. In questo quadro si deve considerare che nella cronologia fornita da M. Bretone, Storia del diritto romano (Roma-Bari 1989) 414 l’opera di Stilone è collocata negli anni tra il consolato di Q. Mucio Scevola l’augure (117 a.C.) e la data di nascita di Cicerone (il 3 gennaio del 106 a.C.). Ma su questi aspetti dovremo ritornare.

 

[86] Émile Benveniste [Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee 1. Economia parentela, società (Torino 2001) 232] costruisce l’etimologia del verbo latino aedificare dal composto greco oiko-domeîn, denominativo del composto oiko-dómos che significa ‘costruttore di cose’. Al greco -domeîn corrisponde il latino facio con diversa radice. Ad oiko- corrisponde non domus, ma aedes. Lo studioso di Aleppo afferma che la formazione di aedificare sarebbe la prova del fatto che il valore proprio di domus non aveva nulla in comune con quello di aedes. Domus in latino non è quindi un termine architettonico. Indica ‘casa’ come luogo dove vive la famiglia, ma per indicare la casa in senso architettonico c’è il termine aedes. Aedes e domus si possono tradurre entrambi con casa ma semanticamente non si equivalgono. Da aedes come ‘casa’, ‘tempio’ è derivato aedilis, ma non c’è traccia di un processo analogo per domus. Lo sviluppo semantico di domus esclude ogni allusione alla costruzione ma va verso l’idea di ‘ciò che si possiede’. In Plauto ‘cui argentum domi est’ significa ‘colui che dà i soldi’. Nella precatio di Catone ‘mihi domo, familiaeque nostrae’ riguarda ciò che è proprio del pater familias. Come scrive allusivamente Benveniste, la domus trova posto tra la personalità stessa del sacrificante e la sua familia. Il dominus però non è colui che ha costruito la casa. Si v. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee 1.232.

 

[87] In uno spazio di tempo che può andare dalla fine del terzo/inizi secondo secolo a.C. (quando cominciò il fenomeno dell’urbanesimo), al 71/69-inizi 68 a.C. (che è la data della pubblicazione della pro Caecina, e non il 44 a.C. quando furono pubblicati i Topica ad Trebatium) il termine aedes può essere entrato nel linguaggio dei giuristi per indicare le case di città, cioè le costruzioni urbane e i giuristi potrebbero aver compiuto l’estensione interpretativa di cui parla Cicerone. Sulla pubblicazione della pro Caecina cfr. G. Bellardi (cur.), Le orazioni di M. Tullio Cicerone. Vol. II, dal 69 al 59 a.C. (Torino 1999) 15, nt. 23. Per le vicende relative ai Topica e in generale sulla vita di Cicerone, cfr. sv. Tullii, in F. Lübker, Lessico ragionato dell’antichità classica [Roma (tr. C.A. Murero) 1898, rist. an. 1989] 1256; E. Narducci, Introduzione a Cicerone (Roma-Bari 2005) 3.240. Sul problema della norma sul termine di usucapione dei beni immobili v. con bibl. ivi. G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare 127 ss.

 

[88] Così F. Serrao, Diritto privato economia e società 374.

 

[89] F. Serrao, Diritto privato economia e società 377.

 

[90] Sul tema degli incendi in età arcaica a Roma si veda L. Minieri, Norme decemvirali in tema di incendio, in Drevnee pravo - Ius antiquum 2(7) (Mosca 2000) 40-47. Curioso l’accostamento etimologico di aedēs con il sanscrito ēdhah, idhmáh=‘legna da ardere’; accadico išātu, aramaico eššātā, ebraico ēš tutti col significato di ‘fuoco’, da cui il latino aestus=‘calore bruciante’. Cfr. G. Semerano, Le origini della cultura europea 1(2).334. Questi dati sono coerenti con la circostanza che la parola aedes ha anche un significato tecnico come sepoltura e di tempietto votivo privato per i voti del pater familias. V. con argomenti e fonti D. Sabbatucci, L’edilità romana 309 ss.

 

[91] G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare 129. Sull’evoluzione del concetto giuridico di aedificium o aedes in Giavoleno e Gaio come universitas abbiamo due testimonianze molto chiare D. 41.3.23 pr. (Iav. 9 epist.): Eum, qui aedes mercatus est, non puto aliud quam ipsas aedes possidere: nam si singulas res possidere intellegetur, ipsas non possidebit: separatis enim corporibus, ex quibus aedes constant, universitas aedium intellegi non poterit. accedit eo, quod, si quis singulas res possidere dixerit, necesse erit dicat possessione superficiei ‘tempori de mobilibus statuto’ locum esse, solum se capturum esse ampliori: quod absurdum et minime iuri civili conveniens est, ut una res diversis temporibus capiatur, ut puta cum aedes ex duabus rebus constant, ex solo et superficie, et universitas earum possessionem temporis immobilium rerum omnium mutet; e D. 41.1.7.11 (Gai. 2 rer. cott. sive aureor.): Illud recte quaeritur, an, si id aedificium vendiderit is qui aedificaverit et ab emptore ‘longo tempore’ captum postea dirutum sit, adhuc dominus materiae vindicationem eius habeat. causa dubitationis est, an eo ipso, quo universitas aedificii ‘longo tempore’ capta est, singulae quoque res, ex quibus constabat, captae essent: quod non placuit. Cfr. M. Bretone, I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura  (Roma-Bari 1998) 79.

 

[92] Cfr. M. Kaser, Eigentum und Besitz im älteren römischen Recht2 [Forschungen zum römischen Recht 1] (Köln-Graz 1956) 260ss.; L. Labruna, Vim fieri veto. Alle radici di una ideologia (Napoli 1971) 103 ss.; Id., Tutela del possesso fondiario e ideologia repressiva della violenza nella Roma repubblicana (Napoli 1980) 7-267; G. Falcone, Studi sull’origine dell’interdetto uti possidetis 47, nt. 119 e passim.

 

[93] Cfr. Liv. 8.9.6; 9.8.8-10; Liv. 29.27.2-4; Liv. 1.16.3; 7.26.4; Serv. ad Aen. 1.731; Liv. 31.5.4; 31.7.5; Sall. epist. 2.13.8; Liv. 1.32.8; Sall. epist. 1.8.10; Cic. pro Mur. 1.

 

[94] Macr. sat. 3.9.7-10.

 

[95] L’origine del termine forse deriva dall’antichissimo linguaggio augurale italico stando ad una preziosa testimonianza di Isidoro: etym. 15.4.7: Sed et locus designatus ad orientem a contemplatione templum dicebatur. Cuius partes quattuor erant: antica ad ortum, postica ad occasum, sinistra ad septentrionem, dextra ad meridiem spectans. Unde et quando templum construebant, orientem spectabant aequinoctialem, ita ut lineare ab ortu ad occidentem missae fierent partes caeli dextra sinistra aequales; ut qui consulerent atque precaretur rectum aspiceret orientem. Nella fondazione del templum augurale il celebrante doveva trovare il locus e rivolgersi ad est (cuius partes quattuor erant: antica ad ortum, postica ad occasum, sinistra ad septentrionem, dextra ad meridiem spectans) come l’augure del rito di intronizzazione di Numa: Liv. 1.18.7: Inde ubi prospectu in urbem agrumque capto deos precatus regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit. Varrone invece, come è noto, riporta probabilmente il rituale etrusco che prevedeva l’orientamento con faccia a sud: l.L. 7.2.7: Eius templi partes quattuor dicuntur, sinistra ab oriente, dextra ab occasu, antica ad meridiem, postica ad septemtrionem. Riportano la notizia anche Paul.-Fest. (L. 454); Cic. de div. 1.31; Plin. n.h. 2.(55).142; 6.(24).87; Manil. astr. 2.273.

 

[96] Cfr. ad es. Cic. Verr. 3.170; de re p. 2.39; Liv. 38.14.9. Sul punto v. anche O. Sacchi, Il mito del pius agricola e riflessi del conflitto agrario dell’età catoniana nella terminologia dei giuristi medio/tardo repubblicani, in RIDA. 69 (2002) 16 ss. Se etimologicamente locuples significa ‘ricco’ in quanto ‘pieno di terra’ (da locus=‘terra’ + ples=‘più’, ‘molto’), sembra più plausibile pensare ad una diffusione di tale significato all’epoca della diffusione del latifondo (grosso modo l’età cesariana, cioè la parte centrale del primo secolo a.C.) che non all’epoca di Sesto Elio, soprattutto accettando una datazione alta dei Tripertita (200/198 a.C.). In quest’epoca siamo ancora lontani dalla legge agraria epigrafica del 111 a.C. in cui viene riconosciuto pieno valore giuridico al possesso dell’ager privatus da parte dei singoli cittadini. È vero che Gellio dirà in 16.10.15: “Adsiduus” in XII tabulis pro locuplete et facile facienti dictus aut ab assiduis id est aere dando, cum id tempora reipublicae postularent, aut a muneris pro familiari copia faciendi adsiduitate, ma va notata la differenza rispetto al passo del Digesto di Gaio (D. 50.16.234) in cui il giurista, per indicare il ‘patrimonio familiare’, usa più tecnicamente il termine res (qui satis idonee habet pro magnitudine rei); osservando cioè anche in questo caso (forse) un topos della scuola sabiniana. Diversamente Gellio potrebbe aver restituito in modo atecnico l’espressione con la perifrasi pro familiari copia forse perché documentatosi su un diverso filone di trasmissione della tradizione testuale.

 

[97] M. Weber, RAG. 68, nt. 36=MWG. I-2 159, nt. 36=SAR. 194, nt. 40; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 108.

 

[98] Si veda S. Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones (Napoli 1996) 231 ss. Interessante la seguente affermazione: “Con l’appellatio di fundi si intendeva – secondo Fiorentino – omne aedificium e omnis ager. Dall’usus si chiamavano aedes gli aedificia urbana e villae quelli rustici. Un luogo privo di aedificium era detto se in urbe, area, se in campagna, ager. Fundus era anche l’ager cum aedificio. Era dunque l’uso ‘dei parlanti’ a determinare la distinzione tra aedes e villae, area e ager”. Viene in mente la nota definizione festina di fundus: Fest. sv. Fundus (L. 79, 3): Fundus quoque dicitur populus esse rei, quam alienat, hoc est auctor. Sulla nozione di fundus cfr. L. Capogrossi Colognesi, Alcuni aspetti dell’organizzazione fondiaria romana nella tarda Repubblica e nel Principato, in Klio 63 (1981) 351 ss.; P.W. De Neeve, Fundus as econimic unit, in TR. 52 (1984) 3 ss. Sul frammento di Fiorentino v. O. Behrends, Bodenhoheit und privates Bodeneigentum im Grenzwesen Roms, in O. Behrends - L. Capogrossi Colognesi (edd.), Die römische Feldmeßkunst (Göttingen 1992) 259 ss. In realtà i giureconsulti romani tendono a voler fissare i concetti di ‘ager’, ‘fundus’ e ‘possessio’, ma si vede che è argomento tutt’altro che pacifico. Insieme a D. 50.16.60 e D. 50.16.211 anche D. 50.16.115 (Iav. 4 epist.): Quaestio est, fundus a possessione vel agro vel praedio quid distet. ‘fundus’ est omne quidquid solo tenetur. ‘ager’ est, si species fundi ad usum hominis comparatur. ‘possessio’ ab agro iuris proprietate distat: quidquid enim adprehendimus, cuius proprietas ad nos non pertinet aut nec potest pertinere, hoc possessionem appellamus: possessio ergo usus, ager proprietas loci est. ‘praedium’ utriusque supra scriptae generale nomen est: nam et ager et possessio huius appellationis species sunt, il cui autore fu console nel 90 d.C. [v. C. Ferrini, Il Digesto (Milano 1893) 84], dimostra che il dibattito fu ripreso costantemente dai giuristi dell’età classica.

 

[99] Lex agraria: l. 8: utei ceterorum locorum agrorum aedificiorum privatorum est, esto; ll. 9 e 10: agrum, locum aedificium possessionem ex lege plebeive scito; l. 12: ager locus aedificium privatus siet. Si v. anche retro, p. 83 ss.

 

[100] È la tesi di fondo di M. Guarnacci, Origini Italiche (in tre voll.) (Lucca 1772) in un’opera dedicata alla rivalutazione dell’importanza del ruolo avuto dalla cultura etrusca nell’Italia pre-romana. Su questi temi v. anche C. De Simone, I Tirreni e Lemnos. Evidenza linguistica e tradizioni storiche (Firenze 1996); A. Giardina, L’identità incompiuta dell’Italia romana 46; P. Casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito (Bologna 1998) 212 ss.

 

[101] M. Bretone, Storia del diritto romano 414. Cicerone attesta che Varrone fu allievo di Elio Stilone Preconiano (Cic. Brut. 56.205) ed è molto probabile che quest’ultimo fece un commento alle XII tavole in cui l’attenzione agli aspetti linguistici ed ai significati delle parole fu massima. Così anche nell’Introduzione si veda I. Ramelli (ed.), Marziano Capella, Le nozze di Filologia e Mercurio (Milano 2001) XXVIII: “Elio Stilone, vissuto tra la seconda metà del II sec. a.C. e la prima metà del primo, al quale Lucilio dedicò un intero libro delle sue satire (si veda la Retorica ad Erennio, IV 2), fu uno dei primi e dei maggiori grammatici e filologi romani, versato sia nel latino sia nel greco (Cicerone, Bruto, 56). Scrisse orazioni, commenti alle commedie di Plauto, alle leggi delle XII tavole, ai canti dei Salii”. Non sarei infatti così schematico [così in H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta (1907, Stuttgart rist. 1969) 51 ss.] nel definire Stilone soltanto un grammatico. Questi aveva compilato degli Aeliana studia e potrebbe aver redatto anche un vero e proprio commento alle XII tavole: Cic. de or. 1.43.193: sive quem haec Aeliana studia delectant, plurima est et in omni iure civili et in pontificum libris et in XII tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum vetustas prisca cognoscitur et actionum genera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant [G. Norcio (cur.), Opere retoriche di M. Tullio Cicerone. Volume primo. De Oratore, Brutus, Orator 188, nt. 119 attribuisce il riferimento di Cicerone agli Aeliana studia in 1.43.193 all’opera di Stilone. Secondo M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani2 (Napoli 1982) 54 la citazione di Cic. de or. 1.43.193 sarebbe inutilizzable per Sesto Elio. Il rilievo fra l’altro è all’opera di P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, 1 Bis auf die Catonen (1888) 104-112]. Se Sesto Elio in sede di commento alle XII tavole si è posto dei problemi da filologo, Elio Stilone potrebbe essersi posto dei problemi da giurista.

 

[102] Cfr. con bibl. ivi G. Franciosi, La famiglia romana. Società e diritto (Torino 2003) 29 e passim.

 

[103] Su questi temi rinvio a O. Sacchi, Il mito del pius agricola 45.

 

[104] Secondo G. Franciosi, Usucapio pro herede 29, nt. 69: “Proprio l’interpretazione estensiva della disposizione sui fundi (la norma decemvirale sull’usus biennale di fundi e aedes, n.d.r.) condusse a considerare tali le aedes, oltre che gli agri. Di qui la distinzione tra fondi urbani e fondi rustici (n.d.r., in D. 50.16.211)”. Il che potrebbe voler significare che l’estensione della norma sull’usucapione biennale dei fundi alle aedes cone conseguenza dell’opera interpretativa dei giuristi romani all’epoca della legge del 111 a.C. non era stata ancora compiuta. C’è da considerare un’altra questione che è sempre collegata al significato più risalente della parola fundus. In Front. de limit. (Lach. 29,30=Thul. 13,20) si legge: Hi duo fundi iuncti iugerum definiunt. La circostanza non è sfuggita a B. Brugi, Le dottrine giuridiche degli Agrimensori Romani comparate a quelle del digesto (Verona-Padova 1897) 254 s. per il quale (p. 255): “‘Fundus’ era dunque in origine una misura fissa di terra”. Frontino attesta anche che il fundus, come misura fissa di terra, corrispondeva a mezzo iugero, dalché è facile calcolare che due fundi corrispondevano a un iugero; due iugeri all’ager quadratus (=quattro fundi), cioè il fondo in senso più tardo di sors ovvero di actus. La centuria era costituita invece da cento sortes, corrispondenti a 200 iugeri, cioè: 100 x 1 unità di bina iugera=heredium=acnua etrusco. L’idea del fundus come unità di misura fissa di terra attestata da Frontino dimostra che Weber aveva ragione affermando che in origine ‘fundus’ indicasse il diritto stesso di appartenere ad una determinata comunità. Cfr. M. Weber, RAG. 81-83=MWG. I-2 171-173=SAR. 60. Vedi anche B. Brugi, Le dottrine giuridiche 255, nt. 49; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 84 e nt. 26. Interessante il richiamo alla legis actio sacramento in rem che per Weber, in base a Gai. 4.16-17, sarebbe stata una rivendicazione del fondo nella sua totalità, cioè una vindicatio fundi come controversia di status e per questo, quindi, bilaterale. Tutto questo dimostra però che la mancanza nella legge del 111 a.C. della parola fundus non è casuale ma risponde a delle precise ragioni di ordine storico giuridico. Sulla nozione di fundus come terreno ‘privato’ v. G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 47, nt. 119.

 

[105] Sul punto M. Bretone, Storia del diritto romano 270, nt. 70.

 

[106] Si veda anche J. Peyras, Le fundus Aufidianus: étude d’un grand domaine de la région de Mateir (Tunisie du Nord), in Ant. Afr. 9 (1975) 181 ss.; A. Marcone, Storia dell’agricoltura romana. Dal mondo arcaico all’età imperiale (Roma 1997) 189.

 

[107] Varro l.L. 7.2.18: Ut ager Tusculanus, sic Calydonius ager est, non terra; sed lege poetica, quod terra áAñetolia in qua Calydon, a parte totam accipi áAñetoliam voluit; l.L. 5.5.33: Ut nostri augures publici disserunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus. Per completezza di informazione si deve anche ricordare la distinzione ‘atecnica’ (nel senso di ‘non giuridica’) di agri, sempre di Varrone, in Isid. etym. 15.13.6: Omnis autem ager, ut Varro docet, quadrifarius dividitur: aut enim arvus est ager, id est sationalis; aut consitus, id est aptus arboribus; aut pascuus, qui herbis tantum et animalibus vacat; aut florus, quod sunt horti apibus congruentes et floribus. Quod etiam Vergilius in quattuor libros Georgicorum secutus est. Come si vede, a questa distinzione pare che Virgilio si sia ispirato per lo schema di redazione dei quattro libri delle Georgiche.

 

[108] L’indicazione è presente anche nella linea 16 anche se meno chiaramente leggibile: veteri possesori prove ve]tere possesionem dedit adsignavit reddidit, quodque eius agri III. Nel linguaggio della giurisprudenza classica a partire da Labeone, ma usa l’espressione anche Papiniano (anche se in tema di possesso di res mobiles), il sintagma veteres possessores acquista un significato abbastanza preciso. In base a D. 43.16.1.28 (Ulp. 69 ad ed.) vetus possessor parte della dottrina ha creduto di poter enucleare la seguente ricostruzione: vetus possessor potrebbe essere il possessore di terra che sia stato privato violentemente del possesso in tempi recenti. D. 43.16.1.28: Vi possidere eum definiendum est, qui expulso vetere possessore adquisitam per vim possessionem optinet aut qui in hoc ipsum aptatus et praeparatus venit ut contra bonos mores auxilio, ne prohiberi possit ingrediens in possessionem, facit. sed qui per vim possessionem suam retinuerit, Labeo ait non vi possidere. Cfr. anche D. 41.2.47 pr. (Papin. 26 quaest.) e Hyg. grom. de lim. const. (Lach. 202,13=Thul. 165,12): adsignatum per professionem veterum possessorum, reddita veteri possessori. A. Lintott, Judicial reform 205 in base a tale presupposto suggerisce che la figura del pro vetere possessore potrebbe essere quella di colui che sarebbe stato il legittimo possessore della terra da cui sarebbe stato spossessato e che poi i triumviri avrebbero considerato alla stregua di un vetus possessor.

 

[109] Th. Mommsen, Gesammelte Schriften 1.96 s.: “vetus autem possessor videtur is esse, qui tum occupavit agrum publicum, cum occupare licuit” si riferisce alle indicazioni delle linee 13, 16, 17 e 21.

 

[110] Th. Mommsen, Gesammelte Schriften 1.97; K. Johannsen, Die lex agraria 201.

 

[111] A. Lintott, Judicial reform 205.

 

[112] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.153. Igino gromatico dà questa nozione di vetus possessor: Hyg. grom. const. (Thul. 142): sicut in Campania finibus Minturnensium; quorum nova adsignatio trans fluvium Lirem limitibus continetur; citra Lirem postea adsignatum per professiones veterum possessorum; Hyg. grom. const. (Thul. 165): Omnes aeris significationes et formis et tabulis aeris inscribemus, data adsignata, concessa, excepta, reddita, commutata pro suo, reddita veteri possessori, et quaecumque alia inscriptio singularum litterarum in usu fuerit, et in aere permaneat. È evidente che vetus possessor nell’ottica dei Gromatici fosse colui che aveva ricevuto un lotto di terra in concessione, in cambio di uno ricevuto in concessione, ovvero in conseguenza dell’esito di un’azione giudiziaria.

 

[113] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.154: “The inscription on a cippus from Rocca San Felice…is of no help”.

 

[114] Di recente è stata formulata una nuova ipotesi sulla natura dei veteres possessores menzionati nella legge del 111. Secondo L. de Ligt, Studies in legal and agrarian history III: Appian and the lex Thoria, in Athenaeum 89 (2001) 122, i veteres possessores sarebbero coloro che nel 133 a.C. (cioè sotto il consolato di P. Mucio e Cn. Calpurnio) si sarebbero trovati nella condizione di possedere una quantità eccessiva di ager publicus e che si videro conferire il possesso di 500 iugeri più 250 per ogni figlio fino alla concorrenza di due. Secondo Stockton a questa categoria di possessori sarebbe stato consentito di tenere il terreno non eccedente tali misure anche se, per estensione analogica, di quanto afferma Plutarco in C.Gracc. 9 a proposito della lex Sempronia del 123 a.C., dietro il pagamento di un piccolo canone (¢pofor£). Cfr. Erod. 2.109. Il dato significativo sarebbe che i Gracchi avrebbero inteso dare stabilità (‘secure title’) ai possedimenti che non eccedessero il modus stabilito dai tribuni e la legge del 111 avrebbe confermato questa stabilità che si traduceva nella irrevocabilità delle concessioni. Semmai vi sarebbe incertezza sulla natura di questa stabilità. E si ritorna allora alla vexata quaestio sulla natura giuridica delle concessioni date ai veteres possessores (che è lo stesso di quella della natura giuridica dei terreni dichiarati ager privatus): si dubita ancora se tali concessioni debbano interpretarsi come forme di proprietà o di possesso. Cfr. A. Lintott, Judicial reform 210; K. Johannsen, Die lex agraria 255; D.J. Gargola, Lands, laws, & Gods. Magistrates & Ceremony in the Regulation of Public Lands in Republican Rome (Chapel Hill 1995) 149: “According to Appian (BC. 1.11), the law instructed that possessores receive secure tenure, probably ex iure Quiritium, of the lands they continued to occupy within the legal limits”.

 

[115] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.154 contesta l’impostazione del Mommsen in base ai seguenti argomenti: a) cominciamo dal primo: “‘antiquity’ of possession is no interest under the Roman law of property in general, once the two years nec essary to usucape private land have passed”. Il regime della possessio dell’ager publicus e i suoi riflessi giuridici sfuggono a schematismi di questo tipo che appaiono suferficiali e privi di senso storico. Per l’epoca della lex epigrafica non è possibile mettere sullo stesso piano la possessio dell’ager publicus con la possessio quale requisito per l’acquisto della proprietà delle res mediante usucapio. Ma sul punto dovrò ritornare. b) il richiamo a D. 43.16.1 e D. 41.2.47 pr. per qualificare la categoria di veteres possessores usata in questo contesto è quanto meno discutibile. Il primo, che ho riportato in nota x perché usato come argomento anche dal Lintott, riguarda il problema del possesso violento che abbia avuto origine da un’azione violenta. Qui il vetus possessor è colui che è stato spogliato con violenza di questo. Dunque poca attinenza con la questione che stiamo trattando. Il secondo passo tratto dal ventiseiesimo liber quaestionum di Emilio Papiniano usa l’espressione a proposito della disciplina dei danni occorsi ai precedenti possessori in materia di deposito e comodato e viene menzionato un parere di Nerva figlio in tema di usucapione. Dunque, niente di più lontano dal nostro problema. c) Il terzo argomento è così esposto: “And the only texts of the Agrimensores whic are explicit on the subject suggest very strongly that for them a vetus possessor was someone who had possessed ager publicus and whose claim to possession, wheter to the original piece of land or to one received in substitution for it, had been endorsed by a judicial process (see below)”. Critica metodologica all’uso delle fonti gromatiche per spiegare questioni attinenti al problema dell’ager publicus.

 

[116] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.154.

 

[117] Sulla storicità della lex Licinia Sextia agraria si veda lo stato della questione in A. Manzo, La lex Licinia Sextia de modo agrorum 19 ss. Sul punto è il caso di ricordare la posizione di Max Weber il quale sostiene [in RAG. 130, nt. 11=MGW. I-2 216 s. e nt. 11=SAR. 90 e 206 ss., nt. 15] la tesi radicale della inesistenza di tale legge, considerata una proiezione all’indietro delle leges Semproniae fatta dall’annalistica per dare un avallo alla tradizione. In tal senso R. Maschke, Zur theorie und Geschichte der römischen Agrargesetze, cit., p. 56 ss.; F. Bozza, La possessio dell’ager publicus, cit., p. 167 ss. Tra gli altri anche E. Sereni, Comunità rurali nell’Italia antica (Roma 1955) 37; V. A. Sirago, L‘agricoltura italiana nel II sec. a.C. (Napoli 1971) 72. Contra W. Soltau, Die Aechtheit des licinischen Ackergesetzes von 367 v. Chr., in Hermes 30 (1895) 624 ss.; C. Trapenard, L‘ager scripturarius. Contribution a l’histoire de la propriété collective (Paris 1908) 108 ss., 120 ss.; E. Pais, Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli (Roma 1918) 3.95 ss. Su tutto ora L. Labruna, Tutela del possesso fondiario 130 e passim; D. Mantovani, L’occupazione dell’ager publicus e le sue regole prima del 367 a.C., in Athenaeum 85 (1997) 583 ss.; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 136 e nt. 34.

 

[118] Appian. b.civ. 1.37. Cfr. M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.155. E. Badian, Tiberius Gracchus and the beginning of the Roman revolution, in ANRW. 1.1 (1972) 702 s. respinge la notizia desumibile da Liv. per. 58; de vir. ill. 64.3 per cui il limite massimo di terra sarebbe quello di 1000 iugeri in base al fatto che solo due figli avrebbero potuto reclamare la terra.

 

[119] Cfr. A. Lintott, Judicial reform 205.

 

[120] F.T. Hinrichs, Die römische Srassenbau zur Zeit der Gracchen, in Historia 16 (1967) 162 ss.; Id., Die Geschichte der gromatischen Institutionen. Untersuchungen zu Landverteilung, Landvermessung, Bodenverwaltung und Bodenrecht im römischen Reich (Wiesbaden 1974); Id., Die lex agraria des Jahres 111 v. Chr. 252-307; K. Johannsen, Die lex agraria 98 s.

 

[121] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.154.

 

[122] A. Lintott, Judicial reform 206.

 

[123] La prima commissione triumvirale fi costituita da Tiberio Gracco, suo fratello Gaio e suo suocero Appio Claudio. Alla morte di Tiberio subentrò P. Licinio Crasso, suocero di Gaio (v. Plut. T.Gracc. 21.2). Alla morte di Appio Claudio e Licinio Crasso, nel 129 a.C., la commissione fu costituita da Gaio, Fulvio Flacco e Papirio Carbone (Appian. b.civ. 1.18). Alla morte di Gaio e Flacco, nel 120 a.C. subentrarono Sulpicio Galba e Calpurnio Bestia: CIL. 8.12353. Nel 119, con la morte di Papirio Carbone, il triuvirato cesso di esistere. Svolse quindi la sua attività lungo un arco temporale di 14 anni: dal 133 al 120 a.C. incluso. Sul punto si veda V.A. Sirago, Storia agraria romana 1. Fase ascensionale (Napoli 1995) 313, nt. 30 che richiama J. Carcopino, Autour des Gracques (Paris 1928). Anche E. Gabba, Il tentativo dei Gracchi, in Storia di Roma 2. L’impero mediterraneo. I. La repubblica imperiale (Torino 1990) 671 ss.

 

[124] Si veda Ch. Saumagne, Sur la loi agraire de 643/111 66 ss.

 

[125] Th. Mommsen, CIL. 12, 87=Gesammelte Schriften 97; M. Kaser, Die Typen der römischen Bodenrechte in der späteren Republik 11 s.; A. Burdese, Studi sull’ager publicus (Torino 1952) 78. F. De Martino, Storia della Costituzione Romana 32 (Napoli 1973) 18, nt. 15. Contrario è Ch. Saumagne, Sur la loi agraire de 643/111 50 ss. il quale sostiene che le deduzioni coloniarie comportavano il conferimento della proprietà quiritaria, ma F. De Martino (ibidem) obietta che la deduzione di colonie avveniva mediante leggi diverse come fu per Taranto (lex Sempronia) e Cartagine (lex Rubria). Sulla fondazione di una colonia a Capua e sul problema in generale del rapporto tra le assegnazioni di ager publicus e la proprietà quiritaria si v. infra, p.463 ss. e 203 ss.

 

[126] Th. Mommsen, Gesammelte Schriften 1.102; Ch. Saumagne, Sur la loi agraire 68.

 

[127] Ch. Saumagne, Sur la loi agraire 64.

 

[128] Sulle attribuzioni viritane v. Varrone dove troviamo anche la definizione di heredium, di centuria e di saltus: r.r. 1.10.2: Bina iugera quod a Romulo primum divisa dicebantur viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt. Haec postea centum centuria. Centuria est quadrata, in omnes quattuor partes ut habeat latera longa pedum ∞ CD. Hae porro quattuor, centuriae coniunctae ut sint in utramque partem binae, appellantur in agris divisis viritim publice saltus. Si v. anche Cic. de re p. 2.14.26: Ac primum agros, quos bello Romulus ceperat, divisit viritim civibus docuitque sine depopulatione atque praeda posse eos colendis agris abundare commodis omnibus amoremque…; Liv. 1.46.1: (n.d.r., Tarquinio) conciliata prius voluntate plebis agro capto ex hostibus viritim diviso; 2.41.1 (Spurio Cassio); Liv. 42.4.3: Eodem anno, cum agri Ligustini et Gallici, quod bello captum erat, aliquantum vacaret, senatus consultum factum, ut is ager viritim divideretur; Dion. 8.72-73; Colum. 1 praef. 14; Varr. r.r. 1.2.7. Sul punto cfr. Ch. Saumagne, Sur la loi agraire 68.

 

[129] Liv. 4.49.6-11; Diod. Sic. 13.42.6. Cfr. G. Rotondi, Leges publicae populi romani 213; Ch. Saumagne, Sur la loi agraire 70.

 

[130] Th. Mommsen, Droit Publique 4.352. 1; Ch. Saumagne, Sur la loi agraire 71.

 

[131] A. Lintott, Judicial reform 206.

 

[132] Linea 17.

 

[133] Così A. Lintott, Judicial reform 206; L. de Ligt, Studies in legal and agrarian history III: Appian and the lex Thoria 122.

 

[134] Così A. Lintott, Judicial reform 207. Si v. anche K. Johannsen, Die lex agraria 217 ss.

 

[135] Cfr. B.G. Niebhur, Histoire romaine (in 7 voll.) (Paris tr. fr. M.P.A. De Golbéry 1830-1840) 4.194.

 

[136] Th. Mommsen, Gesammelte Schriften 110. Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana 32, 18, nt. 16.

 

[137] F. De Martino, ibidem; A.A.F. Rudorff, Zeit. f. gesch. R.W. (1842) 144.

 

[138] F. De Martino, ibidem; L. Zancan, Ager publicus 72. Cfr. linea 24: quoi IIIvir eum agrum locum pro eo agro loco, quo coloniam deduxit, dedit [reddidi]t adsignavitve; facitoque is pr(aetor) consolve, quo de ea re in ious aditum erit; linea 27 in cui si parla di ager commutatus: c]ommutavit, quo pro agro loco ex privato in publicum tantum modum agri locei commutav[it: is ager locus do]mneis privatus ita, utei quoi optuma lege privatus est, esto; linea 7: i]n terra…Italia IIIvir dedit adsignavit reliquit inve formas tabulasve retulit referive iusit: ager locus aedificium omnis quei supra scriptu[s.

 

[139] F. De Martino, Storia della costituzione romana 32, 24.

 

[140] Th. Mommsen, CIL. 12, 87; A.W. Zumpt, Commentationes Epigraphicae, cit., p. 210 s.

 

[141] Appian. b.civ. 1.18.74-77: “Ucciso Gracco e deceduto Appio Claudio, furono nominati al loro posto nel triumvirato agrario, con il più giovane Gracco. Fulvio Flacco e Papirio Carbone, e poiché i possessori di agro pubblico trascuravano di farne regolare dichiarazione, si bandì con un editto che degli accusatori avrebbero potuto presentare denunce. [74] Si ebbe subito, allora, un gran numero di difficili liti. E, difatti, quanto altro terreno, prossimo all’agro pubblico, era stato venduto o diviso fra gli alleati, su di esso, per misurare l’agro pubblico, era necessario svolgere un’inchiesta: come era stato venduto e come diviso. Ma non tutti avevano più titoli di vendita o di assegnazione e quelli che si ritrovavano erano dubbi. [75] Rifatta, inoltre, la misurazione dei terreni, taluni possessori venivano trasferiti da un terreno a piantagioni e fornito di cascine a terreni nudi; taluni da zone fruttifere ad altre sterili e piene di paludi e pantani: difatti, originariamente, non si era fatta la divisione trattandosi di terreni conquistati. [76] Inoltre, la disposizione che consentiva a chi voleva lavorare la terra indivisa aveva indotto molti a lavorare le terre vicine alle proprie, confondendo, così, la distinzione fra le pubbliche e le private. Il passar del tempo aveva, poi, mutato ogni cosa. [77] E l’ingiustizia dei ricchi, per quanto grande era difficile a riconoscere. Così non vi era altro che un generale trasferimento, poiché ognuno era trasportato e traslocato su terreni altrui” [tr. Gabba-Magnino 81, 83].

 

[142] A. Lintott, Judicial reform 207.

 

[143] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.158.

 

[144] K. Johannsen, Die lex agraria 221.

 

[145] A. Lintott, Judicial reform 208.

 

[146] Appian. b.civ. 1.7.26: RvmaÝoi t°n ƒItalÛan pol¡mÄ katŒ m¡rh xeiroæmenoi g°V m¡roV ¤lmbanon kaÜ pñleiV ¤nÐkizon ³ ¤V tŒV prñteron oësaV kleroæxouV Žpò sfÇn kat¡legon. [tr. Gabba-Magnino 67]: “I Romani, man mano che sottomettevano con le armi le regioni dell’Italia, si impadronivano di parte del territorio e vi fondavano delle città oppure nelle città già esistenti deducevano propri coloni”.

 

[147] Cfr. Appian. b.civ. 1.7.27 ss.

 

[148] A. Lintott, Judicial reform 208. Condivido la precisazione relativa all’indicazione agri locei publicei (linea 5) che l’autore riferisce ai suoli non edificati, in opposizione alla formula agrei locei aedific[iei (linea 6) che riguarderebbe i suoli ubicati all’interno di un perimetro urbano.

 

[149] F. De Martino, Storia della costituzione romana2 3, 18.

 

[150] F. De Martino, Storia della costituzione romana2 3.25. L’autore respinge l’ipotesi di L. Zancan, Ager publicus 86 per il quale gli Italici sarebbero stati esclusi dalle distribuzioni, anche ammettendo che C. Gracco riconobbe i diritti sanciti nei foedera. Cfr. anche F. De Martino, Storia della costituzione romana2 (Napoli 1973) 2.484.

 

[151] Sul punto S. Petrucci, Colonie romane e latine nel V e IV secolo a.C., in F. Serrao (cur.), Legge e società nella repubblica romana 2 (2000) 3 ss.; E. Hermon, Habiter et partager les terres avant les Gracques 75 ss., 203 ss. e passim; G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica 144 ss. In particolare possiamo ricordare le assegnazioni dell’ager Latinus, Privernas e Falernus del 340 e 338 a.C. Per le vicende relative alla romanizzazione dell’ager Campanus v. O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 97 ss. Nel 283 la fondazione della colonia romana di Sena Gallica. Per il 273 ricordiamo la deduzione delle colonie latine di Paestum e Cosa e le assegnazioni viritane di Manio Curio Dentato. Val. Max. 4.3.5. E. Hermon, Habiter et partager 249 ss. Nel 268 quella di Ariminum. Nel 232-228 a.C. fu promulgata la lex Flaminia de agro Piceno e Gallico viritim dividundo ad opera di Caio Flaminio Nepote. Cic. Brut. 14.57; de sen. 4.11; de inv. 2.17.52; acad. prior. 2.13; de leg. 3.8.20; Polyb. 2.21.7; Val. Max. 5.4.5; Cato orig. 2.10; Varro r.r. 1.2.7. E. Hermon, Habiter et partager 255 ss. Nel 173 si registrano le assegnazioni viritane dell’ager Ligustinus e Gallicus. Liv. 42.4.3.

 

[152] M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht (Stuttgart 1891) 18 ss.[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2: Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht, hg. von J. Deininger (Tübingen 1984) 112 ss.][=Storia agraria romana. Dal punto di vista del diritto pubblico e privato (tr. it. S. Franchi) (Milano 1982) 17 ss.]; Id., Agrarverhältnisse im Altertum 157[= Gesammelte Aufsätze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte3 224][= Storia economica e sociale dell’antichità 287]. Per un orientamento critico sulla Römische Agrargeschichte di Weber segnalo J. Deininger, Die antike Welt in der Sicht Max Webers (München 1987); L. Capogrossi Colognesi, Economie antiche e capitalismo moderno (Roma-Bari 1990); Id., Max Weber e le economie del mondo antico (Roma-Bari 2000); R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber 41 ss. e passim. P. Honigsheim, Max Weber as Historian of Agriculture and Rural Life, in Agricultural History 23 (1949) 195-197; A. Heuss, Max Webers Bedeutung für die Geschichte des griechisch-römischen Altertums, in Historische Zeitschrift, 201-3 (1965) 533-538; E. Sereni, Prefazione a SAR. pp. IX-XXI; A. Momigliano, Dopo Max Weber?, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa 8-4 (1978) 1318-1319; E. Narducci, Max Weber fra antichità e mondo moderno, in QS. 7.14 (1981) 33-35; E. Lepore, Dalle forme alla storia del mondo antico, in Pietro Rossi (cur.), Max Weber e l’analisi del mondo moderno (Torino 1981) 83-88; E. Lo Cascio, Appunti su Weber “teorico” dell’economia greco-romana, in Fenomenologia e società V-17 (1982) 123-128; Id., Weber e il “capitalismo antico”, in M. Losito-P. Schiera (curr.), Max Weber e le scienze sociali del suo tempo (Bologna 1988) 401-406; F. De Martino, Su Max Weber, l’economia antica e la storiografia dell’antichità, in Index 19 (1991) 459-473; F. Lamberti, L‘antichistica e Max Weber, in Labeo 38 (1992) 347-361; O. Behrends, Bodenhoeit und privates Bodeneigentum im Grenzwesen Roms, in O. Behrends-L. Capogrossi Colognesi (edd.), Die römische Feldmeßkunst, cit., p.207-210.

 

[153] M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 16[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2: Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats und Privatrecht 111][=Storia agraria romana 15 s.].

 

[154] Tac. ann. 14.27.2-3: non enim, ut olim, universae legiones deducebantur cum tribunis et centurionibus et sui cuiusque ordinis militibus, ut consensu et caritate rem publicam efficerent, sed ignoti inter se, diversis manipulis, sine rectore, sine adfectibus mutuis, quasi ex alio genere mortalium repente in unum collecti, numerus magis quam colonia. A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta 49.

 

[155] Hyg. grom. de lim. const. (Lach. 199,11 ss.=Thul. 162 s.): Agro limitato accepturorum comparationem faciemus ad modum acceptarum, quatenus centuria capere possit aestimabimus, et in sortem mittemus. solent enim culti agri ad pretium emeritorum aestimari. si in illa pertica centurias ducenum iugerum fecerimus et accipientibus dabuntur iugera sexagena sena besses, unam centuriam tres homines] accipere debebunt, in qua illis tres partes aequis frontibus de terminabimus. omnium nomina sortibus inscripta in urna mittemus, et prout exierint primam sortem centuriarum tollere debebunt. eodem exemplo et ceteri. quod si illis convenerit, ut conternati sortiri debeant, qui tres primam centuriarum sortem accipere debeant, conternationum factarum singula sortibus nomina inscribemus. ut si convenerit Licio Titio Luci filio, Seio Titi filio, Agerio Auli filio, veteranis legionis quintae Alaudae, ex eis unum sorti nomen inscribemus et quoto loco exierit notabimus. si conternationem urna faciet, singulis sortibus singulorum nomina inscribemus, et a primo usque ad tertium qui exierit erit prima conternatio. sic et reliquae. has conternationes sublata sorte quidam tabulas appellaverunt quoniam codicibus excipiebantur, et a prima cera primam tabulam appellaverunt. peracta deinde conternationum sortitione omnes centurias sortibus per singulas inscribemus et in urnam mittemus: inde quae centuria primum exierit, ad primam conternationem pertinebit. sit forte centuria D.D. XXXV. K. XLVII: hanc et prima tabula tres accipere debebunt. quod in aeris libris sic inscribemus: TABVLA PRIMA. D.D. XXXV V.K. XLVII L. TERENTIO L. FILIO POL(LIA) IVGERA XLVI, P. TARQVINIO CN. F. TER(ENTINA) IVGERA LXVI. eodem exemplo et ceteras sortes…

 

[156] Hyg. de lim. (Lach. 113,1 ss.=Thul. 73,6): Mensura peracta sorteásñ dividi debent, et inscribi nomina per decurias [per homines denos], [s]et in forma[s] sec[t]ari denum hominum acceptae, ut quot singuli accipere debent [decem] in unum coniungantur; et in sortem inscribi SORS PRIMA [I] D.D. I ET SECVNDVM ET III ET IIII CITRA CARDINEM ILLVM, quo usque mensura expleri decem hominum debebit, id est in quot centuriis; similiter [h]omnium decuriarum nomina in sortibus inscripta esse, qua parte quae aut quota sors modum habeat, utrum ultra et dextra, utrum sinistra et ultra, aut citra; deinde ex decuriis,| antequam sortes tollant, singulorum nomina in pittaciis et in sorticulis. et idáeoñ ipsi sortientur, ut sciant quis primo aut quoto cumque loco exeant. | Igitur omnem sortem ponere debent, in qua totius perticae modus adscriptus erit. haec sortitio ideo necessaria est, nequis queri possit, se ante debuisse sortem tollere et [in]meliorem fortasse potuisse incidere agri modum, aut sit disceptatio, quis ante sortem tollere debeat, cum omnes in aequo sint.

 

[157] M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 19 ss.[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2: Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 114 ss.][=Storia agraria romana 18 s.]. Cfr. anche M. Weber, Agrarverhältnisse im Altertum, in Handwörterbuch der Staatswissenschaften3 1 (Jena 1909) 157[=Gesammelte Aufsätze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte3, hg. von Marianne Weber (Tübingen 1988) 224][=Storia economica e sociale dell’antichità. 1. I rapporti agrari (tr. it. B. Spagnuolo Vigorita) (Roma 1981) 287]. Si tratterebbe di una specie di adattamento del sistema adottato per la ripartizione e la assegnazione dell’ager scamnatus rispetto al quale l’assegnazione avveniva per proximos possessionum rigores. Cfr. Front. de agr. qual. (Lach. 3,1=Thul. 1) e M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 26[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2: Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 120][=Storia agraria romana 22]. Su questo punto v. però la critica di Th. Mommsen, Zur römischen Bodenrecht [Rec. a M. Weber, Römische Agrargeschichte], in Hermes 27 (1892) 82 il quale ritiene che rigor, nell’ager scamnatus, sia semplicemente l’equivalente di limes, inficiando così una delle tesi portanti della Storia agraria romana sulla distinzione tra il sistema della centuriatio e quello della scamnatio. Cfr. sul punto R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber 91, ma anche 115 e passim.

 

[158] Th. Mommsen, Zur römischen Bodenrecht [Rec. a M. Weber, Römische Agrargeschichte], cit., p. 113.

 

[159] M. Weber, RAG. 28 s.=MWG. I-2 122 s.=SAR. 23 s. Non convince la critica specifica di B. Brugi [Le dottrine giuridiche degli Agrimensori Romani 143 s.] rivolta a Weber su questo punto: “Il Weber pensa che il carattere distintivo della assegnazione ‘per centurias’ dipenda soprattutto dalla mappa la quale non avrebbe riprodotto che i limiti estremi della centuria: or siccome non coincidono coi confini dei singoli possessi sarebbe mancata di regola ‘una rappresentazione cartografica di questi’. Si potrebbe quasi credere balenato qualche cosa di simile al pensiero di un commentatore di Frontino [2, 12]. Invece nell‘ager scamnatus’ il suolo sarebbe stato assegnato ‘per proximos possessionum rigores’ [3,1], cioè, spiega il Weber, ‘secondo i prossimi confini dei possedimenti’. La mappa avrebbe rappresentato con precisione all’occhio i singoli fondi. La prima divisione sarebbe adatta ad un suolo in cui non non v’è altro bisogno di identificare il fondo: la seconda gioverebbe al fisco per questa identificazione. Tale spiegazione non sembra appoggiata dalle fonti. Si osservi che già dai tempi di Augusto si volle anche nella ‘centuriatio’ una rappresentazione dei confini di ogni possedimento [172,6], forse perché, perduta la corrispondenza tra i duecento iugeri e i cento possessori, restava ormai difficile verificare, ad es. per il censo, la situazione dei fondi”. Un’altra critica all’ipotesi di Weber sulla corrispondenza ager scamnatus-ager publicus/centuriatio-ager privatus viene da E. Beaudouin [La limitation des fonds de terre dans ses rapports avec le droit de propriètè (Paris 1894) 84 ss.]. Secondo tale autore le forme agrimensorie non avrebbero presupposto alcuna particolare disciplina giuridica, ma sarebbero state dettate solo da necessità tecniche di ordine topografico. Sul punto v. anche L. Zancan, Ager publicus 6 ss.; A. Burdese, Studi sull’ager publicus 16 ss.; L. Bove, Ricerche sugli agri vectigales (Napoli 1959) 17 ss. e passim; F. De Martino, Storia della costituzione romana2 2.459 ss.; 3.10 ss.; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 92, nt. 46.

 

[160] G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica 145. Per Weber, il modus agri può essere visto come un retaggio dei tempi della Haufenverfassung e del principio delle quote di partecipazione agraria. Sarebbe stato proprio per questo che la mancipatio sarebbe sopravvissuta e si si sarebbe adattata alle nuove condizioni dettate dalla costituzione dei nuovi assetti territoriali. Nella forma, infatti, come strumento di registrazione catastale della centuriatio sarebbe stata registrata insieme al nome degli assegnatari, solo la quota loro assegnata, senza l’indicazione dei confini delle singole proprietà. L’indicazione di Igino è chiara: namque antiqui plurimum videbantur praestitisse, quod extremis in finibus divisionis non pleniis centuriis modum formis adscripserunt. Cfr. M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 25 ss.[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2: Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 119 s.][=Storia agraria romana 21 s.]. Weber basa il suo ragionamento su Hyg. de cond. agr. (Lach. 121,8=Thulin 84,9): cum in Pannonia[m] agros veteranis ex voluntate et liberalitate imperatoris Traiani Augusti Germanici adsignaret, in aere, id est in formis, non tantum modum quem adsignabat adscribsit aut notavit, sed et extrema linea unius cuiusque modum comprehendit: uti acta est mensura adsignationis, ita inscribsit longitudinis et latitudinis modum. quo |facto nullae inter veteranos lites contentionesque ex his terris nasci poterunt. namque antiqui plurimum videbantur praestitisse, quod extremis in finibus divisionis non pleniaes centuriis modum formis adscribserunt. Cfr. anche R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber 115.

 

[161] Il discorso che si sta facendo riguarda il modus concepito come ‘misura’, in particolare come ‘misura del fondo’ (modus agri). Sull’uso nel linguaggio comune e giuridico del termine modus nel significato di misura cfr. A.E. Forcellini-V. De Vit, sv. Modus, in Totius latinitatis Lexicon 4 (Prati 1868) 154 s.; K.E. Georges, sv. Modus, in Ausführliches Lateinisch-Deutsches Handwörterbuch 2 (Leipzig 1880) 860 ss.; A. Walde-J.B. Hofmann, sv. Modus, in Lateinisches etymologisches Wörterbuch3 2 (Heidelberg 1965) 99 s.; E. Brandt-A. Lumpe, sv. Modus, in Thesaurus linguae Latinae, 8 (Lipsiae 1936-1966) 1264 ss.; A. Ernout-A. Meillet, sv. Modus, in Dictionnaire étimologique de la langue latine4 (Paris 1979) 408 s.; J. Pokorny, sv. Modus, in Indogermanisches etymologisches Wörterbuch3 1 (Tübingen-Basel 1959) 705. Si v. sul punto M.F. Cursi, Modus servitutis. Il ruolo dell’autonomia privata nella costruzione del sistema tipico delle servitù prediali (Napoli 1999) 22 s. e passim che, fra l’altro, collega (p. 22, nt. 61) l’interpretazione del valore semantico di modus in Émile Benveniste [Il vocabolario della istituzioni indoeuropee 2.376 ss. come: “una misura imposta alle cose, una misura di cui si è padroni e che presuppone riflessione e scelta, che presuppone anche una decisione”] a Verg. gramm. epit. fr. 22a [GrL. 8 Hagen 196]: modus non aliud quam certam mensuram significat, ravvisando che (ibidem): “la qualificazione certa della misura richiama l’attenzione sull’intervento di chi fissa la misura della cosa”. In G. Semerano, sv. modus, in Le origini della cultura europea 1(2).475, il vocabolo latino modus, nel significato di ‘misura’, ‘maniera’, viene ricollegato all’accadico mada\du che significa ‘misurare’, ‘to measure’, ‘vermessen’.

 

[162] Applicando il metodo induttivo Weber [RAG. 18=MWG. I-2 113=SAR. 17] infatti arriva a congetturare su una organizzazione delle colonie più risalente, anteriore alle XII tavole, per nulla suffragata dalle fonti, che sarebbe la continuazione dell’esperienza collettivistica dei villaggi. Un altro tipo di colonizzazione sarebbe quello volto alla creazione di fattorie isolate. Il particolare forse è sfuggito ai più perché come rileva giustamente Realino Marra nell’edizione italiana della storia agraria romana tale sfumatura del pensiero di Weber sarebbe stata nascosta da un’infelice traduzione del testo. Le parole di Weber sono: “die ersten coloniae der Zeit einer gemein wirtschaftlichen Agrarverfassung noch angehören oder naheliegen”. Nella versione italiana il traduttore considera der Zeit come un genitivo (‘le prime colonie dell’epoca fanno parte’, e così via), laddove sarebbe stato forse meglio rendere: ‘le prime colonie appartengono ancora, o quanto meno sono prossime, al tempo di un’organizzazione agraria collettivistica’. Sul punto v. R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 76, nt. 11.

 

[163] G. Franciosi, Manuale di storia del diritto romano2 (Napoli 2001) 153 ss. Cfr. Appian. b.civ. 1.11.46. Si v. sul punto anche L. de Ligt, Studies in legal and agrarian history III: Appian and the lex Thoria 122.

 

[164] La formula agri late patentes publici privatique è confermata da Isidoro su cui v. infra. Per i rilievi di carattere esegetico v. con bibl. F. Serrao, Diritto privato economia e società 384 ss. Come si vede il glossografo, che tuttavia non è un abuso pensare di far risalire a Verrio Flacco, per descrivere la situazione giuridica dei possessori di agri publici privatique usa ancora espressioni come quelle del legislatore della legge agraria epigrafica (non mancipatione, sed usu tenebantur). Cfr. sul punto M. Lauria, Possessiones. Età repubblicana2 (Napoli 1957) 32 e ss. Per il rapporto tra Festo e il de verborum significatu di Verrio Flacco v. F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco (Milano 1964) 1-188. Esegesi puntuale e riferimenti bibl. sulla glossa di Festo (L. 277,4) in G. Falcone, Sull’origine dell’interdetto uti possidetis 193 ss. e passim.

 

[165] M. Bretone, I fondamenti del diritto romano 208. Sul significato di modus agri come ‘misura del fondo’ richiamato dalle fonti giuridiche cfr. D. 8.3.17 pr. (Pap. Iust. 1 const.); 8.3.25 (Pomp. 34 ad Sab.); 10.1.7 (Mod. 11 pand.); 11.6.1 pr. (Ulp. 24 ad ed.); 11.6.1.3; 11.6.5 pr.; 18.1.40 pr. (Paul. 4 ep. Alf. dig.); 18.1.51 (Paul. 21 ad ed.); 18.6.7.1 (Paul. 5 ad Sab.); 19.1.2 pr.; 19.1.4.1; 19.1.6 pr. (Pomp. 9 ad Sab.); 19.1.13.14 (Ulp. 32 ad ed.); 19.1.22 (Iul. 7 dig.); 19.1.42 (Paul. 2 quaest.); 21.2.64.3 (Pap. 7 quaest.); 21.2.69.6 (Scaev. 2 quaest.); 50.1.36.1 (Mod. 1 resp.); 50.15.4.1 (Ulp. 3 de cens.); 50.15.5 pr. (Pap. 19 resp.); PS. 1.19.1; 2.17.4; CTh. 2.26.2; C. 3.34.12; 3.39.4. Per le fonti gromatiche cfr. la voce Modus, in Thesaurus linguae latinae, cit., 1264 ss. Su tutto M.F. Cursi, Modus servitutis 23, nt. 64 e passim.

 

[166] Mi limito in questa sede solo ad un accenno, ma si potrebbe riconoscere dietro quest’impostazione del regime giuridico della possessio dell’ager publicus e privatus in chiave ‘astrattizzante’ una forte influenza muciana e della sua dottrina. Non dimentichiamo che dietro le riforme graccane c’era la consulenza giuridica dei Mucii e l’influenza filosofico-politica degli intellettuali del Circolo degli Scipioni che sappiamo fu molto caratterizzata dalle dottrine astrattizzanti dei pensatori greci. V. sul punto O. Sacchi, La nozione di ager publicus populi Romani 36 ss. Richiamo alla mente la famosa questione legata alla polemica tra Quinto Mucio e Servio Sulpicio Rufo sul rapporto tra pars e totum in D. 50.16.25.1 (Paul. 21 ad ed.): Quintus Mucius ait partis appellatione rem pro indiviso significari: nam quod pro diviso nostrum sit, id non partem, sed totum esse. Servius non ineleganter partis appellatione utrumque significari recentemente discussa in dottrina. La stessa influenza che si riscontra nel giurista/grammatico Gallo e in un altrettanto famoso frammento ulpianeo in cui Bretone coglie nettamente l’influenza muciana. Non a caso si parla della alienazione di un fondo mediante traditio. D. 8.4.6.1 (Ulp. 28 ad Sab.): Si quis partem aedium tradet vel partem fundi, non potest servitutem imponere, quia per partes servitus imponi non potest, sed nec adquiri. plane si divisit fundum regionibus et sic partem tradidit pro diviso, potest alterutri servitutem imponere, quia non est pars fundi, sed fundus. quod et in aedibus potest dici, si dominus pariete medio aedificato unam domum in duas diviserit, ut plerique faciunt: nam et hic pro duabus domibus accipi debet. Per la bibliografia e un’ulteriore approfondimento si v. G. Grosso, Corso di diritto romano. Le cose (Torino 1974) 105 ss.; M. Bretone, I fondamenti del diritto romano 184 ss.

 

[167] Sempre Igino in de cond. agr. (Lach. 121,9=Thul. 84), v. anche supra nt., mostra chiaramente quale fosse il limite del sistema basato sul modus agri. Traiano in fase di distribuzione ai suoi veterani della terra conquistata in Pannonia fece registarare nella forma i confini delle varie assegnazioni (cum in Pannonia[m] agros veteranis ex voluntate et liberalitate imperatoris Traiani Augusti Germanici adsignaret, in aere, id est in formis, non tantum modum quem adsignabat adscripsit aut notavit, sed et extrema linea unius cuiusque modum comprehendit: uti acta est mensura adsignationis, ita inscripsit longitudinis et latitudinis modum) proprio per evitare che nascessero delle controversie tra i suoi veterani (quo facto nullae inter veteranos lites contentionesque ex his terris nasci potuerunt). Ma v. anche, sulle difficoltate incontrate dai triumviri, Appian. b.civ. 1.18.74-77.

 

[168] Il modus agri presentava quindi un’ambiguità di fondo. Da un lato, fu evidentemente congegnato per assicurare l’uguaglianza formale e sostanziale degli assegnatari, dall’altro finirà con l’essere la causa della dissoluzione del principio di uguaglianza perché come scrive Realino Marra [Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber 116]: “Il pericolo di richieste di nuove misurazioni e quindi di una riassegnazione del modus agri con confini diversi [era] sempre in agguato. Una condizione di precarietà che stride, e non poco, con le esigenze di sicurezza e certezza dei rapporti proprietari”.

 

[169] Appian. b.civ. 3.2.5: “di necessità (n.d.r., i pretori) cercavano di conciliarsi il favore dei coloni con editti pretori e con vari accorgimenti, tra l’altro anche permettendo loro di vendere i lotti ricevuti, nonostante la legge ne vietasse l’alienazione prima che fossero passati vent’anni”.

 

[170] M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 60[=Max Weber Gesamtausgabe, I-2 151 s.][=Storia agraria romana 46].

 

[171] M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 85 [=Max Weber Gesamtausgabe, I-2 174 s.][=Storia agraria romana 62]. Cfr. anche M. Weber, Agrarverhältnisse im Altertum 157[=Gesammelte Aufsätze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte3 223 s.][=Storia economica e sociale dell’antichità 286 s.]; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber 116. Parla di ‘monolitismo gaiano’ G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica 127 ss.

 

[172] Così G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica 129. Ma già in Due ipotesi di interpretazione ‘formatrice’: dalle dodici tavole a Gai 2,42 e il caso dell’usucapio pro herede, in Nozione formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo (Napoli 1997) 247 ss. la tesi dello studioso era completamente sviluppata. Per il riscontro di un fenomeno analogo a proposito di tutela v. O. Sacchi, L’antica eredità e la tutela. Argomenti a favore del principio d’identità, in SDHI. 68 (2002) 589 ss.; Id., Il privilegio dell’esenzione dalla tutela per le vestali (Gai. 1.145). Elementi per una datazione tra innovazioni legislative ed elaborazione giurisprudenziale, in RIDA. 50 (2003) 317 ss. Il giurista dell’età degli Antonini, come è noto, riferisce della regola dell’usucapibilità biennale dei fondi in questo modo: Gai. 2.42: Usucapio mobilium quidam rerum anno completur, fundi vero et aedium biennio; et ita lege XII tabularum cautum est. Ed ancora: Gai. 2.54: Lex enim XII tabularum soli quidam res biennio usucapi iussit, ceteras vero anno. Siamo di fronte ad un topos della dottrina romanistica, per la verità messo molto poco in discussione finora, ma che tuttavia due frammenti ciceroniani mettono a durissima prova. Si tratta di due passi peraltro conosciutissimi: Cic. top. 4.23. Quoniam usus auctoritas fundi biennium est, sit etiam aedium. At in lege aedes non appellantur et sunt ceterarum rerum omnium quarum annus est usus e Cic. pro Caec. 19.54: Lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium; at utimur eodem iure in aedibus, quae in lege non appellantur. Come si vede nel testo decemvirale mancava la previsione della regola dell’usucapione biennale sulle aedes. Prima di chiudere questo capitolo sarà necessario approfondire questo aspetto per sfidare ciò che Gennaro Franciosi ha definito il ‘monolitismo gaiano’ in materia di usucapione dei beni immobili. M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 85 [=Max Weber Gesamtausgabe, I-2 174 s.][=Storia agraria romana 62]. Cfr. anche M. Weber, Agrarverhältnisse im Altertum 157[=Gesammelte Aufsätze zur Sozial und Wirtschaftsgeschichte3 223 s.][=Storia economica e sociale dell’antichità 286 s.]. Sarà altrettanto interessante verificare quando la giurisprudenza può aver esteso tale regola (valevole in epoca più antica soltanto per i fundi) anche alle aedes, ossia alle costruzioni o agli edifici (ma vedremo che anche questo dato va approfondito perché nella categoria delle aedes privatae potrebbero rientrare anche le sepolture e i tempietti del culto privati). Il Franciosi, con una serie di argomentazioni molto interessanti e sulla scorta di quanto aveva già dimostrato a proposito della assenza nel codice decemvirale di una norma sull’usucapione delle aedes, ha recentemente formulato l’ipotesi di origine postdecemvirale anche della regola dell’usucapibilità dei fondi. G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica 133 e ss. Se Franciosi avesse ragione, l’ipotesi sulla progressiva dissoluzione dei sistemi arcaici caratterizzati, come abbiamo visto, da una persistente idea di gestione collettiva della terra, di Weber, in sé assolutamente plausibile, si sarebbe formata però su un presupposto che non lo è altrettanto. Dato che Weber era convinto dell’origine decmvirale della regola sull’usucapione biennale dei fondi. Tutto questo naturalmente non è indifferente per la comprensione della dinamica del passaggio dalla possessio dell’ager publicus al dominium quiritario.

 

[173] M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats- und Privatrecht 85 [=Max Weber Gesamtausgabe, I-2 174 s.][=Storia agraria romana 62]. Cfr. anche M. Weber, Agrarverhältnisse im Altertum 157[=Gesammelte Aufsätze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte3 223 s.][=Storia economica e sociale dell’antichità 286 s.]; AV. 157; GASW. 223 s.; SES. 286 s.

 

[174] RAG. 68, nt. 36=MWG. I-2 159, nt. 36=SAR. 194, nt. 40; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 108.

 

[175] M. Weber, RAG. 98 s.=MWG. I-2 187 s.=SAR. 70 s.; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 109. Ma v. le critiche di F. De Martino, Su Max Weber 466 s. e O. Behrends, Bodenhoeit und privates Bodeneigentum im Grenzwesen Roms, cit., p. 209.

 

[176] M. Weber, RAG. 77 ss.=MWG. I-2 168 s.=SAR. 57 s.; R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo 109, nt. 76. Sull’actio de modo agri si v. Ph.E. Huschke, Über das Recht des nexum und das alte römische Schuldrecht (Leipzig 1846, rist. an. Aalen 1980) 176 ss.; A.F. Rudorff, Über die Litiscrescenz, in ZGR. 14 (1848) 417 ss.; O. Lenel, Quellenforschungen in den Edictommentaren, in ZSS. 3 (1882) 194[=Gesammelte Schriften 1 (Napoli 1990) 490]; M. Kaser, Das altrömische ius. Studien zur Rechtsvorstellung und Rechtsgeschichte der Römer (Göttiingen 1949) 131; O. Behrends, Der Zwölftafelprozess. Zur Geschichte des römischen Obligationenrechts (Göttingen 1974); Id., Das nexum im Manzipationsrecht oder die Ungeschichtlichikeit des Libraldarlehens, in RIDA. 21 (1974) 172 s. N. Donadio, L’actio de modo agri nel ricordo delle Pauli Sententiae, in Index 28 (2000) 313-340, a cui si rinvia per ulteriori ragguaglio bibl., sulla portata originario di questo rimedio processuale, afferma (p. 323): “La mia ipotesi è che essa (n.d.r. l’actio de modo agri), sorta per la mancipatio fundi sia rimasta, anche a seguito dell’affermarsi dell’emptio-venditio consensuale, connessa con l’alienazione di fondi italici”.

 

[177] Cfr. B. Brugi, Le dottrine giuridiche degli Agrimensori Romani 312.

 

[178] Sulla figura del manceps si può citare un passo di Festo epitomato da Paolo: Fest-Paul. sv. Manceps (L. 137,12): Manceps dicitur, qui quid a populo emit conducitve, quia manu sublata significat se auctorem emptionis esse: qui idem praes dicitur, quia tam debet praestare populo, quod promisit, quam is, qui pro eo praes factus est. Senonché un altro frammento dell’epitome paolina, molto più laconico, dà anche un‘idea diversa del manceps: Paul.-Fest. sv. Manceps (L. 115,19): Manceps dictus, quod manu capiatur. Se non avessimo anche il primo frammento saremmo portati a pensare che nel secolo esatto che passa dalla debellatio di Capua (211 a.C.) alla legge agraria (111 a.C.) il commercio fondiario fosse non solo molto fiorente, ma anche praticato con la forma negoziale della mancipatio, magari utilizzata in funzione astratta. Anche in questo caso Isidoro può essere di aiuto definendo il mancipium in questo modo: etym. 9.4.45: Mancipium est quidquid manu capi subdique potest, ut homo, equus, ovis. Haec enim animalia statim ut nata sunt, tunc videntur mancipium esse, quando capi sive domari coeperint. Nonostante dia una fonte del sesto secolo d.C. Isidoro non contempla i beni immobili nella definizione di mancipium. Questo vuol dire che trae tale definizione da una buona fonte e soprattutto molto risalente. Il quadro si fa ancora più chiaro se consideriamo che invece lo stesso autore usa il termine mancipatio già in forma astratta in etym. 5.25.23 a proposito della fiducia: Fiducia est, cum res aliqua sumendae mutuae pecuniae gratia vel mancipatur vel in iure ceditur, pur dando una definizione di mancipatio come modo di acquisto della proprietà a titolo derivativo di tipo tradizionale poco più avanti quando elenca le forme di acquisto della proprietà sulle res non contempla la traditio (l’elenco comprende infatti l’usus, l’usufructus, l’usucapio e la in iure cessio: etym. 5.25.28-32). Isid. etym. 5.25.31: mancipatio dicta est quia manu res capitur. Unde oportet eum, qui mancipio accipit, conprehendere id ipsum, quod ei mancipio datur.

 

[179] B. Brugi, Le dottrine giuridiche degli Agrimensori Romani 311: “La ‘controversia de modo’, ormai negli agrimensori avvicinata a quella ‘de loco’, avrebbe in origine avuto per oggetto un astratto numero di iugeri in qualche centuria, che taluno asserisce spettargli principalmente in base a una ‘mancipatio’, e dei quali domanda il possesso mediante una revisione di tutta l’‘adsignatio’ e quindi una nuova divisione. Ciò sarebbe confermato da Modestino e dagli stessi ‘auctores’. La ‘controv. de modo’ sarebbe quindi stata possibile soltanto nel suolo assegnato; ma, ammessa l’usucapione di taluni luoghi, quella figura originaria di ‘controv.’ si sarebbe modificata”.

 

[180] Si v. sul punto F.T. Hinrichs, Die lex agraria 266 e 260; F. Grelle, Ordinamento municipale e organizzazione territoriale nella Puglia romana, in L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di E. Lepore (Napoli 1995) 243 ss.

 

[181] Cfr. Varro l.L. 5.143; D. 18.7.5; Liv. 1.44.3 e ss.; Gell. 13.14.1; Cato in Serv. ad Aen. 5.755; Cic. de nat. deor. 3.40.94. Cfr. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia 479 ss. Riporto la definizione di urbs di Andrea Giardina [Perimetri, in A. Giardina (cur.), Roma antica (Roma-Bari 2000) 24 s.] che mi pare alquanto pertinente: “All’urbs – vale a dire alla città intesa in senso forte, come spazio dove una specifica topografia religiosa coincideva con una specifica topografia giuridica – si addicevano auspici particolari, poiché il suo suolo era diverso da tutti gli altri suoli calpestati dai romani. Anche per questo, il perimetro sacro (pomerium) poteva essere definito come il ‘limite degli auspici urbani’. Sia l’area dell’urbs, sia il territorio immediatamente adiacente a essa (il cosiddetto ager Romanus) erano ‘luoghi delimitati dalla parola e liberati’ (loci effati et liberati), spazi che gli auguri avevano circoscritto con la recitazione di una formula simbolica e quindi liberato da qualsiasi servitù divina suscettibile di provocare effetti nefasti. Ma l’urbs aveva un attributo in più: era uno spazio ‘inaugurato’. Questo significa che, nel suo caso, la delimitazione effettuata degli auguri era stata associata alla presa degli auspici”.

 

[182] In qualche caso il vicus appare contrapposto alla nozione di civitas. In materia di esenzione dai munera ritroviamo infatti il seguente passaggio in D. 50.5.2.8 (Ulp. 3 opinionum): Qui pueros primas litteras docent, immunitatem a civilibus muneribus non habent: sed ne cui eorum id quod supra vires sit indicatur, ad praesidis religionem pertinet, sive in civitatibus sive in vicis primas litteras magistri doceant. Così come in materia di legati: D. 30.1.73 (Gai. 3 de legatis ad ed. praet.): Vicis legata perinde licere capere atque civitatibus rescripto imperatoris nostri significatur. Ancora, Paolo occupandosi dell’editto de effusis in D. 9.3.6 (Paul. 19 ad ed.): hoc edictum non tantum ad civitates et vicos, sed et ad vias per quas vulgo iter fit, pertinet, contrappone la nozione di vicus a quella di civitas. In un altro frammento le strade adiacenti al vicus (viae vicinales) sembrano invece rientrare in una categoria autonoma contrapposta a quella delle vie pubbliche e private: D. 43.8.2.22 (Ulp. 68 ad ed.): Viarum quaedam publicae sunt, quaedam privatae, quaedam vicinales. publicam vias dicimus, quas Graeci Basilikavı, nostri praetorias, alii consulares vias appellant. privatae sunt, quas agrarias quidam dicunt, vicinales sunt viae, quae in vicis sunt vel quae in vicos ducunt. Sempre di Ulpiano ed egualmente riportato nel Digesto, in cui la qualifica di urbanitas per i praedia sembra aver origine non dal luogo ma dalla qualificazione di questo: D. 50.16.198 (Ulp. 2 de omnibus tribunalibus): ‘Urbana praedia’ omnia aedificia accipimus, non solum ea quae sunt in oppidis, sed et si forte stabula sunt vel alia meritoria in villis et vicis, vel si praetoria voluptati tantum deservientia: quia urbanum praedium non locus facit, sed materia. Colpisce la contrapposizione tra villae e vici, due tra gli elementi più caratterizzanti insieme agli acquedotti e ai monumenti funerari del suburbio di Roma, a partire dalla riorganizzazione di Augusto. Per usare una felice espressione di G. Traina, Ambiente e paesaggi 52 ss. il suburbio, per l’ideologia agraria, può essere considerato il vero limite della campagna civilizzata, ossia la fascia divisoria tra urbanitas e rusticitas. In senso tecnico il suburbio è il territorio di Roma (così come per la città italica lo è il suo ager). In senso giuridico religioso il confine di Roma era costituito dal pomerium per l’interno del quale, ad esempio, vigeva il divieto di avere sepoltura. Norma che, tranne pochissime eccezioni, non fu mai derogata. Le fonti del principato però considerano il suburbio in senso più ampio come suburbio italico: Plin. n.h. 16.33; Colum. 11.2.61 (suburbana regio Italiae). È il caso di fare qualche considerazione di carattere più generale. Come si vede, risulta un’operazione storicamente discutibile, cercare di spiegare la realtà arcaica ricorrendo a fonti di questo tenore. Anche per questo motivo penso che meritino maggiore attenzione Svetonio, e Dione Cassio. Secondo Suet. div. Aug. 30.1: Spatium urbis in regiones vicosque divisit instituique, ut illas annui magistratus sortitio tuerentur, hos magistri e plebe cuiusque viciniae lecti. Gli fa eco Dione Cassio che colloca il provvedimento di Augusto nel 7 a.C. (Dio Ca. 55.8.7): kaÛtoi kaÜ ¤keÛnvn kaÜ tÇn dhmrxvn tÇn te strategÇn psan t¯n pñlin, dekat¡ssara m¡re nemeqeÝsan, kl®rÄ prostakq¡ntvn: ÷ kaÜ nèn gÛgnetai. Già queste notizie sembrerebbero consentire una prima distinzione. Da un lato possiamo porre i vici instituiti in età augustea, molto ben caratterizzati giuridicamente come abbiamo visto dalle fonti imperiali, dall’altro il vicus, diciamo così, arcaico. A noi interessa particolarmente proprio questa categoria di vicus.

 

[183] Isidoro di Siviglia dà la seguente definizione di urbs: Isid. etym. 15.2.2: Urbs vocata ab orbe, quod antiquae civitates in orbe fiebant; vel ab urbo parte aratri, quo muri designabantur; unde est illud (Verg. Aen. 3.109; 1.425): Optavitque locum regno et concludere sulco. locus enim futurae civitatis sulco designabatur, id est aratro. Cato (Orig. 1.18): ‘Qui urbem’ inquit ‘novam condit, tauro et vacca arat; ubi araverit, murum facit; ubi portam vult esse, aratrum substollit et portat, et portam vocat’. Ideo autem urbs aratro circumdabatur, dispari sexu iuvencorum, propter commixtionem familiarum, et imaginem serentis fructumque reddentis. Urbs autem aratro conditur, aratro vertitur. Unde Horatius (C. 1.16.20): Inprimeretque muris hostile aratrum. Quanto all’oppidum così si esprime: Isid. etym. 15.2.5: Oppidum quidam ab oppositione murorum dixerunt; alii ab opibus recondendis, eo quod sit munitum; alii quod sibi in eo conventus habitantium opem det mutuam contra hostem. Nam primum homines tamquam nudi et inermes nec contra belvas praesidia habebant, nec receptacula frigoris et caloris, nec ipsi inter se homines ab hominibus satis erant tuti. Tandem naturali sollertia speluncis silvestribusque contexerunt, quo esset vita tutior, ne his, qui nocere possent, aditus esset. Haec est origo oppidorum, quae quod opem darent, idcirco oppida nominata dixerunt. Oppidum autem magnitudine et moenibus discrepare a vico et castello et pago. Infine, il vicus è definito in tale modo: “Vici et castella et pagi hi sunt qui nulla dignitate civitatis ornantur, sed vulgari hominum conventu incoluntur, et propter parvitatem sui maioribus civitatibus adtribuuntur. Vicus autem dictus ab ipsis tantum habitationibus, vel quod vias habeat tantum sine muris. Est autem sine munitione murorum; licet et vici dicantur ipsae habitationes urbis. Dictus autem vicus eo quod sit vice civitatis, vel quod vias habeat tantum sine muris”.

 

[184] Per la figura del vicus non esiste una documentazione tanto copiosa quanto quella che abbiamo riscontrato per il pagus. La maggior parte di essa si riscontra in fonti tecniche. Ad esempio, a differenza del pagus, citato soltanto due volte nei Digesta di Giustiniano [D. 50.15.4 (Ulp. 3 de cens.) e D. 33.1.12 (Paul. 21 quaest.)], la presenza del vicus è più massiccia nelle fonti giuridiche giustinianee. Anzi, nella maggior parte dei casi il vicus appare citato in opere di giuristi di età severiana, in particolare Ulpiano. Dal tenore dei riferimenti comunque ci si rende facilmente conto che la maggior parte delle testimonianze si riferisce a realtà afferenti l’età classica, dunque ad una figura alquanto diversa da quella che poteva riguardare la realtà arcaica. Così nel caso di D. 50.1.30 (Ulp. 61 ad ed.): Qui ex vico ortus est, eam patriam intellegitur habere, cui rei publicae vicus ille respondet. In materia di censo, poi, la cancelleria severiana sembra aver imposto al vicus (o quanto meno al vicus Patavissensium) lo ius coloniae: D. 50.15.1.9 (Ulp. 1 de cens.): Item Napocensis colonia et Apulensis et Patavissensium vicus. qui a divo Severo ius coloniae impetravit.

 

[185] Per il periodo arcaico esiste un’indicazione, lacunosa, ma suggestiva, della glossa festina: Fest. sv. Vici (L. 502,11-20): (…)cipiunt ex agris, qui ibi villas non habent, ut Marsi aut Peligni. Sed ex vicátñis partim habent rempublicam et ius dicitur, partim nihil eorum et tamen ibi nundinae aguntur negoti gerendi causa, et magistri vici, item magistri pagi quotannis fiunt. Altero, cum id genus aedificio·rum defiÒnitur, quae continentia sunt his oppidis, quae…itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque dissimilibus discriminis causaQuesta indicazione si completa con un frammento successivo Fest. (L. 508,1-8): sunt dispartita. Tertio, cum id genus aedificiorum definitur, quae in oppido privi in suo quisque loco proprio ita aedificaánñt, ut in eo aedificio pervium sit, quo itinere habitatores ad suam quisque habitationem habeant accessum. Qui non dicuntur vicani, sicut hi, qui aut in oppidi vicis, aut hi, qui in agris sint vicani apellantur. Il glossatore riferisce la nozione di vicus in territorio rurale alle realtà presenti nelle aree Marsica e Peligna: (…)cipiunt ex agris, qui ibi villas non habent, ut Marsi aut Peligni. Possiamo constatare come si tratti di una definizione estremamente variegata in cui, insieme ad una considerazione del vicus agrestis come di una unità territoriale organizzata in rempublicam con addirittura facoltà di ius dicere (Sed ex vicátñis partim habent rempublicam et ius dicitur), ve n’è un’altra in cui nonostante tale mancanza vi sono dei magistri vicorum preposti alla gestione dell’attività negoziale e dei mercati (partim nihil eorum et tamen ibi nundinae aguntur negoti gerendi causa, et magistri vici). Questi magistrati sono assimilati addirittura ai magistri pagorum (item magistri pagi quotannis fiunt). Dall’esame di questo passo festino si evince una nozione di vicus certamente variegata e non esclusiva di una realtà rurale (come per i vici della città di Roma). Colpisce la differenza rispetto alla realtà del pagus perché nel caso del vicus si rileva una netta caratterizzazione sul piano giuridico-amministrativo. Tanto specifica che di fronte ad un’evidenza economica (la gestione dei mercati in generale e dell’attività negoziale dei mercati in particolare) addirittura la distinzione tra pagus e vicus sembra quasi scomparire. Cfr. per tutti F. Lübker, sv. vicus, in Lessico ragionato dell’antichità classica [Bologna (tr. it. C.A. Murero su rist. an. del 1898) 1989] 1297. Questa realtà credo sia ben descritta anche dall’impiego in linguaggio tecnico giuridico dei due termini. Attraverso una verifica di carattere quantitativo si rileva che mentre la figura del pagus quasi scompare risultando attestata soltanto due volte: cfr. D. 15.16.4 (Ulp. 3 de cens.); D. 33.1.12 (Paul. 13 resp.). Non è così per il vicus che dimostra di avere un impiego nel gergo giuridico ben più ampio che risulta in ogni caso, sia che lo si consideri una suddivisione di una tribù urbana, sia che lo si consideri ‘un nucleo abitato compatto’. Cfr. sull’argomento e la dicotomia vicus-pagus: A. Fraschetti, Roma e il principe (Roma-Bari 1990) 159 s., 169, 196; H. Hermon, Habiter et partager les terres avant les Gracques 46-49 e passim; L. Capogrossi Colognesi, Persistenza e innovazione nelle strutture territoriali dell’Italia romana 43 ss. e passim. Per la presenza di pagi e vici in area ligure v. E. Sereni, Comunità rurali nell’Italia antica 329 ss. Per il Sannio v. E.T. Salmon, Samnium and the Samnites (Cambridge 1967) 77 ss.

 

[186] Sul pagus e sulla sua funzione fiscale si v. ora M. Tarpin, Vici et pagi dans l’occident romain (Rome 2002) 194 ss. Cfr. anche C. Schubert, Land und Raum in der römischen Republik 98.

 

[187] Cfr. G. Traina, Il papiro di Servio Tullio, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa 17.2 (1987) 389.

 

[188] Sembra indubitabile che il pagus in età classica acquistò anche delle funzioni di tipo amministrativo nel sistema di insediamento territoriale dell’impero romano durante la romanizzazione dell’età classica. Cfr. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht 117; E. Kornemann, sv. Pagus, in PW. 18.2 (Stuttgart-Weimar 1942) col. 2325; H. Rudolph, Stadt und Staat im römischen Italien. Untersuchungen über die Entwicklung des Munizipalwesens in der republicanischen Zeit (Leipzig 1935, rist. an. 1965) 55. In tale senso si chiarisce anche il significato del noto passo di Ulpiano conservato in D. 50.15.4: Forma censuali cavetur, ut agri sic in censu referantur, nomen fundi cuiusque: et in qua civitate et in quo pago sit, per cui più d’uno ha creduto di sostenere che il pagus fosse una sottounità della civitas. All’epoca di Ulpiano, il pagus probabilmente è una delle possibili forme di divisione del territorio delle varie civitates operata a fini censitari [così per l’epoca imperiale G. Camodeca, I pagi di Nola, in Modalità e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana (Bari 2001) 414], ossia una sorta di parcellizzazione catastale. Quindi una realtà dotata di una certa autonomia rilevante a fini sacrali e per talune prerogative di bassa amministrazione (ad es. tuitio delle viae vicinales, foraggiamento delle truppe, imposizione fiscale, etc.). Sul punto, anche per le prerogative di carattere sacrale, si v. bibl. e fonti in R. Martini, Il ‘pagus’ romano 1044, 1055. Per le funzioni o prerogative di carattere amministrativo v. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht 118; E. Kornemann, sv. pagus 2325. V. anche H. Rudolph, Stadt und Staat im römischen Italien 55. Ma si tratta di una prerogativa valevole prevalentemente per l’età imperiale come attestano fra l’altro anche le tabulae alimentariae di Veleia e i Ligures Baebiani di età traianea. Prima delle riforme censuali di Augusto il pagus non sembrerebbe comparire nelle formulae census come distretto per il censimento, del resto i pagi di origine tribale preesistono certamente alla municipalizzazione. Cfr. M.W. Frederiksen, Changes in the Patterns of Settelment, in Hellenismus in Mittelitalien (Göttingen 1976) 343 ss. G. Luraschi, Comum oppidum. Strutture politico-sociali della comunità comasca preromana, in Riv. Arch. Dell’antica provincia e diocesi di Como 152-3-4 (1970-1-2) sottolinea l’assenza della menzione del pagus accanto al vicus, al forum e al conciliabulum nelle leggi municipali dell’ultima età repubblicana. In generale v. ora con aggiornato ragguaglio bibl. M. Tarpin, Vici et pagi 7 ss.

 

[189] Quanto al pagus di età imperiale è noto che Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht 3.13 (Leipzig 1887, rist. an. Graz 1952) 116 e CIL. 1, p. 205 e J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung 12, (Leipzig 1881, rist. Darmstadt 19573) 5 interpretino i passi di Dione Cassio e Svetonio citati poco sopra nel senso che Augusto con l’istituzione delle regiones avrebbe determinato anche la definitiva scomparsa dei pagi. Secondo Dione Cassio (55.8) Augusto nel 7 a.C. avrebbe diviso la città di Roma e il suburbio in quattordici regioni e duecentosessantacinque vici. [Dio Ca. 55.8.7: dekat¡ssara m¡rh nemhqeÝsan. Ossia: “(n.d.r., la città) venne divisa in quattordici zone”; Suet. div. Aug. 30.1: Spatium urbis in regiones vicosque divisit instituitque. Sempre secondo Svetonio (ibidem) a ciascuna regione sarebbe stato preposto un magistrato e a ciascun vicus quattro magistri eleggibili ogni anno (ut illas annui magistratus sortitio tuerentur, hoc magistri e plebe cuiusque viciniae lecti]. Probabilmente la scomparsa cui fanno riferimento Mommsen e Marquardt è solo da ascrivere alla figura del pagus arcaico.

 

[190] Stando ad un’indicazione del papiro di Ossirinco, sembrerebbe che sia stato per primo Servio Tullio a distribuire i vari pagi territoriali all’interno delle tribù: P. Oxy. 17. 2088: primoque in pago [arx?/con] dita est eaque Roma muro. Cfr. P. De Francisci, Primordia civitatis (Roma 1959) 674 s. Forse fu questo il primo momento di svolta veramente significativo nella storia di questo tipo di insediamento territoriale perché non c’è dubbio che con l’istituzione delle tribù territoriali il pagus, da unità di ripartizione territoriale di origine e natura geografica (sistema kata komas o per pagi e gentes), diventò una forma di distretto territoriale dall’origine/natura proto-amministrativa perché posto in realzione al sistema per tribù. L’esistenza di tribù congiunta di testimonianze su nomi gentilizi di tribù e pagi è a mio parere l’indizio migliore del fatto che si sia verificato questo fenomeno di dissolvenza incrociata, grosso modo, all’epoca del dominio etrusco su Roma. Credo che la contrapposizione pagani/montani possa risalire anche a questo periodo in cui l’elemento dominante poteva essere stato un’egemonia politica degli Etruschi campani (di Volturnum) con forti legami sia con i Greci di Cuma (Tarquinii/Aristodemo) che con l’area tiberina (Volturno=nome del Tevere) che erano uomini di pianura.

 

[191] Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana2 (1964, rist. 1966) 91. Anche J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung 6, nt. 1. Del tutto congetturale pare invece la seguente definizione del pagus degli antichi italici come un: “villaggio delimitato a differenza del villaggio greco che non ha precisi e segnati confini”. Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana 12 (1972) 59.

 

[192] E. Sereni, Comunità rurali 329.

 

[193] G. Camodeca, I pagi di Nola 413 così si esprime sul problema della identificazione del sistema pagano-vicanico: “Non si intende qui riprendere in linea generale il tema dell’organizzazione pagano-vicanico in Italia, su cui esiste una nutrita bibliografia. Che in un tema come il nostro, così profondamente radicato nella specificità regionale e locale, sia pericolosa ogni forma di generalizzazione è un fatto che ritengo pacifico, così come azzardato è il presupporre a priori collegamenti o continuità istituzionali e amministrative, che vanno sempre dimostrate nel caso specifico”.

 

[194] Questo discorso può essere allargato anche all’agro campano se si considera che l’ager Falernus quando fu conquistato dai Romani molto probabilmente era già stato misurato. La fertile zona del Falerno, già da epoca etrusco-sannita poteva, essere stata divisa in appezzamenti misurati rappresentando una forma di insediamento territoriale non necessariamente in conflitto con l’idea del pagus pur certamente attestato anche per il Sannio collinare. In un secondo tempo questo dualismo pagi/vici per la città di Roma potrebbe essersi evoluto con l’assimilazione e la trasformazione dei pagi come unità amministrative in funzione della città. Sintomatica ritengo sia ad esempio la corrispondenza onomastica tra la tribù Lemonia e il pagus Lemonius laddove è indiscutibile che la seconda abbia mutuato il nome dalla prima. Lo stesso credo sia avvenuto anche per il vicus, a nostro avviso, però, con una differenza fondamentale. Il vicus sembra avere una vocazione prevalentemente urbanistica (a differenza della vocazione prevalentemente rurale del pagus arcaico). Il vicus, allora, dovrebbe essere considerato successivo ad un sistema di ripartizione territoriale urbanizzata e quindi ha ragione L. Capogrossi Colognesi quando stigmatizza la tendenza un po’ superficiale della prevalente dottrina a considerare in senso assoluto, e quindi antistorico, il vicus come una sottounità amministrativa del pagus, soprattutto per le forme di insediamento territoriali arcaiche. Il dato identificativo dell’estensione del pagus, come rileva ancora Siculo Flacco, è l’ambito di celebrazione della lustratio pagorum, evidente retaggio di un’epoca (molto risalente) in cui il vincolo territoriale veniva tenuto insieme più dalla comunanza di culto (quindi un vincolo, si potrebbe dire, ‘proto giuridico’ in quanto sacrale) che non dalla forza vincolante di un’organizzazione statale, sia pure nella forma dello ‘stato-città’.

 

[195] Schematicamente: da un lato Livio menziona il pagus insieme al forum e al conciliabulum; dall’altro, la legge del 111 a.C. contempla il vicus insieme all’urbs (città pomeriale in senso augurale) e all’oppidum (insediamento abitativo fortificato con o senza mura: linea 5). Non credo che il criterio distintivo possa essere la natura rurale o non del tipo di insediamento, credo che la distinzione riguardi il livello di urbanizzazione raggiunto da un determinato territorio. Dove maggiore è il tasso di urbanizzazione è presumibile che si possa incontrale la figura del vicus (come frazionamento del pagus o meno che raccoglie in senso materiale ed effettivo gli agglomerati abitativi). Laddove è meno intenso il tasso di urbanizzazione è presumibile che sia possibile incontrare il pagus (come insediamento rurale sparso), vista l’alta antichità della fattispecie dell’età repubblicana. Cfr. sul punto con bibl. di riferimento L. Capogrossi Colognesi, Persistenza e innovazione 43 ss., 159 ss. e 193 ss.

 

[196] Così A. Burdese, Studi sull’ager publicus 92 s.

 

[197] A. Lintott, Judicial reform 203 ss.

 

[198] F.T. Hinrichs, Die lex agraria des Jahres 111 v. Chr. 254 ss.; M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.157.

 

[199] Cfr. M. Frederiksen, Campania (Roma 1984) 264 ss. Di avviso diverso è A. Lintott, I frammenti da Urbino 74 per il quale: “La ‘clausola di riserva’, relativa ad una legge di Caio Gracco, che riappare spesso nei primi capitoli, non è relativa, come invece reputa la maggioranza degli studiosi, all’ager Campanus. Deve supporsi che le terre date in locazione dai censori fossero oggetto di specifiche previsioni in entrambe le leggi graccane: la nostra ‘clausola di riserva’ doveva riferirsi probabilmente alle terre il cui possesso era stato in passato accordato a Latini o a socii Italici, nonché ai terreni appartenenti a colonie o a municipia”.

 

[200] Si v. anche Liv. per. 60. Th. Mommsen, Gesammelte Scrhiften 108 s.; CIL. 1, p. 91; G. Cardinali, Studi graccani 263, nt. 2; Ph. Vançura, sv. Leges agrariae, in PW. 12 (München 1912) col. 1180 ss.; G. Franciosi, I Gracchi, Silla e l’ager Campanus, in G. Franciosi (cur.), La romanizzazione della Campania antica 1 (Napoli 2002) 229 ss. Contro sono J. Carcopino, Autour des Gracques2 (Paris 1960) 162; Id., Histoire3 2.1 204, nt. 114; J. Göhler, Rom und Italien 116.

 

[201] Cfr. sull’ager Campanus O. Sacchi, Limiti geografici, cenni di storia ed organizzazione dell’ager Campanus fino alla deditio dei 211 a.C., in G. Franciosi (cur.), La romanizzazione della Campania antica 1 (Napoli 2002) 19 ss., in part. 70 ss. Sul problema dell’intervento dei Gracchi e di Silla nell’ager Campanus v. G. Franciosi, I Gracchi, Silla e l’ager Campanus, in La romanizzazione della Campania antica, cit., 229 ss.

 

[202] Cfr. A. Lintott, Judicial reform 204; F. De Martino, Gromatici e questioni graccane, in Sodalitas. Scr. A. Guarino 7 (1984) 3135 s. [ora in Diritto, economia e società nel mondo antico 3 (1997)] e le argomentazioni di G. Franciosi, I Gracchi, Silla e l’ager Campanus 232 ss.

 

[203] Cfr. G. Franciosi, I Gracchi, Silla e l’ager Campanus 247, 243 ss. e passim. A p. 235: “In realtà, come mostrano le fonti (ivi compreso Granio Liciniano), Lentulo procedette alla limitatio che riprodusse nella famosa mappa, ed assegnò in locazione i piccili lotti. I triumviri della legge Sempronia procedettero alla ricognizione dei luoghi”.

 

[204] Cfr. O. Sacchi, Limiti geografici, cenni di storia ed organizzazione dell’ager Campanus fino alla deditio dei 211 a.C. 19 ss. Si v. G. Franciosi, I Gracchi, Silla e l’ager Campanus 237: “La vicinanza al tempio rende assai verosimile che il cippo, riproducendo, come era prassi, la limitatio precedente, segnasse il confine di separazione tra le terre di Diana Tifatina e la rimanente parte dell’ager publicus, assegnata in locazione a privati, proprio come attesta il citato brano di Trebazio [n.d.r., D.41.1.16 (Florent. 6 inst.)]. Quindi, un cippo di restitutio agrorum, per dirla col Castagnoli”. Cfr. F. Castagnoli, Le ricerche sui resti della centuriazione, in A. Campana (cur.), Note e discussioni erudite (Roma 1958) 12.

 

[205] Cfr. G. Chouquer (et alii), Structures agraires en Italie meridionale. Cadastres et paysages ruraux, in Coll. ec. fr. (Roma 1987) 199 ss.

 

[206] Cfr. sul punto A. Lintott, Judicial reform 203 s.; M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.157.

 

[207] M. Pagano, Nuovi cippi anepigrafi della centuriazione romana, in RAAN. 49 (1984) 173 ss.

 

[208] Cfr. anche V. Bracco, Inscriptiones Italicae III,3,1: Civitates vallium Silari et Tanagri (1974), nn. 275-279; Id., Un nuovo documento della centuirazione graccana: il termine di Auletta, in RSA. 9 (1979) 29 ss. Sui ritrovamenti di cippi graccani si v. ancora F. Grelle, Ordinamento municipale e organizzazione territoriale nella Puglia romana 243 ss.; G. Camodeca, Istituzioni e società di Abellinum romana, in Storia di Avellino 1 (1996) 177 ss.; Id., M Aemilius Lepidus, cos. 126 a.C., le assegnazioni graccane e la via Aemilia in Hirpinia, in ZPE. 115 (1997) 265 ss. e passim.

 

[209] E. Guariglia - V. Panebianco, Termini graccani rinvenuti nell’antica Lucania, in RSS. 1.1 (1937) 58 ss. Cfr. anche F. De Martino, Gromatici e questioni graccane, in Sodalitas. Scr. A. Guarino, cit., p. 3125 ss.[=Diritto, economia e società nel mondo antico, cit., p. 3135 s.]. Si v. anche G. Camodeca, M. Aemilius Lepidus, cos. 126 a.C., le assegnazioni graccane e la via Aemilia in Hirpinia 263-270; A. Lintott, I frammenti da Urbino 74 s.

 

[210] Così A. Lintott, I frammenti da Urbino 75.

 

[211] Cfr. ampiamente sul punto G. Franciosi, I Gracchi, Silla e l’ager Campanus 236 ss.

 

[212] Si v. sul punto, con riferimento anche a ritrovamenti recenti e non ancora pubblicati, G. Camodeca, M. Aemilius Lepidus, cos. 126 a.C., le assegnazioni graccane e la via Aemilia in Hirpinia 268, 269, nt. 39 e 43.

 

[213] E. Guariglia - V. Panebianco, Termini graccani rinvenuti nell’antica Lucania 85 s.

 

[214] Ancora, possiamo ricordare nei pressi di Aeclanum (fra questa località e Compsa, al confine tra Irpinia e Sannio, per i latini provincia Apulia) tre termini rinvenuti in località Rocca S. Felice. Il primo, reca la seguente iscrizione: CIL. 1. 643(=554): M FOLVIVS M F flAC/ C SEMPRONIVS TI F GRAC/ C PAPERIVS C F CARBO/ III VIR A I A (129/123 a.C.). Il secondo, la seguente iscrizione: CIL. 1. 644(=555): M FOLVIVS M F FLAc/ C SEMPRONIVS TI F Grac/ C PAPERIVS C F CARBO/ III VIR A I A (129/123 a.C.). L’espressione in fundus veteris possessores conferma fra l’altro l’idea di una comparsa tarda della proprietà fondiaria intesa come dominium ex iure Quiritium. Cfr. sul punto O. Sacchi, Limiti geografici 6; Id., I limiti e le trasformazioni dell’ager Campanus fino alla debellatio del 211 a.C. 31. Il terzo, in CIL. 1 645(=556), reca sulla sommità della colonna la seguente sigla: FPVET. Si tratta di una formula di difficile interpretazione la cui ricostruzione nel modo seguente, e cioè: in fundus possessoris veteris (129/123 a.C.), si deve al Mommsen. Dunque, in questo caso, probabilmente si era provveduto a distinguere l’ager publicus dal privatus. Le prime due iscrizioni, invece, recano iscrizioni meno leggibili, non simili alla terza, ma certamente non allusive ai termini di una centuriatio.

 

[215] Riporto per esteso le interessanti considerazioni di G. Camodeca, M. Aemilius Lepidus, cos. 126 a.C., le assegnazioni graccane e la via Aemilia in Hirpinia 265 che inquadra a mio avviso nel modo giusto la questione del rapporto tra i ritrovamenti di miliari graccani e la politica di urbanizzazione del territorio compiuta dai Romani proprio in questo periodo: “D’altra parte è stato da tempo riconosciuto lo stretto rapporto intercorrente fra assegnazioni agrarie graccane, fondazioni di fors e conciliabula e impulso alla costruzione di vie pubbliche. Non è un caso infatti che proprio nel quindicennio successivo alla riforma agraria di Ti. Gracco sia attestata in Italia una serie di costruzioni e miglioramenti stradali, oltre un buon numero di miliari; che in questi figurino nomi di consoli e pretori e mai di nessuno dei due fratelli tribuni della plebe, neppure di Gaio, non può meravigliare dato che la costruzione delle vie pubbliche spettava ai magistrati cum imperio (Ulp. in D. 43.8.2.22)”.

 

[216] F. Castagnoli, Le ricerche sui resti della centuriazione, in A. Campana (cur.), Note e discussioni erudite, cit., p. 12 distingue tra i cippi di età graccana, cippi anepigrafi, aree compitali e ‘cippi posti per la delimitazione dei territori pubblici riscattati dalle occupazioni’. A quest’ultima categoria dovrebbero appartenere anche i cippi terminali della forma agri di Lentulo del 165 a.C. Sul questa categoria di termini v. F. Castagnoli, Cippi di restitutio agrorum presso Canne, in Riv. Fil. Class. (1948) 280 ss.

 

[217] Th. Mommsen, CIL. 12, p. 512.

 

[218] M. Pagano, Un nuovo termine della centuriazione dell’Ager Campanus 231 ss. ha studiato un termine ritrovato nell’odierna località Trentola a sud di Marcianise. Esso è stato rinvenuto all’angolo tra il sesto decumano a est (di quello massimo) e il quarto cardine a sud (di quello massimo) della griglia di centuriazione romana. Trattandosi di un cippo anepigrafe è difficile fornire una datazione, tuttavia l’archeologo, in base a forma e dimensioni, pensa di datare il reperto in un’epoca oscillante tra l’età graccana e l’età augustea (senza però escludere una datazione anteriore). M. Pagano, Un nuovo termine della centuriazione dell’Ager Campanus 231 ss.: “Per quanto rigurda la datazione del cippo di Trentola non possediamo elementi sicuri, ma la forma e le dimensioni del cippo fanno pensare a una datazione fra l’età graccana, se non prima, e l’età augustea, senza poter meglio precisare a quale circostanza della ricca storia agraria dell’ager Campanus esso debba riferirsi”. La forte oscillazione temporale del dato cronologico suggerito (età graccana/augustea/’anche prima’) dimostra che l’esperto non è riuscito a trovare elementi per una datazione più precisa. Abbiamo però in questo modo almeno un termine finale oltre il quale non si può ragionevolmente pensare che sia stata fatta la centuriazione dell’ager Campanus (dies ad quem). La centuriazione dell’ager Campanus può essere stata fatta quindi tra il 211 a.C. e l’epoca graccana. Del resto, in questa direzione portano anche i cippi terminali di età graccana rinvenuti nell’area della centuriazione. Cfr. M. Pagano, Nuovi cippi anepigrafi della centuriazione romana, in RAAN. 49 (1984) 173 ss.

 

[219] Cfr. Plut. C.Gracc. 8.3. J. Göhler, Rom und Italien 150; G. Bloch - J. Carcopino, Histoire romaine (in due voll.) (Paris 1926-29) 1.142, n. 15; M. Frederiksen, Campania 275.

 

[220] Linea 22: oppidum coloniamve ex lege plebeive sc(ito) constituit deduxitve conlocavitve; quem agrum [locum]ve pro eo agro locove de eo agro loco, quei publicus populi Roman[ei in terram Italiam P. Mucio L. Calpurnio cos. fuit…extra eum a]grum locum, quei ager locus ex lege plebeive sc(ito), quod C. Semproni(us) Ti. f. tr. pl. rog(avit) exscep[tum cavitumve est nei divideretur. A. Lintott, Judicial reform 204.

 

[221] Un’altra possibilità è stata prospettata dalla Johannsen [Die lex agraria passim e 235 ss.] per cui la clausola avrebbe avuto oggetto non i terreni già dati in fitto o venduti dai censori, ma solo l’ager occupatorius posto ai confini dell’ager Campanus. Il Lintott [Judicial reform 204], da parte sua, considera molto più attrattiva l’ipotesi di Focke Tannen Hinrichs [Die lex agraria des Jahres 111 v. Chr. 254 ss.], per cui la clausola di eccezione avrebbe riguardato le terre occupate dagli alleati italiani che Caio Gracco avrebbe voluto non danneggiare, anche se poi sembra preferire la seguente [A. Lintott, ibidem]: “In my view Ti. Gracchus’ commission may have initially dealt with land wich before 133 BC had been traditionally ceded to Italian communities for explotation, perhaps land which originally had been confiscated from them, but such operations were ended by his brother’s law”.

 

[222] Rinvio a O. Sacchi, Limiti geografici 75 ss.; Id., I limiti e le trasformazioni dell’ager Campanus fino alla debellatio del 211 a.C. 25 ss.

 

[223] Credo sia tutto sommato abbastanza irrilevante stabilire se, quando e/o come, l’ager Campanus, sia eventualmente stato trasformato in in ager publicus dai Romani. Se nel 210 o nel 205 a.C. come pure sostiene P.M. Martin, La Campanie antique. Des origines a l’éruption du Vésuve (Clermont-Ferrand 1984) 143. Ben lungi da poter parlare di proprietà nel senso più proprio delle fonti giuridiche della fine della repubblica/inizi del principato, in quest’epoca assistiamo al conferimento di porzioni di territorio conquistato a privati da parte del senato secondo forme di appartenenza che si inquadrano in schemi giuridici che se non sono quelli della proprietà in senso tecnico, nella sostanza hanno ben poco di diverso. C’è però una differenza a mio modo di vedere non trascurabile. Se la proprietà privata presuppone uno Stato che la riconosca e ne garantisca il godimento, lo Stato romano all’epoca della deditio del 211 a.C. è ancora uno stato debole che proprio in questi frangenti cominciò ad acquistare un ruolo ben definito nello scenario e nel quadro dei rapporti di forza della penisola italiana con le altre popolazioni antagoniste. Ci sono poi altre differenze rispetto al passato quando la storia di Roma era fatta prevalentemente dai gruppi gentilizi. Ora, all’interno di essi, per la gestione della res publica si sono fatte avanti le grandi famiglie, oligarchie ristrette formatisi all’interno della gens. Non a caso è questa l’epoca della definitiva consacrazione della famiglia degli Scipioni. L’ottica politica è sempre quella gentilizia. Molto probabilmente gli Scipioni sono diventati protagonisti perché portatori di interessi territoriali nell’ager Campanus periferico, in quanto Cornelii. Inoltre le assegnazioni del 209/205 erano per lo più finalizzate a procacciare denaro per coprire le spese e finanziare la guerra contro i Cartaginesi e, massimamente per l’ager Campanus, si trattava di gestire finanziariamente delle aree su cui già vi erano dei possessori.

 

[224] Ancora in Liv. 27.11.8: Ii censores ut agrum Campanum fruendum locarent ex auctoritate patrum latum ad plebem est plebesque scivit. L’episodio è riportato anche da Cicerone (de lege agr. 2.80). M. Frederiksen, I cambiamenti delle strutture agrarie della tarda repubblica: la Campania, in Società romana e produzione schiavistica 1 (Bari 1981) 275; Id., Republican Capua, in PBSR. 27 (1959) 117 ha sostenuto che i Capuani grazie a queste misure potevano anche aver conservato i precedenti possedimenti. G. De Sanctis, Storia dei Romani III.2 (Firenze 19682) 342 ss.

 

[225] Il D’Isanto, Capua romana. Ricerche di prosopografia e storia sociale (Roma 1993) 32, nt. 94 (in base a Plut. Mor. 261 E29) colloca la fossa Graeca a nord di Cuma. Anzi, al pretore urbano Cneo Servilio, fu dato il compito di verificare se fossero state effettivamente osservate le disposizioni del decreto senatoriale del 211 a.C. e di prendere provvedimenti contro coloro che abitassero altrove: Liv. 28.46.6: Et Cn. Servilio praetori urbano negotium datum ut Campani cives, ubi cuique ex senatus consulto liceret habitare, ibi habitarent, animadverteretque in eos qui alibi habitarent. L’espressione fossa Graeca può essere compresa considerando che esisteva un luogo analogamente designato nell’ager Carthaginensis. Letteralmente si tratta di un terrapieno.

 

[226] Durante il consolato di C. Cornelio Cethego e Q. Minucio Rufo un C. Atinio Labeone, che fu tribuno della plebe nel 197 a.C. – cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic 1.336 il quale però indica come data il 196 a.C. Così anche F. Fabbrini, sv. Tribuni plebis, in NNDI. 19 (Torino 1973) 818 –, fu probabilmente il promotore della lex Atinia de coloniis quinque deducendis, plebiscito con il quale avrebbe autorizzato la deduzione in oram maritimam di cinque colonie (Liv. 32.29.3-4: C. Atinius tribunus plebis tulit ut quinque coloniae in oram maritimam deducerentur, duae ad ostia fluminum Volturni Liternique, una Puteolos, una ad castrum Salerni, his Buxentum adiectum. V. anche Vell. Pat. 1.15.3. Assegnate ciascuna a trecento famiglie, amministrate da triumviri (M. Servilius Geminus, Q. Minucius Thermus, Ti. Sempronius Longus) con carica triennale. Nel testo si segue la ricostruzione del Klebs che lo vuole, nell’atto della deduzione delle colonie, tribuno della plebe nel 197 a.C. Cfr. E. Klebs, sv. Atinius, in PW. 2 (Stuttgart-Weimar 1896) coll. 2105,13-2106,29. Nell’edizione del Crevier (4.87) – variante non restituita dal Briscoe (Teub. 1.109) – è riportato un C. Acilio tribuno della plebe. Versione accolta dal Gaddi e dal Cuq, per i quali si tratterebbe di una lex Acilia. Sul punto con indicazioni bibl., v. G. Rotondi, Leges publicae populi romani 266 che data il plebiscito nel 197 a.C. Il Broughton, The Magistrates of the Roman Republic 1.336, attribuisce l’episodio al personaggio mentre rivestiva la carica di tribuno della plebe insieme a C. Afranio, C. Licinio Lucullo e Q. Marcio Ralla nel 196 a.C., durante il consolato di L. Furio Purpurio e M. Claudio Marcello. Il Broughton, The Magistrates of the Roman Republic 1.339, nt. 3) opta per la ricostruzione proposta dal Niccolini – G. Niccolini, I Fasti dei tribuni della plebe (Milano 1924) 106 s. – per il quale la lex Atinia con cui sono state fondate le cinque colonie sarebbe stata approvata alla fine dell’anno consolare 197. Successivamente i tribuni del 196 avrebbero effettivamente preso l’ufficio. Questo, per evitare di assumere che due personaggi di nome C. Atinio avrebbero rivestito la carica di tribuni della plebe rispettivamente nel 197 e nel 196 a.C. Ad ogni modo, l’effettiva deductio delle colonie avvenne alla fine del triennio di carica dei triumviri, nel 194 a.C. Cfr. Liv. 34.45.1-2.

 

[227] Da questo momento seguiremo lo schema weberiano perché gli episodi che stiamo trattando riguardano un’epoca in cui la categoria del dominium ex iure Quiritium era ancora ben lungi dall’essersi affermata. L. Capogrossi Colognesi, La terra in Roma antica 1 (Roma 1981) 3 ss.; Id., “Ager publicus e “ager gentilicius nella riflessione storiografica moderna, in St. Sanfilippo 3 (1983) 71 ss. Del resto ancora nella lex agraria del 111 a.C. compare l’espressione uti frui habere possidere. Cfr. sul punto G. Franciosi, Gentiles familiam habento. Una riflessione sulla cd. proprietà collettiva gentilizia, in Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana 3 (Napoli 1995) 48 per designare la proprietà dominicale. Inoltre la dottrina gromatica (che pure Weber conosceva molto bene) mi pare senz’altro utile per una sistematica della proprietà terriera in età classica, ma non per il periodo storico che stiamo studiando. Ad ogni modo, non vedo particolari motivi per non seguire la distinzione generale delle diverse divisioni della terra in ‘terra esente da imposte’ e ager publicus. In questo quadro la differente forma gromatica diventerebbe uno strumento efficace per rendere immediatamente percepibile il diverso regime giuridico dei terreni così divisi. Così L. Capogrossi Colognesi, Max Weber e le economie del mondo antico 21. L’ager Falernus ha fatto parte dell’ager Campanus fino al 340 a.C. quando fu confiscato dai Romani che lo sottrassero ai Campani sconfitti insieme ai Latini.

 

[228] Front. de agr. qual. (Thul. 1). Si tratta del sistema della limitatio per centurie fatto dai Romani sullo schema di modelli etruschi: limites=quadrati di più di 200 iugeri ciascuno; ossia centuria=acnua etrusco(=2 iugeri) x 100. L’orientamento era fatto secondo i punti cardinali (cardines e decumanes). Ogni cinque limites veniva lasciato aperto uno per la viabilità. La cosa interessante è che i limites non avevano lo scopo di segnare i confini dei fondi dato che i lotti assegnati potevano occupare anche porzioni di terreno comprese in diverse centurie e quindi collocarsi a cavallo dei limites. Il particolare è importante perché ci consente di capire il sistema di ripartizione (e quindi di asssegnazione) per centurie. Ciascuna centuria, con relative linee di demarcazione, veniva riportata su una mappa (forma). In essa venivano annotati per ogni centuria i nomi degli assegnatari e il numero di iugeri che ciscuno vi possedeva (adsignatio). I singoli appezzamenti di terreno non venivano delimitati, nè contrassegnati con cippi terminali. Questo perché veniva pubblicamente tutelata la quantità di terreno che ciascun individuo possedeva all’interno della centuria (modus agri).

 

[229] Secondo autorevole dottrina [M. Weber, SES. 287; L. Capogrossi Colognesi, Max Weber e le economie del mondo antico 19 ss.] il vantaggio di questo sistema di ripartizione dell’ager publicus sarebbe stato quello di assicurare la presenza di una rete viaria pubblicamente garantita e una fondamentale compattezza dell’area assegnata (le continuae possessiones cui fanno spesso riferimento i testi gromatici). Al di là di Igino Gromatico che ci dice chiaramente che i limites della centuriazione erano costituiti da strade: Hyg. grom. de lim. const. 134, 3-5 (Thul.): quidam ex his latiores sunt quam ped. XII, ut hi quisunt per viam publicam militarem acti: habent enim latitudinem viae publicae. Avremmo almeno due conferme di questa brillante ipotesi: a) l’attestazione epigrafica di lapidi marmoree recanti l’incisione ITER PUBLICVS frequentemente riscontrata nell’ager Campanus. Anche se si tratta, nel caso di specie, di attestazioni epigrafiche di II secolo d.C., la formula iter publicus debetur, legata a elementi strutturali delle divisioni territoriali (di cui vi è ampia attestazione nelle fonti gromatiche e nel Liber coloniarum) potrebbe essere riferita a condizioni di luogo risalenti a impianti di ripartizione agraria anche risalenti. Si v. su tutto con bibl. e fonti M. De Nardis, Viabilità campana e scritti gromatici, in Ager Campanus, cit., 115-122, in part. 117 ss., ma anche la discussione con interventi di Gennaro Franciosi (p. 254), e Luigi Capogrossi Colognesi (p. 251). In particolare si v. B. Brugi, Le dottrine giuridiche degli Agrimensori Romani 353: “D’onde derivano le parole ‘iter’, ‘actus’, ‘via’ per le diverse forme del passaggio? Non si tenta di sollevare il velo che copre la loro origine; Il Rudorff [Zchr. f. gech. Rchtsw. 10 p. 353 ss.] stesso sembra essersi smarrito a mezza via. Comunemente si credono coniate per le servitù; con buona probabilità furono invece imitazione di quelle usate nelle limitazioni e per la viabilità necessaria. La ‘via’ pare assai recente come servitù e la parola stessa chiama a quel confronto. Riguardo all‘iter’, Varrone [l.L. 5.21] scrisse: ‘eae partes (estremità del fondo) propter limitare iter maxime teruntur’. Il limite dovevasi chiamare certamente ‘limitare iter’ [cf. 175,1 ‘spatium itineris’, ‘extremitas’ = ‘iter publicum’ 41,15]”; b) una prova archeologica costituita dalla via Dianae, pavimentata dal duumviro Gaio Larcio Gabino Fortuito (CIL. 10.3913), che collegava il tempio di Diana Tifatina a Capua. Questa strada [il tratto più interessante è quello che va da Calcarone a sud fino al cimitero di S. Maria. Per oltre cento metri essa è scavata nel tufo, in parte ad una profondità di 4-6 metri. È larga da meno di mt. 1.75 a 1.80, misura equivalente a poco più di cinque piedi romani. L’interseca in modo ortogonale un’altra strada di eguali dimensioni e così via per la maggior parte delle strade limitrofe. Le misure confermano che si tratta di strade di epoca romana. Lo scopo di tali opere è evidente. Il Beloch, Campania (Napoli tr. it. 1989) 413 propone di spiegare la cosa con la necessità di conferire alla limitatio un assetto incancellabile.], come la maggior parte delle altre strade incassate, potrebbe corrispondere ad un limes della centuriatio con cui sarebbe stato diviso l’ager Campanus. Secondo il Beloch almeno dall’epoca dei Gracchi, ma non escluderei che tale limitatio fosse stata realizzata prima se è vero che le tracce visibili che sono rimaste della centuriazione romana dell’ager Campanus sono da riferire alla forma agri Campani di P. Cornelio Lentulo disposta dal Senato nel 165 a.C., ma effettivamente realizzata solo tre anni più tardi, nel 162 a.C. Gran. Licin. Ann. 28. Cfr. M.C. Panerai, Territori centuriati in Italia: il caso di Capua, in Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano (Modena 1987) 222 ss.; C. Bencivenga, Nuovo contributo alla centuriazione dell’ager Campanus, in RAAN. 51 (1976) 79 ss.; A. Gentile, La romanità dell’agro campano alla luce dei suoi nomi locali. Tracce della centuriazione romana (Napoli 1975) 9 ss.; F. Castagnoli, Le ricerche sui resti della centuriazione, in Note e discussioni a cura di Augusto Campana, cit., p. 26.

 

[230] Per i particolari v. C. Moatti, Archives et partage de la terre dans le monde romain (II siècle avant-I siècle apré J.-C.) (Rome 1993) 27 ss. Tale procedimento veniva osservato anche nel caso in cui si dovesse redistribuire la proprietà esistente in tutto o in parte ai precedenti proprietari (attribuzione modus pro modo secundum bonitatem: è questo il caso della vendita censoria voluta da Flacco nel 209?).

 

[231] Per il E. De Ruggiero, sv. Ager Campanus, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane (Roma 1900) 102 si tratterebbe di una deditio coloniaria in base a Svet. div. Iul. 20. Forse la prima misurazione dell’ager Campanus è la forma agri Falerni. Lo si potrebbe dedurre da un passaggio di Frontino (Lach. 48,18-20): et sunt plerumque agri, ut in Campania in Suessano, culti, qui habent in Monte Massico plagas silvarum determinatas:| nam et formae antiquae declarant ita esse | adsignatum, quoniam solo culto nihil fuit silvestre iunctum quod adsignaretur. Cfr. B. Brugi, Le dottrine giuridiche degli Agrimensori Romani 207. Ad ogni modo le operazioni del 205, 198 194 e poi 162 a.C. dimostrano che una prima forma di ripartizione del territorio ad opera dei censori potrebbe essere stata compiuta. In questa direzione Cicerone che parla di tabulae censoriae preesistenti relative alle Italiae possessiones: Cic. de lege agr. 1.2.4. Cfr. anche Plin. n. h. 18.(3).9: Etiamnunc in tabulis cansoriis pascua dicuntur omnia ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat. C. Moatti, Archives et partage de la terre 86 pensa ad un rifacimento di tavole censorie precedenti da parte di Lentulo nel 162 a.C.

 

[232] Non rientra nelle mie intenzioni approfondire la differenza tra il sistema della centuriazione e quello per scamna et strigas, mi limito a riportare la posizione di M. Weber, SES. 289 e 290 per il quale lo scopo di questo tipo di misurazione censoria era quello di identificare ciascuna particella per proximos possessorum rigores al fine di individuare l’oggetto di imposta. Sul punto L. Capogrossi Colognesi, Max Weber e le economie del mondo antico 20-21 che però è cauto sulla spiegazione del sistema per strigas et scamnas di Weber. Cfr. sul punto O.A.W. Dilke, The roman Land Surveyors (Newton Abbot 1971); Id., Archeological and Ephigraphic Evidence of Roman Land Surveys, in ANRW. 2.1 (1974) 564-592; F. Castagnoli, Sulle più antiche divisioni agrarie romane, in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche 39 (Roma 1985) 241-257.

 

[233] Così bastava segnare sulla mappa per ogni centuria il numero di iugeri esenti e quello imponibile, e poi l’aliquota applicata per questi ultimi. Un esempio di questa seconda categoria di terreni soggetti ad imposizione è costituito dalle centurie della mappa di Aurasio in cui ciascun iugero era gravato dall’imposta di 1/2 denario.

 

[234] Operazione che Livio definisce vendita questoria Liv. 28.46.4-5: Et quia pecunia ad bellum deerat, agri Campani regionem a fossa Graeca ad mare versam vendere quaestores iussi, indicio quoque permisso qui ager civis Campani fuisset, uti is publicus populi Romani esset.

 

[235] Cfr. M. Weber, SES. 290. Nell’83 a.C. ebbe luogo ai piedi di questo monte la decisiva battaglia (che pose fine alla guerra sociale) tra Silla e l’esercito della fazione democratica guidata dal console Gaio Norbano. Il dittatore, come è noto ebbe la meglio, e per ringraziamento consacrò al tempio di Diana Tifatina i campi su cui si era svolta la battaglia e l’intero monte Tifata: Vell. 2.25: Post victoriam, qua descendes montem Tifata cum C. Norbano concurrerat, Sulla grates Dianae, cuius numini regio illa sacrata est, solvit, aquas salubritate in mendendis corporibus nobiles, aut potius agros omnes addixit deae. La notizia è importante perché pone un problema in parte ancora irrisolto: lo statuto giuridico e l’estensione delle terre sacerdotali presenti nel territorio campano almeno a partire dal quarto secolo a.C. Sul punto J.P. Vallat, Statut juridique et statut reél des Terres en Campanie du nord (III-I av. J.C.), in QdS. 14 (1981) 86-87. Non vi sono dubbi che le terre della zona intorno al monte Tifata appartenessero a questa categoria. L’esistenza di una località denominata Syllae posta dalla Tabula Peutingeriana a sei miglia ad est del tempio, dimostra quanto la donazione di Silla fosse stata considerevole: J. Beloch, Campania 409. Inoltre, sembrerebbe che nelle assegnazioni di età cesariana e augustea il patrimonio del tempio sarebbe stato rispettato. Cfr. J. Beloch, Campania 409. Il Vallat, Statut juridique 87, invece, ritiene che almeno dal 199 a.C. queste estensioni di terreno fossero state sottoposte al pagamento di un vectigal senza essere qualificate come terre religiose. L’occasione sarebbe stata la vendita delle terre situate nei pressi di Capua che furono il teatro dello scontro tra i Romani e Annibale. Dato che i territori intorno al monte Tifata ebbero come è noto un ruolo centrale e i Romani procedettero alla ripartizione di questa parte orientale dell’ager publicus del territorio capuano attraverso una vendita di tali territori in rem vectigalem (211 a.C.): Liv. 23.36.2; 23.36.7; 23.39.9. Cfr. J. Beloch, Campania 409. Secondo J.P. Vallat, Statut juridique 90, 100 questi stessi territori (molto verosimilmente) sarebbero diventati demanio sacerdotale solo con Silla. La prima affermazione si baserebbe su un passo di Igino che afferma che i terreni venduti appartenenti alla categoria dell’ager publicus rientravano nella categoria dell’ager centuriatus. Hyg. de cond. agr. (Lach. 116,21=Thul. 79,22): Mancipes autem qui emerunt lege dicta ius vectigalis, ipsi per centurias locaverunt aut vendiderunt proximis quibusque possessoribus. Purtroppo le fonti non consentono di definire in modo soddisfacente la questione. Da quel poco che sappiamo, tuttavia, si può dedurre che il territorio appartenente al campus Stellatis fosse stato escluso da tale categoria e che comunque Cesare, nelle sue assegnazioni, abbia tenuto fuori i beni appartenenti al tempio. Augusto fece fare una mappatura dei terreni afferenti al tempio e la misurazione fu fatta di nuovo sotto Vespasiano nel 77 d.C.: CIL. 10.3828: IMP CAESAR/ VESPASIANUS/ AVG COS VIII/ FINES AGRORUM/ DICATORUM/ DIANAE TIFAT A/ CORNELIO SVLLA/ EX FORMA DIVI/ AVG RESTITVIT.

 

[236] La glossa festina spiega molto bene che a proposito della distribuzione dell’ager publicus da parte dello Stato romano nel periodo storico che stiamo studiando l’espressione ‘vendere’ aveva un significato tecnico: Fest. sv. vendáitionesñ (L. 516, 14-16): dicebantur censorum locationes; quod vel áut frñuctus locorum publicorum venibant.

 

[237] Cfr. M.A. Levi, Una pagina di storia agraria romana, in Atene e Roma 3 (1922) 239-252= Il tribunato della plebe e altri scritti su istituzioni publiche romane (Milano 1978) 53-65, in part. 54.

 

[238] Anzi si potrebbe dire che, in spregio ai numerosi tentativi di vendita censoria, i precedenti possessori cercarono forse di approfittare della situazione di evidente incertezza che si venne a determinare in seguito alla deditio del 211 a.C., se è vero quanto ci dice Livio a proposito dei tentativi dello Stato romano di recuperare la terra occupata abusivamente dai privati e sottratta al suo controllo. Cfr. Liv. 38.46.5; 42.1.6; Gran. Licin. 19.1.

 

[239] Cfr. De Sanctis, Storia dei Romani III.2 333.

 

[240] Contra F. De Martino, Gromatici e questioni graccane, in Sodalitas. Scr. A. Guarino, cit., p. 3135 ss. 

 

[241] Hyg. de cond. agr. (Lach. 284,9=Thul. 78,9); Sic. Flacc. de cond. agr. (Lach. 138,3=Thul. 102,1); Appian. b.civ. 1.7.27-29. V. però anche Isid. etym. 15.13.5.

 

[242] Liv. 27.11.7-8; 42.19.1.

 

[243] A. Lintott, Judicial reform 203.

 

[244] M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.157.

 

[245] Queste ultime parole relative ai terreni edificati assegnati dalle commissioni triumvirali introducono anche il capitolo riassuntivo di questa prima parte della legge. v. F. De Martino, Storia della costituzione romana 32.18, nt. 19.

 

[246] La forma indica una carta. Quella di Sardegna fu depositata nel tempio di Mater Matuta nel 174 a.C. Cfr. Liv. 41.28.10. La carta delle terre di Etiopia rimessa a Nerone: Plin. n.h. 12.(8).19. Una carta degli acquedotti è riprodotta in CIL. 6.1261. Sugli archivi fondiari v. C. Moatti, Archives et partage de la terre 79 ss.

 

[247] Sulle tavole dei censori Plin. n.h. 18.3: tabulae censoriae: Etiam nunc in tabulis censoriis pascua dicuntur omnia ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat. Cfr. F. Castagnoli, Atrium Libertatis, in Rend. Acc. Linc. 8.1 (1946) 276 ss.; C. Nicolet, Le temple de des Nymphes et les distributions frumentaires à l’époque républicaine, in CRAI. (1976) 29 ss.; F. Coarelli, Il foro romano. II. Periodo repubblicano e augusteo (Roma 1985) 79; C. Moatti, Archives et partage de la terre 82ss.

 

[248] Cic. de lege agr. 1.2.4: vendidit Italiae possessiones. Nullam enim praemittit. Persequitur in tabulis censoriis totam Italiam: nullum aedificium, nullum agrum reliquit.

 

[249] Cfr. Sicul. Flacc. (Lach. 154,13=Thul. 118,16): Ergo agrorum divisorum, qui institutis limitibus divisi sunt, formae varias appellationes accipiunt. quidam áinñ arboreáiñs, alii in (v) áañenis, alii in membráanñis scripserunt, et quamvis una res sit forma, alii dicunt perticam, alii centuriationem, alii metationem, alii cancellationem, alii typon…; (Lach. 202,10=Thul. 165,11): omnes aeris significationes et formis et tabulis aeris inscribemus, data, adsignata, concessa, excepta, reddita, commutata pro suo, reddita veteri possessori, et quaecumque alia inscriptio singularum letterarum in usu fuerit et in aere permaneat.

 

[250] Cfr. A. Piganiol, Les documents cadastraux de la colonie romaine d’Orange (Paris 1962). Cicerone parla di tabulae censoriae preesistenti relative alle Italiae possessiones in de lege agr. 1.2.4. Cfr. anche Plin. n.h. 18.(3).11: Etiam nunc in tabulis cansoriis pascua dicuntur omnia ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat. C. Moatti, Archives et partage de la terre dans le monde romain (II siècle avant-I siècle apré J.-C.), cit., p. 86 pensa per l’ager Campanus ad un rifacimento di tavole censorie precedenti da parte di Lentulo nel 162 a.C. Cfr. anche C. Moatti, Etude sur l’occupation des terres publiques à la fin de la République romaine, in Cahiers du Centre Glotz 3 (1992) 57 ss.

 

[251] Cfr. F. Castagnoli, Atrium Libertatis, in Rend. Acc. Lincei, cit., p. 276 ss.; C. Nicolet, Le temple des Nymphes et les distributions frumentaires à l’époque républicaine, cit., p. 29 ss.; F. Coarelli, Il foro romano. II. Periodo repubblicano e augusteo, cit., p. 79. Per il deposito di atti legislativi con testo inciso sul bronzo v. anche Dion. 4.26.4-5 a proposito del deposito nel tempio di Artemide (Venere) delle norme relative ai rapporti tra le civitates emanate da Tullio Ostilio.

 

[252] Cfr. L. Minieri, La colonizzazione di Capua tra l’84 e il 59 a.C., in G. Franciosi (cur.), La romanizzazione della Campania antica 1, cit., 254 ss.

 

[253] Almeno i possedimenti di cui alle ll. 1-2: terre che qualcuno [sibei]sumpsit reliquitve; ll. 2-3: terreni che i triumviri assegnarono sortitio ceivi Romanei; ll. 3-4: terre che furono [re]ddite; ll. 5-6: terreni che i triumviri assegnarono in urbe, oppido vico; ll. 6-7: terreni ed edifici che i triumviri assegnarono o registrarono in una forma censuale. Cfr. sul punto M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.153.

 

[254] La lacuna centrale esistente nella linea 8 impedisce di capire se i possedimenti per cui la legge richiede l’iscrizione nel censo siano stati fatti privati con questa norma, con il tenore generale della legge, o con un’altra legge. Si v. sul punto F.T. Hinrichs, Die lex agraria 267 s.; K. Johannsen, Die lex agraria 226 ss.; A. Lintott, Judicial reform 210 ss. Per parte della dottrina il tenore delle linee 19-20 farebbe chiaramente propendere per la terza soluzione, M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.159 ritiene che il disposto delle linee 19-20 avrebbe una portata più generale.  

 

[255] L. De Ligt, Studies in legal and agrarian history III: Appian and the lex Thoria 135 ss.

 

[256] Cfr. F.T. Hinrichs, Die lex agraria 270 ss.; K. Johannsen, Die lex agraria 226s.; A. Lintott, Judicial reform 209.

 

[257] Cic. Phil. 11.25; Tac. Agr. 39.2.

 

[258] Nelle lingue celtiche e in quelle germaniche si trova una forma *priyos da cui il gallese rhydd, il gotico freis, l’inglese free, il tedesco frei. Tutte parole nel significato di ‘libero’ che però non corrisponde al significato originario del termine che è collegato invece alla radice prai-/pri- nel significato di ‘avere o dare piacere’, ‘stimare’, ‘amare’. É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni europee 250 s. La circostanza è spiegata da Emile Benveniste considerando che *pryos indicherebbe una nozione di carattere affettivo, di cui si trova riscontro in indoiranico, dove il sanscrito priya- e l’avestico frya-, hanno il significato di ‘caro’. Interessante, però, è l’impiego idiomatico di questa radice nominale segnalata dallo stesso Benveniste perché, in questo senso, essa risulta riferita a ‘cose possedute’ del tutto personali e persino a ‘parti della persona fisica’. É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni europee 251. Sotto il profilo antiquario, la radice più antica che è possibile rintracciare di questa parola è invece in una base semitica, come dimostra l’ugaritico ‘pr’ nel significato di ‘elevato’, ‘distinto’, il ‘migliore’. Di qui, ad esempio, il nome di ‘Priamo’ che significa ‘principe del popolo’ in quanto derivazione dall’ugaritico pr (il ‘migliore’), più l’ebraico am (siriaco amma), o ugaritico ‘m (nel significato di ‘popolo’). G. Semerano, Le origini della cultura europea 1(2).693, 594.

 

[259] Così D. Sabbatucci, Lo Stato come conquista culturale (Città di Castello 1975) 176. V. anche la nozione di aedes privatae in D. Sabbatucci, L’edilità romana, magistratura e sacerdozio, in Memorie Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche, serie 8, vol. 6 (Roma 1954) 309 s.

 

[260] Lo stesso sistema augurale basato sulle varie categorie di ager (Romanus, Gabinus, peregrinus, hostilis, incertus) si basava sull’idea della ‘appartenenza etnica’ e non su quella della dislocazione territoriale. Sul punto si v. B. Brugi, Le dottrine giuridiche degli Agrimensori Romani 255, nt. 49.

 

[261] Sulla teoria augurale dei genera agrorum v. O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 210 ss.

 

[262] D. Sabbatucci, Lo Stato come conquista culturale 179.

 

[263] Un’esame pur sommario del latino giuridico usato dai compilatori giustinianei dimostra che la nozione di privatus opera sempre in un campo semantico dove rileva in contrapposizione all’idea di publicus. Fra l’altro, nel Digesto giustinianeo l’espressione privatum insieme a ius non compare con frequenza. Ampia disamina dello stato delle fonti in G. Aricò Anselmi, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in AUPA. 37 (Palermo 1983) 447-787. Per tale a. (p. 772) dopo Augusto il ius publicum non avrebbe avuto più cultori. L’ultimo ad occuparsene sarebbe stato Masurio Sabino, questo in ragione della progressiva dimenticanza di un’espressione (ius privatum) che sarebbe nata in rapporto a quella di ius publicum. Venendo meno l’interesse in quest’ultima, la conseguenza sarebbe stata la progressiva caduta in desuetudine anche della seconda. La comparsa nelle Istituzioni di Gaio (1.1) e il suo recupero da parte della commissione giustinianea nel primo libro del Digesto con appunto il frammento tratto dalle Istituzioni di Ulpiano [D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum], dello schema bipartito ius publicum/ius privatum è visto come ‘il riaffiorare di un antico relitto dopo un antico naufragio’ (p. 329). Ma vediamo. I passi giustinianei sulla contrapposizione privatus/publicus sono: D. 4.5.6 (Ulp. 51 ad Sabinum): Nam et cetera officia quae publica sunt in eo non finiuntur: capitis enim minutio privata hominis et familiae eius iura, non civitatis amittit; D. 8.1.14.1 (Paul. 15 ad Sabinum): servitus itineris ad sepulchrum privati iuris manet; D. 28.1.3 (Papin. 14 quaestionum): testamenti factio non privati, sed publici iuris est; D. 39.1.5.19 (Ulp. 52 ad edictum): Qui remissionem absentis nomine desiderat, sive ad privatum sive ad publicum ius ea remissio pertinet, satisdare cogitur: sustinet enim partes defensoris; D. 43.12.4 (Scaev. 5 responsorum): Quaesitum est, an is, qui in utraque ripa fluminis publici domus habeat, pontem privati iuris facere potest. respondit non posse; D. 1.2.2.46 (Pomp. liber singulari enchiridii): Tubero doctissimus quidem habitus est iuris publici et privati et complures utriusque operis libros reliquit. In D. 49.14.6 [(Ulp. 63 ad edictum): Fiscus cum in privati ius succedit, privati iure pro anterioribus suae successionis temporibus utitur] e D. 49.14.45.4 [(Paul. 1 sententiarum): (…) acta etiam ad ius privatorum pertinentia restitui postulantibus convenit (…)] si parla, invece, di ius privati e di ius privatorum in ordine al rapporto intercorrente tra il singolo e il fiscus. Il significato che sembra prevalere nei testi giustinianei appena citati è quello di privata necessitudinis, bene illustrato dallo stoico Seneca in de clem. 1.4.2: Ideo princeps regesque, et quocumque alio nomine sunt tutores status publici, non est mirum amari ultra privatas etiam necessitudines, e confermato da Plinio che, parlando di Aristone, lo definisce peritissimus et privati iuris et publici: Plin. epist. 8.14.1: Cum sis peritissimus et privati et publici cuius pars senatorium est. La definizione più importante (ed è per questo che l’ho lasciata per ultima) è tuttavia il famosissimo frammento delle Institutiones di Ulpiano in cui la nozione di privatus rileva in senso giuridico nell’ambito della dicotomia ius publicum/ius privatum, evidente retaggio ancora perfettamente conservato della contrapposizione ciceroniana status rei publicae/utilitas (dei consociati) che qualificava il rapporto tra ius publicum e ius privatum nell’ultimo cinquantennio della res publica [Per bibl. e probl. v. G. Aricò Anselmi, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone 452 ss. Sul concetto di utilitas e utile v. F.B. Cicala, Il concetto dell’“utile” e sue applicazioni in diritto romano (Milano 1914) 9 e passim; H. Ankum, “Utilitatis causa receptum”. Sur la methode pragmatique des juristes romains classiques, in RIDA. 15 (1968), 119 ss.]: D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit. Privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus. La definizione di ius privatum conservata in Ulpiano sembrerebbe descrivere ancora bene la realtà della legge del 111 a.C. La disciplina del legislatore, in fondo, per quanto attiene al publicus, cioè alla distribuzione dell’ager publicus, è proprio materia che riguarda i sacra, i sacerdoti e i magistrati (Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit). E la cosa si spiega agevolmente pensando che per l’età dei Severi, e rispetto al ius publicum, la definizione ulpianea può essere interpretata come un fossile dell’antico passato perché assolutamente incomparabile con la nozione di publicum che rileva negli altri passi del Digesto risalenti a quest’epoca e che abbiamo visto prima. Con il tramonto dell’età augustea la scientia iuris publici cominciò a perdere interesse per la giurisprudenza e il ius publicum inteso come materia pertinente i sacra, i sacerdozi e le magistrature (in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus) perse pertanto i suoi cultori. Lo dimostra un altro passo altrettanto noto di Ulpiano (lib. 10 ad ed.): D. 50.16.17 pr.: Inter ‘publica’ habemus non sacra nec religiosa nec quae publicis usibus destinata sunt: sed si qua sunt civitatium velut bona ed ancora di più lo evidenza la nozione di publica vectigalia: D.50.16.17.1 (Ulp. 10 ad ed.): ‘Publica’ vectigalia intellegere debemus, ex quibus vectigal fiscus capit: quale est vectigal portus vel venalium rerum, item salinarum et metallorum et picariarum. Rispetto al ius privatum, la definizione ulpianea si differenzia da tutte le altre per la rilevanza del concetto dell’utile e per il fatto che il ius privatum nell’età dei Severi appare già come una nozione non univoca, dato che la bipolarità pubblico/privato, come dimostra il tenore letterale di questa stessa fonte, aveva perso già gran parte della sua importanza. Si veda su questo G. Aricò Anselmi, Ius publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone 771 ss.

 

[264] Le fonti annalistiche riportano numerose notizie di assegnazioni viritane e coloniarie in epoca anteriore alla legge de quo. Senza affrontare il problema della attendibilità di tali testimonianze per le assegnazioni dell’età regia [su cui rinvio da ultimo con rif. bibl. aggiornati alla Premessa di Gennaro Franciosi in Leges regiae (Napoli 2002) IX-XIX] vanno ricordate le assegnazioni di Numa in Dion. 2.62.3-4, notizia che va collegata a quella delle norme attribuite a questo re sull’apposizione dei confini in Dion. 2.74.2-4. Per le assegnazioni di Tullo Ostilio e Anco Marcio v. Dion. 3.1.4-5; Cic. de re p. 2.18.33; Liv. 1.46.1. Quanto alle assegnazioni coloniarie vanno ricordate la assegnazione di bina iugera per il territorio di Labici nel 418 a.C., in Liv. 4.76.6.; i terna et septunces iugera di Volscos del 395 a.C., in Liv. 5.24.4; i bina et semisses iugera di Satricum del 385 a.C., in Liv. 6.16.6; le assegnazioni di Cales del 334 a.C., in Liv. 8.16.4; le assegnazioni di Tarracina del 329 a.C., in Liv. 8.21.11; le assegnazioni di Luceria del 314 a.C., in Liv. 9.26.5; di Interamna Sucasina in Liv. 9.28.8 e di Alba e Sora, in Liv. 10.1.2, del 303 a.C.; infine, Carseoli nel 302 a.C., in Liv. 10.3.2. Inoltre, a parte il progetto non realizzato di Spurio Cassio nel 486 a.C., vi sono la lex Icilia de Aventino publicando del 456 a.C. e la distribuzione dell’ager Veientanus nel 393 a.C. Ancora, si possono ricordare le assegnazioni dell’ager Latinus, Privernas e Falernus del 340 e 338 a.C. [per le vicende relative alla romanizzazione dell’ager Campanus v. O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 97 ss.]. Nel 283 la fondazione della colonia romana di Sena Gallica. Per il 273 ricordiamo la deduzione delle colonie latine di Paestum e Cosa e le assegnazioni viritane di Manio Curio Dentato [Val. Max. 4.3.5. E. Hermon, Habiter et partager 249 ss. Nel 268 quella di Ariminum]. Nel 232-228 a.C. fu promulgata la lex Flaminia de agro Piceno e Gallico viritim dividundo ad opera di Caio Flaminio Nepote [Cic. Brut. 14.57; de sen. 4.11; de inv. 2.17.52; acad. prior. 2.13; de leg. 3.8.20; Polyb. 2.21.7; Val. Max. 5.4.5; Cato orig. 2.10; Varro r.r. 1.2.7. E. Hermon, Habiter et partager 255 ss.]. Nel 173 si registrano le assegnazioni viritane dell’ager Ligustinus e Gallicus: Liv. 42.4.3. Per le assegnazioni degli anni a cavallo tra terzo e secondo secolo a.C. nell’ager Campanus v. retro. Su tutto si v. con indicazione di fonti e bibl. F. Serrao, Diritto privato economia e società 365 ss. e passim.

 

[265] Cfr. K. Johannsen, Die lex agraria 228 ss., 72, n. 30; A. Lintott, Judicial reform 209.

 

[266] Linea 15: ]dato neive solvito. ager publicus populi Romanei, quei in Italia P. Mucio L. Calpurnio cos. fuit, eius agri IIIvir a(greis) d(andeis) a(dsignandeis) ex lege plebeive scito sortito qoui ceivi Roma[no agrum dedit adsignavit…quod eius agri neque is abalie]navit abalienav[eritve, neque heres eius abalienavit abalenaveritve queive ab eo hereditate testamento deditioneve obvenit queive ab eorum quo emit, [16] quei eorum de ea re ante eidus martias primas in ious adierit ad eum, quem ex h. l. de eo agro ius deicere oportebit, is de ea re ita ius deicito d]ecernitoque, utei possesionem secundum eum heredemve eius det, quoi sorti is ager datus adsignatusve fuerit, quod eius agri non abalienatum erit ita utei s(upra) s(criptum) est.

 

[267] Linea 16: Ager publicus populi Romanei quei in Italia P. Mucio L. Calpurnio cos. fuit, quod eius agri IIIvir a. d. a. veteri possesori prove ve]tere possesionem dedit adsignavit reddidit, quodque eius agri III[vir a. d. a. in urbe oppido vico dedit adsignavit reddidit; linea 17: quod eius agri neque is abalienavit abalienaveritve neque heres eius, quoive ab eo hereditate testamento deditioneve obveni]t, queive ab eorum quo emit: quei eorum de ea re ante eidus martias primas in ious adierit ad eum, quem ex h. l. de eo agro ius deicere oportebit.

 

[268] M. Kaser, Die Typen 9 ss.

 

[269] M. Kaser, Die Typen 9 ss.; M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes 1.158.

 

[270] A. Lintott, Judicial reform 210.

 

[271] Cfr. B. Brugi, Le dottrine giuridiche degli Agrimensori Romani 193 ss., 302, 311 e retro, nt. 184.

 

[272] Sul punto A. Bignardi, “Controversiae agrorum” e arbitrati internazionali. Alle origini dell’interdetto ‘uti possidetis’ (Milano 1984) 53 ss.

 

[273] Cfr. G. Grosso, Corso di diritto romano. Le cose 101 ss.; G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica 142.

 

[274] Appian. b.civ. 1.10.38; 1.27.121; 3.2.1.

 

[275] Una delle tante conseguenze di ciò che Pasquale Voci ha definito come ‘difetto’ del diritto arcaico romano, ossia: “il formalismo, eccessivo e spesso senza corrispondenza con la realtà, quando non addirittura ridicolo”. Si v. P. Voci, Ars boni et aequi, in Index 30 (2002) 8.

 

[276] L. Zancan, Sul possesso dell’ager publicus, in Atti Acc. Scienz. Torino 67 (1932) 79 ss.

 

[277] C. Saumagne, Sur la loi agraire de 643/111 73 s.

 

[278] C. Saumagne, Sur la loi agraire de 643/111 73 s.: “L’ager privatus n’est pas l’ager privatus optimo iure. La loi agraire, lorsqu’elle veut que le terrain dont elle parle, soit régi par les règles pures du droit civil, le dit; le cas est clair à la ligne 27…Mais il s’agit ici d’un échange forcé: et il est naturel que la terre demaniale, reçue en représentation du bien privé exproprié, se substitue, droit pur droit, à se bien. La fermeté tecnique du législateur romain ne permet pas l’ambiguité. – Les lignes 8 et 19, d’autres encore, ne disent que privatus… Et si l’interprétation mommsénienne de notre loi agraire n’avait invinciblement pesé sur le sens et la portée des lignes 7 à 10, c’est en celles-ci que l’on aurait le plus aisément trouvé les éléments analytiques qui composent le droit réel sur cet ager privatus. Ces éléments…caractérisent un droit concret, celui de la possessio, exercé sur des terres qui, par leur statuit mixte et, en quelque sorte, transitoire, méritent d’étre appelées: possessiones”.

 

[279] L. Zancan, Sul possesso dell’ager publicus 80.

 

[280] Secondo L. Zancan, Sul possesso dell’ager publicus 80 s. si tratterebbe di queste: “Le prime sono contenute nelle ll. 1-10, e riguardano l’attività dei due Gracchi; si deve intendere infatti (a l. 19), come al solito, ex lege plebeive scito quod C. Sempronius Ti. f. tr. pl. rogavit. Si conferma dunque il carattere di privatus al terreno lasciato ai veteres possessores, entro i limiti stabiliti dalla lex Sempronia (ll. 1-2), e a quello assegnato dai triumviri, a sorte o no. Tutte queste terre sono comprese in un’unica categoria (ll. 6-7), di cui vengono determinati i diritti (ll. 8-10)”.

 

[281] L. Zancan, Sul possesso dell’ager publicus 82.

 

[282] L. Zancan, ibidem.

 

[283] H. Rudorff, Römische Feldmesser 2.315 e 314, nt. 220.

 

[284] Il passo è commentato da Feliciano Serrao [Diritto privato economia e società 384 s.] il quale vi legge la contrapposizione, nell’ambito dei modi di acquisto della proprietà, tra la proprietà che si acquista mediante mancipatio; e dall’altro lato, il possesso, rispetto al quale l’usus è visto come modo di essere e fonte per l’occupatio.

 

[285] M. Kaser, Die Typen 12, nt. 32. V. però sul punto le critiche di L. de Ligt, Studies in legal and agrarian history III: Appian and the lex Thoria 143 s.

 

[286] F. Serrao, Diritto privato economia e società 384. Anche sulla base dell’interpretazione del Rudorff vi è chi ha provato a spiegare l’espressione facendo un accostamento con la formula ager privatus vectigalisque delle linee 49 e 66. Linea 49: isque ager locus privatus vectigalisque; linea 66: ex h. l. f]actus erit, HS n(ummo) I emptus esto, isque ager locus privatus vectigalisque ita, [utei in h. l. supra] scriptum est, esto. A.A.F. Rudorff, Römische Feldmesser 2.315 e 314, nt. 220; M. Kaser, Die Typen 5 ss.; O. Behrends, Bodenhoheit 274 ss.; C.A. Cannata, ‘Possessio’ ‘possessor’ ‘possidere’ nelle fonti giuridiche del basso impero romano (Milano 1962) 10; G. Falcone, Ricerche sull’origine dell’interdetto uti possidetis 194, nt. 174; F. Serrao, Diritto privato economia e società 385. Giuseppe Falcone esclude che la formula si riferisca alla rilevanza, anche per il diritto privato, della tutela interdittale [cfr. M. Kaser, Die Typen 6], esclude altresì l’ipotesi di Okko Behrends basata sull’idea di una ‘Mischung’ concettuale che sarebbe stata tipica della ‘Veteres-Jurisprudenz’ [Bodenhoheit 274 ss.], ed esclude ancora che si debba spiegare tale espressione come effetto dell’incidenza di valori politico-ideologici, pur se sfumati, relativi ad una lotta di classe (patrizi/plebei) come prospetta Giovanni Lobrano [Il potere dei tribuni della plebe (Milano 1982) 232, nt. 231] facendo un accostamento con Liv. 2.41.2: (Sp. Cassius)…agri aliquantum, quem publicum possideri a privatis criminabantur. Su tutto v. G. Falcone, Ricerche sull’origine dell’interdetto uti possidetis 213 ss.

 

[287] F. Serrao, Diritto privato economia e società 385 s.

 

[288] G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 193 ss. e passim.

 

[289] Sarà questa forse la ragione per cui Theodor Mommsen in base a D.50.16.15 definirà come ‘publicus’ tutto ciò che per i giuristi era considerato di ‘proprietà del popolo romano’. Resta il dubbio tuttavia che il grandissimo studioso dello Schleswig concepisse tale espressione in modo improprio: D. 50.16.15 (Ulp. 10 ad ed.): Bona civitatis abusive ‘publica’ dicta sunt: sola enim ea publica sunt, quae populi Romani sunt. Come si vede, il criterio moderno della ‘titolarità del bene’ per la qualificazione giuridica di un bene immobile come ‘pubblico’ o ‘privato’ non è applicabile al diritto romano dell’epoca della legge agraria del 111 a.C. E il discorso può valere anche per l’età di Ulpiano. 

 

[290] Così G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 25 ss. L’atteggiamento della dottrina prevalente rispetto al problema viene riassunto dal giudizio di F. Horak, Wie waren die ‘veteres’? Zur Terminologie der klassischen römischen Juristen, in Vestigia Iuris Romani, Fest. Wesener (1992) 225 per cui Elio Gallo sarebbe un ‘grammaticus iuris non ignarus’. F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C. (Torino 1995) 58 ss. e ntt. 54 e 55, con argomenti di peso, opta per la soluzione indicata da Giuseppe Falcone che indica decisamente Elio Gallo come giurista. Sul punto si v. G. Falcone, Per una datazione del “de verborum, quae ad ius pertinent, significatione” di C. Elio Gallo. I. La struttura dell’opera, in AUPA. 41 (1991) 225 ss.; Id., Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 26 e nt. 59.

 

[291] F. Serrao, Diritto privato economia e società 382, nt. 50, insinua dei dubbi sulla genuinità di tale testo, adducendo come argomento la differenza lessicale tra la prima parte della definizione (possessio est usus quidam agri aut aedifici) e la seconda (non ipse fundus aut ager). L’autore ipotizza che in un primo momento nella definizione di Gallo ci fosse solo ‘ager’, mentre per successive stratificazioni si sarebbe aggiunto al testo aedificium e fundus. Ad ogni buon conto sul punto Serrao così conclude: “Se così fosse l’ager oggetto della più antica possessio, con grande probabilità, non poteva essere che l’ager publicus col cui usus(=sfruttamento) si verrebbe ad identificare la possessio più antica, conformemente a tutto quanto emerge dallo svolgimento storico ricostruibile per altre vie. In quest’ordine d’idee è verosimile che anche l’ager fosse il termine usato nel più antico testo dell’interdictum uti possidetis, sorto proprio a protezione della possessio privata dell’ager publicus”.

 

[292] Integrazione così proposta da G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 25, nt. 54 e accolta da F. Serrao, Diritto privato economia e società 382, nt. 51.

 

[293] Così C.O. Müller, Sexti Pompei Festi de verborum significatione quae supersunt cum Pauli epitome (Lipsiae 1839) 232, nt. 4; Ph.E. Huschke, Über die Stelle des Varro von Liciniern, nebst einer Zugabe über Festus, vv. ‘Possessiones’ und ‘Possessio’ (1835) 96 ss.; G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 25, nt. 55; F. Serrao, Diritto privato economia e società 383, nt. 52.

 

[294] Così Ph.E. Huschke, ibidem; G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 26, nt. 56; F. Serrao, Diritto privato economia e società 383, nt. 53.

 

[295] A questo punto va rilevata l’integrazione suggerita dal Cuiacio, sostenuta da Ph.E. Huschke, Über die Stelle des Varro 97; C.O. Müller, Sexti Pompei Festi de verborum significatione quae supersunt 232, nt. 6 e accolta anche da P. Voci, Diritto ereditario romano, I (Milano 1960) 152; C.A. Cannata, ‘Possessio’, ‘Possessor’, ‘Possidere’ 12; O. Behrends, Bodenhoeit 272 ss.; F. Serrao, Diritto privato economia e società 383, nt. 54. Secondo tali autori si dovrebbe leggere l’intera frase nemo ex [his qui] ·ex iure QuiritiumÒ possessionem sua vocare audet. Con attenta analisi esegetica e puntuali riscontri di bibliografia (a cui rinvio per un quadro completo sul problema) si v. anche G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 39 s., nt. 98 che giustifica in modo convincente la soluzione riportata ed accolta nel testo. In questa stessa direzione F. Bozza, La nozione della possessio. I. Epoca preclassica (Siena 1964) 1-239, in part. 66; L. Labruna, Vim fieri veto 91, nt. 2.

 

[296] Cfr. F.P. Bremer (ed.), Iurisprudentia Antehadriana quae supersunt, 1 (Leipzig rist. 1985) 245 ss.; L. Labruna, Tutela del possesso fondiario 663 ss. e passim; L. Capogrossi Colognesi, La proprietà in Roma, dalla fine del sistema patriarcale alla fioritura dell’ordinamento schiavistico, in A. Corbino-F. Milazzo (curr.), Diritto e Storia. L’esperienza giuridica di Roma attraverso le riflessioni di antichisti e giusromanisti contemporanei. Antologia (Padova 1995) 291-325[=La terra in Roma antica. Forme di proprietà e rapporti produttivi I (età arcaica) (Roma 1981) 135 ss.].

 

[297] Si v. sul punto M. Lauria, Possessiones. Età repubblicana2 (1957) 32; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi mezzi e fini (1966) 126; L. Labruna, Vim fieri veto 106; A. Burdese, sv. Possesso (dir. rom.), in ED. 34 (Milano 1935) 452; O. Behrends, Bodenhoeith 273. Per ulteriori ed esaurienti indicazioni sull’interpretazione del frammento eliano si v. G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 46 s. e passim. Ma anche G. Nicosia, Il possesso I. Dalle lezioni del corso di diritto romano 1995-96 (Catania 1997) 129 e passim; F. Serrao, Diritto privato economia e società2 1.382 ss.

 

[298] Cfr. F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur 62 che riferisce la proposizione di Falcone [Per una datazione del del ‘De verborum, quae ad ius civile pertinent, significatione’ di C. Elio Gallo 260] per il quale il De verborum quae ad ius pertinent significatione sarebbe stato scritto “non oltre l’inizio del I secolo a.C.”. Si v. sul punto anche F. Bona, Alla ricerca del ‘de verborum, quae ad ius civile pertinent, significatione’ di C. Elio Gallo, in BIDR. 90 (1990) 119 ss.

 

[299] G. Falcone, Sulle origini 30. Per maggiore precisione riporto letteralmente le parole dello studioso: “(n.d.r., la definizione di Elio Gallo)…consiste in una recisa puntualizzazione terminologica e concettuale al tempo stesso, suscitata, evidentemente, dalla diffusione di un impiego atecnico del termine ‘possessio’ indicante, anziché il rapporto giuridico di possesso, l’immobile posseduto. Di questa diffusione abbiamo riscontri assai significativi, come vedremo, in testi legislativi tardo repubblicani, in cui l’insistente impiego traslato del vocabolo dimostra l’avvenuta assunzione dello stesso anche nel linguaggio ufficiale. Anzi – anticipiamo subito il nostro pensiero – è verosimile che l’ammonimento di Elio Gallo sia stato determinato proprio dalla lettura di quei dettati normativi”.

 

[300] G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 30.

 

[301] Si v. sul punto G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 31, nt. 74; 32, nt. 75 s. e 102, nt. 288. Circa il primo frammento B. Brugi, La dottrine degli Agrimensori Romani 255 vi vede un ricordo dell’antica possessio da parte di Giavoleno. C.A. Cannata, ‘Possessio’, ‘Possessor’, ‘Possidere’ 12 ss. ritiene che Giavoleno abbia tratto ispirazione proprio da Elio Gallo come dimostra anche la frase ‘possessio ergo usus, ager proprietas loci est’.

 

[302] Cfr. con rif. bibl. ivi G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 31, nt. 74. 

 

[303] C.A. Maschi, Il diritto romano I. La prospettiva storica della giurisprudenza classica2 (1966) 433 ss., 455 ss., 478 ss. Si v. sul punto l’attenta esegesi di G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 102, nt. 288.

 

[304] L’ipotesi di Giuseppe Falcone [Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 30, 35] che per primo confessa di ritenere suggestiva, di accostare la definizione eliana a quella di Fest. (L. 277,4) come parti di un discorso dello stesso giurista, viene forse superata, come si è già rilevato sopra, dalla considerazione che gli agri late patentes erano dei terreni non delimitati (patentes=‘aperti’) e pertanto non misurati (in gergo agrimensorio ager solutus). Il glossografo potrebbe aver voluto fare riferimento in questo caso alla possessio di terreni particolari. Delle aree che, in antitesi agli agri limitati, potevano configurarsi come terreni abbandonati o di nessuno. La definizione di Fest. (L. 277,4) potrebbe essere spiegata in questa prospettiva anche tenendo conto di Appian. b.civ. 1.18.76 che definisce, appunto, le possessiones abusive di terreno: Žn¢mhton; ossia, terre non divise da limites. Per l’interpretazione di questo passo v. anche G. Nicosia, Il possesso 132 s. che ritiene adeguato l’accostamento di et ut quisque occupaverat, coláebat et possñidebat all’ager occupatorius, ma non agli agri privati [p. 132].

 

[305] G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 43, nt. 105.

 

[306] M. Kaser, Die Typen 14; C.A. Cannata, ‘Possessio’, ‘Possessor’, ‘Possidere’ 11.

 

[307] Sul significato di usus nella legge agraria del 111 a.C. Cfr. S. Solazzi, Usus proprius, in SDHI. 7.2 (1941) 373-420. Si v. ora G. Nicosia, Il possesso 133. Riferendosi alle linee 11, 32 e 50-52, il maestro catanese afferma: “Va pure notato l’impiego del termine usus, nel senso ampio di concreta utilizzazione, che trova riscontro (proprio a cavallo del passaggio della condizione degli agri da pubblici a privati) nella lex agraria del 111 a.C., dove ricorre l’espressione uti frui habere possidere”. Sul significato di questa espressione come diritto dei concessionari di ager publicus si v. O. Carrelli, Possessio vel ususfructus in Gai. 2.7, in SDHI. 1 (1935) 379 ss.; S. Solazzi, Usus 374, nt. 5.

 

[308] Non bisogna dimenticare quella che fu una delle direttrici di fondo dell’intero progetto di riforma graccano. Il tentativo di rendere effettiva una norma sull’inalienabilità dei terreni assegnati. Un’eventualità che fu impossibile tradurre nei fatti e che, con la promulgazione della legge agraria, fu scongiurata definitivamente. Cfr. sul punto O. Sacchi, La nozione di ager publicus populi Romani 36 ss.

 

[309] Anche Feliciano Serrao [Diritto privato economia e società 384] è intervenuto a proposito della definizione di Elio Gallo. Riporto qui per esteso il pensiero dello studioso: “…da essa (n.d.r., la definizione di Elio Gallo) emergono i seguenti due principi: a) la possessio consiste in un determinato uso, o sfruttamento, dell’ager. Essa quindi non è un bene materiale e non si confonde con la cosa su cui insiste; b) il possessore, per tutelare la sua posizione, non può servirsi della legis actio sacramenti in rem, con la quale l’attore afferma che una cosa è sua in base al ius civile, ma deve rivolgersi al pretore chiedendo che egli emetta un interdetto, ossia ordini ad entrambi di non turbare o mutare violentemente la situazione di possesso (ossia l’occupazione di fatto) esistente su un appezzamento di terreno, o su un edificio, sempre che tale situazione non derivi da azioni violente o clandestine o da concessione precaria dell’uno nei confronti dell’altro”. Inoltre, in base al riscontro inequivocabile della linea 18, il Serrao considera indicativa: “la corrispondenza terminologica della definitio di Elio Gallo con la legge agraria epigrafica del 111 a.C.”. Senonché, lo studioso (che mostra di aver letto con molta attenzione Falcone), pare che vada in una direzione decisamente opposta. Se bene ho inteso la ricostruzione del maestro romano, la concezione di possessio della legge agraria sarebbe stata conforme a quella prospettata da Elio Gallo. Anche in questo caso, tuttavia, userei maggiore cautela. Una cautela dettata evidentemente dal tenore letterale della legge agraria del 111. Anzitutto, nel caso che stiamo esaminando, l’appartenenza/possessio (in senso lato) non sembrerebbe derivare da una situazione di fatto, ma va configurata come legittima (adsignatio o legittimazione ex lege o senatoconsulto). La situazione di possesso di cui parla la legge che stiamo commentando non è quindi un’occupazione di fatto, ma una posizione giuridicamente qualificata come legittima dallo stesso legislatore. La glossa festina sulla definizione di possessiones è utile per lumeggiare aspetti della storia di tale istituto (soprattuto con riferimento alle fasi originarie), ma non può definire in senso stretto ed assoluto la possessio disciplinata dalla legge agraria. In secondo luogo, la qualificazione giuridica delle posizioni previste dal legislatore rientra nella doppia endiadi uti frui habere possidere. Quindi uso (uti frui), appartenenza piena (habere), possesso (possidere). Non c’è solo la possessio c’è anche l’habere materiale. Si deve anche rilevare che secondo il Serrao la possessio della lex agraria sarebbe una forma di possessio conforme alla definizione eliana. Su questo punto in particolare non sarei così netto perché Giuseppe Falcone a mio avviso ha ragione nel sottolineare il carattere ‘materiale’ di alcune figure di possessio individuate dal legislatore del 111. Il fatto è che la linea 18 dimostra che le situazioni di ager privatus indicate come tali nel testo legislativo sono qualificate come possessio in senso stretto e tutelate mediante un interdetto unde vi e quindi in modo conforme ad una tutela di tipo possessorio. Sul punto ampia ed esauriente disamina in G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 146 ss. e 227. Ragguaglio di fonti anche in B. Albanese, Le situazioni possessorie nel diritto privato romano (Palermo 1985) 14, nt. 30.

 

[310] Ampio e chiaro quadro d’insieme in E. Vernay, Servius et son Ecole. Contribution à l’histoire des idées juridiques à la fin de la République romaine (thèse) (Paris 1909) 44 ss. e passim.

 

[311] Si v. sul punto con bibl. essenziale di riferimento F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur 58 ss. Anche M.J. García Garrido, Derecho privado romano 704 include Elio Gallo tra i giuristi. Insieme a questo personaggio possiamo ricordare inoltre anche Sesto Elio, Lucio Acilio ed Elio Stilone (che fece come il secondo anche un commento alle XII tavole), tutti, protagonisti di memorabili dispute sull’esatto significato dei vocaboli impiegati nel lessico giuridico. I seguenti frammenti di carattere lemmatico mi paiono sufficienti per suffragare l’ipotesi avanzata nel testo: GRF. (Funaioli 59) 6 [Cic. top. 10]: is est assiduus, ut Ait Aelius, appellatus ab aere dando; GRF. (Funaioli 61) 13 [Cic. de leg. 2.23.59]: L. Aelius lessum [suspicatur] quasi lugubrem eiulationem, ut vox ipsa significat; GRF. (Funaioli 66) 36 [Fest. 290b,24]: sonticum morbum in XII [2.2. S.] significare ait Aelius Stilo certum cum iusta causa; GRF. (Funaioli 67) 41 [Fest. 352a,5] átransque dato notañvit Aelius in XII signiáficare traditoqueñ; GRF. (Funaioli 71) 54 [Paul.-Fest. 77,1]: endoplorato implorato, quod est cum questione inclamare; GRF. (Funaioli 71) 55 [Paul.-Fest. 84,9; Cic. de leg. 2.61]: forum - cum is forum antiqui appellabant, quod nunc vestibulum sepulchri dici solet; GRF. (Funaioli 71) 57 [Prisc. 382,1]: Aelius: inpubes libripens esse non potest neque antestari, prodiamarturhJ°nai; GRF. (Funaioli 74) 68 [Plin. 21.7]: inde illa XII tabularum lex [10.7]: ‘qui coronam parit ipse pecuniave eius, virtutis suae ergo duitor ei’. quam servi equive meruissent, pecunia partam lege dici nemo dubitavit. quis ergo honos? ut ipsi mortuo parentibusque eius, dum intus positus esset forisve ferretur, sine fraude esset inposita; GRF. (Funaioli 76) 78 [Fest. 371b,5.]: viginti quinque poenae in XII [8.4] significat viginti quinque asses. Sul punto si v. anche O. Sacchi, Il mito del pius agricola e riflessi del conflitto agrario dell’epoca catoniana nella terminologia dei giuristi medio/tardo repubblicani 277, nt. 75. Dello stesso avviso anche I. Ramelli (ed.), Marziano Capella. Le nozze di filologia e Mercurio XXVIII. Più in generale v. F.M. d’Ippolito, Problemi storico-esegetici delle XII tavole (Napoli 2003) 89 ss., in part. anche 145 s.

 

[312] Così D. Stojcevic, Proprietà sociale, proprietà feudale e “dominium”, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino 4 (Napoli 1984) 1928. 

 

[313] G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 102, nt. 288: “Non pare azzardato, allora, ritenere che il discorso storico di Paolo, arricchito da notazioni di precedenti giuristi, fosse ben più articolato. In particolare, è possibile supporre che il giurista tardo classico, dopo essersi soffermato sulla nozione, fissata in antitesi alla concezione più antica, descrivesse l’originaria indistinzione fra possesso e proprietà e il successivo disgiungersi delle due figure”. Secondo G. Nicosia, Il possesso 136 in D. 41.2.1 pr. la denominazione di possessio pronunciata da Labeone e seguita da Paolo (su una derivazione etimologica da pot- sedere) sarebbe una conferma del fatto che: “…quando si trattava di spiegare la derivazione etimologica del termine, il riferimento era sempre alla possessio degli immobili”.

 

[314] Per un quadro d’insieme aggiornato con bibl. e fonti sulla rogatio Servilia si v. J.L. Ferrary, Rogatio Servilia Agraria, in Athenaeum 66 (1988) 158 s.; L. Minieri, La colonizzazione di Capua tra l’84 e il 59 a.C. 257 ss.  

 

[315] Come si vede Cicerone definisce praedia optimo iure quei terreni posseduti senza gravami di sorta come poteva essere un vectigal o un’ipoteca (capita subsignata). Ed è interessante rilevare, altresì, che a proposito di un terreno posseduto da Cicerone in agro Tuscolano, lo stesso ci dice che questo era gravato da vectigal pur essendo stato acquistato con atto negoziale traslativo privato (ego Tusculanis pro aqua Crabra vectigal pendam, quia mancipio fundum accepi). Insomma: libera meliore sunt quam serva, soprattutto se si tratta di possedimenti individuali, ma siamo ancora lontani dalla sicurezza che ad un privato poteva dare la titolarità di un bene posseduto in qualità di dominus ex iure Quiritium. Il passo è considerato da parte della dottrina espressione del praedium liberum (D. 19.1.8) contrapposto al praedium servum. Cfr. G. Franciosi, Studi sulle servitù prediali 210 s., ma anche G. Grosso, Lezioni. Le servitù prediali 1 (Torino 1931-1932) 17, 20; Id., in Riv. di dir. agr. 17 (1938) 179. V. anche D. 50.16.126 (Proc. 6 epist.): Si, cum fundum tibi darem, legem ita dixi ‘uti optimus maximusque esset’ et adieci ‘ius fundi deterius factum non esse per dominum praestabitur’, amplius eo praestabitur nihil, etiamsi prior pars, qua scriptum est ‘ut optimus maximusque sit’ liberum esse significat e D. 50.16.169 (Paul. 5 ad Sab.): Non tantum in [traditionibus] <mancipationibus>, sed et in emptionibus et stipulationibus et testamentis adiecto haec ‘uti optimus maximusque est’ hoc significat, ut liberum praestetur praedium, non ut etiam servitutes ei debeantur. Il Franciosi considera equivalente il praedium liberum al fundus optimus maximus, tuttavia tra la testimonianza di Cicerone e i frammenti di Proculo e Paolo c’è la differenza che è data dal segno di un’evoluzione nel riferimento alle categorie giuridiche. Con Cicerone si parla ancora a mio avviso in senso generico (libera meliora quam serva) di ‘pesi giuridici’ che possono gravare sul ‘possesso migliore’; con Proculo e Paolo, nella compilazione giustinianea, ma specialmente con Paolo si parla più propriamente di fundus optimus maximus come di fondo ‘libero da servitù’ (‘uti optimus maximusque est’ hoc significat, ut liberum praestetur praedium, non ut etiam servitutes ei debeantur). Sulla nozione di ‘forme di appartenenza’ si v. con rif. bibl. essenziali A. Burdese, La proprietà e le proprietà nell’esperienza giuridica romana, in SDHI. 55 (1989) 411-418.

 

[316] Cfr. J.L. Ferrary, Rogatio Servilia Agraria 158 s. e nt. 79, che assimila il linguaggio di Cicerone a quello della legge agraria del 111 a.C.

 

[317] Cic. de lege agr. 3.3.11: Nam attendite quantas concessiones agrorum hic noster obiurgator uno verbo facere conetur: “Quae data, donata, concessa, vendita”. Patior, audio. Quid deinde? “possessa”. Hoc tribunus plebis promulgare ausus est, ut, quod quisque post Marium et Carbonem consules possidet, id eo iure teneret ut quod optimo privatum est? Etiamne, si vi eiecit, etiamne, si clam, si precario venit in possessionem? Ergo hac lege ius civile, causae possessionum, praetorum interdicta tollerunt. [12] Non mediocris res neque parvum sub hoc verbo furtum, Quirites, latet. Sunt enim multi agri lege Cornelia publicati nec cuiquam adsignati neque venditi, qui a paucis hominibus impudentissime possidentur. His cavet, hos defendit, hos privatos facit; hos, inquam, agros, quos Sulla nemini dedit Rullus non vobis adsignare vult, sed eis condonare, qui possident. Causam quaero, cur ea, quae maiores vobis in Italia, Sicilia, Africa, duabus Hispaniis, Macedonia, Asia quaesiverunt, venire patiamini, cum ea, quae vestra sunt, condonari possessoribus eadem lege videatis.

 

[318] Vediamo più in dettaglio. Apprendiamo da tale frammento che dei possedimenti di terra sarebbero stati inscritti nelle liste del censo (haec praedia etiam in censu dedicavisti) indipendentemente dal titolo giuridico (Mitto quod aliena, mitto quod possessa per vim, mitto quod convicta ab Apollonidensibus, mitto quod a Pergamenis repudiata, mitto etiam quod a nostris magistratibus in integrum restituta) e che, sempre indipendentemente dal titolo giuridico, il titolare di tali beni avrebbe potuto rischiare di essere assoggettato al pagamento del tributo per questo solo fatto (Commisisti, si tempus aliquod gravius accidisset, ut ex isdem praediis et Apollonide et Romae imperatum esset tributum). Sul significato di subsignari apud aerarium è interessante il collegamento con D. 50.16.39 pr. (Paul. 53 ad ed.): ‘Subsignatum’ dicitur, quod ab aliquo subscriptum est: nam veteres subsignationis verbo pro adscriptione uti solebant. Come si vede il giurista Paolo sottolinea che il significato antico di tale termine corrispondeva a quello che per la sua epoca si chiamava ancora l’adscriptio. Era il nomen dare degli aspiranti coloni: Liv. 34.42.5: Puteolos Salernumque et Buxentum adscripti coloni qui nomina dederunt; Liv. 3.1.7: Iussi nomina dare qui agrum accipere vellet; Fest. sv. adscripti (L. 13,20): dicebantur, qui in colonias nomina dedissent, ut essent coloni. Cic. pro Balb. 30; pro Arch. 6-10; ad fam. 13.30; Liv. 8.14.7; 34.42.5; 63.17.1; Dion. 9.59.2. Cfr. C. Moatti, Archives et partage de la terre dans le monde romain 11 ss. È interessante notare che nel frammento dell’orazione appena esaminato Cicerone per descrivere la posizione giuridica del titolare di possessio usa il termine mancipium (sitne ista praedia censui censendo, habeant ius civile, sint necne sint mancipi), anche se, in ordine alla qualificazione giuridica dell’oggetto di tale posizione, in contrapposizione alla parola possessione c’è re e non dominium, o altro termine equivalente (quod nullo iure neque re neque possessione tua).

 

[319] Sul concetto di ‘res’ si v. con rif. bibl. M. Bretone, I fondamenti del diritto romano 43 ss. e passim. Sul problema della datazione del De verborum quae ad ius (civile) pertinent significatione di C. Elio Gallo si v. per tutti M. Bretone, I fondamenti 252 s. che pone un arco temporale oscillante tra il 175/150 e l’età di Augusto. Da segnalare anche il tentativo di datazione (che Bretone definisce ottimistico: si v. I fondamenti 253) di G. Falcone, Sull’interdetto uti possidetis 225-260 negli anni tra la fine del secondo e gli inizi del primo secolo a.C. Se avesse ragione Giuseppe Falcone l’anno di pubblicazione del libro di Elio Gallo cadrebbe proprio negli anni in cui fu promulgata la legge agraria del 111 a.C. In età ulpianea ‘res’ sembrerebbe cominciare ad acquistare un significato preciso: D. 50.16.23 (Ulp. 14 ad ed.): ‘Rei’ appellatione et causae et iura continentur. Dunque un valore semantico insieme tecnico, perché nella definizione ulpianea vi è un riferimento esplicito (iure), ma anche di particolare erudizione perché si coglie una matrice filosofica (causae). I giustinianei hanno raccolto anche una definizione di res del giurista Paolo sempre tratta dal commento all’editto: D. 50.16.5 (Paul. 2 ad ed.): ‘Rei’ appellatio latior est quam ‘pecuniae’, quia etiam ea, quae extra computationem patrimonii nostri sunt, continet, cum pecuniae significatio ad ea referatur quae patrimonio sunt che va letta anche insieme a D. 50.16.72 (Paul. 76 ad ed.): Appellatione ‘rei’ pars etiam continetur. I compilatori evidentemente ebbero la percezione storica di questo concetto di res e i passi citati dimostrano che seppero coglierla ancora nei testi dei giuristi dell’età severiana.

 

[320] Silvio Perozzi [Istituzioni di diritto romano 1 (Firenze 1906) 465] e Luigi Capogrossi Colognesi [Proprietà e diritti reali 157 con rif. bibl. in nt. 9] sottolineano il fatto che comunque tale azione fu introdotta prima di Masurio Sabino. La precisazione mi colpisce perché attraverso il filone sequenziale della valutazione in senso patrimonialistico di alcune fattispecie giuridiche si può ricostruire un percorso che accomuna Q. Mucio (uti legassit suae rei); la visione ciceroniana della possessio fundi appena evidenziata in termini reali (quod nullo iure neque re neque possessione tua) e Gaio che sottolinea ancora alla sua epoca il legame strettissimo tra la potestas e il godimento effettivo di un bene dal punto di vista della posizione del proprietario (ita demum servum in potestate domini esse dicemus, si in bonis eius sit).

 

[321] Per il quadro della situazione M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano (Milano 1990) 389 ss. e 446 ss.

 

[322] Si v. G. Falcone, Sulle origini dell’interdetto uti possidetis 143 ss.; G. Nicosia, Il possesso 137 ss. e passim. In alternativa si potrebbe spiegare la fonte ciceroniana ricorrendo alla cd. proprietà provinciale o peregrina. È interessante notare tuttavia che il tenore delle parole di Cicerone dimostra che il linguaggio è ancora quello del possesso.

 

[323] Non è questa la sede per affrontare un tema complesso come quello dell’affermazione della figura giuridica della proprietà privata immobiliare (dominium ex iure Quiritium) nella giurisprudenza e nel diritto romano dell’età arcaica e repubblicana, tuttavia, sulla storia della proprietà arcaica a Roma si v. almeno A. Watson, The Law of Property in the Later Roman Republic (Oxford 1968); L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorum nell’età repubblicana 64 ss.; 452; G. Diosdi, Ownership in Ancient and preclassical Roman Law (Budapest 1970) 131 ss.; G. Grosso, Schemi giuridici e società nella storia del diritto privato romano (Torino 1970) 134 ss.; F. Gallo, “Potestas” e “dominium” nella esperienza giuridica romana, in Labeo 16 (1970) 17 ss.; M. Kaser, Das römische Privatrecht I. Das altrömische, das vorklassiche und klassische Recht (München 1955) 119 ss.; Ye.M. Staerman, La proprietà fondiaria in Roma, in VDI. 127 (1974) 34 ss.

 

[324] Si v. S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano 387 s.; V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano14 (Napoli 1958) 183 ss.; L. Capogrossi Colognesi, La proprietà in Roma 310; M.J. García Garrido, Derecho privado romano 214. Sintomatico esempio di un certo modo di affrontare questi temi è il saggio di D. Stojcevic, Proprietà sociale, proprietà feudale e “dominium” 1927 ss. che non affronta deliberatamente la questione terminologica evitandola con un artificio a mio parere retorico: “Delineando così la storia della proprietà a Roma, ho di mira l’essenza sociologica della proprietà. piuttosto che la sua forma, il contenuto dei rapporti piuttosto che il loro nome. Ciò mi permette di trascurare, per esempio, sia il fatto, a tutti noto, che i nomi dominium ex iure Quiritium e proprietas si sono formati relativamente tardi, sia anche la questione dei termini usati nei primi secoli per indicare la proprietà. Quest’ultima è una questione importante, ma nei limiti che abbiamo a disposizione, possiamo trascurarla, bastandoci richiamare la identità essenziale dei rapporti di proprietà su menzionati, con quelli che saranno chiamati in seguito dominium e proprietas”.

 

[325] Gai. 2.40: Sequitur ut admoneamus apud peregrinos quidem unum esse dominium; nam aut dominus quisque est, aut dominus non intellegitur. Quo iure etiam populus Romanus olim utebatur: aut enim ex iure Quiritium unusquisque dominus erat, aut non intellegebatur dominus. Sed postea divisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure Quiritium dominus, alius in bonis habere.

 

[326] Naturalmente si tratta di frammenti delle Istituzioni di Gaio che sono indagatissimi, eppure il giurista mi pare in questo caso molto preciso sul piano terminologico. Quando parla dell’epoca più antica dice che il ‘dominium’ era uno solo. Lo dice probabilmente ai suoi allievi, quindi in un’epoca in cui la categoria del dominium ex iure Quiritium era già conosciuta. Quando parla dell’epoca più antica riferisce invece che presso i Romani il ‘dominus’ era uno solo (unusquisque dominus erat) e che, dopo che l’ordinamento ebbe ammessa la distinzione tra i due tipi di ‘proprietà’ (Sed postea divisionem accepit dominium), da un lato un soggetto avrebbe potuto essere proprietario (dominus) ex iure Quiritium; dall’altro, proprietario secondo il diritto pretorio (alius in bonis habere), senza usare però un termine qualificativo (come dominus) per questa seconda fattispecie. Al cd. duplex dominium Gaio, come è noto, si era riferito già in 1.54: Ceterum cum apud cives Romanos duplex sit dominium (nam vel in bonis vel ex iure Quiritium vel ex utroque iure cuiusque servus esse intellegitur), ita demum servum in potestate domini esse dicemus, si in bonis eius sit, etiamsi simul ex iure Quiritium eiusdem non sit; nam qui nudum ius Quiritium in servo habet, is potestatem habere non intellegitur. Rinvio per la critica aggiornata e rinvii bibl. essenziali a L. Vacca, Il c.d. ‘duplex dominium’ e l‘actio Publiciana’, in Studi De Sarlo (Milano 1989) 41 ss. È utile rileggere questo notissimo frammento perché vi si trovano indizi che aiutano a chiarire ancor di più il discorso che stiamo facendo. Esso stabilisce nesso strettissimo sul piano giuridico tra la posizione del titolare di potestas e il godimento di un bene (in senso reale) oggetto di potestas (ita demum servum in potestate domini esse dicemus, si in bonis eius sit); il che vuol dire che se ci poniamo nell’ottica di Gaio (ex post) e valutiamo da questa prospettiva il dettato normativo del testo di legge che stiamo commentando, non avremmo nessuna difficoltà a considerare anche la posizione del titolare di ager privatus come quella di un proprietario (non però qualificabile a rigore titolare di dominium ex iure Quiritium). Metodologicamente, tuttavia, credo sia giusto cercare di affrontare il problema ex ante. Un’altro indizio particolarmante significativo che si ricava da questa testimonianza è che la menzione del rapporto tra dominus e servus, in un discorso dedicato al dominum ex iure Quiritium, dimostra che il nesso rilevato in storiografia tra erus/dominus e hereditas/dominium è fondato sul piano storico giuridico.

 

[327] In questo senso già il Solazzi [Usus proprius 379, nt. 17] che stabilisce un collegamento tra la linea 27 e Liv. 40.51.5: post argentarias novas et forum piscatorium circumdatis tabernis, quas vendidit in privatum, nel senso di attribuzione in proprietà.

 

[328] L. Pellecchi, La legge e il magistrato. Intorno a una tecnica normativa romana 74 e passim. Si v. D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 inst).

 

[329] In questo caso si dovrebbe quindi escludere l’ipotesi di Ch. Appleton, Historie de la propriété prétorienne 1 (Paris 1899) 1.31 ss. che colloca cronologicamente l’actio Publiciana alla fine del II secolo a.C. Si v. anche P. Bonfante, Corso di diritto romano II.2 [Milano (rist. della prima ed. 1928) 1968] 327; G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano2 (Torino 1990) 472; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano 446 ss.

 

[330] A. Lintott, I frammenti da Urbino 75. Il discorso è collegato al riscontro di cippi graccani in cui compare invece la formula A D I A. che secondo parte della dottrina si dovrebbe attribuire all’attività delle commissioni agrarie vigente il regime della prima lex Sempronia.

 

[331] Riprendo le parole di G. Nicosia, Il possesso 39 perché particolarmente appropriate: “Viceversa la possessio era nata nel campo del diritto pubblico, quale possessio dell’ager publicus (che era a tempo indeterminato, sebbene fosse almeno teoricamente revocabile), e solo successivamente trovò applicazione nel campo del diritto privato, non come istituto di ius civile, bensì di diritto pretorio; poteva avere ad oggetto solo beni corporali, anzi in origine solo immobili (gli agri pubblici); era tutelata attraverso gli appositi interdetti; era escluso (almeno in origine) che potesse portare all’acquisto di alcun diritto (gli agri restavano sempe pubblici); si basava su una concessione (per l’ager publicus, da parte degli organi competenti)”. Sulla valutazione della dottrina in materia di possessio v. anche Nicosia, Il possesso 11-46. In modo conforme alla Bozza si v. F. Gallo, ‘Potestas’ e ‘dominium’ nell’esperienza giuridica romana 35, nt. 33: “Si potrebbe aggiungere che anche l’in bonis esse o habere e la proprietà provinciale fanno parte della storia della proprietà romana. A parte questo, il loro sorgere e il loro sviluppo non sono stati, a mio avviso, privi di influenza sulla concezione e configurazione dello stesso dominio quiritario”. Anche M. Marrone, Istituzioni di diritto romano. Cose diritti reali possesso obbligazioni (Palermo 1987) 404 ss. e nt. 35; M.J. García Garrido, Derecho privado romano 212.

 

[332] Cfr. O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 149 ss. Così fu ad esempio per l’ager Veientanus Capenas nel 396 a.C. e, in base a Livio, sembrerebbe potersi dire che almeno sul litorale tirrenico l’ager Falernus e l’ager Campanus confinassero ancora con l’ager Romanus [Liv. 22.15.4: Casilinum occupat modicis praesidiis, quae urbs Volturno flumine dirempta Falernum a Campano agro dividit; 22.15.11: ne ab Sinuessa Poenus Appiae limite pervenire in agrum Romanum posset]. L’autore delle Origines, dal canto suo, che conosceva bene il diritto, mette in relazione l’annessione dell’ager Gallicus con l’ager Romanus senza qualificare quest’incremento territoriale come un incremento di ager publicus: Cato in Varro r.r. 1.2.7: An non M.Cato scribit in libro Originum sic: ‘ager Gallicus Romanus vocatur, qui viritim cis Ariminum datus est ultra agrum Picentinum’. Se consideriamo che lo stesso in una dichiarazione ufficiale (suasio in Senatu) conosce già la nozione di ager privatus si potrebbe affermare che questa nozione sia addirittura più risalente di quella di ager publicus. Questo dimostrerebbe inoltre che le porzioni di terreno appartenenti all’ager Romanus potevano anche costituire oggetto di appropriazione privata. Ecco perché, piuttosto che qualificare il modello della villa catoniana come tipo di ‘proprietà della terra’, ritengo che sul piano giuridico sia preferibile definire la villa catoniana come ager Romanus in senso augurale. Sul punto però si v. L. Capogrossi Colognesi, La proprietà in Roma 314. Lo dimostra ancora l’uso di fundus nella lustratio agri e non nella lex agraria del 111 a.C. Sul significato di fundus nell’ottica giuridica del secondo secolo a.C. si v. anche L. Labruna, Alle radici dell’ideologia repressiva della violenza nella storia del diritto romano, in A. Corbino-F. Milazzo (curr.), Diritto e Storia. L’esperienza giuridica di Roma attraverso le riflessioni di antichisti e giusromanisti contemporanei. Antologia (Padova 1995) 291-325[=in Adminicula (Napoli 1991) 163 ss.] 338 ss.

 

[333] Si v. anche L. Loreto, Proprietà della terra, costituzione ed esercito a Roma. James Harrington e la fine della Repubblica nella prima metà del II sec. a.C., in BIDR. 96-97 (1993-1994) 395-454.

 

[334] Sulla possibilità che l’espressione dominium loci attribuita dai compilatori ad Alfeno Varo nel frammento citato non appartenga al giurista dell’epoca cesariana si v. infra, nt. 368. Ad ogni buon conto, anche la vicenda dell’emersione della figura del dominium nel lessico della lingua latina e nell’ordinamento giuridico romano, ha una sua storia che si può ricostruire attraverso una serie di indizi di carattere storico, giuridico, etimologico che segnano l’evoluzione, nella mentalità giuridica romana, del passaggio dalla nozione arcaica di appartenenza herus/heres/heredium/hereditas alla sequenza dubinus/duminus-dominus/dominium/dominium ex iure Quiritium che invece è indice di un’affermazione nella mentalità giuridica romana dell’idea di proprietà in un territorio dello ‘Stato’(=res publica). Per inquadrare tutto questo nella sua più esatta cornice storica bisogna valutare i termini del rapporto tra la nozione di dominium ex iure Quiritium (che si rileva dalle fonti romane tecniche e non), e le forme di appartenenza arcaiche (fino ad una certa epoca potestas e, a livello processuale, il meum esse) di beni mobili (mancipi e nec mancipi, le ceterae res di età tardo repubblicana) e di beni immobili (heredium, ager privatus, res mancipi, fundi). Sulla terminologia usata per indicare in età più antica le manifestazioni del potere del pater familias si v. L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà 1.277 ss. e 407 ss.; F. Gallo, Osservazioni sulla signoria del ‘pater familias’ in epoca arcaica, in St. De Francisci 2 (1956) 193 ss.; Id., ‘Potestas’ e ‘dominium’ nell’esperienza giuridica romana 17 ss., in part. sulla nozione di proprietà romana 32 ss.; sul rapporto tra erus e dominus 36 ss.; A. Corbino, Schemi giuridici dell’appartenenza nell’esperienza romana arcaica, in Scritti Falzea (1987) 43 ss.; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano 391; M. Marrone, Istituzioni di diritto romano 302 e nt. 29. Quanto alle sequenze herus/heres/heredium/hereditas e dubinus/duminus-dominus/dominium/dominium ex iure Quiritium esse riassumono l’affermazione tarda del termine dominium nel diritto romano. Il processo di affermazione del termine dominium nel lessico dei giuristi della tarda repubblica presenta in verità un percorso con andamento anomalo. Nelle opere di Cicerone sembrerebbe essere assente [cfr. E. Costa, Cicerone giureconsulto 1 (Roma ed. an. 1964) 91 ss.; G. Franciosi, Usucapio pro herede 183, nt. 19]. Però Festo spiega la voce heres (L. 88,28) dicendo che heres apud antiquos pro domino ponebantur [si v. G.G. Archi, Il concetto di proprietà nei diritti del mondo antico, in RIDA. 6 (1959) 234]. Il dato è anche ripreso dagli eruditi giustinianei Inst. 2.19.7: pro herede enim gerere est pro domino gerere: veteres enim heredes pro dominis appellabant. Sennonché Varrone, affermando in r.r. 1.10.2: Bina iugera quod a Romulo primum divisa dicebantur viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt, stabilisce una derivazione di heredium da heres. Siamo allora già in grado di stabilire una prima connessione semantica: heres sta a heredium come dominus sta a dominium. In termini schematici abbiamo così le prime due contrapposizioni di parole in senso soggettivo/oggettivo delle prime due sequenze: heres/heredium e dominus/dominium. In base al nesso stabilito da Festo (L. 88) possiamo anche riconoscere un legame tra la posizione dell’heres e quella del dominus. Il che accrediterebbe l’etimologia (peraltro sin qui negata dalla dottrina: cfr. Franciosi, Usucapio pro herede 183, nt. 149) di heres come un derivato da erus/herus. Lo conferma anche D. 9.2.11.6 (Ulp. 18 ad ed.): Legis autem Aquiliae actio ero competit, hoc est domino; Serv. ad Aen. 7.490: nam (h)erum non nisi dominum dicimus; Cass. ex ps. 2.8(40): hereditates ab ero dicta est, id est domino. Su cui L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà 1.435. La connessione è importante perché è un’ulteriore indizio nella direzione di riconoscere l’origine potestativa della posizione del dominus. Quanto all’etimologia di erus, questa parola è noto che significa ‘signore’ (era=‘signora’). Sembra difficile pensare al gallico E\sus che è una divinità; ovvero all’ittita es[ha (signora) che richiama l’accadico as]s]atu (sposa) o l’ebraico is]s]a\ (donna). Erus sembra derivato direttamente dall’accadico es](e)ru (legittimo): ‘colui che porta lo scettro’ che ha corrispondenti in aramaico ha\ra\ e in ebraico ho\r (il ‘nobile’, il ‘libero’). Cfr. sul punto G. Semerano, Le origini della cultura europea 2.393. Altrettanto complesso è il problema della ricostruzione etimologica di dominus che parimenti significa ‘signore’. Si v. su questo É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee 1.231 s. Sul punto è interessante la glossa festina per cui alla voce dubenus (L. 59,2) si legge: Dubenus apud antiquos dicebatur, qui nunc dominus. Questa fonte consente di stabilire l’etimologia di dominus in modo abbastanza affidante con un base di accadico da\binu, dappinu, dapnu (nel significato di ‘potente’, ‘dominatore’). Più propriamente nel senso di dominatore ‘per titoli di valore specialmente bellico’ che, insieme all’accadico dannum nel segno di ‘potente detto di re’ o ‘di divinità’, costituisce la base semantica forse più risalente di tale vocabolo: G. Semerano, Le origini della cultura europea 2.387. Il riferimento al significato di dominatore ‘per titoli di valore specialmente bellico’ è interessante perché è un dato coerente con l’uso di erus/dominus in Plauto e Terenzio nel significato di ‘padrone di schiavi’ dato che in età antica la forma di procacciamento più diffusa di schiavi era la conquista bellica. Secondo L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà 1.442 ss. (a cui si rinvia per i passi di Plauto e Terenzio dove compare il termine dominus) la sostituzione di erus con dominus sarebbe avvenuta nel de agri c. di Catone, dunque nel corso del II secolo a.C.

 

[335] F. Gallo, Studi sulla distinzione fra “res mancipi” e “res nec mancipi” 76: “Vi sono infatti buoni indizi per ritenere che in origine i fondi non fossero inclusi fra le res mancipi”. Ancora a p. 77: “Tutto ciò rende assai verosimile la congettura che la distinzione tra res mancipi e res nec mancipi sia sorta (…) nell’ambito delle sole cose mobili e che la prima categoria comprendesse esclusivamente in origine gli schiavi e gli animali da tiro e da soma”. Si veda anche G. Grosso, Corso di diritto romano. le cose 63 ss. La ‘proprietà’, intesa come ‘appartenenza assoluta di qualcosa’, diciamo res, non presuppone necessariamente per il mondo romano arcaico, la preesistenza di uno ‘Stato’. Tanto è vero che le prime forme di appartenenza a Roma, come manifestazione del meum esse (e rilevanti sul piano fenomenologico soprattutto in fase patologica a livello processuale) riguardarono i beni mobili [L. Capogrossi Colognesi, La proprietà a Roma. Dalla fine del sistema patriarcale alla fiuritura dell’ordinamento schiavistico, in La terra in Roma antica. Forme di proprietà e rapporti produttivi I. (età arcaica) (Roma 1981) 302]. Significative al riguardo le seguenti parole di L. Capogrossi Colognesi, La proprietà a Roma 302: “È infatti agli anni che segnano il passaggio dal III al II secolo a.C. che possiamo far risalire l’affermazione, nella esperienza giuridica romana, delle figure dei iura in re aliena. Sino ad allora in effetti le diverse forme di godimento e di utilizzazione delle res erano molto probabilmente rientrate nella generica e indifferenziata categoria dell’appartenenza; espressa con il meum esse della formula della vindicatio”. Il principio praedia vero absentia solent mancipari in Gai. 1.121 appare un adattamento successivo di una realtà molto più antica in un contesto profondamente mutato. Il primo elemento discriminatorio sulla considerazione teorica delle cose riguardò probabilmente la natura di una res, se cioè questa fosse mancipi, piuttosto che nec mancipi. Questo spiega a mio avviso anche l’attestazione dell’uso nella lingua latina prima dei ‘parlanti’, dominus e domina, e soltanto in un secondo momento, di parole o termini che esprimessero lo stesso concetto in chiave astrattizzata (dominium). Dal terzo secolo a.C., nel novero delle res mancipi è plausibile ritenere che entrarono a far parte anche i fundi [F. Gallo, Studi sulla distinzione fra res mancipi e res nec mancipi 76 s.; G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica 141]. Fino a questo momento, a parte l’heredium, che i giuristi dell’ultimo secolo della repubblica chiamavano parvulum predium [Fest. sv. heredium (L. 89,1)], e che poteva essere anche trasmesso ereditariamente [come dimostra ancora la lex del 111 che riconosce la titolarità di porzioni di terreno (l’ager patritus delle linee 27-28?) ricevute iure hereditario], il sistema di ripartizione fondiario arcaico era stato per tribù e non secondo il sistema della forma agri (che presuppone almeno l’attività pubblica di iscrizione nelle tavole censuali) che cominciò ad essere adottato, stando alle fonti di cui disponiamo, soltanto con le prime colonie italiche. Ampio ragguaglio con prec. bibl. sugli aspetti politico istituzionali legati alla fondazione delle colonie in E. Hermon, Habiter et partager 201 ss.

 

[336] Se consideriamo l’importanza del fundus nel sistema giuridico romano arcaico capiamo il perché di questa precisazione. Sulla nozione di fundus v. L. Labruna, Alle radici dell’ideologia repressiva della violenza nella storia del diritto romano 338 s. Sulla concezione di fundus come terreno in proprietà v. con bibl. anche G. Polara, Le ‘venationes’. Fenomeno economico e costruzione giuridica (1983) 71 ss.

 

[337] Cic. top. 4.23. Quoniam usus auctoritas fundi biennium est, sit etiam aedium. At in lege aedes non appellantur et sunt ceterarum rerum omnium quarum annus est usus; Cic. pro Caec. 19.54: Lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium; at utimur eodem iure in aedibus, quae in lege non appellantur. G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare 141, 147, 133 e passim, inquadra l’imposizione del termine biennale all’acquisto dell’usucapione del fundus come un’innovazione certamente di età post decemvirale (p. 141): “L’ampliamento a due anni per l’acquisto dei fundi, dovuto al ciclo biennale della coltura rotativa italiota, è un’esigenza che si pone ben più avanti del quinto secolo a.C.”. Sul problema v. già con bibl. G. Franciosi, Usucapio pro herede 28 s.; Id., Due ipotesi di interpretazione ‘formatrice’: dalle XII tavole a Gai. 2.42 e il caso dell’usucapio pro herede 247 ss. Successivamente lo studioso ha finito per propendere verso il secondo secolo a.C. Si v. G. Franciosi, Per la storia dell’usucapione immobiliare in Roma antica. Un capitolo della storia delle dodici tavole 127-147, (p. 133): “Altrove ho ritenuto di attribuire allo stesso legislatore del quinto secolo l’eccezione per i fundi in relazione alle esigenze del ciclo agricolo. Una più appropriata riflessione mi spinge ad abbassare, e anche di molto, l’eccezione biennale e ad attribuirla all’opera della giurisprudenza, specie se si tiene conto (cosa che faremo) della lenta e progressiva privatizzazione dell’ager publicus in virtù delle leggi di riforma agraria, da un lato, di rielaborazione del testo delle dodici tavole, dall’altro”. Ancora (p. 147): “Segue una terza fase (n.d.r., della storia dell’usus), connessa al forte urbanesimo del secondo secolo, in cui si avverte l’incongruenza di un diverso termine per l’acquisto dei fundi e quello delle aedes: il termine biennale, come ci illustra Cicerone, viene esteso in via di interpretazione anche a queste ultime”. Grazie alla lex agraria del 111 a.C. possiamo dire inoltre che l’ager privatus come (in bonis) habere (la cd. proprietà pretoria) ancora alla fine del secondo secolo a.C. fosse sprovvisto di un’adeguata tutela processuale. Ne abbiamo già fatto cenno: le linee 15-18 contemplavano la procedura interdittale per la tutela del possesso; la procedura prevista alle linee 33-39, innanzi alle magistrature superiori, consentiva di risolvere le controversie sulla titolarità dei terreni. A. Lintott, I frammenti da Urbino 74.

 

[338] La dottrina prevalente propende per il 67 a.C. che fu l’anno in cui un Publicio fu pretore: Cic. pro Cluent. 45.126: cum defendissem apud M. Iunium Q. Publicium praetores. Cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic 2.143. Per la bibl. sul tema si v. L. Di Lella, Formulae ficticiae (Napoli 1984) 69 s. e nt. 4. Sull’actio publiciana anche con ulteriore bibl. precedente più importante Ch. Appleton, Histoire de la propriété prétorienne 1.31 ss.; E. Carusi, L’azione publiciana in diritto romano (Roma rist. 1967) 70 ss. e passim; L. Di Lella, Formulae ficticiae 67 ss.; L. Vacca, Il c.d. ‘duplex dominium’ e l’‘actio Publiciana’ 41 ss., 49 ss.; M. Kaser, Das Römische Zivilprozessrecht2 (München 1996) 107, nt. 113; L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e Diritti Reali. Usi e tutela della proprietà fondiaria nel Diritto Romano (Roma 1999) 153 ss.; M.J. García Garrido, Derecho privado romano 229.

 

[339] A proposito della ‘rivoluzione scientifica’ che ha riguardato il modo di operare (e di essere) della giurisprudenza romana nell’età di passaggio dalla fine della crisi graccana a quella di Cesare si v. ora A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente (Torino 2005) 163 e passim. In particolare, sull’influenza della cultura proveniente dalla Grecia, a p. 163 lo studioso esplicita il suo pensiero in questo modo: “In realtà, non di riduzione o di impoverimento si trattava, né di un semplice e superficiale trapianto di qualche metodica, priva di particolare significato sostanziale. Bensì di un delicato e cruciale processo di integrazione, che riuscì a proiettare il sapere giuridico romano al di là degli orizzonti che aveva acquisito, senza tuttavia fargli smarrire il senso della propria fortissima identità: in certo modo a rivoluzionarlo per dargli il compimento. Il risultato sarebbe stato, alla fine, la nascita di un nuovo modo di pensare il diritto, che ne avrebbe tramutato le procedure in quelle di una scienza senza eguali nell’antichità, non meno compatta e concettualmente densa della grande filosofia classica”.

 

[340] Sul rapporto tra giurisprudenza romana e filosofi stoici già J. Cuiaici, Opera. Ad Parisiensem Fabrotianam editionem diligentissime exacta in tomos XIII. distributa auctiora atque emendatiora Pars prima. Tomus primus (Prati 1836) 1182-1184. Utile, sebbene con meno approfondimento anche J.G. Heineccii, Historia Juris Civilis Romani ac germanici qua utriusque origo et usus in germania ex ipsis fontibus ostenditur, commoda auditoribus methodo adornata, multisque Observationibus haud Vulgaribus passim illustrata (Venetiis 1764) 159 s. Permane tuttavia nella storiografia prevalente una certa diffidenza a riconoscere, in tutta la sua portata, il contributo offerto per l’evoluzione della giurisprudenza romana dalla cultura filosofica greca. La situazione è ben descritta da Aldo Schiavone [Ius 162]: “Ma perché Quinto Mucio aveva deciso di utilizzare a fondo gli apparati diairetici, fino a farne il tratto caratterizzante – almeno agli occhi di Pomponio – di tutto il suo trattato? La risposta più consueta cerca di spiegarlo con un generico richiamo al clima intellettuale dell’epoca, cui non sarebbero state indifferenti un paio di generazioni di giuristi: una parentesi dovuta all’imporsi di una specie di moda [cfr. F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., p. 75 ss.]. È un’interpretazione a dir poco insoddisfacente, elusiva di un tema essenziale: la connessione fra l’uso della diairetica e la qualità delle conoscenze per la prima volta elaborate attraverso quei modelli. Il problema, cioè, della forma logica attraverso cui a partire da Quinto Mucio e dalle sue innovazioni, l’esperienza del diritto veniva costruita e pensata. Se non si ha lo sguardo fermo su questo intreccio, si smarrisce il filo di ogni interpretazione plausibile. E non c’è da temere solo il vecchio equivoco che portava a distinguere meccanicamente fra ‘metodo’ greco e ‘contenuti’ romani, quanto un rischio più grave e sottile: quello di misurare il lavoro dei giuristi con i criteri adoperati per valutare il dibattito filosofico ed epistemologico da Platone al tardo stoicismo, suggestionati solo dalla traccia superficiale di alcuni evidenti debiti della giurisprudenza verso la filosofia, e da qualche sporadica contiguità di lessico e di categorie. Mettendosi su una simile strada, non si può che arrivare alla conclusione di un drammatico impoverimento dell’impianto logico del pensiero classico, quando passa dai filosofi ai giuristi, e alla constatazione del carattere irrimediabilmente minore e senza vocazione teorica del lavoro della giurisprudenza. Ma sarebbe un’indicazione infondata, anche se è stata tante volte riproposta, da diventare un luogo comune storiografico”.

 

[341] Così M. Bretone, Cicerone e i giuristi del suo tempo, in Tecniche e ideologie dei giuristi romani2 (Napoli 1982) 78: “Nel quadro della cultura ellenistica, dunque, la giurisprudenza romana non restò a lungo isolata. Né i rapporti con il pensiero greco riguardarono il solo piano tecnico scientifico (logico-grammaticale-retorico). Fra la generazione di Sesto Elio e di Catone, e quella di Rutilio e di Quinto Mucio il pontefice, c’è l’insegnamento paneziano. Dei giuristi che si raccoglievano intorno a Panezio, Rutilio era certamente il più giovane: una decina d’anni lo distanziavano da Q. Elio Tuberone e da Q. Mucio Scevola l’augure. Manio Manilio e P. Mucio Scevola (posto che anche costoro lo abbiano frequentato per qualche tempo) contavano all’incirca la stessa età del filosofo rodio: nei confronti di Rutilio sono dei senes” ed anche Bretone, Cicerone e i giuristi del suo tempo 259, 359 e passim.

 

[342] Sull’influenza del pensiero retorico-filosofico greco sui giuristi romani, tra la vasta bibliografia esistente, si v. P. Sokolowski, Die Philosophie im Privatrecht (in 2 voll.) (1907, rist. 1959); J. Stroux, Summum ius summa iniuria. Ein Kapitel aus der Geschichte der Interpretatio iuris, in Fest. Speiser-Sarasin (1926)[=AUPA. 12 (Palermo 1929) 647 ss.; Id., Griechische Einflüsse auf die Entwicklung der römischen Rechtwissenschaft gegen Ende der republikanischen Zeit, in Atti Roma 1 (1934) 113 ss.[=Römische Rechtwissenschaft und Retorik (1949)]; V. Georgescu, Etudes de philologie juridique et de droit romain. 1. Les rapports de la philologie classique et du droit romain (Bucarest-Paris 1940); H. Coing, Zum Einflusse der Philosophie des Aristoteles auf die Entwicklung der römischen Rechts, in ZSS. 69 (1952) 24 ss.; F. Wieacker, Griechische Wurlzen des Institutionesystem, in ZSS. 70 (1953) 103 ss.; Th. Viehweg, Topik und Jurisprudenz [(München 1953) con tr. it. del 1962 di cui v. Topica e ius civile, p. 47]; G. Franciosi, Studi sulle servitù prediali 220 ss. e 220, nt. 5. Cfr. anche La filosofia greca e il diritto romano (in due tomi), Colloquio italo-francese dell’Accademia Nazionale dei Lincei (Roma 1976) vol. 1: pp. 5-200; vol. 2: [M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani] pp. 3-319. Sul problema del rapporto tra cultura stoica e giurisprudenza romana v. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale (Milano 2005)[=Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, Göttingen 1959] 1-1036, in part. p. 535-575; P. Frezza, Rec. a M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, 1 (Göttingen 1948) 490; 2 (Göttingen 1949) 232, in SDHI. 17 (1951) 332. Sulla questione della trasformazione dell’attività dei giuristi romani da scientia in ars v. con bibl. V. Scarano Ussani, Tra scientia e ars. Il sapere giuridico romano dalla sapienza alla scienza, nei giudizi di Cicerone e di Pomponio, in Ostraka 2 (1993) 211-230; Id., L’ars dei giuristi. Considerazioni sullo statuto epistemologico della giurisprudenza romana (Torino 1997). Precisazioni terminologiche in A. Schiavone, Ius 165 (anche ss. e passim): “La prospettiva di Cicerone (n.d.r., in Brutus 41.152-42.153) è adesso diversa rispetto a quella del 55 (n.d.r., del de oratore). Nove anni non sono passati invano. Dietro l’identità lessicale si cela un netto cambiamento di concetti. (…). Ars non indicava più il sistema come nel De oratore: di questo non si parla più. (…). Ars traduceva sempre qualcosa che stava in greco, tra la thecne e l’episteme: nel De oratore, sottolineandone le implicazioni sistemiche; nel Brutus, il lato più genericamente gnoseologico”.

 

[343] Sul concetto di proprietà provinciale con rinvii alla bibl. essenziale v. L. Capogrossi Colognesi, La proprietà a Roma 311.

 

[344] Significativo al riguardo mi pare Cic. Tusc. 5.121: impulsi sumus ad philosophiae scriptiones, affermazione che risale probabilmente alla tarda primavera/inizio dell’estate del 45 a.C. quando lo stesso Cicerone, terminato il de finibus bonorum et malorum (ispirandosi fra l’altro anche ai trattati sull’anima di Dicearco), cominciò a scrivere le Tusculanae disputationes. Cfr. Cic. ad Att. 13.32.2 (scritta a Tuscolo, il 29 maggio del 45 a.C.).

 

[345] Su Panezio di Rodi e sui rapporti tra questi e il de officiis di Cicerone segnalo F. Alesse (cur.), Panezio di Rodi, Testimonianze. Edizione, traduzione e commento (Napoli 1997) 9-349; E. Vimercati, Panezio. Testimonianze e frammenti (Milano 2002) 9-354. Cfr. anche P. Fedeli, Il De officiis di Cicerone. Problemi e atteggiamenti della critica moderna, in ANRW. 1.4 (Berlin-New York 1973) 357-427,  in part. 362.

 

[346] Come nel caso di chi si è impadronito di territori liberi da abitanti ut qui quondam in vacua venerunt: (per l’ager vacuus di Livio v. 4.51.5-6) su cui ha attirato la nostra attenzione E. Hermon, Habiter et partager les terres avant les Gracques (Rome 2001) 293; Id., La souveraineté populaire: “la loi et l’ager publicus au début de la république”, in Iura 51 (2000) 72; O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus 221 ss. In Hermon, Habiter et partager 287 leggiamo: “L’ager vacuus est le seul qui s’identifie à la définition même de l’ager publicus, reprise plus tard par le sources juridiques”.

 

[347] Nel de officiis Cicerone teorizza sull’idea di proprietà privata utilizzando la dottrina filosofica di Panezio che costituisce per l’epoca una vera novità. Il problema da cui parte Panezio è che la proprietà privata non esiste in natura (sunt autem privata nulla natura). Un approccio quindi comune anche al diritto romano più antico se è vero che questo aveva conosciuto ab origine, a parte il problema dell’heredium, forme di proprietà/appartenenza soltanto mobiliari. Sennonché, nella dottrina filosofico/politica di Panezio, lo ‘Stato’ e la ‘proprietà’ avrebbero avuto la stessa origine e sarebbero nati da uno stesso atto storico perché il primo sarebbe nato per proteggere la seconda; acquistando in questo modo entrambi anche una rilevanza giuridica. Questo perché il compito precipuo degli ‘Stati’ e delle ‘città’ (qui l’allusione di Cicerone è chiaramente a de re p. 2.1.2) avrebbe dovuto essere quello di difendere le ‘cose di ciascuno’ (Cic. de off. 2.21.73: Hanc enim ob causam maxime, ut sua tenerentur, res publicae civitatesque constitutae sunt. Nam, etsi duce natura congregabantur homines, tamen spe custodiae rerum suarum urbium praesidia quaerebant). Tutto questo è perfettamente coerente con la notizia che rinveniamo nel notissimo passo del de re publica di Cicerone dove si trova una definizione del termine populus, e di res publica come di res populi, e che ho ritenuto anche altrove come terminus a quo per considerare effettiva una consapevolezza di tale nozione nella dottrina politico/costituzionale degli intellettuali romani dell’epoca nel senso appena prospettato. Il passo è Cic. de re p. 1.25.39: ‘Est igitur’, inquit Africanus, ‘res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus’. Pur se solo sinteticamente si può dire a proposito che nella definizione dell’Emiliano si rileva una nozione ‘costituzionale’ di populus basata proprio su un’idea di legge che, a sua volta, è basata su un concetto di patto concluso nell’interesse (utilità) comune. Il dato trova conferma in un altrettanto noto passo di Papiniano riportato in D. 1.3.1 [(Papin. lib. 1 def.): Lex est commune praeceptum, virorum prudentium consultum, delictorum quae sponte vel ignorantia contrahuntur coercitio, communis rei publicae sponsio] dal quale si evince un’idea di legge che fu tipica dell’età repubblicana in cui si rileva un concetto di sovranità ‘orizzontale’ piuttosto che ‘verticale’. La nozione del de re publica corrisponde esattamente a quella della Stoa in SVF. 3.329: pl°JoV ŽntÅpon ¤n taétÐ katoikoæntvn êpò  nñmon dioikoæmenon. Del resto, non è stato sempre così, perché, all’interno del pensiero stoico, distinguiamo anche la nozione di Crisippo, il fondatore di questa scuola filosofica, SVF. 3.314: tÇn fæsei politikÇn zÐvn, dove invece si rileva ancora una concezione individualistica e quella di Cleante, tratta dall’Inno a Zeus: SVF. 1.587: stoudaÝon eånai t¯n pñlin [ma v. anche SVF. 3.327; 328; 318; 613; Sen. de tr.an. 1.7]. A ben vedere, già si possono notare le tracce di un’evoluzione. Si parte dall‘animale comunitario’ di Crisippo (SVF. III 686, 346) evidentemente legato al pensiero utopico della cosmopoli ideale e si prosegue con la nozione ‘città-stato’ di evidente ascendenza aristotelica come mostra il confronto con il seguente frammento della Politica di Aristotele: (Arist. Pol. 1252b 27): ² dƒ ¤k pleiñnvn kvmÇn koinvnÛa t¡leioV pñliV, ³dh pŒshV ¦xousa p¡raV t°V aétarkeÛaV ÉV ¦poV eÞpeÝn, ginom¡nh m¢n toè z°n §neken, oïsa d¢ toè eï z°n. diò psa pñliV fæsei ¦stin, eàper kaÜ aß prÇtai koinvnÛai. t¡loV gŒr aìth ¤keÛnvn, ² d¢ fæsiV t¢loV ¤stÛn: oäon gŒr §kastñn ¤sti t°V gen¡sevV telesqeÛshV, taæthn fam¢n t¯n fæsin eänai ¥kastou, Ëster ŽnqrÅpou áppou oÞkÛaV. [tr. Viano 77]: “La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni città è un’istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine e la natura di una cosa è il suo fine”. Lo ‘Stato’, ossia la res publica, diventa così un complesso di uomini (coetus multitudinis) tenuti insieme dall’accettazione concorde di un ordinamento giuridico e il suo scopo è di difendere la proprietà privata nell’interesse di tutti (iuris consensu et utilitatis communione sociatus). Sul concetto di res publica in Cicerone si v. anche M. Kostova, Res publica на Цицерон (Sofia 2000) che, fra l’altro, ha tradotto in bulgaro il de re publica di Cicerone. A p. 6 della premessa, esplicitando il suo pensiero, la studiosa afferma: “Cicero does not consider the people as an agent, a figure that creates the state or that it is its affair. He presents the people as an owner, a possessor of res, i.e. rights and interests”.

 

[348] Bisogna tener presente che la questione si intreccia anche il tema del fondamento dogmatico della dicotomia publicus/privatus basata, a sua volta, sulla concezione dell’utilità, come nel caso del frammento giustinianeo tratto dalle Institutiones di Ulpiano (D. 1.1.1.2) che abbiamo citato prima a proposito della ricostruzione etimologica della parola privatus (v. retro, p. 206, nt. 337). I seguenti frammenti del de officiis ciceroniano sono del resto sufficientemente noti perché si possa dubitare del fatto che l’idea di considerare come fondamento dogmatico della contrapposizione pubblico/privato si sia basata sul concetto di utilità e che questa non sia una conseguenza delle idee politiche dell’epoca scipionico-cesariana. Possiamo leggere ancora: Cic. de off. 1.7.20: Sed iustitiae primum munus est, ut ne cui quis noceat, nisi lacessitus iniuria, deinde ut communibus pro communibus utatur, privatis ut suis, ma soprattutto Cic. de off. 1.25.85: Omnino qui rei publicae praefuturi sunt duo Platonis praecepta teneant: unum, ut utilitatem civium sic tueantur, ut, quaecumque agunt, ad eam referant obliti commodorum suorum; alterum, ut totum corpus rei publicae curent, ne, dum partem aliquam tuentur, reliquas deserant. Ut enim tutela, sic procuratio rei publicae ad eorum utilitatem, qui commissi sunt, non ad eorum, quibus commissa est, gerenda est.

 

[349] Il punto di riferimento del modo di pensare dei giuristi più antichi non era la res, ma il ruolo potestativo del pater familias arcaico. Già qualche decennio fa si era avviato su questa strada Gennaro Franciosi [Usucapio pro herede 164 ss.; Id., Studi sulle servitù prediali 18 s.] e vi è anche ritornato di recente riprendendo un’idea già formulata dal Lauria [Usus, in St. Arangio Ruiz, 4 (Napoli 1953) 493 ss.]. Nel suo ultimo scritto [Per la storia dell’usucapione immobiliare 130] afferma: “L’esaltazione del momento patrimoniale e l’interesse per la res costituiscono l’espressione della realtà socio-economica della tarda repubblica e del pensiero filosofico di ispirazione ellenistica”. Il principale compito della filosofia è la conoscenza del reale. Questo effetto può essere raggiunto solo attraverso il processo razionale del pensiero che grazie al concetto (horos) e alla definizione (horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti. Astraendo dal tempo e dal luogo si arriva così a stabilire il significato delle cose. Oggetto del sapere è ‘ciò che è’, ciò ‘che sussiste’. Sul piano razionale deduttivo questo è il valore originario degli enti. In questo quadro il problema dell’intellegibilità degli enti (res) ottiene la priorità. Così per la ricerca filosofica diventa prioritario cercare la determinazione razionale degli enti e non lo studio delle varie forme di linguaggio. Il ‘verbo’ deve corrispondere alla ‘cosa’ e la parola diventa pertanto ‘a-storica’. Il riferimento alla res è quindi il punto iniziale della speculazione filosofica, il che presuppone che la res sia in sé e, per sé, qualcosa di costante e la controprova di un’affermazione, ossia di un verbo/parola. Ontologia e logica diventano così presupposti e la verifica di un’affermazione avviene mediante la definizione razionale. Molto bene Dante Alighieri coglie questa che fu la principale premessa teoretica della filosofia tradizionale: de Monarch. 1.2.4: Verum quia omnis veritas quae non est principium, ex veritate alicuius principii fit manifesta, necesse est in qualibet inquisitione habere notitiam de principio, in quod analectice recurratur pro certitudine omnium propositionum quae inferius assumuntur. Cfr. sul punto E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale (Napoli 1988) 37 s. Il concetto di res e la conseguente distinzione tra somatik e ŽsÅmata sono invece effetto del contatto tra giuristi romani e le correnti filosofiche greche e dell’arte retorica. Si v. P. Sokolowski, Die Philosophie im Privatrecht. 1. Sachbegriff und Körper, 1 (1959) 41 ss.; V. Georgescu, Etudes de philologie juridique et de droit romain. 1. Les rapports de la philologie classique et du droit romain, cit., p. 77 ss.; F. Wieaker, Griechische Wurlzen des insitutionensystem, cit., p. 103 ss.; M. Bretone, I fondamenti del diritto romano 22 ss.

 

[350] Si v. L. Capogrossi Colognesi, La proprietà a Roma 302 [anche La struttura della proprietà e la formazione dei ‘iura praediorum’ 2.347 ss.]: “È infatti agli anni che segnano il passaggio dal III al II secolo a.C. che possiamo far risalire l’affermazione, nella esperienza giuridica romana, delle figure dei iura in re aliena. Sino ad allora in effetti le diverse forme di godimento e di utilizzazione delle res erano molto probabilmente rientrate nella generica e indifferenziata categoria dell’appartenenza; espressa con il meum esse della formula della vindicatio”. Cfr. sul punto anche A. Corbino, Ricerche sulla configurazione originaria delle servitù (Catania 1979) 17, nt. 48.

 

[351] A. Burdese, La proprietà e le proprietà 412: “Lo stesso termine, espressione del relativo concetto, di dominium (e di proprietas) si ritrova nelle fonti solo a partire dall’età tardo-repubblicana, e solo a partire da questa la elaborazione terminologico-concettuale appare il risultato di una riflessione cosciente sulla realtà di regime, capace a sua volta di influire sulla determinazione interpretativa del medesimo”. Sul punto l’autore citato si richiama a M. Talamanca, Considerazioni conclusive, in E. Cortese (cur.), Società italiana di storia del diritto, La proprietà e le proprietà, Pontignano 30 settembre-3 ottobre 1985 (Milano 1988) 191.

 

[352] Per la ‘scuola’ dei Mucii in generale e sui suoi rapporti con il circolo scipionico si v. con bibl. ivi M. Bretone, Cicerone e i giuristi del suo tempo 66. Sull’opera di consulenza di Q. Mucio augure si v. Cic. de or. 1.45.200; Phil. 8.10.31. Cfr. anche E.S. Gruen, The political allegiance of P. Mucius Scaevola, in Athenaeum 43 (1965) pp. 321-332; M. Bretone, Cicerone e i giuristi del suo tempo 67. Breve accenno in A. Schiavone, Ius 161. È proprio Cicerone a dirci che in materia di iura praediorum si ebbe una svolta significativa ad opera di Q. Mucio l’augure che sollecitava l’attività di consulenza di Furio Filo e Aulo Cascellio. Segnalo sul punto G. Vico, La Scienza nuova 1730 [P. Cristofolini-M. Sanna (curr.)] (Napoli 2004) 518.1-5: “Del gius prediatorio dice Gaio giureconsulto ch’i romani avevano una legge arbitraria ad esempio d’una attica di Solone. Il quale gius era tanto tenuto a vile, che Quinto Muzio Scevola, principe de’ giureconsulti della sua età, ove n’era domandato, mandava per le risposte i litiganti a Furio e Cascellio prediatori, ch’erano com’oggi sono i tavolari del nostro Sagro Regio Consiglio”. Il frammento vichiano riecheggia naturalmente il famoso passo della pro Balbo 20: Q. Scaevola ille augur, cum de iure praediatorio consuleretur, homo iuris peritissimus, consultores suos nonnumquam ad Furium et Cascellium praediatores reiciebat. Sappiamo da Gai. 2.61 cosa sia il diritto prediatorio: nam qui mercatur a populo, praediator appellatur. Sebbene in un contesto ricostruttivo differente si v. anche sul punto D.W. Rathbone, The control and exploitation of ager publicus 139 ss.

 

[353] Nel rilievo che lo stesso Q. Mucio Scevola dava alla bona fides si nascondono del resto i prodromi di una svolta importante anche per la disciplina e la struttura dei rapporti obbligatori. È uno dei contributi più importanti offerti per l’evoluzione del ius civile dalla scuola dei Mucii. La nota teoria della fides ciceroniana sul valore del giuramento richiama subito infatti l’altrettanto nota teoria muciana sull’importanza della fides per la struttura dei rapporti obbligatori in materia di emptio venditio e di locatio conductio. Dobbiamo rifarci all’arcinoto frammento del de officiis ciceroniano in cui il retore fa un discorso sul concetto di fides come ‘obbligo di onestà sostanziale’: Cic. de off. 3.17.70: Nam quanti verba illa “uti ne propter fidemve tuam captus fraudatusve sim!” quam illa aurea “ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione!” Sed, qui sint boni et quid sit bene agi magna quaestio est. Q. quidem Scaevola, pontifex maximus, summam vim esse dicebat in omnibus iis arbitriis, in quibus adderetur “ex fide bona”, fideique bonae nomen existimabat manare latissime, idque versari in tutelis, societatibus, fiduciis, mandatis, rebus emptis, venditis, conductis, locatis, quibus vitae societas contineretur; in iis magni esse iudicis statuere, praesertim cum in plerisque essent iudicia contraria, quid quemque cuique praestare oporteret. È noto che l’avvento dei negozi commerciali segnò, fra tante altre cose, anche il tramonto del formalismo. Lo stesso formalismo che, fra l’altro, era alla base dell’impianto strutturale del giuramento basato sulla pronuncia di certa e sollemnia verba. Cfr. M. Bretone, Storia del diritto romano 130; F. Zuccotti, Il giuramento nel mondo giuridico e religioso antico.Elementi per uno studio comparatistico (Milano 2000) 107. Il Bretone spiega molto bene come la fides bona (ovvero la ‘pistis’) sia rientrata nel campo semantico della ‘fiducia’ perché frutto di un pensiero giuridico evoluto.

 

[354] Proprio dalla considerazione di questo clima particolare Aldo Schiavone [Ius 145] potrà dire: “È attendibile perciò supporre l’esistenza di una sorta di ‘canone muciano’ di valutazione della giurisprudenza precedente, fedelmente ripreso da Pomponio (e forse, già prima, da Labeone) in cui Catone non rientrava, a differenza di Bruto, di Manilio, di Publio Mucio (forse di Sesto Elio, che peraltro Pomponio doveva ancora leggere direttamente)”. Per l’inclusione di Bruto nei veteres secondo l’ottica di Gaio e Gellio si v. P. Zannini, Per la storia del commodatum (Milano 1988) 128.

 

[355] Approvata la legge Sempronia, i primi tre eletti per costituire la commissione agraria per l’assegnazione, furono Tiberio, il fratello Gaio e il suocero Appio Claudio: Plut. T. Gracc. 13.1.

 

[356] Plut. T.Gracc. 9.1: Oé m¯n ¤fƒ aêtoè ge sun¡qhke tòn nñmon, toÝV d¢ proeæousin Žret» kaÜ dñjh tÇn politÇn sumboæloiV xrhsmenoV, Ïn kaÜ KrŒssoV ·n õ ŽrxiereçV kaÜ MoækioV SkaibñlaV õ nomodeÛkthV êpateævn tñte kaÜ KlaædioV AppioV õ khdest¯V toè TiberÛou. Cfr. anche Cic. Acad. 2.13. Q. Mucio Scevola l’augure appare con Furio Filo e Aulo Cascellio come uno dei protagonisti del superamento dell’antico diritto, un retaggio ancestrale di ascendenza solonica, in fase di trasformazione mediante un’attività pratica di consulenza che esprime in pieno a mio avviso il significato di ciò che Bernhard Waldenfeld [Topographie des Fremden (Frankfurt am Main 1997); Id., Verfremdung der Moderne (Göttingen 2001). Si v. anche N. Irti, Fenomenologia del diritto debole, in P. Barcellona (cur.), Nuove frontiere del diritto. Dialoghi fra giustizia e verità (Bari 2001)] intende quando parla di ‘fenomenologia creativa del diritto’ come modalità di produzione alternativa e fattuale ad un’idea di produzione giuridica che viene dall’alto come espressione di una ‘sovranità discendente’. Si v. anche F. Ciaramelli, Creazione e interpretazione della norma (Troina 2003) 133 ss. e passim. Di Furio Filo sappiamo per certo che insieme Scevola l’augure, fu un personaggio di spicco che intorno a Scipione e a Lelio si aprì all’influenza di Panezio nel Circolo degli Scipioni. Insieme a questi, M. Pohlenz, La Stoa 535 ss., ricorda: l’altro genero di Lelio (insieme a Mucio Scevola), Gaio Fannio; il nipote di Scipione Emiliano, Quinto Elio Tuberone; Publio Rutilio Rufo (Cic. Brutus 30.116: Habemus igitur in Stoicis oratoribus Rutilium); Marco Vigellio e Quinto Mucio Scevola il pontefice massimo, l’antagonista di Crasso nella causa Curiana; inoltre, Spurio Mummio (Cic. Brutus 25.94: Spurius autem nihilo ille quidem ornatior, sed tamen astrictior; fuit enim doctus ex disciplina Stoicorum) e Manio Manilio.

 

[357] Cic. Brut. 58.211; Lael. 1.1-2; Tac. dial. 30.3; Plut. Cicero 3.2. M. Bretone, Cicerone e i giuristi del suo tempo 67. Per il legame, attestato dalle fonti, esistente tra Q. Mucio Scevola l’augure, Q. Elio Tuberone e quindi Panezio cfr. con bibl. F. D’Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della repubblica (Napoli 1978) 88 e passim.

 

[358] D. 8.3.30 (lib. 4 epitomarum Alfeni digestorum): “Qui duo praedia habebat, in unius venditione aquam, quae in fundo nascebatur, et circa eam aquam late decem pedes exceperat: quaesitum est, utrum dominium loci ad eum pertineat an ut per eum locum accedere possit. respondit, si ita recepisset: ‘circa eam aquam late pedes decem’, iter dumtaxat videri venditoris esset”. Abbiamo già incontrato questo notissimo frammento (retro …). Secondo Siro Solazzi [Alfeno Varo e il termine ‘dominium’ 218 s.] il termine dominium non sarebbe attribuibile ad Alfeno Varo o al suo maestro Servio. Non entro nel merito della questione, ma se il maestro marchigiano avesse ragione, i termini della questione cambierebbero anche se, nella sostanza, non in modo rilevante. Si tratterebbe di spostare in avanti l’epoca della comparsa effettiva della categoria concettuale del dominium ex iure Quiritium nel lessico dei giuristi romani. Su questo problema ritornerò in altra sede. Cfr. anche R. Leonhard, sv. Dominum, in PW. 5.1 (München 1903) 1302,40-1305,24.

 

[359] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis I (Lipsiae 1889) col. 50. Sull’opera di Alfeno Varo cfr. L. de Sarlo, Alfeno Varo e i suoi digesta (Milano 1940); C. Ferrini, Intorno ai digesti di Alfeno Varo, in BIDR. 4 (1891) 1 ss.; P. Jörs, sv. Alfenus Varus, in PW. 2.1 (Stuttgart 1895) 1473 ss.; E. Vernay, Servius et son Ecole 35 ss.; S. Solazzi, Alfeno Varo e il termine ‘dominium’ 218 ss.; W. Kunkel, Die römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung2 (1967); F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana 365 ss.; M. Bretone, Il responso nella scuola di Servio, in Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 91 ss.; I. Molnar, Alfenus Varus iuris consultus, in Studia in honorem V. Pólay septuagenarii (Szged 1985) 311 ss.; M. Talamanca, La tipicità dei contratti romani fra ‘conventio’ e ‘stipulatio’ fino a Labeone, in F. Milazzo (cur.), Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del Convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della ‘littera Florentina’. Copanello 1-4 giugno 1988 (Napoli 1990) 35 ss.; G. Negri, Per una stilistica dei Digesti di Alfeno, in D. Mantovani (cur.), Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio. Atti del seminario di S. Marino, 7-9 gennaio 1993 (Torino 1996) 135 ss.; C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea. I. Dalle origini all’opera di Labeone (Torino 1997) 273 ss.; H.J. Roth, Alfeni Digesta. Eine spätrepublikanische Juristenschrift, “Freiburger Rechtgeschichtliche Abhandlungen. Neue Folge, 32” (Berlin 1999) su cui v. V. Carro (rec.), Su Alfeno Varo e i suoi Digesta, in Index 30 (2002) 235 ss. Si v. anche C. Giachi, Studi su Sesto Pedio. La tradizione, l’editto (Milano 2005) 314 ss.; A. Schiavone, Ius 215 e passim.

 

[360] Cfr. per la bibl. la nota precedente.

 

[361] Per un ragguaglio bibl. completo si v. retro, nt. 6.

 

[362] Poco persuasiva mi pare quindi la posizione di D. Stojcevic, Proprietà sociale, proprietà feudale e “dominium” 1928 su cui v. anche retro nt. 36.

 

[363] Gell. 13.28.1-4[=Vim. 111 frgm. A73]: Legebatur Panaeti philosophi liber de officiis secundus ex tribus illis inclitis libris, quos M. Tullius magno cum studio maximoque opere aemulatus est; Plin. praef. 22=Vim. 113 frgm. A79: (n.d.r., Tullius) ‘de Republica’ Platonis se comitem profitetur, in Consolatione filiae “Crantorem” inquit “sequor”, item Panetius ‘de Officiis’.

 

[364] Uno dei maestri di Servio fu il fratello di Quinto Lucilio Balbo, considerato uno dei romani più versati verso lo stoicismo: Cic. de nat. deor. 1.6. Sul punto E. Vernay, Servius et son Ecole 46.

 

[365] Cic. de fin. 3.2.7: Nam in Tuscolano cum essem vellemque e bibliotheca pueri Luculli quibusdam libris uti, veni in eius villam ut eos ipse ut solebam depromerem. Quo cum venissem, M. Catonem quem ibi esse nescieram vidi in bibliotheca sedentem, multis circonfusum Stoicorum libris. Erat enim ut scis in eo aviditas legendi, nec satiari poterat.

 

[366] Si v. sul punto L. Capogrossi Colognesi, La proprietà a Roma 317.

 

[367] Si può procedere solo in modo molto sommario, tuttavia la riflessione paneziana caratterizzò certamente tutto il movimento culturale/scientifico facente capo al Circolo degli Scipioni dell’epoca dell’Africano Minore (lo dimostra il famoso passo del de re publica in cui Cicerone riferisce di Lelio che in polemica con P. Mucio si pone il problema di ciò che è proprio rispetto a ciò che è di altri: Cic. de re p. 1.13.20: Tum Manilius: Pergisne eam, Laeli, artem inludere, in qua primum excellis ipse, deinde sine qua scire nemo potest, quid sit suum, quid alienum? Sed ista mox; nunc audiamus Pilum, quem video maioribus iam de rebus quam me aut quam P. Mucium consuli) e probabilmente influì su tutto il processo di trasformazione della possessio dell’ager publicus in dominium quiritario in età cesariana. Abbiamo visto come Gaio attesti che presso popolazioni diverse da quella romana esisteva una concezione unitaria dell’idea della proprietà e che prima della ‘scissione’ (dell’arcaica visione unitaria dell’appartenenza fondiaria nella più recente dicotomia dominium ex iure Quiritium/in bonis habere pretorio) era questo anche il modo di pensare dei giuristi romani.

 

[368] Anche per questo, come altro lascito mediato della filosofia stoica, il criterio dell’utilità sancito da Ulpiano in D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 inst.), diventerà il paradigma concettuale su cui i giuristi classici costruiranno la dicotomia publicus/privatus e che i ‘Romaici’ dell’epoca di Giustiniano lasciarono vigente nella loro compilazione ancorché fossile di un’età remota. Ma si sa, il diritto pubblico, per essi, era un ‘diritto emanato dallo Stato’; lo staatliche Recht, di Ehrlich [Beiträge zur Theorie der Rechtsquellen (Berlin 1902) 159-195]. Lo stesso si può vedere, tanto per fare un solo esempio (in modo peraltro sorprendende), anche nella lex romana Visigothorum evidentemente attenta a conservare la peculiarità tipica del diritto romano più antico che nel caso di specie è ancora la formazione filosofica dell’ultimo Cicerone. L.R.Vis. 1.1.3: Tunc primo requiriendum est, ut di, quod inducitur, possibile credatur. Novissime ostendendum, si non pro familiari conpendio, sed pro utilitate populi suadetur, ut appareat eum, qui legislator existit, nullo privatim commodo, sed omnium civium utilitati communi motum presidiumque oportune legis inducere; da leggere con Cic. de off. 1.24.85. V. anche L.R.Vis. 1.2.2-5 da leggere insieme a D. 1.3.1 (Papin. lib. 1 defin.); Cic. de off. 1.22.76; 2.15.10. L.R.Vis. 1.2.6 da leggere insieme a Cic. de off. 1.5.15.

 

[369] Gai. 4.36. Si v. sul punto S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano 465. Se confrontiamo tale frammento con un altro altrettanto conosciuto, tratto dal de officiis di Cicerone, capiamo in che clima potrebbero essere stati maturati i riferimenti normativi che potrebbe aver usato il legislatore del 111 in sede di elaborazione dei capitoli della legge agraria del 111 a.C.: Cic. de off. 3.16.65: Ac de iure quidem praediorum sanctum apud nos est iure civili, ut in iis vendendis vitia dicerentur, quae nota essent venditori. Nam cum ex duodecim tabulis satis esset ea praestari, quae essent lingua nuncupata, quae qui infitiatus esset dupli poenam subiret, a iuris consultis etiam reticentiae poena est constituta: quicquid enim est in praedio vitii, id statuerunt, si venditor sciret, nisi nominatim dictum esset, praestari oportere. Come si vede, i giuristi dell’età graccana tra cui spiccano il pontefice esperto in ius prediatorum e la sua famiglia, pare che abbiano dettato anche le nuove regole per la compravendita immobiliare dato che le vecchie e rigide regole del ius civile previste dalle XII tavole si dovettero appalesare decisamente inadeguate. E, del resto, considerando la complessità della disciplina predisposta dal legislatore del 111 si capiscono quali possono essere state le motivazioni che potrebbero aver spinto nella direzione di questo adeguamento. Appare chiaro che doveva essere questa la disciplina applicata per le vicende che sono descritte dalla legge che stiamo commentando.

 

[370] Un primo tentativo di qualificare giuridicamente la figura dell’ager privatus irrevocabile che poi sarà contemplato nella lex Sempronia del 133 a.C. fu fatto senza successo da Lelio, uno dei personaggi di spicco del circolo scipionico dell’epoca dell’Africano Minore. Questi, come è noto, si pose il problema di valutare ‘chi fosse’ (ed a quale titolo questi potesse trovarsi in tale posizione) il beneficiario del godimento di un bene (ager, locus, aedificius) assegnato dalla res publica. Cfr. Cic. de re p. 1.13.20: Tum Manilius: Pergisne eam, Laeli, artem inludere, in qua primum excellis ipse, deinde sine qua scire nemo potest, quid sit suum, quid alienum? Sed ista mox; nunc audiamus Pilum, quem video maioribus iam de rebus quam me aut quam P. Mucium consuli. Ne parla Cicerone, come si vede, nel de re publica che forse è l’opera che meglio descrive l’immagine di uomo pubblico del retore di Arpino. Cfr. sul punto F. Cancelli (cur.), Marco Tullio Cicerone, Lo Stato (Milano 1979) 7-12 e passim. Per un ragguaglio bibl. aggiornato, si v. ora E. Narducci, Introduzione a Cicerone (Roma-Bari 2005) 138 ss.

 

[371] Così A. Schiavone, Ius 115 ss., 139 e passim. Per una disamina più approfondita di questi problemi rinvio ad uno studio che è in corso di stampa per RIDA. e dal quale ho tratto il materiale per la relazione dal titolo Le nozioni di Stato e di proprietà in Panezio e l’influenza della dottrina stoica sulla giurisprudenza romana dell’epoca scipionico-cesariana presentata a Bochum il 21 settembre 2005 per la 59 Sessione de la Société Internationale Fernand de Visscher dedicata a La réponse des juristes et des experts à la pratique du droit. Portata all’estremo, la posizione stoica, per cui lo ‘Stato’ nasce per proteggere la proprietà privata, si ritrova nella nota teoria di Carl Schmitt [enunciata in Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, scritto nel 1950, quindi dopo la caduta del nazismo di cui tale filosofo del diritto, come è noto, fu uno dei teorici di spicco] per cui ogni ordinamento politico avrebbe la sua base nella sistemazione e organizzazione spaziale della terra. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “ius publicum europaeum”3 [Milano (tr. it. E. Castrucci) 2003] 19-71. Tale filosofo ha definito infatti (p. 19 ss.) il diritto come ‘ordinamento’ e ‘localizzazione’. In questa ottica l’atto istitutivo del diritto sarebbe la presa di posizione della terra; perché nñmoV, per Schmitt, deriverebbe dal verbo greco nem¡o (nem¡in), orecchiato come il verbo tedesco nehmen che vuol dire ‘prendere’, ‘conquistare’, con valore semantico di riferimento alla ‘prima divisione e misurazione del pascolo’. In realtà questa è una paretimologia destituita del tutto di fondamento scientifico perché Nòmos significa ‘parola’ che ‘discende da autorità suprema’. Insomma, indica la parola del re: il nñmoV bsÝleæV di Dracone e Solone. Cfr. G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del vicino oriente e le origini del pensiero greco2 (Milano 2004) 262 ss. Questa nota posizione teorica di Schmitt rappresenta a mio avviso emblematicamente il modo di affrontare la questione da parte di moltissimi studiosi moderni. Un riflesso di tale posizione teorica è a mio avviso nella considerazione della cd. proprietà provinciale intesa secondo il modello degli schemi giuridici volti ad attribuire al sovrano una generale signoria-sovranità su tutto il territorio. Roma avrebbe recepito tali schemi ponendosi come titolare del dominium su tutto il suolo provinciale lasciando ai privati una semplice possessio o usufrutto su di esso. Si v. su questo L. Capogrossi Colognesi, La proprietà a Roma 311 che tuttavia ritiene tale posizione meramente teorica: “…sempre più insufficiente a interpretare in modo adeguato la complessità delle situazioni provinciali”. La prospettiva in cui ci si potrebbe muovere per comprendere la realtà antica potrebbe anche essere diversa. Possiamo comprendere infatti la portata della grande trasformazione determinata dal contatto tra filosofia stoica e giurisprudenza romana (sotto il profilo dell’affermazione di una nozione di proprietà privata fondiaria), ricorrendo ad un altro grande filosofo moderno che ha impostato il tema partendo dal rapporto tra diritto pubblico e diritto civile. Secondo Immanuel Kant, una volta nato lo Stato, il ‘diritto civile’ (dei ‘cittadini’, e quindi per questo ‘privato’) si trasformerebbe in ‘diritto pubblico’. Perché il ‘diritto pubblico’ è la forma giuridica dell’attività dello Stato, in quanto esso stesso è subietto del sistema del diritto. Cfr. I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto2 (Torino 1965) passim. Giuseppe Capograssi ha spiegato molto bene come lo Stato, come subietto del diritto, ha una propria attività con la quale tende a creare il diritto (che esso forma) accogliendo sotto di sé il ‘reale’, il ‘vario’ e il ‘molteplice’. Cfr. G. Capograssi, Lo stato e la storia, in Opere 7 (Milano 1959) 52-53. L’obiezione di Giuseppe Capograssi resta allora valida. Non si può, nei limiti del sistema diritto, e dentro il diritto, distinguere tra utilità pubbliche e utilità private. Tutto è utile, perché tutto è fatto per il diritto; e, nell’ordine giuridico, tutto è fatto per niente altro che per il diritto. In questo modo, capiamo il tentativo (riuscito) di porre il criterio dell’utile al centro della definizione della dicotomia diritto pubblico/diritto privato operata dalla cultura giuridica dell’età di Cicerone che poi, fra tanto altro, determinerà anche il riconoscimento della figura del dominium ex iure Quiritium. Fu una vera svolta, ma forse non di vero progresso, perché, rispetto alla realtà giuridica della legge agraria del 111 a.C. (e ancora di più rispetto alla riforma dei Gracchi), quest’innovazione appare meno nobile (riconoscere una forma di proprietà individuale come il dominium ex iure Quiritium significava in linea di principio sottrarre parte di territorio della res publica dalla disponibilità collettiva in modo irreversibile). L’attività attraverso cui si possono determinare tali cambiamenti nasce già di per sé concreta ma, in quanto tale, ha bisogno di una forma. Questa forma è il diritto, e questo diritto è il diritto pubblico. Ebbene, la legge agraria del 111 a.C. dimostra che Kant e Capograssi avevano ragione perché in tale legge c’era l’idea del privato (in senso assoluto e patrimoniale), ma non la proprietà.

 

[372] Per Sen. de tran. an. 11.1: Nec habet ubi illam timeat, quia non mancipia tantum possessionesque et dignitatem, sed corpus quoque suum et oculos et manum et quicquid cariorem vitam facit seque ipsum inter precaria numerat, vivitque ut commodatus sibi et reposcentibus sine tristitia redditurus, i precaria erano delle ‘ricchezze temporanee’. In realtà la ‘privatizzazione’ dell’ager publicus con la lex del 111 a C. (e qui il discorso si fa più generale) diventò nei fatti soprattutto un’enorme manovra di speculazione finanziaria. Vito Antonio Sirago sintetizza il fenomeno molto bene: “(…) elenchiamo qui i modi in cui l’ager publicus si poteva occupare: 1) mediante adsignatio (cessione in piena proprietà), esente da ogni imposta, sia come ager colonicus (=territorio assegnato globalmente a una colonia) sia come ager viritanus (= terreno assegnato nominativamente); 2) mediante vendita fatta dal questore (ager quaestorius), non perpetua, ma a tempo indeterminato (una specie di enfiteusi); 3) mediante affitto per mezzo del censore (ager censorius, ager a censoribus locatus), a lunga scadenza, anche 100 anni, rinnovati ogni cinque anni: l’affitto era una forma d’imposta e corrispondeva al 10% della rendita o a un canone fisso; 4) cessione mediante vectigal (ager vectigalis), tassa corrispondente al 10% per i seminativi, al 20% per alberati e vigneti”. V.A. Sirago, L’agricoltura italiana nel II sec. a.C. 73, nt. 13. Restano fuori da questo schema alcune categorie di terreni come, ad esempio, l’ager compascuus, i trientabula, l’ager privatus vectigalisque, etc., che la lex del 111 disciplina dettagliatamente, ma non c’è dubbio che la descrizione del Sirago riproduce abbastanza bene la sostanza del sistema di distribuzione dell’ager publicus fatta dal legislatore del 111 a.C. Dice bene a mio avviso L. Capogrossi Colognesi, La proprietà a Roma 314, quando parla di un sistema integrato di ager privatus e ager publicus in questi termini: “Eppure l’insistente richiamo alle forme integrate di attività, in cui nell’azienda agraria si richiedono, accanto alla presenza di terre destinate alla cerealicoltura e alle piantagioni, e ai prata destinati alla produzione di foraggio, anche ampie zone di pascolo e di bosco, può ben collegarsi a un sistema integrato di ager privatus e di ager publicus”. Delle quattro categorie di ripartizione dell’ager publicus prospettate dal Sirago, l’unica che si può avvicinare ad un’idea di proprietà in senso moderno è l’adsignatio, rispetto alla quale però non parlerei ovviamente di ‘cessione in piena proprietà’.

 

[373] Sul titolo dell’opera di Elio Gallo non vi è uniformità di vedute. La tesi della storiografia tradizionale propende per l’integrazione di ‘civile’ insieme a ‘ius’ [così O. Lenel, Palingenesia iuris civilis I, col. 10; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt I.246; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta (Lipsiae 1907) 545; Ph.E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae6 I (Lipsiae 1908) 37]. Con cautela, ma nel senso tradizionale, F. Sini, A quibus iuris praescribebantur 59 e nt. 41; 60 e nt. 45. Con cautela, ma più decisa apertura verso la versione senza ‘civile’ F. Bona, Alla ricerca del ‘de verborum, quae ad ius civile pertinent, significatione’ di C. Elio Gallo 119. Nel senso di convinta (e convincente) versione senza l’aggettivo G. Falcone, Per una datazione del “de verborum, quae ad ius pertinent, significatione” di C. Elio Gallo 225, nt. 2. L’affermazione si basa su titolo di D. 50.16.157 (Aelius Gallus libro primo de verborum quae ad ius pertinent significatione). Mentre la versione con ‘civile’ è in Gell. 16.5.3: C. Aelius Gallus in libro de significatione verborum, quae ad ius civile pertinent, secundo (…); Macr. sat. 6.8.16: C.Aelius Gallus, vir doctissimus, in libro de significatione verborum, quae ad ius civile pertinent secundo, vestibulum dicit esse non in ipsis aedibus neque aedium partem sed locum ante ianuam domus vacuum, per quem de via aditus accessusque ad fores aedium sit; Serv. georg. (daniel) 1.264: Aelius Gallus de verbis ad ius civile pertinentibus vallos tegulas grandes, quae supra collicias infimae ponuntur, appellat. Non sembra porsi il problema Mario Bretone che accetta in Tecniche e ideologie 373 la versione canonica del titolo.

 

[374] Può essere stata così formulata la nozione di dominium ex iure Quiritium come forma di appartenenza immobiliare a cui fu possibile estendere, con i dovuti accorgimenti, la tutela processuale che veniva già apprestata in diritto romano per la difesa delle cose mobili. Fu questa una categoria giuridica che riuscì a rendere l’aspirazione all’assoluto di vecchi e nuovi proprietari terrieri che fu caratteristica tipica del pensiero ellenistico. Una posizione giuridica che la lingua latina riusciva a rendere già dall’età di Plauto con i termini dominus/domina nel rapporto tra padrone (erus) e schiavo, ma che forse non raggiunse mai la pregnanza del termine dominium, rispetto alle forme di appartenenza individuali immobiliari, fino almeno ai giuristi dell’età di Cesare. In questo quadro uno degli schemi giuridici operativi che sembrano aver prevalso nei redattori di questa legge fu quello della praediatura. Difatti, come è noto, il praediator era l’aggiudicatario dei beni confiscati messi all’asta (Cic. pro Balb. 45; ad Att. 12.14.2). La praediatura era l’aggiudicazione di tali beni: Gai. 2.61: Item si rem obligatam sibi populus vendiderit eamque dominus possederit, concessa est ususreceptio; sed hoc casu praedium biennio usurecipitur. Et hoc est quod vulgo dicitur ex praediatura possessionem usurecipi; nam qui mercatur a populo, praediator appellatur. Forse l’uso di definire il praediatus come ‘colui che è ricco di terreni’, ancora attestato da Apuleio (flor. 22.5) e Marziano Capella (1.46), risale proprio a quest’epoca.