Si pubblicano in edizione elettronica i Capitoli I e
II della monografia: L. Franchini,
Aspetti giuridici del pontificato romano.
L’età di Publio Licinio Crasso (212-
Di seguito l’Indice-Generale: Premessa. – I. P. Licinio Crasso: figura storica e
personalità politica. – II. Prosopografia dei singoli membri del collegio. – III. L'attività pontificale: illazioni
contenutistiche e procedurali.
Università Cattolica di
Milano
Istituto della Enciclopedia
Italiana
Aspetti giuridici del pontificato romano.
L’età di Publio Licinio Crasso (212-
Sommario: Premessa.
– I. P. Licinio Crasso:
figura storica e personalità politica. – II. Prosopografia dei singoli membri
del collegio. – II.1. I
pontefici in carica fra il 212 ed il 183 a.C. – II.2. Gli avvicendamenti anno per
anno. Due questioni.
Il lavoro che segue diverge, per molti
aspetti, dai nostri precedenti scritti[1], nei quali, a delimitare nettamente
l’ambito della trattazione, ci si dava una tesi da dimostrare, o di cui
illustrare la ragionevolezza, per poi procedere all’esame ed al commento
delle fonti.
L’unica linearità riscontrabile nella presente opera è quella,
di carattere rigorosamente cronologico - ma, per ciò stesso,
inevitabilmente “alluvionale” -, che, in ossequio al metodo
annalistico proprio dell’antica tradizione pontificale, caratterizza, al
suo interno, lo svolgimento sia dei primi due capitoli (in cui prevale
l’indagine sulla prosopografia dei giuristi), sia del terzo (in cui
prevale lo studio delle quaestiones).
La preoccupazione che ci ha principalmente
mosso, qui, è stata un’altra, ossia di colmare, possibilmente, le
lacune lasciate dalla dottrina su temi che - come il pontificato massimo di P.
Licinio Crasso (212-
Si ricorda che il nome del giurista pontefice
P. Licinio Crasso non compare in fonti giuridiche; di esso in particolare non
si fa menzione alcuna nel lungo frammento del Digesto tratto dall’Enchiridion pomponiano. Tutto questo
rende forse comprensibile, ma niente affatto giustificabile, a nostro avviso,
il lungo silenzio della dottrina sull'argomento[2].
Tanto più, se si considera l’importanza che, per le nostre
discipline, riveste l’epoca in cui Crasso fu a capo del collegio, a
cavallo fra il III ed il II secolo a.C.
A quest’epoca, caratterizzata da
trasformazioni profonde, risale l’esperienza dei primi giuristi laici,
sui quali, a scapito dei pontefici, gli studiosi distolgono solitamente la loro
attenzione. Ebbene, il presente studio è l’esito di
un’operazione esattamente opposta, che tenta di dar risposta al quesito:
che ne era, nel frattempo, dei pontifices,
della loro compagine (considerata nei suoi equilibri interni, oltre che in
rapporto all’attività degli altri organi della res publica), della loro plurisecolare
attività di interpretatio? A
tali curiosità - più che legittime, a nostro giudizio - tenteremo
di soddisfare, tenendo ben presente, come si diceva, il contesto nel quale
l’esperienza pontificale, in quella fase storica, si colloca. Non
stupisca pertanto il rilievo che, nelle note, talora figuri, oltre
all’apparato critico e all’approfondimento dei molti problemi che
tendono via via ad accumularsi, una sorta di trattazione
“parallela”, relativa al cursus
honorum dei pontefici, alle loro appartenenze politiche e di partito, ai
criteri ispiratori delle decisioni del collegio; criteri che molto spesso, come
si vedrà, al di là delle ragioni addotte sul piano
giuridico-formale, avevano natura essenzialmente politica. Perché i pontifices erano, anche allora, quello
che in fin dei conti erano sempre stati: uomini di potere, più di tutti
gli altri sacerdoti.
Capitolo Primo
Publio Licinio Crasso venne eletto pontefice
massimo nel
Esponente di un'antica gens tornata in auge verso la metà del III secolo grazie
all'aiuto dei Cornelii[8], P. Licinio Crasso, il primo ad essere
insignito dell'epiteto Dives[9], era nato intorno al 235[10]. Cooptato, con ogni probabilità, nel
collegio dei pontefici non oltre il 218[11],
egli esercitò le funzioni di pontefice massimo dal 212 al 183, anno della
sua morte. Percorse tutto il cursus
honorum: censore nel 210, pretore nel 208, riuscì a conseguire il
consolato nel 205. Problematica è la datazione della sua edilità
curule: vi è chi[12] sostiene che Crasso, al tempo della sua
elezione a pontefice massimo, fosse solo candidato all' edilità,
conformemente del resto a quanto attestato in Liv. 25,5,3, cosicché egli
sarebbe stato il primo capo del collegio dai tempi di P. Cornelio Calussa -
pontefice massimo fra il 332 e il 304 circa[13]-
ad essere investito della più alta carica sacerdotale senza aver mai
occupato prima magistrature curuli; secondo altri[14],
invece, Licinio Crasso sarebbe stato allora già edile, dimodoché
avrebbe forse già potuto acquisire, attraverso i ludi che nell'esercizio
delle sue funzioni certo allestì - molto sontuosamente, grazie anche
alle sue personali, enormi risorse economiche[15]
-, quella popolarità che poi gli avrebbe inevitabilmente giovato, nel
corso dello stesso anno, ai fini dell'elezione a pontefice massimo da parte
delle diciassette tribù[16].
Comunque voglia risolversi la questione relativa alla data della sua
edilità[17], occorre qui riflettere sul fatto che per
far ottenere a Crasso la più alta carica sacerdotale potrebbero essersi
rivelati determinanti, in positivo, soprattutto due fattori (oltre che forse,
in negativo, il timore che il successo di uno dei suoi due prestigiosi
avversari avrebbe favorito una concentrazione eccessiva di potere nelle mani di
questo[18]): ossia la fama di esperto giurista[19] che, già così giovane, egli si
era guadagnato, e l'appoggio che molto probabilmente ricevette dai suoi alleati
politici. Sappiamo infatti - come più volte avremo occasione di
verificare, avvalendoci del fondamentale contributo offerto dagli autori che
più hanno studiato la dialettica politica di quel tempo[20] - che P. Licinio Crasso fu sempre molto
legato a Scipione[21], di cui era anche pressappoco coetaneo[22]: si può anzi dire che le loro
rispettive carriere politiche furono parallele[23],
tanto che nel 205 essi occuparono insieme il consolato. All'epoca dell'elezione
di Crasso a pontefice massimo, comunque, Scipione, futuro Africano, era ancora
troppo giovane per sostenerlo[24]:
tuttavia, Crasso poté forse contare sull'aiuto di altri esponenti del
partito dei Cornelii[25], e ciò sia ai fini della candidatura
espressa dal collegio - dato che buona parte dei suoi membri, quali Q. Cecilio
Metello, M. Cornelio Cetego, Cn. Servilio Cepione e M'. Pomponio Matone, erano
di parte scipioniana -, sia poi per il buon esito della votazione, alle cui
operazioni presiedette d’altronde lo stesso Cetego[26] - dato che quel partito era ancora molto
forte nei comizi, quantunque in senato dominasse in quegli anni la figura di Q.
Fabio Massimo[27].
Come già dicevamo nella premessa,
riteniamo che l’indagine circa i legami di famiglia e le appartenenze di
partito dei singoli componenti il collegio pontificale - indagine, questa,
condotta tenendo presenti i rilievi degli autori cui in precedenza facevamo
riferimento, dei quali avremo occasione di verificare la piena attendibilità
nelle vicende da noi esaminate[28]
- rivesta una grande importanza nella economia di questo lavoro. Anzi, è
forse bene anticipare fin d'ora che uno degli scopi del presente studio
è proprio quello di dimostrare, di contro a talune tendenze
storiografiche[29] propense a ridimensionare decisamente il
ruolo svolto dall' oligarchia senatoria già a cavallo fra il III e il II
secolo a.C., quanto determinanti fossero invece gli orientamenti della classe
dirigente, anche e soprattutto in ragione del prevalere al suo interno dell'una
o dell'altra fazione, almeno nel campo della politica religiosa e, nei limiti
in cui si svolgeva ancora l’attività interpretativa del collegio
pontificale, in quello della politica del diritto[30].
Il fatto che in particolare il pontefice massimo, nel trentennio compreso fra
il 212 e il 183, fosse autorevole esponente di un partito ci aiuterà a
spiegare, in maniera sorprendentemente coerente e puntuale, quali fossero le
ragioni politiche profonde dei provvedimenti da Crasso formalmente emanati
nell'esercizio dei suoi poteri, delle decisioni adottate dal collegio
pontificale sotto l'influenza degli, o in contrapposizione agli, orientamenti
del suo capo. Si tenga altresì conto della circostanza che P. Licinio
Crasso, contrariamente ad altri esponenti del partito scipioniano, non fu
successivamente coinvolto in scandali e processi di alcun genere[31]: massima fu sempre del resto la
considerazione in cui fu tenuto dall’opinione pubblica, anche in
relazione alle prove di competenza e serietà che egli seppe offrire
nell' esercizio del suo ministero di pontefice massimo. Sulla indiscutibile
rilevanza dei legami politici e familiari nell'ambito della politica religiosa
di quel periodo, avremo modo di tornare in più occasioni, nel corso di
un’indagine, che pur avendo principalmente ad oggetto l'attività
interpretativa del collegio pontificale, è tutta intessuta di
considerazioni volte a dimostrare quanto possano aver di volta in volta inciso
gli interessi politici in gioco, nei limiti in cui, s’intende, saremo
riusciti ad individuarli. Degna di particolare rilievo sarà poi, a
nostro avviso, la visione d’insieme che ne deriverà, e che
accerteremo essere fondata sulla possibilità di riscontri quasi del
tutto univoci.
A conferma della popolarità di cui il
giovane pontefice massimo P. Licinio Crasso godeva in quel periodo, si potrebbe
addurre il fatto che appena due anni dopo, alla fine del 210, egli è
nominato magister equitum del dictator comitiorum
habendorum causa[32], il quale fra l’altro era Q. Fulvio
Flacco, il pontefice sconfitto da Crasso alle elezioni del 212, e che
certamente non apparteneva al suo stesso partito politico. Dalla lettura del
passo liviano in questione si evince infatti che, secondo la complessa (e
costituzionalmente anomala) procedura adottata in quell'occasione[33], la nomina di Licinio Crasso a magister equitum fu imposta da una
preventiva indicazione dei concilia
plebis. Ciò è indubbiamente segno del favore popolare da cui
il pontefice massimo era allora
sostenuto[34].
In seguito, Livio attesta[35] che P. Licinio Crasso, in quello stesso
anno, era stato anche[36] investito della carica di censore,
quantunque poi avesse preferito non esercitarla, abdicandovi, dato che nel
frattempo il collega era morto[37].
Ciò che comunque interessa rilevare è il fatto che P. Licinio
Crasso nel 210, avendo vinto le elezioni, passa direttamente
dall'edilità alla censura, senza aver occupato cariche
“intermedie” (nec consul nec
praetor ante fuerat), bruciando così le tappe della carriera
politica[38]: è lecito pensare che
l’influenza e il prestigio del tutto particolari che già si
riconoscevano a Crasso dipendessero per lo più dal modo in cui egli
esercitava le sue funzioni di capo del collegio, considerato anche il fatto che
egli era giovane e non si era ancora conquistato fama con imprese militari.
Alla fine del 209 risale poi l'elezione a
pretore del pontefice massimo P. Licinio Crasso[39],
che a pochi anni di distanza dalla sua entrata in scena ha già percorso
quasi tutte le tappe del cursus honorum.
All'inizio dell'anno successivo gli viene più precisamente assegnato
l'incarico[40] di esercitare la iurisdictio peregrina, unitamente a quello di recarsi là
dove il senato avesse eventualmente stabilito[41].
E' opportuno ricordare, in questa sede, che secondo l’orientamento oggi
prevalente in dottrina[42] fu proprio nell’ambito della
giurisdizione del pretore peregrino che, a partire dalla seconda metà
del III secolo, ebbe origine il processo formulare. E’ plausibile allora
che P. Licinio Crasso, per l’esercizio di funzioni che a noi oggi
appaiono tanto storicamente rilevanti per il prosieguo dell'esperienza
giuridica romana, e nonostante l’indubbia distinzione esistente tra
queste e quelle di pontefice massimo, abbia comunque avuto modo di avvalersi
della sua superiore cultura di giurista, della competenza genericamente
acquisita dopo ormai tanti anni di militanza all’interno del collegio
pontificale[43] (si ricordi peraltro che già i
pontefici davano consigli finalizzati al momento processuale, nel campo delle legis actiones[44], e che lo stesso processo formulare non
può considerarsi opera di creazione esclusivamente magistratuale ma
anche, mediatamente, giurisprudenziale[45]).
Da quanto detto emerge la figura di un pontefice massimo capace
all’occorrenza di dimostrarsi, oltre che puntuale garante della tradizione[46], anche pienamente inserito nella dinamica
evolutiva del suo tempo.
Nel 205 P. Licinio Crasso raggiunse
finalmente il consolato, coronando così una carriera politica luminosa.
Si è già in precedenza accennato al fatto che egli ebbe come
collega nella suprema magistratura
P. Cornelio Scipione[47],
futuro Africano, reduce dalle imprese di Spagna[48],
grande alleato ed amico personale del pontefice massimo. In quegli anni, in cui
si stava ravvisando l'opportunità di riprendere una politica aggressiva
contro Cartagine, l'influenza del partito scipioniano, cui anche Licinio Crasso
apparteneva, stava diventando sempre più consistente[49]. Ciò potrebbe probabilmente spiegare[50] la ragione per cui, accanto al leader di quella fazione, si
riuscì a far eleggere console il pontefice massimo Licinio Crasso, che
oltretutto aveva anche una sua propria autonoma statura di uomo di stato.
All'inizio dell'anno vennero assegnate le
province: senza che vi fosse bisogno di procedere alla sortitio, il pontefice massimo lasciò che a Scipione andasse
la Sicilia[51], e non solo perché l’opinione
pubblica faceva pressione in tal senso[52]
o perché la tradizione, come in seguito preciseremo, lo obbligava a non
abbandonare l'Italia per meglio attendere alla cura sacrorum[53], ma anche perché probabilmente si
sarebbe così attuato un preciso disegno politico, abilmente concertato
con Scipione, che avrebbe consentito a quest’ultimo di preparare nel
migliore dei modi, dalla Sicilia, la spedizione in Africa[54]. Forse Q. Fabio Massimo, leader del partito avversario, contrario
all’impresa transmarina[55],
aveva nel frattempo cercato di rompere l'alleanza tra Crasso e Scipione,
tentando di convincere il primo a non lasciare
P. Licinio Crasso esercitò dunque il
suo imperium nel Bruzzio, dove
cercò di tenere sotto controllo i movimenti di Annibale[60]; egli non si allontanerà
dall’Italia neppure l’anno dopo, quando gli fu prorogato il comando
che già aveva[61]. Tito Livio, nell'informarci poi del suo
definitivo ritorno a Roma, nel 203, approfitta per tesserne un lusinghiero
ritratto[62], il quale sembra rientrare a pieno titolo
nello schema tipico della laudatio[63], cui gli scrittori romani di solito
ricorrevano per personaggi famosi dei quali avevano appena narrato la morte,
secondo il costume della laudationes
che si declamavano in occasione dei funerali. Nel 203 Crasso non era ancora
morto, ma nella coscienza dei suoi contemporanei, quale ci viene qui
rappresentata da Livio, già
gli venivano attribuite, in sommo grado, tutte le qualità proprie di un
antico romano. Questi erano infatti, per lo più, i valori in cui si
riconosceva allora l’aristocrazia romana[64]:
saggezza, coraggio, esperienza bellica e politica, eloquenza, forza d'idee e di carattere, tutto
sommato anche ricchezza (non erano più i tempi di Cincinnato!). Nei due
anni che lo avevano visto impegnato contro Annibale, P. Licinio Crasso si era
dunque anche distinto in imprese militari[65]:
ciò segnava il culmine della sua straordinaria carriera. Una carriera, peraltro,
prevalentemente edificata sulle sue superiori doti di giurista[66], che gli avrebbero consentito anche di
trascorrere una vecchiaia intellettualmente molto vitale[67]. Presso le generazioni successive Crasso
sarebbe stato ricordato, in effetti, soprattutto per la sua perizia legale e
per l’applicazione che, come Coruncanio, egli ne avrebbe fatto: ad
esclusivo vantaggio degli interessi della città[68]. P. Licinio Crasso ci appare perciò,
al pari del suo grande predecessore, non solo come un eccellente conoscitore ed
uno scrupoloso garante della tradizione, ma anche come il rappresentante di una
sapientia di più ampie vedute,
di una scientia iuris più
aperta, più sensibile ai bisogni della comunità, in
un’epoca caratterizzata da profonde trasformazioni economico-sociali[69]. La ricerca di un punto di equilibrio fra
innovazione e tradizione potrebbe aver effettivamente contraddistinto lo stile
dei pontificati massimi plebei del III secolo[70].
Inoltre, dalle fonti a nostra disposizione[71]
si ricava un altro dato di grande importanza: cioè che P. Licinio Crasso
era sì espertissimo di diritto pontificale, ma anche di diritto civile.
Il fatto che a lui non sia attribuibile la paternità di alcuna opera
scritta non esclude affatto una sua intensa attività anche in questo
campo: anzi, da un’attenta lettura di Cic. de or. 3,33,133-134 è arguibile che egli fu, con frequenza
e piena autonomia individuale[72],
giurista respondente. Del resto è nella temperie del suo pontificato
massimo che si colloca l’esperienza dei primi giuristi laici di cui si
abbia notizia[73]; lo stesso Sesto Elio Peto Cato apparteneva
ad una famiglia cui non erano estranee tradizioni pontificali[74]. Certo il processo di secolarizzazione della
giurisprudenza era irreversibile; in particolare, la separazione tra le due
discipline tradizionalmente pontificali, il ius
sacrum e il ius civile, col
passar del tempo si sarebbe oggettivamente fatta sempre più marcata[75]. Ma ciò non significa che esse non
potessero essere coltivate dalla medesima persona, come sarà anche per
altri pontefici, vissuti fra l’altro in epoche assai più tarde di
quella che ora stiamo esaminando[76].
La morte di P. Licinio Crasso risale al 183[77]; nella stessa epoca cessava di vivere anche il suo
grande amico Scipione[78]. Crasso era stato a capo del collegio pontificale
per ventinove lunghi anni[79]. In suo onore vennero organizzate grandi
celebrazioni funebri, comprendenti una distribuzione di carne, giochi
gladiatorii ed un epulum[80]. Nonostante la magnificenza della cerimonia
descritta da Livio, non dovrebbero sussistere dubbi[81]
circa il fatto che quello di Crasso sia stato un funerale privato, e non
pubblico, ossia decretato dal senato, con spese a carico dell'erario o dell'arca pontificum[82]. Ciò essenzialmente per due ragioni:
sia per il fatto che i funera publica,
dichiarati come tali allo scopo di onorare cittadini resisi benemeriti della
patria, furono rarissimi nella storia della repubblica[83], sia per il fatto che la famiglia del
defunto pontefice massimo (cui non per caso era stato attribuito l'appellativo
di Dives) era una delle più
facoltose di Roma e poteva dunque permettersi anche il funerale più
sontuoso[84]. E’ inoltre plausibile che i Licinii
abbiano colto l’occasione delle onoranze funebri da rendere al loro
illustre congiunto, per impressionare il più possibile
l’elettorato[85]: ciò spiegherebbe, in particolare,
l'inserimento di ludi gladiatorii
nella celebrazione.
È per noi motivo di grave rammarico,
infine, che le fonti a nostra disposizione non consentano di sapere nulla della
vita privata di un personaggio tanto importante come Licinio Crasso, che
dominò la scena per un così lungo periodo.
Capitolo Secondo
E' opportuno ora procedere alla
identificazione dei singoli pontefici i quali, nell’arco del trentennio
che stiamo esaminando, si avvicendarono all'interno del collegio[86]. Ciò, non solo perché
può essere di per sé interessante una indagine prosopografica su
coloro che, più di ogni altro, anche allora, si dedicavano
istituzionalmente allo studio del diritto[87],
ma anche e soprattutto perché le decisioni adottate dal collegio, con
riferimento alla risoluzione delle questioni di volta in volta sottoposte al
suo vaglio, erano certamente condizionate, come avremo modo di verificare,
dalle opinioni personali, dai rapporti di famiglia e dai legami di partito di
coloro che all'interno del collegio stesso esercitavano il diritto di voto.
Nel 216, all’indomani della disfatta di
Canne, occorre procedere alla sostituzione, all'interno del collegio, di ben
tre pontefici, che avevano trovato la morte sul campo di battaglia[88]. A questi subentrano, dunque, Q. Cecilio
Metello, Q. Fabio Massimo e Q. Fulvio Flacco, i quali faranno ancora parte del
collegio[89], quando quattro anni più tardi P.
Licinio Crasso assurgerà al rango di pontefice massimo.
Q. Cecilio Metello, plebeo, era figlio del
pontefice massimo Lucio[90], in onore del quale pronunciò una
commossa orazione funebre[91]. Pontefice fino ad oltre il 179[92], fu anche edile nel 209, console nel 206
senza aver rivestito la pretura[93],
dittatore nel 205[94]. Di parte scipioniana, divenne in seguito il
vero braccio destro dell'Africano, dopo la cui morte si avvicinò forse
agli Emilii[95].
Q. Fabio Massimo, patrizio, augure fin dal
265, quand'era ancora molto giovane, pontefice fino al 203, fu anche console
nel 233, 228, 215 (suffectus), 214 e
209, censore nel 230, dittatore nel 221 e 217, princeps senatus nel 209 e nel 204[96].
È una delle grandi personalità di quel tempo, fin troppo
conosciuto perché sia qui necessario soffermarsi ad illustrarne le
qualità militari, che gli valsero il soprannome di Temporeggiatore e che
lo affermarono come l'unico generale romano in grado, con la sua tattica di
guerriglia, di fronteggiare la furia di Annibale in quei primi anni di guerra[97]. Qui ci limiteremo ad alcune rapide
considerazioni. Anzitutto, egli aggiunge nel 216 la carica di pontefice a
quella di augure, che già possedeva: i due sacerdozi potevano essere
cumulati, anche se ciò avveniva di rado[98].
Il collegio dei pontefici, inteso in senso allargato, nella sua unità
sostanziale, comprendeva anche flamini e rex
sacrorum[99]: ciò impediva il cumulo del
pontificato in senso stretto con questi ultimi sacerdozi, ma non con altri,
come il decemvirato o lo stesso augurato. Il doppio sacerdozio era segno di
grande distinzione presso l'aristocrazia romana, molto ricercato, raramente
accordato[100]. A partire dalla seconda metà del III
secolo il prestigio sia dell'augurato che del pontificato si rafforzò,
dal momento che l'uno e l'altro sacerdozio acquisirono un rilievo politico
sempre più considerevole, tenuto conto del modo in cui il ministero
veniva esercitato: l'ammissione ai collegi di questo o di quell'esponente della
nobilitas fu sempre più
contesa[101]. In questa prospettiva il titolare di un
doppio sacerdozio si collocava una spanna al di sopra degli altri[102]. La politica di Q. Fabio Massimo, fin dalla
dittatura del 217, era già quella propria di un grande leader religioso, che vantava molti
alleati tra i sacerdoti[103]. Divenuto anche pontefice - probabilmente
con l'appoggio di T. Otacilio Crasso e di altri membri del collegio[104] - poté muovere ancora meglio le fila
dei diversi sacerdozi, mettendo forse un po' in ombra, fintanto che non
sarà eletto P. Licinio Crasso, la figura dello stesso pontefice massimo,
Lentulo Caudino, ormai molto anziano[105].
Dal punto di vista politico, Fabio fu il leader
incontrastato del partito conservatore, il campione dell'aristocrazia e dei
suoi valori di pietà e di prudenza[106].
Le gravi sconfitte militari di quegli anni, paradossalmente, segnarono il
culmine della sua potenza e del suo ascendente sull'opinione pubblica,
l'abbandono della politica aggressiva dei Cornelii e il ritorno ad
atteggiamenti più prudenti[107].
Q. Fulvio Flacco, plebeo, pontefice fino a
dopo il 205 (non è possibile conoscerne con esattezza la data di morte,
poiché stranamente Livio non ne fa menzione)[108],
fu anche console nel 237, 224, 212 e 209, pretore nel 215 e 214, censore nel
231, dittatore nel 210[109]. È un'altra delle grandi
personalità di quell'epoca, noto per il suo valore militare, che
manifestò soprattutto nella riconquista di Capua passata al nemico[110]. Anche per questo non è facile da
collocare nella dialettica politica del tempo: certo i Fulvii non sostenevano
gli Scipioni, ma non è chiaro se, dopo tanti anni di alleanza con Fabio,
fossero rimasti fedeli alle sue posizioni[111],
o se ne fossero già distaccati[112],
avvicinandosi a quelle dei Claudii, tradizionalisti più moderati[113].
I pontefici morti a Canne vengono sostituiti
dunque - con l'eccezione di Cecilio Metello, ancora giovane, ed edile solo
sette anni dopo - da uomini piuttosto anziani e ricchi di honores; d'altronde, entro pochi anni, pressappoco in coincidenza
con l’elezione di P. Licinio Crasso al pontificato massimo, si
assisterà ad una vera e propria inversione di tendenza. Bisogna comunque
considerare il fatto che, data la drammaticità del momento, i Romani
avvertivano forse la necessità di avvalersi, in ogni ambito,
dell’aiuto di personaggi esperti ed avveduti. Non è escluso che,
ricorrendo a soggetti di così elevata statura (lo stesso Metello era pur
sempre il figlio di un pontefice massimo), si volesse rinsaldare il prestigio
del collegio, forse intaccato dalla nuova disfatta militare, che poteva essere
interpretata come frutto della incapacità dei pontefici di placare gli
dei offesi[114].
Nel corso del 213 muoiono due pontefici: L.
Cornelio Lentulo Caudino e C. Papirio Masone, rispettivamente sostituiti con M.
Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione[115].
Su questi ultimi, presenti nel collegio pontificale quando, a partire
dall’anno successivo, Crasso ne sarà a capo, occorre che la nostra
indagine prosegua.
M. Cornelio Cetego, patrizio, subentra a
Lentulo Caudino nella sua qualità non di pontefice massimo[116], ma di semplice membro del collegio[117]. Forse già investito del flamonium
Diale, era stato costretto a rinunciarvi nel 223 per un errore commesso
nell'esercizio delle sue funzioni[118].
Ma è a partire da questo momento, in cui viene cooptato all'interno del
collegio pontificale, che egli inizia la sua brillante carriera politica[119]: pretore nel 211, censore nel 209, console
nel 204[120], si avvalse della sua capacità di
convinzione ed abilità oratoria per imporsi sulla scena pubblica[121]. Morirà nel
L’altro pontefice cooptato è
Cn. Servilio Cepione, appartenente al ramo patrizio dei Servilii: fece parte
del collegio fino al 174[126]; fu anche pretore nel 205 e console nel 203[127]. Il suo avvicendamento a C. Masone
probabilmente non turbò gli equilibri interni del collegio[128]: in quel momento i Servilii, come i Papirii,
erano legati al gruppo emiliano-scipioniano[129],
anche se poi cercarono di ritagliarsi uno spazio autonomo, collocandosi su
posizioni diverse[130]. Lo stesso Cn. Cepione, durante il suo
consolato del 203, tentò di sostituirsi a Scipione nell'impresa
d'Africa, a testimonianza di un'alleanza politica ormai infranta[131].
Si diceva in apertura che la procedura per
l'elezione del nuovo pontefice massimo, destinato a subentrare a L. Cornelio
Lentulo Caudino nella carica di
capo del collegio, si svolse nel 212. P. Licinio Crasso riuscì ad avere
il sopravvento sugli altri due candidati: si trattava di Q. Fulvio Flacco e di
T. Manlio Torquato[132].
Di Q. Fulvio Flacco si è già
detto in precedenza. Qui basti ricordare che si trattava di una
personalità di grande rilievo, console in quello stesso anno, e che la
sua mancata elezione forse dipese dal fatto che, da valente generale qual era,
fu ritenuto più utile sul campo di battaglia che non a Roma a
sovrintendere sul culto[133]. Inoltre, se avesse cumulato il terzo
consolato[134] con il pontificato massimo, il suo prestigio
personale, già alto, sarebbe ancora cresciuto, fino ad assumere
forse proporzioni pericolose[135]. Occorre infine rilevare che Fulvio, essendo
stato cooptato nel collegio solo quattro anni prima, non aveva avuto
probabilmente il tempo di affinare la sua preparazione in materia di ius pontificium, in modo tale da
rendersi sotto questo profilo sufficientemente competitivo con Licinio Crasso[136].
T. Manlio Torquato, patrizio, pontefice fino
al 202, fu anche console nel 235 e 224, censore nel 231 e dittatore nel 208[137]; è incerto se la sua cooptazione al
collegio risalga o non ad epoca anteriore al suo primo consolato[138]. Famoso per la sua austerità e
severità, pronunciò una celebre e impietosa orazione contro i
superstiti di Canne[139]. Non è facile da collocare nel
panorama politico del tempo: sebbene la sua grande personalità, il suo
orgoglio patrizio lo spingessero forse ad una certa indipendenza di giudizio e
ad intraprendere iniziative apparentemente contraddittorie[140], egli restava pur sempre uno dei campioni
dell'aristocrazia conservatrice e come tale più vicino alla
sensibilità politica di Fabio che non a quella di altri[141]. Nell'elezione del 212 potrebbero aver
nuociuto a Manlio - che pur era un pontefice di consumata esperienza[142] - proprio la sua alterigia e la sua
severità[143], le quali forse lo avevano reso scarsamente
popolare tra le masse e facevano presagire una gestione troppo rigorosa del suo
ministero; inoltre, come Fulvio Flacco, se fosse stato fatto anche pontefice
massimo, avrebbe acquisito un peso politico da valutarsi, probabilmente, come
eccessivo[144].
Tra i pontefici finora passati in rassegna,
abbiamo osservato che molti furono insigniti della carica quando già si
erano affermati nella vita politica, fino ad arrivare al consolato[145]. Non è escluso, infatti, che il
sacerdozio potesse essere considerato un po’ come il premio da accordarsi
a taluno in ragione dei suoi ragguardevoli meriti pubblici[146]. Già da qualche tempo era forse
timidamente in atto una inversione di tendenza[147].
La vittoria di Licinio Crasso, alle elezioni del 212, contro i suoi senes et honorati avversari, sancì la svolta definitiva: da allora il
pontificato non rappresenterà più il coronamento di una carriera
politica già percorsa, ma il trampolino di lancio verso di essa,
poiché il giovane, sfruttando la sua influenza di sacerdote, poteva
offrire favori che gli sarebbero stati restituiti[148].
L'età media dei componenti il collegio pontificale era dunque destinata
ad abbassarsi di molto[149].
Nel corso del 211 muore Pomponio Matone[150], pontefice assai difficile da identificare[151]. Sicuramente era plebeo ed entrò a
far parte del collegio prima del 218[152];
per il resto è incerto se si tratti di Marco Pomponio, console nel 231[153], o di Manio Pomponio, console nel 233
(ipotesi, questa, che ci pare forse più persuasiva)[154], o di qualche altro esponente della stessa
famiglia[155]. Senza dubbio fu ostile a Fabio e
legatissimo al gruppo emiliano-scipioniano, come tutti i Pomponii Matoni[156].
In suo luogo viene cooptato C. Livio
Salinatore[157], plebeo, pontefice fino al 170[158]. Fu anche pretore nel 202 e nel 191, console
nel 188[159]. Figlio del futuro vincitore del Metauro[160], era ancora molto giovane[161] quando nel 211 entrò a far parte del
collegio. Anch'egli valente generale, si distinse nelle guerre in Oriente e in
quelle contro i Galli[162]. C. Livio era di parte scipioniana[163], come del resto il suo predecessore Pomponio
Matone.
Al 211 risale la morte di un altro pontefice,
T. Otacilio Crasso[164], che come Q. Fabio Massimo era forse anche
augure[165]. Plebeo, cooptato nel collegio certo prima
del 218, rivestì due volte anche la carica di pretore, nel 217 e nel 214[166]. La sua elezione a console fu invece
impedita da Fabio, che lo riteneva troppo inesperto per fronteggiare la difficile
situazione di quegli anni[167],
benché Otacilio avesse sposato la figlia di sua sorella[168] e fosse a lui politicamente legato[169]. Si osservi, peraltro, che alla cooptazione
del successore di T. Otacilio Crasso, all'interno del collegio pontificale, non
si provvede nel corso di quell’anno: quanto detto è agevolmente
ricavabile dalla lettura dello stesso Liv. 26,23,8, ove si precisa anche il
motivo del mancato avvicendamento, ossia il fatto che il nostro pontefice era
morto alla fine del 211. Ora, può effettivamente darsi che Livio - il
quale, come noto, nel seguire il metodo annalistico, ripartisce gli anni e di
conseguenza gli avvenimenti - conferisca qui risalto ad una circostanza che
altrimenti sarebbe passata inosservata. Ma non può del tutto escludersi,
a nostro avviso, che una qualche remora nella sostituzione di Otacilio Crasso,
all’interno del collegio, vi sia davvero stata[170],
probabilmente per il fatto che determinati equilibri di potere, tali da
influenzare la scelta del sostituto, dovevano ancora essere definiti,
rendendosi pertanto opportuna una pausa di riflessione (ciò che
potrebbe forse evincersi
dalla circostanza che l'anno dopo sarebbe stato cooptato un esponente del
partito avversario a quello cui Otacilio apparteneva)[171].
Nel corso dell'anno successivo, il 210, si
provvede dunque alla nomina del successore di T. Otacilio Crasso[172]. Si tratta di C. Servilio Gemino[173] anch'egli, d'ora in poi, doppio sacerdote:
con tutta probabilità, infatti, faceva già parte del collegio dei
decemviri sacris faciundis[174], nel quale era stato cooptato, forse, anche
prima del 218[175]. Pontefice fino al 180[176], negli ultimi tre anni di vita
ricoprì anche la carica di pontefice massimo, subentrando a P. Licinio
Crasso[177]. Fu inoltre pretore nel 206, console nel 203
e dittatore nel 202[178]. C. Servilio Gemino apparteneva al ramo
plebeo della gens Servilia[179], ed infatti nel collegio sostituisce un
plebeo. Nel 210, anno della sua cooptazione, e nel 209, quando rivestì
per la prima volta l'edilità[180],
C. Gemino era ancora legato al gruppo scipioniano[181],
come tutti i Servilii. Questi però negli anni successivi, come
già sopra si diceva[182],
prenderanno le distanze dai vecchi alleati, cercando di ritagliarsi un proprio
autonomo spazio politico.
Al 203 risale la morte di Q. Fabio Massimo[183]: era ormai molto vecchio, augure da
sessantadue anni[184], pontefice da tredici[185]. Scompare così una grande figura di leader politico e religioso: Livio,
nell'informarci della sua morte, rammenta le sue grandi doti militari, alle
quali la repubblica dovette forse la sua stessa salvezza e che lo resero degno
dei suoi grandi antenati. Gli succedette, all’interno del collegio, Ser.
Sulpicio Galba.
Patrizio, pontefice fino al 199, Servio
Sulpicio Galba fu anche edile curule nel 209[186];
fece parte della legazione inviata a raccogliere
Alla morte del pontefice T. Manlio Torquato,
nel 202, il collegio coopta in sua sostituzione C. Sulpicio Galba[191], patrizio, morto appena tre anni dopo. Si
tratta di un personaggio non facile da identificare: forse pretore nel 211[192], certamente parente di quel Ser. Sulpicio
Galba divenuto pontefice l'anno prima e del Publio console nel 200[193]. Anche nella cooptazione di Caio
giocò forse un ruolo determinante l'appoggio degli alleati Servilii[194], ormai tanto forti da imporre nel collegio
la compresenza di due membri di una stessa famiglia amica.
Ma nel
M. Emilio Lepido, che sostituisce Servio[197], è una delle più grandi
personalità del II secolo: patrizio, pontefice fino al 152, pontefice
massimo dal 180[198], fu anche pretore nel 191, console nel 187 e
175, censore nel 179[199], princeps
senatus nel 179, 174, 169, 164, 159 e 154[200].
Molto longevo, era nato intorno al 230[201]:
suo nonno era certamente il console del 232[202],
mentre è incerto chi fosse il padre, che alcuni identificano, comunque,
con il pretore del 218[203]. Già piuttosto giovane, nel 201,
aveva fatto parte della legazione inviata in Egitto, alla corte di Tolomeo V
Epifane[204]; l'anno dopo si era distinto per coraggio ed
abilità diplomatica, affrontando, unico ambasciatore, Filippo V di
Macedonia[205]. La gens
cui apparteneva era tradizionalmente vicina alle posizioni politiche dei
Cornelii[206]: egli fu sempre ostile al conservatorismo
catoniano[207], oltre che avversario personale di M. Fulvio
Nobiliore, l'eroe di Ambracia, che gli impedì l'elezione a console nel
190 e nel 189[208]. Nel 187, quando finalmente ottenne la
carica, M. Emilio fece di tutto per ostacolarlo; durante il suo consolato si
distinse anche per le vittorie riportate contro i Liguri e per la costruzione,
da Piacenza a Rimini, della strada che portò il suo nome (via Emilia)[209]. Nel 180 dovette scendere a patti con i
Fulvii e con lo stesso Nobiliore per conseguire i suoi obiettivi politici[210], tra i quali il pontificato massimo: egli
divenne capo del collegio in luogo del defunto C. Servilio Gemino[211]. Negli ultimi decenni di vita, che furono i
più luminosi della sua carriera, esercitò ininterrottamente la
carica di princeps senatus. Quando
morì, probabilmente verso il 152[212],
dispose che i figli gli celebrassero un funerale il più semplice
possibile, perché - diceva - i grandi uomini si riconoscono dalla fama
dei loro antenati e non dallo sfarzo[213].
Gli succedette, come capo del collegio, P. Cornelio Scipione Nasica Corculum[214].
L'altro pontefice cooptato nel 199, al posto
di C. Sulpicio Galba[215], è Cn. Cornelio Scipione Ispallo[216]: patrizio, fece parte del collegio fino al
176; fu anche pretore nel 179 e console nel 176[217],
lo stesso anno della sua morte, preceduta da cattivi presagi ed avvenuta per
una sorta di paralisi[218]. Fratello maggiore di quel Nasica che, vir optimus, fu scelto per accogliere la
Magna Mater[219], cugino dell'Africano[220], il suo ingresso nel collegio segna, come
dicevamo sopra, un'importante vittoria del partito scipioniano.
Al 196 risale la morte di due membri del
collegio pontificale: C. Sempronio Tuditano e M. Cornelio Cetego,
rispettivamente sostituiti con M. Claudio Marcello e L. Valerio Flacco[221].
Del pontefice C. Sempronio Tuditano non si
conosce la data di cooptazione all'interno del collegio, giacché Livio
non ne parla. Quasi certamente, comunque, aveva sostituito Q. Fulvio Flacco,
l’unico pontefice della cui morte le fonti non fanno
corrispondentemente menzione;
quantunque essa, come dicevamo in precedenza[222],
sia senz’altro da collocarsi in un’epoca successiva al 205. Plebeo
come Flacco, Sempronio Tuditano era forse fratello del Publio console nel 204 o
del Marco console nel 185[223].
Nel 197 fu eletto pretore e venne inviato in Spagna[224];
l'anno successivo gli fu prorogato il comando, ma per l'appunto morì[225]. La sua famiglia era politicamente legata,
con tutta probabilità, ai Fabii (o ai Claudii), piuttosto che agli
Scipioni[226].
Al suo posto viene cooptato come pontefice M.
Claudio Marcello: plebeo, figlio del grande Marcello[227],
“spada di Roma” durante la seconda guerra punica, fece parte del
collegio fino al 177, quando, alla sua morte, sarà sostituito
dall’omonimo figlio[228].
Marcello fu anche pretore nel 198, console nel 196 e censore nel 189[229]. Dal punto di vista politico, egli appare come una figura indipendente, non
facile da inquadrare: la sua famiglia era di estrazione conservatrice - il
padre era alleato di Q. Fabio Massimo[230]
-, ma egli, pur essendo amico di Catone e dei Valerii Flacci, sposò
forse un indirizzo meno intransigente, avvicinandosi ai Claudii patrizi e ai
Fulvii[231], che allora costituivano una sorta di
fazione intermedia fra i catoniani e gli scipioniani (più ostili,
comunque, per il momento, a questi che a quelli[232]).
L'altro pontefice defunto nel 196 è M.
Cornelio Cetego, per il quale si veda quanto già detto in precedenza; al
suo posto subentra nel collegio un personaggio importante, L. Valerio Flacco,
patrizio, grande protettore di Catone, da lui lanciato nella vita politica
quand’era ancora giovane[233].
Fu uno dei principali artefici
della ricostruzione del vecchio partito fabiano[234],
cui i Flacci, contrariamente ad altri Valerii, avevano aderito[235]. Fautore di una politica ultraconservatrice
ed antiellenica, fu pretore nel 199 e console nel 195, proprio con Catone[236]; fallì la censura del 189[237], ma non quella del 184, che condivise ancora
con Catone e che fu terribilmente severa[238];
lo stesso anno venne anche nominato princeps
senatus[239]. Morì di peste nel 180[240]. La sua cooptazione all'interno del collegio
segnò indubbiamente una grave sconfitta del gruppo degli Scipioni[241], tanto più che da lui fu rimpiazzato
un loro seguace come Cornelio Cetego.
Fino al
E' a questo punto possibile cercare di
ricostruire, sulla base dei dati sopra raccolti, la composizione del collegio
pontificale con riferimento a ciascuno degli anni compresi nella fase storica
in cui si colloca il pontificato massimo di P. Licinio Crasso (212-183)[245]. Nello stilare il prospetto sotto riportato
abbiamo seguito un duplice criterio: i pontefici sono elencati, ove possibile,
in ordine di anzianità di carica (l’eventuale uso della
congiunzione "e" indica invece la contemporaneità[246] di cooptazione; l'uso della "o"
una impossibilità, da parte nostra, di determinare quale dei due
sacerdoti in questione sia entrato per primo a far parte del collegio[247]; l’uso infine del segno "/"
indica la cooptazione, in quell’anno, di un nuovo pontefice al posto di
quello segnalato prima, per il quale soltanto vale, ovviamente, l'ordine di
anzianità); sono elencati prima i membri patrizi del collegio, poi i
plebei. Non si fa mai menzione del pontefice massimo, dato che si tratta
sempre, naturalmente, di P. Licinio Crasso.
Patrizi: T. Manlio
Torquato; Q. Fabio Massimo; M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione.
Plebei:
T. Otacilio Crasso o M'. Pomponio Matone[249];
Q. Fulvio Flacco (console) e Q. Cecilio Metello.
Patrizi: T. Manlio Torquato; Q. Fabio
Massimo; M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione.
Plebei: T. Otacilio Crasso[250] o M'. Pomponio Matone/C. Livio Salinatore ;
Q. Fulvio Flacco e Q. Cecilio
Metello.
Patrizi: T. Manlio Torquato; Q. Fabio
Massimo; M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione.
Plebei:
Q. Fulvio Flacco e Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio
Gemino[252].
Patrizi: T. Manlio Torquato; Q. Fabio Massimo
(console); M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione.
Plebei:
Q. Fulvio Flacco (console) e Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C.
Servilio Gemino.
Patrizi: T. Manlio Torquato; Q. Fabio
Massimo; M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione.
Plebei:
Q. Fulvio Flacco e Q. Cecilio Metello (console); C. Livio Salinatore; C.
Servilio Gemino.
Patrizi: T. Manlio Torquato; Q. Fabio
Massimo; M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione.
Plebei:
Q. Fulvio Flacco e Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio
Gemino.
Patrizi: T. Manlio Torquato; Q. Fabio
Massimo; M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione.
Plebei:
Q. Fulvio Flacco e Q. Cecilio Metello (console); C. Livio Salinatore; C.
Servilio Gemino.
Patrizi: T. Manlio Torquato; Q. Fabio
Massimo; M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione.
Plebei:
Q. Fulvio Flacco(/ C. Sempronio Tuditano?)[253]
e Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino.
Patrizi: T. Manlio Torquato; Q. Fabio
Massimo; M. Cornelio Cetego (console)
e Cn. Servilio Cepione.
Plebei:
Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; C.
Sempronio Tuditano (ancora Q. Fulvio Flacco ?)[254].
Patrizi: T. Manlio Torquato; Q. Fabio
Massimo/Ser. Sulpicio Galba; M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio Cepione
(console).
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio
Salinatore; C. Servilio Gemino (console) ; C. Sempronio Tuditano (ancora Q.
Fulvio Flacco?).
Patrizi: T. Manlio Torquato/C. Sulpicio
Galba; M. Cornelio Cetego e Cn.
Servilio Cepione; Ser. Sulpicio Galba.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; C. Sempronio
Tuditano (ancora Q. Fulvio Flacco?).
Patrizi: M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio
Cepione; Ser. Sulpicio Galba; C.
Sulpicio Galba.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; C. Sempronio
Tuditano (ancora Q. Fulvio Flacco ?).
Patrizi: M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio
Cepione; Ser. Sulpicio Galba; C.
Sulpicio Galba.
Plebei: Q. Cecilio
Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; C. Sempronio
Tuditano (ancora Q. Fulvio Flacco?).
Patrizi: M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio
Cepione; Ser. Sulpicio Galba/M. Emilio Lepido; C. Sulpicio Galba/Cn. Cornelio
Scipione Ispallo.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; C. Sempronio Tuditano
(ancora Q. Fulvio Flacco?).
Patrizi: M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio
Cepione; M. Emilio Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; C. Sempronio
Tuditano (ancora Q. Fulvio Flacco?).
Patrizi: M. Cornelio Cetego e Cn. Servilio
Cepione; M. Emilio Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; C. Sempronio
Tuditano (ancora Q. Fulvio Flacco?) [257].
Patrizi: M. Cornelio Cetego/L. Valerio
Flacco, e Cn. Servilio Cepione; M. Emilio Lepido e Cn. Cornelio Scipione
Ispallo.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; C. Sempronio
Tuditano/ M. Claudio Marcello (console)[258].
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco (console).
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore (console); C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido (console) e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio
Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Patrizi: Cn. Servilio Cepione; M. Emilio
Lepido e Cn. Cornelio Scipione Ispallo; L. Valerio Flacco.
Plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; M. Claudio Marcello.
Dall’esame del prospetto sopra
riportato risulta con chiarezza che i membri del collegio pontificale erano
nove, se a quelli elencati anno per anno si aggiunge il pontefice massimo. E
poiché questi era plebeo (sostituito innanzi tutto da un plebeo, nella
sua qualità di semplice membro del collegio), su un totale di nove
pontefici, quattro risultano essere sempre patrizi, cinque plebei. Se
esaminassimo la composizione del collegio con riferimento ai pontificati
massimi per cui le fonti ce lo consentono[261],
ossia quello immediatamente precedente del patrizio L. Cornelio Lentulo Caudino[262] e quelli immediatamente successivi del
plebeo C. Servilio Gemino[263]
e del patrizio M. Emilio Lepido[264],
potremmo agevolmente giungere alla medesima conclusione. Pertanto il nostro
studio - le cui finalità pur rimangono di tipo eminentemente
prosopografico - può rappresentare un modesto nonché indiretto[265] contributo alla soluzione di un problema,
quello concernente il contenuto della lex
Ogulnia del 300, del quale, nell’economia di questo studio, ci
basti aver semplicemente fatto
cenno[266].
Resta un altro problema da chiarire: se i
posti non riservati ai plebei fossero necessariamente patrizi, o d'altra parte
fossero posti liberi, come è stato autorevolmente sostenuto[267]. Ora, dalle fonti a nostra disposizione[268] non è ricavabile alcuna chiara
indicazione in proposito, limitandosi Livio, come già osservato in
precedenza, ad una indagine attenta più al dato meramente descrittivo, che
non anche a quello prescrittivo. Ma data l’insistenza, riscontrabile in
tutta la narrazione, sull’analogia esistente fra la vicenda in questione
e quelle precedenti, relative all’accesso dei plebei alle più
importanti magistrature, ed in particolare al consolato[269], potremmo effettivamente ritenere che, in
linea di principio, si trattasse di posti liberi[270];
quantunque si debba rilevare, anche sulla base del prospetto sopra riportato,
che la prassi dell’avvicendamento nell'ambito della stessa classe sociale
di appartenenza, in occasione di ciascuna cooptazione, veniva, di fatto,
osservata con assoluto rigore, talché qualunque episodio di surrogazione
di un pontefice patrizio con un plebeo ci apparirebbe, almeno in
quest’epoca[271], come gravemente stridente con una
tradizione consolidata.
[1] V. in particolare La
desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano, 2005; Voti
di guerra e regime pontificale della condizione, Milano, 2006.
[2] Con le sole significative
eccezioni di Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae,
1896, 12, il quale pur dice dei
responsa di Crasso che nulla exstant; Bauman, Lawyers in Roman Republican
Politics, München, 1983,
92-110; Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui
giuristi del III secolo a. C., Torino, 1995, 113-129 (al quale anche rinviamo ( 115)
per una sommaria rassegna dei pochi riferimenti rinvenibili negli scarni
elenchi di giuristi tracciati da studiosi precedenti). Tali autori comunque si
limitano a dedicare al nostro pontefice sezioni piuttosto brevi delle loro
opere, che di per sé hanno una più ampia e generica prospettiva.
[3] Liv. 25,5,2-4: Comitia
inde pontifici maximo creando sunt habita; ea comitia novus pontifex M.
Cornelius Cethegus habuit. Tres ingenti certamine petierunt, Q. Fulvius Flaccus
consul, qui et ante bis consul et censor fuerat, et T. Manlius Torquatus, et
ipse duobus consulatibus et censura insignis, et P. Licinius Crassus, qui
aedilitatem curulem petiturus erat. Hic senes honoratosque iuvenis in eo
certamine vicit. Ante hunc intra centum annos et viginti nemo praeter P.
Cornelium Calussam pontifex maximus creatus fuerat qui sella curuli non
sedisset.
[4] Di essi parleremo
più diffusamente in seguito, anche in ordine ai probabili motivi della
loro sconfitta.
[5] La dottrina è pressoché unanime nel
riconoscere in quella sopra esposta, nel testo, la successione dei pontificati
massimi plebei del III secolo: per tutti v. ad es. Münzer, Römische
Adelsparteien und Adelsfamilien, Stuttgart, 1920, 414; Richard, Sur quelques grands
pontifes plébeiens, in Latomus 27 (1968), 791 (scritto manifestamente dedicato
all’argomento); Szemler, s.v. Pontifex, in RE Suppl. 15 (1978), col. 345;
Nicolet-Croizat, in Tite-Live, Histoire romaine, XV, ed. Les Belles-Lettres,
Paris, 1992, 98; Sini, Sua cuique
civitati religio, Torino, 2001, 209
nt. 107. Sebbene infatti per il
[8] Cfr. Münzer,
RAAF, 183-184; Scullard, Roman
Politics 220-150 B.C., Oxford, 1951,
276; Szemler, in RE cit., col. 378. Per un quadro generale, relativo
alle parentele del pontefice massimo, v. soprattutto gli alberi genealogici
tracciati da Münzer, Stammtafel der Licinii Crassi, in RE 13,1 (1926),
col. 247-248, e RAAF, 184, e da
Scullard, op. cit., 311 (cfr.
ancora Münzer, RAAF, 220, e
Scullard, op. cit., 197): se ne
può ricavare che il nostro Publio Licinio Crasso, fratello di Marco e di
Caio, ebbe un padre omonimo ed uno zio, Caio Licinio Varo, console nel 236
(cfr. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York, 1951, 222), padre di quel Publio Varo che fu
pretore collega di Crasso nel 208. Questi, più dei Crassi, loro parenti
in linea collaterale, ebbero forse da principio l’aiuto dei Cornelii,
specie dei Lentuli, di cui uno, il pontefice massimo Lucio, fu console collega
di Caio Varo nel 236: v. ancora, in particolare, Scullard, op. cit., 276.
[9] Cfr. Dio. frg. 57,52:“Oti Lik…nnioj
Kr£ssoj ØpÒ te ™pieike…aj kaˆ
k£llouj ploÚtou te, ¢f'oáper kaˆ ploÚsioj
™pwnom£sqh, Óti te ¢rciereÝj Ãn,
œmellen ™n tÍ'Ital…v ¢kl»rwtoj mšnein. Cfr. per es. Münzer, RAAF, 183-184; Müller Seidel, Fabius
Maximus und die Konsulwahlen der Jahre 215 und 214 v. Chr., in Rheinisches
Museum 96 (1953), 259; Cassola, I
gruppi politici romani nel III secolo a. C., Trieste, 1962, 410; Bauman, op. cit., 94 nt. 13; Nicolet-Croizat, op.
cit., 98.
[10] Secondo quanto attesta
Cic. Brut. 19,77 (Cum hoc Catone grandiores natu fuerunt C. Flaminius C. Varro
Q. Maximus Q. Metellus P. Lentulus P. Crassus, qui cum superiore Africano
consul fuit), P. Licinio Crasso era certo più anziano di Catone, mentre
Plut. Cic. 25,3 fa dichiarare dal famoso triumviro M. Licinio che nessun Crasso
prima di lui aveva mai raggiunto la sessantina; si tenga conto del fatto che il
nostro pontefice massimo morirà nel 183.
[11] Il fatto che Livio,
all’inizio della sua terza decade, non ne dia in alcun modo notizia,
esclude, come per tutti gli altri pontefici, che la cooptazione sia avvenuta
successivamente. E’ anzi ipotizzabile che essa sia avvenuta diversi anni
addietro, come ad es. sostiene Bardt, o cit., p. 12 nr. 47, considerata la fama
di giurista già esperto che certo accompagnava Licinio Crasso al momento
della sua elezione a pontefice massimo; senza con questo voler riprendere la
tesi ormai superata, secondo la quale, in conformità ad una tradizione
antichissima, requisito indispensabile per la nomina, ed ora magari per la
candidatura, a pontefice massimo, sarebbe stata la maggior anzianità di
carica, tanto più che in tal caso nulla ci autorizza a ritenere che la
cooptazione di Licinio Crasso fosse precedente a quella di Pomponio Matone od
Otacilio Crasso, gli altri pontefici plebei già membri del collegio
prima del 218: così condivisibilmente Szemler, in RE cit., col. 379.
[12] V. per es. Broughton, op.
cit., 268 e 271 nt. 3, il quale
sembra preferire quest’ipotesi a quella di un errore di Livio o della sua
fonte, pur con la precisazione che Crasso, una volta investito del pontificato
massimo, in base al principio allora rispettato dell’alternanza annuale
regolare fra patrizi e plebei all’edilità curule (v. Liv. 7,1,6;
Pol. 10,4,2; cfr. per es. Mommsen, Römisches Staatsrecht³, II,
Leipzig, 1887, 482; De Ruggiero,
s.v. Aedilitas, in Enciclopedia Giuridica Italiana, 1,2, Milano, 1892, 372; Seidel, Fasti aedilicii von der
Einrichtung der plebejischen Ädilität bis zum Tode Caesars, Breslau,
1908, 23-24; Astin, The lex annalis
before Sulla, in Latomus 16 (1957),
596; Weissenborn, Müller, Titi Livi ab urbe condita libri, V
(7ª ediz.), Berlin, 1963, 125
nt. 3, e VI (6ª ediz.), Zürich-Berlin, 1965, 20 nt. 17; De Martino, Storia della
costituzione romana², II, Napoli, 1973, 236 e nt. 60; Coli, s.v. Aediles, in
NNDD 1,1 (1974), 338; Develin, The
Practice of Politics at Rome 366-167 B.C., Bruxelles, 1985, 121 nt. 101; Garofalo, Il processo
edilizio.Contributo allo studio dei iudicia populi, Padova, 1989, 136 e nt. 187; v. anche Broughton, op.
cit., 166; Richard, op. cit., 787 nt. 2), dovette essere poi eletto
edile nel corso di quello stesso anno 212, sebbene in ritardo rispetto ai tempi
normalmente rispettati, ossia dopo che i consoli erano già entrati in
carica (cfr. Liv. 25,3,8-5,1); Szemler, in RE cit., col. 379, secondo cui il
racconto di Livio è attendibile; Bauman, op. cit., 94, che sostanzialmente condivide
l’impostazione di Broughton; Ramondetti, in Storie di Tito Livio (libri
XXI-XXV), ed. Utet, Torino, 1989,
710 nt. 4 . V. anche Richard, op. cit., 787 nt. 2, il quale - pur rilevando che
in base al principio dell’alternanza annuale fra patrizi e plebei,
rigorosamente osservato fra il 216 e il 187, Crasso non sarebbe potuto divenire
edile l’anno successivo, e pur riprendendo quindi la tesi di Broughton,
da lui espressamente ricordata - tuttavia non scioglie alla fine l’alternativa,
se si trattasse di ritardo nell’elezione degli edili oppure di errore di Livio.
[13] Cfr. Bardt, op. cit., 3; Weissenborn, Müller, op. cit.,
V, 125 nt. 3; Szemler, in RE cit.,
col. 373; Nicolet-Croizat, op. cit.,
99.
[14] Si tratta degli autori
che ipotizzano l’esistenza di un errore in Livio o nella sua fonte, anche
in considerazione del fatto che un’edilità da collocarsi, invece,
nel 211 risulterebbe troppo ravvicinata rispetto alla successiva censura del
210: per es., v. Mommsen, Römische Forschungen², I, Berlin,
1864, 101; Münzer, RAAF, 187, che pur conclude nel segno
dell’incertezza; Seidel, op. cit.,
23-24; Scullard, op. cit.,
67; Müller Seidel, op. cit.,
259; Suohlati, The Roman Censors, Helsinki, 1963, 318.
[15] V. in proposito Plin.
nat. 21,4,6: Crassus Dives primus argento auroque folia imitatus ludis suis
coronas dedit accesseruntque et lemnisci, quos adici ipsarum coronarum honor
erat propter Etruscas, quibus iungi nisi aurei non debebant. Puri diu fuere hi;
caelare eos primus instituit P. Claudius Pulcher bratteasque etiam philyrae
dedit. Cfr. Münzer, RAAF, 187;
Weissenborn, Müller, op. cit., VI (6ª ediz.), Zürich-Berlin,
1965, 20 nt. 17; André, in
Pline l’Ancien, Histoire naturelle, livre XXI, ed. Les Belles-Lettres,
Paris, 1969, 96; Bauman, op.
cit., 94 nt. 13. Non
particolarmente convincente ci pare la tesi di Broughton, op. cit., 271 nt. 4, secondo il quale il fasto con
cui si svolsero i giochi sopra descritti mal si adatterebbe ad un’epoca
austera, quale sarebbe quella che stiamo qui esaminando, alla quale oltretutto
risale una legislazione restrittiva del lusso (si pensi alla lex Oppia del
215), bensì ad un’epoca di molto posteriore, talché il
Crasso di cui alla fonte pliniana andrebbe identificato col Publio Muciano console
nel 131 o col Publio console nel 97. Ma a parte il fatto che la stessa legge
Oppia dettava disposizioni su una materia in verità diversa, ossia il
lusso delle donne (cfr. Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano, 1912, 254), occorre innanzi tutto rilevare
come, sulla base di un’attenta lettura del passo in esame considerato nel
contesto in cui si colloca, Plinio riveli l’inclinazione ad estendere
l’analisi ad epoche semmai più risalenti della nostra, e non
più recenti (a testimonianza del carattere senz’altro arcaizzante
dell’approccio pliniano si considerino per es. l’espressione primus
o il riferimento alle Etruscae coronae, o ancora l’indagine del mos
originario in 21,3,4, o la citazione della norma decemvirale in 21,5,7); e che
non vi sarebbe eventualmente nulla di strano nel carattere sfarzoso dei ludi
allestiti dal nostro pontefice nel
212, dal momento che un certo lusso aveva già caratterizzato i giochi
edili dei due anni precedenti. Tale osservazione, cha a noi pare assai
ragionevole, è formulata da Bauman, op. cit., 94 nt. 13, che cita a sostegno Liv.
24,43,7 e 25,2,8, e che poi però esprime qualche dubbio circa la piena
identificabilità del Crasso della fonte, dato che un’altra - Cic.
off. 2,16,57: Quamquam intellego in nostra civitate inveterasse iam bonis
temporibus, ut splendor aedilitatum ab optimis viris postuletur. Itaque et P.
Crassus cum cognomine dives tum copiis functus est aedilicio maximo munere, et
paulo post L. Crassus cum omnium hominum moderatissimo Q. Mucio magnificentissima
aedilitate functus est (…) - fa riferimento ad un personaggio in cui
è probabilmente identificabile, invece, il console del 97, edile curule
nel 106 (cfr. Broughton, op. cit., II, 1952, 6), padre del futuro triumviro. Ora,
questa pare effettivamente anche a noi l’interpretazione più
plausibile (v. ancora per la
dottrina Testard, in Cicéron, Les devoirs, I, ed. Les
Belles-Lettres, Paris, 1965, 159
nt. 1, e II, 1970, 45 nt. 3 e 46
nt. 1), specie in considerazione dell’uso che Cicerone fa
dell’espressione paulo post, la quale probabilmente allude al Lucio
Crasso console nel 95 ed edile nel 103, ad appena tre anni di distanza (cfr.
Broughton, op. cit., II, 11). Ma se
anche così fosse - cosa da non darsi tuttavia, a nostro avviso,
completamente per scontata, visto che appena sopra il riferimento ai bona
tempora e la particolare insistenza sull’epiteto dives farebbero
preferibilmente pensare al nostro pontefice massimo, potendosi così
ipoteticamente interpretare il paulo post come un’espressione approssimativa adottata
nell’ambito di un’opera, priva di intenti di ricostruzione storica
precisa, finalizzata ad indicare comunque una posteriorità di carattere
cronologico -, non potremmo da ciò far automaticamente discendere la
conseguenza che il Crasso cui si riferisce Plinio non è affatto
identificabile con il nostro pontefice.
[16] Ciò dilazionerebbe
di molto, pertanto, nel corso di quello stesso anno, il periodo in cui
esattamente si sarebbe proceduto alla elezione del pontefice massimo:
probabilmente ad un’epoca successiva al mese di settembre, quando si
svolgevano i ludi edili (circa quelli, molto fastosi, allestiti l’anno
precedente, v. Liv. 25,2,6-10); per la diversa ricostruzione di Broughton v.
quanto già detto supra.
[17] L’ipotesi che, a
nostro avviso, pare più opportuno accogliere è forse quella
formulata da Broughton, giacché permette di salvaguardare il dato
testuale, rappresentato dalla pur sempre difficilmente eludibile testimonianza
liviana relativa alla mera candidatura al tempo dell’elezione - per la
quale oltretutto Livio attinse a fonti annalistiche, da considerarsi affidabili
per questo genere di notizie (sul punto si rinvia in generale all’ampia
nota contenuta nel nostro scritto Voti cit., 28, ed in particolare alla
bibliografia relativa alle fonti utilizzate da Livio per la stesura della III
decade della sua opera o di singoli passaggi di essa: v. per es. Hesselbarth,
Historisch-kritische Untersuchungen zur dritten Dekade des Livius, Halle,
1889, 488, il quale ipotizza che
nel libro 25, per vicende analoghe a questa, Livio attinga all’annalista
Valerio Anziate; Soltau, Livius’Geschichtswerk. Seine Komposition und
seine Quellen, Leipzig, 1897, 31,
secondo cui per il nostro passo
Livio avrebbe seguito Calpurnio Pisone; Bornecque, Tite-Live, Paris,
1933, 83; Zimmerer, The Annalist
Qu. Claudius Quadrigarius, München, 1937, 69, 128 ss.; Klotz, Livius und seine
Vorgänger, Leipzig, 1940, 165,
che richiama il parere di Hesselbarth; Bayet, in Tite-Live, Histoire romaine,
I, ed. Les Belles-Lettres, Paris, 1944,
XXVIII-XXXI; Volkmann, s.v. Valerius (Antias), n°
Ora, se è vero che Livio non fa
espressa menzione di alcun ritardo, è tuttavia difficile negare che ben
di rado - come esplicitamente rammenta lo stesso Broughton, loc. cit. - egli
cita gli stessi comizi per l’elezione degli edili, che comunque in quella
situazione avrebbero potuto essere ancora convocati, dato che i consoli e i
pretori si trattennero a Roma per qualche tempo (v. in proposito Liv. 25,12,1;
cfr. 25,5,5 ss). D’altra parte l’urgenza di procedere subito alla
elezione del nuovo pontefice massimo sarebbe stata perfettamente giustificata
in quel periodo di emergenza religiosa, rinviando di poco operazioni dirette
alla elezione di magistrati come gli edili, alle quali poi sarebbero state pur
sempre chiamate le tribù.
[19] Le fonti in verità
fanno riferimento alla preparazione giuridica di Crasso, destinata a
conservarsi nella memoria dei posteri, in termini affatto generici; tuttavia,
essendo egli diventato addirittura
pontefice massimo, è difficile pensare che essa non abbia influito sulla
circostanza dell’elezione. V.
Cic. de or. 3,33,133: (…) Meminerant illi Sex. Aelium; M’. vero
Manilium nos etiam vidimus transverso ambulantem foro; quod erat insigne eum,
qui id faceret, facere civibus suis omnibus consili sui copiam; ad quos olim et
ita ambulantis et in solio sedentis domi sic adibatur, non solum ut de iure
civili ad eos, verum etiam de filia conlocanda, de fundo emendo, de agro
colendo, de omni denique aut officio aut negotio referretur. 134. Haec fuit P.
Crassi illius veteris, haec Ti. Coruncani, haec proavi generi mei Scipionis
prudentissimi hominis sapientia, qui omnes pontifices maximi fuerunt, ut ad eos
de omnibus divinis atque humanis rebus referretur; eidemque et in senatu et
apud populum et in causis amicorum et domi et militiae consilium suum fidemque
praestabant; Cato 14,50: Quid de P. Licinii Crassi et pontificii et civilis
iuris studio loquar, aut de huius P. Scipionis, qui his paucis diebus pontifex
maxumus factus est? Atque eos omnis quos commemoravi his studiis flagrantis senes vidimus; Liv.
30,1,3-6. L’opinione espressa nel testo è sostenuta, in dottrina,
da Müller Seidel, op. cit.,
259; Bauman, op. cit., 95;
Draper, The Role of the Pontifex Maximus and its Influence in Roman Religion
and Politics, Diss. Brigham Young
University Provo, Utah, 1988,
225-226; cfr. Scullard, op. cit.,
67.
[20] Come si sarà
già in parte desunto dalle citazioni fatte nelle note precedenti, si
tratta soprattutto di Münzer, Römische Adelsparteien und
Adelsfamilien, Stuttgart, 1920; Scullard, Roman Politics 220-150 B.C., Oxford,
1951; Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a. C., Trieste, 1962.
[21] Opinione unanimemente
sostenuta in dottrina. V. per es. Scullard, op. cit., 33, 36, 76, 77, 82, 97, 197, 276;
Cassola, op. cit., 408; v. anche
Hahm, Roman Nobility and three Major Priesthoods 218-167 B.C., in TAPhA 94
(1963), 81; D’Ippolito, I
giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della
repubblica, Napoli, 1978, 40;
Bauman, op. cit., 93 ss.; Sini, A
quibus cit., 113 ss. In più
occasioni, nel corso del nostro studio, avremo modo di concretamente verificare
quanto stretti fossero i rapporti di collaborazione fra Crasso e Scipione.
[28] Tra gli autori che hanno
redatto scritti sull’argomento, con riferimento ad epoche che comprendano
anche quella da noi esaminata, quello che attribuisce più importanza ai
legami gentilizi e familiari di ciascun uomo pubblico romano - dai quali
sarebbe disceso anche l’effetto quasi automatico dell’appartenenza
a determinati partiti politici - è senz’altro Scullard, op. cit.,
che coerentemente applica la medesima metodologia d’indagine ai membri
dei collegi sacerdotali. E’ opportuno anticipare fin d’ora che,
anche dal nostro punto di vista, questo è forse l’approccio
destinato a rivelarsi più fruttuoso ai fini di un’interpretazione
avveduta degli orientamenti assunti dal collegio pontificale nel periodo in cui
P. Licinio Crasso ne fu a capo; approccio per il quale il lavoro di Münzer,
RAAF (di cui si vedano qui, in particolare, le osservazioni formulate nell’introduzione, a p.
2-3, specificamente inerenti ai riflessi prodotti, anche in ambito sacerdotale,
dall’andamento prevalentemente oligarchico della vita politica romana),
già ripreso da Schur, Scipio Africanus und die Begründung der
römischen Welthershaft, Leipzig, 1927, spec.te 105 ss., rappresentava indubbiamente il
referente più significativo, che Scullard d’altronde amplia,
volendo illustrare la dialettica anche, propriamente, partitica esistente fra i
vari gruppi gentilizi e familari. Nel corso della nostra indagine terremo
inoltre presenti sia gli esiti del lavoro di Cassola, op. cit., che pur
avvalendosi di un metodo non dissimile argomenta in modo talora assai
differente riguardo al merito delle questioni, sia i rilievi di autori che,
come per es. Hampl, Rec. di Scullard, op. cit., in AAHG 6 (1953), 90 ss., e Schlag, Regnum in senatu,
Kiel, 1965, 15-16, richiamano
all’importanza del ruolo autonomamente svolto dalle singole grandi
personalità nella vita politica del tempo, o di autori che, come per es.
Gelzer, Rec. di Scullard, op. cit., in Historia 1 (1950), 635, e in Kleine Schriften, I,
Wiesbaden, 1962, 202, precisano non
doversi intendere per partito o fazione in età romana ciò che
noi, in maniera particolarmente divaricante e netta, oggi solitamente
intendiamo per ragioni di ordine elettorale. Per un commento di sintesi sulla
letteratura da utilizzare in argomento, v. infine Szemler, The Priests of the
Roman Republic, Bruxelles, 1972,
81-83, il quale pare effettivamente ribadire il valore da attribuirsi
alla lezione di Scullard e degli altri studiosi sopra ricordati, pur con le
osservazioni ed i temperamenti di cui si è detto; Linke, Stemmler,
Institutionalität und Geschichtlichkeit in der römischen Republik:
Einleitende Bemerkungen zu den Forschungsperspektiven, in Mos maiorum. Untersuchungen zu den
Formen der Identitätsstiftung und Stabilisierung in der römischen
Republik, Stuttgart, 2000, 1 ss.,
la cui prospettiva d’indagine è tuttavia più ampia.
In conclusione, non possiamo esimerci
dall’esaminare una fonte che, per il riferimento in essa contenuto a
relazioni di amicitia fra sacerdoti, sembra poter seriamente rilevare riguardo
agli equilibri politici esistenti all’interno dei collegi. Si tratta di
Cic. fam. 3,10,9: Atque haec domestica; quid illa tandem popularia, reditus
inlustris in gratiam, in quo ne per imprudentiam quidem errari potest sine
suspicione perfidiae, amplissimi sacerdotii collegium, in quo non modo
amicitiam violari apud maiores nostros fas non erat, sed ne cooptari quidem
sacerdotem licebat, qui cuiquam esset inimicus? A parte la precisazione che
questo genere di alleanze e solidarietà afferiva alla sfera pubblica
(popularia), e non privata, dei rapporti (corrispondendo ciò, del resto,
ad una distinzione formulata dalla dottrina in materia di amicitia: per tutti,
v. ad es. Albanese, La struttura della manumissio inter amicos. Contributo alla
storia dell’amicitia romana, in AUPA 29 (1962), 5 ss., spec.te 55 ss.; più in generale
sull’argomento v. per es., fra i più recenti, Epstein, Personal
Enmity in Roman Politics, 218-43 B.C., London-NewYork-Sidney, 1987,
spec.te 12 ss., 58 ss., 73, ove
compaiono riferimenti ad un interessante caso di inimicitia, quello tra Fulvio
Nobiliore ed Emilio Lepido, pontefice massimo, sul quale avremo modo di
ritornare; Spielvogel, Amicitia und res publica, Stuttgart, 1993, 1-19; Levi, Da clientela ad amicitia, in
Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità
romane, III, Bari, 1994, 375 ss.;
Falcone, Iurgium, lis, vicinitas: un’interpretatio ciceroniana tra
politica e diritto (Cic. rep. IV,8), in AUPA 43 (1995), 475 ss., spec.te 505 nt. 94, con la bibliografia ivi
riportata), occorre soffermare la nostra attenzione sull’ambito entro il
quale i sacerdoti avrebbero dovuto attenersi al rispetto di tali
solidarietà, ché anzi la violazione di esse sarebbe stata
tecnicamente nefas. Ora, due sono le possibili soluzioni. O si tratta
dell’attività istituzionalmente riferibile al collegio
sacerdotale, inteso come tale (alla quale sembra del resto fare riferimento
Cicerone nell’esempio che immediatamente segue, concernente la delibera
relativa alla cooptazione di nuovi membri: cfr. ad es. Jocelyn, The Roman
Nobility and the Religion of the Republican State, in JRH 4 (1966), 94): ed allora occorre precisare che
tale dovere di amicitia reciproca non impediva affatto la normale dialettica
esistente fra le parti, che spesso sfociava anche in accesi contrasti e sempre
comunque si concretizzava nel libero esercizio del diritto di voto, alludendo
forse pertanto l’Arpinate a veri e propri casi limite, quale potrebbe per
es. essere la posizione assunta da un pontefice al solo scopo di nuocere
personalmente ad un collega, favorendo un suo inimicus (ciò che non
è evidentemente riscontrabile, invece, nemmeno nel caso più
clamoroso di cooptazione nel collegio di un avversario politico). Oppure si
tratta dell’attività politica che i sacerdoti svolgevano al di
fuori del collegio, nella loro qualità di senatori o magistrati, e
nell’ambito della quale, all’occorrenza, al di là delle
diverse appartenenze di clan familiare o partito, avrebbero dovuto quindi
riservare all’interlocutore, collega nel sacerdozio, un trattamento di
riguardo (così ad es. in dottrina Hahm, op. cit., 82 nt. 30, che fra gli altri
significativamente richiama il caso di P. Licinio Crasso, nominato magister
equitum nel 210 dal dittatore Q. Fulvio Flacco, oltre a quello di Q. Cecilio
Metello, nominato dittatore nel 205 dallo stesso Crasso console; cfr. Schur,
op. cit., 130, circa
l’episodio di C. Servilio Gemino, nominato magister equitum nel 208 dal
dittatore T. Manlio Torquato (v. Broughton, op. cit., 290): ed allora occorre chiedersi
perché mai, in un ambito non sacralmente rilevante, la violazione del
dovere di amicitia, il cui contenuto risulta qui oltretutto di difficile
determinazione, potesse essere addirittura nefas, dovendosi pertanto valutare,
forse, il discorso di Cicerone come privo di rigore, dal punto di vista
concettuale e terminologico, ed anche di consequenzialità logica, dato
che poi invece esemplifica citando l’attività diretta alla
cooptazione. Al di là dell’evidente preferenza da noi accordata
alla prima delle soluzioni sopra esposte, bisogna comunque rilevare come esse
non siano da considerarsi del tutto incompatibili l’una con
l’altra, sia per il carattere effettivamente atecnico della testimonianza
ciceroniana, sia per la frequenza tutt’altro che trascurabile dei casi di
designazione a cariche importanti di colleghi sacerdoti, che pur erano
avversari politici.
[29] Su di esse, e sul
dibattito da esse sollevato in dottrina nel corso degli ultimi vent’anni,
v. soprattutto Millar, The Political Character of the Classical Roman Republic,
200-151 B.C., in JRS 74 (1984), 1
ss., e Politics, Persuasion and the People before the Social War (150-90 B.C.),
in JRS 76 (1986), 1 ss.; Brunt,
Nobilitas and novitas, in JRS 76 (1986),
1 ss.
[30] D’altronde
l’intera esperienza cultuale romana si basava sul rispetto formale di riti
e regole, stabiliti dalla giurisprudenza pontificale, piuttosto che sul
sentimento religioso inteso come fatto mistico-spirituale. Su questi temi
torneremo assai spesso, nel corso del nostro studio.
[32] Liv. 27,5,19: Ita a M.
Claudio consule Q. Fulvius dictator dictus, et ex eodem plebiscito ab Q. Fulvio
dictatore P. Licinius Crassus pontifex maximus magister equitum dictus.
[33] Da Liv. 27,5,16-18
apprendiamo che fu il senato a stabilire che, nel creare il dittatore, il
console dovesse attenersi alla designazione fatta dal popolo, da lui convocato
o dal pretore, oppure in alternativa dalla plebe, come in effetti avvenne, data
la resistenza opposta dallo stesso console M. Valerio Levino. Alla nomina del
dittatore dovette poi addirittura procedere il collega Claudio, giacché
Valerio si era allontanato allo scopo di intralciare ulteriormente la
procedura; la dictio del magister equitum spettò formalmente, come di
consueto, al dittatore, ma col medesimo vincolo della preventiva indicazione
delle tribù. Ora, il problema era nato dal fatto che Valerio intendeva
scegliere personalmente il dittatore, com’era nei poteri a lui
riconosciuti dalla tradizione, ma fuori dal territorio romano, dopo la sua
partenza per la provincia; ma anche a prescindere dalle circostanze concrete da
cui la vicenda prese le mosse, occorre notare come essa si collochi nel periodo
di crisi definitiva dell’istituto della dittatura, caratterizzato come
noto dal tentativo di renderla in qualche modo elettiva. In proposito v.
soprattutto De Martino, op. cit., II,
272: “L’episodio è interessante, perché rivela
un contrasto di ordine costituzionale fra il Senato, appoggiato dai tribuni
della plebe, ed un console, il quale rivendicava l’antico potere
consolare di procedere alla dictio del dittatore, senza necessità di
sottoporsi al voto popolare. Tuttavia il voto di per sé non era ancora
giudicato sufficiente per la piena validità della nomina, ma occorreva
pur sempre l’atto del console; singolare compromesso di poteri, che si
reggevano più sulla forza politica che su rigorose norme
costituzionali!”.
[35] Liv. 27,6,17-18: Et censores
hic annus habuit L. Veturium Philonem et P. Licinium Crassum, maximum
pontificem. Crassus Licinius nec consul nec praetor ante fuerat quam censor est
factus: ex aedilitate gradum ad censuram fecit. Sed hi censores neque senatum
legerunt neque quicquam publicae rei egerunt: mors diremit L. Veturi; inde et Licinius
censura se abdicavit.
[36] Il rilievo di
Weissenborn, Müller, op. cit., VI,
21 nt. 17, e di Poma, op. cit.,
65 nt. 51, secondo cui potremmo qui trovarci di fronte ad un caso di
cumulo fra magistrature, non ci pare particolarmente calzante: in primo luogo,
perché dal testo liviano risulta con chiarezza che, mentre
l’elezione a magister equitum risale alla fine dell’anno consolare
210 (dovendo il dittatore convocare i comizi per l’anno successivo: cfr.
supra), l’abdicazione dalla censura, di cui Crasso era stato ovviamente
investito all’inizio del 210, dovette invece verificarsi assai presto,
dal momento che non si ebbe il tempo di esercitare alcuna significativa
attività inerente alla carica (cfr. in proposito, per es., Bandel, Die römischen
Diktaturen, Breslau, 1910, 138, ora
in Antiqua 30, Napoli, 1987, con una nota di lettura di L. Labruna); in secondo
luogo perché - lo ricordiamo - il divieto di cumulo, sancito col
plebiscito di cui ci riferisce Liv. 7,42,2, non si applicava nel caso in cui
una delle due magistrature fosse straordinaria (come peraltro la stessa Poma,
op. cit., 61-
[37] E’ appena il caso
di rammentare, in questa sede, che la censura era una magistratura collegiale
nel senso che le funzioni ad essa inerenti dovevano essere necessariamente
esercitate insieme dai due censori: venuto a mancare per qualsiasi ragione uno
di essi, l’altro, se non voleva aspettare l’elezione di un nuovo
collega, non aveva altra scelta che dimettersi. V. anche Liv. 5,31,6; 6,27,4;
9,33-34; 23,23,2; 24,43,4 e Plut. Quaest. Rom. 50; cfr. Mommsen, Staatsrecht
cit., I, 215-216; II, 339; Siber, Zur Kollegialität der
römischen Zensoren, in Festschrift F. Schulz, I, Weimar, 1951, spec.te 469-470; Guizzi, op. cit., 103; Weissenborn, Müller, op. cit.,
VI, 20 nt. 18; De Martino, op.
cit., I, 1972, 333; Suolhati, The
Roman Censors. A Study on Social Structure, Helsinki, 1963, 78-79. Sull’abdicatio in generale
v. ancora De Martino, op. cit., II,
199, 491.
[38] Livio stesso rileva la
eccezionalità del caso: in effetti, anche prima della definitiva fissazione
del certus ordo magistratuum attuata con la lex Villia annalis, doveva essersi
già affermato il principio che alla carica di censore potessero
tendenzialmente aspirare solo i consolari (cfr., con particolare riferimento al
passo qui esaminato, Weissenborn, Müller, op. cit., VI, 20 nt. 17). La circostanza però
che, dall’epoca di Appio Claudio in poi, sia dato di riscontrare delle
eccezioni (negli anni 312, 247, 210 e 209: cfr. in proposito De Martino, op.
cit., II, 216, 266 e nt. 160;
Broughton, op. cit., I, 160, 216,
278 e 285, da cui si evince che in ogni caso i magistrati in questione vennero
tutti eletti poi consoli non appena fu possibile; Suohlati, op. cit., 24 e nt. 2, il quale, oltre a
sottolineare questo medesimo dato, osserva che denominatore comune di tutti i
casi in esame sembra essere quello della scarsezza di candidati dovuta
all’epoca di guerra; Develin, The Practice cit., 121; Morgan, Q. Metellus (cos. 206),
dictatorii in the Pre-Sullan Senate and the End of the Dictatorship, in
Athenaeum 79 (1991), 360), induce a
pensare che quel principio fosse fondato più sulla prassi che non
già su una disposizione cogente di legge: così Mommsen, Staatsrecht cit., I, 549 nt. 2 (di contro a Nipperdey, Die
leges annales der römischen Republik, Leipzig, 1865, 39), e successivamente, per es., Guizzi,
op. cit., 103; s.v. Cursus honorum,
in NNDD cit., 81; De Martino, op.
cit., II, 266 nt. 160.
Più in generale, sul carattere non
ancora completamente cristallizzato del cursus honorum nel III secolo,
sull’inesistenza in quel periodo di norme di legge che imponessero
un’età minima per l’accesso alle magistrature (legge annalis
in senso stretto) o vietassero di occupare le più alte saltando quelle
intermedie (genericamente rilevante in proposito è la testimonianza di
Liv. 32,7,8-12), ed alfine sulle vicende storiche che portarono
all’approvazione della lex Villia, v. per es. Fraccaro, op. cit., 486, 490-491; Scullard, op. cit., 173 ss.; Astin, op. cit., in Latomus 16
(1957), 588 ss., e 17 (1958), 4 ss.; Rögler, op. cit., 76 ss.; Pecchiura, in Storie di Tito
Livio (libri XXXI-XXXV), ed. Utet, Torino, 1970,
162 nt. 4; De Martino, op. cit., II, 216; Baltrusch, Regimen morum. Die
Reglementierung des Privatlebens der Senatoren und Ritter in der römischen
Republik und frühen Kaiserzeit, München, 1989, 81.
[39] Liv. 27,21,5: Postero die
praetores creati P. Licinius Crassus Dives pontifex maximus, P. Licinius Varus
Sex. Iulius Caesar Q. Claudius.
[40] Liv. 27,22,3: Ceterae
provinciae ita divisae: praetoribus, P. Licinio Varo urbana, P. Licinio Crasso
pontifici maximo peregrina et quo senatus censuisset, Sex. Iulio Caesari
Sicilia, Q. Claudio Tarentum.
[41] Rilievo,
quest’ultimo, che già implicitamente solleva il problema, su cui
avremo modo di tornare, se il pontefice massimo potesse davvero allontanarsi da
Roma, col rischio di non poter accudire ai sacra.
[42] Per la verità la
questione dell’origine del processo formulare è, come noto, fra le
più complesse e storicamente
controverse, nell’ambito delle nostre discipline, anche per la mancanza
di fonti in proposito; ma non si può negare che, tra le varie ipotesi
formulate in dottrina (per le quali, non essendo in questa sede possibile
dilungarsi, si rinvia all’ampia rassegna contenuta, per es., in Pugliese,
Il processo civile romano. II. Il processo formulare, I, Milano, 1963, 19 ss.), quella espressa sopra, nel
testo, ha senza dubbio riscosso, negli ultimi decenni, il maggior consenso da
parte degli studiosi. Per una siffatta valutazione di sintesi v., per es.,
Carrelli, La genesi del procedimento formulare, Milano, 1946, 66, 155; Serrao, La iurisdictio del
pretore peregrino, Milano, 1954, 38
nt. 7; Pugliese, op. cit., 37, 41;
Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 298 ss.; cfr. Guarino, Diritto privato
romano¹¹, Napoli, 1997,
217 nt. 17,1. Tra i più significativi sostenitori
dell’orientamento qui accolto v. per es. Wlassak, Römische Prozessgesetze, II,
Leipzig, 1891, 301 ss. (che
riprendeva Huschke, Analecta litteraria, Lipsiae, 1826, 216 ss., e Bekker, Der
Legisactionsprocess mit Formeln zur Zeit Cicero’s, in ZSS 5 (1866), 342 ss.); Betti, La creazione del
diritto nella iurisdictio del pretore romano, in Studi Chiovenda, Padova,
1927, 67 ss.; Carrelli, op. cit.,
spec.te 66 ss., 155 ss.; Guarino,
Rec. di Carrelli, op. cit., in SDHI 15 (1949), 231 ss.; Serrao, op. cit., 36 ss. (pur con l’importante
precisazione contenuta a 51);
Pugliese, op. cit., spec.te 47 ss.,
e I pretori fra trasformazione e conservazione, in Roma tra oligarchia e
democrazia (Atti Copanello 1986), Napoli, 1988, 189 ss. (spec.te 194); Kaser, Das römische
Zivilprozessrecht, München, 1966,
109 ss.; Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari, 1995, 137.
[43] Cfr. in proposito
soprattutto Pais, Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, I,
Roma, 1915, 280.
[44] Tale argomento non
può essere approfondito in questa sede: ci limiteremo, pertanto, a
qualche prudente accenno, rinviando, per il resto, a quanto già scritto
altrove (v. Franchini, La desuetudine cit., spec.te 87 ss.). A nostro avviso, nulla vieta di
affermare che l’agere giurisprudenziale (per il quale si veda Cic. de or.
1,48,212) risale ad epoca antica. Se infatti - anche sulla base delle osservazioni
che faremo nel prosieguo di questo studio - si ammette che il diritto in
età arcaica era dominato dal formalismo e da una concezione di tipo
rituale di qualunque attività si presumesse non priva di effetti
rilevanti, bisogna allora riconoscere che il ricorso alla autorità dei
giuristi-sacerdoti era assai difficile da eludere ogni volta che sussistessero
dubbi circa i certa verba da pronunciare o i gesti esatti da compiere;
ciò, affinché l’atto in questione potesse poi dirsi
validamente posto in essere. D’altra parte solo in questo modo, a nostro
giudizio, si sarebbero potute introdurre modifiche ai formulari di atti e
procedimenti, giacché qualsiasi prassi si allontanasse dagli schemi
prefissati sarebbe risultata invalidante, dato il carattere pienamente
stringente del formalismo, in materia di ius civile come di ius sacrum.
Ciò non poteva non valere, dunque, anche nel campo del processo per
legis actiones, ove la conseguenza della irritualità, seguita alla
omissione o sostituzione anche di una sola parola, è anzi specificamente
documentata (cfr. Gai. 4,11, sul celebre responso che non ammise la
possibilità di pronunciare vites al posto di arbores). Si rifletta
inoltre sul fatto che il magistrato, il quale in età storica certo
presiedeva il procedimento per legis actiones, risulta pienamente coinvolto
nelle formalità inerenti al rito, essendo anzi chiamato ad esprimersi in
prima persona al momento opportuno, tramite l’uso di determinate parole,
che con ogni probabilità saranno state anch’esse, come quelle
delle parti, di elaborazione pontificale (si pensi che dei famosi tria verba
giurisdizionali do dico addico, ricordati da Varro ling. 6,4,30, si ha traccia
nel linguaggio propriamente sacerdotale: cfr. Fest.
[45] Su questo dato,
ampiamente condiviso in dottrina, v. ad es. qui, per tutti, Carrelli, op.
cit., 185 ss. (spec.te 188-192); Schulz, op. cit., 98-104; Bretone, op. cit., 173-174; v. anche, comunque, quanto
detto nella nota precedente.
[47] Liv. 28,38,6: Comitia
inde creandis consulibus habuit L. Veturius Philo, centuriaeque omnes ingenti
favore P. Cornelium Scipionem consulem dixerunt; collega additur ei P. Licinius
Crassus pontifex maximus; Cic. Brut. 19,77; App. Hann. 55,228: Kaˆ Ö men ™n
toÚtoij Ãn, ™n de ‘RèmV g…gnontai men
Ûpatoi Lik…n…oj te Kr£ssoj kaˆ PÒplioj
Skip…wn Ð labën 'Ibhr…an...; Oros. 4,18,17: Interea Scipio universa Hispania a Pyrenaeo usque ad
Oceanum in provinciam redacta Romam venit. Consul cum Licinio Crasso creatus in
Africam transiit…; Zon. 9,11: Tù d'špiÒnti œtei Ó te
Skip…wn Ð PoÚplioj kaˆ Lik…nnioj Kr£ssoj
Øp£teusan.
[49] Ciò soprattutto,
com’è noto, in forza della particolare fiducia riposta nelle doti
di condottiero di Scipione: v. per es. Liv. 28,40,1-2. Cfr., in generale,
Scullard, op. cit., 75 ss.;
Cassola, op. cit., 393 ss.
[50] Sebbene nelle fonti non
possa trovarsi espressa conferma di ciò, consideriamo tuttavia
illuminante quanto Livio, ad es., ci dice in 28,38,7-10, ossia che a
quell’assemblea comiziale vi fu un afflusso enorme di sostenitori di
Scipione. Cfr. Münzer, RAAF, 190; Scullard, op. cit., 75. E’ noto,
del resto, che il partito di Scipione era più forte nei comizi che non
in senato, ove Fabio Massimo era ancora particolarmente autorevole: cfr. quanto
già detto supra.
[51] Liv. 28,38,12: Quarto decimo anno Punici
belli P. Cornelius Scipio et P. Licinius Crassus ut consulatum inierunt,
nominatae consulibus provinciae sunt, Sicilia Scipioni extra sortem, concedente
collega quia cura sacrorum pontificem maximum in Italia retinebat, Brutii
Crasso. Cfr. Diod. 27,2; Plut. Fab. 25,4; Dio. frg. 57,52; Zon. 9,11. Qualora i
consoli interessati fossero d’accordo su come ripartire fra di loro le
province in precedenza identificate dal senato come consolari,
l’incombenza del sorteggio (cui si procedette invece, nel nostro caso,
per i pretori: cfr. Liv. 28,38,13) poteva senz’altro essere elusa. Per
tutti, v. ad es. De Martino, op. cit., II,
194.
[53] Cfr. Liv. 28,38,12; Diod.
27,2: –Wn
g¦r mšgistoj ƒereÝj ºnagk£zeto m¾
makr¦n tÁj `Rèmhj ¢posp©sqai di¦
t¾n tîn ƒerîn ™pimšleian; Plut. Fab.25,4:
Kr£sson d˜ t¦ m˜n ¹ fÚsij oÙk
Ônta filÒneikon, ¢ll¦ pr´on, o‡koi
kate‹ce, t¦ d˜ kaˆ nÒmoj qe‹oj
ƒerwsÚnhn œconta t¾n meg…sthn; Dio. frg. 57,52.
[54] Non vi sono dubbi che
queste fossero le strategie di Scipione e del suo partito, alla cui
realizzazione era probabilmente finalizzata la sua stessa elezione a console:
v. ancora Liv. 28,38,7-10. Del resto, il problema se nella provincia lasciata a
Scipione da Crasso (concedente collega) dovesse considerarsi compresa anche la
facoltà di intraprendere l’impresa transmarina, si porrà
immediatamente, e ne deriveranno accese discussioni in senato fra i leaders
delle opposte fazioni (v. Liv. 28,40-45; Plut. Fab. 25,2-3). Non è un
caso comunque che la determinazione definitiva, favorevole a Scipione,
potrà essere adottata solo dopo ulteriori accordi intervenuti tra questo
e il pontefice massimo, come chiaramente risulta da Liv. 28,45,8-9: Consul diem
ad conloquendum cum collega petit; postero die permissum senatui est.
Provinciae ita decretae: alteri consuli Sicilia et triginta rostratae naves
quas C. Servilius superiore anno habuisset; permissumque ut in Africam, si id e
re publica esse censeret, traiceret; alteri Bruttii et bellum cum
Hannibale… Durante tutta la vicenda, peraltro, Crasso ebbe a manifestare
la sua natura “non polemica” (così. Plut. Fab. 25,3), ma
questo ci pare indicativo più della sua intenzione di accondiscendere in
questo caso ai progetti del collega che non di uno spirito realmente incline ad
evitare discussioni, del quale d’altronde non esistono conferme nelle
fonti, ma semmai smentite (come si avrà più volte occasione di
constatare nel corso di questo studio). Si può senz’altro
concludere, allora, che l’episodio qui esaminato rappresenta la
testimonianza più
significativa dell’alleanza, storicamente esistente fra Licinio
Crasso e Cornelio Scipione, della quale in precedenza già ampiamente si
diceva. D’altronde, anche in dottrina si sottolinea per lo più la
disponibilità fattiva di Crasso ad addivenire ad un accordo con Scipione
per risolvere la delicata questione, e si trascura del tutto il profilo
relativo ad una presunta remissività di carattere del pontefice massimo:
v. per es. Münzer, RAAF, 190;
Scullard, op. cit., 75, anche in
merito al fatto che la decisione definitiva venne assunta col secondo
provvedimento senatorio, cui facevamo sopra riferimento; Bauman, op. cit., 95-96; cfr. Richard, op. cit., 799, il quale, nel sottolineare la
volontà del pontefice massimo di rispettare le sue incombenze sacrali,
di contro a qualsiasi intento di ordine politico, pare non intuire, a nostro
avviso, l’esistenza della possibilità di conciliare
senz’altro i due diversi profili; possibilità della quale invece
largamente ci si avvalse in quel periodo per la risoluzione di questioni di
politica religiosa.
[55] Ciò risulta in particolare
dal discorso che Liv. 28,40-42 fa pronunciare al Temporeggiatore; v. anche
Plut. Fab. 25,2-3; 26,1-2. Cfr. Münzer, RAAF, 190; Scullard, op. cit., 75-76; Tedeschi, Conflitto
d’età e conflitto d’opinione (Q. Fabio Massimo, Scipione
l’Africano e la spedizione anticartaginese in Africa), in Aufidus 27 (1995), 40.
[56] Sul punto v. soprattutto
Plut. Fab. 25,3: (…) Ój ge kaˆ Kr£sson œpeiqe, tÕn
sunupateÝonta tù Skhp…wni, m¾ pare‹nai
t¾n strathg…an mhd'Øpe…kein,
¢ll'aÙtÒn, e„ dÒxeien, ™pˆ
Karchdon…ouj peraioàsqai, kaˆ cr»mata doqÁnai
prÕj tÕn pÒlemon oÙk e‡ase. Cfr. Münzer, RAAF, 190; Müller Seidel, op. cit., 259.
[57] Ciò, almeno,
risulta dall’orazione che, in replica a quella di Fabio, Livio ascrive a
Scipione in 28,43-44, di cui precisamente si legga 28,44,10-11: Ne quid interim
dum traicio, dum expono exercitum in Africa, dum castra ad Carthaginem
promoveo, res publica hic detrimenti capiat, quod tu, Q. Fabi, cum victor tota
volitaret Italia Hannibal potuisti praestare, hoc vide ne contumeliosum sit
concusso iam et paene fracto Hannibale negare posse P. Licinium consulem virum
fortissimum, praestare, qui ne a sacris absit pontifex maximus ideo in sortem
tam longinquae provinciae non venit.
[58] Il rilievo da attribuirsi
a tale intento risulta in modo molto chiaro, nell’ambito di Liv.
28,44,10-11, dalla proposizione finale, che inizia con l’espressione ne a
sacris, posta immediatamente dopo il pronome relativo: cfr. Weissenborn,
Müller, op. cit., VI, 263 nt.
11.
[59] V. in Liv. 28,44,11
soprattutto l’espressione virum fortissimum, che certo richiama
l’elogio di 30,1,4 ss., del quale ora subito diremo, nel testo: cfr.
Weissenborn, Müller, op. cit., VI,
263 nt. 11.
[60] Sull’incarico di
Crasso nel Bruzzio e sulle vicende che lo videro colà impegnato contro i Cartaginesi v. Liv. 28,45,8-9;
28,46,2-3; 29,10,1-3; 29,13,3; 29,36,6-9; Zon. 9,11.
[61] Liv. 29,13,3: P. Scipioni
cum eo exercitu, cum ea classe quam habebat, prorogatum in annum imperium est;
item P. Licinio ut Bruttios duabus legionibus obtineret quoad eum in provincia
cum imperio morari consuli e re publica visum esset.
[62] Liv. 30,1,3-6: P.
Sempronius - ei quoque enim pro consule imperium in annum prorogabatur - P.
Licinio succederet; is Romam reverteretur, bello quoque bonus habitus ad
cetera, quibus nemo ea tempestate instructior civis habebatur, congestis
omnibus humanis ab natura fortunaque bonis. Nobilis idem ac dives erat; forma
viribusque corporis excellebat; facundissimus habebatur, seu causa oranda, seu
in senatu et apud populum suadendi ac dissuadendi locus esset; iuris pontificii
peritissimus; super haec bellicae quoque laudis consulatus compotem fecerat (a
commento di questo passo Weissenborn, Müller, op. cit., VI, 86 nt. 5 acutamente rilevano che, fino a
facundissimus, Livio traccia un elenco di virtù innate, quindi passa ad
enumerare quelle connesse ai meriti di Crasso; riguardo poi alla sostanziale
attendibilità del passo stesso, ricordiamo che dubbi veri e propri non
sono stati espressi in dottrina, benché vi sia chi inclina a credere che
Livio, come fonte, in alternativa a Valerio Anziate, abbia potuto attingere a
Celio Antipatro, di cui è presumibile la tendenza ad enfatizzare le
gesta degli appartenenti a quella famiglia, dato il rapporto di amicizia che lo
legava ad un discendente del nostro, il famoso oratore Crasso: in proposito,
oltre a quanto detto supra sugli annalisti e la cronaca metropolitana, v. per
es. Soltau, op. cit., 209; Münzer, RAAF, 190-191 nt. 1; Klotz, op. cit., 194; Lippold, Consules. Untersuchungen
zur Geschichte des römischen Konsulates von 264 bis 201 v. Chr., Bonn,
1963, 81-82 nt. 29; Develin, The
Practice cit., 121 nt. 101). Per un
riscontro comparativo di altre fonti, v. Liv. 28,44,11; Cic. de or.
3,33,133-134; Cato 14,50; 17,61: Quem virum nuper P. Crassum pontificem
maximum, quem postea M. Lepidum eodem sacerdotio praeditum vidimus!; Dio. frg.
57,52.
[63] V. Münzer,
RAAF, 190-191 nt. 1, e s.v.
Licinius (Crassus), n°
[64] Sull’argomento, per
tutti, v. ad es. Eisenhut, Virtus Romana. Ihre Stellung im römischen
Wertsystem, München, 1973, spec.te p. 120-126, ove si fa riferimento
all’opera liviana. In considerazione poi della indubbia affinità
esistente fra il tema delle virtutes e quello degli elogia e delle laudationes,
genericamente si rinvia alla bibliografia riportata nella nota precedente; ma
in particolare a Kierdorf, op. cit., p. 68 ss., 71 ss., 75 ss., e a Szemler, The
Priests cit., p. 33.
[65] V. soprattutto Liv.
29,36,6-9, riguardo alla vittoria riportata da Crasso e dal console del 204, P.
Sempronio, contro le schiere di Annibale.
[66] Cfr. quanto già
dicevamo in precedenza. V. ancora Bauman,
op. cit., p. 95; Draper, op. cit., p. 225-226; cfr. Scullard, op. cit., p. 67;
Sini, A quibus cit., p. 114-115.
[67] V. Cic. Cato. 9,27: Nihil
Sex. Aelius tale, nihil multis annis ante Ti. Coruncanius, nihil modo P.
Crassus, a quibus iura civibus praescribebantur; quorum usque ad extremum
spiritum est provecta prudentia.
[69] Cfr. D’Ippolito,
Sul pontificato massimo di Tiberio Coruncanio, in Labeo 23 (1977), p. 136-139.
V. anche quanto detto supra, a proposito della carica di pretore peregrino
assunta da Crasso nel 208.
[71] Si tratta purtroppo, come è noto, soltanto di
fonti letterarie (come già si anticipava sopra): Cic. de or.
3,33,133-134 e Cato 14,50.
[72] Ne è a nostro
avviso prova evidente, in Cic. de or. 3,33,133-134, un passaggio come:
(…) ut ad eos de omnibus divinis atque humanis rebus referretur; eidemque
et in senatu et apud populum et in causis amicorum et domi et militiae
consilium suum fidemque praestabant, riferito ai pontefici massimi, la cui
sapientia è comunque assimilata a quella di S. Elio e M’. Manilio,
dei quali appena sopra Cicerone diceva:
ad quos olim et ita ambulantis et in solio sedentis domi sic adibatur,
non solum ut de iure civili ad eos, verum etiam de filia conlocanda, de fundo
emendo, de agro colendo, de omni denique aut officio aut negotio referretur.
[73] Si rammenti che Sesto
Elio Peto Cato fu console nel 198 e censore nel 194 (cfr. Broughton, op. cit.,
I, p. 330, 343) e che L. Acilio fu contemporaneo di Elio, insieme ad altri
giuristi: cfr. Pomp. D. 1,2,2,38 (ove per la verità accanto ad Elio si
parla di un P. Atilio, nel quale
sarebbe tuttavia da identificarsi Acilio, almeno secondo l’orientamento
prevalente in dottrina: v. per es. Schulz, op. cit., p. 90; D' Ippolito, I
giuristi e la città: Ricerche sulla giurisprudenza romana della
repubblica, Napoli, 1979, p. 10 e nt. 10; Guarino, Catone giureconsulto, in
Iusculum iuris, Napoli, 1985, p. 79 nt. 3; Bretone, op. cit., p. 60); Cic. leg.
2,23,59; Lael. 2,6. Forse non solo Elio, ma anche Acilio redasse un’opera
scritta: v., oltre appunto a Pomp. D. 1,2,2,38, anche Cic. leg. 2,23,59, da cui
si evince che di Acilio e degli orientamenti che espresse su specifiche
questioni di esegesi si conservò netta memoria anche in tempi molto
successivi; per la dottrina - non
unanime, peraltro, nel considerare Acilio come l’autore di un vero e
proprio commento alle XII tavole -, v. per es. Schoell, Legis duodecim tabularum
reliquiae, Lipsiae, 1866, p. 7, 25-26; Ferrini, Storia delle fonti del diritto
romano e della giurisprudenza romana, Napoli-Milano-Pisa, 1885, p. 26; Bremer,
op. cit., p. 18; Bauman, op. cit., p. 132; Diliberto, Materiali per la
palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari, 1992, p. 24 ss.; Bretone, op. cit.,
p. 60.
[74] Cosa che è
solitamente del tutto trascurata. In proposito v. Liv. 22,35,1-2: Cum his
orationibus accensa plebs esset, tribus patriciis petentibus, P. Cornelio
Merenda L. Manlio Vulsone M. Aemilio Lepido, duobus nobilium iam familiarum plebeiis,
C. Atilio Serrano et Q. Aelio Paeto, quorum alter pontifex, alter augur erat,
C. Terentius consul unus creatur, ut in manu eius essent comitia rogando
collegae; 23,21,7: Et tres pontifices creati, Q. Caecilius Metellus et Q.
Fabius Maximus et Q. Fulvius Flaccus, in locum P. Scantinii demortui et L.
Aemilii Pauli consulis et Q. Aelii Paeti, qui ceciderant pugna Cannensi. Chiaro
è il riferimento ad un Quinto Elio Peto pontefice, morto nel 216. Cfr.
Weissenborn, Müller, op. cit., IV (11ª ediz.), Berlin, 1963, p. 81
nt. 2; Jal, in Tite-Live, Histoire romaine, XIII, ed. Les Belles-Lettres,
Paris, 2001, p. 100 nt. 11.
[75] Su questo dato, peraltro
non contestato in dottrina, v. ad es., per tutti, Schulz,, op. cit., p. 80-81; Kunkel,
Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen²,
Graz-Wien-Köln, 1967, p. 45 ss., 48-49; Bretone, op. cit., p. 154-155.
All'opinione tradizionalmente dominante, secondo la quale, fino ad un certo
momento, sarebbe esistito un monopolio giurisprudenziale pontificale anche in materia
civile, si è opposto, in anni recenti, Cancelli, La giurisprudenza unica
dei pontefici e Gneo Flavio, Roma, 1996: di quest’opera sono
indiscutibilmente apprezzabili, a nostro avviso, il rigore metodologico e
l’amplissimo corredo bibliografico (che attinge anche alla dottrina
più risalente), ma non condivisibili le conclusioni, fondate su una
interpretazione interessante ma forse pregiudiziale delle fonti pur chiaramente
allusive alla competenza esclusiva del collegio anche per il ius civile.
Riguardo poi alla figura di P. Licinio Crasso, in particolare, Cancelli (p.
105) si limita ad osservare che l’esperienza di cui quegli si fregiava in
entrambe le discipline costituirebbe solo un esempio dei bei tempi antichi,
quando eccezionalmente i cultori ufficiali del (solo) diritto sacrale potevano
dedicarsi anche allo studio del diritto civile, senza trascurare il ius
pontificium, come invece avrebbero fatto - snaturando le proprie funzioni
storiche - i pontefici di epoche successive (cfr. Cic. leg. 2,19,47;21,52).
[76] Ci riferiamo naturalmente
ai due Muzii Scevola, Publio e Quinto: cfr. Cic. leg. 2,19,47;21,52; v. anche,
per tutti, in dottrina Schulz, op. cit., p. 80; Albanese, P. Mucio Scevola
pontefice e l’uccisione sulla nave, in BIDR 98-99 (1995-1996), p.
[77] Liv. 39,46,1-2: Huius principio anni P.
Licinius Crassus pontifex maximus mortuus est: in cuius locum M. Sempronius
Tuditanus pontifex est cooptatus: pontifex maximus est creatus C. Servilius
Geminus. P. Licinii funeris causa visceratio data, et gladiatores centum
viginti pugnaverunt, et ludi funebres per triduum facti, post ludos epulum.
[78] La data esatta della
morte di Scipione, che non è affatto escluso fosse il 183, era per la
verità disputata già dagli antichi. V. Liv. 39,52,1-6; cfr. Pol.
23,12 ss.; Cic. Cato 6,19. Per la
dottrina, v. ad es. Scullard, op. cit., p. 152 e nt. 1; Sage, in Livy, XI, ed.
Loeb, London-Cambridge, 1958, p. 383; Ronconi, Scardigli, in Storie di Tito
Livio (libri XXXVI-XL), ed. Utet, Torino, 1980, p. 656 nt. 4; Adam, in Tite-Live,
Histoire romaine, XXIX, ed. Les Belles-Lettres, Paris, 1994, p. 79,
186-187.
[79] Il pontificato massimo di
P. Licinio Crasso è il più lungo tra quelli a noi noti da Ti.
Coruncanio fino a M. Emilio Lepido: cfr. in proposito Scullard, op. cit., p.
166; Draper, op. cit., p. 225; Sini, A quibus cit., p. 114.
[80] Sulla visceratio e sul
suo uso in occasione dei funerali v. per es. Weissenborn, Müller, op.
cit., IX (5ª ediz.), Berlin-Dublin-Zürich, 1965, p. 101 nt. 2;
Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 639 nt. 6; Wesch-Klein, Funus publicum,
Stuttgart, 1993, p. 41 ss.; Adam, op. cit., p. 176-177 nt. 5; Kajava,
Visceratio, in Arctos 32 (1998), p. 109 ss., spec.te 113. Sui giochi
gladiatorii v. innanzi tutto per es. De Sanctis, Storia dei Romani, IV,2,1,
Firenze, 1953, p. 342 e nt. 983; Weissenborn, Müller, op. cit., IX, p. 101
nt. 2; Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 639 nt. 7; Wesch-Klein, op. cit., p. 41
ss.; Adam, op. cit., p. 177; riguardo poi al numero dei gladiatori, occorre
dire che esso appare qui assai elevato, forse fin troppo, tanto che in dottrina
sono sempre stati avanzati molti dubbi sulla esattezza della tradizione
testuale: v. per es. De Sanctis, op. cit., p. 342 e nt. 983; Weissenborn,
Müller, op. cit., IX, p. 101 nt. 2, e Wesch-Klein, op. cit., p. 44, i
quali, riprendendo l’antica ipotesi di Lipsius, suppongono che CXX sia
stato sostituito ad un originario LXX (cifra pur sempre assai considerevole, in
ogni caso). Sul banchetto (la cui
celebrazione, peraltro, verrà poi interrotta da un violento
temporale, che costringerà i partecipanti ad elevare temporaneamente
padiglioni nel foro: cfr. Liv. 39,46,3-4), v. per es. Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 639 nt. 8.
[81] Nessuno tra gli autori
che abbiano studiato il nostro pontefice massimo, ricordati in questo scritto,
ipotizza del resto il contrario: v. anzi, espressamente, Ronconi, Scardigli,
op. cit., p. 639 nt. 7-8; Wesch-Klein, op. cit., p. 40 ss., part.te p. 44.
[82] Sul tema v. in generale,
oltre al risalente Vollmer, De funere publico Romanorum, in Jahrbücher für classische
Philologie, Supplementband 19, Leipzig, 1893, p. 321 ss., soprattutto
Wesch-Klein, op. cit., spec.te p. 53 ss., 83 ss.; cfr. per es. De Vincenti,
s.v. Funus cit., p. 348 ss.; Hug, s.v. Funus publicum, in RE Suppl. 3 (1918),
col. 530-533; Arce, op. cit., p. 325, 336; Stern, Funus publicum ex testamento?
An
Aspect of the Conflict between the Autonomy of the Free Will and Raion
d’Etat, in ZSS 121 (2004), p. 262 ss., con ampia rassegna bibliografica
alla nt. 1.
[83] V. per es. De Vincenti, s.v.
Funus cit., spec.te p. 350; Hug, s.v. Funus publicum cit., col. 530-533;
Wesch-Klein, op. cit., spec.te p. 6 ss., 83 ss.; per una rassegna dei funerali
pubblici v. Vollmer, De funere cit., p. 323 ss. Funus privatum fu del resto anche quello offerto in onore di M. Emilio
Lepido nel 152 (Liv. Per. 48), ad ulteriore conferma del fatto che al pontefice
massimo come tale non spettava, di regola, l'attribuzione di un funerale di
stato. Ci sia consentito, comunque, qui di ricordare che, in materia funeraria
e sepolcrale, i pontefici avevano una competenza generale ed esclusiva: in
proposito, v. per es. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l' ancienne Rome,
Paris, 1871, p. 146-158; De Visscher, Les droits des tombeaux romains, Milano,
1963; Kaser, Zum römischen Grabrecht, in ZSS 95 (1978), p. 15 ss.; Van Haeperen, Le
collège pontifical (3ème s. a.C.-4ème s. p.C.),
Bruxelles-Rome, 2002, p. 308 ss.; Tondo, Appunti sulla giurisprudenza
pontificale, in Per la storia del pensiero giuridico romano.
Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio, Torino, 1996, p.
6.
[84] Cfr. supra. L’onere
economico di procedere alle esequie del defunto spettava, di norma, agli eredi
(per tutti, v. ad es. Talamanca, op. cit., p. 610; per un approfondimento del
problema, connesso d’altronde a quello relativo alla legittimazione passiva
dell’actio funeraria, v. anche per es. De Francisci, La legittimazione
passiva nell’azione funeraria, in Annali della Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Perugia 32 (1920), p. 275 ss.;
Beseler, in ZSS 44 (1924), p. 390-391; Donatuti, Actio funeraria, in SDHI 8
(1942), p. 63 ss. (= Studi di diritto romano; II, Milano, 1977, p. 658 ss.), e
recentemente Paricio, Acción funeraria, in Derecho romano de
obligaciones, Hom. Murga Gener, Madrid, 1994, p. 687 ss.), ma non è dato
sapere con precisione chi essi fossero nel nostro caso. E’
senz’altro presumibile, comunque, che si trattasse di persone di
famiglia, e fra queste del figlio Publio, padre adottivo del futuro pontefice
massimo P. Licinio Crasso Muciano: cfr. Münzer, RAAF, p. 184, e Stammtafel
der Licinii Crassi, in RE cit., col. 247-248; Scullard, op. cit., p. 311;
Kunkel, op. cit., p. 13.
[85] Cfr. Scullard, op. cit.,
p. 167, il quale pur mette in rilievo il fatto che poi il funerale venne
interrotto dalla violenta tempesta, di cui si diceva sopra; Ronconi, Scardigli,
op. cit., p. 639 nt. 6-8; Millar, The Political cit., p.10, che traccia un quadro complessivo dei
funerali “ad effetto” di quel periodo; Wesch-Klein, op. cit., p. 40
ss., spec.te p. 44. Ora, avendo sempre riguardo all’albero genealogico
tracciato da Münzer, in RE cit., col. 247-248, si può
senz’altro ipotizzare che fra i parenti di Crasso, al momento della sua
morte, degni di essere presi in considerazione per i loro possibili interessi
elettorali fossero - oltre al figlio, di cui poco si sa - soprattutto i nipoti
per parte del fratello Caio (sul quale v. supra), ossia Publio (poi pretore nel
176, console nel 171: cfr. Broughton, op. cit., I, p. 400, 416; v. anche
Münzer, s.v. Licinius (Crassus), in RE cit., col. 286-287) e Caio Crasso
(poi pretore nel 172, console nel 168: cfr. Broughton, op. cit., I, p. 400,
416; v. anche Münzer, s.v. Licinius (Crassus), in RE cit., col 251-252),
che stavano iniziando la carriera politica. Sulle alleanze e le appartenenze di
partito dei due suddetti personaggi, durante gli anni in cui si svolse la loro
lunga vicenda, non è qui il caso di soffermarsi, dato che si riferiscono
oltretutto ad un’epoca assai successiva rispetto a quella in cui si
colloca l’esperienza del nostro pontefice massimo: in questa sede ci
limitiamo pertanto a rinviare a Scullard, op. cit., risp.te p. 173, 188-189,
195-196, 200-201, 215, e p. 196, 207-208, 212, 238, 271.
[86] Oggetto del nostro studio
sono dunque, esattamente, i pontefici la cui cooptazione all’interno del
collegio o la cui morte si collochino in un anno non precedente il 212 o non
successivo al 183. Per altre rassegne di pontefici relative al nostro periodo,
contenenti indicazioni rilevanti anche sul piano prosopografico, e non
meramente elencativo, v. in particolare Bardt, op. cit., p. 9 ss., e Szemler,
The Priests cit., p. 70 ss., 104 ss., ed in RE cit., col. 378 ss. (cfr.
Rüpke, A Prosopographical Data Base of Cultic Personnel in Ancient Rome,
in RISSH 30 (1994), p. 127, degno di rilievo soprattutto per la predisposizione
di un piano di lavoro e per le indicazioni di carattere metodologico a questo
scopo offerte). Tuttavia tali rassegne per lo più non affrontano le
questioni concernenti l’appartenenza politica dei membri del collegio,
ciò che costituisce l’aspetto forse più originale della
nostra disamina, sull’importanza del quale, anche ai fini degli
orientamenti giurisprudenziali espressi, ci siamo già in precedenza
soffermati.
[87] E’ appena il caso
di ricordare che, per l’epoca qui esaminata, ben pochi sono ancora i nomi
dei giuristi laici di cui si abbia notizia.
[88] Si trattava di P.
Scantinio, di Q. Elio Peto e dello stesso console L. Emilio Paolo. V. Liv.
23,21,7: Et tres pontifices creati, Q. Caecilius Metellus et Q. Fabius Maximus
et Q. Fulvius Flaccus, in locum P. Scantinii demortui et L. Aemilii Pauli
consulis et Q. Aelii Paeti, qui ceciderant pugna Cannensi.
[89] V. infatti, per ciascuno
dei tre, la data di morte. Ciò, come dicevamo sopra, legittima
l’indagine condotta da parte nostra su costoro, e non, per es., sui
pontefici cui essi subentrarono.
[90] Non era rara la
circostanza che venissero cooptati figli o parenti stretti di pontefici
defunti, al fine evidente di preservare equilibri e privilegi oligarchici: v.
ad es., per l’epoca anteriore al 168, i casi di M. Sempronio Tuditano, Q.
Fulvio Flacco (cfr. Liv. 40,42,11-12), M. Claudio Marcello (figlio di quello
citato appena sotto, in questa nota: cfr. Liv. 41,13,4), C. Sulpicio Galba
(cfr. Liv. 41,21,8-9), T. Manlio Torquato (cfr. Liv. 43,11,13), M. Servilio
Gemino (cfr. Liv. 43,11,13). Allo stesso scopo spesso si favoriva
l’ingresso nel collegio pontificale di figli o parenti stretti di
personalità di particolare rilievo: v. ad es. i casi di C. Livio
Salinatore, Ser. Sulpicio Galba, Cn. Cornelio Scipione Ispallo, M. Claudio
Marcello. Sull’argomento cfr., in particolare, Mercklin, Die Cooptation
der Römer, Mitau-Leipzig, 1848, p. 117 ss.; Hahm, op. cit., p. 83 e nt.
35, il quale non sembra tuttavia rilevare le peculiarità inerenti alla
circostanza specifica della cooptazione di parenti stretti di pontefici ancora
viventi, per cui occorrerà formulare considerazioni di tutt’altro
genere (ci riferiamo soprattutto al caso di C. Sulpicio Galba, da non
confondersi con quello citato appena sopra, in questa nota).
[91] Plin. nat. 7,43,139-141;
cfr. Cic. Brut. 14,57, circa le buone qualità oratorie del nostro
pontefice. V. anche Münzer, s.v. Caecilius, n°
[92] Il termine ante quem non
può che essere questo, dato che da Liv. 40,45,8 risulta che nel 179
Cecilio Metello era ancora in vita: cfr. Broughton, op. cit., p. 282; Szemler,
in RE cit., col. 180. Il problema nasce dalla circostanza che Livio non fa poi
menzione della morte del nostro pontefice e del suo avvicendamento
all’interno del collegio, talché si potrebbe teoricamente pensare
che egli sia vissuto a lungo, fin verso, o addirittura fin oltre, il 167, anche
in considerazione del fatto che era ancora giovane al tempo della sua
cooptazione (di quest’avviso, tendenzialmente, Bardt, op. cit., p. 9); ma
non si può neppure escludere che la sua morte sia precedente, e passata
da Livio sotto silenzio, come già del resto, per es., quella di Q.
Fulvio Flacco o la cooptazione di C. Sempronio Tuditano e di L. Furio Filo
(morto nel 170: v. Liv. 43,11,13). La questione non pare pertanto risolvibile,
mediante le fonti a nostra disposizione: certo non si può non attribuire
un valore indicativo alla circostanza che un personaggio di indubbio rilievo,
quale fu Q. Cecilio Metello, sembra completamente sparire di scena a partire
dall’inizio del terzo decennio del II secolo (cfr. in proposito Szemler,
The Priests cit., p. 108).
[93] Come già per P.
Licinio Crasso (cfr. supra), anche per Q. Cecilio Metello è possibile
rilevare che casi di cursus honorum anomali erano in quel periodo piuttosto
frequenti. Ad ogni modo, in generale, sul carattere non ancora completamente
cristallizzato del cursus honorum nel III secolo, sull’inesistenza in
quel periodo di norme di legge che imponessero un’età minima per
l’accesso alle magistrature o vietassero di occupare le più alte
saltando quelle intermedie (v. ancora in proposito Liv. 32,7,8-12,
preferibilmente riferibile proprio al caso del consolato). Per un esame dei
casi di consolato rivestito senza avere prima gerito la pretura, non
infrequenti in quegli anni di guerra, v. poi in particolare, per es., Fraccaro,
op. cit., p. 476, 484-485, 490-491, che fa espresso riferimento anche a Metello, precisando poi che fu la lex
Villia a dettare per la prima volta regole contro l’uso invalso negli
anni precedenti di tralasciare la pretura; Astin, op. cit., in Latomus 16
(1957), p. 609-611, secondo il quale l’accesso al consolato di non
pretorii non era vietato da legge, almeno fino al 197-194, allorché, per
il totale venir meno dei casi in questione, è pensabile sia stata già
introdotta una regolamentazione apposita; s.v. Cursus honorum, in NNDD cit., p.
80, ove ancora si sostiene che quel divieto sia stato invece sancito solo con
la legge Villia; Rögler, op. cit., p. 99-101, con espresso riferimento
anche a Metello; Develin, Patterns cit., p. 18 ss., il quale sottolinea che i
casi di consoli non pretorii, come quello del nostro pontefice, frequenti nel
periodo di guerra, tenderanno a scomparire negli anni immediatamente
successivi, senza che fosse intervenuta in proposito una regolamentazione
legislativa; Weissenborn, Müller, op. cit., VII (7ª ediz.), Berlin,
1980, p. 112 nt. 9, ove si osserva che prima dell’entrata in vigore della
lex Villia la proibizione deve considerarsi non ancora valida.
[94] Riguardo alle magistrature
rivestite da Cecilio Metello, da noi ricordate sopra, nel testo, v. Broughton,
op. cit., I, risp.te p. 286, 298,
[95] Sugli orientamenti politici
del nostro pontefice v. Scullard, op. cit., p. 36, 69, 82, 122, 242, 254;
Cassola, op. cit., p. 329, 407-410; Hahm, op. cit., p. 81; Briscoe, Livy and
the Senatorial Politics, 200-167 B.C.: The Evidence of the Fourth and Fifth
Decades, in ANRW II,30,2 (1982), p. 1082, 1084 nt. 58. Il legame fra Scipione e i Metelli, in questo periodo,
è significativamente documentato anche in Nevio, che peraltro in ragione
di ciò polemizza contro di essi: v. Bell. Poen. 46 Marm. (cfr. Scullard,
op. cit., p. 254, e Cassola, op. cit., p. 329).
[96] Cfr. Broughton, op. cit.,
I, risp.te p. 224, 228, 254, 258 e 285; 227; 234 e 243; 285 e 306 (la perdita della seconda decade
dell’opera liviana ci impedisce di conoscere la data di altri incarichi
magistratuali, rivestiti da Fabio prima dell’inizio della guerra
annibalica).
Riguardo ai consolati occupati dal nostro
pontefice, non possono non rilevarsi talune particolarità. La più
eclatante è la sua riconferma per l’anno 214, quando già
aveva rivestito la carica nel 215 (seppur da suffectus, ma ciò non ha
alcun rilievo ai nostri fini, come sembra pacifico nella dottrina che ha
affrontato il problema, citata appena sotto, in questa nota), ed anzi
presiedette egli stesso i comizi consolari (v. in proposito Liv.
24,7,11;9,1-3), con evidente violazione del divieto di iterazione della
medesima carica (v. per es., fra gli studiosi che hanno rilevato la
particolarità, Mommsen, Staatsrecht cit., I, p. 500-501 nt. 1, 518 e nt.
3; De Ruggiero, Il consolato e i poteri pubblici in Roma, Roma, 1900, p. 14; De
Sanctis, op. cit., IV,1, Torino, 1923, p. 502; Müller Seidel, op. cit., p.
241 ss.; Gardner Moore, in Livy, VII, ed. Loeb, London-Cambridge, 1958, p. 224
nt. 3; Rögler, op. cit., p. 99-100, il quale sottolinea il fatto che in
quell’anno vi fu continuazione anche nella pretura, come avremo modo di
rilevare, a proposito del pontefice Q. Fulvio Flacco; Weissenborn, Müller,
op. cit., V, p. 18 nt. 11, 23 nt. 1; Lippold, op. cit., p. 172-173; De Martino,
op. cit., II, p. 217-218 nt. 2; Rilinger, Der Einfluss des Wahlleiters bei den
römischen Konsulwahlen von 366 bis 50 v. Chr., München, 1976, p.
188-189; Ramondetti, op. cit., p. 575 nt. 4; Poma, Il plebiscito ne quis eundem
magistratum intra decem annos caperet (Liv.,VII,42,2), p. 63). L’episodio
può tuttavia essere spiegato rilevando il fatto che poco tempo prima,
all’indomani della sconfitta del Trasimeno, era stato approvato un
plebiscito che, fintanto che durava la guerra in Italia, introduceva la
possibilità di rieleggere un console quante volte si volesse (e per di
più nell’ambito di un’assemblea comiziale da lui stesso
presieduta: cfr. Liv. 27,6,7-8, con espresso riferimento al nostro caso come
esempio recente di applicazione del provvedimento; v. anche Mommsen,
Staatsrecht cit., I, p. 500-501 nt. 1, 518 e nt. 3; De Ruggiero, Il consolato
cit., p. 14; De Sanctis, op. cit., IV,1, p. 502; Gardner Moore, op. cit., p.
224 nt. 3; Weissenborn, Müller, op. cit., VI, p. 18 nt. 7; De Martino, op.
cit., II, p. 217-218 e nt. 2, ove compare l’elenco delle iterazioni
consolari; Casavola, Relazione introduttiva, in Roma tra oligarchia e
democrazia (Atti Copanello 1986), Napoli, 1988, p. 31-32; Ramondetti, op. cit.,
p. 575 nt. 4; Poma, Il plebiscito ne quis eundem magistratum intra decem annos
caperet (Liv.,VII,42,2), p. 63-65; Reduzzi Merola, Iudicium de iure legum.
Senato e legge nella tarda repubblica, Napoli, 2001, p. 108): ciò in
deroga ad una regolamentazione che evidentemente già esisteva, e che
dovrebbe potersi identificare con quella dettata, in generale, dal già
ricordato plebiscito del 342 o 330 (cfr. supra), che sanciva, oltre al divieto
di cumulo, anche quello decennale di iterazione della stessa magistratura (v.
Liv. 7,42,2; cfr. Liv. 10,13,8; Plut. Mar. 12,1, con particolare riferimento al
caso del consolato). V. poi in generale, per la dottrina, anche in ordine alla
possibile datazione del provvedimento, ad es. Mommsen, Staatsrecht cit., I, p.
519-520; Pais, Storia di Roma, I,2, Torino, 1899, p. 278; De Ruggiero, Il
consolato cit., p. 13; De Sanctis, op. cit., IV,1, p. 502; Foster, in Livy, IV,
ed. Loeb, London-Cambridge, 1957, p. 404 nt. 1; Gardner Moore, op. cit., p. 224
nt. 1; s.v. Cursus honorum, in NNDD cit., p. 80; Rögler, op. cit., p. 101;
Weissenborn, Müller, op. cit., III (8ª ediz.), Zürich-Berlin,
1965, p. 198 nt. 2, e V, p. 23 nt. 1;
Flacelière, Chambry, in Plutarque, Vies, VI, ed. Les
Belles-Lettres, Paris, 1971, p. 108 nt. 1; De Martino, op. cit., II, p. 217;
Casavola, Relazione cit., p. 31-32; Poma, Il plebiscito ne quis eundem
magistratum intra decem annos caperet (Liv.,VII,42,2), p. 43 ss.; Reduzzi
Merola, op. cit., p. 102); ma residua qualche dubbio, dato che non solo in
età annibalica, ma anche in anni precedenti si danno casi sia di
provvedimenti votati in deroga a quel divieto, sia di violazioni singole,
seppur meno eclatanti, dello stesso, come può evincersi, ad es., dalla
circostanza della rielezione di Q. Fabio Massimo al consolato del 228 (cfr. ad
es. Mommsen, Staatsrecht cit., I, p. 519-520 e nt. 5; Pais, Storia cit., p.
278; De Ruggiero, Il consolato cit., p. 13; De Sanctis, op. cit., IV,1, p. 502;
Foster, op. cit., p. 404 nt. 1; De Martino, op. cit., II, p. 217-218 e nt. 2;
mentre negli anni successivi, ed in particolare dal 208, benché la
guerra fosse ancora in corso, la situazione sembra tornare a normalizzarsi: v.
per es. De Sanctis, op. cit., IV,1, p. 502; Rögler, op. cit., p. 101;
Szemler, The Dual Priests of the Republic, in Rheinisches Museum 117 (1974), p.
79; Poma, Il plebiscito ne quis eundem magistratum intra decem annos caperet
(Liv.,VII,42,2), p. 43 ss.).
Riguardo poi alle dittature rivestite da
Fabio, occorre precisare, con Broughton, op. cit., I, p. 234 e 235 nt. 3, che
la data della prima è per la verità solo probabile, sebbene certo
inseribile in un arco di tempo compreso fra il 222 e il 218.
[97] Sulla figura del
Temporeggiatore, in generale, v. ad es., per tutti, Münzer, s.v. Fabius,
n°
[98] V. in proposito
l’interessante studio di
Szemler, The Dual cit., p. 72 ss., part.te p. 72-73, espressamente
dedicato all’argomento.
[99] Sui rapporti tra i
flamini e il rex sacrorum da un lato ed i pontefici dall’altro, torneremo
ampiamente nel prosieguo di questo studio; per le fonti, v. fin d’ora,
comunque, Cic. dom. 49,127 e 52,135; har. resp. 6,12.
[100] Nel periodo compreso fra il 218 e il 167, quello cui
si riferisce la terza decade dell’opera liviana, sono riscontrabili, per
i pontefici, oltre a questo di Fabio, solo i casi di T. Otacilio Crasso, anche
augure, e di C. Servilio Gemino, anche decemviro; in precedenza quello di C.
Marcio Rutilo Censorino, pontefice e augure dal 300 (v. Liv. 10,9,2-3). Cfr. in
proposito l’elenco redatto da Szemler, The Dual cit., p. 74-76.
[101] Quest’ultimo dato,
in verità, è espressamente documentato solo per il caso del
pontificato massimo (v. Liv. 25,5,2-4; 40,42,11-12), della cui valenza politica
si era evidentemente a tal punto presa coscienza che, come meglio avremo a dire
in seguito, nel corso del III secolo, avvertendosi l’esigenza di una
regolamentazione, era stato introdotto il principio della elettività
della carica da parte delle tribù. Nondimeno, si può affermare
che tutto il nostro studio, come già più volte rilevato,
rappresenta il tentativo di dimostrare la fondatezza di quanto detto sopra, nel
testo. Molto significativo è, a nostro avviso, soprattutto il rilievo
che, a causa del processo di laicizzazione della cultura e del costume, sempre
più appetibili risultavano essere i sacerdozi che, come appunto il
pontificato e l’augurato, erano suscettibili di una gestione anche
politicamente significativa, e sempre meno quelli che, come per es. il
flaminato, invece non lo erano. In ogni caso, per altre simili valutazioni di
carattere generale, v. per es. in dottrina Szemler, The Priests cit., p. 24 e nt.
7, 78, e The Dual cit., p. 81-82, 84; Bergemann, Politik und Religion im
spätrepublikanischen Rom, Stuttgart, 1992, p. 126 ss.
[103] Ciò anche in considerazione
del fatto che la responsabilità delle gravi disfatte di quegli anni, ed
in particolare di quella del lago Trasimeno, immediatamente precedente la
dittatura di Fabio, era stata attribuita al comportamento di leaders come
Flaminio, scarsamente rispettosi delle tradizioni religiose di Roma, della cui
piena osservanza il Cunctator sarebbe invece tornato a farsi garante. In
proposito per la dottrina v. fin d’ora, ad es. Münzer, s.v. Fabius,
in RE cit., col. 1819; Scullard,
op. cit., p. 44 ss., 56 ss.; Müller Seidel, op. cit., p. 241 ss., part.te
p. 243-244, 268 ss.; Dorey, The Dictatorship of Minucius, in JRS 45 (1955), p.
93; Cassola, op. cit., p. 293 ss., 336 ss., pur negando, in genere, la
contrapposizione con Flaminio; Hahm, op. cit., p. 78 e nt. 19; Bengston, op.
cit., p. 106; Szemler, The Priests cit., p. 88 ss., 93-94; Twymann, Consular
Elections for 216 B.C. and the lex Maenia de patrum auctoritate, in Cl. Phil.
79 (1984), p. 290; Gusso, op. cit., p. 291 ss., part.te p. 299 e nt. 38 (ove si
fa riferimento alla “riscossa
religiosa e moralizzatrice di Fabio”), e 319 nt. 135 (ove si allude al
ruolo di “eminenza grigia svolto da Fabio nel collegio degli
auguri”); Twyman, The Consular Elections for 216 B.C. and the lex Maenia
de patrum auctoritate, in Cl. Phil. 79 (1984), p. 290; Develin, The Practice cit.,
128, 226; Linke, Religio und res publica, in Mos maiorum cit., p. 277 ss.
[104] Cfr. soprattutto
Münzer, RAAF, p. 180. Fra i pontefici rimasti vivi nel 216 (per un elenco
dei quali si rinvia peraltro a Scullard, op. cit., p. 58 nt. 1), quello
politicamente più vicino al
Temporeggiatore - dopo T. Otacilio Crasso, legato a Fabio anche da
rapporti di famiglia - doveva probabilmente essere T. Manlio Torquato; ma non
è escluso che anche in esponenti di partiti avversari, in quella
particolare fase storica (v. in proposito la nota precedente), prevalesse un
atteggiamento favorevole alla cooptazione di Fabio all’interno del
collegio.
[105] In merito, circa quel
che diremo a proposito della mancata elezione a console del flamine M. Emilio
Regillo, cui Fabio, e non il pontefice massimo, fece opposizione; v. anche,
più in generale, cfr. quanto già abbiamo detto supra. Inoltre,
non si può qui fare a meno di soffermarci, seppur brevemente, sulla
figura di L. Cornelio Lentulo Caudino, personaggio importante, che oltretutto
fu il diretto predecessore di P. Licinio Crasso nella carica di capo del
collegio. Pontefice patrizio, morto nel 213, non se ne conosce la data di
cooptazione. Era stato eletto pontefice massimo già piuttosto vecchio,
nel
[106] Sul tema si rinvia in
particolare, per es., a Scullard, op. cit., p. 56 ss.; Cassola, op. cit., p.
259 ss., 405 ss., secondo il quale, più esattamente, Fabio sarebbe stato
il capo dell'aristocrazia agricola, legata anche ai piccoli proprietari e alla plebe
rurale, fautore di una politica estera più prudente di quella degli
Scipioni, punti di riferimento invece per i ceti più espansionisti e
intraprendenti negli affari e nel commercio; Szemler, The Priests cit., p. 88
ss.
[107] Si tratta di vicende fin
troppo note, cui si collega l’attribuzione al nostro pontefice dello
stesso epiteto di Temporeggiatore, e per le quali si fa qui ampiamente rinvio
alla letteratura citata supra. Si vedano ancora, tuttavia, per una più
esatta valutazione degli equilibri politici di quella fase storica, soprattutto
Scullard, op. cit., p. 44 ss., 56 ss.; Cassola, op. cit., p. 259 ss.
[108] Il problema è
analogo a quello che già si è posto per Q. Cecilio Metello, ma
assume per noi maggior rilievo in considerazione del fatto che comunque la
morte di Fulvio è da collocarsi nell’ambito del pontificato
massimo di P. Licinio Crasso. Ora, non vi è dubbio che il termine post
quem sia l’anno 205, l’ultimo relativamente al quale il nostro
pontefice compaia menzionato nelle fonti (v. Liv. 28,45,2: Itaque Q. Fulvius, qui consul
quater et censor fuerat, postulavit a consule ut palam in senatu diceret
permitteretne patribus ut de provinciis decernerent staturusque eo esset quod
censuissent an ad populum laturum), ed è altrettanto certo che il termine
ante quem non possa andare oltre il 197, dal momento che all’anno
successivo risale la morte del pontefice C. Sempronio Tuditano, l’unico
che nel frattempo possa verosimilmente essergli subentrato all’interno
del collegio. Altro non siamo autorizzati a dire, anche se forse è
più probabile, a nostro avviso, una morte risalente, e non il contrario,
poiché, dato il grande rilievo del personaggio, stupirebbe il silenzio delle fonti nel caso di una
sua prolungata sopravvivenza. Per la dottrina, v. ad es. Scullard, op. cit., p.
82, 87 nt. 3, secondo il quale la morte avvenne probabilmente intorno allo
stesso anno 205, anche se non si può del tutto escludere che nel 200,
allorché il collegio discusse la questione del votum ex incerta pecunia,
egli fosse ancora vivo; Broughton, op. cit., I, p. 282, il quale inserisce
Fulvio nell’elenco dei pontefici patrizi dell’anno 200 (senza fare
nessuna menzione di Sempronio), collocandone la morte in un anno successivo al
207 (perché non al 205, è francamente incomprensibile, dal
momento che il Q. Fulvio, di cui fa cenno Liv. 28,45,2, console quattro volte e
censore, non può che essere identificato col nostro pontefice); Schlag,
op. cit., p. 150, che considera senz’altro l’avvicendamento come già
avvenuto nel 200, senza particolari argomentazioni; Szemler, The Priests cit.,
p. 107, ed in RE cit., col. 380, che, al pari di Broughton, ne fa risalire la
scomparsa a dopo il 207, senza offrire ulteriori spiegazioni; Briscoe, op.
cit., p. 1082 nt. 28 e 1086 e nt. 58, critico verso coloro che, come Scullard,
non prendono neppure in considerazione l’eventualità che nel
[109] Cfr. Broughton, op.
cit., I, risp.te p. 221, 231, 267 e 285; 254 e 259; 226; 278. Riguardo al
cursus honorum di Q. Fulvio Flacco, occorre ricordare, come già per Q.
Fabio Massimo, che non ci è possibile conoscere la data di altri
incarichi magistratuali, eventualmente rivestiti prima dell’inizio della
guerra annibalica.
Bisogna poi rilevare che, analogamente al Temporeggiatore,
Fulvio rivestì la stessa magistratura senza rispettare il divieto
decennale di iterazione: ciò vale sia per il consolato (per il quale
generalmente si rinvia a quanto detto supra), sia per la pretura, su cui
è qui opportuno soffermarsi. Si trattava più esattamente della
pretura urbana, che il nostro pontefice occupò per due anni consecutivi
(cosa che Liv. 24,9,4-5 fa espressamente notare), il 215 e il 214, gli stessi
per i quali abbiamo riscontrato continuazione anche nella carica di console
(cfr. supra, a proposito di Q. Fabio Massimo; sulle peculiarità di quel
biennio v. soprattutto i commenti di Rögler, op. cit., p. 99-100). Ora,
sebbene i casi di iterazione della pretura non siano infrequenti in quegli anni
di guerra (v. ad es. Mommsen, Staatsrecht cit., I, p. 500-501 nt. 1, 518 e nt.
3, 519-520 e nt. 5; Broughton, op. cit., I, p. 246 nt. 4; Jahn, Zur Iteration
der Magistraturen in der römischen Republik, in Chiron 2 (1972), p. 173;
De Martino, op. cit., II, p. 218-219 e nt. 4), generalmente in dottrina non si
prende in considerazione l’ipotesi che i provvedimenti eccezionali
seguiti alla sconfitta del Trasimeno, sospensivi del divieto d’iterazione
decennale, di cui dicevamo supra, fossero applicabili a magistratura diversa dal
consolato (una significativa eccezione è rappresentata da Mommsen,
Staatsrecht cit., I, p. 500-501 nt. 1, 518 e nt. 3, 519-520 e nt. 5, del quale
è tuttavia discutibile, a nostro avviso, la tendenza a dare per scontata
l’applicabilità). Tale orientamento sembra effettivamente essere
il più probabile, se si ha riguardo alla lettera della norma, di cui ci
riferisce Liv. 27,6,7-8 (Dictator causam comitiorum auctoritate senatus, plebis
scito, exemplis tutabatur: namque Cn. Servilio consule cum C. Flaminius alter consul
ad Trasumennum cecidisset, ex auctoritate patrum ad plebem latum plebemque
scivisse ut, quoad bellum in Italia esset, ex iis qui consules fuissent quos et
quotiens vellet reficiendi consules populo ius esset; exemplaque in eam rem se
habere, vetus L. Postumi Megelli, qui interrex iis comitiis quae ipse habuisset
consul cum C. Iunio Bubulco creatus esset, recens Q. Fabi, qui sibi continuari
consulatum nisi id bono publico fieret profecto nunquam sisset), da cui
peraltro risulta che - addirittura per lo stesso consolato - si avvertì
il bisogno di invocare, oltre all’applicazione di quel plebiscito, anche
il rilievo assunto da singoli casi precedenti (considerati separatamente): la
vicenda di Fulvio potrebbe pertanto spiegarsi come una delle molte genericamente
riconducibili alla prassi di quegli anni, sconvolta dalle urgenze belliche
(cfr. in proposito supra, in questa stessa nota); ma a nostro avviso non
può del tutto escludersi neppure l’ipotesi che in qualche modo
(forse per effetto di un’interpretazione estensiva o a fortiori) il
plebiscito del 217 fosse stato reso applicabile alla pretura: ciò, sia
perché nella fonte sopra riportata il riferimento, propriamente,
è ai consolari, quale Q. Fulvio Flacco in ogni caso era, e negli esempi
che seguono (considerati ora, invece, in funzione applicativa o interpretativa
del provvedimento) si fa pur sempre cenno di magistrati diversi dai consoli,
come l’interré; sia perché il parallelismo fra
l’episodio di Fabio e quello di Fulvio sembra essere, sulla base di una
lettura complessiva delle fonti a nostra disposizione (cfr. Liv. 24,7,11-9,6),
davvero molto stretto, essendo stati entrambi rieletti lo stesso anno, nella
medesima circostanza elettorale (i comizi centuriati erano stati convocati,
come si è detto, da Fabio, alla prima occasione utile, prima ancora di
rientrare in città), nonostante l’obiezione in punto di diritto
sollevata da Otacilio, in ragione della loro superiore esperienza, che li
rendeva idonei a gestire quella situazione di grave emergenza, partendo
l’uno per la guerra, rimanendo l’altro in città (si osservi
anzi che il senato riaffida a Q. Fulvio Flacco la urbana provincia, eludendo di
proposito ogni sortitio: sulla circostanza, v. per es. Mommsen, Staatsrecht
cit., II, p. 209 nt. 2).
Riguardo poi alla dittatura, rivestita da
Q. Fulvio Flacco nel 210, si rammenti che magister equitum, quell’anno,
fu lo stesso pontefice massimo P. Licinio Crasso, che pur Fulvio non si era
scelto, giacché gli venne imposto con delibera adottata dai concilia plebis:
cfr. supra.
[110] Sulla figura di Q.
Fulvio Flacco, in generale, si rinvia per es. a Münzer, s.v. Fulvius,
n°
[113] Così Scullard,
op. cit., p. 37-38. Sulla costituzione del partito claudiano-serviliano,
intermedio fra le due principali fazioni contrapposte, v. in generale Schur,
op. cit., p. 129-131; Scullard, op.
cit., p. 78 ss., 277-278, autore che già in precedenza dicevamo come il
più proficuo per l’indagine da noi condotta; Adam, op. cit., p.
176 nt. 4; mentre privi di riscontro, almeno in materia di politica religiosa,
sono destinati a rivelarsi, a nostro avviso, gli orientamenti di coloro che,
come Münzer, RAAF, p. 132 ss., od Haywood, Studies on Scipio Africanus,
Westport, 1976 (rist. ediz. Baltimore, 1933), p. 56-58, ritengono che non vi
sarebbe stata alcuna rottura, intorno al 203, fra gli Scipioni ed il gruppo dei
Claudii-Servilii-Fulvii. V. anche Cassola, op. cit., p. 412-413, secondo il
quale non sarebbe possibile una valutazione unitaria, nell’ambito del
cosiddetto partito claudiano-serviliano; Develin, The Practice cit., p. 84 ss.,
il quale tende a negare persino l’esistenza di un partito siffatto.
[115] Liv. 25,2,1-2: Aliquot
publici sacerdotes mortui eo anno sunt, L. Cornelius Lentulus pontifex maximus
et C. Papirius C. filius Maso pontifex et P. Furius Philus augur et C. Papirius
L. filius Maso decemvir sacrorum. In Lentuli locum M. Cornelius Cethegus, in
Papirii Cn. Servilius Caepio pontifices suffecti sunt; augur creatus L.
Quinctius Flamininus, decemvir sacrorum L. Cornelius Lentulus.
[116] P. Licinio Crasso, successore
di P. Cornelio Lentulo Caudino alla carica di pontefice massimo, verrà
eletto da un’assemblea di diciassette tribù l’anno
successivo.
[117] Questa era infatti la
prima incombenza, della quale bisognava farsi carico; l’unica per la
quale valesse il principio dell’avvicendamento nell’ambito della
stessa classe sociale di appartenenza.
[118] V. Val. Max. 1,1,4; Plut. Marc.
5,5. Dalle fonti qui riportate non
risulta per la verità che si trattasse del flaminato di Giove, ma lo si
può forse desumere dalla circostanza che per la vicenda affatto analoga
di Claudio ciò sia espressamente ricordato da Liv. 26,23,8. Per la
dottrina (anche a conferma della data dell’evento, per lo più
identificata nel 223, o comunque in un anno compreso fra il 225 e il 222), v.
per es. Klose, Römische
Priesterfasten, Breslau, 1910, p. 28-29; Broughton, op. cit., I, p. 232;
Bleicken, Oberpontifex und Pontifikalkollegium, in Hermes 85 (1957), p. 360 nt.
4; Latte, Römische Religionsgeschichte, München, 1960, p. 403;
Szemler, The Priests cit., p. 70, 105, ed in RE cit., col. 378; Bauman, op.
cit., p. 98 nt. 39; Vanggaard, The Flamen. A Study in the History and
Sociology of Roman Religion, Copenhagen, 1988, p. 61; Combès, in
Valère-Maxime, Faits et dits mémorables, I, ed. Les Belles-Lettres,
Paris, 1995, p. 288; Shackleton Bailey, in Valerius Maximus, Memorables Doings
and Sayings, ed. Loeb, London-Cambridge,
2000, p. 18 nt. 16.
[119] V. in proposito Szemler,
The Priests cit., p. 105; Vanggaard, op. cit., p. 61. Si rammenti peraltro che
Cornelio Cetego, a distanza di pochi mesi dalla sua cooptazione, venne
incaricato di presiedere le operazioni di voto per l’elezione del nuovo
pontefice massimo.
[120] Cfr. Broughton, op. cit., I,
risp.te p. 273, 285, 305. Si osservi che
Cetego, come Licinio Crasso, viene eletto alla censura pur non essendo
consularis: per una riflessione in proposito si rinvia a quanto già
detto supra, ove si fa tra l’altro espresso riferimento al caso della censura
del 209; v. inoltre Münzer, s.v. Cornelius, n°
[121] Significativa sul punto
la testimonianza di Ennio (Ann. Vahlen³ 303-308), riportata da Cic. Brut.
15,57-59 (che appena prima aveva illustrato le doti retoriche di Q. Cecilio
Metello): Quem vero exstet et de quo sit memoriae proditum eloquentem fuisse et
ita esse habitum, primus est M. Cornelius Cethegus, cuius eloquentiae est
auctor et idoneus quidem mea sententia Q. Ennius, praesertim cum et ipse eum
audiverit et scribat de mortuo: ex quo nulla suspicio est amicitiae causa esse
mentitum. Est igitur sic apud illum in nono ut opinor annali: ‘Additur
orator Cornelius suaviloquenti ore Cethegus Marcus Tuditano conlega Marci
filius’, et oratorem appellat et suaviloquentiam tribuit, quae nunc
quidem non tam est in plerisque (latrant enim iam quidam oratores, non
loquuntur), sed est ea laus eloquentiae certe maxima: ‘is dictust ollis
popularibus olim, qui tum vivebant homines atque aevum agitabant flos delibatus
populi’, probe vero; ut enim hominis decus ingenium, sic ingeni ipsius
lumen est eloquentia, qua virum excellentem praeclare tum illi homines florem
populi esse dixerunt ‘Suadaeque medulla’; cfr. Cic. Cato 14,50; Hor.
epist. 2,2,117; Quint. inst. 2,15,4; 11,3,31; Gell. 12,2,3. V. anche
Münzer, s.v. Cornelius, in RE cit., col. 1280; Scullard, op. cit., p. 70.
[122] V. Hahm, op. cit., p. 73,
79-81; cfr. Szemler, The Dual cit., p. 85. Le
fonti non ci consentono tuttavia di formulare l’ipotesi che Scipione sia
stato anche formalmente candidato alla successione di Lentulo, venendo inserito
in una triade di nomi, conformemente ad una prassi che avremo modo di
illustrare in seguito.
[124] V. Hahm, op. cit., p.
79-81. Cfr. supra, con particolare riferimento a quanto detto sulla figura di
Fabio doppio sacerdote e leader religioso.
[125] Così, per lo
più, in dottrina: v. per es. Scullard, op. cit., p. 60 nt. 1, 77, 82, 87,
97; Hahm, op. cit., p. 80-81; Briscoe, op. cit., p. 1082. Qualche incertezza
sulla linea politica di Cetego esprimono invece Cassola, op. cit., p. 422;
Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain et les conflits de
générations, in MEFRA 94 (1982), p. 206.
[126] Cfr. Liv. 41,21,8-9:
Sacerdotes publici ea pestilentia mortui sunt, Cn. Servilius Caepio pontifex,
pater praetoris, et Ti. Sempronius Ti. f. Longus decemvir sacrorum, et P.
Aelius Paetus augur, et Ti. Sempronius Gracchus, et C. Mamilius Vitulus curio
maximus,, et M. Sempronius Tuditanus pontifex. Pontifices suffecti sunt, C.
Sulpicius Galba*** in locum Tuditani.
[128] Come del resto quello di
Cetego a Lentulo Caudino: cfr. ancora Scullard, op. cit., p. 60 nt. 1.
[130] Come già si
anticipava supra, i Servilii daranno vita coi Claudii ad un forte partito
intermedio.
[131] V. Liv. 30,24,1-4; cfr.
soprattutto Scullard, op. cit., p. 79, oltre a Schur, op. cit., p. 129. V. anche Münzer, s.v.
Servilius (Caepio), n°
[132] V. Liv. 25,5,2-4. Il
collegio pontificale, con ogni probabilità, non espresse altri
candidati. Ciò essenzialmente per ragioni di ordine procedurale,
giacché, come meglio cercheremo di illustrare in seguito, tre era forse
il numero massimo. Bisogna comunque rilevare, avuto riguardo alla composizione
del collegio nel 212, che forse altri tre pontefici avrebbero potuto, a nostro
avviso, essere teoricamente presi in considerazione, o in forza del loro
prestigio personale, come Fabio Massimo, o perché membri plebei
più anziani, almeno d’età, rispetto a Crasso, come Pomponio
Matone e Otacilio Crasso. Ma di fatto il primo - che oltretutto era membro del
collegio da poco tempo, come del resto Fulvio - doveva già assolvere a
troppe altre incombenze, tenuto conto del fatto che era augure e che veniva in
quel periodo pressoché costantemente investito di incarichi
magistratuali, con tutte le gravi preoccupazioni di carattere militare che gliene derivavano (in via meramente
ipotetica non sarebbe da escludere che sia stato Fabio stesso a rifiutare la
candidatura, molto probabilmente offertagli); gli altri due, Pomponio e
Otacilio - morti entrambi l'anno dopo - non erano forse, sul piano
politico-personale, sufficientemente competitivi per poter aspirare alla carica di primo sacerdote del culto
romano. Cfr. in proposito Münzer, RAAF, p. 187; Szemler, The Priests cit.,
p. 106-107, ed in RE cit., col. 379.
[134] Non esisteva ovviamente
alcun formale divieto di cumulo fra la maggior carica magistratuale e la
maggior carica sacerdotale, come d’altronde la candidatura stessa del
nostro, in questo frangente, dimostra; ma non si può non osservare che
in genere, per ragioni forse anche meramente pratiche (v. quanto detto sopra,
nel testo, a proposito degli impegni militari di Fulvio), si cercava di evitare
la nomina di un console in carica già come semplice membro del collegio,
e quindi a maggior ragione come
pontefice massimo.
[135] Cfr. Münzer, RAAF,
p. 187; Scullard, op. cit., p. 67; Szemler, The Priests cit., p. 106-107, ed in
RE cit., col. 379; Bauman, op. cit., p. 94.
[136] Sulla fama di esperto
giurista di Crasso e sull’incidenza che essa probabilmente ebbe nella
scelta delle diciassette tribù, v. quanto già detto supra.
[137] Cfr. Broughton, op.
cit., I, risp.te p. 223 e 231; 226; 290. Riguardo al cursus honorum di T.
Manlio Torquato, occorre ricordare, come già per Q. Fabio Massimo e Q.
Fulvio Flacco, che non ci è possibile conoscere la data di altri
incarichi magistratuali, eventualmente rivestiti prima dell’inizio della
guerra annibalica; in particolare, non si ha notizia dell’anno in cui
Manlio occupò la pretura.
[138] Così Szemler, The
Priests cit., p. 105, particolarmente attento a questo problema.
L’ingresso di Manlio nel collegio pontificale è certo precedente
al 218, ché altrimenti Livio, all’inizio della sua terza decade,
ce ne avrebbe dato notizia (ciò che vale, in generale, per tutti i
pontefici: v. Hahm, op. cit., p. 74): cfr. per es. Münzer, s.v. Manlius
(Torquatus), n°
[139] Cfr. Liv. 22, 60-61, ed
in particolare 22,60,5: T. Manlius Torquatus, priscae ac nimis durae, ut
plerisque videbatur, severitatis, interrogatus sententiam ita locutus
fertur…; cfr. Liv. 26,22,9-10.
[141] V. Münzer, RAAF, p.
24-25, 60 nt. 1, 98-99, 186-187; Scullard, op. cit., p. 58; Cassola, op. cit.,
p. 423.
[142] Ciò lo differenziava da Q. Fulvio Flacco, la
cui militanza all’interno del collegio era la più recente, ed in
parte anche da P. Licinio Crasso, il quale però, nonostante la sua
giovane età, doveva già aver molto affinato la sua preparazione
in materia di ius pontificium (ciò che abbiamo già più
volte rilevato).
[143] Cfr. Liv. 26,22,9-10. V.
anche Münzer, RAAF, p. 186-187; Scullard, op. cit., p. 67; Szemler, in RE
cit., col. 379; Bauman, op. cit., p. 94.
[145] Questo certamente vale
per Q. Fabio Massimo e per Q. Fulvio Flacco, probabilmente anche per T. Manlio
Torquato, la cui carriera politica, anche a prescindere dal consolato, era
stata comunque folgorante; fra i pontefici ancora da esaminare, ma certamente
presenti nel collegio nell’anno 212, analoghe considerazioni forse
potrebbero farsi per M’. Pomponio Matone. In dottrina non mancano coloro
che attribuiscono particolare importanza a questo dato, anche in considerazione
del fatto che nella narrazione liviana relativa alla approvazione della lex
Ogulnia espresso è il riferimento ai consulares triumphalesque plebeios
(Liv. 10,6,4-5): v. per es. Scullard, op. cit., p. 58 nt. 1; Szemler, The
Priests cit., p. 67, 74-
[146] Si veda comunque anche
quel che dicevamo supra, circa la necessità che si aveva, in quel
periodo di gravi disfatte militari, di far ricorso al contributo di persone
avvedute ed esperte.
[147] Ciò in
riferimento non tanto, forse, a Q. Cecilio Metello, che era sì
all’inizio della carriera, ma apparteneva pur sempre ad una delle
più illustri famiglie pontificali, quanto piuttosto a M. Cornelio Cetego
e a Cn. Servilio
Cepione.
[148] Cfr. Hahm, op. cit., p. 82-84;
Szemler, in RE cit., col. 379; Scheid, Le prêtre et le magistrat, in Des
ordres à Rome, Paris, 1984, p. 256-258. Occorre infatti rilevare che, fra i pontefici cooptati dal
[149] Per una più ampia
riflessione su questo tema, in generale, si rinvia all’interessante
studio di Hahm, op. cit., p. 73 ss., il quale significativamente rileva (p.
74-75, 85) che, su un totale di venticinque pontefici per cui possiamo determinare
con certezza la carriera, dal 218 al 167, ben venti furono cooptati prima di
avere rivestito il consolato; cfr. Szemler, The Priests cit., p. 182 ss.,
secondo cui (p. 191) l’età media di cooptazione era destinata ad
abbassarsi, col tempo, ai trent’anni circa; Scheid, op. cit., p. 248 ss.,
che pur richiamandosi, essenzialmente, alla ricostruzione di Szemler, tuttavia
riesamina i dati disponibili dal punto di vista del rango sociale, senatorio o
meno, occupato dai sacerdoti cooptati; Bergemann, op. cit., p. 32, 36.
[150] Liv. 26,23,7-8:
Sacerdotes publici aliquot eo anno demortui sunt novique suffecti: in locum M'.
Aemilii Numidae decemvir sacrorum M. Aemilius Lepidus, in locum M’.
Pomponii Mathonis pontificis C. Livius, in locum Sp. Carvilii Maximi auguris M.
Servilius. T. Otacilius Crassus pontifex quia exacto anno mortuus erat, ideo
nominatio in locum eius non est facta. C. Claudius flamen Dialis quod exta
perperam dederat flamonio abiit.
[151] La versione M.,
riportata dalle più importanti edizioni dell'opera (v. per es. Titi Livi
ab urbe condita libri, III,1, ed. Teubner, Lipsiae, 1909, p. 140; Titi Livi ab
urbe condita, IV, Oxonii, 1953; Livy, VII, ed. Loeb, London-Cambridge, 1958, p.
90; Weissenborn, Müller, op. cit., V, p. 67; Storie di Tito Livio (libri
XXVI-XXX), ed. Utet, Torino, 1981, p. 108; Tite-Live, Histoire romaine, XVI,
ed. Les Belles-Lettres, Paris, 1991, p. 47), è conforme alla tradizione
testuale del passo, la quale non sembra essere di per sé controversa; ma
ciò non toglie le forti perplessità che, sull’esattezza di
essa, già a suo tempo esprimeva Bardt, op. cit., p. 11, pur discutendo
la scelta di Mercklin, op. cit., p. 216, che disinvoltamente sostituiva
senz’altro con M’. la versione del Puteanus. D’altronde,
bisogna qui anticipare che anche in dottrina, ove pur si sono avanzate le varie
ipotesi che ci accingiamo ad esaminare, domina senz’altro
l’incertezza: v. in particolare Bardt, op. cit., p. 11, il quale, sebbene
avverta che la scelta andrà fatta fra i tre, di cui subito diremo, nel
testo, ed anzi precisi che occorrerà preliminarmente stabilire chi fosse
l’augure-decemviro morto nel 204 (cfr. Liv. 29,38,7: certo non era lo
stesso pretore del 204, che quell’anno appunto sopravvisse, e che non va
preso in considerazione come pontefice), tuttavia poi non esprime alcuna
preferenza in proposito; v. anche, per es., Münzer, RAAF , p. 161;
Broughton, op. cit., I, p. 277 nt. 10.
[152] Ciò, ovviamente,
dal momento che Livio, nella sua terza decade, non fa menzione della sua cooptazione: v. Szemler, in RE
cit., col. 377.
[153] Così Münzer,
RAAF , p. 161; Scullard, op. cit., p. 58 nt. 1; Schulz, op. cit., p. 32.
Ricordiamo che M. Pomponio Matone fu, oltre che console nel 231, anche pretore
nel 217 e 216: cfr. Broughton, op. cit., I, risp.te p. 225, 244 e 249 (sulla
continuazione della pretura cfr. supra).
[154] Così Mommsen,
Forschungen cit., p. 83; Broughton, op. cit., I, p. 276, il quale, pur
attribuendo qui erroneamente al nostro pontefice il prenome M., certo si
riferisce a Manio, dal momento che comunque lo indica come il console del 233;
Hahm, op. cit., p. 81; Szemler, The Dual cit., p. 74-75, The Priests cit., p.
73, ed in RE cit., col. 377.
L’ipotesi che il nostro pontefice
sia M’. Pomponio Matone sembra anche a noi la più convincente
delle tre. Ciò, anzitutto perché, come rileva un’ampia
parte della dottrina (v. per es. Broughton, op. cit., I, p. 283; Gardner Moore,
op. cit., p. 358 nt. 1; Cassola, op. cit., p. 339; François, in Tite-Live,
Histoire romaine, XIX, ed. Les Belles-Lettres, Paris, 1994, p. 152), nel Marco
console del 231 pare tendenzialmente da identificarsi il M. Pomponio morto nel
204 (cfr supra), che già oltretutto era augure e decemviro (cfr.
peraltro quanto detto in precedenza, riguardo al particolare rilievo rivestito
dal doppio sacerdozio in quest’epoca); inoltre perché, per
un'epoca in cui difficilmente chi non era consolare veniva cooptato nel
collegio pontificale (cfr. supra), piuttosto problematica sembra anche
l'identificazione del nostro sacerdote con qualche altro M. (o M’.)
Pomponio, esponente più giovane, o comunque meno illustre, della
medesima famiglia. Dal duplice argomento a contrario, pur con margini residui
di dubbio, discende appunto, come dicevamo, che l’ipotesi più
probabile è quella di M’. Pomponio Matone, console del 233. Su
questo personaggio, del cui residuo cursus honorum nulla peraltro si sa, v. per
es. Broughton, op. cit., I, p. 224; Gundel, s.v. Pomponius, n°
[156] V. Münzer, RAAF ,
p. 161; Scullard, op. cit., p. 35 ss.; Cassola, op. cit., p. 385-386; Hahm, op.
cit., p. 81.
[157] V. ancora Liv.
26,23,7-8, ove per la verità non si fa menzione del cognomen Salinatore;
tuttavia l’identità del nostro pontefice è sicura, come
può evincersi dalla fonte relativa alla morte (cfr. nota successiva),
non ad altri riferibile che a lui, e come è unanimemente riconosciuto in
dottrina (cfr. Bardt, op. cit., p. 11; Münzer, s.v. Livius (Salinator),
n°
[158] Cfr. Liv. 43,11,13: Sacerdotes
intra eum annum mortui, L. Flaminius*** pontifices duo decesserunt, L. Furius
Philus et C. Livius Salinator. In locum Furii T. Manlium Torquatum, in Livii M.
Servilium pontifices legerunt.
[160] Marco Livio Salinatore:
cfr. Bardt, op. cit., p. 11; Münzer, s.v. Livius (Salinator), in RE cit.,
col. 888; Scullard, op. cit., p. 126, 319; Szemler, in RE cit., col. 381.
[162] Per le guerre in Oriente
v. per es. Liv. 32,16,2ss.; 36,2,6;14; 36,42,8-43,2; 36,44,8-11; 37,2,10;
37,9,6-11; 37,12,5-6; 37,14,4-7; 37,16,1-14; 37,25,13; cfr. Pol. 21,11,12; App.
Syr. 22-23; Iustin. 31,6,7; per le guerre
contro i Galli v. per es. Liv. 35,5,8-10; 38,35,7-10. Per la dottrina v. ad
es., per tutti, Münzer, s.v. Livius (Salinator), in RE cit., col. 888-890;
Scullard, op. cit., p. 126-127, 138-139.
[163] Cfr. Scullard, op. cit.,
p. 123, 131 e nt. 1, 138-139; i Livii in generale erano legati al gruppo
emiliano-scipioniano: v. Scullard, op. cit., p. 123; Cassola, op. cit., p.
408-410.
[165] Ciò non risulta
peraltro dal più volte ricordato Liv. 26,23,8, ove si fa menzione della
sola carica di pontefice; tuttavia, da Liv. 27,6,15 (Sacerdotes Romani eo anno
mortui aliquot suffectique. C. Servilius pontifex factus in locum T. Otacilii
Crassi, Ti. Sempronius Ti. filius Longus augur factus in locum T. Otacilii
Crassi. Decemvir item sacris faciundis in locum Ti. Sempronii C. filii Longi
Ti. Sempronius Ti. filius Longus suffectus. M. Marcius rex sacrorum mortuus est
et M. Aemilius Papus maximus curio; neque in eorum locum sacerdotes eo anno
suffecti) si ricava che l’anno dopo un T. Otacilio Crasso venne
sostituito sia come pontefice che come augure. E’ difficile negare valore
alla coincidenza, in conformità, peraltro, ad un orientamento molto
diffuso in dottrina: v. per es. Münzer, RAAF, p. 80-83, e s.v. Otacilius,
n°
[166] Cfr. Broughton, op. cit., I,
p. 244 e 259. Sull’iterazione della
pretura, non rara in quel periodo, v. quanto abbiamo detto sopra.
[167] Cfr. Liv. 24,8,13-
[168] Cfr. Liv. 24,8,11; v. anche, per
es., Münzer, s.v. Otacilius, in RE cit., col. 1863. Ne seguirono, come è evincibile in particolare
da Liv. 24,9,l-2, le vibranti proteste dello stesso Otacilio, che forse non si
aspettava l’opposizione di Fabio, da lui accusato di voler illegalmente
continuare il consolato, e la ferma reazione del Temporeggiatore, che, avendo
ancora con sé i littori, minacciò di sottoporre Otacilio ad
esecuzione.
[169] Questa è,
nonostante tutto, a nostro avviso, la più condivisibile fra le opinioni espresse
in dottrina: v. per es. Münzer, RAAF, p. 74, 80; Scullard, op. cit., p.
44, 58 ss.; Müller Seidel, op. cit., p. 251 nt. 40, secondo la quale,
benché talora, come in questo caso, considerazioni di ordine personale
potessero prevalere sui legami di gruppo, l’esistenza di questi, fra
Otacilio e Fabio, non può ritenersi dubbia, data anche la circostanza
che con un matrimonio solitamente si siglava un’alleanza politica;
Szemler, The Priests cit., p. 82 e nt. 4, 87; di avviso contrario, per es.,
Cassola, op. cit., p. 318-320, secondo cui Otacilio fu invece un avversario di
Fabio, come quest’episodio dimostrerebbe, senza per questo aver
necessariamente aderito al partito espansionista-mercantile scipioniano.
L’orientamento da noi sostenuto, accolto fra l’altro dagli autori
che possono essere considerati i più sensibili ai problemi che
intendiamo trattare, non può essere messo in discussione solo sulla base
del fatto che la querela di Otacilio contro Fabio fu dura ed animosa, potendosi
senz’altro far dipendere ciò, a nostro avviso, proprio dalla grave
delusione, che in Otacilio sarebbe stata provocata dall’apparente
tradimento del suo leader, che per di più era lo zio della moglie, oltre
che suo collega nel collegio pontificale. Bisogna poi ribadire che quella era
un’epoca di gravissima emergenza bellica e che certe violazioni delle
lealtà di parte potevano rendersi effettivamente necessarie per la
salvaguardia della salvezza stessa dello stato (del resto le argomentazioni del
Temporeggiatore, nel discorso che Livio gli fa pronunciare in 24,8, si ispirano
tutte a questo intendimento). Occorre infine rammentare che, in ordine alle
scelte di politica religiosa, le sole che propriamente formino oggetto del
nostro studio, l’importanza delle solidarietà di parte, connesse
alla comune appartenenza gentilizia o familiare, è destinata ad essere
pressoché costantemente confermata nel prosieguo del nostro lavoro (la
stessa cooptazione di Fabio nel collegio pontificale, in un’epoca in cui
già Otacilio ne faceva parte, potrebbe essere imputata, come dicevamo
supra, alla collaborazione di questi).
[170] Di ciò potremmo
persuaderci anche sulla base della circostanza che forse, nonostante la
testimonianza di Liv. 26,23,8, la morte propriamente non avvenne allo spirare
dell’anno, ma un po’ prima (come d’altronde risulta da Liv.
26,23,2, ove si riferisce che di essa si seppe durante lo svolgimento dei
comizi per l’elezione dei pretori: cfr. in proposito Weissenborn,
Müller, op. cit., V, p. 67 nt. 8); inoltre in Liv. 27,6,15-16 potrebbe
essere considerato piuttosto indicativo il fatto che la notizia della
sostituzione di Otacilio venga riportata non preliminarmente e a parte, ma
insieme a quella di altri sacerdoti, che certo erano morti in seguito, nel corso di tutto
l’anno successivo (eo anno; cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VI,
p. 19 nt. 15, che per il nostro pontefice parlano di inesattezza di Livio), e
forse anche il fatto che al termine del passo si faccia riferimento a casi
ulteriori di mancata sostituzione di sacerdoti, pur non defunti alla fine
dell’anno 210. Infine la circostanza che, nell’ambito dei collegi
sacerdotali, per qualche tempo rimanesse vacante un posto non rappresentava
forse un evento eccezionale: cfr. ad es. Liv. 10,6,7; 33,42,6 e 33,44,3; v. poi,
per la dottrina, ad es. Lange, Römische Alterthümer³, I, Berlin,
1876, p. 335; Mommsen, Staatsrecht cit., II, p. 21-22 nt. 6; Wissowa, s.v.
Augures, in RE 2 (1896), col. 2317;
De Sanctis, op. cit., II, Firenze, 1907, p. 223; Siber, s.v. Plebs, in RE
21(1951), col. 156, e Römisches Verfassungsrecht in geschichtlicher
Entwicklung, Lahr, 1952, p. 60; Bleicken, op. cit., p. 364 nt. 3;
Hölkeskamp, op. cit., p. 61 nt. 61.
[173] Nel passo sopra citato
non si fa per la verità menzione del cognomen Gemino (come del resto in
Liv. 40,37,2; 40,42,8); tuttavia l’identità del nostro pontefice
è sicura, come può evincersi sia dalla fonte relativa alla sua
nomina a pontefice massimo (Liv. 39,46,1-2), sia da quella relativa alla sua
morte, non ad altri riferibili se non a lui, che oltretutto era in
quell’epoca, all’interno del collegio, l’unico Servilio il
cui praenomen fosse Caio (Cneo era infatti quello di Cepione, la cui morte
è fra l’altro certamente databile al 174: cfr. supra).
D’altronde anche in dottrina nessuno solleva perplessità in
proposito: v. per es. Bardt, op. cit., p. 12; Münzer, RAAF, p. 138-140,
147; Scullard, op. cit., p. 68, 88, 166-167, 180; Broughton, op. cit., I, p.
281-282; Schulz, op. cit., p. 33; Szemler, The Priests cit., p. 108, ed in RE
cit., col. 380; cfr. anzi, sul punto, le osservazioni di Aymard, Liviana.
À propos des Servilii Gemini, in REA 45 (1943), p. 215 nt. 3, 216 nt. 4,
il quale peraltro precisa che, riguardo all’edilità plebea di
Cecilio Metello, la tradizione manoscritta di Livio presenta qualche
oscurità.
[174] Ciò è
ricavabile da Liv. 40,42,11-12, ove si dà notizia della sua morte e
della sua sostituzione sia come pontefice che come decemviro; cfr. Münzer,
s.v. Servilius (Geminus), n°
[175] La sua cooptazione in
data precedente, anziché successiva, al 210, sebbene non espressamente
attestata nelle fonti, è da considerarsi altamente probabile: v. in
proposito i condivisibili rilievi
di Münzer, RAAF, p. 139-140, e di Szemler, in RE cit., col. 380-381,
secondo cui sarebbe stato altrimenti inusuale il fatto che il fratello minore
Marco, augure dal 211, fosse stato cooptato per primo in un collegio
sacerdotale, a preferenza del maggiore; cfr. Aymard, op. cit., p. 202 e nt. 4;
Zamorani, Plebe, genti, esercito.Una ipotesi sulla storia di Roma (509-
[176] Cfr. Liv. 40,42,11-12:
Exitu anni et C. Servilius Geminus pontifex maximus decessit: idem decemvir
sacrorum fuit. Pontifex in locum eius a collegio cooptatus est Q. Fulvius
Flaccus: at pontifex maximus M. Aemilius Lepidus, cum multi clari viri
petissent; et decemvir sacrorum Q. Marcius Philippus in eiusdem locum est
cooptatus.
[179] Non è facile
ricostruire le vicende della famiglia dei Gemini nell'ambito della gens
Servilia: lo faremo, qui, avvalendoci del contributo offerto da alcuni fra gli
studiosi che più hanno approfondito l’argomento, quali ad es.
Münzer, RAAF, p. 136 ss. (che traccia anche un albero genealogico),
Aymard, op. cit., in REA 45 (1943), p. 199 ss., e 46 (1944), p. 237 ss., e Feig
Vishnia, op. cit., p. 289 ss. Verso la metà del III secolo furono
consoli due Servilii patrizi: Cn. Cepione nel 253 (cfr. Broughton, op. cit., I,
p. 211) e P. Gemino, suo cugino, nel 252 e nel 248 (cfr. Broughton, op. cit.,
I, p. 212, 215). Il nipote del primo sarà pontefice dal 213 e console
patrizio del 203, mentre il nipote del secondo, ossia il nostro pontefice,
sarà tribuno della plebe verso il 212 (cfr. Münzer, RAAF, p.
140-141, e s.v. Servilius (Geminus), in RE cit., col. 1792; Zamorani, op. cit.,
p. 2, 9-11; forse nel 211 per Broughton, op. cit., I, p. 273, e Jal, in
Tite-Live, Histoire romaine, XVII, cit., p. 112 nt. 6; v. anche Aymard, op.
cit., in REA 45 (1943), p. 200 nt. 2, e Feig Vishnia, op. cit., p. 289 nt. 3,
che appaiono scettici sulla possibilità di identificare con certezza la
data) e console plebeo a fianco proprio di Cepione nel 203, quando fra l'altro
liberò dalla prigionia dei Boi il padre Caio (Liv. 30,19,6-7; cfr. Pol.
3,40,9-10), pretore appena prima del 218 (cfr. Münzer, RAAF, p. 136 ss.,
che più esattamente identifica l’anno nel 220; Aymard, op. cit.,
in REA 45 (1943), p. 201; Broughton, op. cit., II, New-York, 1952, p. 619;
Zamorani, op. cit., p. 3), fratello del Cneo console nel 217 (cfr. Broughton,
op. cit., I, p. 242) e ritenuto morto fin da allora, quando fu catturato. Anche
Marco, fratello minore del nostro e augure dal 211 (cfr. Liv. 26,23,8), figura
come console plebeo nel 202 (cfr. Broughton, op. cit., I, p. 315). Che cos'era
successo tra il 252 e il 211? Certo qualcuno dei Gemini aveva effettuato la
transitio ad plebem, ma a questo proposito non c'è accordo tra gli
studiosi: alcuni la attribuiscono al padre, prima della sua prigionia (v. per
es. Münzer, RAAF, p. 136 ss., e s.v. Servilius (Geminus), in RE cit., col.
1792 ss.; Aymard, op. cit., in REA 45 (1943), p. 199 ss., part.te p. 205-208;
Szemler, The Priests cit., p. 108-109, e in RE cit., col. 380-381; Develin, A
Peculiar Restriction on Candidacy for Plebeian Office, in Antichton 15 (1981),
p. 111; Zamorani, op. cit., p. 1 ss., part.te p. 6-8, 14); altri allo stesso
Caio e a suo fratello Marco (v. per es. Mommsen, Staatsrecht cit., I,
p. 487 nt. 2; Scullard, op. cit., p. 276-277; Gardner Moore, op. cit., p. 301
nt. 1; Feig Vishnia, op. cit., p. 289 ss.). La
questione, dal nostro punto di vista, non è priva di rilievo: se
infatti, per ipotesi, fosse stato lo stesso C. Servilio ad effettuare la
transitio, ci troveremmo di fronte al primo caso di pontefice, anzi pontefice
massimo, che abbia volutamente rinunciato, nel corso della propria vita, a quel
patriziato che in un passato non remoto era stato requisito essenziale per
l’accesso stesso ai più importanti collegi sacerdotali, e quindi
all’amministrazione dei sacra. Il problema - che, allo stato delle fonti,
non pare di facile soluzione - dovrà essere affrontato tenendo conto di
altre due testimonianze liviane: anzitutto di 27,21,9-
[180] C. Servilio Gemino, come
già Q. Cecilio Metello, fu edile, rispettivamente plebeo e curule, per
due anni consecutivi, il 209 ed il 208 (cfr. ancora Broughton, op. cit., I, p.
286 e 291).
[182] Riguardo in particolare
a C. Servilio Gemino, v. oltre a Schur, op. cit., p. 130-131, Scullard, op.
cit., p. 78 ss., e Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 638-639 nt. 5, favorevoli
alla rottura dell’alleanza con Scipione, Münzer, RAAF, p. 133 ss.,
spec.te p. 143 ss., e Haywood, op.
cit., p. 56-58, favorevoli al protrarsi di questa stessa alleanza; v. anche
Cassola, op. cit., p. 412-413, che aderisce a questo secondo orientamento, ma
valuta Gemino a prescindere dagli altri membri della sua gens.
[183] V. Liv. 30,26,7-10:
Eodem anno Q. Fabius Maximus moritur, exactae aetatis si quidem verum est
augurem duos et sexaginta annos fuisse, quod quidam auctores sunt. Vir certe
fuit dignus tanto cognomine vel si novum ab eo inciperet. Superavit paternos
honores, avitos aequavit. Pluribus victoriis et maioribus proeliis avus
insignis Rullus; sed omnia aequare unus hostis Hannibal potest. Cautior tamen
quam promptior hic habitus; et sicut dubites utrum ingenio cunctator fuerit an
quia ita bello proprie quod tum gerebatur aptum erat, sic nihil certius est
quam unum hominem nobis cunctando rem restituisse, sicut Ennius ait. Augur in locum eius
inauguratus Q. Fabius Maximus filius: in eiusdem locum pontifex - nam duo
sacerdotia habuit - Ser. Sulpicius Galba.
Riguardo alla citazione di Ennio, che era divenuta proverbiale, v. Ann.
Vahlen³ 370; cfr. Cic. Cato 4,10; off. 1,24,84; Virg. Aen. 6,845-846.
[188] Cfr. Münzer, s.v.
Sulpicius (Galba), n°
[190] Cfr. Scullard, op. cit., p.
86-88, part.te p. 87-88 nt. 3; Schlag, op. cit., p. 150-151; Bauman, op. cit.,
p. 108.
[191] Liv. 30,39,6: T. Manlius
Torquatus pontifex eo anno mortuus; in locum eius suffectus C. Sulpicius Galba.
[192] Cfr. Scullard, op. cit., p. 88
nt. 3; Broughton, op. cit., I, p. 273; per Bardt, op. cit., p. 12 è
altrimenti sconosciuto.
[193] Secondo Münzer,
s.v. Sulpicius (Galba), n°
[194] Cfr. supra; v. anche
Schlag, op. cit., p. 150-151; Szemler, The Priests cit., p. 110-111, ed in RE
cit., col. 381.
[195] Liv. 32,7,15: Ser. et C.
Sulpicii Galbae pontifices eo anno mortui sunt: in eorum locum M. Aemilius
Lepidus et Cn. Cornelius Scipio pontifices suffecti sunt. Qualche errore nella
tradizione testuale del passo, nella quale risultava in particolare omesso il
prenome “C.” (e per la quale v. ad es. Briscoe, A Commentary cit.,
p. 181; Sage, in Livy, IX, ed. Loeb, London-Cambridge, 1953, p. 172 nt. 2), non
insinua alcun dubbio sull’identità del nostro pontefice, che
è confermata da Liv. 30,39,6 e, come tale, accettata da tutta la
dottrina da noi ricordata in queste note.
[196] Cfr. per es Scullard,
op. cit., p. 93-94 nt. 6; Briscoe, Livy cit., p. 1086; Bauman, op. cit., p.
108.
[197] Per la verità in
Liv. 32,7,15 non si specifica esattamente, al contrario di quel che di solito
accade, chi subentri a chi. Ma - anche sulla base dell’unico caso analogo
rinvenibile nelle fonti (Liv. 22,35,1-
[200] V. ancora Broughton, op.
cit., I, risp.te p. 392, 404, 424, 439, 446, 449. Non stupisca il fatto che M.
Emilio Lepido sia stato nominato princeps senatus, per la prima volta, nello
stesso anno in cui occupò la censura. Sebbene infatti, sulla base di
un’antica consuetudine, princeps senatus fosse per lo più
designato il censorius patrizio più anziano (cfr. per es. in dottrina, a
conferma di questo dato, peraltro assai
ampiamente condiviso, Mommsen, Über den princeps senatus, in
Rheinisches Museum 19 (1864), p. 455-457, e Staatsrecht cit., III, 1888, p. 969
ss.; Willems, Le Sénat de la république romaine, I,
Louvain-Paris, 1878, p. 111; Suolahti, Princeps senatus, in Arctos 7 (1972), p.
207-208; Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 656 nt. 4; Bonnefond-Coudry, Le
princeps senatus: vie et mort d’une institution républicaine, in
MEFRA 105 (1993), p. 105 ss.), non erano tuttavia rari i casi in cui i censori,
o il censore al quale per sorte spettava la lectio senatus, rivendicando la
propria libertà di scelta (per lo studio di questa importante questione
giuridica v. soprattutto Liv. 27,11,9-12; Plut. Aem. 38,8-9; cfr. per es.
Willems, op. cit., p. 112 e nt. 4, 115-116, il quale risolve in senso
tendenzialmente negativo il problema del carattere più o meno
vincolante, nei confronti dei censori, di quel mos risalente; Ronconi,
Scardigli, op. cit., p. 656 nt. 4, secondo cui la scelta divenne libera a far
data dalla vicenda descritta da Livio; Bonnefond-Coudry, Le princeps cit., p.
105 ss., per il quale a partire da quel momento il criterio dell’anzianità
fu effettivamente abbandonato, ma la scelta dei censori non divenne per questo
arbitraria), nominavano persone anche diverse, in considerazione della loro
particolare autorevolezza; e fra queste, eventualmente, anche il collega in
carica (mentre casi veri e propri di autonomina, intesa come disposta dal
censore cui specificamente spettava la scelta, e non dal collegio magistratuale
come tale, non risultano attestati nelle fonti, almeno per le ipotesi da noi
prese in esame, dovendosi pertanto rivedere le osservazioni, per es., di
Mommsen, Forschungen cit., p. 93-94, e Staatsrecht cit., III, p. 970 nt. 2,
Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 656 nt. 5, e Bonnefond-Coudry, Le princeps
cit., p. 111 nt. 31, 113, alla luce di questa precisazione). A titolo di
esempio, si considerino i casi di Q. Fabio Massimo (censore nel 230, preferito
a T. Manlio Torquato, censore nel 231, nella lectio del 209; v. Liv.
27,11,9-12; v. anche per es. Willems, op. cit., p. 112 e nt. 4, il quale in
particolare sottolinea il rilievo assunto dalla contrapposizione fra i due
censori, di cui uno era favorevole al rispetto della tradizione, mentre
l’altro, cui per sorte spettava la scelta, intendeva agire liberamente;
Suohlati, Princeps cit., p. 208), di P. Cornelio Scipione Africano (il primo ad
esser nominato princeps dal collega, nel 199, e poi confermato cinque anni
dopo: v. Liv. 34,44,4; v. anche per es. Mommsen, Forschungen cit., p. 93-94, e
Staatsrecht cit., III, p. 970 nt. 2; Willems, op. cit., p. 115; Broughton, op.
cit., I, p. 327 e 343; Sage, in Livy, IX, cit., p. 530 nt. 4; Suohlati,
Princeps cit., p. 208, 214; Weissenborn, Müller, op. cit., VII, p. 156 nt.
4; Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 656 nt. 5; Bonnefond-Coudry, Le princeps
cit., p. 111 nt. 31, 113; Adam, op. cit., p. 186 nt. 3), di L. Valerio Flacco
(nominato princeps nel 184 dall’amico Catone, collega nella censura: v.
Liv. 39,52,1-2; Plut. Cat. ma. 17,1; v. anche per es. Mommsen, Forschungen
cit., p. 93-94; Willems, op. cit., p. 115; Broughton, op. cit., I, p. 375;
Suohlati, Princeps cit., p. 208 nt. 8, 214; Weissenborn, Müller, op. cit.,
IX, p. 113 nt. 1; Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 656 nt. 4; Gouillart, in
Tite-Live, Histoire romaine, XXX, ed. Les Belles-Lettres, Paris, 1986, p. 127
nt. 1; Bonnefond-Coudry, Le princeps cit., p. 111 nt. 31, 112), oltre
naturalmente a quello, qui in esame, di M. Emilio Lepido (nominato dal collega
censore, ed ex-avversario politico, M. Fulvio Nobiliore: v. Liv. 40,51,1; v.
anche per es. Mommsen, Forschungen cit., p. 93-94; Willems, op. cit., p. 115;
Broughton, op. cit., I, p. 392; Sage, Schlesinger, in Livy, XII, ed. Loeb,
London-Cambridge, 1957, p. 156 nt. 2; Suohlati, Princeps cit., p. 208 nt. 8,
214; Gouillart, op. cit., p. 127
nt. 1; Bonnefond-Coudry, Le princeps cit., p. 111 nt. 31). E’ comunque
significativo rilevare che, fra i principes senatus, molti erano pontefici, se
non addirittura pontefici massimi (v. anche supra, riguardo a Cornelio Lentulo
Caudino): ciò probabilmente perché nelle decisioni dei censori
sulla composizione del senato, su cui incidevano considerazioni di ordine
morale, la dignità sacerdotale di cui taluno fosse eventualmente
investito svolgeva un ruolo importante; pur in un’epoca in cui tutto
cominciava a prestarsi a strumentalizzazioni di ordine politico, come,
relativamente al princeps senatus, risulta particolarmente facile osservare nei
casi di nomina da parte del censore collega, ed in particolare in quelli di L.
Valerio Flacco e M. Emilio Lepido, di cui si è detto appena sopra. Per
la dottrina, v. in particolare Bonnefond-Coudry, Le princeps cit., p. 105 ss.,
che svolge argomentazioni sostanzialmente analoghe alle nostre, benché
non faccia menzione della carica di pontefice, ed insista invece su quella di
censore in carica, di per sé già siognificativamente garante del
prestigio della compagine senatoria.
[201] Cfr. Liv. 37,43,1: Praeerat
castris M. Aemilius tribunus militum, M. Lepidi filius, qui post paucos annos
pontifex maximus factus est. Questa
testimonianza di Livio, stimata attendibile da Münzer, RAAF, p. 172,
è interessante perché offre ulteriori spunti di indagine sulla
prosopografia del futuro pontefice massimo. Se è vero che M. Emilio
Lepido aveva, nel 190, un figlio già tribuno dei soldati, è per
l'appunto calcolabile che la sua data di nascita non può che essere
anteriore al 227 (v. Rich, Declaring War in the Roman Republic in the Period of
Transmarine Expansion, Bruxelles, 1976, p. 129; Briscoe, A Commentary on Livy
Books XXXIV-XXXVII, Oxford, 1981, p. 355-356; cfr. Münzer, RAAF, p. 171, che
la colloca intorno al 230): ai tempi della sua ambasceria ad Abido, nel 200, da
Filippo V, doveva essere dunque ancora giovane (certo il più giovane fra
i legati, come attesta Liv. 31,18,1), ma non giovanissimo, come invece potrebbe
evincersi da Pol. 16,34,1, volendo interpretare l’espressione tîn
`Rwma…wn M£rkoj A„m…lioj Ð neètatoj nel
senso pregnante del termine, e non riferito ai soli legati (cfr. per es.
Cassola, op. cit., p. 407 nt. 8). Si tratta, con ogni probabilità, di
un'inesattezza, o di un eccesso retorico, dello storico greco, intenzionato a
rimarcare il coraggio che poi Emilio dimostrò durante l’ambasceria
(cfr. per es. Foulon, Weil, Cauderlier, in Polybe, Histoires, X, ed. Les
Belles-Lettres, Paris, 1995, p. 134 nt. 1), mentre l’attestazione di
Livio pare degna di maggior fiducia: ben difficilmente infatti
l’espressione M. Lepidi filius potrà considerarsi insiticia, visto
che il M. Emilio in questione non è in alcun modo identificabile con lo
stesso futuro pontefice massimo (che allora si trovava a Roma a curare la
campagna elettorale per
il consolato dell'anno successivo: Liv. 37,47,6-7; v. anche Briscoe, A
Commentary cit., 1981, p. 356), e d'altra parte sembra inverosimile che Livio
abbia scambiato per il figlio di M. Emilio Lepido qualche altro suo parente con
lo stesso nome.
[202] V. gli alberi
genealogici della famiglia, ricostruiti da Münzer, RAAF, p. 179, e da
Scullard, op. cit., p. 310; v. anche Cassola, op. cit., p. 378; Szemler, in RE
cit., col. 381; Allely, Les Aemilii Lepidi et l’approvisionnement en
blé de Rome, in REA 102 (2000), p. 31 nt. 16. Cfr. Broughton, op. cit.,
I, p. 225.
[203] V. per es. Klebs, s.v.
Aemilius, n°
[204] Cfr. Liv. 31,2,3-4;18,1;
v. anche, per es., Klebs, in RE cit., col. 553; Scullard, op. cit., p. 94;
Brizzi, Problemi cisalpini e politica mediterranea nell’azione di M.
Emilio Lepido: la creazione della via Emilia, in Studi romagnoli 30 (1979), p. 383;
Gaggiotti, Atrium regium-basilica (Aemilia): una insospettata continuità
storica e una chiave ideologica per la soluzione del problema
dell’origine della basilica, in ARID 14 (1985), p. 67 ss.; Develin, The
Practice cit., p. 266. Non possiamo qui approfondire la questione, assai
discussa in dottrina, relativa alla tutela che M. Emilio Lepido avrebbe
esercitato nei confronti del giovane re Tolomeo: ci limitiamo pertanto a
rinviare, in questa sede, ancora per es. a Gaggiotti, op. cit., p. 67 ss.;
Allely, op. cit., p. 32-33, con le fonti e la letteratura da essi richiamate.
[205] Liv. 31,18,1-4; Pol.
16,34,1-7; v. anche Klebs, in RE cit., col. 553; Scullard, op. cit., p. 94, 237
nt. 3; Cassola, op. cit., p. 407 nt. 8; Gaggiotti, op. cit., p. 69-70; Brizzi,
op. cit., p. 383; Mineo, op. cit., p. 71 nt. 70.
[206] Del resto più
volte, nel corso di questo stesso studio, abbiamo definito
“emiliano-scipioniano” il partito dei Cornelii. V. ancora,
comunque, soprattutto Scullard, op. cit., p. 39 ss.; cfr. per es. Münzer,
RAAF, p. 102, 163, anche in ordine alla particolare frequenza dei matrimoni fra
membri della gens Aemilia e della
gens Cornelia.
[207] Sull’appartenenza
di Emilio ad ambienti filoscipioniani, e perciò ostili alla fazione
contrapposta, v. soprattutto Scullard, op. cit., p. 94, 120, 124; Briscoe, Livy
cit., p. 1083.
[208] V. Liv. 37,47,7 e
38,35,1. Cfr. per es. Münzer, RAAF, p. 203; Scullard, op. cit., p. 135,
138; Develin, The Practice cit., p. 167-168; v. anche supra,
sull’amicitia e inimicitia, in generale, fra uomini pubblici romani.
[209] Su entrambe queste
imprese v. Liv. 39,2,7-11; cfr. per es. Klebs, in RE cit., col. 552-553;
Scullard, op. cit., p. 141; Cassola, op. cit., p. 278; Brizzi, op. cit., p. 381
ss.; Gaggiotti, op. cit., p. 67; Develin, The Practice cit., 193, 280.
[210] Circa la riconciliazione
tra i due, che vi addivennero per spartirsi il potere, v. soprattutto
Münzer, RAAF, p. 201; Scullard, op. cit., p. 180 ss.; Develin, The
Practice cit., p. 194 e Morgan, op. cit., p. 366, i quali in particolare
rilevano il ruolo di utile mediatore che nella vicenda potrebbe aver svolto il
pontefice Q. Cecilio Metello.
[212] V. Liv. Per. 48: M.
Aemilius Lepidus, qui princeps senatus sextis iam censoribus lectus erat,
antequam expiraret, praecepit filiis, lecto se strato linteis sine purpura
efferrent; in reliquum funus ne plus quam aeris decies consumerent, imaginum
specie, non sumptibus nobilitari magnorum virorum funera solere; cfr. Cic. Cato
17,61. Per la dottrina, v. ad es. Bardt, op. cit., p. 4, il quale, argomentando
circa il periodo in cui sono ricompresi gli eventi narrati in Liv. Per. 48,
preferisce forse collocare la morte di Lepido nel 154 o nel 153 (orientamento,
questo, tendenzialmente rigettato in età più recente); Klebs, in
RE cit., col. 553, che opta per il 153-152; Münzer, RAAF, p. 177, che
indica il 152; Broughton, op. cit., I, p. 454, che indica senz’altro il
152; Szemler, The Priests cit., p. 111-112, ed in RE cit., col. 346, 382, che
indica il 152; Jal, in Abrégés des livres de l’histoire
romaine de Tite-Live, XXXIV,1, ed. Les Belles-Lettres, Paris, 1984, p. 121 nt.
12, secondo cui la morte risale al 153-152; Gaggiotti, op. cit., p. 66, 72, che
è dello stesso avviso.
[213] Liv. Per. 48. Questo fu
indubitabilmente un funerale privato, come già anticipavamo supra, a
proposito di quello di P. Licinio Crasso.
[214] Ciò, nonostante
una breve vacanza dell’incarico, che ha talora suscitato in dottrina
qualche perplessità. Sull’argomento, che esula dall’ambito
della nostra indagine, ci limitiamo a rinviare qui, oltre che a Liv. Per.
[215] Liv. 32,7,15. V. anche
le considerazioni fatte supra,
circa l’avvicendamento, in quello stesso anno, di M. Emilio Lepido
a Ser. Sulpicio Galba, simmetricamente riferibili a quello di Cn. Cornelio
Scipione a C. Sulpicio Galba. Cfr. Bardt, op. cit., p. 10-11; Szemler, in RE
cit., col. 382.
[216] Il cognome Ispallo non
risulta per la verità dalla succitata fonte, relativa alla sua
cooptazione, bensì da Liv. 41,14,4 (ove si riferisce dell’elezione
a console del nostro pontefice); v. anche comunque Münzer, s.v. Cornelius,
n°
[218] Liv. 41,16,3-4: Accesserat ad
religionem, quod Cn. Cornelius consul, ex monte Albano rediens, concidit, et,
parte membrorum captus, ad Aquas Cumanas profectus ingravescente morbo, Cumis
decessit. Sed
inde mortuus Romam allatus, et funere magnifice elatus sepultusque est. Pontifex idem fuerat.
[220] Riguardo alle parentele,
occorre ricordare che l’Ispallo - cooptato nel collegio pontificale a
preferenza, come allora si usava, del pur eminente fratello minore Nasica (v.
anche per es. Hahm, op. cit., p. 82), padre del futuro pontefice massimo P.
Cornelio Scipione Nasica Corculum -, era figlio di quel Cn. Cornelio Scipione
Calvo che col fratello Publio, padre dell’Africano, morì in
Spagna. Cfr. in proposito, per es., Münzer, s.v. Cornelius, in RE cit.,
col. 1492-1493, e RAAF, p. 102 (ove compare un albero genealogico); Scullard,
op. cit., p. 179 nt. 3, e 309 (albero genealogico); Hahm, op. cit., p. 82-83;
Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 494; Mineo, op. cit., p. 71 nt. 71.
[221] Liv. 33,42,5: Eodem anno
duo mortui pontifices novique in eorum locum suffecti, M. Marcellus consul in
locum C. Sempronii Tuditani, qui praetor in Hispania decesserat, et L. Valerius
Flaccus in locum M. Cornelii Cethegi.
[222] Ci sia qui consentito
solo di aggiungere che, in un’epoca in cui era divenuta particolarmente
frequente la cooptazione di giovani, che erano all’inizio della carriera
politica, è forse plausibile pensare che l’ingresso di Sempronio
risalga di qualche anno rispetto alla sua pretura: cfr. Szemler, The Priests cit.,
p. 112; v. anche quanto dicevamo supra, circa le scarse probabilità di
sopravvivenza di un personaggio eminente come Fulvio, nel silenzio delle
fonti.
[223] V. Bardt, op. cit., p.
10; Szemler, The Priests cit., p. 112, ed in RE cit., col. 382. Cfr. Broughton,
op. cit., I, p. 305 e 372, risp.te
sul consolato del 204 e del 185.
[224] Cfr. Broughton, op. cit., I,
p. 333. Sull’incarico conferitogli
di recarsi in Spagna v. Liv. 32,28,2; v. anche App. Iber. 39.
[225] Benché in Liv.
33,42,5 semplicemente si dica che egli era morto in Spagna da pretore, nessun
dubbio sussiste sulla proroga dei suoi poteri, che risulta da Liv. 33,25,9, ove
addirittura Sempronio viene indicato come
proconsole (ciò che corrispondeva all’uso, invero molto
particolare, invalso per i governatori delle province spagnole: cfr. Jashemski,
The Origins and History of the Proconsular and Propraetorian imperium to 27
B.C., Chicago, 1950, p. 41-44, 46-47, con la risalente letteratura ivi
richiamata; Kloft, Prorogation und ausserordentliche Imperien 326-81 v. Ch. Untersuchungen zur
Verfassung der römischen Republik, Meisenheim am Glan, 1977, p. 39): in
proposito, v. per es. Münzer, s.v. Sempronius (Tuditanus), n°
[226] C. Sempronio Tuditano non
è facile, per la verità, da collocare tra le varie fazioni che
caratterizzavano allora la vita politica. Non vi è accordo, infatti, in
dottrina circa gli orientamenti politici assunti dai Sempronii Tuditani in quel
periodo: vi è chi li ritiene senz’altro membri del gruppo
claudiano-serviliano (Scullard, op. cit., p. 37, 94, 136, 150 ss.), chi
addirittura del partito scipioniano (Schur, op. cit., p. 48-49, 71).
Convincenti, perché basate su di un esame attento delle fonti, ci
sembrano, in proposito, le argomentazioni di Cassola, op. cit., p. 406 e 407
nt. 8, il quale - pur sostenendo le ascendenze conservatrici, non certo
scipioniane, dei Sempronii Tuditani (cfr. Münzer, s.v. Sempronius, in RE
cit., col. 1443-1445) - rileva nella condotta dei familiari del nostro
pontefice, e in particolare in quella del più famoso di essi, Publio,
elementi di forte ambiguità.
[227] V. Plut. Flam. 18,2; cfr. Marc.
29,11;15. V. anche Bardt, op. cit., p.
10; Münzer, s.v. Claudius, n°
[228] Liv. 41,13,4: Pontifex eo anno
mortuus est M. Claudius Marcellus, qui consul censorque fuerat. In eius locum
suffectus est pontifex filius eius M. Marcellus.
[229] Cfr. Broughton, op. cit., I,
risp.te p. 330, 335, 360. Si osservi che
la sua nomina all’interno del collegio risale all’anno del suo
consolato: tale evenienza era formalmente possibile, non sussistendo ovviamente
alcuna incompatibilità tra le due cariche, ma comunque assai rara, ed
anzi la sola nel periodo oggetto del nostro studio (cfr. l’elenco
cronologico dei pontefici contenuto infra, in questo stesso capitolo).
Ciò, probabilmente, in ragione del fatto che, essendo i consoli in
carica presi di solito da tutt’altre incombenze, si preferiva evitarne la
cooptazione nel corso dell’anno: cfr. in proposito Szemler, The Priests
cit., p. 191.
[230] V. per es. Scullard, op.
cit., p. 56 ss.; Cassola, op. cit., p. 20, 193, 222-228, 274-275, 284-285,
295-297, 301, 314 ss., 363, 369, 405, 411, 425-427.
[231] V. soprattutto Scullard,
op. cit., p. 104 nt. 4, 106, 114, 122, 137, 165 ss., 284, secondo il quale
Marcello fu esponente dell’ala più liberale del vecchio partito
fabiano, di cui può considerarsi un epigono, mentre Catone e Valerio
Flacco furono i reazionari veri e propri; sempre, personalmente, avversario di
Scipione, si avvicinò in seguito alle posizioni del partito intermedio.
V. anche Münzer, RAAF, p. 118; Cassola, op. cit., p. 427 e nt. 40, secondo
il quale, invece, pur non appartenendo al loro partito, Marcello fu
all’occorrenza disponibile a collaborare con gli Scipioni.
[233] Cfr. Nep. Cato 1,1; Plut.
Cat. ma. 3,1-4; Vir. ill. 47,1. Cfr. per es. Münzer, RAAF, p. 191, e s.v.
Valerius Flaccus, n°
[234] Sulla riorganizzazione
del partito conservatore, di cui già in precedenza si è fatto
più volte cenno, e sul ruolo che, con Catone, vi ebbe L. Valerio Flacco,
cfr. per es. Münzer, RAAF, p. 191; Scullard, op. cit., p. 110 ss., 137;
Cassola, op. cit., p. 17, 334-335, 347-348, 392.
[235] Cfr. Münzer, RAAF,
p. 191, e s.v. Valerius Flaccus, in RE cit., col. 17; Scullard, op. cit., p.
17, 104-105 e nt. 5, 111; Cassola, op. cit., p. 334-335, 348. Circa la lunga
contrapposizione tra il pontefice massimo P. Licinio Crasso, di parte
scipioniana, ed il flamine C. Valerio Flacco, fratello del pontefice cooptato
nel 196.
[238] Cfr. Broughton, op. cit., I,
p. 374. Sul carattere proverbialmente
severo della censura del 184 - dalla quale peraltro Catone derivò
l’epiteto di Censor - non vale la pena qui di soffermarsi, tanto è
noto il tema in questione: ci limitiamo pertanto, in questa sede, a rinviare a
Cic. Cato 19; Nep. Cato 2,3; Liv. 39,42,5-44,9; Val. Max. 2,9,3; 4,5,1; Plut.
Cat. ma. 17-19; Flam. 18,3-19,4; Vir. ill. 47,4; 53,2.
[239] V. ancora Broughton, op.
cit., I, p. 375. Sull’incarico di princeps senatus, al quale Valerio fu
designato l’anno stesso della sua censura, e per di più in luogo
dell’avversario Scipione.
[240] Cfr. Liv. 40,42,6: Inter
multos alios, quos pestilentia eius anni absumpsit, sacerdotes quoque aliquot
mortui sunt. L. Valerius Flaccus pontifex mortuus est: in eius locum suffectus
est Q. Fabius Labeo.
[243] E’ forse qui
opportuno far cenno del sacerdote che succedette a Crasso: ciò, facendo
eccezione al principio che, sul piano cronologico, ha ispirato la nostra
indagine prosopografica, e proprio in considerazione del fatto che, essendogli
subentrato nel collegio, egli ebbe, sul piano storico, un non trascurabile
legame con il nostro pontefice massimo. Si tratta di M. Sempronio Tuditano (v.
Münzer, s.v. Sempronius, n°
[244] Vale la pena qui di far
cenno anche della vicenda che portò all’elezione del nuovo
pontefice massimo: ciò, per la medesima ragione che adducevamo alla nota
precedente, ma anche perché in tale vicenda furono senz’altro
implicati pontefici che hanno formato oggetto della nostra indagine. Secondo
Münzer, RAAF, p. 147, i candidati alla carica di capo del collegio, nel
183, furono probabilmente tre (analogamente a quanto era accaduto nel 212): Q.
Cecilio Metello, il più vecchio pontefice plebeo, Cn. Servilio Cepione,
il più vecchio patrizio, e C. Servilio Gemino, il quale riuscì a
prevalere (sebbene fosse appunto il più giovane per anzianità di
carica, essendo stato cooptato nel 210, mentre Metello e Cepione lo erano stati
nel 216 e nel 213. Tale ipotesi, che pur non trova diretto riscontro nelle
fonti, sembra anche a noi plausibile, considerata la composizione del collegio
nel 183 (per la quale si veda meglio infra, in questo capitolo), ove per varie
ragioni è difficile identificare un pontefice con maggiori referenze dei
tre succitati. Meno convincenti ci paiono invece le argomentazioni con cui lo
stesso Münzer, RAAF, p. 147, cerca di spiegare i motivi per cui la scelta
delle tribù cadde su Servilio Gemino, i quali, con gli elementi di cui
disponiamo, non sono facili da chiarire. Per M. infatti Servilio fu considerato
un candidato più rappresentativo degli altri due perché, essendo
patrizio di origine ma ormai plebeo di fronte alla legge, era riuscito a
procacciarsi molte amicizie e clientele in quegli ambienti plebei che, a
prescindere dagli schieramenti di partito, avevano guardato con simpatia alla
transitio sua o del padre (in proposito, cfr. supra); ora però, pur
riaffermando il rilievo che sul piano formale certo rivestì
l’evento dell’ingresso nel collegio pontificale di un patrizio
d’origine passato ai plebei, a noi pare francamente difficile pensare che
ciò abbia potuto influire in maniera sostanzialmente determinante sulle
scelte politiche di Servilio Gemino (per le quali cfr. d’altronde supra),
e addirittura sull’esito dell’elezione a pontefice massimo, dal
momento che a quell’epoca le rivalità tra patrizi e plebei si
erano del tutto sopite. Più persuasive ci sembrano, di primo acchito, le
argomentazioni di altri autori - come per es. Scullard, op. cit., p. 167, o,
assai più esplicitamente, Ronconi, Scardigli, op. cit., p. 638-639 nt.
5, e Adam, op. cit., p. 176 nt. 4 -, i quali, puntando invece sulla dialettica
a noi familiare tra le varie fazioni che si contendevano a Roma il primato,
vedono le ragioni del successo di Servilio Gemino nell’appoggio ricevuto
dal potentissimo clan cui apparteneva, che in quel periodo poté
approfittare delle difficoltà in cui versavano gli antichi alleati
scipioniani (fra i quali, lo ricordiamo, lo stesso Cecilio Metello), colpiti
dalle violente campagne di Catone (col collega Cn. Servilio Cepione,
aggiungeremmo noi, potrebbe essere intervenuto un previo accordo). Comunque siano
andate le cose sotto questo profilo, è da sottolineare il fatto che alla
carica di pontefice massimo, sommo garante della tradizione romana, viene nel
183 elevato un personaggio che faceva parte anche del collegio decemvirale, al
quale era da sempre affidata,
invece, l’introduzione di culti
stranieri in Roma:
ciò che la dice lunga sul grado di ellenizzazione ormai raggiunto dalla
religione romana.
[245] Per un prospetto
cronologico relativo agli avvicendamenti occorsi nel collegio, a partire dal
216, cfr. Bardt, op. cit., p. 10-11.
[246] Con questa espressione
deve intendersi che la cooptazione è avvenuta nello stesso anno: le
fonti non ci offrono infatti alcuna garanzia riguardo alla possibilità
di determinare la precedenza di un avvicendamento rispetto all’altro,
nell’arco dello stesso anno. Ciò perché, come già in
precedenza osservato, Livio attinge, per questo genere di notizie, da fonti
annalistiche, e riferisce dei decessi e delle sostituzioni, nell’ambito
dei collegi sacerdotali, alla fine di ogni anno. Nessun rilievo - se non oltremodo vago -
può poi attribuirsi, a nostro avviso, al fatto che in consimili elenchi
si riferisca degli avvicendamenti secondo un ordine di precedenza particolare.
[247] Ciò, con
riferimento ad anni diversi (cfr. nota precedente), per i quali ci manchi
tuttavia la possibilità di effettuare adeguati riscontri nelle fonti,
stante soprattutto la perdita della seconda decade dell’opera liviana: si
tratta pertanto di pontefici la cui cooptazione è anteriore al 218.
[248] Non abbiamo rinvenuto,
in dottrina, elenchi di pontefici riferibili propriamente all’anno 212:
ci limitiamo a segnalare qui quello redatto da Scullard, op. cit., p. 58 nt. 1,
relativo al 216; cfr. Münzer, RAAF, p. 80.
[249] In ciò rispettando
la preferenza da noi accordata all’ipotesi che si tratti di Manio, e non
di Marco, Pomponio Matone.
[251] V. per quest’anno
l’elenco dei pontefici stilato da Broughton, op. cit., I, p. 282, al
quale il nostro risulta perfettamente rispondente, anche nella distinzione fra
patrizi e plebei.
[253] Ricordiamo qui che la
data di morte del pontefice Q. Fulvio Flacco è sconosciuta, ma certo non
anteriore al 205.
[254] Abbiamo già
inserito il nome di C. Sempronio Tuditano, e quello di Q. Fulvio Flacco solo
tra parentesi - pur con il punto interrogativo, a conferma della grande
incertezza che regna in materia -, al solo scopo di tener fede alla leggera
preferenza da noi accordata all’ipotesi di una risalente scomparsa di
Fulvio.
[255] Per quest’anno
cfr. l’elenco dei membri del collegio stilato da Schlag, op. cit., p.
150, secondo cui l’avvicendamento tra Fulvio e Sempronio era già
avvenuto; v. anche quello redatto da Scullard, op. cit., p. 87 nt. 3, che
invece non prende neppure in considerazione tale ipotesi.
[256] Per quest’anno
cfr. l’elenco dei membri del collegio stilato da Briscoe, Livy cit., p.
1086 nt. 58, secondo cui l’avvicendamento tra Fulvio Flacco e Sempronio
Tuditano si era senz’altro già verificato.
[257] Come dicevamo, la
cooptazione di C. Sempronio Tuditano non può essere successiva al 197,
dato che per l’anno successivo egli è sì menzionato da Livio,
ma in ragione della sua sola morte.
[258] Si ricorda che quello di
M. Claudio Marcello è l’unico caso, riscontrabile in questo
periodo, di cooptazione di un console in carica.
[259] Per quest’anno, al
quale risale la famosa repressione dei Baccanali, v. l’elenco dei membri
del collegio stilato da Rousselle, The Roman Persecution of the Bacchic Cult,
186-180 b. C., Diss. New York, 1982, p. 65, che molto si dilunga anche sulle
rispettive carriere ed appartenenze politiche.
[260] Cfr. supra. Occorre infine
rilevare che sono rinvenibili, in dottrina, elenchi di pontefici relativi ad
anni di poco successivi alla scomparsa di Crasso, ossia il 180 (v. Scullard,
op. cit., p. 180 nt. 2) ed il 179 (v. Broughton, op. cit., I, p. 393),
allorché la compagine pontificale, che risulta del tutto invariata,
doveva probabilmente esserlo anche rispetto al 183, se si eccettuano i casi,
fra i patrizi, di Q. Fabio Labeone in luogo di L. Valerio Flacco (cfr. supra),
e, fra i plebei, di M. Sempronio Tuditano e Q. Fulvio Flacco in luogo di P.
Licinio Crasso e C. Servilio Gemino (cfr. supra).
[261] Molto più
direttamente illuminante, sul tema in questione, sarebbe stato il riscontro
degli avvicendamenti intervenuti all’interno del collegio nel corso del
III secolo, con particolare riferimento ai suoi primi decenni, anziché
nel periodo a cavallo fra il III ed il II secolo; ma tale indagine, come
già dicevamo in precedenza, ci è preclusa dalla pressoché
totale mancanza di fonti.
[262] Esso è compreso
fra il 221 e il
[263] Esso ebbe una durata di
soli tre anni, dal 183 al 180 (cfr. supra), durante i quali si verificarono,
fra i pontefici, gli avvicendamenti, di cui abbiamo riferito supra, e dal cui
esame è agevole trarre conferma di quanto abbiamo detto nel testo. Per
un elenco dei pontefici presenti nel collegio durante l’anno 180 v.
ancora, comunque, Scullard, op. cit., p. 180 nt. 2.
[264] Esso è compreso
fra il 180 e il
[265] Indiretto, per le
ragioni esposte supra, ed avendo riguardo alle osservazioni contenute nella
nota immediatamente successiva a questa.
[266] Sulla lex Ogulnia v.
Liv. 10,6,6 (Rogationem ergo promulgarunt ut, cum quattuor augures quattuor
pontifices ea tempestate essent, placeretque augeri sacerdotum numerum,
quattuor pontifices, quinque augures, de plebe omnes, allegerentur) e 10,9,2
(Pontifices creantur suasor legis P. Decius Mus, P. Sempronius Sophus, C.
Marcius Rutilus, M. Livius Denter; quinque augures item de plebe, C. Genucius,
P. Aelius Petus, M. Minucius Faesus, C. Marcius, T. Publilius. Ita octo
pontificum, novem augurum numerus factus), da cui per la verità risulta
che i pontefici furono portati ad otto, da quattro che erano. Ma già
Bardt, op. cit., p. 10-11, 32, aveva dimostrato che essi in seguito si trovano sempre in numero di nove, ciò
che è confermato pressoché unanimemente anche da studi più
recenti (v. per. es. De Sanctis, op. cit., II, p. 223 e nt. 1; Wissowa,
Religion und Kultus der Römer², München, 1912, p. 503 nt. 4;
Hahm, op. cit., p. 73; Guizzi, s.v. Pontefice, in ED 34 (1985), p. 244; cfr.
Broughton, op. cit., I, p. 282 e 393; Scullard, op. cit., p. 58 nt. 1, 87 nt.
3, 180 nt. 2), oltre che dal nostro prospetto, sopra riportato. Come risolvere
il problema? Si è sostenuto che si tratta semplicemente di un errore di
Livio, o perché furono aggiunti cinque pontefici, non quattro (v. per es.
Mommsen, Staatsrecht cit., II, p. 22 nt. 1; Bleicken, op. cit., p. 364 e nt.
3), o perché cinque erano quelli preesistenti (come potrebbe fra
l’altro evincersi da una testimonianza in palese contrasto con quella
liviana, ossia da Cic. rep. 2,14,26, secondo cui Numa avrebbe in origine
fissato a cinque il numero dei pontefici: v. per es. De Sanctis, op. cit., II,
p. 223 e nt. 1, il quale peraltro ipotizza che, in conformità al dettato
della stessa legge Ogulnia, ai quattro plebei ne sia stato in seguito aggiunto
un altro, allorché nel collegio si rese vacante uno dei posti patrizi;
Wissowa, Religion cit., p. 503 nt. 4; Pareti, Storia di Roma e del mondo
romano, II, Torino, 1952, p. 77-78 e nt. 6; Wolf, ‘Comitia, quae pro
conlegio pontificum habentur’. Zur Amtsautorität der Pontifices, in Das
Profil der Juristen in der europäische Tradition. Symposion Wieacker, Ebelsbach, 1980, p. 1 nt. 2; Van
Haeperen, op. cit., p. 108 ss.); oppure che, fermi restando gli otto del 300,
un altro pontefice fu incluso in seguito, entro il 218 (v. per es. Lange, op.
cit., p. 371-372, secondo cui la cosa poté avvenire in coincidenza della
nomina di Ti. Coruncanio primo pontefice massimo plebeo; Mommsen, Staatsrecht
cit., II, p. 22 nt. 1, il quale, come soluzione alternativa a quella
dell’errore di Livio, ipotizza che l’inserimento del nono pontefice
sia avvenuta in coincidenza della riforma che introdusse l’elezione del
pontefice massimo da parte delle diciassette tribù; De Sanctis, op.
cit., II, p. 223, che a sua volta ritiene plausibile questa ipotesi, in
alternativa all’altra da lui sostenuta; D’Ippolito, Giuristi cit.,
p. 95, il quale pare decisamente preferire questo orientamento); oppure che nei
passi sopra riportati non si tiene conto del pontefice massimo, che poteva
indifferentemente essere patrizio o plebeo (v. per es. Latte, op. cit., p. 197 nt. 1;
Szemler, Religio, Priesthoods and Magistracies in the Roman Republic, in Numen
18 (1971), p. 113 nt. 73, e The Priests cit., p. 29 nt. 1; Hölkeskamp, op.
cit., p. 59; Beard, North, Pagan Priests. Religion and Power in the Ancient
World,
[267] Cfr. Lange, op. cit., p.
369-370; Wissowa, Religion cit., p. 492; Taylor, Caesar’s Colleagues in
the Pontifical College, in AJPh 63 (1942), p. 407-408; Szemler, The Priests
cit., p. 29 nt. 1, ed in RE cit., col. 347.
[270] Così era infatti,
come noto, per le magistrature, e per lo stesso consolato: cfr. Liv. 7,42,2; v.
anche, ad es., per tutti, De Martino, op. cit., I, p. 381 ss.; Talamanca,
Lineamenti di storia del diritto romano, Milano, 1989, p. 124, pur con la
sottolineatura del rilievo che, nelle varie epoche, ebbero in ciò le
diverse consuetudini (analogamente a quel che avvenne, del resto, per i
sacerdoti, come ora subito diremo, nel testo e nella nota successiva a questa).