Giove Capitolino nello spazio
romano
Genova
Sommario: 1. Nascita dello spazio romano
per volontà di Giove (Romolo inaugurato Rex. L’assenso al
tracciamento del pomerio e la nascita dell’Urbs). – 2. Valore particolare del
Campidoglio/Mons Saturnius nella geografia sacra (L’oracolo di Dodona ai
Pelasgi. I culti precapitolini). – 3. Miti e simboli capitolini
del futuro spazio-temporale romano (Terminus
e il caput humanum. Il miliario
d’oro di Augusto). – 4. Funzione
“politica” di Giove ed erezione del Tempio Capitolino. –
5. La
realtà divina della Res Publica. – 6. I Capitolia nello spazio romano, come manifestazione di lealismo e
identificazione civica. – 7. Epilogo (da Diocleziano alla
battaglia del Frigido).
Quando nasce e
perché nasce lo spazio romano? Questa è la prima domanda che
dovremo rivolgerci affrontando l’argomento proposto alla vostra
attenzione. Ebbene, si può affermare con sicurezza che lo spazio romano
(e quindi la futura realtà di Roma) nasce per un atto di volontà
nella mente di Giove (non ancora Captolino …) ed a coronamento delle
operazioni augurali di Romolo: sì che si può dire che lo spazio,
e il tempo, romani sono correlati alla divina realtà di Giove ab origine
in virtù di un patto primordiale, quello che i Romani chiamarono pax deorum.
L’inaugurazione
di scelta circa il regnum,
l’auspicazione del dies natalis
e l’inaugurazione di approvazione del pomerio, sono tutte operazioni che
il Fondatore compie col beneplacito di Iuppiter,
«il Dio degli auguria e degli auspicia»[1].
Come è stato
autorevolmente detto, «il ‘punto dello spazio-tempo’ in cui
si inizia la vita del populus Romanus
Quirites» è contrassegnato dalla volontà di «Iuppiter grazie all’opera del rex-augur Romolo sul colle Palatium e nel giorno dei Palilia: 21 aprile, dies natalis», derivandone che «aspetto spaziale ed aspetto
temporale del sistema giuridico-religioso romano hanno un punto
d’incontro, all’origine, nell’azione augurale di
Romolo»[2].
«Giove!»
– fa dire Livio al Fondatore nel momento più pericoloso della
guerra con i Sabini – «qui sul Palatino per ordine dei tuoi uccelli
ho gettato le prime fondamenta della città»[3].
E Giove, il padre
Marte e Vesta Mater egli avrebbe
soprattutto invocato nel momento di tracciare il solco secondo Ovidio, per il
quale l’approvazione del tracciamento del solco, cioè del luogo del
pomerio, è richiesta sul luogo stesso[4],
cui segue l’approvazione divina, rappresentata dal tuono e dal fulmine
proveniente dalla parte sinistra del cielo[5].
Non si può
dunque prescindere dal primigenio e fondamentale fas di Giove per intendere il potere del primo rex, come base del potere di tutti i magistrati che opereranno
nello spazio romano a partire da quel momento.
Ma quando verrà associato il nome di
Giove a quello del Campidoglio, colle non compreso nel primo pomerio? Il
processo è stato molto lungo, ma molto significativo, per cui, per
intendere bene questa associazione, sarà opportuno riviverne le tappe
più indicative. Varrone – che ha tra le sue fonti Ennio[6]
– scrivendo della Rupe Tarpea, poi compresa nel colle Capitolino cui
è contigua, riporta che «secondo la tradizione questo colle era
chiamato un tempo ‘di Saturno’ … Si legge che su questo colle
c’era un’antica città chiamata Saturnia, di cui rimangono
tre ricordi…»[7].
L’archeologia ha dimostrato da tempo la consistenza di Saturnia e in corrispondenza del margine
orientale del pianoro del colle scavi effettuati sotto il Tabularium hanno
restituito reperti risalenti almeno al Bronzo Recente, oltre a materiali di
fasi immediatamente successive. Anche nel racconto di Virgilio, il re arcade
Evandro ne indicava ad Enea i resti diruti, «reliquie e ricordi degli
uomini antichi»[8],
aggiungendo che «su questo colle dalla cima frondosa / abita un dio (si
ignora chi sia); credono gli Arcadi / d’aver veduto Giove medesimo quando
scuote l’egida nera / per le tempeste, come fa spesso, e con la destra
scatena uragani»[9].
Fa qui la sua prima comparsa il nome di Giove, nel dominio, si può dire,
ancora del suo padre Saturno. Ed occorre ora ricordare che la nozione di umbilicus Italiae, trattata da Varrone
nella perduta sistematica delle Antiquitates
rerum divinarum e riferitaci da Plinio[10],
dà rilievo al lago di Cotilia, nell’ager Reatinus, centro di
più ondate migratorie delle popolazioni italiche, secondo Catone[11],
e questo speciale centro simbolico viene messo in maniera esplicita in rapporto
col mons Saturnius, cioè col
Campidoglio, poiché così afferma un antichissimo oracolo preellenico,
quello di Dodona in Epiro. Il dio di Dodona (che poi altri non è che
Zeus o, addirittura, secondo il linguista Ribezzo, un protolatino Iuppiter Quercus)[12]
così prescriveva ai Pelasgi in procinto di migrare: «Andate in
cerca della terra Saturnia dei Siculi e degli Aborigeni …»[13].
Nell’orientamento sacro dei tempi
più antichi veniva dunque rilevato un nesso concettuale tra umbilicus Italiae e Campidoglio, non
lungi da dove, nel sottostante Comitium,
il mundus, centro qualitativo e non
geometrico dell’urbs
(identificato dal Coarelli con quel singolare monumento, di cui rimangono
resti, definito significativamente umbilicus
Urbis)[14],
contribuisce a «mettere in evidenza il nesso fra spazio e tempo»,
poiché «il centro religioso dello spazio è anche il punto iniziale
della storia del popolo romano»[15].
Ragione per cui non stupisce che sul colle,
già molto prima dell’edificazione del grande tempio dei Tarquini,
il flamen Dialis, la cui carica,
risalendo a Numa, preesisteva al culto capitolino, ad ogni Idus del mese sacrificasse un ovis
idulis, «un agnello delle Idi», a Giove, molto probabilmente
là dove, almeno dai tempi di Numa, sorgerà, di lato al santuario
di Giunone Moneta (già aedes
di Tito Tazio) l’auguraculum o templum augurale, indispensabile per inaugurare, col consenso di Giove, i
re e i flamini maggiori, e donde lo sguardo spaziava (e spazia tuttora) libero
in direzione della vetta di Monte Albano, sede del culto di Iuppiter Latiaris. Sull’altro
rilievo del colle, volto al Tevere, una sacra quercia era stata dedicata allo
stesso Giove (secondo la tradizione il primo luogo consacrato di Roma al di
fuori del pomerio), divenuta quindi un fanum
e secoli dopo un tempio a Giove Feretrio, conservante le spoglie opime tratte
da Romolo al re di Caenina Acrone,
là dove poi sarà custodito lo scettro di verbena e la pietra di
selce (lapis silex) che i Feziali
recheranno con sé a garanzia e segno di autorità e potenza
conferite ai Romani dal dio sovrano. Infatti il Giove del più antico calendario
romano – quello detto “di Romolo”, di dieci mesi –
probabilmente Iuppiter Feretrius, ha già un carattere
sovrano, ma non ancora Ottimo Massimo, pur avendo come compagni subordinati Mars e Quirinus. Al primordiale sacello di Giove Feretrio (i cui resti
sarebbero stati individuati sotto la sala della Protomoteca) culminava il
più antico trionfo, o ovatio,
che si svolgeva lungo
Dopo Romolo e Tito
Tazio, non pare fortuita la circostanza che proprio sul Campidoglio gli
esponenti della nuova regalità etrusca, i Tarquini, avessero volto lo
sguardo per farne la sede grandiosa del dio sovrano. Quelle particolari valenze
che già abbiamo visto connettersi al colle si rafforzeranno, acquistando
un nuovo e intenso significato, reale e simbolico a un tempo.
Nel racconto di Livio,
che Giulia Piccaluga giustamente ritiene avere «a che fare con miti
autentici, parte integrante di una tradizione, tendenti a fondere nei suoi vari
aspetti una precisa realtà»[16],
si tratta, com’è noto, della mancata exaugurazione del fanum del dio Terminus, risalente a Tito Tazio (poi inglobato nell’edificio
templare di Giove Ottimo Massimo e sub
divo), interpretato come annuncio di
perpetua stabilità, e del rinvenimento, negli scavi per le fondamenta
del tempio, di un caput humanum, considerato dai vati e dagli
aruspici divino preannuncio che «quella sarebbe stata la rocca
dell’impero e il capo del mondo»[17].
Ora, le basi del diritto costituiscono la creazione di portata più
universale della civiltà romana e poggiano appunto innanzitutto sul rispetto dei limiti. La festa (di fine
anno) dedicata a Terminus, i Terminalia del 23 febbraio, era volta a
celebrare tutto ciò: sul piano privato, tra i proprietari di due campi
confinanti, su quello pubblico, presso un cippo collocato ai più antichi
confini dell’ager Romanus, sulla via Laurentina, ad sextam lapidem (
All’interno del
Tempio di Giove, la stabilità di Terminus
e la garanzia del caput humanum
fondano il destino di Roma e dei suoi abitanti, fissandoli per sempre al Capitolium, il “colle del
capo”[19].
Sino a che esisterà il tempio di Giove e il suo immobile cippo i Romani
saranno detentori di un imperium sine fine, annunciato loro dallo steso dio
sovrano, che in Virgilio non pone esplicitamente limiti di spazio e di tempo:
His ego
metas verum nec tempora pono / imperium sine fine dedi[20].
E il pontefice massimo Augusto, facendosi
interprete della volontà divina, farà costruire in puro oro (il
metallo dell’età delle origini, che emana da Saturno padre di Giove)
il teminus miliarius ai piedi del
Campidoglio, punto di partenza verso tutti gli itinerari del mondo. Si trattava
di conciliare l’inamovibilità del terminus con la mobilità del confine romano, ovvero con la
concezione di una Roma che non conosce confini: cosa che avviene con la
conquista misurata radialmente mediante pietre miliari. Lo spazio romano era
infatti misurato dalla distanza dal Campidoglio delle vie che si irradiavano
dalla città. Così le pietre miliari che fornivano la lunghezza
viaria «sostituivano il confine o fornivano, di volta in volta, il
confine ideale e provvisorio. La pietra miliare era inamovibile come si
conviene a un terminus, però
il confine era prorogabile perché nessuna pietra miliare era mai
l’ultima»[21].
Come si è
già visto, sin dagli inizi Giove appare come un dio sovrano ed
elargitore di sovranità. Ciò bene accentua la sua forte
caratterizzazione “politica” che lo diversifica dall’Essere Supremo
celeste di tradizione indoeuropea (vedi il sanscrito Dyāuh Pitá),
di cui peraltro rimangono tracce nella figura e nei compiti sacerdotali del flamen Dialis (da dius,
“cielo”: Giove era detto un tempo Diespiter, ci ricorda Varrone)[22], ma anche dai vari
Giove italici – compreso il Latiaris
di Monte Albano – che, scesi dal cielo alla terra, scelgono, al
più, come sito privilegiato delle loro manifestazioni, l’atmosfera
o la cima di certe montagne.
Il Giove romano è il garante
della sovranità, che può elargire attraverso le aves, gli uccelli che solcano
l’atmosfera dello spazio consacrato dagli auguri, gli “interpreti
di Giove Ottimo Massimo”[23], fornendo gli auspicia e gli auguria, garanzia dell’imperium.
Questa sovranità divina, in cui
Giove è del tutto solo, a differenza che presso altre civiltà
indoeuropee (ad esempio, presso gli indoiranici e gli scandinavi)[24], è
caratterizzata dal suo titolo di rex,
valido indipendentemente dal regime politico esistito in tutto il corso della
storia romana. E’ alla base, come si è ben visto,
dell’esistenza della res publica,
fondata grazie all’augusto augurio di Romolo, e della sua
continuità per mezzo dell’imperium
magistratuale.
Giove, nel nome del quale si compivano
i più sacri giuramenti, era dunque il simbolo più elevato della
comunità politica, che si reggeva sul “diritto” e sulla
“lealtà”, ius et fides.
Questa, per giunta, poteva essere resa più forte dalla legittimazione
sacrale dei rapporti politici con i popoli confinanti: cosa che avverrà
per mezzo del collegio dei Fetiales,
gli esperti del diritto internazionale tutelato dal dio sovrano. Al quale, in
quanto promotore di ogni vittoria, sulla soglia del tempio capitolino, si
recherà poi in abiti insolitamente regali (proprio perché
concepiti a somiglianza dei suoi) l’imperator,
il generale vittorioso, per deporre l’alloro e la veste trionfale ai
piedi della sua immagine, il trionfo non dovendosi intendere altro che il
coronamento di un’azione militare condotta secondo il suo volere. Anche
lo speciale rapporto fra Giove e il vino (o la vite) rinvia, non tanto ad una
sua presunta funzione agraria, quanto alle sue prerogative regali (si consideri
il mito, riportato da Catone, posto a fondamento delle festività
calendariali dei Vinalia Rustica del 19 agosto)[25].
Ora, come si è già visto,
la tradizione concorde attribuisce l’inaugurazione e la consacrazione del
grande edificio templare di Giove Ottimo Massimo (o Capitolino, come si
dirà da allora) alla dinastia etrusca dei Tarquini, mentre la dedica
pubblica sarebbe avvenuta nel primo anno della repubblica, il 13 settembre del
Tale tipo di orientazione è
giustificata dal fatto che gli Etruschi (quindi le maestranze dei Tarquini)
ritenevano che gli dei celesti, e Giove in special modo, risiedessero al polo
nord astronomico, e, più in generale, nel quadrante spaziale di
nord-est. Si vedrà che nelle colonie, il Capitolium, considerato aedes
Iovis, veniva eretto non tanto sull’altura vicina più elevata,
ma sul lato settentrionale del cardo,
l’asse verticale che tagliava perpendicolarmente il decumanus. Che nel tempio capitolino il primato di Giove fosse ben
presente agli stessi Tarquini, è attestato dal fatto che già nel
tempio originario le cellae ospitanti
i simulacri delle divinità della triade risultano ripartite secondo il
rapporto 3 : 4 : 3, con Giove che occupa la stanza centrale e maggiore, accanto
a quelle di Giunone e Minerva[30]. Egli da dio sovrano
della triade arcaica (destinata a sopravvivere solo in alcuni riti desueti e
nel cristallizzato ordo sacerdotum),
riassume ora in sé, trascendendole, tutte e tre le funzioni
dell’antica teologia: la prima in quanto Maximus; la seconda in quanto destinatario dei trionfi militari; la
terza in quanto Optimus,
“beneficentissimo”, cioè supremo elargitore di opes.
Con la nascita della
Repubblica ogni sapere giuridico e religioso veniva a concentrarsi soprattutto
nelle mani del collegio dei pontefici, coordinati in maniera esplicita dal
pontefice massimo, il quale, per quasi tre secoli dopo la cacciata dei re, coopterà
fra i membri del collegio gli esponenti delle principali famiglie patrizie, che
contemporaneamente rivestivano o già avevano rivestito, le magistrature
curuli. Fra coloro che furono rivestiti del summum
imperium troviamo soprattutto i
Valerii e, dopo le leggi Licinie Sestie (
Dei 24 pontefici
massimi noti della Repubblica, comprendenti non più di 13 gentes, troviamo ben 6 Cornelii, di cui
tre della famiglia degli Scipioni (a partire da un Aulo Cornelio del 431).
Specialmente dopo la vicenda dell’incendio gallico (in cui è da
notarsi che solo il Campidoglio col suo grande edificio templare sfuggì
alla distruzione) i Cornelii verranno messi in relazione col culto di Giove
Capitolino, come documentato da numerose serie di monete o dalla notizia che
Scipione l’Africano lasciava credere di essere figlio di Giove stesso,
recandosi spesso a meditare da solo nel tempio, al cui interno, dopo la morte,
un onore veramente insolito a Roma, fu collocata la sua immagine[31].
Senza dimenticare che
un altro Cornelio, il dittatore Lucio Cornelio Silla – colui che
ampliò il pomerio 500 anni dopo Servio Tullio – diede
nell’82 a.C. l’incarico di ricostruire il tempio capitolino, andato
distrutto in un incendio l’anno precedente (che bruciò anche i
Libri Sibillini, custoditi in un’arca di pietra nei sotterranei sin dai
tempi dei Tarquini). Un suo antenato, Publio Cornelio Rufo o Rufino Silla, nel
In ogni modo, il culto
statuale romano, così come ci appare dalle fonti a partire dalla dedica
del tempio di Giove Capitolino, risulta del tutto spoglio di miti: tradizioni
leggendarie popolari o gentilizie concernenti alcune divinità non
sembrano avere alcun rapporto con i culti ufficiali della res publica. Proprio
quello di Giove, che tutti li riassume, come nucleo fondante del mondo
religioso romano, ne è del tutto assente. La cosa, secondo molti storici
della religione del mondo classico (ad esempio, Koch, Brelich, Dumézil,
Sabbatucci, Montanari), non deriverebbe tanto da un’incapacità
generica dei Romani verso l’affabulazione mitologizzante, quanto da una
ben precisa scelta della classe dirigente agli albori della Repubblica. Come
abbiamo detto, questa classe dirigente è stata guidata all’epoca,
sul piano sacrale, dal collegio dei pontefici: custodi della tradizione e nel
contempo elaboratori della coscienza storica della compagine romana tramite la
compilazione degli Annales Maximi, sarebbero loro, secondo
Montanari e Sabbatucci, «i veri protagonisti “pro populo” della
demitizzazione come “storificazione dei miti”»[32].
Si tratta di un
grandioso progetto, religioso e politico, rivolto al futuro, che concepisce la
concentrazione dell’azione divina sul presente e sull’avvenire. Se Lares, Penates e Vesta mater
possono concernere sia la sfera pubblica che quella privata e la loro
realtà è volta al passato come rielaborazione nel presente di una
situazione primordiale, la figura di Giove Ottimo Massimo appartiene solo alla res publica.
Questa e il dio sovrano si protendono entrambi verso il futuro, che molti
prodigi rivelano foriero di grandezza[33].
Al centro di tutto, il tempio capitolino, nato sacralmente in contemporanea
alle nuove magistrature. Ha scritto Angelo Brelich: «Lo Stato non si
plasma su di un’idea divina che sia su un diverso piano di valori, ma
è, esso stesso, una realtà divina. Ogni atto, ogni manifestazione
dello Stato romano è, in pari tempo, atto religioso, manifestazione
religiosa. Non c’è precedenza tra il dio romano e lo Stato
romano…»[34].
La concezione di Giove
Capitolino si propone anche come il simbolo sovrano e divino di un’epoca
futura in cui le stesse disuguaglianze sociali siano vanificate nel segno di
una superiore sintesi.
Così che Roma,
nella maturità della sua res
publica, apparirà come un’autentica “comunità di
destino” e vero “patrimonio di tutti”. La sua
peculiarità in ambito religioso è personificata
dall’immagine di Giove Capitolino, diventato col tempo non più dio
dei soli patrizi, ma dei Quiriti tutti.
Nel
In quanto espressione,
nella propria esistenza politica, della realtà divina rappresentata da
Giove Capitolino, sorsero nell’orbe romano (dapprima riservati, in epoca
repubblicana, alle coloniae di
cittadini, emanazione diretta di Roma, e successivamente, durante
l’Impero, in molte provinciae)
i Capitolia, templi dalle triplici
celle, a ripetizione del celebre modello dell’Urbe, di solito situati
presso il Foro o piazza centrale della città. I documenti epigrafici e
gli scavi attestano l’esistenza di oltre 130 Capitolia in tutto il territorio soggetto a Roma, per la maggior
parte in Africa (ben oltre trenta), nel secondo e all’inizio del terzo
secolo d.C., in città con statuti municipali diversi, che in questo modo
vogliono testimoniare la loro romanizzazione[37].
Nelle regioni di
frontiera europee, dove pure sorgono molti Capitolia
(dieci in Germania e altrettanti nelle province danubiane), l’omaggio
alla triade capitolina giunge soprattutto da parte di funzionari e di militari[38].
Altrove (ad esempio in Gallia) sono le città stesse o ricchi
provinciali, che in tal modo intendono attestare la loro fides verso la capitale.
Sono scarsi gli esempi
nell’Oriente ellenistico, dove di norma Giove Capitolino (Zêus Capetólios) è
onorato da solo, tranne la notevole eccezione di Aelia Capitolina,
cioè la rinata Gerusalemme romana, dove nel 137 Adriano eresse un Capitolium sullo spiazzo delle rovine
dell’antico tempio del giudaismo, sul cui sito (immaginiamo noi, sulla
base delle consuetudini tradizionali) gli augures
avranno compiuto opere di liberazione (o exaugurazione) delle precedenti
presenze[39].
Non è, questo
dei Capitolia, un campo specifico
della mia indagine, ma accennerò – da ultimo – soltanto a
due Capitolia sorti in colonie di
cittadini romani in territorio italico: a quelli di Cosa, in Etruria, e di Lunae,
in territorio già ligure-etrusco. La colonia di Cosa fu fondata nel
Del Capitolium di Lunae, edificato con le consuete tre celle dedicate alla triade
capitolina, dirò che risale a poco dopo il periodo di fondazione della
colonia, nel
Giungendo alla
conclusione della mia esposizione, dovrò ricordare che ancora nel tardo
Impero (nonostante il dilagare dei sincretismi religiosi e dei culti
d’origine orientale, la cui importanza è stata forse troppo
sopravvalutata) la funzione politica di Giove Capitolino appare rilevante. Lo
sarà soprattutto al tempo della tetrarchia. Il Giove di Diocleziano (che
ha come compagno il figlio Ercole, entrambi concepiti come i capostipiti divini
della duplice dinastia imperiale degli Iovii
e degli Herculei) non cela certo in
sé una delle varie divinità supreme orientali di Siria o
Cappadocia, quali Iuppiter Damascenus
o Dolichenus. Si tratta proprio dello
Iuppiter Optimus Maximus della
tradizione latina antica, di cui abbiamo parlato, dello Iuppiter conservator Augusti (così definito dai tempi di
Ottaviano); infine dello Iuppiter comes
e tutator, “compagno” e
“protettore” dell’imperatore; del victor e ultor,
“vincitore” e “vendicatore” dei suoi nemici[44].
Per infondere afflato
divino alle riforme politiche, economiche, sociali e militari
dell’Impero, occorreva, per il sovrano illirico, rendere nuovamente a
Giove Ottimo Massimo quel culto che gli avevano tributato gli antenati. Tutti
avrebbero dovuto sottostare al culto restaurato, anche i Cristiani … Le
conseguenze di tutto ciò sono note …
Cento anni dopo, le
due divinità che erano state patrone di Diocleziano e Massimiano
presiedettero, il 6 settembre 394, alla disfatta dell’ultimo esercito
pagano del mondo antico. Mi riferisco a quelle statue di Giove fulgurator che Virio Nicomaco Flaviano
aveva fatto porre sulle alture ai lati della valle del Frigido (oggi Vipacco,
nel Goriziano), accanto agli stendardi con l’immagine di Ercole, prima
della famosa battaglia che vedrà alla fine vincitore Teodosio. Nella
angusta valle alle soglie della terra
Italia si riassorbiva e si concludeva la fortuna dell’antico sovrano
celeste degli Indoeuropei che, col suo numen,
per più di mille anni aveva fatto da garante all’imperium del popolo romano[45].
Bibliografia essenziale
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York 1978, 443-444.
[3] Liv. 1.12.4. 4: Romulus et ipse
turba fugientium actus arma ad caelum tollens 'Iuppiter, tuis' inquit 'iussus
avibus hic in Palatio prima urbi fundamenta ieci.
[4] Ovid., Fasti 4. 827-829: Vox fuit haec regis: Condenti, Iuppiter,
urbem, / et genitor Mavors Vestaque mater, ades, / quosque pium est adhibere
deos, advertite cuncti!.
E’ anche il
parere di A. Carandini, Remo e Romolo, Torino 2006, 150-151.
[5] Ovid., Fasti 4. 833-834: Ille praecabatur, tonitru dedit omina laevo / Iuppiter et laevo fulmina
missa polo.
[7] Varr., De ling. Lat. 5.7.42: Hunc antea montem Saturnium appellatum
prodiderunt et ab eo late Saturniam terram, ut etiam Ennius appellat. Antiquum
oppidum in hoc fuisse Saturnia<m> scribitur. Eius vestigia etiam nunc
manent tria, quod Saturni fanum in faucibus, quod Saturnia Porta quam Iunius
scribit ibi, quam nunc vocant Pandanam, quod post aedem [Saturni] in
aedificiorum legibus privatis parietes ‘postici muri <Saturni>’
sunt scripti. L’antiquario si riferisce al Saturni fanum in faucibus Capitolii,
alla porta Saturnia (poi Pandana) e all’espressione
“muri posteriori di Saturno”.
[9] Verg., Aen. 8.351-354: 'hoc nemus, hunc' inquit 'frondoso vertice
collem / (quis deus incertum est) habitat deus: Arcades ipsum / credunt se
vidisse Iovem, cum saepe nigrantem / aegida concuteret dextra nimbos que cieret.
[12] Cfr. F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma,
in Rendiconti dell’Accademia dei
Lincei, VIII ser., vol. 5, fasc. 11-12 (1950) 556.
[14] Cfr. F. Coarelli, Il Foro romano. Periodo arcaico, Roma 1985, 199 ss.; per il
riferimento specifico 210-217.
[17] Liv. 1.55.2-6: Et ut libera a ceteris religionibus area
esset tota Iovis templique eius quod inaedificaretur, exaugurare fana
sacellaque statuit quae aliquot ibi, a Tatio rege primum in ipso discrimine
adversus Romulum pugnae vota, consecrata inaugurataque postea fuerant. Inter
principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam tanti imperii molem
traditur deos; nam cum omnium sacellorum exaugurationes admitterent aves, in
Termini fano non addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est non motam
Termini sedem unumque eum deorum non evocatum sacratis sibi finibus firma
stabiliaque cuncta portendere. Hoc perpetuitatis auspicio accepto, secutum
aliud magnitudinem imperii portendens prodigium est: caput humanum integra
facie aperientibus fundamenta templi dicitur apparuisse. Quae visa species haud
per ambages arcem eam imperii caputque rerum fore portendebat; idque ita
cecinere vates quique in urbe erant quosque ad eam rem consultandam ex Etruria
acciverant.
[18] A cinque miglia (7 km. e mezzo) dal centro della
città (cioè dal Campidoglio) tutta una serie di santuari
avvolgevano come un anello Roma a guisa di difesa religiosa e magica,
delimitando in tal modo l’Ager Romanus Antiquus, risalente
all’epoca dei re. La funzione di Giove come garante dei confini,
delimitati dai termini, è
evidente nel cosiddetto “frammento di Vegoia” in Gromatici Veteres, p. 350 L., in un contesto, pare, etrusco.
[19] L’etimologia
antica pare ammessa dai moderni linguisti, cfr. M.G. Bruno, La lingua
dei Sabini, Bologna 1969, 22-23: «La forma più antica per
testimonianza dei grammatici sarebbe stata Capitodium
(…) si suppone sia connesso con caput
(…) La seconda parte -tolium
è da connettere con il lat. tales,
-ium ‘gozzo’ … con
il valore di ‘collina, tumulo’».
[21] D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine
cosmico, Milano 1988, 75.
[24] Cfr. il classico
lavoro di G. Dumézil, Gli dei sovrani degli indoeuropei, trad.
it., Torino 1985.
[25] Cit. in Macr., Sat. 3.5.10. Cfr. E. Montanari, Funzione della sovranità e feste del vino nella Roma
repubblicana, in Studi e Materiali di
Storia delle Religioni, n.s., VII.2 (1983), 243-262.
[27] La platea (scoperta
nel 1919) misura m.
[29] P.G. Goidanich, Rapporti culturali e linguistici tra Roma e gli Italici. Origine antica
della cultura in Roma, in Atti Reale
Acc. d’Italia. Memorie, Classe di Scienze Morali e Storiche, s. VII,
vol. III, fasc. 7, Roma 1943, 382-383.
[30] Non mi soffermo in
questa sede sul ruolo certamente sibordinato delle due dee a fianco del
“dio sovrano”. Tuttavia, Giunone è certamente quella Regina già conosciuta a Lanuvio
come tale e, in quanto a Minerva, il suo significato “politico”
è, per l’epoca, bene attestato dalla terracotta, proveniente dal
tempio della Mater Matuta, al Foro
Boario (e risalente a circa il 530
a.C.), che la raffigura come introducente l’eroe divinizzato
Ercole all’Olimpo. Un motivo che non è estraneo a quello della
lastra architettonica della Regia nel
Foro, dello stesso periodo, che presenta motivi mitici alludenti al processo
eroico della conquista della dignità regale (Teseo e il Minotauro).
[32] E. Montanari, Premessa a C. Koch, Giove romano, trad. it., Roma 1986, 42,
che sviluppa alcune tematiche espresse da D.
Sabbatucci, Lo Stato come
conquista culturale, Roma 1975.
[33] Oltre ai casi di Terminus e del caput humanum di cui si è detto, vi è quello della
miracolosa quadriga di creta fabbricata nelle officine di Veio, che avrebbe
dovuto coronarne il fastigio e verrà considerata pignus imperii (cfr. M. Baistrocchi, Arcana Urbis, Genova 1978, 310).
[36] Mi riferisco alla
“Battaglia delle nazioni” presso Sentino (295 a.C.), in cui l’improvvisa
comparsa di un Martius lupus
preannunciò la vittoria delle forze romane.
[37] Qui sono
d’obbligo i riferimenti alle ricerche effetuate in Tunisia dalle
Università della Sardegna: gli scavi condotti dall’Università
di Cagliari ad Uthina (iniziati nel
1996), e soprattutto quelli (tuttora in corso) effettuati ad Uchi Maius
dall’Università di Sassari, per iniziativa del qui presente prof.
Attilio Mastino (a cui si deve la promozione e l’organizzazione dei Convegni
internazionali dedicati a L’Africa
Romana, di cui sono già stati editi gli atti dei primi quindici
convegni [1983-2004]), nella pianura di Mejerda, a sud della capitale tunisina.
In entrambi i casi il Capitolium
rappresenta il nucleo centrale della città.
[38] Soldati e veterani,
singolarmente, appaiono spesso come dedicatari di are votive a Giove Ottimo
Massimo, grati per averli protetti durante gli anni del loro lungo servizio
militare. E’ il caso di un’ara rinvenuta nel 1850 nelle Alpi Graie,
ad Usseglio (To), poco nota, e da me esaminata, in cui può leggersi: Iovi Op(timo) M(aximo) Clodius Castus Vecati
f(ilius) veteranu(s) v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito) mil(itavit) an(nos)
XXVI. A Luni è invece L. Titinio Glauco Lucreziano, flamen Romae e Augusti,
esponente dell’alta borghesia della colonia, ad associare la triade
capitolina Felicitati ·
Romae·. divo Augusto.
[39] Pare che questa sia
stata la vera causa della rivolta dei Giudei avvenuta al tempo di Adriano
(Dion, Cass. 69.12-14). Si noti che il primo atto della disacralizzazione del
tempio giudaico si verificò con l’atto di culto praticato dai
legionari di Tito nei confronti delle aquilae,
le insegne militari, avvenuto nel cortile esterno del Tempio stesso subito dopo
la conquista, nel 70 d.C. (cfr. Svet. Tit.
5.2; Jos. Flav., Bell. Iud. 6.316;
Oros. 7.9).
[40] Cfr. P. Brocato, Cosa quadrata, in AA.VV., Roma.
Romolo, Remo e la fondazione della città, Roma 2000, 271.
[41] M.P. Rossignano, Gli edifici pubblici nell’area del Foro di Luni, in Quaderni del Centro di Studi Lunensi, n.
10-11-12 (Atti del Convegno), Luni 1985-1987, 123 ss.; in particolare 123,
126-127, 135.
[42] A cui forse fa
riferimento Vibio Sequestro in Fulmina
106 (Macra, Liguriae, secundum Lunam
urbem).
[43] Cfr. M.G. Angeli Bertinelli, Culti e divinità della romana Luni
nella testimonianza epigrafica, in Quaderni
del Centro di Studi Lunensi, n. 3, Luni 1978, 9.
[44] Sul culto di Giove ed
Ercole nell’età di Diocleziano, cfr. G. Costa, Religione e
politica nell’Impero Romano, Torino 1923, 186 ss.
[45] Su questi Iovis simulacra, quae … nescio quibus
ritibus velut, consecrata in Alpibus constituta, cfr. Aug., De civ. dei 5.26.