N. 5 – 2006 – Contributi

 

Navi e naviganti nell’antico Mediterraneo*

 

sebastiano tafaro

Università di Bari

 

 

 

 

 

Sommario: 1. Mediterraneo. Atene. – 2. Contratti marittimi: Egèstrato. – 3. Contratti marittimi nel diritto romano. – 4. Nave e organizzazione della navigazione. Recepta. – 5. Lex Rhodia. – 6. La contributio. – 7. Priorità della legge del mare. – 8. Relitti e cose gettate in mare. – 9. La pirateria. – 10. Piratae. – 11. Conclusioni.

 

1. – Mediterraneo. Atene

 

Le vicende del mare intorno al quale si sono sviluppate le civiltà del passato destinate a durare nei tempi e che ancora oggi costituiscono il patrimonio culturale e le caratteristiche dell’Occidente sono tante e varie.

Occorrerebbe ben altro che le mie poche righe.

Perciò sono costretto a procedere episodicamente quasi a schizzi, richiamando alcuni dati ed alcuni episodi.

Ed anche così mi trovo in imbarazzo perché un mare il cui nome fu ed ancora oggi viene usato per indicare un’area ed un coacervo di civiltà di fatti notevoli ne ha visti tanti che è impossibile enuclearli.

Qualcuno tuttavia si può tentare di ricordarlo perché offre la possibilità di penetrare nell’intrigante groviglio delle realtà mediterranee e forse aiuta a capire il presente.

Come nell’episodio, raccontato nell’orazione dello pseudo-Demostene[1], di Egèstrato.

Siamo nell’Atene della metà del IV secolo a.C., quando la vita della città e soprattutto gli intensi traffici erano in pieno fermento con incessante brulichio di uomini che venivano da ogni dove e si affastellavano per le viuzze del suo porto (il Pireo).

Lì si riversava un fiume laborioso ed incessante, ma anche una fola di imbroglioni e lestofanti di ogni risma[2].

 

2. – Contratti marittimi: Egèstrato.

 

Dunque nel Pireo si accendeva un intreccio febbrile di rotte che ponevano con forza la questione della sicurezza della navigazione e, di conseguenza, degli strumenti più idonei a garantire i traffici marittimi attraverso la predisposizione di appropriate e specifiche forme contrattuali incentrate sul nodo di chi dovesse sopportare l’alto rischio legato alla navigazione.

Questo gran fermento, infatti, convergeva nei commerci da effettuare attraverso imbarcazioni che incessantemente solcavano il Mediterraneo verso e da ogni direzione.

Si trattava di imbarcazioni di diverso tipo e di differente stazza, per lo più dotate di un duplice sistema di spostamento, che assicuravano loro velocità e manovrabilità: a vele e a remi.

 

Fig. . - Nave greca.

(Da un vaso di Exekias; V sec. a.C.).

 

I viaggi di siffatte navi richiedevano l’impiego di molta mano d’opera e di personale specializzato ed erano molto costosi.

Gli armatori spesso avevano bisogno di chiedere finanziamenti, che per lo più erano concessi da banchieri, con i quali acquistavano le merci che dovevano essere trasportate e che vendute al porto di destinazione avrebbero consentito di realizzare considerevoli guadagni. Perciò nei porti si vedevano spesso banchieri, sempre attorniati da clienti, che se ne stavano curvi sui libri, occupati a fare annotazioni sui loro registri, a contar denaro, a prendere in deposito contratti di prestito marittimo (suggrafaˆ nautika), a ricevere ordini di pagamento, dichiarazioni. Essi potevano gestire somme proprie o somme date loro da persone abbienti e desiderose di realizzare guadagni elevati che solo il prestito marittimo poteva far conseguire. Così come poteva capitare che persone in possesso di denaro sovvenzionassero direttamente un viaggio ed un carico per cercare di trarre un lucro elevato dal prestito marittimo[3].

Ma in che consistevano questi prestiti marittimi?

Si trattava di prestiti particolari, contrassegnati dalla particolarità del rischio in essi insito, il quale era legato alle vicende della navigazione sino al punto di prestarsi ad ardite e paradossali speculazioni che proprio l’episodio di Egèstrato rivela nella loro paradossalità.

Vediamo il caso, raccontato nell’orazione.

Egèstrato era un naÚklhroj, vale a dire un proprietario di nave, marsigliese. Apparteneva cioè ad una città molto fiorente[4] notissima per i suoi traffici marittimi, per la sua vasta potenza mediterranea, realizzata con colonie e approdi fortificati sulle coste del Mar Ligure, in Gallia, nella Spagna e nelle isole Stoichades e con sviluppata e rigogliosa marina mercantile, costituiva una delle città più note e frequentata dalle rotte del Mediterraneo. Però il nostro Egèstrato della sua patria doveva conservare non tanto il costume civile quanto lo spirito rapace che gli derivava dagli antichi abitatori di Marsiglia, i quali erano stati pirati, sebbene in seguito si erano trasformati in pacifici cittadini e anzi avevano lottato e sconfitto la pirateria.

Sta di fatto che il nostro Egèstrato concepì un piano ardito reso concepibile dalle caratteristiche del prestito marittimo.

Al suo tempo il prestito marittimo prevedeva che se la nave naufragava, il creditore perdeva tutto, capitale e interessi pattuiti; se, invece, il viaggio si compiva felicemente e quindi la merce veniva venduta con grandi guadagni per il proprietario il prestatore aveva diritto alla restituzione della somma prestata maggiorata di un interesse elevato (introno al 30%); pertanto il contratto di prestito marittimo conteneva la clausola consueta «se la nave arriva in porto» (swqej tÁj neèj).

Su questa clausola fece leva Egèstrato il quale nel rifiorito porto di Siracusa chiese ed ottenne prestiti per trasportare grano in Grecia, ad Atene, dove all’epoca il grano aveva raggiunto quotazioni molto elevate perché la città era affamata di pane, mentre in Sicilia il prezzo del grano era molto basso[5]. Egli però non si premurò di compiere l’operazione prospettata ai suoi finanziatori, bensì progettò di frodarli cercando di realizzare per sé un guadagno ancora più elevato di quello che già una siffatta operazione gli avrebbe garantito.

Egli spedì con altra nave il grano a Marsiglia, dove l’avrebbe venduto a buon prezzo e contemporaneamente partì per Atene, con l’intenzione di non giungervi mai. Infatti egli pensò che se la nave avesse fatto naufragio egli non sarebbe stato tenuto a dare più nulla ai suoi sovvenzionatori in virtù della clausola swqej tÁj neèj aggiunta, come di consueto, al suo contratto di prestito e che esonerava chi aveva ottenuto il prestito dalla restituzione qualora, per un motivo qualsiasi, la nave non fosse arrivata a destinazione. Per raggiungere il suo scopo Egèstrato tentò di far naufragare la nave aprendo di proposito notte tempo una falla in essa: egli, incurante della sorte degli altri passeggeri, pensava di mettersi in salvo con la scialuppa di salvataggio (sk¦fa). Così egli pensava di raggiungere il porto della vicina Cefalonia; lì avrebbe potuto raccontare a suo modo le sfortunate vicende del naufragio e avrebbe poi raggiunto Marsiglia, dove avrebbe riscosso il prezzo del grano senza nulla dare ai sovvenzionatori di Siracusa. Ai quali non sarebbe rimasto altro che l’amarezza per un prestito concesso a condizione che la nave giungesse a destinazione salva.

La vicenda, purtroppo per Egèstrato, ebbe ben altro epilogo, perché scoperto dagli inferociti viaggiatori insospettiti dai rumori che egli stava facendo per divellere le travi della nave cercò di sfuggire alla loro cattura gettandosi in mare: purtroppo per lui cadde lontano dalla scialuppa di salvataggio e fu travolto dai flutti.

 

3. – Contratti marittimi nel diritto romano

 

L’episodio appare illuminante sull’esistenza di usanze e contratti di navigazione nel Mediterraneo.

In essi si imbatterono i Romani quando a loro volta si trasformarono in potenza marittima e si dedicarono al commercio marittimo.

Per loro le regole della navigazione in uso furono un motivo di incontro e anche di scontro, perché apparivano improntate a criteri e principî completamente diversi da quelli che avevano caratterizzato il diritto civile delle città di Roma.

Il ius civile invero aveva conosciuto il prestito fin dai tempi più remoti ma lo aveva concepito come un rapporto tra persone legate da specifici vincoli (di vicinitas, amicitia, patronatus etc.) le quali si aiutavano, in base a specifici doveri di solidarietà, reciprocamente e gratuitamente. Perciò il prestito per i Romani pur quando si era articolato in un contratto aveva conservato come connaturato ed essenziale il carattere della gratuità. La quale non significava che il contratto doveva essere disinteressato e basato sull’assenza di reciprocità o gratificazione[6], bensì che non poteva prevedere il pagamento degli interessi.

Con ciò non si vuol dire che i romani non conoscevano il pagamento di interessi, perché anzi questi erano frequenti e pressanti, tanto da diventare argomento ed oggetto delle lotte tra patriziato e plebe e da costituire un motivo di frequenti interventi legislativi, tendenti (in genere) a contenerli in misura ragionevole[7]. Tuttavia gli interessi non potevano derivare dal contratto di prestito (mutuum) ma dovevano essere previsti in un altro apposito contratto, che per lo più si realizzava attraverso una stipulazione (stipulatio) collaterale (limitata ai soli interessi o comprensiva del capitale o sotto forma di penale complessiva abbracciante tutto il dovuto), che accompagnava in vario modo il mutuum[8].

Questa configurazione fu messa in discussione in radice dall’affiorare del prestito marittimo, per il quale i romani dovettero e seppero rinunciare alle proprie concezioni per assorbire ed elaborare quelle circolanti nel Mediterraneo e nel suo intreccio di traffici, sicuramente indiscusse nel V sec. a.C., ma forse già radicate nel VI sec.[9].

Ciò avvenne tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C.[10] attraverso l’elaborazione di una figura specifica ed a sé stante che prese il nome foenus nauticum o pecunia traiecticia[11] e si articolò con varie modalità ma in definitiva attraverso una straordinaria continuità dal mondo greco a tutta l’esperienza romana, assestandosi sull’elemento essenziale della traslazione del rischio, che normalmente nel mutuo grava su chi ha ricevuto il denaro, a carico di chi presta il denaro e sul computo dell’obbligo di restituzione e della corresponsione degli interessi “a vicenda marina” e non a tempo. Cioè, mentre di regola gli interessi vengono prestati in ragione del tempo di utilizzo del prestito, nel caso del prestito marittimo essi dipendono dalla conclusione del viaggio, a prescindere dal tempo impiegato dalla nave per raggiungere il porto di destinazione[12].

Le ragioni del prestatore erano garantite attraverso istituti che accompagnavano il prestito stesso. Nello specifico si poteva configurare una garanzia, detta hypothéke, che consentiva al creditore di prendere possesso della nave e del carico una volta giunti a destinazione, ma senza che ciò fosse di impedimento alla vendita della merce trasportata da parte del debitore, consentendo all’acquirente di prendere possesso delle mercanzie acquistate pagando al debitore-trasportatore la sua parte di guadagno ed al creditore-sovvenzionatore la restituzione del prestito con gli alti interessi pattuiti. In ogni caso, tanto nel mondo greco che in quello romano il debitore aveva 20 giorni di tempo per procedere alla vendita delle merci e soddisfare i creditori[13].

 

4. – Nave e organizzazione della navigazione. Recepita

 

È da aggiungere che nel mondo romano si fece strada la prassi di salvaguardare le aspettative di chi consegnava le proprie merci all’imprenditore marittimo (exercitor navis) affinché venissero trasportate.

Sul punto appare opportuna una premessa concernente l’organizzazione della nave e della navigazione.

La nave non ebbe una considerazione a sé stante ma fu filtrata dalle distinzioni operate in via generale riguardo alle res (alle cose). Essa non venne considerata come università di fatto o iuris (universitas facti o iuris), come avvenne ad opera della dottrina romanistica sorta in Germania e detta della Pandettistica. Essa venne generalmente inclusa tra le cose mobili, ma secondo una decisione del giurista tardo-repubblicano Aulo Cascellio[14], era da considerare una cosa sì mobile ma connessa (connexa) cioè fatta di cose tra loro unite in modo funzionale[15] e contraddistinte dalla finalità costituita dalla destinazione alla navigazione. Questa finalità essenziale esigeva una rigorosa organizzazione che era ripartita tra l’exercitor, (l’armatore), il magister, responsabile dell’attività economica connessa alla navigazione, il gubernator, responsabile delle funzioni tecniche legate al comando della nave. A questi si affiancavano diversi lavoratori subordinati, come i nautae[16], i marinai, i mesonautae, i marinai destinati ai lavori di sottocoperta, i remiges, i rematori, i nautaepibatai, passeggeri che si pagavano il trasporto lavorando sulla nave, i custodes navium, addetti alla sorveglianza della nave, i diaetarii, con funzioni di contabili per le operazioni commerciali, i naupegi, carpentieri, il proreta o ducator, avvistatore di rotta che vigilava segnalando pericoli o l’avvistamento di scogli o ostacoli diversi.

L’organizzazione prevedeva che l’armatore fosse responsabile solo delle obbligazioni contratte dal magister, nascendo la sua responsabilità dal solo fatto che egli poneva costui a capo della nave[17], mentre di norma non era responsabile delle obbligazioni assunte dagli altri membri dell’equipaggio; a meno che si trattasse di delitto, perché rientrava negli obblighi dell’armatore garantire che nessun membro dell’equipaggio commettesse azioni delittuose[18]; si trattava di una culpa in eligendo mista ad una di culpa in vigilando presunta, la quale forse configurava una responsabilità obiettiva, dato che, come ricordano le stesse fonti romane, l’armatore non era presente durante la navigazione[19].

Orbene di fronte a questo apparato il singolo che volesse richiedere il trasporto delle proprie merci era in parte indifeso in parte fiducioso che il trasporto sarebbe andato a buon fine. Se però avesse dovuto affrontare i rischi connessi alla navigazione probabilmente non avrebbe più affidato le proprie merci. Si ritenne di conseguenza opportuno dargli assicurazione che egli non avrebbe condiviso i rischi della navigazione. All’uopo fu creato una specie di contratto di garanzia attraverso l’esplicito addossamento esclusivamente su di sé della responsabilità della navigazione da parte dell’armatore, il quale probabilmente esplicitamente garantiva che “le merci affidate venivano ricevute con garanzia di salvezza” (salvas res fore recipere). Questa garanzia con il tempo diventò un elemento naturale del negozio e nasceva dal solo fatto di accettare le cose a bordo della nave: si parlò perciò di receptum, cioè di negozio nascente dal ricevimento (della merce)[20]. In tal modo il deponente era indenne da ogni rischio[21] e fino agli inizi del Principato persino da quelli derivanti da forza maggiore, come il naufragio e l’assalto dei pirati. Però proprio tra la fine della Repubblica e gli inizi del Principato il giurista Antistio Labeone espresse l’opinione, poi seguita quasi unanimemente, che l’armatore non fosse responsabile se potesse provare che il perimento delle merci era stato causato da forza maggiore[22].

 

5. – Lex Rhodia

 

È dunque il rischio collegato alla navigazione l’elemento centrale ed il perno dei contratti marittimi, sui quali da tempo dibatte una copiosa e a volte contrastante dottrina, della quale non si può dar conto in questa sede.

Il rischio era consustanziale alla navigazione sia per le vicende del mare sia per i pericoli creati dagli uomini, anche come si è visto per opera degli armatori e in generale della gente di mare[23].

Su di esso poggiava anche una delle più antiche disposizioni regolatrici dei traffici marittimi, che viene ricordata come originaria dell’isola di Rodi: la lex Rhodia de iactu[24].

La legge è stata molto discussa nel suo contenuto e nella sua portata. In particolare ci si è domandato se sia effettivamente una legge di Rodi e se si applicava al diritto romano o solo, come diritto locale, nel Mediterraneo orientale[25]. Non potendomi soffermare sulla complessità degli interrogativi sollevati, mi sembra di potermi limitare qui a sostenere che un legge con quel nome era conosciuta ed applicata dai giuristi e dagli imperatori romani[26].

Sicché appare probabile che nel Mediterraneo fosse applicata una legge nata a Rodi e recepita anche dal diritto romano secondo la quale quando per necessità della navigazione fosse stato necessario alleggerire la nave gettando a mare parte o tutte le merci (iactus mercium) il danno che ne conseguiva andava ripartito tra tutti i proprietari delle merci imbarcate. Chi aveva subito la perdita delle proprie merci poteva rivolgersi al magister con l’azione di8 locazione, mentre questi poteva rivolgersi ai proprietari delle merci salvate con l’azione di conduzione.

Un’altro punto della legge doveva concernere i dazi portuali prevedendo l’esenzione per la nave e le merci naufragate o gettate in mare.

Infine punto assai controverso era l’appartenenza del relitto e delle merci gettate in mare, per le quali la dottrina contemporanea discute se appartenessero a chi se ne impossessava dopo il naufragio oppure restassero di proprietà del precedente proprietario oppure ancora potessero venire confiscati[27].

Illuminanti, per capire la ratio, delle disposizioni della legge, sono le parole dei giuristi romani.

In particolare Paolo nel terzo secolo d. C. dice che il riparto del danno tra tutti i proprietari delle merci affidate per il trasporto è giustificato dalla necessità di garantire la navigazione, che è, evidentemente, ritenuta finalità comune:

 

D. 14.2.1, Paulus l. secundo sententiarum: Lege Rhodia cavetur, ut, si levandae navis gratia iactus mercium factus est, omnium contributione sarciatur quod pro omnibus datum est (Attraverso la legge Rodia si ha cura di fare in modo che, qualora si sia proceduto a gettare in mare le merci allo scopo di consentire la navigazione, il danno sia diviso tra tutti perché è stato causato nell’interesse di tutti).

 

Pauli Sententiae 2.7.1: Levandae navis gratia iactus cum mercium factus est, omnium intributione sarciatur, quod pro omnibus iactum est (Se il lancio delle merci è stato fatto per consentire la navigazione, il danno deve essere risarcito con il contributo di tutti, poiché il lancio è stato effettuato nell’interesse di tutti).

 

Il pensiero del giurista, che appare condiviso da altri giureconsulti, appare chiaro ed è incentrato su un’idea semplice ma efficace: la navigazione è l’interesse primario nel caso di nave in mare e ad essa sono chiamati a contribuire tutti coloro che abbiano a che fare con il natante. Perciò se si rende necessario alleggerire la nave non dovrà subire la perdita delle cose gettate in mare solo il proprietario di esse. Invero, poiché l’abbandono in mare avviene per consentire la navigazione si deve sostenere che esso avvenga nell’interesse di tutti quelli che hanno qualche carico sulla nave; di conseguenza, le perdite vanno ripartite tra tutti.

Il criterio, in un mondo nel quale non vi erano contratti di assicurazioni predisposti per salvaguardare il proprietario delle merci, stabilisce un principio di solidarietà creata dalle esigenze della navigazione, tra le quali è primaria la salvezza della nave e dei passeggeri, e finalizzata ad essa, in modo che viene meno se si verificano eventi dannosi che non sono legati a quella finalità[28]. Solo così i traffici marittimi potevano essere incrementati in maniera considerevole si riusciva a dare (sia pure in via indiretta) sicurezza ad essi.

 

6. – La contributio

 

Vediamo ora come il sistema escogitato a Rodi doveva funzionare in concreto.

Ancora una volta possiamo utilizzare il racconto del giurista Paolo:

 

D. 14.2.2.pr., Paul. 34 ad ed.: Si laborante nave iactus factus est, amissarum mercium domini, si merces vehendas locaverant, ex locato cum magistro navis agere debent: is deinde cum reliquis, quorum merces salvae sunt, ex conducto, ut detrimentum pro portione communicetur, agere potest. servius quidem respondit ex locato agere cum magistro navis debere, ut ceterorum vectorum merces retineat, donec portionem damni praestent. immo etsi (non) retineat merces magister, ultro ex locato habiturus est actionem cum vectoribus: quid enim si vectores sint, qui nullas sarcinas habeant? plane commodius est, si sint, retinere eas. at si non totam navem conduxerit, ex conducto aget, sicut vectores, qui loca in navem conduxerunt: aequissimum enim est commune detrimentum fieri eorum, qui propter amissas res aliorum consecuti sunt, ut merces suas salvas haberent (Se sono state gettate in mare delle merci a causa delle difficoltà della nave i proprietari delle merci, che abbiano dato in locazione le merci affinché venissero trasportate, devono agire con il magister della nave con l’azione di locazione; questi a sua volta agisce nei confronti degli altri proprietari, le cui merci sono salve, con l’azione di conduzione. Servio aveva sentenziato che lo scopo dell’azione di locazione nei confronti del magister era quello di indurlo ad operare la ritenzione delle merci degli altri vectores(passeggeri), finché non paghino la corrispettiva loro porzione del danno. Di conseguenza anche quando il magister non operi la ritenzione delle merci, ugualmente avrà l’azione di locazione nei confronti dei vectores: cosa infatti si dovrà dire se se vi siano vectores senza merci? Perciò è più appropriato ritenere che se vi siano le merci le debba ritenere. Inoltre se non prese in conduzione l’intera nave, agirà con l’azione di conduzione, a somiglianza dei vectore i quali presero in conduzione gli spazi sulla nave: infatti corrisponde a somma equità che vi sia una perdita comune da parte di coloro che conseguirono la salvezza delle proprie merci in conseguenza della perdita di quella degli altri).

 

Il giurista dell’età severiana (Paolo) attribuiva a Servio Sulpicio Rufo (giurista della fine della Repubblica, amico e talora avversario di Cicerone) una disciplina in base alla quale il magister navis[29], qualora aveva dovuto gettare in mare alcune merci allo scopo di alleggerire la nave e così facendo consentire il prosieguo della navigazione, poteva esercitare il diritto di ritenzione su tutte le merci imbarcate per le quali non fosse stato necessario il lancio in mare. Inoltre poteva agire nei confronti dei proprietari delle merci salvate con l’azione di conduzione. Questi strumenti dati al magister tendevano a realizzare il riparto (contributio) delle perdite in maniera proporzionale tra tutti i vectores.

Perciò il magister si configurava come una sorta di “liquidatore” ed agiva non nell’interesse proprio bensì in quello della comunità dei vectores: infatti siccome scopo delle disposizioni era l’equo riparto dei danni provenienti dall’iactus mercium esso si traduceva, in concreto, nell’equa ripartizione delle merci salvate (prendendo però in considerazione il loro valore), la quale finiva per creare un’unica comunità economica tra i soggetti danneggiati e quelli che non avevano subito nessuna perdita. Nei confronti di questa comunità si poneva il magister che era tenuto ad esplicare un diritto-dovere (officium) in virtù del quale egli poteva trattenere le merci salve fino a che non fosse stata pagata la quota dei soggetti danneggiati; la quale doveva essere versata a lui affinché provvedesse a darla ai danneggiati.

Era evidente che la ritenzione poteva essere effettuata solo dal magister  e non direttamente dai danneggiati, per ilo semplice fatto che era il magister ad avere la disponibilità materiale delle merci che erano sulla nave. Inoltre era evidente che la gestione della comunità economica che si veniva a creare tra i vectores doveva essere unitaria, evitando (per prevenire contrasti e lungaggini) la gestione diretta da parte dei contendenti: perciò essa doveva essere affidata ad una sola persona. La quale, per rendere la procedura spedita e di esito sicuro, doveva avere strumenti efficaci per realizzare i ‘conguagli’; cioè il diritto di ritenzione e la possibilità di respingere, attraverso un’appropriata exceptio (eccezione processuale) l’eventuale azione dei vectores che reclamassero le loro merci, senza avere assolto al proprio dovere di contributio.

La posizione del magister  era quella di terzo disinteressato ma funzionale alle esigenze della navigazione; le quali in tal modo balzavano in primo piano e si concretizzavano tramite il suo intervento disinteressato ma anche dovuto.

Ciò appariva l’unica soluzione possibile anche in conseguenza della circostanza che il rapporto di trasporto si realizzava attraverso contratti che vedevano da un lato il magister dall’altro di volta in volta i singoli vectores senza che questi contraessero nessun contratto tra loro; di modo che non sarebbe stata neppure ipotizzabile l’ipotesi di azioni dirette dei danneggiati nei confronti dei vectores indenni.

Si può pertanto affermare che il magister, unico soggetto legato da rapporti e da azioni con tutti gli altri soggetti implicati nella vicenda e, come già osservato, il solo in grado di esercitare la ritenzione delle merci era tenuto a gestire la contributio partendo dalla ritenzione delle merci: «si tratta di una sua specifica obbligazione, tanto è vero che egli risponde a questo titolo verso i vectores con l’actio ex locato»[30].

Di norma egli non avrà bisogno di ricorrere all’azione contrattuale perché potrà conseguire il suo scopo attraverso la ritenzione[31], la quale poteva essere fatta subito dopo il lancio in mare delle merci ritenute ingombranti.

Di norma, poi, i vectores indenni avrebbero avuto tutto l’interesse a pagare al magister la loro quota allo scopo di ottenere le proprie merci e pertanto l’azione nei loro confronti doveva essere esercitata molto di rado, a meno che il vector non si fosse presentato a reclamare la propria mercanzia.

In conclusione può dirsi che il magister, in veste di ‘liquidatore’ era garante dell’equa conclusione del trasporto, avendo il diritto-dovere di operare la ritenzione delle cose rimaste a bordo, di ricevere le somme proporzionalmente da lui ripartite tra i proprietari di tali beni ed, infine, di riversare le somme ricevute nelle mani dei proprietari dei beni gettati in mare.

Ne consegue che il risultato ultimo si configura in un particolare caso di attività ed, eventualmente, di esercizio di azione a favore di terzi, da parte del magister. Il quale però agisce in conseguenza di obbligazioni dovute dai terzi (i vectores obbligati) direttamente nei suoi confronti ed indirizzate a consentire a lui di adempiere, a sua volta, al soddisfacimento dell’obbligo che egli ha verso i vectores che avevano perso le merci. Il magister si trova al centro di diritti di obbligazione e di doveri di adempimento propri, i quali, tuttavia, nascono nell’interesse di terzi ovvero (rectius) nell’interesse della navigazione e della sicurezza dei traffici marittimi.

Possiamo ora affermare che la finalità principale della lex Rhodia era questa: favorire la navigazione commerciale e salvaguardare gli imprenditori privati dai grandissimi rischi ad essa connessi.

 

7. – Priorità della legge del mare

 

Questo appare confermato da un discusso testo in greco del giurista Volusio Meciano, nel quale, di fronte alla richiesta rivoltagli da Eudemone Nicomedeo, l’imperatore Antonino[32] dà ragione al postulante riconoscendo l’applicabilità della legge di Rodi e quindi del diritto del mare anche a scapito del diritto romano.

 

D. 14.2.9, Volusius Mecianus ex lege Rhodia: 'Ax wsij EÙda monoj Nikomhd˜wj prÕj 'Antwn‹non basilša: KÚrie  Basileà 'Anton‹ne, naufr£gion poi»santej ™n tÍ 'ItalGv (='IkarGv?) dihrp£ghmen ØpÕ tîn dhmosGwn (=dhmosiwnîn?) tîn t¦j Kukl¦daj n»souj o„koÚntwn. 'Antwn‹noj eŒpen EÙdaGmoni: ™gë mn toà kÒsmou kÚrioj, Ð d nÒmoj tÁj qalasshj. Tù nÒmw tîn `RodGwn krin˜sqw tù nautikù, ™n oŒj m»tij tîn ¹met˜rwn aÙtù nÒmoj ™nantioàtai. Toàto d˜ aÙtÒ kaˆ Ð qeiÕtatoj AÜgoustoj Ÿkrinen. (Petizione di Eudemone di Nicomedia all’imperatore Antonino: Signore imperatore Antonino, avendo noi fatto naufragio in Icaria, siamo stati spossessati a causa dei tributi portuali (portoria) dei preposti alle isole Cicladi. Antonino risponde ad Eudemone: Io sono il signore del mondo, ma vi è la legge del mare. Si giudichi secondo la legge Rodia nautica nella misura in cui nessuna legge delle nostre si contrappone ad essa. Lo stesso giudicò anche il molto divino Augusto)[33].

 

Il passo ha sollevato diversi e discussi problemi esegetici, sui quali non mi posso qui soffermare[34].

Importante mi sembra sottolineare l’universalità della ‘legge del mare’, nella specie quella di Rodi, la quale deve valere per tutto il Mediterraneo allo scopo di assicurare sicurezza ai traffici marittimi. L’imperatore Antonino, seguendo una linea ininterrotta che già Augusto aveva confermato, riconosce la priorità di quella legge rispetto alle sue prescrizioni. Egli, cioè, dice che pur essendo il ‘Signore del mondo’[35], non può prescindere dalla legge del mare, la quale ha una vigenza che gli preesisteva e non poteva essere sovvertita. In altri termini l’imperatore non ritiene di modificare una materia che aveva bisogno di uniformità se non voleva compromettere i traffici commerciali via mare creando insicurezza con disposizioni specifiche non universalmente conosciute ed applicate; ciò pur non rinunciando in via di principio ad affermare la priorità del diritto romano: infatti egli aggiunge che comunque anche la legge del mare non deve contrastare il diritto romano. Ma proprio qui mi pare consista la sottigliezza della costruzione giuridica riflessa dal brano: il diritto romano è prioritario ed universale, ma proprio per questa sua caratteristica non modifica ed anzi recepisce il diritto marittimo (in gran parte frutto di tradizioni di lungo periodo) che, a causa della sua diffusione, era necessario per assicurare omogeneità e sicurezza alla navigazione ed ai traffici marittimi.

 

8. – Relitti e cose gettate in mare

 

Nel concreto la legge Rodia, oltre a disciplinare il caso di iactus mercium, doveva avere disposizioni che prevedevano l’esenzione dal pagamento dei dazi portuali per i relitti o le merci comunque pervenute in porto. Infatti appariva importante esentare i naufraghi da questi tributi (commissum), non foss’altro che per non aggiungere al danno del naufragio la beffa del pagamento per un viaggio non andato a buon fine[36].

In tal senso mi pare che depongano anche altre decisioni degli imperatori non molto distanti nel tempo da quella ricordata da Meciano.

 

D. 39.4.16.8, Marcianus l. singulari de delatoribus: Si propter necessitatem adversae tempestatis expositum onus fuerit, non debere hoc commisso vindicari divi fratres rescripserunt (Se l’oggetto del tributo sia costituito da cose naufragate i divini fratelli in un rescritto confermarono che non si dovesse pagare nessun dazio).

 

C. 11.6.1  Antoninus: Si quando naufragio navis expulsa fuerit ad litus vel si quando reliquam terram attigerit, ad dominos pertineat: fiscus meus sese non interponat. quod enim ius habet fiscus in aliena calamitate, ut de re tam luctuosa compendium sectetur? (Se una nave fu spinta sul lido per un naufragio o se il relitto arrivò a terra, spetterà ai suoi padroni: il fisco non deve pretendere nulla. Infatti che diritto può avere il fisco nella sventura altrui, fino a trarre vantaggio dalla sventura altrui?).

 

L’orientamento espresso nei testi mi appare chiaro ed indice di una continuità. Viene infatti costantemente confermata[37] l’esenzione dai tributi della nave o dei relitti per evitare di aggiungere danno alla sciagura[38].

Di là dalle pretese del fisco si poneva poi il problema dell’appartenenza dei relitti e delle cose abbandonate.

Al riguardo sembra che la legge Rodia prevedesse la proprietà per chi per primo se ne impossessasse, ma che contro tale abbia reagito il diritto romano, anche per stroncare speculazioni e dare tranquillità e, nei limiti del possibile, più sicurezza a chi rischiava con il commercio marittimo, assicurando benessere e prosperità alle città ed all’impero.

È questo il motivo di puntualizzazioni sia dei giuristi sia degli imperatori.

I Romani, i quali (come si è già detto) non elaborarono una materia specifica per la nave e la navigazione ma affrontarono il tema avvalendosi delle categorie generali delle res, impostarono il problema dei relitti e delle merci gettate in mare nell’ambito dei criteri elaborati riguardo all’abbandono delle proprie cose da parte del proprietario. In proposito era pacifico che la cosa abbandonata dovesse spettare a chi per primo se ne appropriasse[39], sicché per i relitti e le cose lanciate in mare per alleggerire la nave la questione fu impostata intorno all’interrogativo se essi erano o no da considerare abbandonate. Se la risposta fosse stata positiva, ne conseguiva che chiunque poteva impossessarsi di essi e diventare proprietario (per occupazione o per usucapione); diversamente nel casi di risposta negativa: infatti in tal caso le cose restavano nel dominio dei precedenti proprietari.

Incisivo ed illuminante è un brano del giurista Giavoleno, operante alla fine del I sec. d. C.:

 

D. 41.2.21.1-2,  Iavolenus l. 7 ex Cassio: Quod ex naufragio expulsum est, usucapi non potest, quoniam non est in derelicto, sed in deperdito. Idem iuris esse existimo in his rebus, quae iactae sunt: quoniam non potest videri id pro derelicto habitum, quod salutis causa interim dimissum est. (Ciò che è portato via dal naufragio non si può usucapire, poiché non si tratta di cose abbandonate, bensì di cose perdute. Ritengo che la stessa regola debba applicarsi alle cose lanciate in mare, poiché non si può sostenere che siano state abbandonate le cose buttate via per conseguire la salvezza).

 

Di là da queste considerazioni generali si prospetto poi un problema pratico, dalla cui soluzione poteva dipendere la sicurezza della navigazione.

Atteso che per antiche usanze i relitti diventavano di proprietà dell’occupante[40], i pericoli di per sé già enormi dei naviganti venivano accresciuti da delittuosi espedienti che tendevano a causare i naufragi al solo scopo di impadronirsi delle navi. A quanto pare pescatori solevano attirare in secco le navi con efficaci ‘furbate’: di notte, approfittando del favore delle tenebre, accendevano fuochi su spiagge dai bassi fondali in modo da far credere alle imbarcazioni che lì ci fosse un porto al quale potersi dirigere. Una volta diretta la prora verso questi fuochi facevano naufragio, mentre i ‘gentiluomini’ che li avevano attirati in secco si impadronivano delle navi naufragate e dei loro carichi. Occorreva porre un freno ed i giuristi (ed è da presumere, con loro gli imperatori)[41] intervennero appropriatamente, esortando ad eliminare in radice la causa di siffatte mascalzonate.

 

D. 47.9.10, Ulpianus l. 1 opinionum: Ne piscatores nocte lumine ostenso fallant navigantes, quasi in portum aliquem delaturi, eoque modo in periculum naves et qui in eis sunt deducant sibique execrandam praedam parent, praesidis provinciae religiosa constantia efficiat (La religiosa fermezza del preside della provincia impedisca che i pescatori inducano in inganno i naviganti accendendo luci che lascino credere loro di potere arrivare in porto, ponendo così in pericolo le navi e naviganti al solo scopo di procacciarsi una esecranda preda).

 

Significative appaiono le espressioni usate dal giurista che parla di fermezza ‘religiosa’ e bolla come ‘preda esecranda’ i guadagni conseguibili da tanto delittuoso artificio.

Essa riflette l’orientamento estremamente severo nei confronti di chi avesse approfittato del naufragio altrui, specie se con violenza.

Le sanzioni erano di natura economica, prevedendo il pagamento del quadruplo delle cose sottratte, ma anche personali, come la fustigazione, la condanna all’esilio o all’estrazione nelle miniere (che equivaleva ad una condanna a morte certa):

 

D. 47.9.1.pr., Ulpianus libro quinquagensimo sexto ad edictum: Praetor ait: ‘In eum, qui ex incendio ruina naufragio rate nave expugnata quid rapuisse recepisse dolo malo damnive quid in his rebus dedisse dicetur: in quadruplum in anno, quo primum de ea re experiundi potestas fuerit, post annum  in simplum iudicium dabo. item in servum et in familiam iudicium dabo’ (Il pretore dice: “nei confronti di chi in occasione di incendio, disastro, naufragio, di assalto ad una nave o zattera abbia rapito alcunché o abbia ricevuto dolosamente qualcosa o abbia causato qualche danno in queste cose, darò un’azione per il quadruplo, se esperita entro un anno, oppure, dopo l’anno, nel solo valore delle cose. L’azione poi la darò anche nei confronti del servo e della famiglia”).

 

D. 47.9.4.1, Paulus libro quinquagensimo quarto ad edictum: Divus Antoninus de his, qui praedam ex naufragio diripuissent, ita rescripsit: ‘Quod de naufragiis navis et ratis scripsisti mihi, eo pertinet, ut explores, qua poena adficiendos eos putem, qui diripuisse aliqua ex illo probantur. et facile, ut opinor, constitui potest: nam plurimum interest, peritura collegerint an quae servari possint flagitiose invaserint. ideoque si gravior praeda vi adpetita videbitur, liberos quidem fustibus caesos in triennium relegabis aut, si sordidiores erunt, in opus publicum eiusdem temporis dabis: servos flagellis caesos in metallum damnabis. si non magnae pecuniae res fuerint, liberos fustibus, servos flagellis caesos dimittere poteris’ (Riguardo a coloro che commisero saccheggi in occasione di un naufragio emise un rescritto di questo tenore: “In riferimento a quello che mi domandasti riguardo ai naufragi della nave e della zattera, capisco che vuoi sapere cosa penso in merito alla pena da comminare a coloro dei quali sia provato che sottrassero delle cose. E, credo, che si possa decidere facilmente: infatti interessa molto sapere se presero cose destinate a perire oppure invasero ignominiosamente quelle che si sarebbero potuto salvare. Pertanto se appaia afferrata con violenza una preda considerevole, gli uomini liberi dopo essere stati bastonati li dovrai confinare per tre anni e se si tratta di persone turpi li condannerai per lo stesso tempo al servizio pubblico; gli schiavi dopo averli flagellati li condannerai ai lavori delle miniere (ai lavori forzati). Se la cosa non fu di grande valore potrai frustrare i liberi e flagellare gli schiavi”).

 

I brani si commentano da soli e denotano lo sforzo dei Romani di reprimere nella maniera più severa possibile i delitti connessi alla navigazione.

Questa repressione venne attuata con i mezzi ordinari facendo ricorso alla normale procedura ed alle azioni di essa, le quali si differenziavano solo per l’ammontare della pena.

Ma questo ritenuto sufficiente in via ordinaria in casi particolari non bastava.

 

9. – La pirateria

 

La pirateria era una vera piaga dei mari, contribuendo pesantemente a diminuire la sicurezza della navigazione nel Mediterraneo.

I Cretesi, i Fenici, i Greci e gli Etruschi attaccavano le navi nemiche per depredarle.

L’incursione dei pirati avveniva essenzialmente in due modi

1)              attraverso l’assalto alle navi da trasporto per rubarne le merci, che venivano poi o utilizzate o vendute nei porti;

2)              con il rapimento di ostaggi, che rilasciavano dietro pagamento di riscatto[42].

Lunghe e tormentate sono state le vicende della pirateria nel mondo romano.

È opinione comune che i Romani sino al I sec. a.C. non si siano preoccupati o non furono capaci di condurre una seria lotta alla pirateria, insediata soprattutto nelle coste della Cilicia, a Creta, nell’Etolia e nell’Illirico[43].

Fra il IV e il I secolo a.C., Roma, che aveva bisogno di usare le navi per procurare ai suoi cittadini tutte le merci di cui avevano bisogno, non solo cibo e bevande, ma anche profumi, spezie, tappeti, belve per gli spettacoli, si trovò ad affrontare incursioni condotte da navi di tiranni siciliani, navi di Anzio, di Calcide, di Sparta, di flotte al soldo di Filippo V di Macedonia e Antioco III di Siria, degli Illiri, dei Liguri.

Una più recente lettura del fenomeno ha posto in evidenza il fatto che in realtà non si trattò di incapacità o di cattiva volontà, bensì di un mirato calcolo, perché la pirateria era consustanziale alla politica di molti zone sia dell’Oriente sia dell’Occidente, costituendo l’asse portante della politica di molte popolazioni. Essa serviva, tra l’altro, ad approvvigionare le città degli schiavi necessari all’economia del tempo; inoltre i Romani pensarono di sfruttare la pirateria «quale mercenariato, senza una paga»; specie perché «il ceto politico sarebbe rimasto per lungo tempo ideologicamente legato all'economia terriera e non avrebbe quindi avuto interesse a colpire il fenomeno della pirateria, da cui traeva linfa per l'utilizzazione di manodopera a basso costo»[44].

Pertanto la pirateria fu tollerata e sfruttata fino a quando non divenne conflittuale con le mire espansionistiche di Roma e con l’esigenza di dare sicurezza ai mari nel nuovo ordine realizzato con l’Impero. Perciò troviamo un significativo e radicale impegno contro i pirati delle Baleari «quando cominciò a farsi strada l'esigenza di colpire il fenomeno piratesco, divenuto ormai poco compatibile con la posizione egemone che Roma andava assumendo nel Mediterraneo: tanto è vero che alla sconfitta di quei pirati, avvenuta nel 123 a.C., seguì la colonizzazione delle isole, al fine evidente di radicare sul territorio la popolazione e di ridurne l'antica tendenza a inseguire l'avventura per i mari»[45].

La situazione diventò intollerabile sul finire dell’età repubblicana quando, “stando a quanto narra lo storico Appiano (Mithr. 63; 92), che, pur scrivendo molto tempo dopo, in genere era ben informato, i pirati, organizzati in forti squadre comprendenti non solo piccoli e veloci vascelli, ma anche triremi e biremi, comandati da capi, veri e propri comandanti militari, ostacolavano gravemente i traffici commerciali marittimi. Essi, inoltre, ponevano regolari assedi alle città costiere, spargendo dappertutto tra le popolazioni il terrore di essere avviate al gran mercato di schiavi di Delo, che soltanto attraverso questi, se si possono dire, rifornimenti, poteva funzionare con regolarità.

Fu allora che i pirati organizzarono un embrione di impero marittimo, costituendo dei veri e propri Stati rivieraschi in tutto il Mediterraneo fino alle colonne d'Ercole (App. Mithr. 92-93), tanto da svolgere un ruolo anche nella storia politica, come quando vennero impiegati nell'88 e nel 74 da Mitridate contro Roma”[46].

Per far fronte alla pirateria Roma intorno all’anno 100 e comunque prima del 96 a.C., fu approvato un apposito plebiscito, conosciuto come lex piratica, giunto a noi attraverso iscrizioni epigrafiche provenienti da Delfi e da Cnidos. Con esso si provvide a prevedere contro i pirati di una procedura per multa fissa ed a legittimazione popolare, abbastanza vicina alle azioni popolari conosciute in Roma ed esperibili da parte di qualsiasi cittadino (da quivis de populo) per la difesa di intessi collettivi anche di là dall’esistenza di un proprio interesse personale e diretto. Il relativo processo, con verosimiglianza, si doveva svolgere dinanzi ad una giuria (recuperatores) di 15 membri, estratti da un albo di 300 persone[47]. Con il provvedimento il senato romano invitò alcuni re del Mediterraneo (nello specifico, d’Egitto, Cirene e Siria) a partecipare alla lotta contro i pirati, anche attraverso lo stanziamento di specifici contributi in denaro.

Nel 79 a.C. fu allestita una flotta la quale, sotto il comando del console P. Servilio conquistò o distrusse molte delle basi costiere utilizzate dai pirati.

Poco dopo si pensò di completare l’annientamento della pirateria conferendo all’uopo nel 74 a.C. il comando straordinario a M. Antonio Cretico, la cui potente flotta di Marco Antonio Cretico cancellò dal mare l'insidia dei pirati da tutta la costa spagnola levantina passata così saldamente in mano agli ottimati. Ma alla fine la sua campagna nel Mediterraneo non si concluse felicemente e subì pesanti sconfitte da parte dei pirati.

Poiché questi mettevano in serio pericolo l’approvvigionamento di Roma, di modo che incombeva la minaccia della carestia, si decise un intervento radicale, affidando, poteri straordinari al grande generale Pompeo Magno. Tanto più che nel frattempo si erano verificati clamorosi casi di ambasciatori e consoli che avevano scosso la classe dirigente romana. Invero la lunga situazione di instabilità politica e militare che imperversava nello stato romano aveva creato problemi di ordine pubblico e provocato un aumento esponenziale della illegalità. In particolare la politica di Sertorio e le pressioni belliche di Mitridate avevano favorito lo sviluppo incontrollato della pirateria. Questi pirati provenivano prevalentemente dalla Cilicia, la zona sudorientale della Turchia, e da Cipro. I pirati imperversavano nel Mediterraneo, avevano saccheggiato Ostia distruggendo le navi romane attraccate, ed erano sbarcati a più riprese sulle coste della Campania, spingendosi fino alle coste meridionali della Spagna: il prezzo del grano salì alle stelle. Urgeva una soluzione.

Vincendo le accese resistenze del senato[48], restio a conferire poteri che potevano sfuggire al suo controllo, nel 67 a.C. su proposta di A. Gabinio (personaggio molto discusso e senza scrupoli) fu approvata una legge con la quale si affidava a Pompeo il comando militare senza limiti, paragonabile al comando senza limiti (imperium infinitum) esistito agli inizi della storia di Roma. Attraverso la “legge Gabinia concernente la guerra partica” (lex Gabinia de bello partico) detta anche “per la nomina di un solo comandante contro i pirati” (de uno imperatore contra praedones constituendo) Pompeo ebbe poteri che si sovrapponevano a quelli dei governatori delle province (imperium maius). All’uopo la legge prevedeva il potere di disporre di venti legioni e di una flotta di cinquecento navi e gli fu messo a disposizione una somma enorme: 600 talenti attici, con l’autorizzazione di attingere dalle casse pubbliche (dall’erario) quanto ritenesse necessario, con la facoltà di richiedere alle province adeguati tributi e di pretendere l’aiuto degli stati sottoposti all’egemonia romana. Il potere conferito in via eccezionale aveva la durata di tre anni senza limiti territoriali, andando dall’Oriente alle colonne d’Ercole (Gibilterra) e nel retroterra fino a 50 miglia dal lido[49].

L’eccezionalità del provvedimento fu premiata dal risultato poiché Pompeo in pochi anni sradicò definitivamente la pirateria dal Mediterraneo, distruggendo le flotte corsare e dando sicurezza ai mari.

La sua campagna fu caratterizzata da sorprendente velocità: in soli 40 giorni ristabilì l'ordine sulle coste occidentali del Mediterraneo, poi, mandati i legati in avanscoperta, si diresse verso oriente, e in 49 giorni distrusse i covi dei pirati cilici, aggiungendo all'azione militare quella diplomatica. Furono uccisi 10.000 pirati, 800 navi vennero catturate e 120 fortezze distrutte. Il Mediterraneo fu liberato momentaneamente dalla pirateria e i commerci poterono riprendere.

Dal punto di vista tattico Pompeo procedé dividendo il mare in zone che affidò a sub-comandanti di sua nomina[50], poiché la legge Gabinia aveva previsto che il comandante (che non era menzionato, ma tutti sapevano che si trattava di Pompeo) avesse anche la facoltà di organizzarsi articolando le forze attraverso la nomina di ventiquattro comandanti, di rango senatorio, in singoli settori delle operazioni. In tal modo procedette a distruggere le flotte ed i covi dei pirati l’uno dopo l’altro consolidando la sicurezza delle zone liberate e costringendo i pirati a rintanarsi nella loro base principale di Caracesio in Cilicia[51]. Inoltre dette a molti pirati la possibilità di rientrare in una vita normale abbandonando la pirateria: questo contribuì alla velocità delle sue operazioni e costituisce un significativo esempio di politica del ‘pentitmento’, rimproverata a Pompeo dai suoi avversari[52].

I restanti ricevettero un colpo dal quale non si ripresero, sebbene nel 40 a.C. si posero sotto il comando di Sesto Pompeo e dalla Sicilia tentarono di impedire i rifornimenti provenienti dall’Africa[53], ma invano perché l’avvento del Principato di Augusto, con le vittorie navali riportare da Marco Agrippa, assicurò la definitiva sicurezza del mare e segnò la loro definitiva scomparsa della pirateria, durata almeno per i successivi due secoli, quando la sicurezza delle rotte mediterranee erano garantite dalle potenti flotte permanenti di Ravenna, che vigilava sull’Oriente, e di Miseno, che controllava la parte occidentale; le quali erano coadiuvate dalle flotte ausiliarie stanziate in Cirenaica, Egitto e Siria.

Nel terzo secolo la crisi dell’impero dette nuove occasioni ai pirati i quali, malgrado i provvedimenti straordinari di Alessandro Severo[54] ripresero le loro scorrerie, alimentate soprattutto da Sarmati e Goti, provenienti dal Mar Nero “infestarono tutto il Mediterraneo orientale, preannunciando le invasioni barbariche”[55].

 

10. – Piratae

 

In conclusione di questo sguardo sulla pirateria sorge una domanda: chi erano i ‘pirati’ per il diritto romano?

Pomponio ed Ulpiano, tra la fine del II sec. d. C. e gli inizi del terzo ci danno importanti indicazioni, dalle quali emerge che, a differenza dei ‘nemici’ contro i quali si fosse in guerra, i pirati non potevano essere considerati come un popolo, cioè come persone appartenenti ad un ordinamento politico-giuridico con il quale sarebbero state possibili relazioni.

 

D. 50.16.118, Pomponius l. 2 ad Quintum Mucium: ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus:ceteri latrones aut praedones sunt. (‘Nemici’ vanno ritenuti coloro che pubblicamente ci hanno dichiarato guerra o ai quali noi abbiamo dichiarato guerra: gli altri sono ladroni o predoni).

 

D. 49.15.24, Ulpianus l. 1 institutionum: Hostes sunt quibus publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones appellantur (Nemici sono coloro ai quali il popolo Romano pubblicamente ha dichiarato guerra o che hanno dichiarato guerra al popolo Romani: gli altri vanno chiamati ladruncoli o predoni).

 

Considerato che la dichiarazione di guerra realizzava un caso di perduellio, già Cicerone, alla fine della Repubblica, aveva osservato:

 

Cicero, de officiis 3.107: pirata non est ex perduellionis numero definitus, sed communis hostis omnium (Il pirata non rientra tra i nemici pubblici, ma tra i comuni nemici di tutti).

 

I nemici comuni di tutti erano coloro che, fuori da ogni possibile consorzio civile e di là da ogni regola, costituivano una calamità assimilabile alle tempeste del mare.

Deriva da questa qualifica della pirateria la irrilevanza degli ‘accordi’ raggiunti con i pirati durante la prigionia. Questo in deroga al principio radicato nel costume e nel diritto romano che esigeva il rispetto dei patti (pacta) perché lo imponeva la fides, categoria essenziale del diritto romano[56].

Inoltre mentre il prigioniero di guerra diventava schiavo di chi o del popolo che lo aveva catturato, la persona catturata dai pirati veniva considerata sempre libera; poteva fare testamento e se moriva prima di rientrare in patria era valido il testamento già fatto[57]. Mentre, poi, i beni dei Romani presi dai nemici aveva il regime di praeda e cessavano di appartenere al romano proprietario, le cose prese dai pirati non potevano avere tale status e continuavano ad essere considerate del proprietario originario[58].

Corrispondeva alla considerazione della pirateria il fatto che, mentre colui che avesse pagato un riscatto per essere liberato dal nemico che lo avesse catturato restava assoggettato ad esso sino a quando non avesse pagato il riscatto (al quale, nel caso di morte sua, erano tenuti i suoi eredi), chi fosse stato liberato dai pirati non restava in nessun modo legato al suo liberatore[59].

Qualora poi si fosse pagato un riscatto per il rilascio della nave si applicava una norma analoga a quella prevista per il lancio delle merci in mare ed in generale per il naufragio; pertanto la somma pagata per il riscatto veniva ripartita tra tutti i partecipanti alla spedizione marittima[60]

Emerge in tutta chiarezza l’assoluto disprezzo e la totale irrilevanza giuridica degli atti della pirateria, così come di tutti quelli commessi con violenza.

Un’ultima considerazione credo sia da aggiungere riguardo alla persecuzione dei pirati ed alle pene comminate nei loro confronti.

In primo luogo, per tutta l’età repubblicana, era concesso a chiunque di inseguire, catturare ed uccidere senza indugio o necessità di processo i pirati: l’episodio di Giulio Cesare, il quale dopo aver pagato il riscatto tornò ad uccidere i suoi rapitori, ne è un esempio[61].

Nell’età imperiale si poteva agire extra ordinem cioè con le procedure sorte intorno all’ordinamento imperiale, attraverso le quali potevano essere condannati a pene severissime, rimesse alla valutazione del giudice, le quali prevedevano la condanna ai lavori forzati nelle miniere o all’esilio in qualche isola e nel caso di recidiva potevano arrivare sino alla pena di morte. Mentre i pirati famosi potevano essere appesi alla forca nei luoghi delle loro scorrerie, affinché la loro vista servisse da deterrente[62].

 

11. – Conclusioni

 

Al termine di questo breve e per necessità elitario excursus credi che si possa evidenziare la costante cura avuta dagli antichi e nello specifico dai romani per garantire la sicurezza dei mari e la fluidità e speditezza dei traffici marittimi, dando tranquillità ai partecipanti alla navigazione e ripartendo equamente i rischi della navigazione.

Le strade battute sono state diverse e in generale erano state delineate all’interno del Mediterraneo creando regole che i singoli ordinamenti recepivano e, ove opportuno, perfezionavano.

Il problema della sicurezza dei mari fu vissuto anzitutto come un problema politico, al quale il diritto apprestò le soluzioni secondo schemi collaudati che cercavano di allontanarsi il meno possibile da quelli predisposti in via ordinaria per la salvaguardia e lo sviluppo del traffico giuridico.

Le soluzioni adottate dai Romani, con i principi che, specie nel campo negoziale, le ispirarono meritano attenta considerazione e possono offrire spunti ragguardevoli alla costruzione del nuovo ius commune che i tempi richiedono e del quale la Comunità europea deve dotarsi.

Infine la riconsiderazione delle linee predisposte alla navigazione nel mondo antico serve ad evidenziare la omogeneità e la specificità della realtà Mediterranea, dalla quale, pur nello sforzo di costruzione del diritto europeo, non è opportuno prescindere.

Essa è una realtà essenzialmente marinara, perché appartiene a civiltà proiettate sul mare.

 

 



 

* Articolo pubblicato in Sicurezza marittima – Un impegno comune, a cura della Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli, Taranto 2005, 293-319.

 

[1] Si tratta dell’orazione Contro Zenotèmide, comunemente attribuita dalla tradizione a Demostene ed, in realtà scritta da un autore diverso dal grande oratore, ma vissuto al tempo di Demostene. In essa, ai §§ 4-9, si parla della controversia tra Demòne, cugino di Demostene, e Zenotèmide, commerciante marsigliese e si fa riferimento a Demostene come una delle personalità più influenti di Atene; inoltre si parla del porto di Siracusa come di un porto dall’inteso traffico commerciale: queste circostanze perciò inducono a collocare il testo nella seconda metà del IV sec. a.C., quando Demostene (menzionato al § 31) si era affermato ed il porto di Siracusa era assurto a nuova vitalità dopo la liberazione dalla tirannide di Timoleonte (avvenuta nell’anno 344 a.C.): cfr. Plutarco, Dem., 27; Tim., 23. Sul punto v. Paoli U.E., Cane del popolo - uomini e cose del mondo antico, 2a ed., Firenze 1958, 169.

 

[2] Il Paoli, op. cit., ci dà un efficace spaccato di questa umanità affannata: «Nei mesi in cui. le tempeste invernali non impedivano la navigazione, vi era nel porto del Pireo movimento, brusio, odor di catrame. A chi veniva dai quartieri alti, dall'¥stu, scendendo per la strada che seguiva le Lunghe Mura, affollata di giorno, deserta e pericolosa la notte, sembrava di trovarsi in un altro mondo. Lì era tutto un vociare, un viavai di doganieri, di commercianti, di usurai, di scaricatori; ogni tanto arrivava o partiva qualcuno a portar notizie recenti o a recapitar lettere di affari; in particolare a informarsi sui prezzi; ciò che gli agenti dei grossisti riferivano sull'andamento dei vari mercati in Grecia, serviva di base a stabilire il prezzo delle derrate e delle merci o a indirizzare il carico di una nave in una piazza piuttosto che in un'altra. Si parlavano tutti i dialetti, e i furbi s'intendevano a occhiate (il ladro riconosce il ladro, diceva il proverbio, «e il lupo il lupo»); dovunque, gruppi di uomini che contrattavano, discutevano, a volte con voce così concitata che sembrava si volessero prendere per i capelli; quando, per motivi d'interesse, non si accendeva davvero qualche rissa in mezzo a un clamore generale e con strascichi davanti ai Tribunali......Nella folla si aggirava molta gente losca, che viveva frodando tutti, compreso lo Stato, con l'esercitare il contrabbando; sì che il tratto più lontano della spiaggia, fuori dell'Emporio vero e proprio e meno atto a esser sorvegliato, si chiamava senz'altro «il porto dei ladri» ...... In mezzo a quel tumulto le navi di continuo arrivavano e di continuo partivano: colli di merce, pronta per l'imbarco, contenevano i prodotti della raffinata industria ateniese, specie quel maraviglioso vasellame di argilla figurata che giungeva sino nel Mar Nero, nella Scizia, nella penisola italica, nella Spagna; o erano anfore d'olio, del finissimo olio attico ricercato ovunque, di cui gli Ateniesi erano orgogliosi come di un dono divino, e ne avevano fatto un simbolo della loro città, persino nelle monete».

 

[3] V. Paoli, loc. cit. v. infra.

 

[4] Invero Marsiglia era una delle più belle: città splendida di edifici, e fine e colta; ricchezze immense, accumulate coi traffici, alimentavano il lusso: Paoli, loc. cit.

 

[5] Il punto è descritto dal Paoli, loc. cit., in questi termini: «La dea Atena; aveva gratificato la sua città di un'aria cristallina, di ricchi uliveti, che ne inargentavano i colli, di un, clima dolce; e a primavera rivestiva l’Imetto di fiori da cui le api suggevano il miele più prelibato. Ma al popolo prediletto la dea; aveva negato il pane: il pane veniva di lontano, portato col grano di cui erano cariche le navi mercantili, e leggi:severissime ne favorivano l'importazione. Al mare Atene doveva tutto, anche la sicurezza, per chi ci abitava, di non morire di fame. Quando però le navi non arrivavano, subito lo spettro della fame appariva minaccioso sulla città; e si era costretti a procedere al razionamento, con l'inevitabile inconveniente di dover fare lunghe code. Che io sappia, la prima testimonianza di quella umiliante tortura della nostra umanità, che sono le code, si legge in un testo attico del IV secolo avanti Cristo; e non sembra che nel far la coda gli Ateniesi, col loro carattere impaziente, mostrassero molta disciplina. Giudichi il lettore: “In quel tempo” si legge, “chi abitava in città ritirava nell'Odeon la sua razione di farina; quelli del Pireo andavano alla dàrsena a prendersi le pagnotte di pane, a un obolo l'una, e la razione di farina al Grande Portico, pagandola otto oboli e pestandosi l'un l'altro i piedi”». Sicché risulta evidente la convenienza del trasporto e della vendita di grano in Atene.

 

[6] In proposito v. Michel J., Gratuité en droit romain. Etudes d’histoire et d’ethnologie juridique, Bruxelles 1962, 303, 584 ss. L’interesse nelle gratuità dei contratti romani era di natura diversa da quella pecuniaria: per esempio poteva derivare dall’assolvimento di un dovere di aiuto del patrono o dal desiderio di avere buoni rapporti di vicinato ovvero dall’aspirazione a crearsi una buona reputazione utile per la carriera politica; e così via: cfr. Tafaro S., Regula e ius antiquum in D. 50. 17. 23Ricerche sulla responsabilità contrattuale, Bari 1984, 259 ss.

 

[7] Sul punto v. Tafaro S. [ a cura di], L’usura ieri ed oggi, in Atti del Convegno sull’usura – Foggia 7-8 aprile 1995, Bari 1997.

 

[8] V. Talamanca M., Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 345.

 

[9] In proposito v. Purpura G., Studi romanistici in tema di diritto commerciale marittimo, Palermo 1976, 196 ss.

 

[10] Purpura g., op. cit., 235.

 

[11] Cfr. Pugliese G., Istituzioni di diritto romano, Padova 1986, 587.

 

[12] V. Purpura G., op. cit., 228

 

[13] Purpura G., op. cit., 226 ss.

 

[14] Di essa è testimonianza in Macrobius, Saturnalia 2.6.2 e Quintilianus, Institutio oratoria 6.3.87.

 

[15] V. D. 41.3.30.pr., Pomponius l. 30 ad Sabinum: ..... alterum, quod ex contingentibus, hoc est pluribus inter se cohaerentibus  constat, quod sunymmenon vocatur, ut aedificium navis armarium (un altro tipo di ‘corpi’ consiste nelle cose collegate, cioè in una pluralità di cose connesse tra loro, come le navi).

 

[16] Al singolare il termine nauta ha diversi significati e può indicare anche l’armatore.

 

[17] Attraverso la preposizione del magister l’armatore assumeva la totale responsabilità degli obblighi assunti da questi. Ciò in virtù di un’apposita azione creata dal Pretore e chiamata actio exercitoria che obbligava il preponente, che spesso era un padrone che affidava la nave ad un suo sottoposto (per lo più uno schiavo): cfr. D. 14.1.1 pr.-ss., Ulpianus l. 28 ad edictum.

 

[18] D. 14.1.1.2, Ulpianus l. 28 ad edictum: .. quamquam ex delicto cuiusvis eorum, qui navis navigandae causa in nave sint, detur actio in exercitorem: alia enim est contrahendi causa, alia delinquendi, si quidem qui magistrum praeponit, contrahi cum eo permittit, qui nautas adhibet, non contrahi cum eis permittit, sed culpa et dolo carere eos curare debet (sebbene per il delitto di chiunque stia sulla nave per consentire la navigazione si concede di perseguire l’armatore: tuttavia diverso è il caso del contratto da quello del delitto, poiché chi prepone un magister acconsente a che si contratti con lui, mentre chi ingaggia marinai non dà il consenso a negoziare con essi tuttavia deve preoccuparsi che essi non commettano dolo o colpa), sul quale v. Menager L., 'Naulum' et 'receptum salvam fore'. Contribution à l'étude  de la responsabilité contractuelle dans les transport maritimes en droit romain, in RHD, 38, 1960, 177-213; 385-411.

 

[19] Cfr. Moschetti C., v. Nave (dir. romano) in Enciclopedia del Diritto XXVII, 1977, 565 ss. ed ivi bibl. Val la pena ricordare che l’organizzazione dell’impresa marittima poteva assumere tre forme essenziali. La prima era quella nella quale il dominus assumeva direttamente l’esercizio della nave assommando le funzioni di magister e di gubernator; la seconda concerneva aziende di una certa rilevanza destinate esclusivamente al carico e scarico di un determinato tipo di merce, per lo più prese in considerazione in ragione del loro peso o delle loro dimensioni. In tal caso il dominus  non si imbarcava sulle navi ma affidava il compito di assumere e consegnare le merci al solo gubernator (nocchiero) senza assumere anche un magister. La terza tipologia concerneve le imprese più complesse destinate ad attività ampie e non predefinite, le quali richiedevano una molteplicità di operazioni, in ragione delle quali era necessario affidare le attività economiche ad un magister, di norma affiancato ad un gubernator. Da ciò appare chiaro che solo nel primo caso il dominus armatore poteva sapere e controllare direttamente l’operato dei marinai; negli altri casi ciò era del tutto impensabile. Di conseguenza la responsabilità penale per i delitti dei marinai era di natura oggettiva o poggiava su presunzione assoluta.

 

[20] V. De Robertis F.M., Receptum nautarum, in Annali Fac. Giur. Università di Bari, 12, 1953, 5 ss.; Id., La responsabilità dell’armatore in diritto romano, in Rivista dir. navig. 3-4. Sottolineo che, in base a quanto ho anche ricordato, l’armatore a sua volta avrebbe riversato la responsabilità della perdita delle merci trasportate sui sovvenzionatori, in virtù della clausola con la quale egli riceveva il prestito marittimo.

 

[21] Cfr. Longo G., Disciplina armatoriale e imprenditizia nel diritto romano, in Ann. Fac. Giur. Univ. Macerata, N.S. IV [in onore di A. Moroni] Tomo III., Milano, 1982, 1397 ss.

 

[22] Cfr. D. 4.9.3.1, Ulpianus 14 ad edictum: ait praetor: " nisi restituent, in eos iudicium dabo". ex hoc edicto in factum actio proficiscitur. sed an sit necessaria, videndum, quia agi civili actione ex hac causa poterit: si quidem merces intervenerit, ex locato vel conducto: sed si tota navis locata sit, qui conduxit ex conducto etiam de rebus quae desunt agere potest: si vero res perferendas nauta conduxit, ex locato convenietur: sed si gratis res susceptae sint, ait Pomponius depositi agi potuisse. miratur igitur, cur honoraria actio sit inducta, cum sint civiles: nisi forte, inquit, ideo, ut innotesceret praetor curam agere reprimendae improbitatis hoc genus hominum: et quia in locato conducto culpa, in deposito dolus dumtaxat praestatur, at hoc edicto omnimodo qui receperit tenetur, etiam si sine culpa eius res periit vel damnum datum est, nisi si quid damno fatali contingit. inde labeo scribit, si quid naufragio aut per vim piratarum perierit, non esse iniquum exceptionem ei dari. idem erit dicendum et si in stabulo aut in caupona vis maior contigerit (Il pretore dice: “se non restituiscono darò un’azione”, perciò da questo editto nasce un’azione in fatto. Bisogna vedere se essa sia necessaria, poiché per i motivi descritti si può agire con un’azione civile: che è quella di locazione-conduzione se interviene la mercede; ma se è locata l’intera nave, il conduttore può agire anche per le cose che mancano; se poi l’armatore si impegnò a consegnare le cose, sarà convenuto con l’azione di locazione; mentre se le cose sono state prese gratuitamente, Pomponio dice che si poteva agire per il deposito. Pertanto stupisce che è stata introdotta un’azione onoraria, mentre vi sono azioni civili: a meno che, dice, affinché questo genere di uomini abbia presente che il pretore si preoccupa di reprimere le scorrettezze: e poiché nella locazione e conduzione si presta la colpa, nel deposito solo il dolo, invece in base a questo editto chi ha preso sarà tenuto in ogni caso, anche se la merce perì senza sua colpa ovvero fu danneggiata, salvo che intervenga un danno fatale. Pertanto Labeone scrive che si alcunché avvenne per naufragio o per la violenza dei pirati non è iniquo dare a lui (all’armatore) un’eccezione. Lo stesso va detto se la forza maggiore si verificò in una stalla o in una osteria).

Sul brano, cfr.: Menager L., 'Naulum' et 'receptum salvam fore', cit.; Brecht Chr.H., Zur Haftung der Schiffer im antiken Recht [Münchener Beiträge zur Papyrusforschung und antiken Rechtsgeschichte,  Heft 45], 1962, 163; De Robertis F.M., La disciplina della responsabilità contrattuale nel sistema  della compilazione giustinianea, Vol. III, Bari 1966, 683; Doll A., Von der vis maior zu höheren Gewalt. Geschichte und Dogmatik eines haftungsentlastenden Begriffs, Frankfurt/M., Bern, New York, 1989.

 

[23] Purpura G., op. cit., 286 nota: «L’incertezza della navigazione antica e le frodi frequenti dei marinai dovevano contribuire a rendere l’eventualità della scomparsa della nave non rara».

 

[24] Su di essa vi è una cospicua bibliografia, dalla quale segnalo: Osuchowski W., Appunti sul problema del «iactus» in diritto romano, in Iura 1, 1950, 292 ss.; Wieacker F., «Iactus in tributum nave salva venit» D.14.2.4 pr. Esegesi della «lex Rhodia de iactu», in Nuova Riv. Dir. Comm. Dir. dell'Econ. Dir. Soc. 4, 1951, 287ss.; Wieacker F., Iactus in tributum nave salva venit. (D.14.2.4 pr.). Exegesen zur lex Rhodia de iactu, in Studi in memoria di Emilio Albertario, Milano 1953, 513; De Robertis F.M., Lex Rhodia. Critica e anticritica su D.14.2.6, in Studi Arangio-Ruiz, 3, Napoli 1953, 155 ss.; Wilinski A., D.19.2.31 und die Haftung des Schiffers im altrömischen Seetransport, in Annales Univ. Mariae Curie-Sklodowska 7, 1960, 353 ss.; Meira S.A.B., A Lex Rhodia de iactu. Sua repercussao no direito brasileiro, in Revista do Tribunal Regional do Trabalho, 1969, 12 ss.; Thomas J.A.C., Juridical Aspects of Carriage by Sea and Warehousing in Roman Law, in Recueils Soc. J. Bodin 32, Bruxelles, 1974, 117 ss.; Ahburner W., Nomos Rhodiôn Nautikos. The Rhodian Sea Law, Aalen 1976; Honsell H., Ut omnium contributione sarciatur quo pro omnibus datum est. Die Kontribution nach der Lex Rhodia de iactu, in Ars boni et aequi. Festschrift für W. Waldstein, Stuttgart 1993, 141 ss.; De Martino F., Lex Rhodia. Note di diritto romano marittimo, in Diritto, economia e società nel mondo romano, I, Napoli 1995, 285 ss.; Wagner H., Die lex Rhodia de iactu, RIDA. 44, 1997, 357 ss.; Pókecz Kovács A., Les problémes du 'iactus' et de la 'contributio' dans la pratique de la lex Rodia, in A bonis bona discere. Festgabe für Janós Zlinszky zum 70., Miskolc 1998, 171 ss.

 

[25] Sul punto v., in particolare, De Robertis F.M., Lex Rhodia. Critica e anticritica su D. 14.2.9, in Scritti vari di diritto romano, Bari 1987, 309 ss; Purpura G., Studi, cit., 74 ss.

 

[26] Depongono in tal senso l’esistenza di una rubrica dei Digesta di Giustiniano che intitola il titolo II del libro 14 a De lege Rhodia de iactu, la menzione da parte dell’apologeta Tertulliano (che potrebbe essere l’omonimo giurista romano: v., in tal senso De Robertis, op. cit. alla nota prec., 312 s. ed ivi nt. 17) in Adversus Marcionem 3.6. Ciononostante ritiene che la legge non sia esistita l’ Osuchowsky poiché egli nota l’assenza della sua menzione nella Sentenze attribuite a Paolo: Pauli Sententiae 2.7. Altri mette in discussione che la legge si riferisse al lancio delle merci e pensa che piuttosto dovesse concernere il pagamento o meno dei dazi per le merci naufragate o lanciate in mare: Purpura G., Studi cit., 75 ed ivi bibl., con particolare riferimento alla tesi del Rougé J., Recherches sur l’organisation du commerce maritime en Méditeranée sous l’empire romaine, Paris 1966, partic. 339 ss., secondo il quale nel mediterraneo vi sarebbe stata una molteplicità di consuetudini marine contrastanti durante l’età imperiale e il trattamento dei relitti sarebbe stato differente da quello delle merci gettate in mare e arrivate in porto, per quanto concerneva il diritto del fisco.

 

[27] Su questi due punti v., in particolare, gli scritti del Purpura, citati in precedenza.

 

[28] Nasce da ciò una ricca casistica la quale, ad esempio, esclude la responsabilità per coloro che da soli si sono disfatti delle merci (v. D. 14.2.5, Hermogenianus l. 2 iuris epitomarum) o per l’albero divelto dalla tempesta, che però non incida sulla salvezza del viaggio (P. S. 2.7.2). Ma la casistica è varia. Qui non mi posso soffermare, ritenendo sufficiente avere indicato il principio regolatore di essa.

 

[29] Responsabile (come si è detto: cfr. § 4) della conduzione economico-commerciale della navigazione, con effetti che ricadevano direttamente sull’armatore.

 

[30] Cannata C. A., La disavventura del capitano J. P. Vos, in Labeo 3, 1995, 399.

 

[31] Differente opinione è espressa da Reichard I., Die Frage des Drittschadensersatzes im klassichen römischen Recht, Köln-Weimar-Wien, 1993, 136, il quale ipotizza che la ritenzione potesse avvenire solo dopo l’esperimento dell’azione locati da parte dei vectores interessati e che anzi l’esperimento di quell’azione fosse condizione necessaria per la ritenzione da parte del magister. Come ha ben visto il Cannata (op. cit., partic. 400) questa tesi non appare convincente. Basta osservare che se così fosse i vectores indenni potrebbero abbandonare la nave prima che il magister effettui la ritenzione a lui impedita in assenza di un’azione da parte dei vectores danneggiati (i quali dovevano prima sbarcare e poi rivolgersi al magistrato giusdicente per promuovere l’azione loro spettante): quindi l’intero sistema sarebbe stato inutile!

 

[32] È discusso se si tratti di Antonino Pio o di Marco Aurelio, ma la migliore dottrina propende per il primo: v. De Robertis, Lex Rhodia, cit., 319 s.; Purpura G., op. cit., 329 s.

 

[33] Per la traduzione mi avvalgo del suggerimento del Purpura (op. cit., p. 302), integrata dai suggerimenti del  Manfredini, ivi richiamato alla nt.60.

 

[34] Mi pare sufficiente rinviare ai citati lavori del De Robertis e del Purpura, i quali discutono anche la letteratura suscitata dal brano.

 

[35] L’espressione è apparsa sospetta di influenza cristiana, quando l’Imperatore fa derivare i suoi poteri da Dio e pertanto li riferisce a tutto il pianeta (come rappresentante in terra del Signore che sta nei cieli). In realtà nel significato corrente durante il Principato, dove di kÒsmou kÚrioj si parlava in vario modo per diversi imperatori a partire da Nerone, e sta ad indicare la dimensione e la concezione universale dell’Impero: in tal senso v. De Robertis, Lex Rhodia, cit., 320 ss.

 

[36] In questa lettura credo di potere seguire le argomentazioni del Purpura (op. cit., 306 ss.) contro difformi interpretazioni, ivi discusse, che ipotizzano che proprio la legge Rodia dovesse prevedere il pagamento dei dazi e che Eudemone chiedesse all’imperatore di non applicarla ma che la sua richiesta sarebbe stata respinta.

 

[37] Va precisato che la natura del rescritto imperiale non era tanto quella di produrre nuovo diritto, bensì quella di confermare, chiarendolo, il diritto preesistente da applicare nel caso sottoposto al vaglio dell’imperatore: in generale sul punto v. AA. VV., Lineamenti di storia del diritto romano, 2a ed., Milano 1989, 420 ss.

 

[38] Diversa interpretazione dei brani è stata fornita dal Rougé J., Le droit de naufrage et ses limitations en Méditerranée avant l’établissement de la domination de Rome, in Mélanges Piganiol, II, Paris 1966, 1467 ss. Il quale sostiene che vi sarebbe stato un differente regime per i relitti e per le cose gettate in mare e che solo le seconde sarebbero state esentate dai tributi; mi pare, tuttavia, che la sua tesi, come ha ben visto il Purpura (loc. cit.) contrasti con il tenore concorde delle fonti.

 

[39] Sul punto vi fu una controversia tra le due scuole nelle quali erano raggruppati i giuristi romani, quella dei Sabiniani e quella dei Proculiani. Per i primi con l’abbandono il proprietario perdeva la proprietà e la cosa diventava di nessuno (res nullius) e poteva essere acquistata da chiunque se ne appropriasse. secondo i Proculiani, invece, l’abbandono configurava un caso di consegna a persona da identificare (traditio in incertam personam): cfr. Marrone M., Istituzioni di diritto romano, 2a ed., Palermo 1995, 319 ss.; Talamanca M., Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 415 s.

 

[40] Sul punto cfr. Rougé J., loc.cit.

 

[41] Il brano che riporto apparteneva ad Ulpiano il quale non fu solo un grande giurista, ma rivestì cariche elevatissime sino ad essere stato, per un certo periodo, il vero gestore dell’impero, in qualità di tutere del giovane ed imberbe imperatore Alessiano: v., con ivi bibl., Tafaro S., Debito e responsabilità, Bari 2000, 70 s.

 

[42] Famoso è rimasto il rapimento di Cesare, preso in ostaggio dai pirati, ancor giovane, durante un viaggio a Rodi dove intendeva seguire le lezioni del retore Apollonio Morone. Egli dapprima si offese per l’eseguità del riscatto che questi intendevano chiedere per lui e ne pattuì egli stesso l’ammontare consono alla sua persona ed al suo valor. Però promise di fargliela pagare e mantenne la promessa, tornando a per catturarli ed impiccarli, come a loro stessi aveva giurato (però, per la mitezza e signorilità del suo carattere, li uccise prima di impiccarli): cfr. Svet., De vita duodecim Caesarum libri VIII, Caesaris Vita, 74; Plut., Caesar, 2.

 

[43] Cfr. Ronzitti N., v. Pirateria (storia), in Enciclopedia del Diritto, xxxiii, 1983, 873 ss. ed ivi bibl.

 

[44] Monaco L., Persecutio piratarum. 1. Battaglie ambigue e svolte costituzionali nella Roma repubblicana, Napoli 1996; sul punto, 53.

 

[45] Mannino V., Rc. a L. Monaco, Persecutio piratorum, in sdhi 65(1999), 443.

 

[46] Ronzitti N., v. Pirateria (storia), in Enciclopedia del Diritto, xxxiii, cit., 874.

 

[47] Monaco L., Persecutio, cit., 113.143.

 

[48] In un primo tempo Gabinio tentò di ottenere il provvedimento dal senato, ma per poco non ci rimise la pelle, tanto tenaci erano le resistenze dei senatori: v. De Martino, Storia della costituzione romana, III, Napoli 1966, 132 ss.

 

[49] V. De Martino, Storia della costituzione romana, III, cit., 135.

 

[50] Appianus, Mithrid. 94-96.

 

[51] Regione costiere a ridosso delle montagne dell’attuale Turchia.

 

[52] V. Rougé J., Navi e navigazione nell’antichità, Firenze 1977, 110. Cfr.: Appianus, Mithr. 96; Plutarcus, Pompeius, 27-28; Cicero, De officiis 3.11.49.

 

[53] Appianus, civ., 77-80.

 

[54] Cfr. Rostovzev M., Storia economica e sociale dell’impero romano, Firenze 1963, 504 ss.

 

[55] Ronzitti N., v. Pirateria (storia), in Enciclopedia del Diritto, xxxiii, cit., 875.

 

[56] Sul punto vi è una letteratura molto vasta. Ricordo che il pretore aveva predisposto appositi strumenti (come l’exceptio doli e l’exceptio pacti conventi) per consentire il rispetto dei patti: nell'edictum de pactis et conventionibus, in cui era contenuta la generale previsione: pacta conventa, quae neque dolo malo, neque adversus leges plebis scita senatus consulta edicta decreta principum ne qua fraus cui eorum riai facta erunt, servabo (darò attuazione ai patti che siano stati conclusi non. dolosamente, né contro le leggi, i plebisciti, i senatoconsulti, gli editti e i decreti degli imperatori, né in modo tale da esser in frode a tali provvedimnti normativi). Cfr. Talamanca M., Istituzioni, cit., 606 ss.; Pugliese G., Istituzioni, cit. pp. 646 ss.; Marrone M., Istituzioni, cit., 509; Sturm F., Il pactum e le sue molteplici applicazioni, in Contractus e Pactum - Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina (a cura di Francesco Milazzo), Napoli 1990, 149 ss.

 

[57] D. 49.15.24, Ulpianus l. 1 institutionum:  et ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est (di conseguenza chi è stato rapito dai pirati non diventa loro schiavo); D. 50.15.19.2, Paulus l. 26 ad Sabinum: A piratis aut latronibus capti liberi parmanent (le persone catturate dai pirati o dai ladroni restano libere); D. 28.1.13.pr., Marcianus l. 4 institutionum: Qui a latronibus capti sunt, cum liberi manent, possunt facere testamentum (Coloro che siano stati catturati dai ladroni possono fare testamento, perché restano liberi). Sul punto, come su tutta la tematica dei pirati, e sui brani v. Damati L., Civis ab hostibus captus. Profili del regime classico, Milano 2004, 11, n. 39, 41, n. 130, 26, 36 s.

 

[58] Cfr Ronzitti N., v. Pirateria (storia), in Enciclopedia del Diritto, xxxiii, cit., 879.

 

[59] Cfr. Ronzitti N., v. Pirateria (storia), in Enciclopedia del Diritto, xxxiii, cit., 880.

 

[60] D. 14.2.2.3, Paul l. 34 ad edictum; Ronzitti N., v. Pirateria, cit., 881.

 

[61] V. sopra nt. 42.

 

[62] V. D. 48.19.28.10 e 15, Callistratus l. 6 de cognitionibus: cfr. Ronzitti N., v. Pirateria, cit., 882.