Navi e naviganti nell’antico Mediterraneo*
Università di Bari
Sommario: 1. Mediterraneo. Atene.
– 2. Contratti
marittimi: Egèstrato. – 3. Contratti
marittimi nel diritto romano. – 4. Nave e
organizzazione della navigazione. Recepta.
– 5. Lex Rhodia. – 6. La contributio. – 7. Priorità
della legge del mare. – 8. Relitti e
cose gettate in mare.
– 9. La pirateria.
– 10. Piratae. – 11. Conclusioni.
Le vicende del mare intorno al quale si sono
sviluppate le civiltà del passato
destinate a durare nei tempi e che ancora oggi costituiscono il patrimonio
culturale e le caratteristiche dell’Occidente sono tante e varie.
Occorrerebbe ben altro che le mie poche righe.
Perciò sono costretto a procedere
episodicamente quasi a schizzi, richiamando alcuni dati ed alcuni episodi.
Ed anche così mi trovo in imbarazzo perché un
mare il cui nome fu ed ancora oggi viene usato per indicare un’area ed un
coacervo di civiltà di fatti notevoli ne ha visti tanti che è impossibile enuclearli.
Qualcuno tuttavia si può tentare di ricordarlo
perché offre la possibilità di penetrare nell’intrigante groviglio delle realtà
mediterranee e forse aiuta a capire il presente.
Come nell’episodio, raccontato nell’orazione
dello pseudo-Demostene[1],
di Egèstrato.
Siamo nell’Atene della metà del IV secolo a.C.,
quando la vita della città e soprattutto gli intensi traffici erano in pieno
fermento con incessante brulichio di uomini che venivano da ogni dove e si
affastellavano per le viuzze del suo porto (il Pireo).
Lì si riversava un fiume laborioso ed
incessante, ma anche una fola di imbroglioni e lestofanti di ogni risma[2].
Dunque nel Pireo si accendeva un intreccio
febbrile di rotte che ponevano con forza la questione della sicurezza della navigazione
e, di conseguenza, degli strumenti più idonei a garantire i traffici marittimi
attraverso la predisposizione di appropriate e specifiche forme contrattuali
incentrate sul nodo di chi dovesse sopportare l’alto rischio legato alla
navigazione.
Questo gran fermento, infatti, convergeva nei
commerci da effettuare attraverso imbarcazioni che incessantemente solcavano il
Mediterraneo verso e da ogni direzione.
Si trattava di imbarcazioni di diverso tipo e
di differente stazza, per lo più dotate di un duplice sistema di spostamento,
che assicuravano loro velocità e manovrabilità: a vele e a remi.
Fig. . - Nave greca.
(Da un vaso di Exekias;
V sec. a.C.).
I viaggi di siffatte navi richiedevano l’impiego
di molta mano d’opera e di personale specializzato ed erano molto costosi.
Gli armatori spesso avevano bisogno di chiedere
finanziamenti, che per lo più erano concessi da banchieri, con i quali
acquistavano le merci che dovevano essere trasportate e che vendute al porto di
destinazione avrebbero consentito di realizzare considerevoli guadagni. Perciò
nei porti si vedevano spesso banchieri, sempre attorniati da clienti, che se ne
stavano curvi sui libri, occupati a fare annotazioni sui loro registri, a
contar denaro, a prendere in deposito contratti di prestito marittimo (suggrafaˆ nautika), a ricevere ordini di pagamento,
dichiarazioni. Essi potevano gestire somme proprie o somme date loro da persone
abbienti e desiderose di realizzare guadagni elevati che solo il prestito
marittimo poteva far conseguire. Così come poteva capitare che persone in possesso
di denaro sovvenzionassero direttamente un viaggio ed un carico per cercare di
trarre un lucro elevato dal prestito marittimo[3].
Ma in che consistevano questi prestiti
marittimi?
Si trattava di prestiti particolari,
contrassegnati dalla particolarità del rischio in essi insito, il quale era
legato alle vicende della navigazione sino al punto di prestarsi ad ardite e
paradossali speculazioni che proprio l’episodio di Egèstrato rivela nella loro
paradossalità.
Vediamo il caso, raccontato nell’orazione.
Egèstrato era un naÚklhroj, vale a dire un
proprietario di nave, marsigliese. Apparteneva cioè ad una città molto fiorente[4]
notissima per i suoi traffici marittimi, per la sua vasta potenza mediterranea,
realizzata con colonie e approdi fortificati sulle coste del Mar Ligure, in
Gallia, nella Spagna e nelle isole Stoichades e con sviluppata e rigogliosa
marina mercantile, costituiva una delle città più note e frequentata dalle
rotte del Mediterraneo. Però il nostro Egèstrato della sua patria doveva
conservare non tanto il costume civile quanto lo spirito rapace che gli
derivava dagli antichi abitatori di Marsiglia, i quali erano stati pirati,
sebbene in seguito si erano trasformati in pacifici cittadini e anzi avevano
lottato e sconfitto la pirateria.
Sta di fatto che il nostro Egèstrato concepì un
piano ardito reso concepibile dalle caratteristiche del prestito marittimo.
Al suo tempo il prestito marittimo prevedeva
che se la nave naufragava, il creditore perdeva tutto, capitale e interessi
pattuiti; se, invece, il viaggio si compiva felicemente e quindi la merce veniva
venduta con grandi guadagni per il proprietario il prestatore aveva diritto
alla restituzione della somma prestata maggiorata di un interesse elevato
(introno al 30%); pertanto il contratto di prestito marittimo conteneva la
clausola consueta «se la nave arriva in porto» (swqej tÁj neèj).
Su questa clausola fece leva Egèstrato il quale
nel rifiorito porto di Siracusa chiese ed ottenne prestiti per trasportare
grano in Grecia, ad Atene, dove all’epoca il grano aveva raggiunto quotazioni
molto elevate perché la città era affamata di pane, mentre in Sicilia il prezzo
del grano era molto basso[5].
Egli però non si premurò di compiere l’operazione prospettata ai suoi
finanziatori, bensì progettò di frodarli cercando di realizzare per sé un
guadagno ancora più elevato di quello che già una siffatta operazione gli avrebbe
garantito.
Egli spedì con altra nave il grano a Marsiglia,
dove l’avrebbe venduto a buon prezzo e contemporaneamente partì per Atene, con
l’intenzione di non giungervi mai. Infatti egli pensò che se la nave avesse
fatto naufragio egli non sarebbe stato tenuto a dare più nulla ai suoi sovvenzionatori
in virtù della clausola swqej tÁj neèj aggiunta, come di consueto, al suo contratto
di prestito e che esonerava chi aveva ottenuto il prestito dalla restituzione
qualora, per un motivo qualsiasi, la nave non fosse arrivata a destinazione.
Per raggiungere il suo scopo Egèstrato tentò di far naufragare la nave aprendo
di proposito notte tempo una falla in essa: egli, incurante della sorte degli
altri passeggeri, pensava di mettersi in salvo con la scialuppa di salvataggio
(sk¦fa). Così egli pensava di
raggiungere il porto della vicina Cefalonia; lì avrebbe potuto raccontare a suo
modo le sfortunate vicende del naufragio e avrebbe poi raggiunto Marsiglia,
dove avrebbe riscosso il prezzo del grano senza nulla dare ai sovvenzionatori
di Siracusa. Ai quali non sarebbe rimasto altro che l’amarezza per un prestito
concesso a condizione che la nave giungesse a destinazione salva.
La vicenda, purtroppo per Egèstrato, ebbe ben
altro epilogo, perché scoperto dagli inferociti viaggiatori insospettiti dai
rumori che egli stava facendo per divellere le travi della nave cercò di sfuggire
alla loro cattura gettandosi in mare: purtroppo per lui cadde lontano dalla
scialuppa di salvataggio e fu travolto dai flutti.
L’episodio appare illuminante sull’esistenza di
usanze e contratti di navigazione nel Mediterraneo.
In essi si imbatterono i Romani quando a loro
volta si trasformarono in potenza marittima e si dedicarono al commercio
marittimo.
Per loro le regole della navigazione in uso
furono un motivo di incontro e anche di scontro, perché apparivano improntate a
criteri e principî completamente diversi da quelli che avevano caratterizzato
il diritto civile delle città di Roma.
Il ius
civile invero aveva conosciuto il prestito fin dai tempi più remoti ma lo
aveva concepito come un rapporto tra persone legate da specifici vincoli (di vicinitas, amicitia, patronatus etc.)
le quali si aiutavano, in base a specifici doveri di solidarietà,
reciprocamente e gratuitamente. Perciò il prestito per i Romani pur quando si
era articolato in un contratto aveva conservato come connaturato ed essenziale
il carattere della gratuità. La quale
non significava che il contratto doveva essere disinteressato e basato
sull’assenza di reciprocità o gratificazione[6],
bensì che non poteva prevedere il pagamento degli interessi.
Con ciò non si vuol dire che i romani non
conoscevano il pagamento di interessi, perché anzi questi erano frequenti e
pressanti, tanto da diventare argomento ed oggetto delle lotte tra patriziato e
plebe e da costituire un motivo di frequenti interventi legislativi, tendenti
(in genere) a contenerli in misura ragionevole[7].
Tuttavia gli interessi non potevano derivare dal contratto di prestito (mutuum) ma dovevano essere previsti in
un altro apposito contratto, che per lo più si realizzava attraverso una
stipulazione (stipulatio) collaterale
(limitata ai soli interessi o comprensiva del capitale o sotto forma di penale
complessiva abbracciante tutto il dovuto), che accompagnava in vario modo il mutuum[8].
Questa configurazione fu messa in discussione
in radice dall’affiorare del prestito
marittimo, per il quale i romani dovettero e seppero rinunciare alle
proprie concezioni per assorbire ed elaborare quelle circolanti nel Mediterraneo
e nel suo intreccio di traffici, sicuramente indiscusse nel V sec. a.C., ma
forse già radicate nel VI sec.[9].
Ciò avvenne tra la fine del III e gli inizi del
II secolo a.C.[10]
attraverso l’elaborazione di una figura specifica ed a sé stante che prese il
nome foenus nauticum o pecunia traiecticia[11]
e si articolò con varie modalità ma in definitiva attraverso una straordinaria
continuità dal mondo greco a tutta l’esperienza romana, assestandosi
sull’elemento essenziale della traslazione del rischio, che normalmente nel
mutuo grava su chi ha ricevuto il denaro, a carico di chi presta il denaro e
sul computo dell’obbligo di restituzione e della corresponsione degli interessi
“a vicenda marina” e non a tempo. Cioè, mentre di regola gli interessi vengono
prestati in ragione del tempo di utilizzo del prestito, nel caso del prestito
marittimo essi dipendono dalla conclusione del viaggio, a prescindere dal tempo
impiegato dalla nave per raggiungere il porto di destinazione[12].
Le ragioni del prestatore erano garantite
attraverso istituti che accompagnavano il prestito stesso. Nello specifico si
poteva configurare una garanzia, detta hypothéke,
che consentiva al creditore di prendere possesso della nave e del carico una
volta giunti a destinazione, ma senza che ciò fosse di impedimento alla vendita
della merce trasportata da parte del debitore, consentendo all’acquirente di
prendere possesso delle mercanzie acquistate pagando al debitore-trasportatore
la sua parte di guadagno ed al creditore-sovvenzionatore la restituzione del
prestito con gli alti interessi pattuiti. In ogni caso, tanto nel mondo greco
che in quello romano il debitore aveva 20 giorni di tempo per procedere alla
vendita delle merci e soddisfare i creditori[13].
È da aggiungere che nel mondo romano si fece
strada la prassi di salvaguardare le aspettative di chi consegnava le proprie
merci all’imprenditore marittimo (exercitor
navis) affinché venissero trasportate.
Sul punto appare opportuna una premessa
concernente l’organizzazione della nave e della navigazione.
La nave non ebbe una considerazione a sé stante
ma fu filtrata dalle distinzioni operate in via generale riguardo alle res (alle cose). Essa non venne considerata come università di fatto o iuris
(universitas facti o iuris), come avvenne ad opera della
dottrina romanistica sorta in Germania e detta della Pandettistica. Essa venne
generalmente inclusa tra le cose mobili, ma secondo una decisione del giurista
tardo-repubblicano Aulo Cascellio[14],
era da considerare una cosa sì mobile ma connessa
(connexa) cioè fatta di cose tra
loro unite in modo funzionale[15]
e contraddistinte dalla finalità costituita dalla destinazione alla
navigazione. Questa finalità essenziale esigeva una rigorosa organizzazione che
era ripartita tra l’exercitor,
(l’armatore), il magister,
responsabile dell’attività economica connessa alla navigazione, il gubernator, responsabile delle funzioni
tecniche legate al comando della nave. A questi si affiancavano diversi
lavoratori subordinati, come i nautae[16], i marinai, i mesonautae, i marinai destinati ai lavori di sottocoperta, i remiges, i rematori, i nautaepibatai, passeggeri che si
pagavano il trasporto lavorando sulla nave, i custodes navium, addetti alla sorveglianza della nave, i diaetarii, con funzioni di contabili per
le operazioni commerciali, i naupegi,
carpentieri, il proreta o ducator, avvistatore di rotta che
vigilava segnalando pericoli o l’avvistamento di scogli o ostacoli diversi.
L’organizzazione prevedeva che l’armatore fosse
responsabile solo delle obbligazioni contratte dal magister, nascendo la sua responsabilità dal solo fatto che egli
poneva costui a capo della nave[17],
mentre di norma non era responsabile delle obbligazioni assunte dagli altri
membri dell’equipaggio; a meno che si trattasse di delitto, perché rientrava
negli obblighi dell’armatore garantire che nessun membro dell’equipaggio commettesse
azioni delittuose[18];
si trattava di una culpa in eligendo
mista ad una di culpa in vigilando
presunta, la quale forse configurava una responsabilità obiettiva, dato che,
come ricordano le stesse fonti romane, l’armatore non era presente durante la
navigazione[19].
Orbene di fronte a questo apparato il singolo
che volesse richiedere il trasporto delle proprie merci era in parte indifeso
in parte fiducioso che il trasporto sarebbe andato a buon fine. Se però avesse
dovuto affrontare i rischi connessi alla navigazione probabilmente non avrebbe
più affidato le proprie merci. Si ritenne di conseguenza opportuno dargli
assicurazione che egli non avrebbe condiviso i rischi della navigazione.
All’uopo fu creato una specie di contratto
di garanzia attraverso l’esplicito addossamento esclusivamente su di sé
della responsabilità della navigazione da parte dell’armatore, il quale
probabilmente esplicitamente garantiva che “le merci affidate venivano ricevute
con garanzia di salvezza” (salvas res
fore recipere). Questa garanzia con il tempo diventò un elemento naturale
del negozio e nasceva dal solo fatto di accettare le cose a bordo della nave:
si parlò perciò di receptum, cioè di
negozio nascente dal ricevimento (della merce)[20].
In tal modo il deponente era indenne da ogni rischio[21]
e fino agli inizi del Principato persino da quelli derivanti da forza maggiore,
come il naufragio e l’assalto dei pirati. Però proprio tra la fine della
Repubblica e gli inizi del Principato il giurista Antistio Labeone espresse
l’opinione, poi seguita quasi unanimemente, che l’armatore non fosse
responsabile se potesse provare che il perimento delle merci era stato causato
da forza maggiore[22].
È dunque il rischio
collegato alla navigazione l’elemento centrale ed il perno dei contratti marittimi,
sui quali da tempo dibatte una copiosa e a volte contrastante dottrina, della
quale non si può dar conto in questa sede.
Il rischio era consustanziale alla navigazione
sia per le vicende del mare sia per i pericoli creati dagli uomini, anche come
si è visto per opera degli armatori e in generale della gente di mare[23].
Su di esso poggiava anche una delle più antiche
disposizioni regolatrici dei traffici marittimi, che viene ricordata come
originaria dell’isola di Rodi: la lex
Rhodia de iactu[24].
La legge è stata molto discussa nel suo
contenuto e nella sua portata. In particolare ci si è domandato se sia
effettivamente una legge di Rodi e se si applicava al diritto romano o solo,
come diritto locale, nel Mediterraneo orientale[25].
Non potendomi soffermare sulla complessità degli interrogativi sollevati, mi
sembra di potermi limitare qui a sostenere che un legge con quel nome era conosciuta
ed applicata dai giuristi e dagli imperatori romani[26].
Sicché appare probabile che nel Mediterraneo
fosse applicata una legge nata a Rodi e recepita anche dal diritto romano
secondo la quale quando per necessità della navigazione fosse stato necessario
alleggerire la nave gettando a mare parte o tutte le merci (iactus mercium) il danno che ne
conseguiva andava ripartito tra tutti i proprietari delle merci imbarcate. Chi
aveva subito la perdita delle proprie merci poteva rivolgersi al magister con l’azione di8 locazione,
mentre questi poteva rivolgersi ai proprietari delle merci salvate con l’azione
di conduzione.
Un’altro punto della legge doveva concernere i
dazi portuali prevedendo l’esenzione per la nave e le merci naufragate o
gettate in mare.
Infine punto assai controverso era
l’appartenenza del relitto e delle merci gettate in mare, per le quali la
dottrina contemporanea discute se appartenessero a chi se ne impossessava dopo
il naufragio oppure restassero di proprietà del precedente proprietario oppure
ancora potessero venire confiscati[27].
Illuminanti, per capire la ratio, delle disposizioni della legge, sono le parole dei giuristi
romani.
In particolare Paolo nel terzo secolo d. C. dice
che il riparto del danno tra tutti i proprietari delle merci affidate per il
trasporto è giustificato dalla necessità di garantire la navigazione, che è, evidentemente,
ritenuta finalità comune:
D. 14.2.1, Paulus l. secundo sententiarum: Lege Rhodia
cavetur, ut, si levandae navis gratia iactus mercium factus est, omnium
contributione sarciatur quod pro omnibus datum est (Attraverso la legge Rodia si ha cura di fare in modo che, qualora si
sia proceduto a gettare in mare le merci allo scopo di consentire la
navigazione, il danno sia diviso tra tutti perché è stato causato
nell’interesse di tutti).
Pauli Sententiae 2.7.1: Levandae navis gratia iactus cum mercium
factus est, omnium intributione sarciatur, quod pro omnibus iactum est (Se il lancio delle merci è stato fatto per
consentire la navigazione, il danno deve essere risarcito con il contributo di
tutti, poiché il lancio è stato effettuato nell’interesse di tutti).
Il pensiero del giurista, che appare condiviso
da altri giureconsulti, appare chiaro ed è incentrato su un’idea semplice ma
efficace: la navigazione è l’interesse primario nel caso di nave in mare e ad
essa sono chiamati a contribuire tutti coloro che abbiano a che fare con il
natante. Perciò se si rende necessario alleggerire la nave non dovrà subire la
perdita delle cose gettate in mare solo il proprietario di esse. Invero, poiché
l’abbandono in mare avviene per consentire la navigazione si deve sostenere che
esso avvenga nell’interesse di tutti quelli che hanno qualche carico sulla
nave; di conseguenza, le perdite vanno ripartite tra tutti.
Il criterio, in un mondo nel quale non vi erano
contratti di assicurazioni predisposti per salvaguardare il proprietario delle
merci, stabilisce un principio di solidarietà creata dalle esigenze della navigazione,
tra le quali è primaria la salvezza della nave e dei passeggeri, e finalizzata
ad essa, in modo che viene meno se si verificano eventi dannosi che non sono
legati a quella finalità[28].
Solo così i traffici marittimi potevano essere incrementati in maniera
considerevole si riusciva a dare (sia pure in via indiretta) sicurezza ad essi.
Vediamo ora come il sistema escogitato a Rodi
doveva funzionare in concreto.
Ancora una volta possiamo utilizzare il racconto
del giurista Paolo:
D. 14.2.2.pr., Paul. 34
ad ed.: Si laborante nave iactus
factus est, amissarum mercium domini, si merces vehendas locaverant, ex locato
cum magistro navis agere debent: is deinde cum reliquis, quorum merces salvae
sunt, ex conducto, ut detrimentum pro portione communicetur, agere potest.
servius quidem respondit ex locato agere cum magistro navis debere, ut
ceterorum vectorum merces retineat, donec portionem damni praestent. immo etsi
(non) retineat merces magister, ultro ex locato habiturus est actionem cum
vectoribus: quid enim si vectores sint, qui nullas sarcinas habeant? plane commodius
est, si sint, retinere eas. at si non totam navem conduxerit, ex conducto aget,
sicut vectores, qui loca in navem conduxerunt: aequissimum enim est commune
detrimentum fieri eorum, qui propter amissas res aliorum consecuti sunt, ut
merces suas salvas haberent (Se sono
state gettate in mare delle merci a causa delle difficoltà della nave i
proprietari delle merci, che abbiano dato in locazione le merci affinché
venissero trasportate, devono agire con il magister della nave con l’azione di
locazione; questi a sua volta agisce nei confronti degli altri proprietari, le
cui merci sono salve, con l’azione di conduzione. Servio aveva sentenziato che lo
scopo dell’azione di locazione nei confronti del magister era quello di indurlo
ad operare la ritenzione delle merci degli altri vectores(passeggeri), finché
non paghino la corrispettiva loro porzione del danno. Di conseguenza anche
quando il magister non operi la ritenzione delle merci, ugualmente avrà
l’azione di locazione nei confronti dei vectores: cosa infatti si dovrà dire se
se vi siano vectores senza merci? Perciò è più appropriato ritenere che se vi
siano le merci le debba ritenere. Inoltre se non prese in conduzione l’intera
nave, agirà con l’azione di conduzione, a somiglianza dei vectore i quali
presero in conduzione gli spazi sulla nave: infatti corrisponde a somma equità
che vi sia una perdita comune da parte di coloro che conseguirono la salvezza
delle proprie merci in conseguenza della perdita di quella degli altri).
Il giurista dell’età severiana (Paolo)
attribuiva a Servio Sulpicio Rufo (giurista della fine della Repubblica, amico
e talora avversario di Cicerone) una disciplina in base alla quale il magister navis[29],
qualora aveva dovuto gettare in mare alcune merci allo scopo di alleggerire la
nave e così facendo consentire il prosieguo della navigazione, poteva
esercitare il diritto di ritenzione su tutte le merci imbarcate per le quali non
fosse stato necessario il lancio in mare. Inoltre poteva agire nei confronti
dei proprietari delle merci salvate con l’azione di conduzione. Questi
strumenti dati al magister tendevano
a realizzare il riparto (contributio)
delle perdite in maniera proporzionale tra tutti i vectores.
Perciò il magister
si configurava come una sorta di “liquidatore” ed agiva non nell’interesse
proprio bensì in quello della comunità dei vectores:
infatti siccome scopo delle disposizioni era l’equo riparto dei danni provenienti
dall’iactus mercium esso si
traduceva, in concreto, nell’equa ripartizione delle merci salvate (prendendo
però in considerazione il loro valore), la quale finiva per creare un’unica
comunità economica tra i soggetti danneggiati e quelli che non avevano subito
nessuna perdita. Nei confronti di questa comunità si poneva il magister che era tenuto ad esplicare un
diritto-dovere (officium) in virtù
del quale egli poteva trattenere le merci salve fino a che non fosse stata
pagata la quota dei soggetti danneggiati; la quale doveva essere versata a lui
affinché provvedesse a darla ai danneggiati.
Era evidente che la ritenzione poteva essere
effettuata solo dal magister e non direttamente dai danneggiati, per ilo
semplice fatto che era il magister ad
avere la disponibilità materiale delle merci che erano sulla nave. Inoltre era
evidente che la gestione della comunità economica che si veniva a creare tra i vectores doveva essere unitaria,
evitando (per prevenire contrasti e lungaggini) la gestione diretta da parte
dei contendenti: perciò essa doveva essere affidata ad una sola persona. La
quale, per rendere la procedura spedita e di esito sicuro, doveva avere
strumenti efficaci per realizzare i ‘conguagli’; cioè il diritto di ritenzione
e la possibilità di respingere, attraverso un’appropriata exceptio (eccezione processuale) l’eventuale azione dei vectores che reclamassero le loro merci,
senza avere assolto al proprio dovere di contributio.
La posizione del magister era quella di terzo
disinteressato ma funzionale alle esigenze della navigazione; le quali in tal
modo balzavano in primo piano e si concretizzavano tramite il suo intervento
disinteressato ma anche dovuto.
Ciò appariva l’unica soluzione possibile anche
in conseguenza della circostanza che il rapporto di trasporto si realizzava
attraverso contratti che vedevano da un lato il magister dall’altro di volta in volta i singoli vectores senza che questi contraessero
nessun contratto tra loro; di modo che non sarebbe stata neppure ipotizzabile
l’ipotesi di azioni dirette dei danneggiati nei confronti dei vectores indenni.
Si può pertanto affermare che il magister, unico soggetto legato da
rapporti e da azioni con tutti gli altri soggetti implicati nella vicenda e,
come già osservato, il solo in grado di esercitare la ritenzione delle merci
era tenuto a gestire la contributio
partendo dalla ritenzione delle merci: «si tratta di una sua specifica
obbligazione, tanto è vero che egli risponde a questo titolo verso i vectores con l’actio ex locato»[30].
Di norma egli non avrà bisogno di ricorrere
all’azione contrattuale perché potrà conseguire il suo scopo attraverso la
ritenzione[31],
la quale poteva essere fatta subito dopo il lancio in mare delle merci ritenute
ingombranti.
Di norma, poi, i vectores indenni avrebbero avuto tutto l’interesse a pagare al magister la loro quota allo scopo di
ottenere le proprie merci e pertanto l’azione nei loro confronti doveva essere
esercitata molto di rado, a meno che il vector
non si fosse presentato a reclamare la propria mercanzia.
In conclusione può dirsi che il magister, in veste di ‘liquidatore’ era
garante dell’equa conclusione del trasporto, avendo il diritto-dovere di operare
la ritenzione delle cose rimaste a bordo, di ricevere le somme proporzionalmente
da lui ripartite tra i proprietari di tali beni ed, infine, di riversare le
somme ricevute nelle mani dei proprietari dei beni gettati in mare.
Ne consegue che il risultato ultimo si
configura in un particolare caso di attività ed, eventualmente, di esercizio di
azione a favore di terzi, da parte del magister.
Il quale però agisce in conseguenza di obbligazioni dovute dai terzi (i vectores obbligati) direttamente nei
suoi confronti ed indirizzate a consentire a lui di adempiere, a sua volta, al
soddisfacimento dell’obbligo che egli ha verso i vectores che avevano perso le merci. Il magister si trova al centro di diritti di obbligazione e di doveri
di adempimento propri, i quali, tuttavia, nascono nell’interesse di terzi
ovvero (rectius) nell’interesse della
navigazione e della sicurezza dei traffici marittimi.
Possiamo ora affermare che la finalità
principale della lex Rhodia era
questa: favorire la navigazione commerciale e salvaguardare gli imprenditori
privati dai grandissimi rischi ad essa connessi.
Questo appare confermato da un discusso testo
in greco del giurista Volusio Meciano, nel quale, di fronte alla richiesta
rivoltagli da Eudemone Nicomedeo, l’imperatore Antonino[32]
dà ragione al postulante riconoscendo l’applicabilità della legge di Rodi e
quindi del diritto del mare anche a scapito del diritto romano.
D. 14.2.9, Volusius
Mecianus ex lege Rhodia: 'Ax wsij EÙda monoj Nikomhd˜wj prÕj
'Antwn‹non basilša: KÚrie Basileà
'Anton‹ne, naufr£gion poi»santej ™n tÍ 'ItalGv (='IkarGv?) dihrp£ghmen ØpÕ tîn dhmosGwn (=dhmosiwnîn?) tîn t¦j Kukl¦daj n»souj o„koÚntwn.
'Antwn‹noj eŒpen EÙdaGmoni: ™gë mn toà kÒsmou kÚrioj, Ð
d nÒmoj tÁj qalasshj. Tù nÒmw tîn `RodGwn krin˜sqw tù nautikù, ™n oŒj m»tij tîn
¹met˜rwn aÙtù nÒmoj ™nantioàtai. Toàto d˜ aÙtÒ kaˆ Ð qeiÕtatoj AÜgoustoj
Ÿkrinen. (Petizione di Eudemone di Nicomedia
all’imperatore Antonino: Signore imperatore Antonino, avendo noi fatto
naufragio in Icaria, siamo stati spossessati a causa dei tributi portuali
(portoria) dei preposti alle isole Cicladi. Antonino risponde ad Eudemone: Io sono
il signore del mondo, ma vi è la legge del mare. Si giudichi secondo la legge
Rodia nautica nella misura in cui nessuna legge delle nostre si contrappone ad
essa. Lo stesso giudicò anche il molto divino Augusto)[33].
Il passo ha sollevato diversi e discussi
problemi esegetici, sui quali non mi posso qui soffermare[34].
Importante mi sembra sottolineare
l’universalità della ‘legge del mare’, nella specie quella di Rodi, la quale deve
valere per tutto il Mediterraneo allo scopo di assicurare sicurezza ai traffici
marittimi. L’imperatore Antonino, seguendo una linea ininterrotta che già
Augusto aveva confermato, riconosce la priorità di quella legge rispetto alle
sue prescrizioni. Egli, cioè, dice che pur essendo il ‘Signore del mondo’[35],
non può prescindere dalla legge del mare, la quale ha una vigenza che gli preesisteva
e non poteva essere sovvertita. In altri termini l’imperatore non ritiene di
modificare una materia che aveva bisogno di uniformità se non voleva
compromettere i traffici commerciali via mare creando insicurezza con
disposizioni specifiche non universalmente conosciute ed applicate; ciò pur non
rinunciando in via di principio ad affermare la priorità del diritto romano:
infatti egli aggiunge che comunque anche la legge del mare non deve contrastare
il diritto romano. Ma proprio qui mi pare consista la sottigliezza della
costruzione giuridica riflessa dal brano: il diritto romano è prioritario ed
universale, ma proprio per questa sua caratteristica non modifica ed anzi
recepisce il diritto marittimo (in gran parte frutto di tradizioni di lungo
periodo) che, a causa della sua diffusione, era necessario per assicurare
omogeneità e sicurezza alla navigazione ed ai traffici marittimi.
Nel concreto la legge Rodia, oltre a
disciplinare il caso di iactus mercium,
doveva avere disposizioni che prevedevano l’esenzione dal pagamento dei dazi
portuali per i relitti o le merci comunque pervenute in porto. Infatti appariva
importante esentare i naufraghi da questi tributi (commissum), non foss’altro che per non aggiungere al danno del
naufragio la beffa del pagamento per un viaggio non andato a buon fine[36].
In tal senso mi pare che depongano anche altre
decisioni degli imperatori non molto distanti nel tempo da quella ricordata da
Meciano.
D. 39.4.16.8, Marcianus l. singulari de delatoribus: Si propter
necessitatem adversae tempestatis expositum onus fuerit, non debere hoc
commisso vindicari divi fratres rescripserunt (Se l’oggetto del tributo sia costituito da cose naufragate i divini
fratelli in un rescritto confermarono che non si dovesse pagare nessun dazio).
C. 11.6.1 Antoninus: Si quando naufragio navis expulsa
fuerit ad litus vel si quando reliquam terram attigerit, ad dominos pertineat:
fiscus meus sese non interponat. quod enim ius habet fiscus in aliena
calamitate, ut de re tam luctuosa compendium sectetur? (Se una nave fu spinta sul lido per un naufragio o se il relitto arrivò
a terra, spetterà ai suoi padroni: il fisco non deve pretendere nulla. Infatti
che diritto può avere il fisco nella sventura altrui, fino a trarre vantaggio
dalla sventura altrui?).
L’orientamento espresso nei testi mi appare
chiaro ed indice di una continuità. Viene infatti costantemente confermata[37]
l’esenzione dai tributi della nave o dei relitti per evitare di aggiungere
danno alla sciagura[38].
Di là dalle pretese del fisco si poneva poi il
problema dell’appartenenza dei relitti e delle cose abbandonate.
Al riguardo sembra che la legge Rodia
prevedesse la proprietà per chi per primo se ne impossessasse, ma che contro
tale abbia reagito il diritto romano, anche per stroncare speculazioni e dare
tranquillità e, nei limiti del possibile, più sicurezza a chi rischiava con il
commercio marittimo, assicurando benessere e prosperità alle città ed
all’impero.
È questo il motivo di puntualizzazioni sia dei
giuristi sia degli imperatori.
I Romani, i quali (come si è già detto) non
elaborarono una materia specifica per la nave e la navigazione ma affrontarono
il tema avvalendosi delle categorie generali delle res, impostarono il problema dei relitti e delle merci gettate in
mare nell’ambito dei criteri elaborati riguardo all’abbandono delle proprie
cose da parte del proprietario. In proposito era pacifico che la cosa abbandonata
dovesse spettare a chi per primo se ne appropriasse[39],
sicché per i relitti e le cose lanciate in mare per alleggerire la nave la questione
fu impostata intorno all’interrogativo se essi erano o no da considerare
abbandonate. Se la risposta fosse stata positiva, ne conseguiva che chiunque
poteva impossessarsi di essi e diventare proprietario (per occupazione o per
usucapione); diversamente nel casi di risposta negativa: infatti in tal caso le
cose restavano nel dominio dei precedenti proprietari.
Incisivo ed illuminante è un brano del giurista
Giavoleno, operante alla fine del I sec. d. C.:
D. 41.2.21.1-2, Iavolenus
l. 7 ex Cassio: Quod ex naufragio expulsum est, usucapi non potest, quoniam
non est in derelicto, sed in deperdito. Idem iuris esse existimo in his rebus,
quae iactae sunt: quoniam non potest videri id pro derelicto habitum, quod
salutis causa interim dimissum est. (Ciò
che è portato via dal naufragio non si può usucapire, poiché non si tratta di
cose abbandonate, bensì di cose perdute. Ritengo che la stessa regola debba
applicarsi alle cose lanciate in mare, poiché non si può sostenere che siano
state abbandonate le cose buttate via per conseguire la salvezza).
Di là da queste considerazioni generali si
prospetto poi un problema pratico, dalla cui soluzione poteva dipendere la
sicurezza della navigazione.
Atteso che per antiche usanze i relitti
diventavano di proprietà dell’occupante[40],
i pericoli di per sé già enormi dei naviganti venivano accresciuti da
delittuosi espedienti che tendevano a causare i naufragi al solo scopo di
impadronirsi delle navi. A quanto pare pescatori solevano attirare in secco le
navi con efficaci ‘furbate’: di notte, approfittando del favore delle tenebre,
accendevano fuochi su spiagge dai bassi fondali in modo da far credere alle
imbarcazioni che lì ci fosse un porto al quale potersi dirigere. Una volta
diretta la prora verso questi fuochi facevano naufragio, mentre i ‘gentiluomini’
che li avevano attirati in secco si impadronivano delle navi naufragate e dei
loro carichi. Occorreva porre un freno ed i giuristi (ed è da presumere, con
loro gli imperatori)[41]
intervennero appropriatamente, esortando ad eliminare in radice la causa di
siffatte mascalzonate.
D. 47.9.10, Ulpianus l. 1 opinionum:
Ne piscatores nocte lumine ostenso fallant navigantes, quasi in portum aliquem
delaturi, eoque modo in periculum naves et qui in eis sunt deducant sibique execrandam
praedam parent, praesidis provinciae religiosa constantia efficiat (La religiosa fermezza del preside della
provincia impedisca che i pescatori inducano in inganno i naviganti accendendo
luci che lascino credere loro di potere arrivare in porto, ponendo così in
pericolo le navi e naviganti al solo scopo di procacciarsi una esecranda preda).
Significative appaiono le espressioni usate dal
giurista che parla di fermezza ‘religiosa’ e bolla come ‘preda esecranda’ i
guadagni conseguibili da tanto delittuoso artificio.
Essa riflette l’orientamento estremamente
severo nei confronti di chi avesse approfittato del naufragio altrui, specie se
con violenza.
Le sanzioni erano di natura economica,
prevedendo il pagamento del quadruplo delle cose sottratte, ma anche personali,
come la fustigazione, la condanna all’esilio o all’estrazione nelle miniere
(che equivaleva ad una condanna a morte certa):
D. 47.9.1.pr., Ulpianus libro
quinquagensimo sexto ad edictum: Praetor ait: ‘In eum, qui ex
incendio ruina naufragio rate nave expugnata quid rapuisse recepisse dolo malo
damnive quid in his rebus dedisse dicetur: in quadruplum in anno, quo primum de
ea re experiundi potestas fuerit, post annum
in simplum iudicium dabo. item in servum et in familiam iudicium dabo’ (Il pretore dice: “nei confronti di chi in
occasione di incendio, disastro, naufragio, di assalto ad una nave o zattera
abbia rapito alcunché o abbia ricevuto dolosamente qualcosa o abbia causato
qualche danno in queste cose, darò un’azione per il quadruplo, se esperita
entro un anno, oppure, dopo l’anno, nel solo valore delle cose. L’azione poi la
darò anche nei confronti del servo e della famiglia”).
D. 47.9.4.1, Paulus libro quinquagensimo quarto ad edictum:
Divus Antoninus de his, qui praedam ex naufragio diripuissent, ita rescripsit:
‘Quod de naufragiis navis et ratis scripsisti mihi, eo pertinet, ut explores,
qua poena adficiendos eos putem, qui diripuisse aliqua ex illo probantur. et
facile, ut opinor, constitui potest: nam plurimum interest, peritura
collegerint an quae servari possint flagitiose invaserint. ideoque si gravior
praeda vi adpetita videbitur, liberos quidem fustibus caesos in triennium
relegabis aut, si sordidiores erunt, in opus publicum eiusdem temporis dabis:
servos flagellis caesos in metallum damnabis. si non magnae pecuniae res
fuerint, liberos fustibus, servos flagellis caesos dimittere poteris’ (Riguardo a coloro che commisero saccheggi in
occasione di un naufragio emise un rescritto di questo tenore: “In riferimento
a quello che mi domandasti riguardo ai naufragi della nave e della zattera,
capisco che vuoi sapere cosa penso in merito alla pena da comminare a coloro
dei quali sia provato che sottrassero delle cose. E, credo, che si possa
decidere facilmente: infatti interessa molto sapere se presero cose destinate a
perire oppure invasero ignominiosamente quelle che si sarebbero potuto salvare.
Pertanto se appaia afferrata con violenza una preda considerevole, gli uomini
liberi dopo essere stati bastonati li dovrai confinare per tre anni e se si
tratta di persone turpi li condannerai per lo stesso tempo al servizio
pubblico; gli schiavi dopo averli flagellati li condannerai ai lavori delle
miniere (ai lavori forzati). Se la cosa non fu di grande valore potrai
frustrare i liberi e flagellare gli schiavi”).
I brani si commentano da soli e denotano lo
sforzo dei Romani di reprimere nella maniera più severa possibile i delitti
connessi alla navigazione.
Questa repressione venne attuata con i mezzi
ordinari facendo ricorso alla normale procedura ed alle azioni di essa, le
quali si differenziavano solo per l’ammontare della pena.
Ma questo ritenuto sufficiente in via ordinaria
in casi particolari non bastava.
La pirateria era una vera piaga dei mari,
contribuendo pesantemente a diminuire la sicurezza della navigazione nel
Mediterraneo.
I Cretesi, i Fenici, i Greci e gli Etruschi
attaccavano le navi nemiche per depredarle.
L’incursione dei pirati avveniva essenzialmente
in due modi
1)
attraverso l’assalto
alle navi da trasporto per rubarne le merci, che venivano poi o utilizzate o
vendute nei porti;
2)
con il rapimento di
ostaggi, che rilasciavano dietro pagamento di riscatto[42].
Lunghe e tormentate sono state le vicende della
pirateria nel mondo romano.
È opinione comune che i Romani sino al I sec.
a.C. non si siano preoccupati o non furono capaci di condurre una seria lotta
alla pirateria, insediata soprattutto nelle coste della Cilicia, a Creta,
nell’Etolia e nell’Illirico[43].
Fra il IV e il I secolo a.C., Roma, che aveva
bisogno di usare le navi per procurare ai suoi cittadini tutte le merci di cui
avevano bisogno, non solo cibo e bevande, ma anche profumi, spezie, tappeti,
belve per gli spettacoli, si trovò ad affrontare incursioni condotte da navi di
tiranni siciliani, navi di Anzio, di Calcide, di Sparta, di flotte al soldo di
Filippo V di Macedonia e Antioco III di Siria, degli Illiri, dei Liguri.
Una più recente lettura del fenomeno ha posto
in evidenza il fatto che in realtà non si trattò di incapacità o di cattiva
volontà, bensì di un mirato calcolo, perché la pirateria era consustanziale
alla politica di molti zone sia dell’Oriente sia dell’Occidente, costituendo
l’asse portante della politica di molte popolazioni. Essa serviva, tra l’altro,
ad approvvigionare le città degli schiavi necessari all’economia del tempo;
inoltre i Romani pensarono di sfruttare la pirateria «quale mercenariato, senza
una paga»; specie perché «il ceto politico sarebbe rimasto per lungo tempo
ideologicamente legato all'economia terriera e non avrebbe quindi avuto interesse
a colpire il fenomeno della pirateria, da cui traeva linfa per l'utilizzazione
di manodopera a basso costo»[44].
Pertanto la pirateria fu tollerata e sfruttata
fino a quando non divenne conflittuale con le mire espansionistiche di Roma e
con l’esigenza di dare sicurezza ai mari nel nuovo ordine realizzato con
l’Impero. Perciò troviamo un significativo e radicale impegno contro i pirati
delle Baleari «quando cominciò a farsi strada l'esigenza di colpire il fenomeno
piratesco, divenuto ormai poco compatibile con la posizione egemone che Roma
andava assumendo nel Mediterraneo: tanto è vero che alla sconfitta di quei
pirati, avvenuta nel
Fu allora che i pirati organizzarono un embrione di impero
marittimo, costituendo dei veri e propri Stati rivieraschi in tutto il
Mediterraneo fino alle colonne d'Ercole (App. Mithr. 92-93), tanto da svolgere
un ruolo anche nella storia politica, come quando vennero impiegati nell'88 e
nel 74 da Mitridate contro Roma”[46].
Per far fronte alla
pirateria Roma intorno all’anno 100 e comunque prima del
Nel
Poco dopo si pensò di
completare l’annientamento della pirateria conferendo all’uopo nel
Poiché questi mettevano
in serio pericolo l’approvvigionamento di Roma, di modo che incombeva la
minaccia della carestia, si decise un intervento radicale, affidando, poteri
straordinari al grande generale Pompeo Magno. Tanto più che nel frattempo si
erano verificati clamorosi casi di ambasciatori e consoli che avevano scosso la
classe dirigente romana. Invero la lunga situazione di instabilità politica e
militare che imperversava nello stato romano aveva creato problemi di ordine
pubblico e provocato un aumento esponenziale della illegalità. In particolare
la politica di Sertorio e le pressioni belliche di Mitridate avevano favorito
lo sviluppo incontrollato della pirateria. Questi pirati provenivano
prevalentemente dalla Cilicia, la zona sudorientale della Turchia, e da Cipro.
I pirati imperversavano nel Mediterraneo, avevano saccheggiato Ostia
distruggendo le navi romane attraccate, ed erano sbarcati a più riprese sulle
coste della Campania, spingendosi fino alle coste meridionali della Spagna: il
prezzo del grano salì alle stelle. Urgeva una soluzione.
Vincendo le accese
resistenze del senato[48], restio a conferire poteri che potevano sfuggire al suo controllo,
nel
L’eccezionalità del
provvedimento fu premiata dal risultato poiché Pompeo in pochi anni sradicò
definitivamente la pirateria dal Mediterraneo, distruggendo le flotte corsare e
dando sicurezza ai mari.
La sua campagna fu
caratterizzata da sorprendente velocità: in soli 40 giorni ristabilì l'ordine
sulle coste occidentali del Mediterraneo, poi, mandati i legati in
avanscoperta, si diresse verso oriente, e in 49 giorni distrusse i covi dei
pirati cilici, aggiungendo all'azione militare quella diplomatica. Furono
uccisi 10.000 pirati, 800 navi vennero catturate e 120 fortezze distrutte. Il
Mediterraneo fu liberato momentaneamente dalla pirateria e i commerci poterono
riprendere.
Dal punto di vista
tattico Pompeo procedé dividendo il mare in zone che affidò a sub-comandanti di
sua nomina[50], poiché la legge Gabinia aveva previsto che il comandante (che non
era menzionato, ma tutti sapevano che si trattava di Pompeo) avesse anche la
facoltà di organizzarsi articolando le forze attraverso la nomina di
ventiquattro comandanti, di rango senatorio, in singoli settori delle
operazioni. In tal modo procedette a distruggere le flotte ed i covi dei pirati
l’uno dopo l’altro consolidando la sicurezza delle zone liberate e costringendo
i pirati a rintanarsi nella loro base principale di Caracesio in Cilicia[51]. Inoltre dette a molti pirati la possibilità di rientrare in una
vita normale abbandonando la pirateria: questo contribuì alla velocità delle
sue operazioni e costituisce un significativo esempio di politica del
‘pentitmento’, rimproverata a Pompeo dai suoi avversari[52].
I restanti ricevettero un
colpo dal quale non si ripresero, sebbene nel
Nel terzo secolo la
crisi dell’impero dette nuove occasioni ai pirati i quali, malgrado i provvedimenti
straordinari di Alessandro Severo[54] ripresero le loro scorrerie, alimentate soprattutto da Sarmati e
Goti, provenienti dal Mar Nero “infestarono tutto il Mediterraneo orientale,
preannunciando le invasioni barbariche”[55].
In conclusione di questo sguardo sulla
pirateria sorge una domanda: chi erano i ‘pirati’ per il diritto romano?
Pomponio ed Ulpiano, tra la fine del II sec. d.
C. e gli inizi del terzo ci danno importanti indicazioni, dalle quali emerge
che, a differenza dei ‘nemici’ contro i quali si fosse in guerra, i pirati non
potevano essere considerati come un popolo, cioè come persone appartenenti ad
un ordinamento politico-giuridico con il quale sarebbero state possibili
relazioni.
D. 50.16.118, Pomponius l. 2 ad Quintum Mucium: ‘Hostes’ hi
sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus:ceteri latrones aut
praedones sunt. (‘Nemici’ vanno ritenuti coloro che pubblicamente ci hanno dichiarato
guerra o ai quali noi abbiamo dichiarato guerra: gli altri sono ladroni o
predoni).
D. 49.15.24, Ulpianus l. 1 institutionum: Hostes sunt quibus
publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano: ceteri latrunculi vel
praedones appellantur (Nemici sono coloro
ai quali il popolo Romano pubblicamente ha dichiarato guerra o che hanno dichiarato
guerra al popolo Romani: gli altri vanno chiamati ladruncoli o predoni).
Considerato che la dichiarazione di guerra
realizzava un caso di perduellio, già
Cicerone, alla fine della Repubblica, aveva osservato:
Cicero, de officiis 3.107: pirata non est ex
perduellionis numero definitus, sed communis hostis omnium (Il pirata non rientra tra i nemici pubblici,
ma tra i comuni nemici di tutti).
I nemici comuni di tutti erano coloro che,
fuori da ogni possibile consorzio civile e di là da ogni regola, costituivano
una calamità assimilabile alle tempeste del mare.
Deriva da questa qualifica della pirateria la
irrilevanza degli ‘accordi’ raggiunti con i pirati durante la prigionia. Questo
in deroga al principio radicato nel costume e nel diritto romano che esigeva il
rispetto dei patti (pacta) perché lo
imponeva la fides, categoria
essenziale del diritto romano[56].
Inoltre mentre il prigioniero di guerra
diventava schiavo di chi o del popolo che lo aveva catturato, la persona
catturata dai pirati veniva considerata sempre libera; poteva fare testamento e
se moriva prima di rientrare in patria era valido il testamento già fatto[57].
Mentre, poi, i beni dei Romani presi dai nemici aveva il regime di praeda e cessavano di appartenere al
romano proprietario, le cose prese dai pirati non potevano avere tale status e continuavano ad essere
considerate del proprietario originario[58].
Corrispondeva alla considerazione della
pirateria il fatto che, mentre colui che avesse pagato un riscatto per essere
liberato dal nemico che lo avesse catturato restava assoggettato ad esso sino a
quando non avesse pagato il riscatto (al quale, nel caso di morte sua, erano
tenuti i suoi eredi), chi fosse stato liberato dai pirati non restava in nessun
modo legato al suo liberatore[59].
Qualora poi si fosse pagato un riscatto per il
rilascio della nave si applicava una norma analoga a quella prevista per il
lancio delle merci in mare ed in generale per il naufragio; pertanto la somma
pagata per il riscatto veniva ripartita tra tutti i partecipanti alla
spedizione marittima[60]
Emerge in tutta chiarezza l’assoluto disprezzo
e la totale irrilevanza giuridica degli atti della pirateria, così come di
tutti quelli commessi con violenza.
Un’ultima considerazione credo sia da
aggiungere riguardo alla persecuzione dei pirati ed alle pene comminate nei
loro confronti.
In primo luogo, per tutta l’età repubblicana,
era concesso a chiunque di inseguire, catturare ed uccidere senza indugio o
necessità di processo i pirati: l’episodio di Giulio Cesare, il quale dopo aver
pagato il riscatto tornò ad uccidere i suoi rapitori, ne è un esempio[61].
Nell’età imperiale si poteva agire extra ordinem cioè con le procedure
sorte intorno all’ordinamento imperiale, attraverso le quali potevano essere
condannati a pene severissime, rimesse alla valutazione del giudice, le quali
prevedevano la condanna ai lavori forzati nelle miniere o all’esilio in qualche
isola e nel caso di recidiva potevano arrivare sino alla pena di morte. Mentre
i pirati famosi potevano essere
appesi alla forca nei luoghi delle loro scorrerie, affinché la loro vista servisse
da deterrente[62].
Al termine di questo breve e per necessità
elitario excursus credi che si possa
evidenziare la costante cura avuta dagli antichi e nello specifico dai romani
per garantire la sicurezza dei mari e la fluidità e speditezza dei traffici
marittimi, dando tranquillità ai partecipanti alla navigazione e ripartendo
equamente i rischi della navigazione.
Le strade battute sono state diverse e in
generale erano state delineate all’interno del Mediterraneo creando regole che
i singoli ordinamenti recepivano e, ove opportuno, perfezionavano.
Il problema della sicurezza dei mari fu vissuto
anzitutto come un problema politico, al quale il diritto apprestò le soluzioni
secondo schemi collaudati che cercavano di allontanarsi il meno possibile da
quelli predisposti in via ordinaria per la salvaguardia e lo sviluppo del
traffico giuridico.
Le soluzioni adottate dai Romani, con i
principi che, specie nel campo negoziale, le ispirarono meritano attenta
considerazione e possono offrire spunti ragguardevoli alla costruzione del
nuovo ius commune che i tempi richiedono
e del quale la Comunità europea deve dotarsi.
Infine la riconsiderazione delle linee
predisposte alla navigazione nel mondo antico serve ad evidenziare la
omogeneità e la specificità della realtà Mediterranea, dalla quale, pur nello
sforzo di costruzione del diritto europeo, non è opportuno prescindere.
Essa è una realtà essenzialmente marinara,
perché appartiene a civiltà proiettate sul mare.
* Articolo pubblicato in Sicurezza marittima – Un impegno comune,
a cura della Fondazione Marittima
Ammiraglio Michelagnoli, Taranto 2005, 293-319.
[1] Si tratta dell’orazione
Contro Zenotèmide, comunemente
attribuita dalla tradizione a Demostene ed, in realtà scritta da un autore
diverso dal grande oratore, ma vissuto al tempo di Demostene. In essa, ai §§
4-9, si parla della controversia tra Demòne, cugino di Demostene, e Zenotèmide,
commerciante marsigliese e si fa riferimento a Demostene come una delle
personalità più influenti di Atene; inoltre si parla del porto di Siracusa come
di un porto dall’inteso traffico commerciale: queste circostanze perciò inducono
a collocare il testo nella seconda metà del IV sec. a.C., quando Demostene
(menzionato al § 31) si era affermato ed il porto di Siracusa era assurto a
nuova vitalità dopo la liberazione dalla tirannide di Timoleonte (avvenuta
nell’anno
[2] Il
Paoli, op. cit., ci dà un
efficace spaccato di questa umanità affannata: «Nei mesi in cui. le tempeste invernali
non impedivano la navigazione, vi era nel porto del Pireo movimento, brusio,
odor di catrame. A chi veniva dai quartieri alti, dall'¥stu, scendendo per la strada che seguiva le Lunghe Mura, affollata di
giorno, deserta e pericolosa la notte, sembrava di trovarsi in un altro mondo.
Lì era tutto un vociare, un viavai di doganieri, di commercianti, di usurai, di
scaricatori; ogni tanto arrivava o partiva qualcuno a portar notizie recenti o
a recapitar lettere di affari; in particolare a informarsi sui prezzi; ciò che
gli agenti dei grossisti riferivano sull'andamento dei vari mercati in Grecia,
serviva di base a stabilire il prezzo delle derrate e delle merci o a
indirizzare il carico di una nave in una piazza piuttosto che in un'altra. Si
parlavano tutti i dialetti, e i furbi s'intendevano a occhiate (il ladro riconosce
il ladro, diceva il proverbio, «e il lupo il lupo»); dovunque, gruppi di uomini
che contrattavano, discutevano, a volte con voce così concitata che sembrava si
volessero prendere per i capelli; quando, per motivi d'interesse, non si
accendeva davvero qualche rissa in mezzo a un clamore generale e con strascichi
davanti ai Tribunali......Nella folla si aggirava molta gente losca, che viveva
frodando tutti, compreso lo Stato, con l'esercitare il contrabbando; sì che il
tratto più lontano della spiaggia, fuori dell'Emporio vero e proprio e meno
atto a esser sorvegliato, si chiamava senz'altro «il porto dei ladri» ...... In
mezzo a quel tumulto le navi di continuo arrivavano e di continuo partivano:
colli di merce, pronta per l'imbarco, contenevano i prodotti della raffinata
industria ateniese, specie quel maraviglioso vasellame di argilla figurata che
giungeva sino nel Mar Nero, nella Scizia, nella penisola italica, nella Spagna;
o erano anfore d'olio, del finissimo olio attico ricercato ovunque, di cui gli
Ateniesi erano orgogliosi come di un dono divino, e ne avevano fatto un simbolo
della loro città, persino nelle monete».
[4] Invero Marsiglia era
una delle più belle: città splendida di edifici, e fine e colta; ricchezze
immense, accumulate coi traffici, alimentavano il lusso: Paoli, loc. cit.
[5] Il punto è descritto
dal Paoli, loc. cit., in questi termini: «La dea Atena; aveva gratificato la
sua città di un'aria cristallina, di ricchi uliveti, che ne inargentavano i
colli, di un, clima dolce; e a primavera rivestiva l’Imetto di fiori da cui le
api suggevano il miele più prelibato. Ma al popolo prediletto la dea; aveva
negato il pane: il pane veniva di lontano, portato col grano di cui erano
cariche le navi mercantili, e leggi:severissime ne favorivano l'importazione.
Al mare Atene doveva tutto, anche la sicurezza, per chi ci abitava, di non morire
di fame. Quando però le navi non arrivavano, subito lo spettro della fame
appariva minaccioso sulla città; e si era costretti a procedere al
razionamento, con l'inevitabile inconveniente di dover fare lunghe code. Che io
sappia, la prima testimonianza di quella umiliante tortura della nostra
umanità, che sono le code, si legge in un testo attico del IV secolo avanti
Cristo; e non sembra che nel far la coda gli Ateniesi, col loro carattere
impaziente, mostrassero molta disciplina. Giudichi il lettore: “In quel tempo”
si legge, “chi abitava in città ritirava nell'Odeon la sua razione di farina;
quelli del Pireo andavano alla dàrsena a prendersi le pagnotte di pane, a un
obolo l'una, e la razione di farina al Grande Portico, pagandola otto oboli e
pestandosi l'un l'altro i piedi”». Sicché risulta evidente la convenienza del
trasporto e della vendita di grano in Atene.
[6] In proposito v. Michel J., Gratuité en droit romain. Etudes d’histoire
et d’ethnologie juridique, Bruxelles 1962, 303, 584 ss. L’interesse nelle
gratuità dei contratti romani era di natura diversa da quella pecuniaria: per
esempio poteva derivare dall’assolvimento di un dovere di aiuto del patrono o
dal desiderio di avere buoni rapporti di vicinato ovvero dall’aspirazione a
crearsi una buona reputazione utile per la carriera politica; e così via: cfr. Tafaro S., Regula e ius antiquum in D. 50. 17. 23 – Ricerche sulla responsabilità contrattuale, Bari 1984, 259 ss.
[7] Sul punto v. Tafaro S. [ a cura di], L’usura ieri ed oggi, in Atti del Convegno sull’usura – Foggia 7-8
aprile 1995, Bari 1997.
[9] In proposito v. Purpura G., Studi romanistici in tema di diritto commerciale marittimo, Palermo
1976, 196 ss.
[14] Di essa è testimonianza
in Macrobius, Saturnalia 2.6.2 e
Quintilianus, Institutio oratoria 6.3.87.
[15] V. D. 41.3.30.pr., Pomponius l. 30 ad Sabinum: ..... alterum, quod ex contingentibus, hoc
est pluribus inter se cohaerentibus
constat, quod sunymmenon vocatur, ut aedificium navis armarium (un
altro tipo di ‘corpi’ consiste nelle cose collegate, cioè in una pluralità di
cose connesse tra loro, come le navi).
[17] Attraverso la
preposizione del magister l’armatore
assumeva la totale responsabilità degli obblighi assunti da questi. Ciò in virtù
di un’apposita azione creata dal Pretore e chiamata actio exercitoria che obbligava il preponente, che spesso era un
padrone che affidava la nave ad un suo sottoposto (per lo più uno schiavo):
cfr. D. 14.1.1 pr.-ss., Ulpianus l. 28 ad
edictum.
[18] D. 14.1.1.2, Ulpianus l. 28 ad edictum: .. quamquam ex delicto cuiusvis eorum, qui
navis navigandae causa in nave sint, detur actio in exercitorem: alia enim est
contrahendi causa, alia delinquendi, si quidem qui magistrum praeponit,
contrahi cum eo permittit, qui nautas adhibet, non contrahi cum eis permittit,
sed culpa et dolo carere eos curare debet (sebbene per il delitto di
chiunque stia sulla nave per consentire la navigazione si concede di perseguire
l’armatore: tuttavia diverso è il caso del contratto da quello del delitto,
poiché chi prepone un magister
acconsente a che si contratti con lui, mentre chi ingaggia marinai non dà il
consenso a negoziare con essi tuttavia deve preoccuparsi che essi non
commettano dolo o colpa), sul quale v. Menager
L., 'Naulum' et 'receptum salvam
fore'. Contribution
à l'étude de la responsabilité
contractuelle dans les transport maritimes en droit romain, in RHD, 38, 1960, 177-213; 385-411.
[19] Cfr. Moschetti C., v. Nave (dir. romano) in Enciclopedia
del Diritto XXVII, 1977, 565
ss. ed ivi bibl. Val la pena ricordare che l’organizzazione dell’impresa
marittima poteva assumere tre forme essenziali. La prima era quella nella quale
il dominus assumeva direttamente
l’esercizio della nave assommando le funzioni di magister e di gubernator; la
seconda concerneva aziende di una certa rilevanza destinate esclusivamente al
carico e scarico di un determinato tipo di merce, per lo più prese in
considerazione in ragione del loro peso o delle loro dimensioni. In tal caso il
dominus non si imbarcava sulle navi ma affidava il
compito di assumere e consegnare le merci al solo gubernator (nocchiero) senza assumere anche un magister. La terza tipologia concerneve le imprese più complesse
destinate ad attività ampie e non predefinite, le quali richiedevano una
molteplicità di operazioni, in ragione delle quali era necessario affidare le
attività economiche ad un magister,
di norma affiancato ad un gubernator.
Da ciò appare chiaro che solo nel primo caso il dominus armatore poteva sapere e controllare direttamente l’operato
dei marinai; negli altri casi ciò era del tutto impensabile. Di conseguenza la
responsabilità penale per i delitti dei marinai era di natura oggettiva o poggiava
su presunzione assoluta.
[20] V. De Robertis F.M., Receptum nautarum, in Annali
Fac. Giur. Università di Bari, 12, 1953, 5 ss.; Id., La responsabilità
dell’armatore in diritto romano, in Rivista
dir. navig. 3-4. Sottolineo che, in base a quanto ho anche ricordato,
l’armatore a sua volta avrebbe riversato la responsabilità della perdita delle
merci trasportate sui sovvenzionatori, in virtù della clausola con la quale
egli riceveva il prestito marittimo.
[21] Cfr. Longo G., Disciplina armatoriale e imprenditizia nel diritto romano, in Ann. Fac. Giur. Univ. Macerata, N.S. IV [in
onore di A. Moroni] Tomo III., Milano, 1982, 1397 ss.
[22] Cfr. D. 4.9.3.1,
Ulpianus 14 ad edictum: ait praetor:
" nisi restituent, in eos iudicium dabo". ex hoc edicto in factum
actio proficiscitur. sed an sit necessaria, videndum, quia agi civili actione
ex hac causa poterit: si quidem merces intervenerit, ex locato vel conducto:
sed si tota navis locata sit, qui conduxit ex conducto etiam de rebus quae
desunt agere potest: si vero res perferendas nauta conduxit, ex locato
convenietur: sed si gratis res susceptae sint, ait Pomponius depositi agi
potuisse. miratur igitur, cur honoraria actio sit inducta, cum sint civiles:
nisi forte, inquit, ideo, ut innotesceret praetor curam agere reprimendae
improbitatis hoc genus hominum: et quia in locato conducto culpa, in deposito
dolus dumtaxat praestatur, at hoc edicto omnimodo qui receperit tenetur, etiam
si sine culpa eius res periit vel damnum datum est, nisi si quid damno fatali
contingit. inde labeo scribit, si quid naufragio aut per vim piratarum
perierit, non esse iniquum exceptionem ei dari. idem erit dicendum et si in
stabulo aut in caupona vis maior contigerit (Il pretore dice: “se non
restituiscono darò un’azione”, perciò da questo editto nasce un’azione in
fatto. Bisogna vedere se essa sia necessaria, poiché per i motivi descritti si
può agire con un’azione civile: che è quella di locazione-conduzione se
interviene la mercede; ma se è locata l’intera nave, il conduttore può agire
anche per le cose che mancano; se poi l’armatore si impegnò a consegnare le
cose, sarà convenuto con l’azione di locazione; mentre se le cose sono state
prese gratuitamente, Pomponio dice che si poteva agire per il deposito.
Pertanto stupisce che è stata introdotta un’azione onoraria, mentre vi sono
azioni civili: a meno che, dice, affinché questo genere di uomini abbia
presente che il pretore si preoccupa di reprimere le scorrettezze: e poiché
nella locazione e conduzione si presta la colpa, nel deposito solo il dolo,
invece in base a questo editto chi ha preso sarà tenuto in ogni caso, anche se
la merce perì senza sua colpa ovvero fu danneggiata, salvo che intervenga un
danno fatale. Pertanto Labeone scrive che si alcunché avvenne per naufragio o
per la violenza dei pirati non è iniquo dare a lui (all’armatore) un’eccezione.
Lo stesso va detto se la forza maggiore si verificò in una stalla o in una osteria).
Sul brano, cfr.: Menager L., 'Naulum' et
'receptum salvam fore', cit.; Brecht
Chr.H., Zur Haftung der Schiffer
im antiken Recht [Münchener Beiträge zur Papyrusforschung und antiken
Rechtsgeschichte, Heft 45], 1962, 163; De Robertis F.M., La disciplina della responsabilità contrattuale nel sistema della compilazione giustinianea, Vol. III, Bari 1966, 683; Doll A., Von der vis maior zu höheren Gewalt.
Geschichte und Dogmatik eines haftungsentlastenden Begriffs, Frankfurt/M.,
Bern, New York, 1989.
[23] Purpura G., op. cit.,
286 nota: «L’incertezza della navigazione antica e le frodi frequenti dei
marinai dovevano contribuire a rendere l’eventualità della scomparsa della nave
non rara».
[24] Su di essa vi è una
cospicua bibliografia, dalla quale segnalo: Osuchowski
W., Appunti sul problema del
«iactus» in diritto romano, in Iura
1, 1950, 292 ss.; Wieacker F., «Iactus in tributum nave salva venit»
D.14.2.4 pr. Esegesi della «lex Rhodia de iactu», in Nuova Riv. Dir. Comm. Dir. dell'Econ. Dir. Soc. 4, 1951, 287ss.; Wieacker F., Iactus in tributum nave salva venit. (D.14.2.4 pr.). Exegesen zur lex
Rhodia de iactu, in Studi in memoria
di Emilio Albertario, Milano 1953, 513; De
Robertis F.M., Lex Rhodia. Critica e anticritica su
D.14.2.6, in Studi
Arangio-Ruiz, 3, Napoli 1953, 155 ss.; Wilinski
A., D.19.2.31 und die Haftung des
Schiffers im altrömischen Seetransport, in Annales Univ. Mariae Curie-Sklodowska 7, 1960, 353 ss.; Meira S.A.B., A Lex Rhodia de iactu. Sua repercussao no direito brasileiro,
in Revista do Tribunal Regional do
Trabalho, 1969, 12 ss.; Thomas J.A.C.,
Juridical Aspects of Carriage by Sea and
Warehousing in Roman Law, in Recueils
Soc. J. Bodin 32, Bruxelles, 1974, 117 ss.; Ahburner W., Nomos
Rhodiôn Nautikos. The Rhodian Sea Law,
[25] Sul punto v., in
particolare, De Robertis F.M., Lex Rhodia. Critica e anticritica su D.
14.2.9, in Scritti vari di diritto
romano, Bari 1987, 309 ss; Purpura
G., Studi, cit., 74 ss.
[26] Depongono in tal senso
l’esistenza di una rubrica dei Digesta
di Giustiniano che intitola il titolo II del libro
[28] Nasce da ciò una ricca
casistica la quale, ad esempio, esclude la responsabilità per coloro che da
soli si sono disfatti delle merci (v. D. 14.2.5, Hermogenianus l. 2 iuris epitomarum) o per l’albero
divelto dalla tempesta, che però non incida sulla salvezza del viaggio (P. S. 2.7.2). Ma la casistica è varia.
Qui non mi posso soffermare, ritenendo sufficiente avere indicato il principio
regolatore di essa.
[29] Responsabile (come si è
detto: cfr. § 4) della conduzione economico-commerciale della navigazione, con
effetti che ricadevano direttamente sull’armatore.
[31] Differente opinione è espressa
da Reichard I., Die Frage des Drittschadensersatzes im
klassichen römischen Recht, Köln-Weimar-Wien, 1993, 136, il quale ipotizza
che la ritenzione potesse avvenire solo dopo l’esperimento dell’azione locati da parte dei vectores interessati e che anzi l’esperimento di quell’azione fosse
condizione necessaria per la ritenzione da parte del magister. Come ha ben visto il Cannata (op. cit., partic. 400) questa tesi non appare convincente. Basta
osservare che se così fosse i vectores indenni potrebbero abbandonare la nave prima
che il magister effettui la
ritenzione a lui impedita in assenza di un’azione da parte dei vectores danneggiati (i quali dovevano
prima sbarcare e poi rivolgersi al magistrato giusdicente per promuovere
l’azione loro spettante): quindi l’intero sistema sarebbe stato inutile!
[32] È discusso se si tratti
di Antonino Pio o di Marco Aurelio, ma la migliore dottrina propende per il
primo: v. De Robertis, Lex Rhodia, cit., 319
s.; Purpura G., op. cit., 329 s.
[33] Per la traduzione mi
avvalgo del suggerimento del Purpura (op.
cit., p. 302), integrata dai suggerimenti del Manfredini, ivi richiamato alla nt.60.
[34] Mi pare sufficiente
rinviare ai citati lavori del De Robertis e del Purpura, i quali discutono
anche la letteratura suscitata dal brano.
[35] L’espressione è apparsa
sospetta di influenza cristiana, quando l’Imperatore fa derivare i suoi poteri
da Dio e pertanto li riferisce a tutto il pianeta (come rappresentante in terra
del Signore che sta nei cieli). In realtà nel significato corrente durante il
Principato, dove di kÒsmou
kÚrioj si
parlava in vario modo per diversi imperatori a partire da Nerone, e sta ad
indicare la dimensione e la concezione universale dell’Impero: in tal senso v. De Robertis, Lex Rhodia, cit., 320 ss.
[36] In questa lettura credo
di potere seguire le argomentazioni del Purpura
(op. cit., 306 ss.) contro difformi
interpretazioni, ivi discusse, che ipotizzano che proprio la legge Rodia
dovesse prevedere il pagamento dei dazi e che Eudemone chiedesse all’imperatore
di non applicarla ma che la sua richiesta sarebbe stata respinta.
[37] Va precisato che la
natura del rescritto imperiale non era tanto quella di produrre nuovo diritto,
bensì quella di confermare, chiarendolo, il diritto preesistente da applicare nel
caso sottoposto al vaglio dell’imperatore: in generale sul punto v. AA. VV., Lineamenti di storia del diritto romano, 2a ed., Milano 1989, 420
ss.
[38] Diversa interpretazione dei brani è stata fornita dal Rougé J., Le droit de naufrage et ses limitations en Méditerranée avant
l’établissement de la domination de Rome, in Mélanges Piganiol, II, Paris 1966, 1467 ss. Il quale sostiene che vi
sarebbe stato un differente regime per i relitti e per le cose gettate in mare
e che solo le seconde sarebbero state esentate dai tributi; mi pare, tuttavia,
che la sua tesi, come ha ben visto il Purpura
(loc. cit.) contrasti con il tenore
concorde delle fonti.
[39] Sul punto vi fu una
controversia tra le due scuole nelle quali erano raggruppati i giuristi romani,
quella dei Sabiniani e quella dei Proculiani. Per i primi con l’abbandono il proprietario
perdeva la proprietà e la cosa diventava di nessuno (res nullius) e poteva essere acquistata da chiunque se ne
appropriasse. secondo i Proculiani, invece, l’abbandono configurava un caso di
consegna a persona da identificare (traditio
in incertam personam): cfr. Marrone
M., Istituzioni di diritto romano,
2a ed., Palermo 1995, 319 ss.; Talamanca
M., Istituzioni di diritto romano,
Milano 1990, 415 s.
[41] Il brano che riporto
apparteneva ad Ulpiano il quale non fu solo un grande giurista, ma rivestì
cariche elevatissime sino ad essere stato, per un certo periodo, il vero gestore
dell’impero, in qualità di tutere del giovane ed imberbe imperatore Alessiano:
v., con ivi bibl., Tafaro S., Debito e responsabilità, Bari 2000, 70
s.
[42] Famoso è rimasto il
rapimento di Cesare, preso in ostaggio dai pirati, ancor giovane, durante un
viaggio a Rodi dove intendeva seguire le lezioni del retore Apollonio Morone.
Egli dapprima si offese per l’eseguità del riscatto che questi intendevano
chiedere per lui e ne pattuì egli stesso l’ammontare consono alla sua persona
ed al suo valor. Però promise di fargliela pagare e mantenne la promessa,
tornando a per catturarli ed impiccarli, come a loro stessi aveva giurato
(però, per la mitezza e signorilità del suo carattere, li uccise prima di
impiccarli): cfr. Svet., De vita duodecim Caesarum libri VIII, Caesaris Vita, 74; Plut., Caesar,
2.
[43] Cfr. Ronzitti N., v. Pirateria (storia), in Enciclopedia del Diritto, xxxiii, 1983, 873 ss. ed ivi bibl.
[44] Monaco L., Persecutio
piratarum. 1. Battaglie ambigue e svolte
costituzionali nella Roma repubblicana, Napoli 1996; sul punto, 53.
[48] In un primo tempo
Gabinio tentò di ottenere il provvedimento dal senato, ma per poco non ci
rimise la pelle, tanto tenaci erano le resistenze dei senatori: v. De Martino, Storia della costituzione romana, III, Napoli 1966, 132 ss.
[52] V. Rougé J., Navi e navigazione nell’antichità, Firenze 1977, 110. Cfr.:
Appianus, Mithr. 96; Plutarcus, Pompeius, 27-28; Cicero, De officiis
3.11.49.
[56] Sul punto vi è una
letteratura molto vasta. Ricordo che il pretore aveva predisposto appositi
strumenti (come l’exceptio doli e l’exceptio pacti conventi) per consentire
il rispetto dei patti: nell'edictum
de pactis et conventionibus, in cui era contenuta la generale
previsione: pacta conventa, quae neque dolo malo, neque adversus leges
plebis scita senatus consulta edicta decreta principum ne qua fraus cui eorum
riai facta erunt, servabo (darò attuazione ai patti che siano stati
conclusi non. dolosamente, né contro le leggi, i plebisciti, i senatoconsulti,
gli editti e i decreti degli imperatori, né in modo tale da esser in frode a
tali provvedimnti normativi). Cfr. Talamanca
M., Istituzioni, cit., 606
ss.; Pugliese G., Istituzioni, cit. pp. 646 ss.; Marrone M., Istituzioni, cit., 509; Sturm
F., Il pactum e le sue molteplici
applicazioni, in Contractus e Pactum
- Tipicità e libertà negoziale
nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e
della presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina (a cura di Francesco Milazzo), Napoli 1990, 149
ss.
[57] D. 49.15.24, Ulpianus l. 1 institutionum: et
ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est (di conseguenza
chi è stato rapito dai pirati non diventa loro schiavo); D. 50.15.19.2, Paulus l. 26 ad Sabinum: A piratis aut
latronibus capti liberi parmanent (le persone catturate dai pirati o dai
ladroni restano libere); D. 28.1.13.pr., Marcianus
l. 4 institutionum: Qui a latronibus capti
sunt, cum liberi manent, possunt facere testamentum (Coloro che siano stati
catturati dai ladroni possono fare testamento, perché restano liberi). Sul
punto, come su tutta la tematica dei pirati, e sui brani v. Damati L., Civis ab hostibus captus. Profili del regime classico, Milano 2004,
11, n. 39, 41, n. 130, 26, 36 s.