I tre cardini della filosofia politica di Giuseppe
Capograssi
Università di
Sassari
Può sembrare strano – spero
anche non temerario o scandaloso – proporre alcune considerazioni sul
pensiero di Giuseppe Capograssi come filosofo politico[1].
Può sembrare strano, in primo luogo, perché Capograssi è
ricordato soprattutto per essere stato un insigne studioso e professore di
filosofia del diritto, per un breve periodo anche presso
l’Università di Sassari, e, in secondo luogo, perché la
distinzione fra filosofia del diritto e filosofia politica ai suoi tempi non era
praticata, almeno in Italia. Ancora oggi serve forse più a segnare
confini accademici che condivise differenziazioni di tipo
tematico-disciplinare, che tuttavia esistono, pur nella permeabilità dei
confini, che è data dall’indubbia vicinanza dei due campi di studi
e, talora, dalla loro intersezione o, addirittura, dalla loro parziale
sovrapposizione.
Come
è noto, Capograssi si colloca e colloca la propria riflessione
all’interno del mondo del diritto. L’esperienza giuridica è
il punto di vista privilegiato da cui guardare, cogliere, interpretare e
spiegare la realtà. Ma questa prospettiva, lungi dal chiudere
l’orizzonte della ricerca capograssiana, lo apre e in qualche modo lo
estende oltre le colonne d’Ercole del diritto in senso stretto. Non
è un caso che l’intera riflessione di Capograssi sulla
società ruoti insistentemente su tre categorie concettuali che sono
tipiche, anche se non esclusive, della filosofia politica: lo Stato,
l’autorità, l’individuo.
Sullo
Stato l’attenzione di Capograssi, più che ricorrente, è
costante e, nel corso degli anni, ininterrotta. La prima giovanile fatica di
una certa consistenza è un libro del 1918 significativamente intitolato Saggio sullo Stato[2].
Fra gli scritti postumi si trova un denso saggio del 1958, Considerazioni sullo Stato e, fra quelli inediti, se ne trova uno
più breve, intitolato Frammento
sullo Stato[3].
Nel mezzo, i libri Riflessioni
sull’autorità e la sua crisi del 1921 e La nuova democrazia diretta del 1922[4],
i cui contenuti, come è intuitivo per la proprietà transitiva che
intercorre fra le materie, riguardano pure, e niente affatto indirettamente o
incidentalmente, il tema dello Stato. Ma anche nella trilogia degli anni Trenta
(Analisi dell’esperienza comune, Studi sull’esperienza giuridica e il Problema della scienza del diritto)[5]
vi sono parti rilevanti dedicate alla riflessione sul senso e il ruolo dello
Stato. Perfino L’introduzione della
vita etica (1953), il libro – ma lui lo definisce opuscolo[6] -
della piena maturità intellettuale, riserva allo Stato pagine molto
significative. Per non considerare gli scritti cosiddetti minori, di vario argomento, nei quali, a ulteriore
dimostrazione della centralità del tema, non è infrequente trovare
riferimenti, tutt’altro che accidentali, alle problematiche connesse
all’esistenza dello Stato.
Occupandosi
dello Stato, Capograssi si occupa, ovviamente, anche del potere. Non,
però, del nudo potere, il
potere di fatto, la forza bruta. Lascia volentieri questo compito alla scienza
politica. A lui interessa soprattutto una forma specifica di potere: il potere
legittimo o autorità, vale dire il potere riconosciuto e previamente
accettato dai destinatari. Il potere che per affermarsi non ha bisogno, se non
i casi estremi, di ricorrere all’uso della forza; non ha bisogno di
ricorrere alle minacce di una pena o alla promessa di un premio e neppure alla
capacità persuasiva e, talora, manipolativa della retorica
argomentativa. Il potere legittimo o autorità è il potere fondato
su una sorta di consenso preventivo che, in quanto tale, induce
un’ubbidienza di tipo spontaneo. A differenza di Machiavelli e anche di
Kelsen, che del potere colgono – l’uno esclusivamente,
l’altro prevalentemente – il principio d’effettività,
Capograssi si occupa del principio di legittimità, cui è
correlato il tema dell’obbligo politico, il dovere di ubbidire al potere
considerato legittimo, che secondo la tradizione anglosassone è il vero
unico oggetto della filosofia politica.
Il
problema sul quale Capograssi concentra l’attenzione è, dunque,
quello del fondamento del potere dello Stato. La preoccupazione che lo guida
è quella di evitare che la forza si fondi sulla forza, che il potere
dello Stato sia ridotto a mera coercizione o a esercizio di pura violenza. E,
coerentemente, la domanda alla quale cerca di dare risposta è una
domanda antica e ricorrente, ma anche cruciale e fondamentale per ogni teoria
politica: “come si giustifica il potere dell’uomo sull’uomo?;
ovvero: perché mai un uomo dovrebbe ubbidire ad un altro uomo?”.
Il terzo
fondamentale elemento della filosofia politica di Capograssi è la
categoria di individuo. Termine chiave del lessico capograssiano, più
che “uomo” o “persona” o “soggetto”- parole
più generiche e meno compromettenti - l’individuo, il singolo,
empirico individuo, dotato di volontà e ragione, è il centro del
mondo, il vero pivot
dell’esperienza comune, il protagonista e l’artefice della storia
passata e della storia futura. Difficile trovare in altri autori, neppure nei
padri del liberalismo individualistico, come Herbert Spencer o John Stuart
Mill, richiami così continui, costanti e insistiti alla realtà
esistenziale del singolo individuo. Osserva Capograssi in uno dei suoi ultimi
saggi intitolato, per l’appunto, Incertezze
sull’individuo (1953): «è un fatto che
l’individuo, l’individuo cosiddetto empirico, non è studiato
come tale in genere dalla cultura contemporanea (…). Si studiano i gruppi
che gli individui formano, e specialmente quell’insieme di gruppi che
viene chiamata società; si studia la persona, l’uomo,
l’individuo in genere. Sono temi nobili, nobili soggetti di meditazioni,
cose che hanno valore. Ma questo povero individuo empirico è trascurato,
non è considerato, tutti lo considerano come oggetto trascurabile di
studio»[7].
Trascurato e oscurato, aveva notato vent’anni prima, dalla
“speculazione moderna” per la quale «la vita è
comunque o ragione universale o attività universale» che contiene
in sé «l’individuo come momento provvisorio», come
«la caduca ed effimera veste dell’io universale»[8].
Per Capograssi, invece, l’individuo empirico altri non è che
l’uomo in carne e ossa, impegnato a «portare innanzi la vita, a
vivere, a campare secondo la bella e profonda parola italiana nella quale
l’idea di salvarsi e l’idea di vivere sono così strettamente
collegate»[9].
Ma quest’individuo nell’età contemporanea – e
Capograssi non esita a denunciare accoratamente il pericolo – rischia
seriamente di «disindividualizzarsi»[10],
di perdere la propria identità costitutiva, la propria
irripetibilità, rischia di diventare uguale, fungibile,
l’individuo-numero dell’organizzazione del lavoro in fabbrica o dei
campi di battaglia e di concentramento[11];
l’individuo massa, anonimo, conformato, omologato, amalgamato e
conglutinato[12]
dei regimi plebiscitari e totalizzanti, dei «regimi di propaganda»[13],
come li chiama Capograssi, che attraverso la manipolazione e la degenerazione
della passione politica in fanatismo[14]
tentano di trasformare gli «individui senza individualità»
in potenze «puramente obbedenziali»[15],
in scolaresche disciplinate[16],
in soggetti passivi e pazienti[17],
in individui che hanno smarrito «il valore della vita individuale»
che è, ribadisce Capograssi, «l’unica vita che si
sperimenta»[18].
Ebbene,
questi tre cardini della filosofia politica capograssiana – lo stato, il
potere legittimo e l’individuo – sono anche i tre cardini del giusnaturalismo contrattualistico, la
filosofia politica che, nel corso del XVII e XVIII secolo, osa contestare la
consolidata tradizione aristotelico-tomista sull’origine dello Stato,
collocandosi così, con questa profonda coupure storica, all’origine della modernità. Il
modello teorico del giusnaturalismo contrattualistico[19],
che può essere facilmente estrapolato dalle opere dei suoi tre maggiori
esponenti – Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau –,
poggia su un impianto esplicativo articolato su tre momenti, che corrispondono
ai tre stadi successivi del presunto processo di costituzione dello Stato: lo
stadio iniziale, pre-politico o prestatale nel quale gli uomini vivono secondo il
diritto naturale in una condizione di conflitto: permanente secondo Hobbes (il bellum omnium contra omnes);
inestinguibile, una volta attivato, secondo Locke; organico e incontrollabile
secondo Rousseau; lo stadio intermedio nel quale gli individui, esseri per definizione
liberi e razionali, si accordano per fuoriuscire da una situazione di
precarietà e di rischio per le loro esistenze, stipulando uno o due
patti (il patto di associazione e il patto di soggezione); lo stadio, infine,
della societas civilis sive politica,
ossia la fase finale dell’edificazione su base contrattuale dello Stato e
della costituzione su basi consensuali del potere sovrano. Dal punto di vista
dell’aderenza alla realtà storica, l’ipotesi aristotelica,
ripresa nel medioevo da Tommaso d’Aquino, spogliata del compiacimento
enfatico per una presunta naturale socievolezza umana, interpretata come
benevolenza verso l’altro, è certamente più attendibile e
verosimile circa l’origine evoluzionistica dello Stato, inteso, appunto,
come lo stadio finale di un lento e graduale processo di sviluppo naturale, che
parte dagli elementari aggregati familiari per poi crescere attraverso la
formazione di gruppi più ampi (le tribù) destinati a riunirsi
dapprima in villaggi e, quindi, in centri di convivenza sempre più
grandi. Sul piano storico, se si eccettua l’esperienza degli
indipendentisti puritani, i Pilgrim
Fathers, che all’inizio del XVII secolo sulla nave che li conduceva
verso le sponde della Nuova Inghilterra contrassero il Mayflower Compact, l’atto solenne di fondazione di una nuova
comunità politica, non ci sono forse altri esempi di origine artificiale
e contrattuale dello Stato. Nonostante, quindi, sia più debole sul piano
della spiegazione dell’ipotetica genesi empirica rispetto alla
plurisecolare tradizione aristotelica-tomistica, la teoria contrattualistica si
afferma e si diffonde perché, a differenza di quella, non dà per
scontato e di conseguenza non elude il problema del fondamento del potere
politico. L’obiettivo del contrattualismo non è contestare
l’origine dello Stato così come è descritta da Aristotele e
ripresa dall’aquinate, ma indicare un nuovo modo di legittimazione del
potere dello Stato. Alle teorie tradizionalistiche e patriarcali della natura
discendente della sovranità oppone la tesi della natura ascendente del
potere politico[20].
Ed è proprio questo a rappresentare un’autentica rivoluzione nel
modo di concepire lo Stato e di giustificarne l‘esistenza.
In
estrema sintesi, in quanto teoria normativa o mera ipotesi della ragione, il
contrattualismo moderno, e in ciò si differenzia da quello medioevale[21],
sostiene che il potere politico si regge (deve reggersi) su una base
convenzionale e che dunque lo Stato si configura come un’entità
artificiale (non naturale) e volontaria, come il prodotto di una cultura
politica ormai secolarizzata e, pertanto, come l’effetto di una
decisione, razionale e orientata allo scopo, presa da un insieme di liberi
individui che condividono un comune interesse ad associarsi. In questo modo, il
problema del fondamento del potere dello Stato, il problema della
legittimità del potere per la prima volta, dopo oltre un millennio,
viene posto e risolto a prescindere dall’esistenza di Dio. Il potere del
governante non viene da Dio, ma dagli uomini. In ciò, nella secolarizzazione
della politica, risiede, piaccia o non piaccia, l’origine della
modernità. Il che non significa che la massima di San Paolo – nulla potestas nisi a deo –,
peraltro già addolcita e stemperata nella sua astratta
perentorietà da San Tommaso e da Suarez, perda d’incanto la
propria capacità di suggestione e di orientamento. La formula è
dura a morire. Ancora nel XIX secolo viene ripresa e riaffermata da Leone XIII
sia nell’enciclica Immortali dei
del 1885 e sia nella Libertas
praestantissimum del 1888[22].
Né significa che dal panorama europeo del XVII e XVIII secolo spariscono
di botto le pretese all’autolegittimazione delle monarchie dei gratia o i domini di ispirazione o
di estrazione teocratica. Significa, più semplicemente, che diventa
più difficile, perché assai meno credibile, da un lato continuare a alimentare la dottrina
gregoriana delle due spade, e, dall’altro, continuare a usare Dio e a strumentalizzare
la religione per sostenere le
rivendicazioni dinastiche di questa o quella casa regnante o, addirittura, la
causa di questo o quel movimento politico. Più difficile, non
però impossibile, giacché ancora oggi vi sono leaders fondamentalisti, in oriente come
in occidente, che si credono in diretto contatto con l’Onnipotente da cui
dichiarano di ricevere indicazioni
operative o del quale presumono di incarnare i disegni.
Ma chiusa
la breve digressione sull’attualità politica, e tornando al tema,
s’impone una domanda: qual è il rapporto di Capograssi, il
più cristiano dei filosofi cristiani, come ebbe a definirlo una volta
Antonio Pigliaru[23],
con la dottrina del giusnaturalismo contrattualistico, dalla quale eredita la
problematica relativa al ruolo dell’individuo nel processo di
legittimazione del potere dello Stato, che è però, come
s’è visto, una problematica inquadrata in un contesto culturale
caratterizzato dall’istanza della secolarizzazione della politica?
L’atteggiamento
di Capograssi nei confronti della modernità è articolato e
complesso. Profondo estimatore del pensiero di Gian Battista Vico, non ama il cogito cartesiano o la concezione
hobbesiana della ragione strumentale. Nelle Riflessioni
sull’autorità e la sua crisi del 1921 attacca
l’economicismo e la cosiddetta etica sensistica di cui lo Stato moderno
non sarebbe che un riflesso[24] e
individua le fonti remote della crisi contemporanea proprio agli albori
dell’età moderna. «Con Cartesio e con gli altri che lo
seguirono – il riferimento è soprattutto a Spinoza e Hobbes
– il pensiero opera un tale mutamento di concezione del mondo e della
realtà che ne esce sovvertita tutta la vita dalle sue basi e rovesciati
i concetti fondamentali della civiltà e della verità, e
l’idea di Dio entra in una crisi mortale»[25].
Non lesina riconoscimenti a Spinoza ed Hobbes – «questi grandi
pensatori (…) hanno sin dall’inizio visto e come riassunto tutta
quella che sarebbe l’evoluzione dell’avvenire, con una precisione
così piena che non è possibile non sentire ammirazione per il
loro genio»[26]
– ma non esita ad attaccarli frontalmente per aver dichiarato
«incivile e assurda quella distinzione tra Stato e Chiesa che è la
più profonda determinazione che il Cristianesimo abbia apportato al
concetto di autorità e di Stato»[27],
ossia per aver avocato allo Stato il ruolo di «definitore del vero e del
falso» e dunque per aver trasformato lo Stato in chiesa[28].
Né Capograssi sembra condividere l’impianto generale del
giusnaturalismo hobbesiano: non condivide l’idea che lo jus in omnia sia la condizione tipica
dell’uomo nello stato di natura[29];
non condivide l’idea che il contratto di unione, da cui nasce
l’autorità, sia una sorta di effetto quasi necessario del
principio di autoconservazione[30];
non condivide l’idea del convenzionalismo etico[31],
né l’idea della totale abdicazione dei diritti di libertà
nelle mani del Leviatano[32].
Ergo: se il giusnaturalismo moderno s’identifica con Hobbes, se
il giusnaturalismo moderno è Hobbes, allora la conclusione è
obbligata: Capograssi è, al di là di ogni ragionevole dubbio,
antigiusnaturalista. Se, appunto, vige l’equazione giusnaturalismo =
Hobbes. Ma se l’equazione è uno specchio deformante – nella
storia del giusnaturalismo vi è anche, per esempio e non in posizione
defilata o secondaria, anche Locke, il Locke del Secondo trattato – allora il discorso si fa diverso e un
po’ più complicato.
Nello
stesso libro in cui formula la critica al pensiero moderno e ai suoi principali
esponenti, Hobbes e Spinoza, Capograssi affronta, pochi capitoli prima, il tema
dell’autorità. Si pone il problema della giustificazione
dell’imperium, il cui emblema, il
«segno più comune è il gladium»[33].
Qual è il titolo dell’imperium,
si chiede «come e perché l’autorità ha forza di
obbligare gli uomini?»[34].
La risposta la trova nella “scuola del diritto naturale” che
«nella volontà dell’individuo ripone la ragione e il valore
dell’autorità»[35].
La risposta è che «l’uomo ubbidisce al comando perché
egli stesso ha voluto il comando e vuole l’obbedienza»[36].
In questo modo, continua Capograssi, «imperio ubbidienza dominio e
soggezione diventano effetto della volontà umana opera del singolo
creazione della sua ragione»[37].
Sottolineo: l’autorità è “effetto della
volontà umana”, “opera del singolo”, “creazione
della sua ragione”. Ed ha rappresentato una «vera
rivoluzione», secondo Capograssi, l’aver risolto il problema della
legittimità del potere ricorrendo «al volere individuale come
causa ed agente principale della virtù obbligatoria del comando»[38].
E poiché «l’autorità si fonda su una vera e propria
obbligazione delle singole volontà», osserva Capograssi, «la
forma e il modo di nascere di questa obbligazione fu e non poteva non essere il
contratto. Il contratto fu la ragione la legittimazione la giustificazione
dell’imperium»[39].
Ovvero, come precisa con il suo inconfondibile stile: «la volontà
che ha posto l’imperium ha
posto pure il negotium anzi ha posto
il negotium in tanto in quanto ha
posto l’imperium»[40].
Difficile trovare parole più chiare e nette per riconoscere
l’istanza di fondo sui si regge l’impianto teorico del
giusnaturalismo contrattualistico.
Sennonché
le cose non sono così semplici come appaiono. A Capograssi la categoria
del contratto non convince appieno. Certo, esprime l’idea
dell’incontro di libere volontà individuali, esprime il principio
che il potere politico nasce dal consenso e che, dunque, è ascendente,
proviene dal basso. Inoltre, la categoria del contratto costituisce
indubbiamente la conferma della possibile compatibilità sul piano
pratico e concettuale della libertà con l’autorità, le due
fondamentali coordinate entro cui si svolge la vita politica.
E, però,
la categoria del contratto, obietta Capograssi, indica anche altro. Rinvia
all’idea di una volontà “ambulatoria”[41],
che pone in essere un «atto che è essenzialmente utilitario ed
arbitrario», un atto che «quindi poteva non nascere, e che [una
volta] creato può essere disfatto»[42].
Insomma, l’ipotesi del contratto sociale affida la creazione
dell’ordinamento giuridico e politico all’arbitrarietà e
particolarità di un singolo atto di volontà. Ma – e questo
è il punto cruciale per Capograssi – «è contraddittorio
che un atto arbitrario di volontà possa creare un’istituzione
necessaria, e un atto particolare creare un’istituzione di carattere
universale»[43].
In altri termini, lo Stato è per Capograssi istituzione necessaria e universale e in quanto tale, in quanto culmine
dell’esperienza giuridica e politica, non dipende, non può
dipendere dall’arbitrio di un atto “singolo” e
“particolare” di volontà. Lo Stato è piuttosto
«volontà obiettiva»[44].
L’obiezione,
per la verità, non è nuova. Un secolo prima, nei Lineamenti di filosofia del diritto, era
stato Hegel a muoverla al contrattualismo. Nei § 258, dopo aver affermato
che lo Stato «è il razionale in sé e per sé»,
Hegel riconosce a Rousseau il merito di aver individuato come «principio
dello Stato» la volontà. Ma poiché intende per
volontà la «volontà singola» e non la
«volontà obiettiva»[45],
Rousseau ha anche il demerito di aver fondato l’esistenza dello Stato sul
capriccio e l’arbitrio. Una posizione che Hegel ribadisce e completa,
facendo ricorso al proverbiale contorsionismo dialettico, sia nel § 260,
allorché sostiene che nello Stato le volontà e gli interessi
particolari in parte «si mutano nell’interesse della
generalità» e in parte riconoscono quest’interesse come
«loro scopo finale»[46],
sia nel § 261 nel quale ancor più chiaramente afferma che lo Stato,
rispetto agli interessi privati, espressi dalla famiglia e dalla società
civile, è per un verso una «necessità esterna» e, per
un altro «un fine immanente»[47].
Capograssi
è un attento lettore della Filosofia
del diritto di Hegel, in particolare dei paragrafi sopra richiamati, che
cita nell’edizione del Messineo del 1913. E di Hegel condivide e apprezza
la concezione dello Stato. Annota nell’Introduzione al Saggio sullo
Stato del 1918: «Perciò non mai lo Stato in altre filosofie
aveva assunta l’ampiezza e la potenza morale che assume nella meditazione
hegeliana. Certo non è Dio come si è ritenuto e ripetuto, ma
è il culmine dello spirito obiettivo, oltre di cui è solo lo
spirito del mondo e lo spirito assoluto»[48].
Nell’ammettere la suggestione fascinosa della concezione hegeliana dello
Stato, Capograssi ne avverte però anche il limite, la dimensione
nazionale entro cui si colloca. «Nell’anarchia selvaggia degli
Stati in armi – scrive poco dopo – si disegna una civitas magna di cui Vico, con
l’occhio che era più limpido e profondo di quello di Hegel,
intravede il lontano profilo e la totale giustizia»[49].
Ecco perché può concludere, con un frase che Antonio Pigliaru
amava ricordare e ripetere: «ogni vera ricerca sullo Stato è una
profonda meditazione della sua fine»[50].
[1]
Relazione presentata al Convegno “Attualità
del pensiero di Giuseppe Capograssi. Tra diritto ed etica, letteratura e
politica”, Sassari 16-17 novembre 2006.
[19] Sul modello
giusnaturalistico, cfr. N. Bobbio,
Il modello giusnaturalistico, in “Rivista internazionale di
filosofia del diritto”, n. 4, 1973, 603-622, ora anche in Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 1989, 3-26; N.
Bobbio - M. Bovero, Società
e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979, parte prima, Il modello giusnaturalistico,
17-109, ristampato, con alcune modifiche e integrazioni ai primi due paragrafi,
col titolo Il giusnaturalismo in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, UTET, Torino 1980, vol. 4, t.
1, 491-558.
[20]
Sulla dicotomia concettuale fra potere discendente - potere ascendente, cfr. W. Ulmann, Principi di governo e politica nel medioevo, Il Mulino, Bologna
1972, 13 ss.
[21] Sul
punto cfr. l’ormai classico J.W.
Gough, Il Contratto sociale.
Storia critica di una teoria, Il Mulino, Bologna 1986.
[22] Cfr.
I. Giordani (a cura di), Le encicliche sociali dei papi, Studium,
Roma 1948, rispettivamente pp. 96-97,114.
[23]
L’espressione di Antonio Pigliaru,