N. 5 – 2006 – Contributi

 

I tre cardini della filosofia politica di Giuseppe Capograssi

 

Virgilio Mura

Università di Sassari

 

 

 

Può sembrare strano – spero anche non temerario o scandaloso – proporre alcune considerazioni sul pensiero di Giuseppe Capograssi come filosofo politico[1]. Può sembrare strano, in primo luogo, perché Capograssi è ricordato soprattutto per essere stato un insigne studioso e professore di filosofia del diritto, per un breve periodo anche presso l’Università di Sassari, e, in secondo luogo, perché la distinzione fra filosofia del diritto e filosofia politica ai suoi tempi non era praticata, almeno in Italia. Ancora oggi serve forse più a segnare confini accademici che condivise differenziazioni di tipo tematico-disciplinare, che tuttavia esistono, pur nella permeabilità dei confini, che è data dall’indubbia vicinanza dei due campi di studi e, talora, dalla loro intersezione o, addirittura, dalla loro parziale sovrapposizione.

Come è noto, Capograssi si colloca e colloca la propria riflessione all’interno del mondo del diritto. L’esperienza giuridica è il punto di vista privilegiato da cui guardare, cogliere, interpretare e spiegare la realtà. Ma questa prospettiva, lungi dal chiudere l’orizzonte della ricerca capograssiana, lo apre e in qualche modo lo estende oltre le colonne d’Ercole del diritto in senso stretto. Non è un caso che l’intera riflessione di Capograssi sulla società ruoti insistentemente su tre categorie concettuali che sono tipiche, anche se non esclusive, della filosofia politica: lo Stato, l’autorità, l’individuo.

Sullo Stato l’attenzione di Capograssi, più che ricorrente, è costante e, nel corso degli anni, ininterrotta. La prima giovanile fatica di una certa consistenza è un libro del 1918 significativamente intitolato Saggio sullo Stato[2]. Fra gli scritti postumi si trova un denso saggio del 1958, Considerazioni sullo Stato e, fra quelli inediti, se ne trova uno più breve, intitolato Frammento sullo Stato[3]. Nel mezzo, i libri Riflessioni sull’autorità e la sua crisi del 1921 e La nuova democrazia diretta del 1922[4], i cui contenuti, come è intuitivo per la proprietà transitiva che intercorre fra le materie, riguardano pure, e niente affatto indirettamente o incidentalmente, il tema dello Stato. Ma anche nella trilogia degli anni Trenta (Analisi dell’esperienza comune, Studi sull’esperienza giuridica e il Problema della scienza del diritto)[5] vi sono parti rilevanti dedicate alla riflessione sul senso e il ruolo dello Stato. Perfino L’introduzione della vita etica (1953), il libro – ma lui lo definisce opuscolo[6] - della piena maturità intellettuale, riserva allo Stato pagine molto significative. Per non considerare gli scritti cosiddetti minori, di  vario argomento, nei quali, a ulteriore dimostrazione della centralità del tema, non è infrequente trovare riferimenti, tutt’altro che accidentali, alle problematiche connesse all’esistenza dello Stato.

Occupandosi dello Stato, Capograssi si occupa, ovviamente, anche del potere. Non, però,  del nudo potere, il potere di fatto, la forza bruta. Lascia volentieri questo compito alla scienza politica. A lui interessa soprattutto una forma specifica di potere: il potere legittimo o autorità, vale dire il potere riconosciuto e previamente accettato dai destinatari. Il potere che per affermarsi non ha bisogno, se non i casi estremi, di ricorrere all’uso della forza; non ha bisogno di ricorrere alle minacce di una pena o alla promessa di un premio e neppure alla capacità persuasiva e, talora, manipolativa della retorica argomentativa. Il potere legittimo o autorità è il potere fondato su una sorta di consenso preventivo che, in quanto tale, induce un’ubbidienza di tipo spontaneo. A differenza di Machiavelli e anche di Kelsen, che del potere colgono – l’uno esclusivamente, l’altro prevalentemente – il principio d’effettività, Capograssi si occupa del principio di legittimità, cui è correlato il tema dell’obbligo politico, il dovere di ubbidire al potere considerato legittimo, che secondo la tradizione anglosassone è il vero unico oggetto della filosofia politica.

Il problema sul quale Capograssi concentra l’attenzione è, dunque, quello del fondamento del potere dello Stato. La preoccupazione che lo guida è quella di evitare che la forza si fondi sulla forza, che il potere dello Stato sia ridotto a mera coercizione o a esercizio di pura violenza. E, coerentemente, la domanda alla quale cerca di dare risposta è una domanda antica e ricorrente, ma anche cruciale e fondamentale per ogni teoria politica: “come si giustifica il potere dell’uomo sull’uomo?; ovvero: perché mai un uomo dovrebbe ubbidire ad un altro uomo?”.

Il terzo fondamentale elemento della filosofia politica di Capograssi è la categoria di individuo. Termine chiave del lessico capograssiano, più che “uomo” o “persona” o “soggetto”- parole più generiche e meno compromettenti - l’individuo, il singolo, empirico individuo, dotato di volontà e ragione, è il centro del mondo, il vero pivot dell’esperienza comune, il protagonista e l’artefice della storia passata e della storia futura. Difficile trovare in altri autori, neppure nei padri del liberalismo individualistico, come Herbert Spencer o John Stuart Mill, richiami così continui, costanti e insistiti alla realtà esistenziale del singolo individuo. Osserva Capograssi in uno dei suoi ultimi saggi intitolato, per l’appunto, Incertezze sull’individuo (1953): «è un fatto che l’individuo, l’individuo cosiddetto empirico, non è studiato come tale in genere dalla cultura contemporanea (…). Si studiano i gruppi che gli individui formano, e specialmente quell’insieme di gruppi che viene chiamata società; si studia la persona, l’uomo, l’individuo in genere. Sono temi nobili, nobili soggetti di meditazioni, cose che hanno valore. Ma questo povero individuo empirico è trascurato, non è considerato, tutti lo considerano come oggetto trascurabile di studio»[7]. Trascurato e oscurato, aveva notato vent’anni prima, dalla “speculazione moderna” per la quale «la vita è comunque o ragione universale o attività universale» che contiene in sé «l’individuo come momento provvisorio», come «la caduca ed effimera veste dell’io universale»[8]. Per Capograssi, invece, l’individuo empirico altri non è che l’uomo in carne e ossa, impegnato a «portare innanzi la vita, a vivere, a campare secondo la bella e profonda parola italiana nella quale l’idea di salvarsi e l’idea di vivere sono così strettamente collegate»[9]. Ma quest’individuo nell’età contemporanea – e Capograssi non esita a denunciare accoratamente il pericolo – rischia seriamente di «disindividualizzarsi»[10], di perdere la propria identità costitutiva, la propria irripetibilità, rischia di diventare uguale, fungibile, l’individuo-numero dell’organizzazione del lavoro in fabbrica o dei campi di battaglia e di concentramento[11]; l’individuo massa, anonimo, conformato, omologato, amalgamato e conglutinato[12] dei regimi plebiscitari e totalizzanti, dei «regimi di propaganda»[13], come li chiama Capograssi, che attraverso la manipolazione e la degenerazione della passione politica in fanatismo[14] tentano di trasformare gli «individui senza individualità» in potenze «puramente obbedenziali»[15], in scolaresche disciplinate[16], in soggetti passivi e pazienti[17], in individui che hanno smarrito «il valore della vita individuale» che è, ribadisce Capograssi, «l’unica vita che si sperimenta»[18].

Ebbene, questi tre cardini della filosofia politica capograssiana – lo stato, il potere legittimo e l’individuo – sono anche i tre cardini del giusnaturalismo contrattualistico, la filosofia politica che, nel corso del XVII e XVIII secolo, osa contestare la consolidata tradizione aristotelico-tomista sull’origine dello Stato, collocandosi così, con questa profonda coupure storica, all’origine della modernità. Il modello teorico del giusnaturalismo contrattualistico[19], che può essere facilmente estrapolato dalle opere dei suoi tre maggiori esponenti – Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau –, poggia su un impianto esplicativo articolato su tre momenti, che corrispondono ai tre stadi successivi del presunto processo di costituzione dello Stato: lo stadio iniziale, pre-politico o prestatale nel quale gli uomini vivono secondo il diritto naturale in una condizione di conflitto: permanente secondo Hobbes (il bellum omnium contra omnes); inestinguibile, una volta attivato, secondo Locke; organico e incontrollabile secondo Rousseau; lo stadio intermedio nel quale gli individui, esseri per definizione liberi e razionali, si accordano per fuoriuscire da una situazione di precarietà e di rischio per le loro esistenze, stipulando uno o due patti (il patto di associazione e il patto di soggezione); lo stadio, infine, della societas civilis sive politica, ossia la fase finale dell’edificazione su base contrattuale dello Stato e della costituzione su basi consensuali del potere sovrano. Dal punto di vista dell’aderenza alla realtà storica, l’ipotesi aristotelica, ripresa nel medioevo da Tommaso d’Aquino, spogliata del compiacimento enfatico per una presunta naturale socievolezza umana, interpretata come benevolenza verso l’altro, è certamente più attendibile e verosimile circa l’origine evoluzionistica dello Stato, inteso, appunto, come lo stadio finale di un lento e graduale processo di sviluppo naturale, che parte dagli elementari aggregati familiari per poi crescere attraverso la formazione di gruppi più ampi (le tribù) destinati a riunirsi dapprima in villaggi e, quindi, in centri di convivenza sempre più grandi. Sul piano storico, se si eccettua l’esperienza degli indipendentisti puritani, i Pilgrim Fathers, che all’inizio del XVII secolo sulla nave che li conduceva verso le sponde della Nuova Inghilterra contrassero il Mayflower Compact, l’atto solenne di fondazione di una nuova comunità politica, non ci sono forse altri esempi di origine artificiale e contrattuale dello Stato. Nonostante, quindi, sia più debole sul piano della spiegazione dell’ipotetica genesi empirica rispetto alla plurisecolare tradizione aristotelica-tomistica, la teoria contrattualistica si afferma e si diffonde perché, a differenza di quella, non dà per scontato e di conseguenza non elude il problema del fondamento del potere politico. L’obiettivo del contrattualismo non è contestare l’origine dello Stato così come è descritta da Aristotele e ripresa dall’aquinate, ma indicare un nuovo modo di legittimazione del potere dello Stato. Alle teorie tradizionalistiche e patriarcali della natura discendente della sovranità oppone la tesi della natura ascendente del potere politico[20]. Ed è proprio questo a rappresentare un’autentica rivoluzione nel modo di concepire lo Stato e di giustificarne l‘esistenza.

In estrema sintesi, in quanto teoria normativa o mera ipotesi della ragione, il contrattualismo moderno, e in ciò si differenzia da quello medioevale[21], sostiene che il potere politico si regge (deve reggersi) su una base convenzionale e che dunque lo Stato si configura come un’entità artificiale (non naturale) e volontaria, come il prodotto di una cultura politica ormai secolarizzata e, pertanto, come l’effetto di una decisione, razionale e orientata allo scopo, presa da un insieme di liberi individui che condividono un comune interesse ad associarsi. In questo modo, il problema del fondamento del potere dello Stato, il problema della legittimità del potere per la prima volta, dopo oltre un millennio, viene posto e risolto a prescindere dall’esistenza di Dio. Il potere del governante non viene da Dio, ma dagli uomini. In ciò, nella secolarizzazione della politica, risiede, piaccia o non piaccia, l’origine della modernità. Il che non significa che la massima di San Paolo – nulla potestas nisi a deo –, peraltro già addolcita e stemperata nella sua astratta perentorietà da San Tommaso e da Suarez, perda d’incanto la propria capacità di suggestione e di orientamento. La formula è dura a morire. Ancora nel XIX secolo viene ripresa e riaffermata da Leone XIII sia nell’enciclica Immortali dei del 1885 e sia nella Libertas praestantissimum del 1888[22]. Né significa che dal panorama europeo del XVII e XVIII secolo spariscono di botto le pretese all’autolegittimazione delle monarchie dei gratia o i domini di ispirazione o di estrazione teocratica. Significa, più semplicemente, che diventa più difficile, perché assai meno credibile, da un lato  continuare a alimentare la dottrina gregoriana delle due spade, e, dall’altro,  continuare a usare Dio e a strumentalizzare la religione  per sostenere le rivendicazioni dinastiche di questa o quella casa regnante o, addirittura, la causa di questo o quel movimento politico. Più difficile, non però impossibile, giacché ancora oggi vi sono leaders fondamentalisti, in oriente come in occidente, che si credono in diretto contatto con l’Onnipotente da cui dichiarano di  ricevere indicazioni operative o del quale presumono di incarnare i disegni. 

Ma chiusa la breve digressione sull’attualità politica, e tornando al tema, s’impone una domanda: qual è il rapporto di Capograssi, il più cristiano dei filosofi cristiani, come ebbe a definirlo una volta Antonio Pigliaru[23], con la dottrina del giusnaturalismo contrattualistico, dalla quale eredita la problematica relativa al ruolo dell’individuo nel processo di legittimazione del potere dello Stato, che è però, come s’è visto, una problematica inquadrata in un contesto culturale caratterizzato dall’istanza della secolarizzazione della politica?

L’atteggiamento di Capograssi nei confronti della modernità è articolato e complesso. Profondo estimatore del pensiero di Gian Battista Vico, non ama il cogito cartesiano o la concezione hobbesiana della ragione strumentale. Nelle Riflessioni sull’autorità e la sua crisi del 1921 attacca l’economicismo e la cosiddetta etica sensistica di cui lo Stato moderno non sarebbe che un riflesso[24] e individua le fonti remote della crisi contemporanea proprio agli albori dell’età moderna. «Con Cartesio e con gli altri che lo seguirono – il riferimento è soprattutto a Spinoza e Hobbes – il pensiero opera un tale mutamento di concezione del mondo e della realtà che ne esce sovvertita tutta la vita dalle sue basi e rovesciati i concetti fondamentali della civiltà e della verità, e l’idea di Dio entra in una crisi mortale»[25]. Non lesina riconoscimenti a Spinoza ed Hobbes – «questi grandi pensatori (…) hanno sin dall’inizio visto e come riassunto tutta quella che sarebbe l’evoluzione dell’avvenire, con una precisione così piena che non è possibile non sentire ammirazione per il loro genio»[26] – ma non esita ad attaccarli frontalmente per aver dichiarato «incivile e assurda quella distinzione tra Stato e Chiesa che è la più profonda determinazione che il Cristianesimo abbia apportato al concetto di autorità e di Stato»[27], ossia per aver avocato allo Stato il ruolo di «definitore del vero e del falso» e dunque per aver trasformato lo Stato in chiesa[28]. Né Capograssi sembra condividere l’impianto generale del giusnaturalismo hobbesiano: non condivide l’idea che lo jus in omnia sia la condizione tipica dell’uomo nello stato di natura[29]; non condivide l’idea che il contratto di unione, da cui nasce l’autorità, sia una sorta di effetto quasi necessario del principio di autoconservazione[30]; non condivide l’idea del convenzionalismo etico[31], né l’idea della totale abdicazione dei diritti di libertà nelle mani del Leviatano[32].

Ergo: se il giusnaturalismo moderno s’identifica con Hobbes, se il giusnaturalismo moderno è Hobbes, allora la conclusione è obbligata: Capograssi è, al di là di ogni ragionevole dubbio, antigiusnaturalista. Se, appunto, vige l’equazione giusnaturalismo = Hobbes. Ma se l’equazione è uno specchio deformante – nella storia del giusnaturalismo vi è anche, per esempio e non in posizione defilata o secondaria, anche Locke, il Locke del Secondo trattato – allora il discorso si fa diverso e un po’ più complicato.

Nello stesso libro in cui formula la critica al pensiero moderno e ai suoi principali esponenti, Hobbes e Spinoza, Capograssi affronta, pochi capitoli prima, il tema dell’autorità. Si pone il problema della giustificazione dell’imperium, il cui emblema, il «segno più comune è il gladium»[33]. Qual è il titolo dell’imperium, si chiede «come e perché l’autorità ha forza di obbligare gli uomini?»[34]. La risposta la trova nella “scuola del diritto naturale” che «nella volontà dell’individuo ripone la ragione e il valore dell’autorità»[35]. La risposta è che «l’uomo ubbidisce al comando perché egli stesso ha voluto il comando e vuole l’obbedienza»[36]. In questo modo, continua Capograssi, «imperio ubbidienza dominio e soggezione diventano effetto della volontà umana opera del singolo creazione della sua ragione»[37]. Sottolineo: l’autorità è “effetto della volontà umana”, “opera del singolo”, “creazione della sua ragione”. Ed ha rappresentato una «vera rivoluzione», secondo Capograssi, l’aver risolto il problema della legittimità del potere ricorrendo «al volere individuale come causa ed agente principale della virtù obbligatoria del comando»[38]. E poiché «l’autorità si fonda su una vera e propria obbligazione delle singole volontà», osserva Capograssi, «la forma e il modo di nascere di questa obbligazione fu e non poteva non essere il contratto. Il contratto fu la ragione la legittimazione la giustificazione dell’imperium»[39]. Ovvero, come precisa con il suo inconfondibile stile: «la volontà che ha posto l’imperium ha posto pure il negotium anzi ha posto il negotium in tanto in quanto ha posto l’imperium»[40]. Difficile trovare parole più chiare e nette per riconoscere l’istanza di fondo sui si regge l’impianto teorico del giusnaturalismo contrattualistico.

Sennonché le cose non sono così semplici come appaiono. A Capograssi la categoria del contratto non convince appieno. Certo, esprime l’idea dell’incontro di libere volontà individuali, esprime il principio che il potere politico nasce dal consenso e che, dunque, è ascendente, proviene dal basso. Inoltre, la categoria del contratto costituisce indubbiamente la conferma della possibile compatibilità sul piano pratico e concettuale della libertà con l’autorità, le due fondamentali coordinate entro cui si svolge la vita politica.

E, però, la categoria del contratto, obietta Capograssi, indica anche altro. Rinvia all’idea di una volontà “ambulatoria”[41], che pone in essere un «atto che è essenzialmente utilitario ed arbitrario», un atto che «quindi poteva non nascere, e che [una volta] creato può essere disfatto»[42]. Insomma, l’ipotesi del contratto sociale affida la creazione dell’ordinamento giuridico e politico all’arbitrarietà e particolarità di un singolo atto di volontà. Ma – e questo è il punto cruciale per Capograssi – «è contraddittorio che un atto arbitrario di volontà possa creare un’istituzione necessaria, e un atto particolare creare un’istituzione di carattere universale»[43]. In altri termini, lo Stato è per Capograssi istituzione necessaria e universale e in quanto tale, in quanto culmine dell’esperienza giuridica e politica, non dipende, non può dipendere dall’arbitrio di un atto “singolo” e “particolare” di volontà. Lo Stato è piuttosto «volontà obiettiva»[44].

L’obiezione, per la verità, non è nuova. Un secolo prima, nei Lineamenti di filosofia del diritto, era stato Hegel a muoverla al contrattualismo. Nei § 258, dopo aver affermato che lo Stato «è il razionale in sé e per sé», Hegel riconosce a Rousseau il merito di aver individuato come «principio dello Stato» la volontà. Ma poiché intende per volontà la «volontà singola» e non la «volontà obiettiva»[45], Rousseau ha anche il demerito di aver fondato l’esistenza dello Stato sul capriccio e l’arbitrio. Una posizione che Hegel ribadisce e completa, facendo ricorso al proverbiale contorsionismo dialettico, sia nel § 260, allorché sostiene che nello Stato le volontà e gli interessi particolari in parte «si mutano nell’interesse della generalità» e in parte riconoscono quest’interesse come «loro scopo finale»[46], sia nel § 261 nel quale ancor più chiaramente afferma che lo Stato, rispetto agli interessi privati, espressi dalla famiglia e dalla società civile, è per un verso una «necessità esterna» e, per un altro «un fine immanente»[47].

Capograssi è un attento lettore della Filosofia del diritto di Hegel, in particolare dei paragrafi sopra richiamati, che cita nell’edizione del Messineo del 1913. E di Hegel condivide e apprezza la concezione dello Stato. Annota nell’Introduzione al Saggio sullo Stato del 1918: «Perciò non mai lo Stato in altre filosofie aveva assunta l’ampiezza e la potenza morale che assume nella meditazione hegeliana. Certo non è Dio come si è ritenuto e ripetuto, ma è il culmine dello spirito obiettivo, oltre di cui è solo lo spirito del mondo e lo spirito assoluto»[48]. Nell’ammettere la suggestione fascinosa della concezione hegeliana dello Stato, Capograssi ne avverte però anche il limite, la dimensione nazionale entro cui si colloca. «Nell’anarchia selvaggia degli Stati in armi – scrive poco dopo – si disegna una civitas magna di cui Vico, con l’occhio che era più limpido e profondo di quello di Hegel, intravede il lontano profilo e la totale giustizia»[49]. Ecco perché può concludere, con un frase che Antonio Pigliaru amava ricordare e ripetere: «ogni vera ricerca sullo Stato è una profonda meditazione della sua fine»[50].

 

 



           

            [1] Relazione presentata al Convegno “Attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi. Tra diritto ed etica, letteratura e politica”, Sassari 16-17 novembre 2006.

 

            [2] Ora in G. Capograssi, Opere, Giuffrè, Milano 1959, vol. I, 3-147.

 

            [3] Entrambi in Opere, cit., vol. III, rispettivamente 329-375 e 377-383.

 

            [4] Entrambi in Opere, cit, vol. I, rispettivamente 151-402 e 405-573.

 

            [5] Opere, cit. vol. II.

 

            [6] Ivi, vol. III, 5.

 

            [7] Ora in Opere, cit., vol. V, 442.

 

            [8] Analisi dell’esperienza comune, in Opere, cit., 6.

 

            [9] Ivi, 8.

 

            [10] Incertezze sull’individuo, cit., 445.

 

            [11] Ivi, pp. 443-45.

 

            [12] Ivi, 456.

 

            [13] Ivi, 461.

 

            [14] Ivi, 447.

 

            [15] Ivi, 459.

 

            [16] Ivi, 462.

 

            [17] Ivi, 455.

 

            [18] Ivi, 452.

 

            [19] Sul modello giusnaturalistico, cfr. N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, n. 4, 1973, 603-622, ora anche in Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 1989, 3-26; N. Bobbio - M. Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979, parte prima, Il modello giusnaturalistico, 17-109, ristampato, con alcune modifiche e integrazioni ai primi due paragrafi, col titolo Il giusnaturalismo in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da  L. Firpo, UTET, Torino 1980, vol. 4, t. 1, 491-558.

 

            [20] Sulla dicotomia concettuale fra potere discendente - potere ascendente, cfr. W. Ulmann, Principi di governo e politica nel medioevo, Il Mulino, Bologna 1972, 13 ss.

 

            [21] Sul punto cfr. l’ormai classico J.W. Gough, Il Contratto sociale. Storia critica di una teoria, Il Mulino, Bologna 1986.

 

            [22] Cfr. I. Giordani (a cura di), Le encicliche sociali dei papi, Studium, Roma 1948, rispettivamente pp. 96-97,114.

 

            [23] L’espressione di Antonio Pigliaru, La Lezione di Capograssi, Gallizzi, Sassari 1962, 6, è: «nel quadro del pensiero cristiano contemporaneo, nessun filosofo è cristiano più di lui».

 

            [24] Riflessioni sull’autorità e la sua crisi, cit., 316-317.

 

            [25] Ivi, 337.

 

            [26] Ivi, 341.

 

            [27] Ivi, 347.

 

            [28] Ivi.

 

            [29] Ivi, 340.

 

            [30] Ivi.

 

            [31] Ivi, 349-350

 

            [32] Ivi, 349.

 

            [33] Ivi, 210.

 

            [34] Ivi, 212.

 

            [35] Ivi, 214.

 

            [36] Ivi, 215.

 

            [37] Ivi.

 

            [38] Ivi, 214.

 

            [39] Ivi, 215-16.

 

            [40] Ivi, 216.

 

            [41] Ivi, 217.

 

            [42] Ivi.

 

            [43] Ivi, 218.

 

            [44] Ivi, 220.

 

            [45] G.F.G. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1971, 213-14.

 

            [46] Ivi, 218.

 

            [47] Ivi, 219.

 

            [48] Saggio sullo Stato, in Opere, cit., vol. I , 16.

 

            [49] Ivi, 17.

 

            [50] Ivi.