N. 5 – 2006 – Contributi

 

La risurrezione della carne nelle iscrizioni latine del primo cristianesimo[1]

 

Attilio Mastino

Università di Sassari

 

Sommario: Premessa. – A) La risurrezione (lat. resvrrectio, gr. «anástasis»). – 1. La risurrezione dei chierici e dei fedeli. – 2. Un privilegio per i giusti. – 3. L’immagine della risurrezione. – B) La morte cristiana. – 1. Le sepolture ad sanctos. – C) Il tempo della risurrezione: il giorno del giudizio (novissimus dies). – D) La potenza di Cristo. – E) Il modo della risurrezione della carne (lat. caro, greco sárx). – 1. La luce del Paradiso. – 2. Giona e Lazzaro. – F) L’attesa della risurrezione. – 1. Un atto di fede (credo). – G) Conclusione. Un tentativo di sistemazione cronologica. – Bibliografia.

 

 

Premessa

 

Il tema della risurrezione della carne nella cultura cristiana, investigato acutamente fin dall’età della Scolastica, è trattato in una sterminata bibliografia, puntualmente richiamata in questo 45° volume del Dizionario di spiritualità biblico-patristica dedicato a Morte e risurrezione nei padri della Chiesa, curato da Salvatore Panimolle[2]; appare di conseguenza superflua una rassegna bibliografica completa. Ci limitiamo pertanto in questa sede a trattare il tema della risurrezione della carne nelle iscrizioni latine specie di età paleocristiana e di carattere funerario; tema che appare relativamente poco studiato sotto questo profilo con un diretto accesso alle fonti, anche se l’analisi di un’articolata documentazione consente di seguire le origini del lento processo di definizione del dogma, localizzando le attestazioni nel tempo e nello spazio ed accertando tradizioni e particolari sensibilità locali. Si tratta di un centinaio di iscrizioni, con testi prevalentemente di carattere poetico (solo un quarto in prosa): una visione di sintesi conferma la complessità della tematica cristiana della risurrezione, capace di affrontare congiuntamente il destino ultraterreno del corpo e dell’anima e dunque di superare il dualismo immortalità dell’anima/immediata ascesa al cielo e risurrezione corporale/discesa interinale agli inferi[3].

 

 

A) La risurrezione (lat. resvrrectio, gr. «anástasis»)

 

Una poco nota iscrizione funeraria, rinvenuta ad Olmedo in Sardegna nell’Ottocento e conservata al Museo Nazionale di Cagliari, presenta in maniera inconsueta la fede nella risurrezione della carne in età tardo-antica. Il diacono Silbius, ecclesiae sanctae minister, morto il 5 aprile di un anno incerto del VI secolo all’età di 33 anni, riprendendo forse a memoria Gb 19,25s afferma poeticamente la fede nella risurrezione e nella promessa del Regno celeste, con due esametri straordinari di carattere dogmatico:

 

expectat, Cristi ope, rursus sua vivere carne,

et gaudia lucis nobae ipso dominante videre[4].

 

Una traduzione non esattamente letterale potrebbe essere: «egli aspetta nella tomba che, grazie alla potenza di Cristo, la sua carne possa vivere di nuovo ed attende di vedere le gioie dell’ultima luce, mentre Cristo finalmente potrà regnare in eterno» (Fig. 1).

L’elemento principale di questo testo è costituito dalla poetica ripresa del dogma cristiano della risurrezione della carne, che proprio nel passo di Giobbe trova la più chiara affermazione:

 

«Io so, infatti, che il mio Redentore vive, / che nell’ultimo giorno risorgerò dalla terra / e sarò di nuovo rivestito della mia pelle / e rivedrò il mio Dio nella mia carne»[5].

 

La dichiarazione di fede nella risurrezione della carne così come definita da Giobbe ricorre ad verbum, con una più puntuale aderenza al testo biblico, in alcune iscrizioni latine che vanno dal V al X secolo, primo tra tutti un celebre epitafio cristiano di Cordova, dove la famula Dei Iusta recita, forse già nel V secolo:

 

«credo che il mio Redentore vivrà e nell’ultimo giorno risusciterà la mia pelle e con la mia carne vedrò il Signore»[6].

 

Allo stesso modo a Catania forse nel VI secolo un defunto anonimo afferma, secondo un’ardita ma convincente interpretazione di Lidio Gasperini: credo qui[a Redemptor meus vivit et in novissimo] die de ter[ra surrecturus sum et in carne mea videbo] D(eu)m[7].

Partendo da questi modelli più antichi, con il passare dei secoli il tema biblico ritorna in una serie di altri testi, più o meno fedeli alla Scrittura, come la tarda lapide tombale di Montesorbo (Forlì), con qualche imperfezione dovuta forse ad una cattiva edizione (fine VIII-inizi IX secolo), dove il defunto dichiara:

 

crux (Christi) vivit i(n) casa mortuorum. (Ihesus Christus) vincit. Scio quia Red[emp]tor meus viv[it] et in novissim[o die] per ipsus sc[io] me esse liver[a]turus[8].

 

Oppure come l’epitafio del presbitero Venerius del Museo di Rimini (VIII-IX secolo): credo quia Redem(p)tor m(eu)s vivit et in novissimo die suscitavit me[9], con l’imprecazione rivolta a danno di chi violerà la tomba, che comprende l’anatema in nome dei 318 padri del Concilio di Nicea e l’augurio di una sorte analoga a quella di Iuda trad(itor)[10].

Forse un caso significativamente vicino è anche il Credo incompleto, segnalato ancora da Lidio Gasperini, incluso nell’epitafio (metà VII-metà IX secolo) del vescovo anonimo di Formiae, anch’esso apparentemente ispirato dal passo di Giobbe, preceduto da Ps 30,6[11].

In tutti questi casi la ripresa scritturistica attinge alla Vulgata, ma se ne allontana parzialmente, con alcune significative varianti, dovute forse a citazioni di seconda mano oppure a tradizioni liturgiche locali: è stato già osservato, ad esempio, che l’esordio del versetto 19,25 di Giobbe, scio enim quod, viene rettificato in credo quod a Cordova ed in credo quia a Catania ed a Rimini. Il vivat di Giobbe diventa vivit nell’epitafio di Venerius e vivet a Cordova. Il die che ricorre in quasi tutti gli esiti epigrafici del passo biblico dipende da una variante, novissimo die, di alcuni codici biblici[12]. Infine, la prima parte del versetto 26 (et rursum circumdabor pelle mea), presente «per contaminatio» nell’epitafio cordubense, è invece omessa negli altri testi epigrafici[13].

Il caso più interessante ed autonomo rispetto al modello biblico rimane dunque quello sardo, dove si sommano una serie di elementi che cercheremo in questa sede di commentare: innanzi tutto l’accento è posto prevalentemente sulla risurrezione del defunto, il diacono Silbius, il cui corpo conservato religiosamente nella tomba tornerà a vivere nell’ultimo giorno; è data per scontata la risurrezione del Cristo, che rimane sullo sfondo: è proprio Cristo però che opera attivamente con la sua divina potenza a favore dei defunti; quindi si tenta di definire la gloria del Paradiso come un regno di luce e di gioia (gaudia lucis novae), destinato in eterno agli uomini di buona volontà. Occorre infine segnalare il ruolo del defunto, un diacono del popolo di Dio (ecclesiae sanctae minister)[14], a conferma della nota predilezione degli uomini di Chiesa per il tema della risurrezione.

 

1. – La risurrezione dei chierici e dei fedeli

 

È effettivamente provato che sono soprattutto gli esponenti del clero cristiano a ricordare nei propri epitafi la speranza della risurrezione, dopo la morte che colpisce indistintamente tutti gli uomini: Jos Janssens ha giustamente osservato che il tema della risurrezione è poco diffuso nell’epigrafia funeraria cristiana delle origini e più precisamente «che esso è presente in modo esplicito quasi unicamente nelle iscrizioni per chierici, per persone consacrate e per uomini al servizio della chiesa»[15], specie in testi poetici tardi: così molti papi dal IV al VI secolo, da Damaso a Celestino, a Bonifacio II, a Pelagio, a Gregorio Magno; l’arcivescovo Agnellus, alcuni vescovi (Alexander, Iamlychus, Senatus), un chierico del titolo di San Clemente, un sacerdos, sei presbiteri (Victor, Dominicus, Crispinus, Fermosanus, Leo, Vitalis), un rector, un cubiculario della basilica di San Paolo (Decius), un arcidiacono a San Lorenzo (Sabinus), il nostro diacono Silbius di Olmedo ed il diacono Severus con riferimento al corpo della figlia, un suddiacono, un lettore[16], una vergine consacrata, una puella virgo sacra (Alexandra) nell’anno 449, una femina [religios]a, una sacra do(mino) puella (Eusebia), alcune sanctimoniales, da intendersi come vergini consacrate ecc.[17]

Ciò non significa affatto che la risurrezione non riguardi effettivamente tutti i fedeli, evidentemente meno capaci a definirne nel proprio epitafio il dogma, secondo una rigorosa dottrina: si tratta dunque di una specifica competenza teologica del committente o di chi per lui ha curato la tomba, che giustifica il richiamo più o meno letterale alla Scrittura e l’immagine della risurrezione in Cristo.

 

2. – Un privilegio per i giusti

 

Le iscrizioni mettono spesso in evidenza come la morte sia un momento finale della vita, ma anche una partenza, un transito, un trapasso verso un altro mondo, una soglia (limen) che si varca serenamente grazie alla speranza cristiana nella vita eterna[18]: è lo spirito che, abbandonate sulla terra le membra terrene, ritorna sui suoi passi e vola attraverso l’etere elevandosi nel grembo del sommo genitore (inque sinus summi genitoris)[19]. Sono i giusti a guardare alla morte con serenità e fiducia ed a meritare il trionfo della vita eterna[20], in un futuro che non ha fine[21]. È così che, mentre il corpo è restituito alla terra, l’anima torna al Cristo: anima Cristo reddita est[22], in attesa di conoscere serenamente la sentenza dell’ultimo giorno: anima mea expecta[t] die ultimo causa(m)[23]. Si deve sottolineare la tranquillità con la quale i cristiani si sottopongono al giudizio universale, contro ogni deviazione terrificante che caratterizzerà il medioevo cristiano. Del resto le anime giuste godono della luce celeste[24], perché il Signore rende una vita che rimane senza fine[25]. Così il padre di Damaso andò libero al cielo, caelos quod liber adiret[26]; allo stesso modo il diacono Basso originario di Babilonia in Egitto dichiara in un epitafio in lingua greca del IV secolo:

 

«lasciato il corpo frale alla terra e la sostanza ai mortali, mossi per la via del cielo e al soggiorno di Cristo. I resti di Basso sono sotto terra, ma l’anima nell’aria levatasi a volo venne nel cielo di Cristo»[27].

 

Infine il presbitero Tigrinus racconta come la propria anima pura goda nel cielo (gaudet at illa polo), grazie alla potenza di Cristo, sotto la cui guida è la morte a morire: quo duce mors moritur, quando il defunto è preso dalla dolcezza del regno celeste (quippe ego caelestis captus dulcedine regni)[28]. Ciò non elimina il dolore di chi sopravvive o di chi osserva la fine terrena, magari giunta prematuramente, come per l’«agnello rapito nel cielo» ([a]gnus in celis raptus])[29] o per l’anima della figlia infelice del diacono Severus, rapita dallo Spirito santo (quique animam rapuit spiritu sancto suo)[30] od altre anime di defunti rapite dagli angeli[31]. La morte prematura può essere accettata da chi crede che il Signore abbia bramato di avere presso di sé il fedele[32], che a sua volta ha desiderato ardentemente giungere a scorgere la luce celeste (aetheriam cupiens caeli conscendere lucem)[33].

Talora si fa riferimento ai giusti che accolgono il defunto: per il lettore Paulus si precisa che l’anima è stata ricevuta tra i giusti nel cielo (caelo tamen animam cum iustis credo receptam)[34].

La risurrezione alla fine dei tempi riguarda però il corpo e non l’anima da sola ed attiene alla vita futura che è stata promessa da Dio agli uomini per l’eternità.

 

3. – L’immagine della risurrezione

 

Alla documentazione epigrafica sono spesso associate pitture o sculture che riprendono con maggiore immediatezza i numerosi temi della risurrezione[35]: fra questi ha una certa diffusione in contesti funerari l’immagine del pavone, per il quale, come è noto, il richiamo alla risurrezione si lega alla leggenda, pagana ma accolta anche dai cristiani[36], secondo la quale alla sua carne sarebbe stato concesso di non putrefarsi[37]. Fra le raffigurazioni simboliche allusive alla risurrezione ha una certa fortuna ha anche l’immagine della fenice, uccello noto già nell’antica mitologia orientale, assunto nella letteratura e nell’iconografia cristiana, proprio in relazione alla risurrezione, per il potere che l’animale avrebbe avuto di rinascere dalle proprie ceneri[38]. Nelle raffigurazioni paleocristiane la fenice viene spesso presentata su un albero di palma (in greco, foinix)[39], specie nelle scene di traditio legis, dove si trova in corrispondenza, non a caso, dell’apostolo Paolo, per il quale la risurrezione di Cristo è fondamento della fede (1Cor 15)[40].

Un esplicito richiamo alla risurrezione si trova, ancora, in alcuni dei sarcofagi detti “di passione” o, significativamente, dell’Anastasis, diffusi soprattutto in età teodosiana: questi presentano, al centro della fronte, accanto a scene evocanti la passione di Cristo (arresto, Cristo davanti a Pilato, Cristo accompagnato dal Cireneo) o il martirio dei principi degli apostoli (arresto di Pietro o di Paolo, decollatio Pauli), una crux invicta (si tratta di una croce configurata nella parte superiore come un chrismon circondato da una corona lemniscata, chiaro segno di vittoria) ai piedi della quale sono due soldati addormentati, la cui presenza, direttamente tratta dal racconto evangelico (Mt 28,11-14) permette di riferire in maniera immediata questa raffigurazione simbolica all’episodio “storico” della risurrezione di Cristo[41].

Per gli episodi di risurrezione tratti da AT e NT (r. di Lazzaro, r. del figlio della vedova di Naim, r. della figlia di Giairo, r. di Tabitha) e per altri episodi allusivi alla r. (Daniele nella fossa dei leoni e Giona) rimando infra, dove se ne tratta più diffusamente.

Richiami alla risurrezione si ritiene possano essere veicolati anche da altre immagini, sulla scorta di riferimenti in tal senso presenti in testi letterari antichi; non parrebbe essere estranea al concetto della risurrezione, ad esempio, la raffigurazione del pesce, nel quale si è anche voluto vedere l’immagine del Cristo risorto (cf. es. Agostino, Civ. Dei 18, 23 = CCL 48, 613s, che paragona Cristo che visse nell’abisso della mortalità al pesce che vive nella profondità delle acque)[42]. Anche altre immagini zoomorfe meno diffuse, d’altra parte, pare possano celare richiami alla risurrezione, se si tiene conto del significato che ad esse viene attribuito da alcune leggende popolari, confluite in un’opera di “storia naturale” (Physiologus, redatto fra II e III secolo) dalla quale attingono anche i Padri della Chiesa per rendere comprensibili alcuni concetti altrimenti difficilmente spiegabili: al mistero della risurrezione alluderebbe, allora, l’immagine del leone, dal momento che secondo la leggenda la leonessa infonderebbe vita al leoncino tre giorni dopo averlo partorito[43]; alla risurrezione potrebbe anche riferirsi l’immagine del cervo, che secondo una leggenda popolare[44] dopo aver estratto un serpente dalla sua tana e averlo ingoiato, muore se non riesce a bere ad una sorgente entro tre giorni (l’immagine del cervo alla fonte, diffusa soprattutto in ambito battesimale, è già in Sal 41,2: Sicut cervus desiderat ad fontes tuas anima mea dsiderat ad te Deus)[45].

Lo scontro fra la vita e la morte viene anche sintetizzato, nell’iconografia paleocristiana, nella lotta fra il gallo (= luce, resurrezione) e la tartaruga (= tenebre infernali, morte)[46].

Occorre ricordare, ancora, fra le immagini veicolanti il concetto di risurrezione, quella della vite, già associata a Dioniso, simboleggiante i cicli della natura, paragonata nel Vangelo a Cristo (es. Gv 15,1-6) e ripresa più volte dai Padri della Chiesa[47].

 

 

B) La morte cristiana

 

Si deve partire dalla visione della morte nell’epigrafia funeraria cristiana, che in qualche modo si collega all’immaginario pagano[48]: ora la fede nella risurrezione della carne si accompagna con molti argomenti consolatori, tali da rendere la morte meno terrificante, anche se è chiaro che si muore in piena solitudine, mentre si risorge assieme al popolo di Dio. Eppure il concetto fondamentale è che la morte, grazie alla potenza redentrice del Cristo, segna solo una tappa, un momento di riposo e di pace, hic requiescet in somno pacis[49]. Ecco una delle tante dichiarazioni di fede, come per Albana ricordata dal marito Cyriacus:

 

«lasciati i tuoi, tu giaci nella pace del sonno. Benemerita, risorgerai. Il riposo che ti viene concesso è solo temporaneo (relictis tuis iaces in pace sopore, / merita resurgis, temporalis tibi data requ(i)etio[50].

 

Del resto è Cristo che si è dichiarato resurrectio et vita in Gv 11,25.

La morte è il momento in cui l’anima si separa dal corpo, allo stesso modo come la risurrezione segna una nuova unione dell’anima col corpo, che non andrà perduto ma sarà rianimato e vivificato, tanto che tornerà a vivere. Dunque nelle iscrizioni si afferma «la continuità tra il corpo terrestre e quello della risurrezione», in una dimensione di fede «cristologica ed ecclesiale»[51]. Ciò rassicura i credenti, che raggiungono le sedi eterne senza preoccuparsi della morte, come la sposa di Pollentia: aeternam repetit sedem nil noxia morti[52].

I riti della deposizione del defunto hanno lo scopo di garantire il quadro cerimoniale della sepoltura cristiana, in una visione di fede, dal momento che si seppelliscono i defunti nel nome di Cristo[53].

Di conseguenza si deve garantire la protezione della tomba che a sua volta protegge il cadavere, perché una dispersione delle ossa potrebbe ostacolare la risurrezione finale[54]: occorre pertanto prendersi cura della tomba ed assicurarne la perpetua securitas[55]. Nelle Catechesi ai misteri di Cirillo e Giovanni di Gerusalemme si precisa:

 

«Se la risurrezione dei morti per te non esiste, perché condanni i violatori dei sepolcri? Se il corpo si dissolve e la risurrezione è senza speranza, perché chi viola il sepolcro incorre in una pena? Vedi che anche se tu neghi con le labbra, rimane piena in te la coscienza della risurrezione»[56].

 

In qualche caso la tomba finisce anche per essere considerata la dimora finale: haec est aeterna domus et perpetua felicitas[57].

Eppure le tombe rappresentano solo un temporaneo ricovero per i corpi destinati a risuscitare nell’ultimo giorno: Fortunatus si costruisce la tomba con lo scopo di aver pronto il suo posto in Cristo, quando egli riposerà in pace, in Chr(istum) locum paratum ha(beat)[58]. Allo stesso modo due coniugi si preparano da vivi una tomba per il momento in cui vivranno in Dio: v(i)vi fecerunt sibi ut in deo vivant[59]. La depositio del corpo nella tomba è «una collocazione provvisoria, una custodia temporanea»[60] in attesa della risurrezione, ma ha una rilevante funzione anche nella prospettiva della vita futura.

Di conseguenza il giorno della morte diventa il dies natalis, il giorno della nascita ad una nuova vita[61].

 

1. – Le sepolture ad sanctos

 

Un elemento ulteriore è rappresentato dalla possibilità per il defunto di farsi seppellire nelle vicinanze della tomba di un martire: il che finisce per esser considerato un privilegio speciale, che viene ricercato fin dalle origini del cristianesimo, perché si accompagna ad una promessa di sopravvivenza, garantendo effettivamente la vittoria sull’oblio dopo la morte, anche per la frequenza con la quale si celebravano le ricorrenze liturgiche per ricordare il martirio dei santi vicini, in qualche modo comites del defunto. Il credente poteva così sperare nell’aiuto miracoloso dei santi sepolti a breve distanza da lui, che in qualche modo si sarebbero potuti occupare della quies e della securitas delle ossa[62] e della protezione della tomba, evidentemente destinata, quest’ultima, a divenire essa stessa luogo di devozione e di preghiera e dunque protetta dalla venerazione dei fedeli. Sono i santi vicini che intercedono presso il Signore in favore dei defunti sepolti con loro e che un domani, arrivata l’ora del giudizio finale, daranno al corpo l’impulso per rinascere nella risurrezione[63]. Del resto il tema diventa una costante nell’epigrafia funeraria già dal IV secolo: [intra l]imina sanctorum, ad sanctorum locum, in hoc sanctorum loco, positus est ad sanctos, [ad] martyres, ad sancta(m) martura(m), ad sanctum martyrem, ante specum martyrum, ecc., per restare solo ad un primo elenco[64]. È stato osservato lucidamente che l’espressione “risuscitare coi martiri” può essere intesa in senso spaziale (sepoltura a fianco di loro), temporale (allo stesso tempo) e causale (grazie a loro)[65]. Per questo il martire Lorenzo si unirà al coro degli angeli che sveglieranno l’arcidiacono Sabinus al momento della risurrezione, ut du[lci sonitu r]esonans tuba caelitu[s][66]. Lupicinus a Vienne risorgerà assieme ai santi: resurrecturus cum sanctis[67]. Per queste ragioni si arriva ad attribuire il merito della risurrezione ai santi associati al defunto, come a Guadamur presso Carthago Nova, dove il prete Crispinus affida la tomba alla protezione dei martiri, [ut cu]m flamma vorax ve[n]iet comburere terras, ce[ti]bus s(an)c(torum) merito sociato resurgam, hic vite curso anno finito [68].

 

 

C) Il tempo della risurrezione: il giorno del giudizio (novissimus dies)

 

Il tema della risurrezione nel giorno del giudizio è ovviamente introdotto da Gv 6,44.55

 

«io lo risusciterò nell’ultimo giorno» … «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avrà la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno»

 

ed esteso da San Paolo sul piano apocalittico[69]:

 

«ecco io vi annuncio un mistero: non tutti certo moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba», quando «i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo mutati»[70].

 

Di conseguenza il tema ricorre, anche se non di frequente, nelle epigrafi cristiane, con sensibilità differenti che risentono dei miti escatologici, cosmici e millenaristici[71].

L’iscrizione di Olmedo richiama il giorno del giudizio universale nell’aggettivo nova riferito alla lux che accompagnerà i gaudia dell’ultimo giorno: altrove compare il novissimus dies[72], il dies ultimus[73] ed il dies tremendus iudicii come ad esempio in un’iscrizione di Turris Libisonis ancora in Sardegna[74]; a Roma l’epitafio dell'abbatissa Gratiosa contiene l’espressione deprecatoria che tende a salvaguardare l’integrità della sepoltura fino al momento della risurrezione:

 

coniuro per Patrem et Filium et Spiritum S(an)c(tu)m et diem tremendam iudicii et nullus praesumat locum istum ubi requiesco violare[75].

 

Discende da una cattiva lettura di un testo catanese l’ipotesi relativa ad un dies determinatus, da intendersi come giorno fissato per il giudizio universale[76]. L’epitafio urbano di Nundinarius e di Iusta ricorda l’adveniens dies ad perpetuam [vitam][77], mentre tra i Vocontii Dalmata, redento dalla morte di Cristo, attende il giorno del giudizio con serenità grazie all’intercessione dei santi: diem futuri iudicii intercedentebus sanctis letus spectit[78]. Infine in Gallia: surrecturus cum [dies] d(omi)ni advenerit[79].

Dunque il nostro documento conserva l’annuncio della prossima venuta del Regno di Cristo, della conseguente risurrezione dei corpi (oltre che degli spiriti) e la fede in un Paradiso caratterizzato dalle gioie dell’ultima luce, dove i giusti godranno della beatitudine eterna.

Mi sembra vada sottolineato da un lato il collegamento tra risurrezione della carne e l’avvento del regno messianico, ma anche il tema della gioia e della luce (gaudia lucis nobae), aspetti che potrebbero direttamente derivare in Sardegna da una lettura del De resurrectione carnis di Tertulliano, che risale agli anni 209-212, nel pieno dell’età severiana: in quella sede, in un momento veramente precoce per la riflessione su tali tematiche, era ricostruito il dibattito pagano intorno alla morte ed era ribadita la speranza cristiana nella risurrezione, fiducia Christianorum est resurrectio mortuorum; ed erano precisati i contenuti della fede: resurgit igitur caro, et quidem omnis et quidem ipsa, et quidem integra. Del resto, «se tu attingerai a questa fonte, tu non avrai sete di nessuna dottrina, e non sarai riarso di nessun fuoco di questioni: sarai anche rinfrescato con la risurrezione della carne, ogni volta che tu vorrai attingervi (resurrectionem quoque carnis usquequaque potando refrigeraberis)[80]. Il refrigerium come è noto costituisce per i defunti l’immagine della sorgente purissima, alla quale gli assetati si dissetano, come una colomba sull’orlo di un vaso[81].

L’epitafio di papa Pelagio entra nei particolari apocalittici del giorno del giudizio: «questo sepolcro rinchiude per buona sorte il corpo terreno … Egli è certo di risorgere per il giudizio e rapito dalla mano d’un angelo, occuperà la parte destra (surgere iudicio certus dextramque tenentem angelica partem se rapiente manu[82].

Altri particolari sono quelli dell’epitafio dell’arcidiacono Sabinus:

 

«qui all’ingresso (della basilica) ho posto la sede per le mie ossa: sono certo di essere subito presente al momento del giudizio, quando risuonerà la tromba celeste col dolce suono»[83].

 

Così Cinegius risorgerà sub iudice Christo, [cum tuba terri]bilis sonitu concusserit orbem[84].

Partendo dai precedenti pagani[85] e scritturistici, il riferimento alla risurrezione della carne è frequente anche nel Corano, dove torna il concetto di giorno della risurrezione (p.es. Sura XI, 100), ultimo giorno (II,8), giorno estremo (IIII, 114, XXIX, 36), Ora (p.es. VI, 40; VII, 186ss; XV, 85; XXII, 1ss), giudizio universale (VI, 14; XV, 35; LI, 6, ecc.), giorno della Riunione (XLII, 6) o della Discriminazione (fasl): allora le stelle si spegneranno ed il cielo si spaccherà, i monti si sfasceranno (LXXVII, 7) e verrà soffiato nel Corno (VI, 73), sarà dato fiato alle trombe (XVIII, 100), si udrà il Grido (L, 42) e saranno usate le bilance ed i registri per la Resa dei Conti (XIV, 40); allora Gesù tornerà sulla terra alla vigilia della fine del mondo (XLIII, 61). Risorgeranno i peccatori con gli occhi azzurri ed i visi neri destinati al fuoco eterno gettati verso la Geenna e l’inferno (giahîm), come bestiame verso l’abbeverata (XIX, 87) e risorgeranno anche i giusti (siddîq), i timorati, i martiri (shahîd), che dimoreranno in eterno in Paradiso (p.es. II, 81s; LVII, 13)[86].

 

 

D) La potenza di Cristo

 

Il tema della potenza del Cristo risorto, «primizia di coloro che sono morti e dormono» (in contrasto con la debolezza del Cristo crocifisso) si fonda su precisi richiami scritturistici[87] e sulle lettere ai Corinzi di Paolo[88], che mettono in rapporto la risurrezione di Cristo con la risurrezione dei cristiani attraverso il battesimo (celorum regnum sperate, hoc fonte renati)[89], fondata sui particolari carismi loro concessi, «siccome in Adamo tutti muoiono, così pure tutti in Cristo riavranno la vita»[90]. Del resto «Iddio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza (Deus vero et Dominum suscitavit et nos suscitabit per virtutem suam[91]. Più precisamente il concetto apocalittico di Cristo che avvia la risurrezione con il suo ritorno glorioso nel mondo (parousìa) ricorre di frequente nell’epigrafia funeraria cristiana, come a Theveste in Numidia in un’acclamazione che lo designa salutis princeps[92]. La risurrezione della nobile Claudia avverrà a Roma Chr(ist)i munere, anima in carnem redeunte[93]. L’arcivescovo Agnellus nella Ravenna del VI secolo sa bene che i giusti risorgeranno, grazie alla redenzione, cum s(an)c(ti)s Chr(ist)o medicante [resurget] / sic quoque pro meritis gaudet[94]. Ritorna di frequente il concetto che la risurrezione avviene in Cristo o per opera di Cristo: un chierico del titolo di San Clemente lo testimonia nella tomba: [Christo p]raestante resurget[95], come a Tolentino il prefetto Flavius Iulius Catervius e la sua sposa insieme risorgeranno felici grazie all’opera di Cristo (surgatis pariter Cristo praestante beati)[96]; così ad Aosta la sacra do(mino) puella Eusebia, cum quo re[surget][97]. Ad Aïn Ghorab in Numidia: C(h)risto i[ubente] resurgit[98]. La realtà della risurrezione è sottolineata dal ricorso all’indicativo presente, il tempo della certezza e dell’attualità, nell’epitafio di Discolius nel cimitero di Priscilla, che già nel IV secolo afferma: «quando verrà l’avvento (di Cristo) risorgo (cum venerit adventus [(Christi)] / resurgo[99]. Bonifacio II papa ricorda che la risurrezione delle sue membra avverrà nel momento in cui il Signore tornerà sulla terra: membra beata senex Bonifatius hic sua clausit / certus in adventu glorificanda Dei[100]. Allo stesso modo il presbitero Victor, sempre a Roma, afferma di credere che potrà godere giustamente per la venuta del Santo, adventum s(an)c(ti) credo gaudere me iuste[101]. Il presbitero Vitalis a Sufetula dichiara la sua speranza: spes michi multa manet, na[m te] venturum spero, d(omi)n(u)m, qui cuncta creasti tibi, ut cinere[s] istos suscites ipse potens[102].

Va osservato che dal VT, il concetto è trasferito nel NT ed addirittura nel Corano, se è vero che anche per Maometto nell’ultimo giorno Gesù tornerà sulla terra alla vigilia della fine del mondo (XLIII, 61). Del resto per il Corano Gesù, col permesso del Signore, era stato in grado di far uscire i morti dalla tomba (V, 110); allo stesso modo il Signore come ha creato la vita potrà far risuscitare i morti (VII, 56; XVII, 51; XXX,50) e sono da respingere le perplessità degli increduli (L, 2ss).

L’espressione ipso dominante dell’iscrizione di Olmedo mette l’accento sull’avvento del Regno di Cristo, dopo il giudizio universale: allo stesso modo il vescovo Alessandro a Tipasa, attende fiducioso l’avvento del Regno celeste, quando potrà essere compagno dei santi più venerati:

 

corpus hic in pace quiescit / resurrectionem expectans futuram de mortuis primam, / consors ut fiat sanctis in possessione regni caelestis[103].

 

Un testo analogo nella vicina Cuicul, oggi Djemila, per il rector Cresconius:

 

resurrectione(m) expectans futuram in Cristo corona / consors ut fiat sanctis in sede regni caelestis[104].

 

In altri testi ritorna il concetto del Signore Creatore e Giudice, che si esprimerà nell’ultimo giorno: il diacono Severus ricorda che le membra della figlia sono custodite nella tomba per longum tempum factori et iudici[105]; il vecchio Eufrasius risorgerà nel giorno del giudizio, all’arrivo del Creatore: surr(e)c(turus) die, caelo cum venerit auctor[106]; e così anche Armentaria, surrictura, cum dies d(omi)ni adve(ne)ri<t>[107]. Damaso, nell’elogio dei santi Felice e Filippo, ricorda lo scopo del ritorno di Cristo ex aethere per giudicare i vivi ed i morti: iudicet ut vivos rediens pariterq(ue) sepultos[108].

Il fondamento della risurrezione dei giusti è ovviamente radicato sulla morte e l’avvenuta risurrezione di Cristo, con l’ingresso o se vogliamo con l’irruzione della metastoria nella storia: l’incarnazione di Cristo diede per Agostino una nuova dimensione escatologica alla storia degli uomini, ritmata e finalizzata alla redenzione. A partire da quel momento è Cristo con la sua azione vivificatrice a far risorgere i defunti. Il tema della risurrezione storica di Cristo compare di frequente sui monumenti cristiani[109] e sporadicamente sulle iscrizioni[110], come ad Adamclisi in Mesia inferiore, introdotto dal segno della croce[111]: crux mort[is et] resurrect[ionis], con testo anche greco, stauròs thanátou kaì anastáseos[112]. La croce è segno di redenzione e di salvezza e salus è parola usata di frequente nelle iscrizioni per indicare la risurrezione futura[113]. Nelle Asturie in occasione della consacrazione di una chiesa (a. 737) ritorna l’espressione resurgit, con riferimento alla croce di Cristo[114]. A proposito della croce come richiamo alla risurrezione pare interessante ricordare, oltre che i già citati sarcofagi “di passione” o “dell’Anastasis”[115], alcune iscrizioni funerarie africane nelle quali ricorre, associata alla croce, l’espressione: in hoc signum semper viv[es][116], o in hoc signum vincimus[117].

Per completezza si ricorderà che la risurrezione del Cristo compare con un singolare rovesciamento sulla terrificante tabula plumbaea di Tragurium in Dacia (ora al Museo di Spalato), con le imprecazioni contro il demonio signore del Tartaro, immondissimus spiretus tartaruce, legato con catene di fuoco dall’arcangelo Gabriele, il quale dopo la risurrezione di Cristo giunse in Galilea: [po]st resurrecti[o]ne(m) vinist[i] in Galilea(m)[118]. Torna dunque il tema del regno di Satana, regno di peccato e dunque di morte, agli antipodi del Regno di Cristo[119].

È invece Cristo che assegna i praemia che i fedeli si attendono dopo la morte[120], talvolta prima ancora del giudizio universale, se c’è chi dichiara che [iuvan]te d(omi)no mutavit in me[liorem vitam][121], giungendo precocemente alla vita eterna (vita perennis[122] oppure vita perpetua[123]): si comprendono perciò le acclamazioni vives in aeternum o simili[124], che ricordano l’immortalità dell’uomo che ottiene la perpetua requies.

 

 

E) Il modo della risurrezione della carne (lat. caro, greco sárx)[125]

 

Si deve osservare che il brano di Giobbe relativo alla risurrezione non si limita a fornire l’immagine della pelle che si formerà nuovamente intorno alle ossa, con un’espressione che ricorda alla rovescia il mito di Marsia scorticato (rursum circumdabor pelle mea)[126] ma aggiunge un riferimento alla carne, dunque al corpo del defunto che tornerà a vivere: et in carne mea videbo Deum, con un dualismo ed una distinzione che riprende Gb 10,11 («di pelle e di carne mi hai rivestito»). L’iscrizione di Olmedo sottolinea solo questo secondo aspetto (rursus sua vivere carne), ricollegandosi idealmente ad una solidissima tradizione scritturistica che utilizza il sostantivo “carne” nel senso di “corpo”, “sangue”, “corporalità” in opposizione a “spirito”, “anima”[127]. In questo senso Celestino papa (422-432), praesul apostolicae sedis venerabilis, riposa in un tumulo destinato ad ospitare solo il corpo, mentre l’anima continua a vivere ignara della morte (mens nescia mortis vivit): nella tomba riposano le ossa e le ceneri, ma nulla si perde per la potenza del Signore, perché tutta la carne risorgerà: caro cuncta resurgit[128]. Più precisamente le membra tutte del defunto risorgeranno alla fine del tempo: membra [s]urgunt in tempore omnes[129].

Proprio tra le iscrizioni va ricordata la lode per la nobile Claudia, nobilium prolis generosa parentum, sepolta a Roma, che risorgerà quando l’anima si ricongiungerà col corpo, lei che è veramente degna della beatitudine eterna, grazie all’opera di Cristo:

 

hinc anima in carnem redeunte resurget aeterni Chr(ist)i munere digna bonis[130].

 

Il cubiculario della basilica di San Paolo Decius può inoltre dichiarare:

 

«qui riposa la mia carne, credo che risusciterà per opera di Cristo nell’ultimo giorno»[131].

 

La risurrezione della carne è presentata nella Passio di Santa Cecilia con un’immagine pagana ancora vitale e variamente ripresa nell’arte paleocristiana: il corpo risorgerà dalla polvere come una mitica fenice, il favoloso uccello egiziano che risorge dalle ceneri ogni 500 anni, già scintillante della luce futura: sicut Phoenix futuri luminis aspectu resurgat[132]. Il modello pagano è evidente se si pensa a CLE 1318, 5s:

 

set tamen ad Manes foenix me serbat in ara / qui mecum properat se reparare sibi[133].

 

Oppure alla dedica di Satafis, relativa ai balnea della città africana: [post fla]mmas cinere[squ]e suos nova surgere foenix … [h]onos iste resurget.[134]

Del resto i fedeli percepiscono la risurrezione come il ricongiungersi dell’anima al corpo. Il diacono Severus ricorda la figlia defunta, sepolta nel cimitero di Callisto, con queste parole:

 

«il suo corpo è qui sepolto finché non risorgerà (donec resurgat); e il Signore che (a lei) rapì col suo santo spirito l’anima casta, pudica e per sempre inviolabile, di nuovo gliela renderà piena di gloria spirituale»[135].

 

Viceversa al momento della risurrezione la terra restituirà il corpo che ha fatto proprio, come crede Gregorio Magno, pensando all’azione del Signore che saprà ridare la vita alle membra del defunto:

 

«ricevi, o terra, il corpo preso dal tuo corpo, sii pronta a renderlo quando Iddio lo vivificherà»[136].

 

A Kairouan in Tunisia si augura ad un anonimo defunto che ascolti la voce del Signore e risorga alla vita eterna assieme ai santi tutti: audiat bocem(!) D(omi)ni et resurgat in bita(!) (a)eterna cum omnibus s(an)c(t)is amen am(en) am(en)[137]. La formula compare alla lettera in altri due casi ancora dalla stessa località africana[138]. Così ad Olmedo il corpo del diacono Silbius tornerà a vivere per opera del Cristo.

Si segnala in qualche epitafio la speranza degli sposi di risuscitare in contemporanea, allo stesso momento: così Praenestina e Verus, concordes animas Christ[u]s revocabit in unum[139]; così il prefetto del pretorio Flavius Iulius Catervius e sua moglie Septimia Severina: surgatis pariter Cristo praestante beati![140].  

 

1. – La luce del Paradiso

 

L’immagine del Paradiso cristiano, ben diversa da quella dell’Ade e degli umbratili Campi Elisi pagani[141], è quella di un regno di luce, dopo l’oscurità del sepolcro[142]: i gaudia lucis nobae dell’epitafio di Olmedo vanno ovviamente intesi nel senso delle gioie dell’ultima luce di Cristo nel Paradiso immaginato come luogo luminoso di gloria e di felicità: un’immagine ben diversa da quella, decisamente più articolata, contenuta nel Corano[143]. È stata richiamata l’immagine della nuova luce del Regno di Cristo (il regnus futurus)[144], come certezza di fede espressa nelle iscrizioni, tema che si ricollega innanzi tutto alla risurrezione di Cristo, come a Milano nel testo di Sant’Ambrogio presso il battistero di Santa Tecla, anteriore al 397:

 

luce resurgentis (Cristi) qui claustra resolvit mortis et e tumulis suscitat exanimes confessosque reos maculoso crimine solvens[145].

 

Esso ricorre di frequente negli epitafi cristiani, specie con riferimento alla vita ultraterrena: «è la sorte che scioglie i catenacci del carcere umano, ma essa non può trattenere l’anima che vive nella luce»[146], perché – scrive il papa Caelestinus - «l’anima non conosce la morte, vive e gode coscientemente della presenza di Cristo (mens nescia mortis vivit et aspectu fruitur bene conscia Christi[147]. Il tema appare molto precoce, se il 22 febbraio 397 del defunto Severianus si dice:

 

«il suo spirito è stato accolto nella luce del Signore»[148].

 

A Roma si ricorda che Insteius Pompeianus, arrivato in età costantiniana in sinus summi genitoris, ora può godere per sempre dell’ultima luce: felix luce nova saeclorum in saecula gaudet, perché l’anima si è innalzata fino al cielo (aethera pervolitans levibus se sustulit alis), con una reminiscenza virgiliana[149]. Così Sesto Anicio Probo alla fine del IV secolo è accolto nella luce di Cristo: nunc proprior Christo sanctorum sede potitus / luce nova frueris, lux tibi Christus adest[150]. Il vescovo Spes a Spoleto dopo aver meritato la beatitudine celeste (aeternam caelo meruit perferre coronam), esprime una preghiera: hunc precor, ut lucis promissae gaudia carpam[151]. Anche l’epitafio di Regina, che si colloca forse addirittura nel III secolo, ricorda: rursum victura, reditura ad lumina rursum[152].

Un’iscrizione di Turris Libisonis ricorda per la defunta Matera il collegamento alla luce eterna[153]: cui lux erit perenni circulo ful<g>ens, espressione che non può propriamente essere intesa nel senso che la defunta splenderà ancor più in Paradiso a gloria di Cristo[154], nel cerchio dei santi[155]: è vero che nel giorno del giudizio i buoni tutti risplenderanno di gloria come scintille sulla paglia, fulgebunt iusti et tamquam scintillae in harundineto discurrent[156]. In realtà porrebbe qualche difficoltà intendere che la defunta possa dare luce al Cristo[157], dato che è il Signore Dio che fuga le tenebre e fa splendere la sua luce sui giusti: Et nox ultra non erit: et non egebunt lumine lucernae neque lumine solis quondam dominus Deus illuminabit illos et regnabunt in saecula saeculorum[158]. Teologicamente meno imbarazzante (il Signore non riceve la claritas dagli uomini)[159] sarebbe in realtà intendere il cui riferito a Matera, con una variatio per quem, nel senso che in futuro su di lei sarà una luce scintillante (la luce di Cristo) con un’aureola perenne (perenni circulo)[160]. Si tratterebbe dunque dello splendore dell’anima beata, simile a quello degli astri, secondo un’immagine radicata già nel VT e poi nel NT[161]. Né va escluso un riferimento alla lux della sfera delle stelle fisse (se intendiamo il circulus per il nostro “cielo”), che riprenderebbe un concetto neopitagorico e neoplatonico relativo alle sfere celesti e alla beatitudine nell’aldilà, concetto già presente nel ciceroniano Somnium Scipionis[162] e ripreso non solo da Macrobio in ambito pagano, ma anche da autori come Ambrogio in ambito cristiano[163].

Vogliamo qui ricordare l’augurio di Euentianus per la moglie a Milano, ut paradisum lucis possit videre[164]. Con l’immagine della luce eterna, «epinoia» di Cristo, si esprime l’idea dell’eterna beatitudine celeste riservata ai giusti[165]: il tema ricorre ampiamente nelle opere di Lucifero di Karales: ... et lumine in illo perenni semper futuri sumus[166], ... in cupidinem perpetuae lucis[167], soprattutto con riferimento alla risurrezione: ... et bene praesumentes quod ad lucem vitamque perennem etiam corpora sint resurrectura[168].

 

2. – Giona e Lazzaro

 

La lux aeterna illumina il refrigerium del defunto che si disseta in Cristo[169] e richiama il tema del Paradiso oltre la morte: a Karales, nel cimitero di Bonaria, compare nell’arcosolio di Munazio Ireneo la risurrezione di Lazzaro[170] e la rappresentazione di un ambiente paradisiaco, un giardino fiorito con festoni e uccelli svolazzanti e due pavoni affrontati[171].

Immagini della risurrezione compaiono già nell’Antico Testamento, come a proposito del segno di Giona, che ricorre nelle rappresentazioni artistiche paleocristiane, rimasto per tre giorni e tre notti nel ventre di un mostro marino, devoratus a belva maris[172], icona della risurrezione del Figlio dell’uomo, disceso per tre giorni agli inferi[173]; già nel III secolo, partendo dalla riflessione di Tertulliano e più tardi con maggiore ampiezza con Agostino, Giona diventa segno profetico di Cristo risorto[174] e della rinascita dell’uomo attraverso il battesimo[175]: è ben conosciuto il repertorio iconografico di Giona che, gettato dalla balena sulla spiaggia, si riposa sotto un albero (un ricino oppure una pianta di zucca), interpretato come il refrigerium in attesa della risurrezione[176]. La vivacità dell’immagine è testimoniata dal fatto che anche nel Corano l’episodio di Giona ingoiato da un cetaceo è riconosciuto come simbolo della risurrezione (XXXVII, 139ss).

Allo stesso modo la vicenda di Lazzaro è annunzio e promessa della risurrezione generale degli uomini alla fine dei tempi[177]: la sua risurrezione è certamente la scena più diffusa, particolarmente frequente soprattutto sulla fronte dei sarcofagi; è interessante notare che già Tertulliano[178] definisse il miracolo della r. di Lazzaro: praecipuo resurrectionis exemplo, il che ne spiega la precoce diffusione nell’arte (non è inoltre da trascurare, in proposito, che si tratta di una immagine facilmente e immediatamente “leggibile”, grazie all’iconografia che la caratterizza, con Lazzaro avvolto ancora nelle bende e raffigurato davanti al sepolcro). Altri episodi di risurrezione sono quelli relativi al profeta Eliseo che, vivo, risuscita il figlio di una donna Sunamita[179] e, morto, risuscita un cadavere deposto per errore nella sua tomba, durante un’invasione dei Moabiti[180]. Sebbene meno frequenti, non mancano riscontri figurati anche per altre scene di risurrezione riferite nel NT, cioè la r. del figlio della vedova di Naim (raffigurazione nota solo sulla fronte dei sarcofagi e non in pittura[181], la r. della figlia di Giairo (comunque molto rara, forse perché non facilmente decodificabile)[182], la r. di Tabitha operata da Pietro (anche questa raffigurazione è comunque rara e presente quasi esclusivamente sui sarcofagi)[183]. È nota infine una risurrezione operata da Paolo in Macedonia degli Apostoli collegati alla risurrezione dei morti[184].

Anche la scena di Daniele nella fossa dei leoni, frequentemente ripresa nella pittura e nella scultura paleocristiane, è simbolo della risurrezione[185].

Il campione che rappresenta coloro che non potranno risuscitare è Giuda, il traditore: si è già detto degli anatemi che augurano a chi profanerà una tomba venerata una sorte analoga a quella di Giuda maledetto. A puro titolo esemplificativo si può vedere il caso del presbitero Dominicus, addetto alla basilica di San Vitale martire a Ravenna:

 

et si quis hunc sepulchrum violaverit, partem abea<t> cum Iuda traditorem et in die iudicii non resurgat, partem suam cum infidelibus ponam[186].

 

 

F) L’attesa della risurrezione

 

L’attesa fiduciosa e talora spasmodica della risurrezione della carne caratterizza il sonno dei fedeli nella morte: ad Aosta Engebualde femina [religios]a è stata sepolta nella speranza della risurrezione e della vita eterna: in spe resurrect[ionis] vit(a)e aeternae[187]. A Vienne Matrona, morta a 32 anni, riposa in spe resurrecxiones meserecordiae (Christi)[188]; allo stesso modo Gundiisclus fu sepolto nell’anno 547 in spe resurrexionis meserecordiae (Cristi)[189]. Il vescovo Iamlychus è morto [in spe resurrec]tionis alla fine del V secolo in Lugdunense[190]. Arcadius riposa in pace a Tarragona s<p>erans resurrectionem a Deo[191]. Un defunto di Caesarea di Mauretania attende la risurrezione della carne nel sonno della pace: requievi[t resurrectionem] carnis [expectans in somno] pacis[192]. Più circostanziato il celebre epitafio del vescovo Alessandro a Tipasa in Numidia, pauperum amator, aelemosine deditus, che attende fiducioso l’avvento del Regno celeste:

 

huius anima refrigerat, corpus hic in pace quiescit, / resurrectionem expectans futuram de mortuis primam, / consors ut fiat sanctis in possessione regni caelestis[193].

 

Anche la puella virgo sacra Alexa[ndra] accolta in cielo ha meritato di incontrarsi con Cristo perché era degna di ottenere il premio eterno della risurrezione, proprio alla vigilia della Pasqua, sabato 26 marzo 449,

 

[die sabb]ati vigilias sacras: [recep]ta caelo meruit occorrere (Christo) ad resurrec[tionem praemium aet]ternum suscipere digna[194].

 

Qui si tratta dunque di un tempo passato, così come talora al passato è riferita la speranza collocata nella vita terrena del defunto, come a Chiusi alla fine del V secolo per Laurentia l(audabilis) f(emina), che riposa in pace: quae credidit resurrectionem[195].

Altre volte la speranza diventa certezza nella futura risurrezione, professata in particolari ambienti, con una concentrazione in particolare nelle necropoli di Vienne in Gallia Narbonensis: il bimbo Iniuriosus morto a 4 anni, ricordato dalla madre Euladia, risorgerà in Cristo: resurrecturus in (Cristo)[196], come il suddiacono Nigrinia[nus] ed il bimbo Dulcitius[197]. Allo stesso modo la devota Ananthailda sanctimonialis, pauperibus largam, cui il Signore concederà l’eterno riposo, resurrectura in pace[198]; così la bimba Valeria ancora a Vienne[199].

In qualche caso si constata la realtà della risurrezione: il famulus Dei Uranius, morto a 43 anni, risorge in Cristo ancora a Vienne (resurgit in Cristo d(o)m(ino) n(ostro))[200], così come Severianus, morto a trentadue anni nel 491, dopo aver abbandonato sulla terra i terrena membra e dopo che l’anima si è ricongiunta col Signore, anima ad authorem d(o)m(inum) remeante: resurgit in (Christo) d(o)m(in)o nostro[201]; così Lopa, morta a 50 anni d’età (resorge in Cristo)[202] o l’anonimo morto a trent’anni che [resurg]et in (Cristo)[203]; ma forse si tratta di un tempo futuro, come a Theveste in Numidia, dove Casthe sanimoniale (da intendersi sanctimonialis) ricorda che nessuno deve soffrire invidiando la sua morte: et [tu] in (Christo) resurges[204]; ad Aquincum un gruppo di defunte anonime saranno risuscitate insieme dal Signore, qui suscitabit[205].

Conosciamo numerosi altri casi di epigrafi che fanno riferimento alla risurrezione: è celebre l’invocazione che compare su un’iscrizione incisa sull’epistilio del tempietto del Clitunno a Spoleto, che esalta nel V secolo il dio degli angeli, dei profeti e degli apostoli, autore della risurrezione, della redenzione e della remissione dei peccati: il s(an)c(tu)s deus angelorum, qui fecit resurrectionem, il s(an)c(tu)s deus profetarum, qui fecit redemptionem ed il s(an)c(tu)s deus apostolorum, qui fecit remissionem[206].

 

1. – Un atto di fede (credo)

 

Papa Damaso dichiara solennemente ed un poco perentoriamente nel proprio epitafio la fede nella risurrezione di Cristo e nella potestà del Signore di far risorgere i giusti, fondata sulla Pasqua: «Colui che camminando calcò le onde tumultuose, Colui che ridona la vita ai semi che muoiono sotto terra, Colui che poté sciogliere i lacci letali della morte dopo le tenebre, il fratello dopo tre giorni ridare di nuovo tra i viventi alla sorella Marta, credo che dalle ceneri farà risorgere Damaso», post cineres Damasum facies quia surgere credo[207]; da cui, Felicia nel suo epitafio: <t>unc cineres (i)sti mundo pereunte resurgent[208]. Gasperini in questo caso ritiene che si tratti di «riecheggiamenti meramente concettuali»[209], anche se si deve osservare che appare significativa la formula di un atto di fede, che viene introdotta dal credo anche in altri casi, come a Nola per un vescovo ed un presbitero: credo resurgere[210] ed a Capua: credo me resurgere ante creatore(m) meu(m)[211]. Si veda infine il credo vivere D(o)m(inus) dell’epitafio capuano di Bonechis (IX secolo)[212]. Si è già detto dei testi che richiamano Gb 19,25s presentati anch’essi come atti di fede (credo), una fede nella promessa della risurrezione futura: [futurae] resurrectionis promissa [praemia][213]. Un’iscrizione frammentaria di Tarragona ricorda che [Rus]icus è morto creden[s resur]rictionem in vita aeterna[214], come un suo vicino [s]ecurus r[esurre]ction[em][215]. Infine a Roma, un testo frammentario ricorda la dichiarazione di fede nella vita eterna di un defunto anonimo: [post obi]tum resurge[re credo ?], Cristo pre[stant]e[216].

A proposito della fede (credo) nella risurrezione della carne e del premio che ne deriva è interessante una iscrizione su mosaico dalla basilica di Alessandro a Tipasa (che riecheggia in alcuni elementi del formulario quella dello stesso vescovo Alessandro, già citata): Resurrectionem carnis / futuram esse qui credit / angelis in caelis re/surgens similis erit (dove si noti l’uso del futuro, ad esprimere la certezza dell’evento al quale si fa riferimento)[217].

 

 

G) Conclusione. Un tentativo di sistemazione cronologica

 

Il tema può essere studiato anche nel suo sviluppo nel tempo, ordinando da un punto di vista cronologico le circa cento iscrizioni latine che parlano di risurrezione. A giudizio di Gabriel Sanders i casi più antichi, riferiti al IV secolo, non sono più di una decina[218]. Da collocare nel III secolo dovrebbe essere solo l’epitafio di Regina, forse cristiano,

 

rursum victura, reditura ad lumina rursum: / nam sperare potest ideo, quod surgat in aevom / promissum, quae vera fides, dignisque piisque, / quae meruit sedem venerandis ruris habere[219].

 

Segue, attorno al 300, l’epitafio della figlia del diacono Severus, il cui corpo riposa nella quiete della tomba, donec resurgat ab ipso (domino)[220]. Al 382 (Antonio et Siacrio cons(ulibus)) risale l’epitafio di Theodora, morta a 21 anni, che ora attende il Signore della risurrezione: expectatque deum superas quo surcat ad auras, con una vaga reminiscenza lucreziana[221]. Prima del 384 fu redatto l’epitafio di Papa Damaso[222]. Alla fine del IV secolo ci riporta l’epitafio piceno del prefetto del pretorio Flavius Iulius Catervius e di sua moglie Septimia Severina, con l’augurio di una risurrezione comune: surgatis pariter Cristo praestante beati![223]. Attorno al 400 si colloca l’epitafio di Anastasia, hanc placuit deo raptam adsumere[224], il cui nome ricorda la risurrezione: Anastasia secundum nomen credo fut[uram][225]. Agli anni 410-420 infine andrebbe riferito il citato epitafio di Cinegius che riposa in pace in gremio Abraham[226].

Lo scarso numero di epitafi che trattano della vita futura dei credenti è spiegato generalmente con le caratteristiche dell’epigrafia funeraria cristiana, destinata a tracciare un aspetto della vita quotidiana e magari non direttamente interessata a tematiche di tipo escatologico. In effetti si tratta di una categoria di testi che riflettono esperienze personali dei dedicanti, anche in materia di fede, ma sempre con un orizzonte circoscritto e precisi limiti legati al mezzo espressivo, alle circostanze della dedica, alla competenza dei dedicanti e se si vuole anche di coloro che leggeranno il messaggio. Ciò spiegherebbe l’attenzione per questa problematica che si manifesta soprattutto tra i chierici e meno tra i semplici fedeli.

Al di là di questi limiti, la documentazione epigrafica rappresenta un materiale prezioso e di prima mano per conoscere il processo di trasformazione e di arricchimento del dogma cristiano della risurrezione, con la possibilità di tracciare non solo un’evoluzione nel tempo, ma anche la geografia di una particolare sensibilità al tema a seconda delle realtà territoriali, sociali e culturali.

 

 

Bibliografia

 

AA.VV., Auferstehung=Resurrection: the fourth Durham-Tübingen Symposium, Resurrection, Transfiguration and Exaltation in Old Testament, Ancient Judaism and Early Christianity, Tübingen sett. 1999, F. Avemarie-H. Lichtenberger (Ed.s), Tübingen 2001.

Becker J., La resurrezione dei morti nel cristianesimo primitivo, Paideia, Brescia 1991.

Binazzi G., Un’iscrizione umbra con la menzione di una Basilica Angelorum, in «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria» 78(1981) 223-228.

Bisconti F., Aspetti e significati del simbolo della fenice nella letteratura e nell’arte del Cristianesimo primitivo, in «Vetera Christianorum» 16(1979), 21ss.

Bisconti F., Lastra incisa inedita dalla catacomba di Priscilla, con note di revisione critica sul metodo di individuazione della fenice nell’arte paleocristiana, in «Rivista di Archeologia Cristiana» 57(1981), 43ss. 

Bisconti F., La fenice nell’arte aquileiese del IV secolo, in «Antichità Altoadriatiche» 22(1982), 529 ss.

Bisconti F., Letteratura patristica ed iconografia paleocristiana, in Complementi interdisciplinari di patrologia, a cura di A. Quacquarelli, Roma 1989.

Bisconti F., Sulla concezione figurativa dell’“habitat” paradisiaco. A proposito di un affresco romano poco noto, in «Rivista di Archeologia Cristiana» 66 (1990), 25 ss.

Bisconti F., Altre note di iconografia paradisiaca, in «Bessarione» 9(1992), 109ss.

Bisconti F., Temi di iconografia paleocristiana, Città del Vaticano 2000.

Bisconti F., La decorazione delle catacombe romane, in V. Fiocchi Nicolai-F. Bisconti-D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma. Origini, sviluppo, apparati decorativi, documentazione epigrafica, Regensburg 1998.

Bisconti F., La pittura paleocristiana, in A. Donati (Ed.), “Romana Pictura”, La pittura romana dalle origini all’età bizantina, Milano 1998, 33ss.

Bonino S.T., Résurrection de la chair ou immortalité de l’âme ?, in «Esprit et Vie» 106(1996) 59-64.

Brelich A., Aspetti della morte nelle iscrizioni sepolcrali dell’impero romano, Budapest 1937 (rist. 1964).

Cabrol F.-Leclercq H., Sardaigne, in Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de liturgie, Paris 1924.

Carletti C., Nascita e sviluppo del formulario epigrafico cristiano: prassi e ideologia, in Le iscrizioni dei Cristiani in Vaticano. Materiali e contributi scientifici per una mostra epigrafica (Inscriptiones Sanctae Sedis, 2), a cura di I. Di Stefano Manzella, Città del Vaticano 1997.

Carletti C., Iscrizioni cristiane a Roma. Testimonianze di vita cristiana (secoli III-VII), Firenze 1986.

Carletti C., “Quod multi cupiunt et rari accipiunt”. A proposito di una nuova iscrizione della catacomba della ex vigna Chiaraviglio, in «Historiam pictura refert». Miscellanea in onore di Padre Alejandro Recio Veganzones, Città del Vaticano 1994.

Christol M., L’image du phénix sur les revers monétaires au milieu du IIIe siècle: une référence à la crisi de l’empire ?, in RevNum 18(1976), 82ss.

Corda A.M., Le iscrizioni cristiane della Sardegna anteriori al VII secolo (Studi di antichità cristiana pubblicati a cura del Pontificio Istituto di Archeologia cristiana, 55), Città del Vaticano 1999. 

Cugusi P., Carmina Latina epigraphica provinciae Sardiniae, Bologna 2003.

Cumont F., Lux Perpetua, Paris 1949.

Davis S.T.-O’Collins G. (Ed.s), La risurrezione. Un simposio interdisciplinare sulla risurrezione di Gesù, LEV, Roma 2002.

De Ruyt F., Études de symbolisme funéraire, in «Bulletin de l’Institut Historique Belge de Rome» 17(1936) 164-169.

Doelger F.J., Beiträge zur Geschichte des Kreuzzeichens, in JarbAntChrist 3(1960), 5ss.; 8 s.(1965-1966), 34 ss.

Dossetti G.L., Il simbolo di Nicea e di Costantinopoli. Edizione critica, Roma 1967.

Duval Y.M., Le livre de Jonas dans la littérature chrétienne greque et latine. Sources et influence du Commentaire sur Jonas de Saint Jèhrome, Paris 1973.

Duval Y., L’inhumation privilégiée, pourquoi, in L'inhumation privilégiée du IVe au VIIIe siècle en Occident, Actes du colloque tenu à Créteil les 16-18 mars 1984, Y. Duval e J.-Ch. Picard (Édd.s), Paris 1986.

Duval Y., Auprès des saints corps et âmes. L’inhumation «ad sanctos» dans la chrétienté d’Orient et d’Occident du IIIe au VIIe siècle, Paris 1988.

Emerick J.J., Il tempietto sul Clitunno a Pissignano: un oratorio cristiano a forma di sacello pagano, in I dipinti murali e l’edicola marmorea del Tempietto sul Clitunno, Todi 1985, 15-22.

Engemann J., Untersuchungen zur Sepulkralsymbolik der späteren römischen Kaiserzeit, in «Jahrbuch für Antike und Christentum» 2 (1973) 70-77.

Ennabli L., Les inscriptions funéraires chrétiennes de Carthage. III. Carthage intra et extra muros, Rome 1991.

Ennabli L., Catalogue des inscriptions chrétiennes sur pierre du musée du Bardo, Tunis 2000.

Ferrua A., Epigrammata damasiana, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 1942, nr. 39.

Ferrua A., Gli anatemi dei padri di Nicea, in «La Civiltà Cattolica» 108(1957) 383ss.

Ferrua A., Lavori nella catacomba di Domitilla, in «Rivista di Archeologia cristiana» 33(1957), 72ss.

FÉvrier P.A., La tombe chrétienne et l’au delà, in Le temps chrétien de la fin de l’Antiquitè au Moyen Age, IIIe-XIIIe siècles. Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique, 604, Paris 1984, 163ss.

Février P.A., La mort chrétienne, in Segni e riti nella Chiesa altomedievale occidentale. Atti della XXXIII Settimana di Studio del Centro Italiano sull’Alto Medioevo, Spoleto 1987.

FÉvrier P.A., La mort, les morts et l’au-delà, Actes du colloque de Caen, 20-22 novembre 1985,  Caen 1987.

Frey J.B., Corpus inscriptionum Iudaicarum, Recueil des inscriptions juives qui vont du IIIe siècle avant Jésus-Christ au VIIe siècle de notre ère, I, Città del Vaticano 1936.

Gasperini L., Le scoperte epigrafiche sotto S. Erasmo a Formia, in AA.VV., Scritti storico-epigrafici in memoria di Marcello Zambelli (Pubblicazioni della Fac. di Lettere e Filosofia dell’Univ. di Macerata, 5), Roma 1978.

Gasperini L., Su un epitafio catinense con ripresa scritturistica, in «Civiltà classica e cristiana» 13(1992) 63ss.

Goñi P., La resurrección de la carne según San Augustín, Madrid 1964.

Gray N., The Palaeography of Latin Inscriptions in the Eighth, Ninth and Tenth Centuries in Italy, in PBSR 16(1948) 82 nr. 51.

Grossi Gondi F., Trattato di epigrafia cristiana latina e greca del mondo romano occidentale, Roma 1920.

Guardini R., Le cose ultime: la dottrina cristiana sulla morte, la purificazione dopo la morte, la risurrezione, il giudizio e l’eternità, Vita e Pensiero, Milano 1997.

Hübner E., Inscriptiones Hispaniae christianae, Berolini 1871.

Janssens J., Vita e morte del cristiano negli epitaffi di Roma anteriori al sec. VII (Analecta Gregoriana, 223), Roma 1981.

Jastrzebowska E., Les origines de le scène du combat entre le coq et la tortue dans les mosaïques chrétiennes d’Aquilée, in «Antichità Altoadriatiche» 8(1975) 93ss.

Leonardi C., «Ampelos». Il simbolo della vite nell’arte pagana e paleocristiana, Roma 1947.

Lo Cicero C., Un recupero “pagano”: Ambrogio e l’armonia delle sfere, in Pagani e Cristiani da Giuliano l’apostata al sacco di Roma, Atti del Convegno internazionale di studi (Rende, 12-13 novembre 1993), Rubettino, Messina 1995.

Lother H., Der Pfau in der altchristlichen Kunst, Leipzig 1929.

Marcheselli-Casale C., Risorgeremo, ma come ? Risurrezione dei corpi, degli spiriti o dell’uomo? Per un contributo allo studio della speculazione apocalittica in epoca greco-romana, II secolo a.C.- II sec. d.C., EDB, Bologna 1988.

Marinone M., I riti funerari, in Christiana Loca. Lo spazio cristiano nella Roma del primo millennio, a cura di L. Pani Ermini, Roma 2000.

Martimort A.-G., La fidelité des premiers chrétiens aux usages romains en matière de sépulture, in MélangesToulous.Étud.Clas 1(1946) 167ss.

Martin J., Hadrien et le Phénix. Propagande numismatique, in Mélanges W. Seston, Paris 1974.

Mastino A., Le iscrizioni rupestri del templum alla Securitas di T. Vinius Beryllus a Karales, in Rupes loquentes. Atti del Convegno internazionale di studio sulle "Iscrizioni rupestri di età romana in Italia", Roma-Bomarzo 13-15.X.1989, a cura di L. Gasperini, Roma 1992, 541-578.

Mastino A., La Sardegna cristiana in età tardo-antica, in AA.VV., La Sardegna paleocristiana tra Eusebio e Gregorio Magno, Atti del Convegno nazionale Cagliari, 10-13 ottobre 1996, a cura di A. Mastino-G. Sotgiu-N. Spaccapelo (Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, Studi e ricerche di cultura religiosa, Nuova Serie, I), Cagliari 1999, 263-307. 

Mastino A., L’indizione in due iscrizioni cristiane dalla Sardegna vandala o bizantina, in Epigraphai, Miscellanea epigrafica in onore di Lidio Gasperini, a cura di G.F. Paci, Tivoli 2000, 595-611.

Mastino A., Una traccia della persecuzione dioclezianea in  Sardegna? L'exitium di Matera e la susceptio a sanctis marturibus di Adeodata nella Turris Libisonis del IV secolo, in «Sandalion» 26-28(2003-2005) in c.d.s.

Mazzoleni D., Considerazioni sull’epigrafia dei secoli VI-VII in Italia, “Acta XIII Congressus Intern. Archaeologiae Christianae (Split-Porec, 25.9-1.10.1994)”, II, Città del Vaticano-Split 1998.

Mckenna M., Ad Morning came: Scriptures of the Resurrection, Lanham 2003.

Merlin A., Inscriptions latines de la Tunisie, Paris 1944.

Muratori L.A., Novus thesaurus veterum inscriptionum in praecipuis earumdem collectionibus hactenus praetermissarum, IV, Mediolani 1742, MCMLV.

Nieddu A.M., La pittura paleocristiana in Sardegna: nuove acquisizioni, in «Rivista di Archeologia Cristiana» 77(1996), 245ss.

Nieddu A.M., L’arte paleocristiana in Sardegna: la pittura, in Insulae Christi, Il cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, a cura di P.G. Spanu, Oristano 2002.

Novara A., Les Imagines de l’Élysée virgilien, in La mort, les morts et l’au-delà, Actes du colloque de Caen, 20-22 novembre 1985, F. Hinard Éd., Caen 1987, 321ss.

Pani Ermini L., Il cristianesimo in Sardegna attraverso le testimonianze archeologiche, in Sicilia e Italia suburbicaria tra IV e VIII secolo, Atti del Convegno di studi (Catania 24-27 ottobre 1989), Catania 1991.

Pani Ermini L.-Marinone M., Museo Nazionale di Cagliari, Materiali paleocristiani e altomedievali, Roma 1981.

Parrot A., Le “Refrigerium” dans l’au-delà, Paris 1937.

Porta P., Una lastra marmorea inedita della pieve di Montesorbo con raffigurazione di croce a treccia ed iscrizione latina, in «Felix Ravenna» 107s, 1974, 219ss.

Prévot F., Les inscriptions métriques de Salone dans l’antiquité tardive, in J. Desmulliez, Ch. Hoëtt-van Cauwenberghe (Édd.s), Le monde romain à travers l’épigraphie, métodes et pratiques, Actes du XXIVe Colloque internationale de Lille (8-10 nov. 2001), Lille 2005.

Rebillard E., In hora mortis. Evolution de la pastorale chrétienne de la mort aux IVe et Ve siècles (Bibliothéque de l’École Française d’Athène et de Rome, 283), Roma 1994.

RefoulÉ F., Immortalité de l’âme et résurrection de la chair, in RevHR 163(1963), 11ss.

Sanders G., Licht en duisternis in de christelijke grafschriften. Bijdrage tot de studie van de Latijnse metrische epigrafie van de vroegchristelijke tijd, Brussel 1965, I, Aards leven en licht, duisternis voor en na de dood, 237ss.

Sanders G., Les chrétiens face à l’épigraphie funéraire latine, in Lapides memores, Païens et chrétiens face à la mort : le témoignage de l’épigraphie funéraire latine, A. Donati-D. Pikhaus-M. van Uytfanghe (Édd.s), Epigrafia e antichità, 11, Faenza, 1991, 131-153.

Sanders G., L’au-delà et les acrostiches des Carmina Latina Epigraphica, in Lapides memores, 183-205. 

Sanders G., L’idée du salut dans les inscriptions latines chrétiennes (350-700), in Lapides memores, 221-276.

Sanders G., La mort chrétienne au IVe siècle d’après l’épigraphie funéraire de Rome. Nouveauté, continuité, mutation, in Lapides memores, 277-292.

Sanders G., La tombe et l’éternité: catégories distinctes ou domaines contigus ? Le dossier épigraphique latin de la Rome chrétienne, in Lapides memores, 293-331.

Speigl J., Das Bildprogramm des Jonasmotivs in der Malereien der römischen Katakomben, in «Römische Quartalschrift» 73(1978) 1-15.

Stommel E., Zum Problem der frühchristlichen Jonasdarstellungen, in «Jahrbuch für Antike und Christentum» 1(1958), 112ss.

Stuiber A., Depositio-Katathesis, in Mullus. Festschrift Th. Klauser, Münster i.W. 1964, 363 ss

Taramelli A.-Delogu R., Il R. Museo Nazionale e la pinacoteca di Cagliari, Roma 1936.

Testini P., Archeologia cristiana. Nozioni generali dalle origini alla fine del sec. VI, Bari 21980.

Testini P., Il simbolismo degli animali nell’arte figurativa paleocristiana, in «Settimane di Studio del Centro Italiano sull’Altomedioevo» 31(1985) 1107ss.

Toynbee J.M.C., Morte e sepoltura nel mondo romano, Roma 1993.

Tristan F., Les premières images chrétiennes du symbole à l’icone, IIe s.-VIe s., Paris 1996.

Villette J., La résurrection du Christ dans l’art chrétien du IIe au VIIe siècle, Paris 1957.

Vives J., Inscripciones cristianas de la España romana y visigoda, Barcelona2 1969.

Wilpert G., La fede della Chiesa nascente secondo i monumenti dell’arte funeraria antica, Città del Vaticano 1938.

Wischmeyer W., Zur Entstehung und Bedeutung des Jonabildes, in Actes du X Congrès International d’Archéologie Chrétienne (Thessalonique, 28 septembre-4 octobre 1980), Città del Vaticano 1984.

Zucca R., Le formule deprecatorie nell'epigrafia cristiana in Sardegna, in Le sepolture in Sardegna dal IV al VII secolo, IV Convegno sull'archeologia tardoromana e medievale (Cuglieri, 27-28 giugno 1987) (Mediterraneo tardoantico e medievale, Scavi e ricerche, 8), S’Alvure ed., Oristano 1990, 211-214.

 

 



 

[1] Ringrazio il prof. Antonio Corda, la dott.ssa Anna Maria Nieddu, il prof. Salvatore Panimolle, il prof. Francesco Sechi, il Mons. Antonio F. Spada, il prof. Pier Giorgio Spanu e la prof. Cinzia Vismara per i numerosi suggerimenti e controlli. Come di consueto, nel corso della ricerca ho potuto godere della preziosa ospitalità dell’Ecole Française de Rome, grazie alla costante disponibilità del direttore, il prof. Michel Gras, che mi onora di un’antica amicizia.

 

[2] Per tutti da ultimo Marcheselli-Casale, Risorgeremo, ma come?, Bologna 1988; AA.VV., Auferstehung=Resurrection, Tübingen 2001; Id., Resurrection in the New Testament, Leuven 2002; Becker, La resurrezione dei morti nel cristianesimo primitivo, Brescia 1991; Bonino, Résurrection de la chair ou immortalité de l’âme?, 59-64; Davis-O’Collins, La risurrezione, Roma 2002; Guardini, Le cose ultime, Milano 1997; Mckenna, Ad Morning came, Lanham 2003. I titoli abbreviati sono riportati per esteso nella bibliografia finale.

 

[3] Cf. Refoulé, Immortalité de l’âme et résurrection de la chair, 11 ss.; Sanders, Les chrétiens face à l’épigraphie funéraire latine, 149.

 

[4] La lastra marmorea proviene più che da Cagliari (index Taur.) da Olmedo (L. Baille, Manoscritto inedito conservato presso la Biblioteca Civica di Cagliari): cf. F. Buecheler, Carmina Latina epigraphica, Lipsia 1895 (= CLE) 786; Cabrol-Leclercq, Sardaigne, in DACL, 895; F. Caput, Codice diplomatico della Sardegna, I, Appendice, Torino 1847, 130 n.1; Corpus Inscriptionum Latinarum (= CIL) X 7972; E. Diehl, Inscriptiones Latinae Christianae Veteres, Berlino 1925 (= ILCV) 3445; Pani Ermini-Marinone, Museo Nazionale di Cagliari, 35 s. nr. 47; ELSard. 666 C 110; G. Spano, Iscrizioni latine, in «Bullettino Archeologico Sardo» 6(1860), 64; Taramelli-Delogu, Il R. Museo Nazionale, 31; Corda, Le iscrizioni cristiane della Sardegna, 173 nr. OLM001, cf. P. Cugusi, Carmina Latina, 176 s. nr. 22, con ampio commento e confronti (incomprensibilmente errato il richiamo all’articolo di L. Pani Ermini, di 175, evidentemente di seconda mano da Corda, Le iscrizioni cristiane, 173 e 387, anch’esso errato). Cf. Mazzoleni, Considerazioni sull’epigrafia, 883; Pani Ermini, Il cristianesimo in Sardegna, 83.

 

[5] «Scio enim quod Redemptor meus vivat / et in novissimo de terra surrecturus sim / et rursum circumdabor pelle mea / et in carne mea videbo Deum meum». Biblia sacra iuxta Latinam linguam vulgatam versionem ad codicum fidem, iussu Pii XII, cura et studio monachorum Abbatiae Pontificiae Sancti Hieronymi in Urbe Ordinis Sancti Benedicti edita, Libri Hester et Iob, Romae MDCCCCLI, 143. Una traduzione leggermente differente ma non esatta («hor, quant’è a me, io so che ‘l mio Redentor vive e che nell’ultimo giorno egli si leverà sopra la polvere / e quantunque, dopo la mia pelle, questo corpo sia roso, pur vedrò con la carne mia Iddio») in La Sacra Bibbia tradotta in lingua italiana e commentata da G. Diodati, a cura di M. Banchetti e M. Ventura Avanzinelli, II, Milano 1999, 47s. Del resto la risurrezione a nuova vita è già definita specularmene nel passo di Isaia sul destino degli empi: «quelli son morti, non torneranno più a vita: son trapassati, non risusciteranno più: per ciò tu li hai visitati, e gli hai sterminarti, ed hai fatta perire ogni lor memoria» (Is 26,12-14), da cui Rm 11,15, probabilmente da Is 38,12-14 e Is 66,7-9.

 

[6] «Credo quod Redemptor meus vivet et in novissimo die de terra sussitabit pelem meam et in carne mea videbo Dominum». Hübner, Inscriptiones Hispaniae christianae, Berolini 1871, n. 95; ILCV 2399; Vives, Inscripciones cristianas, 241. Cf. anche Testini, Archeologia cristiana, 431.

 

[7] Gasperini, Su un epitafio catinense, 63 ss., a proposito di G. Manganaro, Iscrizioni latine nuove e vecchie della Sicilia, in «Epigraphica» 51(1989),175 s nr. 49. Per la data, Gasperini, Id., 68.

 

[8] P. Porta, Una lastra marmorea inedita, 219ss; L’année épigraphique (=AE) 1974, 333, per una prima rettifica del testo, Gasperini, Id., 64 n. 3. Cf. anche Sanders, L’idée du salut, 241.

 

[9] L.A. Muratori, Novus thesaurus veterum inscriptionum in praecipuis earumdem collectionibus hactenus praetermissarum, IV, Mediolani 1742, MCMLV, 1, cf. Gray, The Palaeography of Latin Inscriptions, 82 nr. 51; Gasperini, Id., 65 nt. 4.

 

[10] Cf. Ferrua, Gli anatemi dei padri di Nicea, 383 ss; per il numero dei padri conciliari di Nicea (proprio 318 e non 365), cf. Dossetti, Il simbolo di Nicea, 241. Cf. Mastino, L’indizione in due iscrizioni, 608 ss.; Zucca, Le formule deprecatorie nell'epigrafia, 211 ss.

 

[11] Cf. Gasperini, Le scoperte epigrafiche, 152 ss. nr. 39; Id., Su un epitafio catinense, 65 s. e n. 5.

 

[12] Cf. Gasperini, Su un epitafio catinense, 66.

 

[13] Ib.

 

[14] Per minister nel senso di diacono, cf. Mastino, La Sardegna cristiana in età tardo-antica, 70 n. 97; Testini, Archeologia cristiana, 381. Ulteriore bibliografia in Cugusi, Carmina Latina epigraphica, 176.

 

[15] Janssens, Vita e morte, 274. Un giudizio analogo è in Sanders, L’idée du salut, 246, che osserva la scarsità della documentazione epigrafica relativa sia alla risurrezione di Cristo che a quella dei defunti.

 

[16] Cf. Merlin, Inscriptions latines de la Tunisie, 233.

 

[17] Papa Damaso in Inscriptiones Christianae Urbis Romae (= ICVR) IV, 12418, a. 384, Celestino in ILCV 973, a. 432, Bonifacio II in ICVR II 4153, a. 532, Pelagio in ICVR II 4155, a. 561, Gregorio Magno in ICVR II 4156, a. 604; l’arcivescovo Agnellus a Ravenna in CIL XI 305 e add. 1228 = CLE 715 = ILCV 1005, a. 557, il vescovo Alexander a Tipasa in ILCV 1103 = CLE 1837, il vescovo Iamlychus in CIL XIII 2601 = ILCV 1077 (a. 479), il vescovo Senatus a Nola in CIL X 1380 = ILCV 3461 A, il chierico del titolo di S. Clemente in ICVR VII, 18160, il sacerdos in ICVR I 3908, il presbitero Victor in ICVR I 3847, il presbitero Dominicus a Ravenna in CIL XI 322 = ILCV 3850, il presbitero Crispinus in Hiberia in ILCV 3483 = CLE 724 = Vives, ICERV 93 nr. 293 v. 7, il presbitero Fermosanus a Capua in CIL X 4525 = ILCV 3460, il presbitero Leo a Nola in CIL X 1377 = ILCV 3461 B, il presbitero Vitalis a Sufetula in AE 1915, 38 = ILCV 3477, il rector in St. Gsell, H.G. Pflaum, Inscriptions latines de l’Algérie, Paris 1922 ss (= ILAlg.) II,3 8299 = AE 1922, 25 = 1937, 176 = 1966, 546, il cubiculario Decius in ICVR II 5088, l’arcidiacono Sabinus in ICVR VII 18017 = ILCV 1194 = CLE 1423, il diacono Severus in ICVR IV 10183, il suddiacono Nigrinia[nus] in CIL XII 231 = ILCV 3468 A, la vergine consacrata Alexandra in ICVR I, 942 = ILCV 1706, la femina [religios]a in CIL XII 2422 = ILCV 1341, la sacra do(mino) puella (Eusebia) in CIL XII 2408 = ILCV 1705. Per le sanctimoniales, cf. ILCV 1678, Vienne; CIL VIII 10689 cf. 16742 = ILAlg. I 2966 = ILCV 1683, Theveste.

 

[18] Cf. Janssens, Vita e morte del cristiano, 71ss.

 

[19] CIL VI 32000 = CLE 734 = ILCV 60 = ICVR I, 307, vv. 3-6.

 

[20] ICVR II 5569: [---] aeternae vi[t]ae merui[t] post fata tri[umphum ---]o, sic corpus terris vitam, sic tradidit a[stris].

 

[21] ICVR II, 5002: ad vitam redii, quae sine [fine manet], a. 503.

 

[22] ICVR I, 1673. Cf. VII 17962.

 

[23] ICVR I 3847 = CLE 760 = ILCV 3481, v. 6.

 

[24] Cf. ICVR VII 17962.

 

[25] ICVR I 1477: lux fugitiva suae complecvit tempor[a vitae], redditur hec meritis, quae sine fine m[anet].

 

[26] ICVR IV 12417, v. 12.

 

[27] ICVR VI 15868, cf. Ferrua, Lavori nella catacomba, 72 ss. Una rilettura dell’iscrizione è stata proposta da Ch. Pietri, D’Alexandrie à Rome. Jean Talaïa émule d’Athanase au Ve siècle, in Alexandrina. Héllenisme, judaïsme et christianisme à Alexandrie. Mél. P. C. Mondesért, Paris 1987, 277ss.

 

[28] ILCV 3420, 5s = ICVR VI 15842, a. circa 450; cf. anche I, 317, v. 7 e v. 11; II, 4926b, v. 2; II 4226, vv. 3s.

 

[29] ICVR IV, 11328. Allo stilo di Papa Damaso dobbiamo l’espressione quem sibi cum raperet miglior tunc regia caeli (ICVR IV, 12417 v. 11), cf. subito rapuit sibi regia caeli (ICVR IV, 12417). Cf. anche ICVR IV 11444; V 13807, 13824; VII 18160.

 

[30] ICVR IV 10183, v. 11; cf. Grossi Gondi, Trattato, 180 n. 1.

 

[31] ICVR VII 18212, [r]apta ab angelis.

 

[32] ICVR I 3940: [ani]ma dulcis, concupitus a dominu Ch(risto); II 61390, v. 1: adspiravit infanti deus aelectae puell[ae]; cf. I 3624, v. 3: electa a deo.

 

[33] ICVR I, 1440 v. 8.

 

[34] ICVR VII 17106. Cf. II, 4226 e VI 15874. Cf. CIL III 9631 = CLE 1438: sede beatorum recipit te lacteus orbis, cf. Prévot, Les inscriptions métriques, 369 = 377, nr. 5.

 

[35] Il tema non può essere sviluppato in questa sede. A puro titolo esemplificativo cf. Bisconti, La pittura paleocristiana, 33ss; Villette, La résurrection du Christ, Paris 1957; Wilpert, Pitture delle catacombe romane, 284; Id., I sarcofagi cristiani antichi, 302.320.

 

[36] Cf. ad es. Aug., Civ. Dei 21, 4 = CCL 48, 762.

 

[37] Per l’evoluzione del tema e una rassegna di raffigurazioni si rimanda a Bisconti, Letteratura patristica ed iconografia paleocristiana, 392; De Ruyt, Études de symbolisme, 164-169; H. Lother, Der Pfau in der altchristlichen Kunst, Leipzig 1929.

 

[38] In particolare cf. Bisconti, Aspetti e significati del simbolo della fenice nella letteratura, 21 ss.; Id., Lastra incisa inedita dalla catacomba di Priscilla, 43 ss.; Id., La fenice nell’arte aquileiese, 529 ss.

 

[39] Per i vari significati della palma nell’iconografia paleocristiana, che ne assume l’immagine anche per il suo richiamo alla rigenerazione, si veda in sintesi P. De Santis in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F. Bisconti, 238 s.v. «palma».

 

[40] La risurrezione di Cristo potrebbe essere citata ad Hadrumetum in Africa in ILTun. 199: in d(ie) XII r(esurrectionis ?) do(mi)ni.

 

[41] Per questi sarcofagi si veda A.R. Saggiorato, I sarcofagi paleocristiani con scene di Passione, Bologna 1968.

 

[42] Per una rassegna di testi si veda L. Gambassi, in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F. Bisconti, 253, s.v. “pesce”.

 

[43] Ps. Epiph., Phys. 2 = PG 43, 53; Orig., In Num. 17, 6 = SC 442, 304.

 

[44] Ps. Epiph., Phys. 12 = PG 43, 527.

 

[45] Per il variegato simbolismo degli animali cf. Testini, Il simbolismo degli animali, 1107 ss.

 

[46] Cf. in proposito Jastrzebowska, Les origines de le scène, 93 ss.

 

[47] Cf. Leonardi, «Ampelos», Roma 1947 e, in sintesi, M. Guy, in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F. Bisconti, 306 s.v. “Vite”.

 

[48] Sul quale cf. Brelich, Aspetti della morte nelle iscrizioni sepolcrali dell’impero romano, Budapest 1937 (rist. 1964), 5 ss.; Février, La tombe chrétienne et l’au delà, 163ss; Id., La mort chrétienne, 881ss; Id., La mort, les morts et l’au-delà, Caen 1987; Rebillard, In hora mortis. Evolution de la pastorale.

 

[49] ICVR II, 4137, a. 432. Cf. Sanders, La mort chrétienne au IVe siècle d’après l’épigraphie, 287 ss.

 

[50] ICVR I 1496 = ILCV 3459, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[51] Janssens, Vita e morte del cristiano, 274.

 

[52] ILCV 3427, 5.

 

[53] Cf. Stuiber, Depositio-Katathesis, 346 ss.

 

[54] Cf. Sanders, La tombe et l’éternité, 293 ss.

 

[55] Così ad es. CIL VIII 21461 = ILCV 3493.

 

[56] Traduz. di A. Quacquarelli, in: Collana di testi patristici, nr. 8, Città Nuova editrice, Roma 1977, 26.

 

[57] ILCV 3661, 1 = Engström 55 (Mauretania Sitifense, a. 360).

 

[58] ICVR III 8910; Janssens, Vita e morte del cristiano, 678 e n. 14.

 

[59] ICVR VI 16291.

 

[60] Cf. Sanders, Licht en duisternis in de christelijke grafschriften, 238 e n. 104.

 

[61] Cf. Grossi Gondi, Trattato, 200.

 

[62] La preoccupazione della protezione della tomba dalle devastazioni è già dei pagani: cf., a puro titolo esemplificativo, Mastino, Le iscrizioni rupestri del templum, 541 ss.

 

[63] Così Duval, L’inhumation privilégiée, pourquoi, 251 ss.

 

[64] Grossi Gondi, Trattato, 256 s.; ancora Carletti, Nascita e sviluppo del formulario epigrafico cristiano, 157 s.; Id., “Quod multi cupiunt et rari accipiunt”. A proposito di una nuova iscrizione, 111 ss.

 

[65] Cf. Teodoreto di Cirro, Hist. Phil. XXI, 30; cf. Duval, Auprès des saints corps et âmes, 197.

 

[66] ICVR VII 18017 = ILCV 1194 = CLE 1423, ma nella lettura di Janssens, Vita e morte del cristiano, 273.

 

[67] CIL XII 2121 = ILCV 3473.

 

[68] ILCV 3483 = CLE 724 (728 ?) = Vives, ICERV 93 nr. 293 = IHC 158 = Hispania Antiqua epigraphica XI 575 , cf. Duval, Auprès des saints corps et âmes, 197 ss.

 

[69] Cf. J. Holleman, Resurrection and Parousia: a Traditio-Historical Study of Paul’s Eschatology in 1 Corinthians 15, Leiden 1996; M. Teani, Corporeità e risurrezione: l’interpretazione di 1 Corinti, 15, 35-49 nel Novecento, Morcelliana, Roma-Brescia 1994.

 

[70] 1Cor 15,51s.

 

[71] Cf. Tristan, Les premières images chrétiennes, 459ss. Per l’Apocalisse, Id., 475ss. Cf. inoltre Janssens, Vita e morte del cristiano, 273 ss.

 

[72] ILCV 2399; Vives, ICERV, 47 nr. 151; ICVR II 5088.

 

[73] ICVR I 3847. Il presbitero Victor scrive sulla tomba: «il corpo, cui era legata la vita, viene ridato alla terra. Il mio spirito e la mia anima attendono il giudizio dell’ultimo giorno (sp(iritu)s animaque mea expecta[t] die ultimo causa(m).

 

[74] Cf. Mastino, L’indizione, 608. Cf. anche ICVR V 13806b: [---iu]dicii ventu[ri].

 

[75] ILCV 3866 nota.

 

[76] Cf. Manganaro, Iscrizioni latine, 175 s., cf. però Gasperini, Su un epitafio catinense, 63 ss.

 

[77] ILCV 3475 A.

 

[78] CIL XII 1694 = ILCV 3485; cf. anche 3485 A (frammentaria).

 

[79] IGC 401, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[80] Tertulliano, res. c. 63, 10.

 

[81] Cf. Grossi Gondi, Trattato, 225 ss.; ora Marinone, I riti funerari, 71 ss., con diversi riferimenti ai testi letterari ed epigrafici, ai contesti monumentali e con indicazioni bibliografiche specifiche; Parrot, Le “Refrigerium” dans l’au-delà, passim.

 

[82] ICVR IV 4155, a. 561.

 

[83] «Ossibus hic posui sedes in limine primo / iu[di]cii tempus certus adesse cit[o] / ut du[lci sonitu r]esonans tuba caelitu[s]»: ICVR VII 18017 = ILCV 1194 = CLE 1423, ma nella lettura di Janssens, Vita e morte del cristiano, 273.

 

[84] CIL X 1370 = CLE 684 = ILCV 3482.

 

[85] Cf. Martimort, La fidelité des premiers chrétiens aux usages, 167ss; Toynbee, Morte e sepoltura, 17 ss. Per l’immagine della rinascita dopo la morte in ambiente pagano, cf. Brelich, Aspetti della morte, 39 ss. Sanders, L’idée du salut, 246, elenca le pochissime iscrizioni pagane dei CLE che potrebbero conservare un riferimento alla risurrezione dei morti: 98, 9-11: quam siqua pietas insitast caelestibus, / viventi ingenio soli et luci reddite, / altoris memorem; 1144, 7: me quem nulla dies poterit visura renasci; soprattutto 1318, 5s: set tamen ad Manes foenix me serbat in ara / qui mecum properat se reparare sibi.

 

[86] Per l’inferno nelle iscrizioni latine paleocristiane, vd. ad es. Vives, ICERV, 86 nr. 281: seba Gehenna.

 

[87] Is 25,8; Os 13,14, ecc.

 

[88] Soprattutto 1Cor 15 e 2Cor 13, 2-4 («Egli non è debole nei vostri riguardi, ma potente tra di voi»), cf. Holleman, Resurrection and Parousia; W.A. Meeks, I Cristiani dei primi secoli. Il mondo sociale dell’apostolo Paolo, Bologna 1992, 444; Teani, Corporeità e risurrezione.

 

[89] ILCV 1513b, 2. g 1-2.

 

[90] 1Cor 15,22.

 

[91] 1Cor 6, 14.

 

[92] ILCV 2498, cf. auctor salutis della Vulgata in Ps 88,27.

 

[93] ILCV 163 = CLE 1435 = ICVR VII 18594, a. 570. ICVR II 921, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239; Testini, Archeologia cristiana, 430.

 

[94] CIL XI 305 e add. 1228 = CLE 715 = ILCV 1005, 5, a. 557.

 

[95] ICVR VII 18160, v. 6. Cf. anche ICVR III 8179: Cristo pres[tante --- it]erum resurger[e], cf. ILCV 3462: [post obi]tum resurge[re credo ?].

 

[96] CIL IX 5566 = CLE 1560 = ILCV 98 b l. 4, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[97] CIL XII 2408 = ILCV 1705.

 

[98] CIL VIII 10707 = 17615a = ILCV 974.

 

[99] E. Rodríguez Almeida, Nuevo estudio sobre la epigrafia de la catacomba de Priscilla (tesi di laurea al PIAC), Roma 1968 (dattiloscritto) 76 n. 18 (non vidi), cf. Janssens, Vita e morte del cristiano, 273 n. 340.

 

[100] ICVR II 4153, a. 532.

 

[101] ICVR I 3847.

 

[102] AE 1915, 38 = ILCV 3477, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[103] CIL VIII 20905 = CLE 1837 = ILCV 1103, 18. Cf. anche AE 1940, 23.

 

[104] ILAlg II,3 8299 = AE 1922, 25 = 1937, 176 = 1966, 546.

 

[105] ICVR IV 10183= CLE 656 = ILCV 3458. Cf. anche l’epitafio di Helpis, originaria della Sicilia: iudicis aeterni testificata thronum, CLE 1432 = ILCV 3484.

 

[106] CIL XII 2111 = CLE 846 = ILCV 3474.

 

[107] CIL XII 2104 = ILCV 3475, ancora a Vienne, cf. Testini, Archeologia cristiana, 430.

 

[108] ILCV 1957, v. 3 = A. Ferrua, Epigrammata damasiana, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 1942, nr. 39.

 

 

[109] Cf. Villette, La résurrection du Christ. Cf. supra, n. 41, a proposito dei sarcofagi dell’Anastasi.

 

[110] Cf. Sanders, L’idée du salut, 244ss.

 

[111] Per l’evoluzione del significato della croce nell’arte paleocristiana, rimando alla voce “croce” di A.E. Felle, in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F. Bisconti, 158ss.

 

[112] CIL III 1421418 = ILCV 3465, cf. C. Cecchelli, Il trionfo della croce. La croce e i santi segni prima e dopo Costantino, Roma 1954; Doelger, Beiträge zur Geschichte des Kreuzzeichens, 5 ss.; 8 s. (1965-66) 34 ss.; Wilpert, La fede della Chiesa nascente, 62ss.

 

[113] Cf. Sanders, L’idée du salut, 235ss, con amplissima esemplificazione.

 

[114] Vives, ICERV 107 nr. 315.

 

[115] Supra, n. 41.

 

[116] Da Cartagine: CIL VIII, 1106 = ILCV 1623 adn. = ILTun 885; edita più di recente da Ennabli, Les inscriptions funéraires chrétiennes de Carthage, 113, n. 91.

 

[117] Sempre Ennabli, Id., 133s, n. 164; uguale espressione in un’altra iscrizione al museo del Bardo: Id, Catalogue des inscriptions chrétiennes, 146, n. 101.

 

[118] CIL III p. 961, XXVI, l. 7 = ILCV 2389 = A. ed J. Sasel, Inscriptiones Latinae quae in Jugoslavia … repertae et editae sunt, Ljubljana 1963-1986 (= ILJug)  III, 2792.

 

[119] 1Pt 5,8, cf. H. Kruse, Das Reich Satana, in «Biblica» 58(1977), 26ss; Sanders, L’idée du salut, 247 e n. 76.

 

[120] CIL XII 2160 = CLE 1426 = ILCV 3486 A, v. 17. Cf. CLE 665, v. 6s e 858, v. 6; CIL V 4121, VIII 4763, ecc.

 

[121] CIL XIII 3098 = ILCV 3487.

 

[122] P.es. in ILCV 3487 A; ma anche CIL XIII 3914 = ILCV 3490; CIL VIII 2018 = ILAlg. I 3436 = CLE 775 = ILCV 3491.

 

[123] P. es. in CIL XIII 1655 = CLE 1361 = ILCV 3488, a. 498. Cf. anche CIL XIII 2417 = ILCV 3489.

 

[124] P. es. ILCV 3491 A: vives in heaeternu; 3491 B: vibes in eternum; 3491 C: vibis in eterno, ecc.

 

[125] Rispettivamente ICVR II 5088 e VI 15874.

 

[126] Cf. la traduzione de La Sacra Bibbia di G. Diodati, II, 47 s., «quantunque, dopo la mia pelle, questo corpo sia roso», che però appare inesatta, perché l’azione si svolgerà al futuro.

 

[127] Cf. ad es. Concordanza pastorale della Bibbia, a cura di G. Passelecq e F. Poswick, EDB, Bologna 1974, 185ss.

 

[128] ILCV 973, Roma, aa. 422-432, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[129] Vives, ICERV, 92 nr. 290.

 

[130] ILCV 163 = CLE 1435 = ICVR VII 18594.

 

[131] [Hic q]uiescit caro mea no[vissimo vero die per] Chr(istu)m credo resusc[itabitur], ICVR II 5088, a. 544, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239; Testini, Archeologia cristiana, 431.

 

[132] Cf. H. Delehaye, Étude sur le légendier romain Passio Sanctae Caeciliae, in BHL 1495, 212s nr. 22; Duval, Auprès des saints corps et âmes, 199. Per l’immagine della fenice nell’arte cristiana, cf. supra n. 38.

 

[133] Cf. Christol, L’image du phénix sur les revers monétaires, 82ss; J. Martin, Hadrien et le Phénix. Propagande numismatique, in Mélanges W. Seston, Paris 1974, 327ss.

 

[134] CIL VIII 20267 = ILCV 229 = CLE 1802 = CLE 1911 = AE 1909, 126 = 1999, 1758. Per un confronto cristiano, cf. i balnea parva restaurati a Ravenna da Victor apostolica tutus virtute sacerdos: ut cultus maiorque resurgat ab imo (CIL XI 263, Ravenna).

 

[135] ICVR IV 10183, vv. 10-14 = CLE 656 = ILCV 3458.

 

[136] «Suscipe, terra, tuo corpus de corpore sumptum / reddere quod valeas vivificante deo», ICVR II 4156, a. 604, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[137] AE 1965, 147 = 1966, 519.

 

[138] Cf. anche CIL VIII 23128a = ILTun 269 = AE 1937, 114 = 1946, 233 = 1991, 1640a ed ILTun 271 = AE 1946, 233.

 

[139] CIL X 1230 = CLE 739 = ILCV 3478, Abellae.

 

[140] CIL IX 5566 = CLE 1560 A = ILCV 98 b l. 4.

 

[141] Cf. Novara, Les Imagines de l’Élysée virgilien, 321ss; Toynbee, Morte e sepoltura, 17 ss.

 

[142] Cf. Bisconti, in Temi di iconografia paleocristiana, s.v. «Paradiso», 241; Sanders, L’au-delà et les acrostiches, 183 ss. Cf. infine Grossi Gondi, Trattato, 239ss; Testini, Archeologia cristiana, 432 s.

 

[143] La buona novella annunciata dal Profeta riguarda la salvezza (furqân) ed il premio per i Credenti, per i quali vi saranno nella dimora della salute (dâr as-salâm) cioè nel Paradiso (Firdaws), i giardini della delizia e del soggiorno ospitale, orti con pergolati irrigati da fiumi che scorrono sotto i loro alberi con frutti abbondanti e continui (palme, viti, ulivi, melograni, banani), distese di cereali, ombre perenni, fiori, sorgenti, belle abitazioni ai piani più alti, belvederi (ghurufât), tappeti dal fondo di broccato, divani con verdi guanciali, cibi come carne di volatili dai diversi gusti (LVI, 21), bevande deliziose (miele, latte dal sapore inalterabile, succo di palma, vino raro, sigillato, dall’effluvio muschiato, mescolato con l’acqua del fiume Tasnîm (XLVII, 15 e LXXXIII, 25), vassoi d’oro, anfore e calici. Soprattutto fanciulle coetanee pure dallo sguardo pudico eternamente giovani, mai toccate prima da uomini o da geni, che sembreranno rubini o coralli (LV, 56 ss.), «donne dai grandi occhi, che non avranno sguardi che per loro, bianche come uova tenute in luogo riparato» (ad es. XXXVII, 46ss). «Si orneranno colà di braccialetti di oro e porteranno abiti verdi di seta e di broccato lucido (istabraq), stando sdraiati su divani» (XVIIII, 31), serviti da paggi eternamente giovani simili a perle nascoste (LII, 24). Qui «staranno adagiati su divani, senza soffrire né calore di sole né rigore di freddo; vicina sarà loro l’ombra degli alberi, e bassi, a portata di mano, ne penderanno i frutti; saranno fatti circolare fra di loro vassoi d’argento, e i recipienti saranno ampolle - ampolle d’argento riempite nella misura richiesta - e verrà colà lor data a bere una coppa miscelata di zenzero; - di una sorgente che si trova in quel giardino, chiamata Salsabîl» (LXXVI, 13ss).

 

[144] Così ad es. Vives, ICERV, 121 nr. 350, Sella.

 

[145] CIL V p. 617 I, 2 = CLE 908 = ILCV 1841, 4-6.

 

[146] ICVR II 4220, vv. 65s: carceris umani sors est quae claustra resolvit / nec retinet animam dum sua luce vivit.

 

[147] ILCV 973, vv. 7s.

 

[148] «In luce domini susceptus est», ICVR I, 941.

 

[149] CIL VI 32000 = CLE 734 = ILCV 60 = ICVR I, 307, vv. 3-6, cf. Verg. Aen. IX 14: in caelum paribus se sustulit alis.

 

[150] CIL VI 1756 B = CLE 1347 B = ILCV63 B, l. 13 s.

 

[151] CIL XI 4966 = CLE 1801 = ICVR I 1851, l. 5.

 

[152] ILCV 4933, 5-7; testo ebraico e non cristiano secondo Frey, Corpus inscriptionum Iudaicarum, 476.

 

[153] AE 2002, 632; cf. Mastino, Una traccia della persecuzione dioclezianea in Sardegna?, in c.d.s.

 

[154] Cf. Paradisus lucis, in CIL V 6218, Milano; Grossi Gondi, Trattato, 240; Testini, Archeologia cristiana, 212; cf. anche Janssens, Vita e morte del cristiano, 319s: nam iustae mentes foventur luce celeste (ICVR VII 17962); nunc proprior Cristo sanctorum sede potitus, / luce non frueris, lux tibi Christus adest (ICVR II 4219 b).

 

[155] Cf. Mt 25,31: Cum autem venerit Filius hominis in maiestate sua et omnes angeli cum eo, tunc sedebit super sedem maiestatis suae.

 

[156] Sap 3,7. Cf. CLE 902 = ILCV 3480: credite victuras anima remeante favillas / rursus ad amissum posse redire diem.

 

[157] Come è noto la luce è un attributo cristologico, sulla base del prologo del Vangelo di Giovanni, in part. Gv 1,9, da cui nel Credo niceno.

 

[158] Ap 22,5; cf. Gv 1,5: et lux in tenebris lucet et tenebrae eam non conprehenderunt.

 

[159] Gv 5,41: claritatem ab hominibus non accipio.

 

[160] Cf. Inscriptiones Christianae Italiae septimo saeculo antiquiores, nova series (= ICI), X, 1995, Picenum 46: Stephanus, claro qui stemmate fulgens. Cf. anche CIL VIII 17386, Thabraca, dignam meruit immarcibile(m) coronam, cf. Grossi Gondi, Trattato, 355. Per l’uso di circulus nel senso di periodo di tempo della vita terrena, cf. CIL III 9527: expleto annorum circulo quinto. Il significato più specifico di circulus è ovviamente il cielo e più propriamente le sfere che ruotano intorno alla terra (per circulus cf. Thesaurus linguae Latinae (=Th.l.L.) III, 1906-12, cc. 1107ss). L’espressione, rara, pare possa indicare un buon livello culturale del committente dell’epigrafe, ricca di vocaboli letterari.

È suggestivo notare come l’espressione cui lux erit perenni / circulo fulcens richiami alla mente il nimbo (aureola), che nell’iconografia paleocristiana costituisce l’attributo per eccellenza dei personaggi venerati (anche dei santi, a partire dalla seconda metà del IV secolo: cf. in sintesi: M. Guj, in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F. Bisconti, s.v. «Nimbo», 230s: nell’iscrizione la defunta Matera viene quindi quasi paragonata ai santi (per le sue azioni meritorie). A prescindere da questa suggestione (per confortare la quale è necessario trovare confronti con espressioni simili in altri epitafi di “comuni mortali”), potrebbe semplicemente alludersi al soggiorno della defunta nell’aldilà, inteso come firmamento luminoso (per i riflessi nell’iconografia di tale concezione del mondo ultraterreno cf. Bisconti, Sulla concezione figurativa dell’“habitat” paradisiaco, 25 ss.; Id., Altre note di iconografia paradisiaca, in «Bessarione» 9(1992) 109ss.

 

[161] Dn 12,3: «i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre». Cf. anche il NT (Mt 13,43 Tunc iusti fulgebunt sicut sol in regno Patris eorum); e negli apocrifi, come il Libro dei segreti di Enoc = 2 Enoc 1,5: «il loro viso (era) come sole che luce, i loro occhi come lampade ardenti». Cf. anche l’Apocalisse siriaca di Baruc = 2 Baruc 51,3: «... allora il loro splendore sarà glorificato con mutamenti e la somiglianza del loro volto si convertirà nella luce della loro bellezza, perché possano prendere e ricevere il mondo che non muore, che (per) allora è promesso loro». Ancora cf. il IV libro di Esdra datato attorno al 100 d.C. (Apocalisse di Esdra), Esdra IV 7,91: «... riposeranno in sette ordini (nel testo latino il termine usato è ordinem)»; 7,97: «il sesto (ordine) è quando verrà loro mostrato come il loro volto dovrà rifulgere come il sole, e dovranno assomigliare alla luce delle stelle, d’ora in poi incorruttibili»; 7,125: «Perché i volti di coloro che hanno praticato l’astinenza brilleranno più delle stelle, mentre i nostri saranno più scuri delle tenebre».

Il IV libro di Esdra è stato utilizzato da Ambrogio di Milano nel De bono mortis. Ambrogio dimostra di considerare il testo all’interno del canone, dato che lo definisce scriptura (De bono mort. 10,46). Il vescovo milanese, sulla base del testo di Esdra afferma che le abitazioni delle anime sono più in alto (10,45: Animarum autem superiora esse habitacula scripturae testimoniis valde probatur), non racchiuse nei sepolcri sotto terra. Quindi arriva ad affermare, parafrasando il testo apocrifo: 11,48: Erit igitur ordo diversus claritatis et gloriae, sicut erit ordo meritorum. Processus quoque ordinum processum exprimit claritatis. Denique sexto ordine demonstrabitur in his quod vultus earum sicut sol incipiat refulgere et stellarum luminibus comparari, qui tamen fulgor earum corruptelam iam sentire non possit. Ambrogio ha utilizzato il IV libro di Esdra anche nel De excessu fratris (I, 67,1-3). Secondo Yves–Marie Duval, Formes profanes et formes bibliques dans les orations funèbres de saint Ambroise, in Christianisme et formes littéraires de l’antiquité tardive en Occident, Entretiens sur l’antiquité classique, Vandoevres-Genève 1977, il IV libro di Esdra faceva parte delle letture della liturgia funebre ed è stato letto ai funerali del fratello di Ambrogio (280, n.1). Lo studioso sostiene, inoltre, che il passo di Requiem aeterna della liturgia funeraria abbia lasciato delle tracce nel De obitu Theodosii (32: Fruitur nunc ... Theodosius luce perpetua, tranquillitate diuturna...) (247, n. 1).

 

[162] Cic. Somnium Scipionis 3,16: ... ea vita via est in caelum et in hunc coetum eorum qui iam vixerunt et corpore laxati illum incolunt locum quem vides - erat autem is splendidissimo candore inter flammas circus elucens - quem vos, ut a Grais accepistis, orbem lacteum nuncupatis ... Il termine circus vuole esser un equivalente di orbis, come nota pure Macrobio (cf. commento di Alessandro Ronconi al Somnium, Firenze 1967, 90).

 

[163] Secondo i Pitagorici l’anima ha origine astrale e tende al ritorno alla sede originaria. Il concetto che gli eletti, dopo la morte, facciano ritorno alla sede originaria, è presente nel Fedone e nel Timeo platonici. Secondo Pitagora la Via Lattea era la sede delle anime, “il vero Ade in opposizione a quello sotterraneo delle credenze volgari” (cf. sempre A. Ronconi nel commento a Cicerone, 91). La concezione classica dell’armonia delle sfere è ripresa in età cristiana da Ambrogio, cf. Lo Cicero, Un recupero “pagano”: Ambrogio e l’armonia delle sfere, 279 ss.

 

[164] CIL V 6218 = ILCV 2369, cf. Testini, Archeologia cristiana, 432. Per il concetto di luce-illuminazione connesso con l’ideale di risurrezione cf. anche alcuni riflessi nelle decorazioni cimiteriali in Bisconti, La decorazione delle catacombe romane, 81 s.

 

[165] Cf. G. Filoramo, Luce e gnosi, Roma 1980,  passim.

 

[166] Lucifero di Cagliari, Moriundum esse pro Dei Filio IV, 64, 16 s. dell’edizione di S. Laconi.

 

[167] I, VI, 72, 18.

 

[168] VIII, 74, 51-53, cf. anche Lattanzio Div. Inst. VI, 3: ...Is accepto immortalitatis praemio, perenni luce potietur.

 

[169] Cf. F. Cumont, Lux Perpetua, Paris 1949, passim; Grossi Gondi, Trattato, 228. Cf. anche 241: in luce Domini susceptus est.

 

[170] Su cui Gv 11,11-14; 12,1.17.

 

[171] Cf. Nieddu, La pittura paleocristiana in Sardegna, 245 ss.; Ead., L’arte paleocristiana in Sardegna: la pittura, in Insulae Christi, Il cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, a cura di P.G. Spanu, Oristano 2002, 368 s.

 

[172] Così Tertulliano, res. c. 58,8.

 

[173] Cf. Tristan, Les premières images chrétiennes, 183.

 

[174] A parte il passo della risurrezione della carne di Tertulliano appena citato, cf. Agostino, Lettere CII, 34; CCL 33, 384; civ. Dei I, 18, 30, 2; CCL 41, 587; cf. Goñi, La resurrección de la carne según San Augustín, Madrid 1964.

 

[175] Cf. Tristan, Les premières images chrétiennes, 186.

 

[176] Cf. Id., 186 ss. Ulteriori riferimenti bibliografici relativi al ciclo figurato di Giona, diffuso soprattutto nella pittura cimiteriale ma anche sulla fronte dei sarcofagi (a volte non compare l’intero ciclo ma, ad esempio, G. in riposo sotto il pergolato; su alcune lastre funerarie incise compaiono le zucche per richiamare l’episodio in questione: es. ICVR I, 1922): Duval, Le livre de Jonas dans la littérature chrétienne, Paris 1973; Engemann, Untersuchungen zur Sepulkralsymbolik, 70-77; Speigl, Das Bildprogramm des Jonasmotivs, 1-15; Stommel, Zum Problem der frühchristlichen, 112 ss.; Wischmeyer, Zur Entstehung und Bedeutung des Jonabildes, 707-719; uno sguardo generale è in D. Mazzoleni, in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F. Bisconti, cit. s. v. “Giona”, 191ss.

 

[177] Cf. Mazzoleni, Id., 195 ss., su Gv 11,11-14. Per una sintetica presentazione del tema è utile rimandare alla v. “Lazzaro” di M. Guj, in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F. Bisconti, 201ss.

 

[178] Tert., De resurr. mort. 53, 3 = CCL 2, 2, 998.

 

[179] 2Re 4,8-37.

 

[180] 2Re 13,21.

 

[181] Cf. Calcagnini, Resurrezione del figlio della vedova di Naim, 268 s., dove si fa cenno anche ad un altro episodio di risurrezione, raffigurato assai di rado, quello delle ossa inaridite riferito in Ez. 37,1-14.

 

[182] Cf. Id., Resurrezione della figlia di Giairo, 269 s.

 

[183] At 9,36-41 (Pietro risuscita a Joppe una donna, Tabitha, cf. la v. “Tabitha” di U. Utro, in Temi di iconografia paleocristiana, 284s.

 

[184]At 20,10 (Paolo risuscita in Macedonia un ragazzo morto, Eutico).

 

[185] Cf. Tristan, Les premières images chrétiennes, 186. Sono noti gli esempi sardi di San Salvatore presso Tharros, tuttavia molto dubbio, e di Sant’Antioco, fin dal IV secolo d.C.: Levi, L'ipogeo di San Salvatore, 57 e tav. XII b (molto dubbia); Nieddu, La pittura paleocristiana, 266 ss.

 

[186] CIL XI 322 = ILCV 3850, Ravenna.

 

[187] CIL XII 2422 = ILCV 1341, cf. Testini, Archeologia cristiana, 430 (anche per CIL XII 2185, 2188, 2310, 2423).

 

[188] CIL XII 2188 = ILCV 1677, a. 547, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[189] CIL XII 2185 = ILCV 3467. La stessa formula anche in CIL XII 2310 (Grenoble), per un Cassianus ed in CIL XII 2423 (Vienne), per una famula Dei.

 

[190] CIL XIII 2601 = ILCV 1077 (a. 479).

 

[191] Vives, ICERV 68 nr. 220 = A. Alföldy, Roman Inscription of Tarraco, Madrid 1975 ss (= RIT) 956; vd. anche Vives, ICERV 68 nr. 221 = RIT 447 nr. 1012 (frammentaria).

 

[192] CIL VIII 9594 addit. p. 974 = ILCV 3464.

 

[193] CIL VIII 20905 = CLE 1837 = ILCV 1103, ll. 8 s. Per un’analoga dedica da Satafis, vd. ora ILAlg II,3 8299 = AE 1922, 25 = 1937, 176 = 1966, 546.

 

[194] ICVR I 942 = ILCV 1706, Roma Santa Prassede, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[195] CIL XI 2585 = ILCV 259 = ICI, XI, regio VII, Clusium, Bari 2003, a cura di V. Cipollone, nr. 48 (a. 493), cf.; Grossi Gondi, Trattato, 239; Testini, Archeologia cristiana, 430.

 

[196] CIL XII 2118 = ILCV 3470. Cf. anche CIL XII 2170, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[197] CIL XII 2131 = ILCV 3468 A e CIL XII 2190 = ILCV 3469.

 

[198] ILCV 1678, a. 509, cf. Testini, Archeologia cristiana, 430. Cf. anche ILCV 3468 (frammentaria), a. 493.

 

[199] CIL XII 2146 = ILCV 3469 A.

 

[200] CIL XII 2073 = ILCV 3471, a. 491, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239. Sulla lastra marmorea è raffigurato un vaso tra due pavoni, simbolo della risurrezione (cf. supra, nn. 36 e 171). Una formula analoga in CIL XII 2059 del 495, frammentaria.

 

[201] CIL XII 2058 = ILCV 1587, a. 491, cf. Testini, Archeologia cristiana, 430. Anima remeante: CLE 902 = ILCV 3480.

 

[202] CIL XII 2120 = ILCV 3472; cf. per i confronti con CIL VIII 10689 e XII 5344.

 

[203] CIL XII 2059.

 

[204] CIL VIII 10689, cf. 16742 = ILAlg. I 2966 = ILCV 1683, cf. Testini, Archeologia cristiana, 430 (erron. CIL VIII 20301). Conosciamo altri casi analoghi: ILCV 3845, Roma: [re]surgat.

 

[205] CIL III 3551 = ILCV 3476.

 

[206] Cf. ICI, 6, regio VI, Umbria, Bari 1989, nr. 81 = CIL XI 4964 ed ILCV 1606; cf. Binazzi, Un’iscrizione umbra, 223-228 e Emerick, Il tempietto sul Clitunno a Pissignano, 15-22.

 

[207] ICVR IV 12418 = ILCV 969, 2-3.6 = Ferrua, Epigrammata damasiana, nr. 12; Carletti, Iscrizioni cristiane a Roma, 99ss, nr. 88; traduzione di Janssens, Vita e morte del cristiano, 271 e n. 236. Cf. anche Sanders, L’idée du salut, 245. Il testo è parzialmente ripreso in ICVR II 1758 = Ferrua, Epigrammata damasiana, nr. 121. Cf. Testini, Archeologia cristiana, 430; Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[208] CLE 756 = ICVR II 273 = ILCV 3463, l.10.

 

[209] Gasperini, Su un epitafio catinense, 63ss.

 

[210] CIL X 1377 = ILCV 3461 B e 1380 = ILCV 3461 A, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239; Testini, Archeologia cristiana, 431.

 

[211] CIL X 4525 = ILCV 3460, cf. Testini, Archeologia cristiana, 431.

 

[212] Gray, The Palaeography, 135 nr. 130.

 

[213] ICVR IV 11655.

 

[214] Vives, ICERV, 62 nr. 193 = RIT 417 nr. 947, a. 471.

 

[215] Vives, ICERV, 68, nr. 222 = RIT 446 nr. 1011.

 

[216] ILCV 3462.

 

[217] AE 1940, n. 23; una foto a colori nella copertina di M. Bouchenaki, Tipasa. Site du patrimoine mondial, Alger 1988.

 

[218] Cf. Sanders, L’idée du salut, 246 nt. 75.

 

[219] ILCV 4933, 5-7 = Frey, CIJ 476.

 

[220] ICVR IV 10183= CLE 656 = ILCV 3458, cf. Grossi Gondi, Trattato, 239.

 

[221] CLE 669 = ICVR I 317 e 1703 = ILCV 316. Cf. Lucr. 6, 1021: possunt consurgere in auras, già ripreso in CLE 279,18.

 

[222] ICVR IV 12418 = ILCV 969, 2-3.6 = Ferrua, Epigrammata damasiana, nr. 12.

 

[223] CIL IX 5566 = CLE 1560 A = ILCV 98 b l. 4.

 

[224] CLE 2016 = ILCV 3341.

 

[225] Anastasia corrisponde al latino Reparatus, cf. I. Kajanto, The latin cognomina, Helsinki 1965, 111 s.

 

[226] CIL X 1370 = CLE 684 = ILCV 3482.