Università di Sassari
Sommario: Premessa. – A) La risurrezione (lat. resvrrectio, gr. «anástasis»). – 1. La risurrezione dei chierici
e dei fedeli. – 2. Un
privilegio per i giusti. – 3. L’immagine della
risurrezione. – B) La morte cristiana. – 1. Le sepolture ad sanctos.
– C) Il tempo della risurrezione: il
giorno del giudizio (novissimus dies). – D) La potenza di Cristo. – E) Il modo della risurrezione della
carne (lat. caro, greco sárx). – 1. La luce del Paradiso. – 2. Giona e Lazzaro. – F) L’attesa
della risurrezione. – 1.
Un atto di fede (credo). – G)
Conclusione. Un tentativo di
sistemazione cronologica. – Bibliografia.
Il tema della risurrezione della carne nella cultura
cristiana, investigato acutamente fin dall’età della Scolastica,
è trattato in una sterminata bibliografia, puntualmente richiamata in
questo 45° volume del Dizionario di spiritualità
biblico-patristica dedicato a Morte e risurrezione nei padri della
Chiesa, curato da Salvatore Panimolle[2];
appare di conseguenza superflua una rassegna bibliografica completa. Ci
limitiamo pertanto in questa sede a trattare il tema della risurrezione della
carne nelle iscrizioni latine specie di età paleocristiana e di
carattere funerario; tema che appare relativamente poco studiato sotto questo
profilo con un diretto accesso alle fonti, anche se l’analisi di
un’articolata documentazione consente di seguire le origini del lento
processo di definizione del dogma, localizzando le attestazioni nel tempo e
nello spazio ed accertando tradizioni e particolari sensibilità locali.
Si tratta di un centinaio di iscrizioni, con testi prevalentemente di carattere
poetico (solo un quarto in prosa): una visione di sintesi conferma la
complessità della tematica cristiana della risurrezione, capace di
affrontare congiuntamente il destino ultraterreno del corpo e dell’anima
e dunque di superare il dualismo immortalità dell’anima/immediata
ascesa al cielo e risurrezione corporale/discesa interinale agli inferi[3].
Una poco nota iscrizione funeraria, rinvenuta ad Olmedo in Sardegna
nell’Ottocento e conservata al Museo Nazionale di Cagliari, presenta in
maniera inconsueta la fede nella risurrezione della carne in età
tardo-antica. Il diacono Silbius, ecclesiae sanctae minister,
morto il 5 aprile di un anno incerto del VI secolo all’età di 33
anni, riprendendo forse a memoria Gb 19,25s afferma poeticamente la fede nella
risurrezione e nella promessa del Regno celeste, con due esametri straordinari
di carattere dogmatico:
expectat, Cristi ope, rursus sua vivere carne,
et gaudia lucis nobae ipso dominante videre[4].
Una traduzione non esattamente letterale potrebbe essere:
«egli aspetta nella tomba che, grazie alla potenza di Cristo, la sua
carne possa vivere di nuovo ed attende di vedere le gioie dell’ultima
luce, mentre Cristo finalmente potrà regnare in eterno» (Fig. 1).
L’elemento principale di questo testo è
costituito dalla poetica ripresa del dogma cristiano della risurrezione della
carne, che proprio nel passo di Giobbe trova la più chiara affermazione:
«Io so, infatti, che il mio Redentore vive, / che
nell’ultimo giorno risorgerò dalla terra / e sarò di nuovo
rivestito della mia pelle / e rivedrò il mio Dio nella mia carne»[5].
La dichiarazione di fede nella risurrezione della carne
così come definita da Giobbe ricorre ad verbum, con una
più puntuale aderenza al testo biblico, in alcune iscrizioni latine che
vanno dal V al X secolo, primo tra tutti un celebre epitafio cristiano di
Cordova, dove la famula Dei Iusta recita, forse già nel V secolo:
«credo che il mio Redentore vivrà e
nell’ultimo giorno risusciterà la mia pelle e con la mia carne
vedrò il Signore»[6].
Allo stesso modo a Catania forse nel VI secolo un defunto
anonimo afferma, secondo un’ardita ma convincente interpretazione di
Lidio Gasperini: credo qui[a Redemptor meus vivit et in novissimo] die de
ter[ra surrecturus sum et in carne mea videbo] D(eu)m[7].
Partendo da questi modelli più antichi, con il
passare dei secoli il tema biblico ritorna in una serie di altri testi,
più o meno fedeli alla Scrittura, come la tarda lapide tombale di
Montesorbo (Forlì), con qualche imperfezione dovuta forse ad una cattiva
edizione (fine VIII-inizi IX secolo), dove il defunto dichiara:
crux (Christi) vivit i(n) casa
mortuorum. (Ihesus Christus) vincit. Scio quia Red[emp]tor meus viv[it] et in
novissim[o die] per ipsus sc[io] me esse liver[a]turus[8].
Oppure come l’epitafio del presbitero Venerius
del Museo di Rimini (VIII-IX secolo): credo quia Redem(p)tor m(eu)s vivit et
in novissimo die suscitavit me[9],
con l’imprecazione rivolta a danno di chi violerà la tomba, che
comprende l’anatema in nome dei 318 padri del Concilio di Nicea e
l’augurio di una sorte analoga a quella di Iuda trad(itor)[10].
Forse un caso significativamente vicino è anche il
Credo incompleto, segnalato ancora da Lidio Gasperini, incluso
nell’epitafio (metà VII-metà IX secolo) del vescovo anonimo
di Formiae, anch’esso apparentemente ispirato dal passo di Giobbe,
preceduto da Ps 30,6[11].
In tutti questi casi la ripresa scritturistica attinge alla
Vulgata, ma se ne allontana parzialmente, con alcune significative varianti,
dovute forse a citazioni di seconda mano oppure a tradizioni liturgiche locali:
è stato già osservato, ad esempio, che l’esordio del
versetto 19,25 di Giobbe, scio enim quod, viene rettificato in credo
quod a Cordova ed in credo quia a Catania ed a Rimini. Il vivat di
Giobbe diventa vivit nell’epitafio di Venerius e vivet
a Cordova. Il die che ricorre in quasi tutti gli esiti epigrafici del
passo biblico dipende da una variante, novissimo die, di alcuni codici
biblici[12].
Infine, la prima parte del versetto 26 (et rursum circumdabor pelle mea),
presente «per contaminatio» nell’epitafio cordubense,
è invece omessa negli altri testi epigrafici[13].
Il caso più interessante ed autonomo rispetto al
modello biblico rimane dunque quello sardo, dove si sommano una serie di
elementi che cercheremo in questa sede di commentare: innanzi tutto
l’accento è posto prevalentemente sulla risurrezione del defunto,
il diacono Silbius, il cui corpo conservato religiosamente nella tomba
tornerà a vivere nell’ultimo giorno; è data per scontata la
risurrezione del Cristo, che rimane sullo sfondo: è proprio Cristo
però che opera attivamente con la sua divina potenza a favore dei
defunti; quindi si tenta di definire la gloria del Paradiso come un regno di
luce e di gioia (gaudia lucis novae), destinato in eterno agli uomini di
buona volontà. Occorre infine segnalare il ruolo del defunto, un diacono
del popolo di Dio (ecclesiae sanctae minister)[14],
a conferma della nota predilezione degli uomini di Chiesa per il tema della
risurrezione.
È effettivamente provato che sono soprattutto gli
esponenti del clero cristiano a ricordare nei propri epitafi la speranza della
risurrezione, dopo la morte che colpisce indistintamente tutti gli uomini: Jos
Janssens ha giustamente osservato che il tema della risurrezione è poco
diffuso nell’epigrafia funeraria cristiana delle origini e più precisamente
«che esso è presente in modo esplicito quasi unicamente nelle
iscrizioni per chierici, per persone consacrate e per uomini al servizio della
chiesa»[15],
specie in testi poetici tardi: così molti papi dal IV al VI secolo, da
Damaso a Celestino, a Bonifacio II, a Pelagio, a Gregorio Magno;
l’arcivescovo Agnellus, alcuni vescovi (Alexander, Iamlychus,
Senatus), un chierico del titolo di San Clemente, un sacerdos, sei
presbiteri (Victor, Dominicus, Crispinus, Fermosanus, Leo, Vitalis), un rector,
un cubiculario della basilica di San Paolo (Decius), un arcidiacono a
San Lorenzo (Sabinus), il nostro diacono Silbius di Olmedo ed il
diacono Severus con riferimento al corpo della figlia, un suddiacono, un
lettore[16],
una vergine consacrata, una puella virgo sacra (Alexandra) nell’anno
449, una femina [religios]a, una sacra do(mino) puella (Eusebia),
alcune sanctimoniales, da intendersi come vergini consacrate ecc.[17]
Ciò non significa affatto che la risurrezione non
riguardi effettivamente tutti i fedeli, evidentemente meno capaci a definirne
nel proprio epitafio il dogma, secondo una rigorosa dottrina: si tratta dunque
di una specifica competenza teologica del committente o di chi per lui ha
curato la tomba, che giustifica il richiamo più o meno letterale alla
Scrittura e l’immagine della risurrezione in Cristo.
Le iscrizioni mettono spesso in evidenza come la morte sia
un momento finale della vita, ma anche una partenza, un transito, un trapasso
verso un altro mondo, una soglia (limen) che si varca serenamente grazie
alla speranza cristiana nella vita eterna[18]:
è lo spirito che, abbandonate sulla terra le membra terrene, ritorna sui
suoi passi e vola attraverso l’etere elevandosi nel grembo del sommo
genitore (inque sinus summi genitoris)[19].
Sono i giusti a guardare alla morte con serenità e fiducia ed a meritare
il trionfo della vita eterna[20],
in un futuro che non ha fine[21].
È così che, mentre il corpo è restituito alla terra,
l’anima torna al Cristo: anima Cristo reddita est[22],
in attesa di conoscere serenamente la sentenza dell’ultimo giorno: anima
mea expecta[t] die ultimo causa(m)[23].
Si deve sottolineare la tranquillità con la quale i cristiani si
sottopongono al giudizio universale, contro ogni deviazione terrificante che
caratterizzerà il medioevo cristiano. Del resto le anime giuste godono
della luce celeste[24],
perché il Signore rende una vita che rimane senza fine[25].
Così il padre di Damaso andò libero al cielo, caelos quod
liber adiret[26];
allo stesso modo il diacono Basso originario di Babilonia in Egitto dichiara in
un epitafio in lingua greca del IV secolo:
«lasciato il corpo frale alla terra e la sostanza ai
mortali, mossi per la via del cielo e al soggiorno di Cristo. I resti di Basso
sono sotto terra, ma l’anima nell’aria levatasi a volo venne nel
cielo di Cristo»[27].
Infine il presbitero Tigrinus racconta come la
propria anima pura goda nel cielo (gaudet at illa polo), grazie alla
potenza di Cristo, sotto la cui guida è la morte a morire: quo duce
mors moritur, quando il defunto è preso dalla dolcezza del regno
celeste (quippe ego caelestis captus dulcedine regni)[28].
Ciò non elimina il dolore di chi sopravvive o di chi osserva la fine
terrena, magari giunta prematuramente, come per l’«agnello rapito
nel cielo» ([a]gnus in celis raptus])[29]
o per l’anima della figlia infelice del diacono Severus, rapita
dallo Spirito santo (quique animam rapuit spiritu sancto suo)[30]
od altre anime di defunti rapite dagli angeli[31].
La morte prematura può essere accettata da chi crede che il Signore
abbia bramato di avere presso di sé il fedele[32],
che a sua volta ha desiderato ardentemente giungere a scorgere la luce celeste
(aetheriam cupiens caeli conscendere lucem)[33].
Talora si fa riferimento ai giusti che accolgono il
defunto: per il lettore Paulus si precisa che l’anima è
stata ricevuta tra i giusti nel cielo (caelo tamen animam cum iustis credo
receptam)[34].
La risurrezione alla fine dei tempi riguarda però il
corpo e non l’anima da sola ed attiene alla vita futura che è
stata promessa da Dio agli uomini per l’eternità.
Alla documentazione epigrafica sono spesso associate
pitture o sculture che riprendono con maggiore immediatezza i numerosi temi
della risurrezione[35]:
fra questi ha una certa diffusione in contesti funerari l’immagine del
pavone, per il quale, come è noto, il richiamo alla risurrezione si lega
alla leggenda, pagana ma accolta anche dai cristiani[36],
secondo la quale alla sua carne sarebbe stato concesso di non putrefarsi[37].
Fra le raffigurazioni simboliche allusive alla risurrezione ha una certa
fortuna ha anche l’immagine della fenice, uccello noto già
nell’antica mitologia orientale, assunto nella letteratura e
nell’iconografia cristiana, proprio in relazione alla risurrezione, per
il potere che l’animale avrebbe avuto di rinascere dalle proprie ceneri[38].
Nelle raffigurazioni paleocristiane la fenice viene spesso presentata su un
albero di palma (in greco, foinix)[39],
specie nelle scene di traditio legis, dove si trova in corrispondenza,
non a caso, dell’apostolo Paolo, per il quale la risurrezione di Cristo
è fondamento della fede (1Cor 15)[40].
Un esplicito richiamo alla risurrezione si trova, ancora,
in alcuni dei sarcofagi detti “di passione” o, significativamente,
dell’Anastasis, diffusi soprattutto in età teodosiana: questi
presentano, al centro della fronte, accanto a scene evocanti la passione di
Cristo (arresto, Cristo davanti a Pilato, Cristo accompagnato dal Cireneo) o il
martirio dei principi degli apostoli (arresto di Pietro o di Paolo, decollatio
Pauli), una crux invicta (si tratta di una croce configurata nella
parte superiore come un chrismon circondato da una corona lemniscata, chiaro
segno di vittoria) ai piedi della quale sono due soldati addormentati, la cui
presenza, direttamente tratta dal racconto evangelico (Mt 28,11-14) permette di
riferire in maniera immediata questa raffigurazione simbolica
all’episodio “storico” della risurrezione di Cristo[41].
Per gli episodi di risurrezione tratti da AT e NT (r. di
Lazzaro, r. del figlio della vedova di Naim, r. della figlia di Giairo, r. di
Tabitha) e per altri episodi allusivi alla r. (Daniele nella fossa dei leoni e
Giona) rimando infra, dove se ne tratta più diffusamente.
Richiami alla risurrezione si ritiene possano essere
veicolati anche da altre immagini, sulla scorta di riferimenti in tal senso
presenti in testi letterari antichi; non parrebbe essere estranea al concetto
della risurrezione, ad esempio, la raffigurazione del pesce, nel quale si
è anche voluto vedere l’immagine del Cristo risorto (cf. es.
Agostino, Civ. Dei 18, 23 = CCL 48, 613s, che paragona Cristo che visse
nell’abisso della mortalità al pesce che vive nella profondità
delle acque)[42].
Anche altre immagini zoomorfe meno diffuse, d’altra parte, pare possano
celare richiami alla risurrezione, se si tiene conto del significato che ad
esse viene attribuito da alcune leggende popolari, confluite in un’opera
di “storia naturale” (Physiologus, redatto fra II e III
secolo) dalla quale attingono anche i Padri della Chiesa per rendere
comprensibili alcuni concetti altrimenti difficilmente spiegabili: al mistero
della risurrezione alluderebbe, allora, l’immagine del leone, dal momento
che secondo la leggenda la leonessa infonderebbe vita al leoncino tre giorni
dopo averlo partorito[43];
alla risurrezione potrebbe anche riferirsi l’immagine del cervo, che
secondo una leggenda popolare[44]
dopo aver estratto un serpente dalla sua tana e averlo ingoiato, muore se non
riesce a bere ad una sorgente entro tre giorni (l’immagine del cervo alla
fonte, diffusa soprattutto in ambito battesimale, è già in Sal
41,2: Sicut cervus desiderat ad fontes tuas anima mea dsiderat ad te Deus)[45].
Lo scontro fra la vita e la morte viene anche sintetizzato,
nell’iconografia paleocristiana, nella lotta fra il gallo (= luce,
resurrezione) e la tartaruga (= tenebre infernali, morte)[46].
Occorre ricordare, ancora, fra le immagini veicolanti il
concetto di risurrezione, quella della vite, già associata a Dioniso,
simboleggiante i cicli della natura, paragonata nel Vangelo a Cristo (es. Gv
15,1-6) e ripresa più volte dai Padri della Chiesa[47].
Si deve partire dalla visione della morte nell’epigrafia
funeraria cristiana, che in qualche modo si collega all’immaginario
pagano[48]:
ora la fede nella risurrezione della carne si accompagna con molti argomenti
consolatori, tali da rendere la morte meno terrificante, anche se è
chiaro che si muore in piena solitudine, mentre si risorge assieme al popolo di
Dio. Eppure il concetto fondamentale è che la morte, grazie alla potenza
redentrice del Cristo, segna solo una tappa, un momento di riposo e di pace, hic
requiescet in somno pacis[49].
Ecco una delle tante dichiarazioni di fede, come per Albana ricordata
dal marito Cyriacus:
«lasciati i tuoi, tu giaci nella pace del sonno.
Benemerita, risorgerai. Il riposo che ti viene concesso è solo
temporaneo (relictis tuis iaces in pace sopore, / merita resurgis, temporalis
tibi data requ(i)etio)»[50].
Del resto è Cristo che si è dichiarato resurrectio
et vita in Gv 11,25.
La morte è il momento in cui l’anima si separa
dal corpo, allo stesso modo come la risurrezione segna una nuova unione
dell’anima col corpo, che non andrà perduto ma sarà
rianimato e vivificato, tanto che tornerà a vivere. Dunque nelle
iscrizioni si afferma «la continuità tra il corpo terrestre e
quello della risurrezione», in una dimensione di fede «cristologica
ed ecclesiale»[51].
Ciò rassicura i credenti, che raggiungono le sedi eterne senza
preoccuparsi della morte, come la sposa di Pollentia: aeternam
repetit sedem nil noxia morti[52].
I riti della deposizione del defunto hanno lo scopo di
garantire il quadro cerimoniale della sepoltura cristiana, in una visione di
fede, dal momento che si seppelliscono i defunti nel nome di Cristo[53].
Di conseguenza si deve garantire la protezione della tomba
che a sua volta protegge il cadavere, perché una dispersione delle ossa
potrebbe ostacolare la risurrezione finale[54]:
occorre pertanto prendersi cura della tomba ed assicurarne la perpetua
securitas[55].
Nelle Catechesi ai misteri di Cirillo e Giovanni di Gerusalemme si
precisa:
«Se la risurrezione dei morti per te non esiste,
perché condanni i violatori dei sepolcri? Se il corpo si dissolve e la
risurrezione è senza speranza, perché chi viola il sepolcro
incorre in una pena? Vedi che anche se tu neghi con le labbra, rimane piena in
te la coscienza della risurrezione»[56].
In qualche caso la tomba finisce anche per essere considerata
la dimora finale: haec est aeterna domus et perpetua felicitas[57].
Eppure le tombe rappresentano solo un temporaneo ricovero
per i corpi destinati a risuscitare nell’ultimo giorno: Fortunatus
si costruisce la tomba con lo scopo di aver pronto il suo posto in Cristo,
quando egli riposerà in pace, in Chr(istum) locum paratum ha(beat)[58].
Allo stesso modo due coniugi si preparano da vivi una tomba per il momento in
cui vivranno in Dio: v(i)vi fecerunt sibi ut in deo vivant[59].
La depositio del corpo nella tomba è «una collocazione
provvisoria, una custodia temporanea»[60]
in attesa della risurrezione, ma ha una rilevante funzione anche nella
prospettiva della vita futura.
Di conseguenza il giorno della morte diventa il dies
natalis, il giorno della nascita ad una nuova vita[61].
Un elemento ulteriore è rappresentato dalla
possibilità per il defunto di farsi seppellire nelle vicinanze della
tomba di un martire: il che finisce per esser considerato un privilegio
speciale, che viene ricercato fin dalle origini del cristianesimo,
perché si accompagna ad una promessa di sopravvivenza, garantendo
effettivamente la vittoria sull’oblio dopo la morte, anche per la
frequenza con la quale si celebravano le ricorrenze liturgiche per ricordare il
martirio dei santi vicini, in qualche modo comites del defunto. Il
credente poteva così sperare nell’aiuto miracoloso dei santi
sepolti a breve distanza da lui, che in qualche modo si sarebbero potuti
occupare della quies e della securitas delle ossa[62]
e della protezione della tomba, evidentemente destinata, quest’ultima, a
divenire essa stessa luogo di devozione e di preghiera e dunque protetta dalla
venerazione dei fedeli. Sono i santi vicini che intercedono presso il Signore in
favore dei defunti sepolti con loro e che un domani, arrivata l’ora del
giudizio finale, daranno al corpo l’impulso per rinascere nella
risurrezione[63].
Del resto il tema diventa una costante nell’epigrafia funeraria
già dal IV secolo: [intra l]imina sanctorum, ad sanctorum locum, in
hoc sanctorum loco, positus est ad sanctos, [ad] martyres, ad sancta(m)
martura(m), ad sanctum martyrem, ante specum martyrum, ecc., per restare
solo ad un primo elenco[64].
È stato osservato lucidamente che l’espressione “risuscitare
coi martiri” può essere intesa in senso spaziale (sepoltura a
fianco di loro), temporale (allo stesso tempo) e causale (grazie a loro)[65].
Per questo il martire Lorenzo si unirà al coro degli angeli che
sveglieranno l’arcidiacono Sabinus al momento della risurrezione, ut
du[lci sonitu r]esonans tuba caelitu[s][66].
Lupicinus a Vienne risorgerà assieme ai santi: resurrecturus
cum sanctis[67].
Per queste ragioni si arriva ad attribuire il merito della risurrezione ai
santi associati al defunto, come a Guadamur presso Carthago Nova, dove
il prete Crispinus affida la tomba alla protezione dei martiri, [ut
cu]m flamma vorax ve[n]iet comburere terras, ce[ti]bus s(an)c(torum)
merito sociato resurgam, hic vite curso anno finito [68].
Il tema della risurrezione nel giorno del giudizio è
ovviamente introdotto da Gv 6,44.55
«io lo risusciterò nell’ultimo giorno»
… «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avrà la vita
eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno»
ed esteso da San Paolo sul piano apocalittico[69]:
«ecco io vi annuncio un mistero: non tutti certo
moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter
d’occhio, al suono dell’ultima tromba», quando «i morti
risorgeranno incorruttibili e noi saremo mutati»[70].
Di conseguenza il tema ricorre, anche se non di frequente,
nelle epigrafi cristiane, con sensibilità differenti che risentono dei
miti escatologici, cosmici e millenaristici[71].
L’iscrizione di Olmedo richiama il giorno del
giudizio universale nell’aggettivo nova riferito alla lux
che accompagnerà i gaudia dell’ultimo giorno: altrove
compare il novissimus dies[72],
il dies ultimus[73]
ed il dies tremendus iudicii come ad esempio in un’iscrizione di Turris
Libisonis ancora in Sardegna[74];
a Roma l’epitafio dell'abbatissa Gratiosa contiene
l’espressione deprecatoria che tende a salvaguardare
l’integrità della sepoltura fino al momento della risurrezione:
coniuro per
Patrem et Filium et Spiritum S(an)c(tu)m et diem tremendam iudicii et nullus
praesumat locum istum ubi requiesco violare[75].
Discende da una cattiva lettura di un testo catanese
l’ipotesi relativa ad un dies determinatus, da intendersi come
giorno fissato per il giudizio universale[76].
L’epitafio urbano di Nundinarius e di Iusta ricorda l’adveniens
dies ad perpetuam [vitam][77],
mentre tra i Vocontii Dalmata, redento dalla morte di Cristo, attende il
giorno del giudizio con serenità grazie all’intercessione dei
santi: diem futuri iudicii intercedentebus sanctis letus spectit[78].
Infine in Gallia: surrecturus cum [dies] d(omi)ni advenerit[79].
Dunque il nostro documento conserva l’annuncio della
prossima venuta del Regno di Cristo, della conseguente risurrezione dei corpi
(oltre che degli spiriti) e la fede in un Paradiso caratterizzato dalle gioie
dell’ultima luce, dove i giusti godranno della beatitudine eterna.
Mi sembra vada sottolineato da un lato il collegamento tra
risurrezione della carne e l’avvento del regno messianico, ma anche il
tema della gioia e della luce (gaudia lucis nobae), aspetti che
potrebbero direttamente derivare in Sardegna da una lettura del De
resurrectione carnis di Tertulliano, che risale agli anni 209-212, nel
pieno dell’età severiana: in quella sede, in un momento veramente
precoce per la riflessione su tali tematiche, era ricostruito il dibattito
pagano intorno alla morte ed era ribadita la speranza cristiana nella
risurrezione, fiducia Christianorum est resurrectio mortuorum; ed erano
precisati i contenuti della fede: resurgit igitur caro, et quidem omnis et
quidem ipsa, et quidem integra. Del resto, «se tu attingerai a questa
fonte, tu non avrai sete di nessuna dottrina, e non sarai riarso di nessun
fuoco di questioni: sarai anche rinfrescato con la risurrezione della carne,
ogni volta che tu vorrai attingervi (resurrectionem quoque carnis
usquequaque potando refrigeraberis)[80].
Il refrigerium come è noto costituisce per i defunti
l’immagine della sorgente purissima, alla quale gli assetati si
dissetano, come una colomba sull’orlo di un vaso[81].
L’epitafio di papa Pelagio entra nei particolari
apocalittici del giorno del giudizio: «questo sepolcro rinchiude per
buona sorte il corpo terreno … Egli è certo di risorgere per il giudizio
e rapito dalla mano d’un angelo, occuperà la parte destra (surgere
iudicio certus dextramque tenentem angelica partem se rapiente manu)»[82].
Altri particolari sono quelli dell’epitafio
dell’arcidiacono Sabinus:
«qui all’ingresso (della basilica) ho posto la
sede per le mie ossa: sono certo di essere subito presente al momento del
giudizio, quando risuonerà la tromba celeste col dolce suono»[83].
Così Cinegius risorgerà sub iudice
Christo, [cum tuba terri]bilis sonitu concusserit orbem[84].
Partendo dai precedenti pagani[85]
e scritturistici, il riferimento alla risurrezione della carne è
frequente anche nel Corano, dove torna il concetto di giorno della risurrezione
(p.es. Sura XI, 100), ultimo giorno (II,8), giorno estremo (IIII, 114, XXIX,
36), Ora (p.es. VI, 40; VII, 186ss; XV, 85; XXII, 1ss), giudizio universale
(VI, 14; XV, 35; LI, 6, ecc.), giorno della Riunione (XLII, 6) o della
Discriminazione (fasl): allora le stelle si spegneranno ed il cielo si
spaccherà, i monti si sfasceranno (LXXVII, 7) e verrà soffiato
nel Corno (VI, 73), sarà dato fiato alle trombe (XVIII, 100), si
udrà il Grido (L, 42) e saranno usate le bilance ed i registri per
Il tema della potenza del Cristo risorto, «primizia
di coloro che sono morti e dormono» (in contrasto con la debolezza del Cristo
crocifisso) si fonda su precisi richiami scritturistici[87]
e sulle lettere ai Corinzi di Paolo[88],
che mettono in rapporto la risurrezione di Cristo con la risurrezione dei
cristiani attraverso il battesimo (celorum regnum sperate, hoc fonte renati)[89],
fondata sui particolari carismi loro concessi, «siccome in Adamo tutti
muoiono, così pure tutti in Cristo riavranno la vita»[90].
Del resto «Iddio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche
noi con la sua potenza (Deus vero et Dominum suscitavit et nos suscitabit
per virtutem suam)»[91].
Più precisamente il concetto apocalittico di Cristo che avvia la
risurrezione con il suo ritorno glorioso nel mondo (parousìa)
ricorre di frequente nell’epigrafia funeraria cristiana, come a Theveste
in Numidia in un’acclamazione che lo designa salutis princeps[92].
La risurrezione della nobile Claudia avverrà a Roma Chr(ist)i
munere, anima in carnem redeunte[93].
L’arcivescovo Agnellus nella Ravenna del VI secolo sa bene che i
giusti risorgeranno, grazie alla redenzione, cum s(an)c(ti)s Chr(ist)o
medicante [resurget] / sic quoque pro meritis gaudet[94].
Ritorna di frequente il concetto che la risurrezione avviene in Cristo o per
opera di Cristo: un chierico del titolo di San Clemente lo testimonia nella
tomba: [Christo p]raestante resurget[95],
come a Tolentino il prefetto Flavius Iulius Catervius e la sua sposa
insieme risorgeranno felici grazie all’opera di Cristo (surgatis
pariter Cristo praestante beati)[96];
così ad Aosta la sacra do(mino) puella Eusebia, cum quo re[surget][97].
Ad Aïn Ghorab in Numidia: C(h)risto i[ubente] resurgit[98].
La realtà della risurrezione è sottolineata dal ricorso
all’indicativo presente, il tempo della certezza e
dell’attualità, nell’epitafio di Discolius nel
cimitero di Priscilla, che già nel IV secolo afferma: «quando
verrà l’avvento (di Cristo) risorgo (cum venerit adventus
[(Christi)] / resurgo)»[99].
Bonifacio II papa ricorda che la risurrezione delle sue membra avverrà
nel momento in cui il Signore tornerà sulla terra: membra beata senex
Bonifatius hic sua clausit / certus in adventu glorificanda Dei[100].
Allo stesso modo il presbitero Victor, sempre a Roma, afferma di credere
che potrà godere giustamente per la venuta del Santo, adventum
s(an)c(ti) credo gaudere me iuste[101].
Il presbitero Vitalis a Sufetula dichiara la sua speranza: spes
michi multa manet, na[m te] venturum spero, d(omi)n(u)m, qui cuncta creasti
tibi, ut cinere[s] istos suscites ipse potens[102].
Va osservato che dal VT, il concetto è trasferito
nel NT ed addirittura nel Corano, se è vero che anche per Maometto
nell’ultimo giorno Gesù tornerà sulla terra alla vigilia
della fine del mondo (XLIII, 61). Del resto per il Corano Gesù, col
permesso del Signore, era stato in grado di far uscire i morti dalla tomba (V,
110); allo stesso modo il Signore come ha creato la vita potrà far
risuscitare i morti (VII, 56; XVII, 51; XXX,50) e sono da respingere le
perplessità degli increduli (L, 2ss).
L’espressione ipso dominante
dell’iscrizione di Olmedo mette l’accento sull’avvento del
Regno di Cristo, dopo il giudizio universale: allo stesso modo il vescovo
Alessandro a Tipasa, attende fiducioso l’avvento del Regno celeste,
quando potrà essere compagno dei santi più venerati:
corpus hic in pace quiescit / resurrectionem expectans
futuram de mortuis primam, / consors ut fiat sanctis in possessione regni
caelestis[103].
Un testo analogo nella vicina Cuicul, oggi Djemila,
per il rector Cresconius:
resurrectione(m) expectans futuram in Cristo corona /
consors ut fiat sanctis in sede regni caelestis[104].
In altri testi ritorna il concetto del Signore Creatore e
Giudice, che si esprimerà nell’ultimo giorno: il diacono Severus
ricorda che le membra della figlia sono custodite nella tomba per longum
tempum factori et iudici[105];
il vecchio Eufrasius risorgerà nel giorno del giudizio,
all’arrivo del Creatore: surr(e)c(turus) die, caelo cum venerit auctor[106];
e così anche Armentaria, surrictura, cum dies d(omi)ni
adve(ne)ri<t>[107].
Damaso, nell’elogio dei santi Felice e Filippo, ricorda lo scopo del
ritorno di Cristo ex aethere per giudicare i vivi ed i morti: iudicet
ut vivos rediens pariterq(ue) sepultos[108].
Il fondamento della risurrezione dei giusti è
ovviamente radicato sulla morte e l’avvenuta risurrezione di Cristo, con
l’ingresso o se vogliamo con l’irruzione della metastoria nella
storia: l’incarnazione di Cristo diede per Agostino una nuova dimensione
escatologica alla storia degli uomini, ritmata e finalizzata alla redenzione. A
partire da quel momento è Cristo con la sua azione vivificatrice a far
risorgere i defunti. Il tema della risurrezione storica di Cristo compare di
frequente sui monumenti cristiani[109]
e sporadicamente sulle iscrizioni[110],
come ad Adamclisi in Mesia inferiore, introdotto dal segno della croce[111]:
crux mort[is et] resurrect[ionis], con testo anche greco, stauròs
thanátou kaì anastáseos[112].
La croce è segno di redenzione e di salvezza e salus è
parola usata di frequente nelle iscrizioni per indicare la risurrezione futura[113].
Nelle Asturie in occasione della consacrazione di una chiesa (a. 737) ritorna
l’espressione resurgit, con riferimento alla croce di Cristo[114].
A proposito della croce come richiamo alla risurrezione pare interessante
ricordare, oltre che i già citati sarcofagi “di passione” o
“dell’Anastasis”[115],
alcune iscrizioni funerarie africane nelle quali ricorre, associata alla croce,
l’espressione: in hoc signum semper viv[es][116],
o in hoc signum vincimus[117].
Per completezza si ricorderà che la risurrezione del
Cristo compare con un singolare rovesciamento sulla terrificante tabula
plumbaea di Tragurium in Dacia (ora al Museo di Spalato), con le
imprecazioni contro il demonio signore del Tartaro, immondissimus spiretus
tartaruce, legato con catene di fuoco dall’arcangelo Gabriele, il
quale dopo la risurrezione di Cristo giunse in Galilea: [po]st
resurrecti[o]ne(m) vinist[i] in Galilea(m)[118].
Torna dunque il tema del regno di Satana, regno di peccato e dunque di morte,
agli antipodi del Regno di Cristo[119].
È invece Cristo che assegna i praemia che i
fedeli si attendono dopo la morte[120],
talvolta prima ancora del giudizio universale, se c’è chi dichiara
che [iuvan]te d(omi)no mutavit in me[liorem vitam][121],
giungendo precocemente alla vita eterna (vita perennis[122]
oppure vita perpetua[123]):
si comprendono perciò le acclamazioni vives in aeternum o simili[124],
che ricordano l’immortalità dell’uomo che ottiene la perpetua
requies.
Si deve osservare che il brano di Giobbe relativo alla
risurrezione non si limita a fornire l’immagine della pelle che si
formerà nuovamente intorno alle ossa, con un’espressione che
ricorda alla rovescia il mito di Marsia scorticato (rursum circumdabor pelle
mea)[126]
ma aggiunge un riferimento alla carne, dunque al corpo del defunto che
tornerà a vivere: et in carne mea videbo Deum, con un dualismo ed
una distinzione che riprende Gb 10,11 («di pelle e di carne mi hai
rivestito»). L’iscrizione di Olmedo sottolinea solo questo
secondo aspetto (rursus sua vivere carne), ricollegandosi idealmente ad
una solidissima tradizione scritturistica che utilizza il sostantivo
“carne” nel senso di “corpo”, “sangue”,
“corporalità” in opposizione a “spirito”,
“anima”[127].
In questo senso Celestino papa (422-432), praesul apostolicae sedis
venerabilis, riposa in un tumulo destinato ad ospitare solo il corpo,
mentre l’anima continua a vivere ignara della morte (mens nescia
mortis vivit): nella tomba riposano le ossa e le ceneri, ma nulla si perde
per la potenza del Signore, perché tutta la carne risorgerà: caro
cuncta resurgit[128].
Più precisamente le membra tutte del defunto risorgeranno alla fine
del tempo: membra [s]urgunt in tempore omnes[129].
Proprio tra le iscrizioni va ricordata la lode per la
nobile Claudia, nobilium prolis generosa parentum, sepolta a Roma, che
risorgerà quando l’anima si ricongiungerà col corpo, lei
che è veramente degna della beatitudine eterna, grazie all’opera
di Cristo:
hinc anima in carnem redeunte resurget
aeterni Chr(ist)i munere digna bonis[130].
Il cubiculario della basilica di San Paolo Decius
può inoltre dichiarare:
«qui riposa la mia carne, credo
che risusciterà per opera di Cristo nell’ultimo giorno»[131].
La risurrezione della carne è
presentata nella Passio di Santa Cecilia con un’immagine pagana
ancora vitale e variamente ripresa nell’arte paleocristiana: il corpo
risorgerà dalla polvere come una mitica fenice, il favoloso uccello
egiziano che risorge dalle ceneri ogni 500 anni, già scintillante della
luce futura: sicut Phoenix futuri luminis aspectu resurgat[132].
Il modello pagano è evidente se si pensa a CLE 1318, 5s:
set tamen ad Manes foenix me serbat in ara / qui mecum
properat se reparare sibi[133].
Oppure alla dedica di Satafis,
relativa ai balnea della città africana: [post fla]mmas
cinere[squ]e suos nova surgere foenix … [h]onos iste resurget.[134]
Del resto i fedeli percepiscono la risurrezione come il
ricongiungersi dell’anima al corpo. Il diacono Severus ricorda la
figlia defunta, sepolta nel cimitero di Callisto, con queste parole:
«il suo corpo è qui
sepolto finché non risorgerà (donec resurgat); e il
Signore che (a lei) rapì col suo santo spirito l’anima casta,
pudica e per sempre inviolabile, di nuovo gliela renderà piena di gloria
spirituale»[135].
Viceversa al momento della risurrezione la terra
restituirà il corpo che ha fatto proprio, come crede Gregorio Magno,
pensando all’azione del Signore che saprà ridare la vita alle
membra del defunto:
«ricevi, o terra, il corpo preso dal tuo corpo, sii
pronta a renderlo quando Iddio lo vivificherà»[136].
A Kairouan in Tunisia si augura ad un anonimo defunto che
ascolti la voce del Signore e risorga alla vita eterna assieme ai santi tutti: audiat
bocem(!) D(omi)ni et resurgat in bita(!) (a)eterna cum omnibus s(an)c(t)is amen
am(en) am(en)[137].
La formula compare alla lettera in altri due casi ancora dalla stessa
località africana[138].
Così ad Olmedo il corpo del diacono Silbius tornerà a
vivere per opera del Cristo.
Si segnala in qualche epitafio la speranza degli sposi di
risuscitare in contemporanea, allo stesso momento: così Praenestina e
Verus, concordes animas Christ[u]s revocabit in unum[139];
così il prefetto del pretorio Flavius Iulius Catervius e sua
moglie Septimia Severina: surgatis pariter Cristo praestante beati![140].
L’immagine del Paradiso cristiano, ben diversa da
quella dell’Ade e degli umbratili Campi Elisi pagani[141],
è quella di un regno di luce, dopo l’oscurità del sepolcro[142]:
i gaudia lucis nobae dell’epitafio di Olmedo vanno ovviamente
intesi nel senso delle gioie dell’ultima luce di Cristo nel Paradiso
immaginato come luogo luminoso di gloria e di felicità:
un’immagine ben diversa da quella, decisamente più articolata,
contenuta nel Corano[143].
È stata richiamata l’immagine della nuova luce del Regno di Cristo
(il regnus futurus)[144],
come certezza di fede espressa nelle iscrizioni, tema che si ricollega innanzi
tutto alla risurrezione di Cristo, come a Milano nel testo di
Sant’Ambrogio presso il battistero di Santa Tecla, anteriore al 397:
luce resurgentis (Cristi) qui claustra resolvit mortis et e
tumulis suscitat exanimes confessosque reos maculoso crimine solvens[145].
Esso ricorre di frequente negli epitafi cristiani, specie
con riferimento alla vita ultraterrena: «è la sorte che scioglie i
catenacci del carcere umano, ma essa non può trattenere l’anima
che vive nella luce»[146],
perché – scrive il papa Caelestinus - «l’anima
non conosce la morte, vive e gode coscientemente della presenza di Cristo (mens
nescia mortis vivit et aspectu fruitur bene conscia Christi)»[147].
Il tema appare molto precoce, se il 22 febbraio 397 del defunto Severianus
si dice:
«il suo spirito è stato accolto nella luce del
Signore»[148].
A Roma si ricorda che Insteius Pompeianus, arrivato
in età costantiniana in sinus summi genitoris, ora può
godere per sempre dell’ultima luce: felix luce nova saeclorum in saecula
gaudet, perché l’anima si è innalzata fino al cielo (aethera
pervolitans levibus se sustulit alis), con una reminiscenza virgiliana[149].
Così Sesto Anicio Probo alla fine del IV secolo è accolto nella
luce di Cristo: nunc proprior Christo sanctorum sede potitus / luce nova
frueris, lux tibi Christus adest[150].
Il vescovo Spes a Spoleto dopo aver meritato la beatitudine celeste (aeternam
caelo meruit perferre coronam), esprime una preghiera: hunc precor, ut
lucis promissae gaudia carpam[151].
Anche l’epitafio di Regina, che si colloca forse addirittura nel
III secolo, ricorda: rursum victura, reditura ad lumina rursum[152].
Un’iscrizione di Turris Libisonis ricorda per
la defunta Matera il collegamento alla luce eterna[153]:
cui lux erit perenni circulo ful<g>ens, espressione che non
può propriamente essere intesa nel senso che la defunta splenderà
ancor più in Paradiso a gloria di Cristo[154],
nel cerchio dei santi[155]:
è vero che nel giorno del giudizio i buoni tutti risplenderanno di
gloria come scintille sulla paglia, fulgebunt iusti et tamquam scintillae in
harundineto discurrent[156].
In realtà porrebbe qualche difficoltà intendere che la defunta
possa dare luce al Cristo[157],
dato che è il Signore Dio che fuga le tenebre e fa splendere la sua luce
sui giusti: Et nox ultra non erit: et non egebunt lumine lucernae neque
lumine solis quondam dominus Deus illuminabit illos et regnabunt in saecula
saeculorum[158].
Teologicamente meno imbarazzante (il Signore non riceve la claritas
dagli uomini)[159]
sarebbe in realtà intendere il cui riferito a Matera, con
una variatio per quem, nel senso che in futuro su di lei
sarà una luce scintillante (la luce di Cristo) con un’aureola
perenne (perenni circulo)[160].
Si tratterebbe dunque dello splendore dell’anima beata, simile a quello
degli astri, secondo un’immagine radicata già nel VT e poi nel NT[161].
Né va escluso un riferimento alla lux della sfera delle stelle
fisse (se intendiamo il circulus per il nostro “cielo”), che
riprenderebbe un concetto neopitagorico e neoplatonico relativo alle sfere
celesti e alla beatitudine nell’aldilà, concetto già
presente nel ciceroniano Somnium Scipionis[162]
e ripreso non solo da Macrobio in ambito pagano, ma anche da autori come
Ambrogio in ambito cristiano[163].
Vogliamo qui ricordare l’augurio di Euentianus per
la moglie a Milano, ut paradisum lucis possit videre[164].
Con l’immagine della luce eterna, «epinoia» di Cristo,
si esprime l’idea dell’eterna beatitudine celeste riservata ai
giusti[165]:
il tema ricorre ampiamente nelle opere di Lucifero di Karales: ... et
lumine in illo perenni semper futuri sumus[166],
... in cupidinem perpetuae lucis[167],
soprattutto con riferimento alla risurrezione: ... et bene praesumentes quod
ad lucem vitamque perennem etiam corpora sint resurrectura[168].
La lux aeterna illumina il refrigerium del
defunto che si disseta in Cristo[169]
e richiama il tema del Paradiso oltre la morte: a Karales, nel cimitero
di Bonaria, compare nell’arcosolio di Munazio Ireneo la risurrezione di
Lazzaro[170]
e la rappresentazione di un ambiente paradisiaco, un giardino fiorito con
festoni e uccelli svolazzanti e due pavoni affrontati[171].
Immagini della risurrezione compaiono già
nell’Antico Testamento, come a proposito del segno di Giona, che ricorre
nelle rappresentazioni artistiche paleocristiane, rimasto per tre giorni e tre
notti nel ventre di un mostro marino, devoratus a belva maris[172],
icona della risurrezione del Figlio dell’uomo, disceso per tre giorni
agli inferi[173];
già nel III secolo, partendo dalla riflessione di Tertulliano e
più tardi con maggiore ampiezza con Agostino, Giona diventa segno
profetico di Cristo risorto[174]
e della rinascita dell’uomo attraverso il battesimo[175]:
è ben conosciuto il repertorio iconografico di Giona che, gettato dalla
balena sulla spiaggia, si riposa sotto un albero (un ricino oppure una pianta
di zucca), interpretato come il refrigerium in attesa della risurrezione[176].
La vivacità dell’immagine è testimoniata dal fatto che
anche nel Corano l’episodio di Giona ingoiato da un cetaceo è
riconosciuto come simbolo della risurrezione (XXXVII, 139ss).
Allo stesso modo la vicenda di Lazzaro è annunzio e
promessa della risurrezione generale degli uomini alla fine dei tempi[177]:
la sua risurrezione è certamente la scena più diffusa,
particolarmente frequente soprattutto sulla fronte dei sarcofagi; è
interessante notare che già Tertulliano[178]
definisse il miracolo della r. di Lazzaro: praecipuo resurrectionis exemplo,
il che ne spiega la precoce diffusione nell’arte (non è inoltre da
trascurare, in proposito, che si tratta di una immagine facilmente e
immediatamente “leggibile”, grazie all’iconografia che la
caratterizza, con Lazzaro avvolto ancora nelle bende e raffigurato davanti al
sepolcro). Altri episodi di risurrezione sono quelli relativi al profeta Eliseo
che, vivo, risuscita il figlio di una donna Sunamita[179]
e, morto, risuscita un cadavere deposto per errore nella sua tomba, durante
un’invasione dei Moabiti[180].
Sebbene meno frequenti, non mancano riscontri figurati anche per altre scene di
risurrezione riferite nel NT, cioè la r. del figlio della vedova di Naim
(raffigurazione nota solo sulla fronte dei sarcofagi e non in pittura[181],
la r. della figlia di Giairo (comunque molto rara, forse perché non
facilmente decodificabile)[182],
la r. di Tabitha operata da Pietro (anche questa raffigurazione è
comunque rara e presente quasi esclusivamente sui sarcofagi)[183].
È nota infine una risurrezione operata da Paolo in Macedonia degli
Apostoli collegati alla risurrezione dei morti[184].
Anche la scena di Daniele nella fossa dei leoni,
frequentemente ripresa nella pittura e nella scultura paleocristiane, è
simbolo della risurrezione[185].
Il campione che rappresenta coloro che non potranno
risuscitare è Giuda, il traditore: si è già detto degli
anatemi che augurano a chi profanerà una tomba venerata una sorte analoga
a quella di Giuda maledetto. A puro titolo esemplificativo si può vedere
il caso del presbitero Dominicus, addetto alla basilica di San Vitale
martire a Ravenna:
et si quis hunc sepulchrum violaverit, partem abea<t>
cum Iuda traditorem et in die iudicii non resurgat, partem suam cum infidelibus
ponam[186].
L’attesa fiduciosa e talora spasmodica della
risurrezione della carne caratterizza il sonno dei fedeli nella morte: ad Aosta
Engebualde femina [religios]a è stata sepolta nella speranza della
risurrezione e della vita eterna: in spe resurrect[ionis] vit(a)e aeternae[187].
A Vienne Matrona, morta a 32 anni, riposa in spe resurrecxiones
meserecordiae (Christi)[188];
allo stesso modo Gundiisclus fu sepolto nell’anno
huius anima refrigerat, corpus hic in pace quiescit, /
resurrectionem expectans futuram de mortuis primam, / consors ut fiat sanctis
in possessione regni caelestis[193].
Anche la puella virgo sacra Alexa[ndra] accolta in
cielo ha meritato di incontrarsi con Cristo perché era degna di ottenere
il premio eterno della risurrezione, proprio alla vigilia della Pasqua, sabato
26 marzo 449,
[die sabb]ati vigilias sacras:
[recep]ta caelo meruit occorrere (Christo) ad resurrec[tionem praemium
aet]ternum suscipere digna[194].
Qui si tratta dunque di un tempo passato, così come
talora al passato è riferita la speranza collocata nella vita terrena
del defunto, come a Chiusi alla fine del V secolo per Laurentia l(audabilis)
f(emina), che riposa in pace: quae credidit resurrectionem[195].
Altre volte la speranza diventa certezza nella futura
risurrezione, professata in particolari ambienti, con una concentrazione in
particolare nelle necropoli di Vienne in Gallia Narbonensis: il bimbo Iniuriosus
morto a 4 anni, ricordato dalla madre Euladia, risorgerà in
Cristo: resurrecturus in (Cristo)[196],
come il suddiacono Nigrinia[nus] ed il bimbo Dulcitius[197].
Allo stesso modo la devota Ananthailda sanctimonialis, pauperibus largam,
cui il Signore concederà l’eterno riposo, resurrectura in pace[198];
così la bimba Valeria ancora a Vienne[199].
In qualche caso si constata la realtà della
risurrezione: il famulus Dei Uranius, morto a 43 anni, risorge in
Cristo ancora a Vienne (resurgit in Cristo d(o)m(ino) n(ostro))[200],
così come Severianus, morto a trentadue anni nel 491, dopo aver
abbandonato sulla terra i terrena membra e dopo che l’anima si
è ricongiunta col Signore, anima ad authorem d(o)m(inum) remeante:
resurgit in (Christo) d(o)m(in)o nostro[201];
così Lopa, morta a 50 anni d’età (resorge in
Cristo)[202]
o l’anonimo morto a trent’anni che [resurg]et in (Cristo)[203];
ma forse si tratta di un tempo futuro, come a Theveste in Numidia,
dove Casthe sanimoniale (da intendersi sanctimonialis) ricorda
che nessuno deve soffrire invidiando la sua morte: et [tu] in (Christo)
resurges[204];
ad Aquincum un gruppo di defunte anonime saranno risuscitate insieme dal
Signore, qui suscitabit[205].
Conosciamo numerosi altri casi di epigrafi che fanno
riferimento alla risurrezione: è celebre l’invocazione che compare
su un’iscrizione incisa sull’epistilio del tempietto del Clitunno a
Spoleto, che esalta nel V secolo il dio degli angeli, dei profeti e degli
apostoli, autore della risurrezione, della redenzione e della remissione dei
peccati: il s(an)c(tu)s deus angelorum, qui fecit resurrectionem, il s(an)c(tu)s
deus profetarum, qui fecit redemptionem ed il s(an)c(tu)s deus
apostolorum, qui fecit remissionem[206].
Papa Damaso dichiara solennemente ed un poco
perentoriamente nel proprio epitafio la fede nella risurrezione di Cristo e
nella potestà del Signore di far risorgere i giusti, fondata sulla
Pasqua: «Colui che camminando calcò le onde tumultuose, Colui che
ridona la vita ai semi che muoiono sotto terra, Colui che poté
sciogliere i lacci letali della morte dopo le tenebre, il fratello dopo tre
giorni ridare di nuovo tra i viventi alla sorella Marta, credo che dalle ceneri
farà risorgere Damaso», post cineres Damasum facies quia
surgere credo[207];
da cui, Felicia nel suo epitafio: <t>unc cineres (i)sti mundo
pereunte resurgent[208].
Gasperini in questo caso ritiene che si tratti di «riecheggiamenti
meramente concettuali»[209],
anche se si deve osservare che appare significativa la formula di un atto di fede,
che viene introdotta dal credo anche in altri casi, come a Nola per un vescovo
ed un presbitero: credo resurgere[210]
ed a Capua: credo me resurgere ante creatore(m) meu(m)[211].
Si veda infine il credo vivere D(o)m(inus) dell’epitafio capuano
di Bonechis (IX secolo)[212].
Si è già detto dei testi che richiamano Gb 19,25s presentati
anch’essi come atti di fede (credo), una fede nella promessa della
risurrezione futura: [futurae] resurrectionis promissa [praemia][213].
Un’iscrizione frammentaria di Tarragona ricorda che [Rus]icus
è morto creden[s resur]rictionem in vita aeterna[214],
come un suo vicino [s]ecurus r[esurre]ction[em][215].
Infine a Roma, un testo frammentario ricorda la dichiarazione di fede nella
vita eterna di un defunto anonimo: [post obi]tum resurge[re credo ?], Cristo
pre[stant]e[216].
A proposito della fede (credo) nella risurrezione
della carne e del premio che ne deriva è interessante una iscrizione su
mosaico dalla basilica di Alessandro a Tipasa (che riecheggia in alcuni
elementi del formulario quella dello stesso vescovo Alessandro, già
citata): Resurrectionem carnis / futuram esse qui credit / angelis in caelis
re/surgens similis erit (dove si noti l’uso del futuro, ad esprimere
la certezza dell’evento al quale si fa riferimento)[217].
Il tema può essere studiato anche nel suo sviluppo
nel tempo, ordinando da un punto di vista cronologico le circa cento iscrizioni
latine che parlano di risurrezione. A giudizio di Gabriel Sanders i casi
più antichi, riferiti al IV secolo, non sono più di una decina[218].
Da collocare nel III secolo dovrebbe essere solo l’epitafio di Regina,
forse cristiano,
rursum victura, reditura ad lumina rursum: / nam sperare potest
ideo, quod surgat in aevom / promissum, quae vera fides, dignisque piisque, /
quae meruit sedem venerandis ruris habere[219].
Segue, attorno al 300, l’epitafio della figlia del
diacono Severus, il cui corpo riposa nella quiete della tomba, donec
resurgat ab ipso (domino)[220].
Al 382 (Antonio et Siacrio cons(ulibus)) risale
l’epitafio di Theodora, morta a 21 anni, che ora attende il
Signore della risurrezione: expectatque deum superas quo surcat ad auras,
con una vaga reminiscenza lucreziana[221].
Prima del 384 fu redatto l’epitafio di Papa Damaso[222].
Alla fine del IV secolo ci riporta l’epitafio piceno del prefetto del
pretorio Flavius Iulius Catervius e di sua moglie Septimia Severina,
con l’augurio di una risurrezione comune: surgatis pariter Cristo
praestante beati![223].
Attorno al 400 si colloca l’epitafio di Anastasia, hanc placuit
deo raptam adsumere[224],
il cui nome ricorda la risurrezione: Anastasia secundum nomen credo
fut[uram][225].
Agli anni 410-420 infine andrebbe riferito il citato epitafio di Cinegius
che riposa in pace in gremio Abraham[226].
Lo scarso numero di epitafi che trattano della vita futura
dei credenti è spiegato generalmente con le caratteristiche
dell’epigrafia funeraria cristiana, destinata a tracciare un aspetto
della vita quotidiana e magari non direttamente interessata a tematiche di tipo
escatologico. In effetti si tratta di una categoria di testi che riflettono
esperienze personali dei dedicanti, anche in materia di fede, ma sempre con un
orizzonte circoscritto e precisi limiti legati al mezzo espressivo, alle
circostanze della dedica, alla competenza dei dedicanti e se si vuole anche di
coloro che leggeranno il messaggio. Ciò spiegherebbe l’attenzione
per questa problematica che si manifesta soprattutto tra i chierici e meno tra
i semplici fedeli.
Al di là di questi limiti, la documentazione
epigrafica rappresenta un materiale prezioso e di prima mano per conoscere il
processo di trasformazione e di arricchimento del dogma cristiano della
risurrezione, con la possibilità di tracciare non solo
un’evoluzione nel tempo, ma anche la geografia di una particolare
sensibilità al tema a seconda delle realtà territoriali, sociali
e culturali.
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Exaltation in Old Testament, Ancient Judaism and Early Christianity,
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note di revisione critica sul metodo di individuazione della fenice
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(Mediterraneo tardoantico e medievale, Scavi e ricerche, 8), S’Alvure
ed., Oristano 1990, 211-214.
[1] Ringrazio il prof. Antonio Corda, la dott.ssa Anna Maria Nieddu,
il prof. Salvatore Panimolle, il prof. Francesco Sechi, il Mons. Antonio F.
Spada, il prof. Pier Giorgio Spanu e la prof. Cinzia Vismara per i numerosi
suggerimenti e controlli. Come di consueto, nel corso della ricerca ho potuto
godere della preziosa ospitalità dell’Ecole Française de
Rome, grazie alla costante disponibilità del direttore, il prof. Michel
Gras, che mi onora di un’antica amicizia.
[2] Per tutti da ultimo Marcheselli-Casale,
Risorgeremo, ma come?, Bologna 1988; AA.VV., Auferstehung=Resurrection,
Tübingen 2001; Id., Resurrection
in the New Testament, Leuven 2002; Becker,
La resurrezione dei morti nel cristianesimo primitivo, Brescia 1991; Bonino, Résurrection de la
chair ou immortalité de l’âme?, 59-64; Davis-O’Collins, La
risurrezione, Roma 2002; Guardini,
Le cose ultime, Milano 1997; Mckenna,
Ad Morning came, Lanham 2003. I titoli abbreviati sono riportati per
esteso nella bibliografia finale.
[3] Cf. Refoulé,
Immortalité de l’âme et résurrection de la chair,
11 ss.; Sanders, Les
chrétiens face à l’épigraphie funéraire
latine, 149.
[4] La lastra marmorea proviene più che da Cagliari (index
Taur.) da Olmedo (L. Baille, Manoscritto
inedito conservato presso
[5] «Scio enim quod Redemptor meus vivat / et in novissimo de
terra surrecturus sim / et rursum circumdabor pelle mea / et in carne
mea videbo Deum meum». Biblia sacra iuxta Latinam linguam vulgatam
versionem ad codicum fidem, iussu Pii XII, cura et studio monachorum Abbatiae
Pontificiae Sancti Hieronymi in Urbe Ordinis Sancti Benedicti edita, Libri
Hester et Iob, Romae MDCCCCLI, 143. Una traduzione leggermente differente ma
non esatta («hor, quant’è a me, io so che ‘l mio
Redentor vive e che nell’ultimo giorno egli si leverà sopra la
polvere / e quantunque, dopo la mia pelle, questo corpo sia roso, pur
vedrò con la carne mia Iddio») in
[6] «Credo quod Redemptor meus vivet et in novissimo die de
terra sussitabit pelem meam et in carne mea videbo Dominum». Hübner, Inscriptiones Hispaniae christianae,
Berolini 1871, n. 95; ILCV 2399; Vives,
Inscripciones cristianas, 241. Cf. anche Testini, Archeologia cristiana,
431.
[7] Gasperini, Su un
epitafio catinense, 63 ss., a proposito di G. Manganaro, Iscrizioni latine nuove e vecchie della
Sicilia, in «Epigraphica» 51(1989),175 s nr. 49. Per la
data, Gasperini, Id., 68.
[8] P. Porta, Una
lastra marmorea inedita, 219ss; L’année épigraphique
(=AE) 1974, 333, per una prima rettifica del testo, Gasperini, Id., 64 n. 3. Cf. anche Sanders, L’idée du
salut, 241.
[9] L.A. Muratori, Novus
thesaurus veterum inscriptionum in praecipuis earumdem collectionibus hactenus
praetermissarum, IV, Mediolani 1742, MCMLV, 1, cf. Gray, The Palaeography of Latin Inscriptions, 82 nr.
51; Gasperini, Id., 65 nt. 4.
[10] Cf. Ferrua, Gli
anatemi dei padri di Nicea, 383 ss; per il numero dei padri conciliari di
Nicea (proprio 318 e non 365), cf. Dossetti,
Il simbolo di Nicea, 241. Cf. Mastino,
L’indizione in due iscrizioni, 608 ss.; Zucca, Le formule deprecatorie nell'epigrafia, 211 ss.
[11] Cf. Gasperini, Le
scoperte epigrafiche, 152 ss. nr. 39; Id.,
Su un epitafio catinense, 65 s. e n. 5.
[14] Per minister nel senso di diacono, cf. Mastino,
[15] Janssens, Vita e
morte, 274. Un giudizio analogo è in Sanders, L’idée du salut, 246, che
osserva la scarsità della documentazione epigrafica relativa sia alla
risurrezione di Cristo che a quella dei defunti.
[17] Papa Damaso in Inscriptiones Christianae Urbis Romae (=
ICVR) IV,
[20] ICVR II 5569: [---] aeternae vi[t]ae merui[t] post fata
tri[umphum ---]o, sic corpus terris vitam, sic tradidit a[stris].
[25] ICVR I 1477: lux fugitiva suae complecvit tempor[a vitae],
redditur hec meritis, quae sine fine m[anet].
[27] ICVR VI 15868, cf. Ferrua,
Lavori nella catacomba, 72 ss. Una rilettura
dell’iscrizione è stata proposta da Ch. Pietri, D’Alexandrie à Rome. Jean Talaïa émule
d’Athanase au Ve siècle, in Alexandrina. Héllenisme,
judaïsme et christianisme à Alexandrie. Mél. P. C.
Mondesért, Paris 1987, 277ss.
[28] ILCV 3420, 5s = ICVR VI
[29] ICVR IV, 11328. Allo stilo di Papa Damaso dobbiamo
l’espressione quem sibi cum raperet miglior tunc regia caeli (ICVR
IV, 12417 v. 11), cf. subito rapuit sibi regia caeli (ICVR IV, 12417).
Cf. anche ICVR IV 11444; V 13807, 13824; VII 18160.
[32] ICVR I 3940: [ani]ma dulcis, concupitus a dominu Ch(risto);
II 61390, v. 1: adspiravit infanti deus aelectae puell[ae]; cf. I 3624,
v. 3: electa a deo.
[34] ICVR VII 17106. Cf. II, 4226 e VI 15874. Cf. CIL III 9631 = CLE 1438: sede beatorum
recipit te lacteus orbis, cf. Prévot, Les inscriptions
métriques, 369 = 377, nr. 5.
[35] Il tema non può essere sviluppato in questa sede. A puro
titolo esemplificativo cf. Bisconti,
La pittura paleocristiana, 33ss; Villette,
La résurrection du Christ, Paris 1957; Wilpert, Pitture delle catacombe romane, 284; Id., I sarcofagi cristiani antichi,
302.320.
[37] Per l’evoluzione del tema e una rassegna di raffigurazioni
si rimanda a Bisconti, Letteratura
patristica ed iconografia paleocristiana, 392; De Ruyt, Études de symbolisme, 164-169; H. Lother, Der Pfau in der
altchristlichen Kunst, Leipzig 1929.
[38] In particolare cf. Bisconti,
Aspetti e significati del simbolo della fenice nella letteratura, 21
ss.; Id., Lastra incisa
inedita dalla catacomba di Priscilla, 43 ss.; Id., La fenice nell’arte aquileiese, 529 ss.
[39] Per i vari significati della palma nell’iconografia
paleocristiana, che ne assume l’immagine anche per il suo richiamo alla
rigenerazione, si veda in sintesi P. De
Santis in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F.
Bisconti, 238 s.v. «palma».
[40] La risurrezione di Cristo potrebbe essere citata ad Hadrumetum
in Africa in ILTun. 199: in d(ie) XII r(esurrectionis ?) do(mi)ni.
[41] Per questi sarcofagi si veda A.R. Saggiorato, I sarcofagi
paleocristiani con scene di Passione,
Bologna 1968.
[42] Per una rassegna di testi si veda L. Gambassi, in Temi di iconografia paleocristiana, a
cura di F. Bisconti, 253, s.v. “pesce”.
[47] Cf. Leonardi,
«Ampelos», Roma 1947 e, in sintesi, M. Guy, in Temi di iconografia
paleocristiana, a cura di F. Bisconti, 306 s.v. “Vite”.
[48] Sul quale cf. Brelich,
Aspetti della morte nelle iscrizioni sepolcrali dell’impero romano,
Budapest 1937 (rist. 1964), 5
ss.; Février, La tombe
chrétienne et l’au delà, 163ss; Id., La mort chrétienne, 881ss; Id., La mort, les morts et
l’au-delà, Caen 1987; Rebillard,
In hora mortis. Evolution de la pastorale.
[49] ICVR II,
[56] Traduz. di A. Quacquarelli,
in: Collana di testi patristici, nr. 8, Città Nuova editrice,
Roma 1977, 26.
[62] La preoccupazione della protezione della tomba dalle devastazioni
è già dei pagani: cf., a puro titolo esemplificativo, Mastino, Le iscrizioni rupestri del templum,
541 ss.
[64] Grossi Gondi, Trattato,
256 s.; ancora Carletti,
Nascita e sviluppo del formulario epigrafico cristiano, 157 s.; Id., “Quod multi cupiunt
et rari accipiunt”. A proposito di una nuova iscrizione, 111 ss.
[66] ICVR VII 18017 = ILCV 1194 = CLE 1423, ma nella lettura di Janssens, Vita e morte del
cristiano, 273.
[68] ILCV 3483 = CLE 724 (728 ?) = Vives, ICERV 93 nr. 293 = IHC 158 = Hispania
Antiqua epigraphica XI 575 , cf. Duval,
Auprès des saints corps et âmes, 197 ss.
[69] Cf. J. Holleman, Resurrection
and Parousia: a Traditio-Historical Study of Paul’s Eschatology in 1
Corinthians 15, Leiden 1996; M.
Teani, Corporeità e risurrezione: l’interpretazione di 1
Corinti, 15, 35-49 nel Novecento, Morcelliana, Roma-Brescia 1994.
[71] Cf. Tristan,
Les premières images chrétiennes, 459ss. Per l’Apocalisse, Id., 475ss. Cf. inoltre Janssens, Vita e morte del cristiano,
273 ss.
[73] ICVR I 3847. Il presbitero Victor scrive sulla tomba:
«il corpo, cui era legata la vita, viene ridato alla terra. Il mio
spirito e la mia anima attendono il giudizio dell’ultimo giorno (sp(iritu)s
animaque mea expecta[t] die ultimo causa(m))».
[81] Cf. Grossi Gondi, Trattato,
225 ss.; ora Marinone, I riti
funerari, 71 ss., con diversi riferimenti ai testi letterari ed epigrafici,
ai contesti monumentali e con indicazioni bibliografiche specifiche; Parrot, Le “Refrigerium”
dans l’au-delà, passim.
[83] «Ossibus hic posui sedes in limine primo / iu[di]cii
tempus certus adesse cit[o] / ut du[lci sonitu r]esonans tuba caelitu[s]»:
ICVR VII 18017 = ILCV 1194 = CLE 1423, ma nella lettura di Janssens, Vita e
morte del cristiano, 273.
[85] Cf. Martimort,
La fidelité des premiers chrétiens aux usages, 167ss; Toynbee, Morte e sepoltura, 17
ss. Per l’immagine della rinascita dopo la morte in
ambiente pagano, cf. Brelich, Aspetti
della morte, 39 ss. Sanders, L’idée
du salut, 246, elenca le pochissime iscrizioni pagane dei CLE che potrebbero
conservare un riferimento alla risurrezione dei morti: 98, 9-11: quam siqua
pietas insitast caelestibus, / viventi ingenio soli et luci reddite, / altoris
memorem; 1144, 7: me quem nulla dies poterit visura renasci;
soprattutto 1318, 5s: set tamen ad Manes foenix me serbat in ara / qui mecum
properat se reparare sibi.
[86] Per l’inferno nelle iscrizioni latine paleocristiane, vd. ad
es. Vives, ICERV, 86 nr. 281: seba
Gehenna.
[88] Soprattutto 1Cor 15 e 2Cor 13, 2-4 («Egli non è
debole nei vostri riguardi, ma potente tra di voi»), cf. Holleman, Resurrection and Parousia;
W.A. Meeks, I Cristiani dei primi secoli. Il
mondo sociale dell’apostolo Paolo, Bologna 1992, 444; Teani, Corporeità e
risurrezione.
[93] ILCV 163 = CLE 1435 = ICVR VII
[95] ICVR VII 18160, v. 6. Cf. anche ICVR III 8179: Cristo
pres[tante --- it]erum resurger[e], cf. ILCV 3462: [post obi]tum
resurge[re credo ?].
[99] E. Rodríguez Almeida,
Nuevo estudio sobre la epigrafia de la catacomba de Priscilla (tesi di
laurea al PIAC), Roma 1968 (dattiloscritto) 76 n. 18 (non vidi), cf. Janssens, Vita e morte del cristiano,
273 n. 340.
[105] ICVR IV 10183= CLE 656 = ILCV 3458. Cf. anche l’epitafio di Helpis,
originaria della Sicilia: iudicis aeterni testificata thronum, CLE 1432
= ILCV 3484.
[108] ILCV 1957, v. 3 = A. Ferrua,
Epigrammata damasiana, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana,
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[109] Cf. Villette,
La résurrection du Christ. Cf. supra,
n.
[111] Per l’evoluzione del significato della croce nell’arte
paleocristiana, rimando alla voce “croce” di A.E. Felle, in Temi di iconografia
paleocristiana, a cura di F. Bisconti, 158ss.
[112] CIL III 1421418 = ILCV 3465, cf. C.
Cecchelli, Il trionfo della croce. La croce e i santi segni prima e
dopo Costantino, Roma 1954; Doelger,
Beiträge zur Geschichte des Kreuzzeichens, 5 ss.; 8 s. (1965-66) 34
ss.; Wilpert, La fede della
Chiesa nascente, 62ss.
[116] Da Cartagine: CIL VIII, 1106 = ILCV 1623 adn. = ILTun 885; edita più di recente da Ennabli, Les inscriptions
funéraires chrétiennes de Carthage, 113, n. 91.
[117] Sempre Ennabli, Id.,
133s, n. 164; uguale espressione in un’altra iscrizione al museo del
Bardo: Id, Catalogue des
inscriptions chrétiennes, 146, n. 101.
[118] CIL III p. 961, XXVI, l. 7 = ILCV 2389 = A. ed J. Sasel, Inscriptiones Latinae quae in
Jugoslavia … repertae et editae sunt, Ljubljana 1963-1986 (=
ILJug) III, 2792.
[119] 1Pt 5,8, cf. H. Kruse,
Das Reich Satana, in «Biblica» 58(1977), 26ss; Sanders, L’idée
du salut, 247 e n. 76.
[120] CIL XII 2160 = CLE 1426 = ILCV
[122] P.es. in ILCV
[124] P. es. ILCV 3491 A: vives in heaeternu; 3491 B: vibes in
eternum; 3491 C: vibis in eterno, ecc.
[126] Cf. la traduzione de
[127] Cf. ad es. Concordanza pastorale della Bibbia, a cura di G.
Passelecq e F. Poswick, EDB, Bologna 1974, 185ss.
[131] [Hic q]uiescit caro mea no[vissimo vero die per] Chr(istu)m
credo resusc[itabitur], ICVR II
[132] Cf. H.
Delehaye, Étude sur le légendier romain Passio Sanctae
Caeciliae, in BHL 1495, 212s nr. 22; Duval,
Auprès des saints corps et âmes, 199. Per l’immagine
della fenice nell’arte cristiana, cf. supra n. 38.
[133] Cf. Christol,
L’image du phénix sur les revers monétaires, 82ss; J. Martin, Hadrien et le
Phénix. Propagande numismatique, in Mélanges W. Seston,
Paris 1974, 327ss.
[134] CIL VIII 20267 = ILCV 229 = CLE 1802 = CLE
1911 = AE 1909, 126 = 1999, 1758. Per un confronto
cristiano, cf. i balnea parva restaurati a Ravenna da Victor
apostolica tutus virtute sacerdos: ut cultus maiorque resurgat ab imo (CIL
XI 263, Ravenna).
[136] «Suscipe, terra, tuo corpus de corpore sumptum / reddere
quod valeas vivificante deo», ICVR II
[138] Cf. anche CIL VIII 23128a = ILTun 269 = AE 1937, 114 = 1946, 233 =
1991, 1640a ed ILTun 271 = AE 1946, 233.
[142] Cf. Bisconti, in Temi di iconografia paleocristiana, s.v. «Paradiso», 241;
Sanders, L’au-delà et les acrostiches, 183 ss. Cf. infine Grossi Gondi, Trattato, 239ss; Testini, Archeologia cristiana,
432 s.
[143] La buona novella annunciata dal Profeta riguarda la salvezza (furqân)
ed il premio per i Credenti, per i quali vi saranno nella dimora della salute (dâr
as-salâm) cioè nel Paradiso (Firdaws), i giardini della
delizia e del soggiorno ospitale, orti con pergolati irrigati da fiumi che
scorrono sotto i loro alberi con frutti abbondanti e continui (palme, viti,
ulivi, melograni, banani), distese di cereali, ombre perenni, fiori, sorgenti,
belle abitazioni ai piani più alti, belvederi (ghurufât),
tappeti dal fondo di broccato, divani con verdi guanciali, cibi come carne di
volatili dai diversi gusti (LVI, 21), bevande deliziose (miele, latte dal
sapore inalterabile, succo di palma, vino raro, sigillato, dall’effluvio
muschiato, mescolato con l’acqua del fiume Tasnîm (XLVII, 15 e
LXXXIII, 25), vassoi d’oro, anfore e calici. Soprattutto fanciulle
coetanee pure dallo sguardo pudico eternamente giovani, mai toccate prima da
uomini o da geni, che sembreranno rubini o coralli (LV, 56 ss.), «donne
dai grandi occhi, che non avranno sguardi che per loro, bianche come uova
tenute in luogo riparato» (ad es. XXXVII, 46ss). «Si orneranno
colà di braccialetti di oro e porteranno abiti verdi di seta e di broccato
lucido (istabraq), stando sdraiati su divani» (XVIIII, 31),
serviti da paggi eternamente giovani simili a perle nascoste (LII, 24). Qui
«staranno adagiati su divani, senza soffrire né calore di sole
né rigore di freddo; vicina sarà loro l’ombra degli alberi,
e bassi, a portata di mano, ne penderanno i frutti; saranno fatti circolare fra
di loro vassoi d’argento, e i recipienti saranno ampolle - ampolle
d’argento riempite nella misura richiesta - e verrà colà
lor data a bere una coppa miscelata di zenzero; - di una sorgente che si trova
in quel giardino, chiamata Salsabîl» (LXXVI, 13ss).
[146] ICVR II 4220, vv. 65s: carceris
umani sors est quae claustra resolvit / nec retinet animam dum sua luce vivit.
[149] CIL VI 32000 = CLE 734 = ILCV 60 = ICVR I, 307, vv. 3-6, cf. Verg.
Aen. IX 14: in caelum paribus se sustulit alis.
[152] ILCV 4933, 5-7; testo ebraico e non cristiano secondo Frey, Corpus inscriptionum
Iudaicarum, 476.
[153] AE 2002, 632; cf. Mastino,
Una traccia della persecuzione dioclezianea in Sardegna?, in c.d.s.
[154] Cf. Paradisus lucis, in CIL V 6218, Milano; Grossi Gondi, Trattato, 240; Testini, Archeologia cristiana,
212; cf. anche Janssens, Vita
e morte del cristiano, 319s: nam iustae mentes foventur luce celeste (ICVR
VII 17962); nunc proprior Cristo sanctorum sede potitus, / luce non frueris,
lux tibi Christus adest (ICVR II 4219 b).
[155] Cf. Mt 25,31: Cum autem venerit Filius hominis in maiestate sua
et omnes angeli cum eo, tunc sedebit super sedem maiestatis suae.
[156] Sap 3,7. Cf. CLE 902 = ILCV 3480: credite victuras
anima remeante favillas / rursus ad amissum posse redire diem.
[157] Come è noto la luce è un attributo cristologico, sulla
base del prologo del Vangelo di Giovanni, in part. Gv 1,9, da cui nel Credo
niceno.
[160] Cf. Inscriptiones Christianae Italiae septimo saeculo
antiquiores, nova series (= ICI), X, 1995, Picenum 46: Stephanus,
claro qui stemmate fulgens. Cf. anche CIL VIII 17386, Thabraca,
dignam meruit immarcibile(m) coronam, cf. Grossi
Gondi, Trattato, 355. Per l’uso di circulus nel
senso di periodo di tempo della vita terrena, cf. CIL III 9527: expleto
annorum circulo quinto. Il significato più specifico di circulus è
ovviamente il cielo e più propriamente le sfere che ruotano intorno alla
terra (per circulus cf. Thesaurus linguae Latinae (=Th.l.L.)
III, 1906-12, cc. 1107ss). L’espressione, rara, pare possa indicare un
buon livello culturale del committente dell’epigrafe, ricca di vocaboli
letterari.
È suggestivo notare come
l’espressione cui lux erit perenni / circulo fulcens richiami alla
mente il nimbo (aureola), che nell’iconografia paleocristiana costituisce
l’attributo per eccellenza dei personaggi venerati (anche dei santi, a
partire dalla seconda metà del IV secolo: cf. in sintesi: M. Guj, in Temi di iconografia
paleocristiana, a cura di F. Bisconti, s.v. «Nimbo»,
230s: nell’iscrizione la defunta Matera viene quindi quasi paragonata ai
santi (per le sue azioni meritorie). A prescindere da questa suggestione (per
confortare la quale è necessario trovare confronti con espressioni
simili in altri epitafi di “comuni mortali”), potrebbe
semplicemente alludersi al soggiorno della defunta nell’aldilà,
inteso come firmamento luminoso (per i riflessi nell’iconografia di tale
concezione del mondo ultraterreno cf. Bisconti,
Sulla concezione figurativa dell’“habitat” paradisiaco, 25
ss.; Id., Altre note di
iconografia paradisiaca, in «Bessarione» 9(1992) 109ss.
[161] Dn 12,3: «i saggi risplenderanno come lo splendore del
firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come
le stelle per sempre». Cf. anche il NT (Mt 13,43 Tunc iusti fulgebunt
sicut sol in regno Patris eorum); e negli apocrifi, come il Libro dei
segreti di Enoc = 2 Enoc 1,5: «il loro viso (era) come sole che luce, i
loro occhi come lampade ardenti». Cf. anche l’Apocalisse siriaca di
Baruc = 2 Baruc 51,3: «... allora il loro splendore sarà
glorificato con mutamenti e la somiglianza del loro volto si convertirà
nella luce della loro bellezza, perché possano prendere e ricevere il
mondo che non muore, che (per) allora è promesso loro». Ancora cf.
il IV libro di Esdra datato attorno al 100 d.C. (Apocalisse di Esdra), Esdra IV
7,91: «... riposeranno in sette ordini (nel testo latino il termine usato
è ordinem)»; 7,97: «il sesto (ordine) è quando
verrà loro mostrato come il loro volto dovrà rifulgere come il
sole, e dovranno assomigliare alla luce delle stelle, d’ora in poi
incorruttibili»; 7,125: «Perché i volti di coloro che hanno
praticato l’astinenza brilleranno più delle stelle, mentre i
nostri saranno più scuri delle tenebre».
Il IV libro di
Esdra è stato utilizzato da Ambrogio di Milano nel De bono mortis.
Ambrogio dimostra di considerare il testo all’interno del canone, dato
che lo definisce scriptura (De bono mort. 10,46). Il vescovo
milanese, sulla base del testo di Esdra afferma che le abitazioni delle anime
sono più in alto (10,45: Animarum autem superiora esse habitacula
scripturae testimoniis valde probatur), non racchiuse nei sepolcri sotto
terra. Quindi arriva ad affermare, parafrasando il testo apocrifo: 11,48: Erit
igitur ordo diversus claritatis et gloriae, sicut erit ordo meritorum.
Processus quoque ordinum processum exprimit claritatis. Denique sexto ordine
demonstrabitur in his quod vultus earum sicut sol incipiat refulgere et
stellarum luminibus comparari, qui tamen fulgor earum corruptelam iam sentire
non possit. Ambrogio ha utilizzato il IV libro di Esdra anche nel De
excessu fratris (I, 67,1-3). Secondo Yves–Marie Duval,
Formes profanes et formes bibliques dans les orations funèbres de
saint Ambroise, in Christianisme et formes littéraires de
l’antiquité tardive en Occident, Entretiens sur
l’antiquité classique, Vandoevres-Genève 1977, il IV libro
di Esdra faceva parte delle letture della liturgia funebre ed è stato
letto ai funerali del fratello di Ambrogio (280, n.1). Lo studioso sostiene, inoltre, che il passo di Requiem aeterna
della liturgia funeraria abbia lasciato delle tracce nel De obitu Theodosii
(32: Fruitur nunc ... Theodosius luce perpetua, tranquillitate diuturna...)
(247, n. 1).
[162] Cic. Somnium Scipionis 3,16: ... ea vita via est in
caelum et in hunc coetum eorum qui iam vixerunt et corpore laxati illum
incolunt locum quem vides - erat autem is splendidissimo candore inter flammas
circus elucens - quem vos, ut a Grais accepistis, orbem lacteum nuncupatis
... Il termine circus vuole esser un equivalente di orbis, come
nota pure Macrobio (cf. commento di Alessandro
Ronconi al Somnium,
Firenze 1967, 90).
[163] Secondo i Pitagorici l’anima ha origine astrale e tende al
ritorno alla sede originaria. Il concetto che gli eletti, dopo la morte,
facciano ritorno alla sede originaria, è presente nel Fedone e nel Timeo
platonici. Secondo Pitagora
[164] CIL V 6218 = ILCV 2369, cf. Testini,
Archeologia cristiana, 432. Per il
concetto di luce-illuminazione connesso con l’ideale di risurrezione cf.
anche alcuni riflessi nelle decorazioni cimiteriali in Bisconti, La decorazione delle catacombe romane, 81 s.
[168] VIII, 74, 51-53, cf. anche Lattanzio Div. Inst. VI, 3: ...Is
accepto immortalitatis praemio, perenni luce potietur.
[169] Cf. F. Cumont, Lux
Perpetua, Paris 1949, passim; Grossi
Gondi, Trattato, 228. Cf. anche 241: in luce Domini susceptus
est.
[171] Cf. Nieddu, La
pittura paleocristiana in Sardegna, 245 ss.; Ead., L’arte paleocristiana in Sardegna: la pittura,
in Insulae Christi, Il cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e
Baleari, a cura di P.G. Spanu, Oristano 2002, 368 s.
[174] A parte il passo della risurrezione della carne di Tertulliano
appena citato, cf. Agostino, Lettere CII, 34; CCL 33, 384; civ. Dei
I, 18, 30, 2; CCL 41, 587; cf. Goñi,
La resurrección de la carne según San Augustín,
Madrid 1964.
[176] Cf. Id., 186 ss. Ulteriori riferimenti bibliografici
relativi al ciclo figurato di Giona, diffuso soprattutto nella pittura
cimiteriale ma anche sulla fronte dei sarcofagi (a volte non compare
l’intero ciclo ma, ad esempio, G. in riposo sotto il pergolato; su alcune
lastre funerarie incise compaiono le zucche per richiamare l’episodio in
questione: es. ICVR I, 1922): Duval,
Le livre de Jonas dans la littérature chrétienne, Paris
1973; Engemann, Untersuchungen
zur Sepulkralsymbolik, 70-77; Speigl,
Das Bildprogramm des Jonasmotivs, 1-15; Stommel, Zum Problem der frühchristlichen, 112
ss.; Wischmeyer, Zur
Entstehung und Bedeutung des Jonabildes, 707-719; uno sguardo generale
è in D. Mazzoleni, in Temi
di iconografia paleocristiana, a cura di F.
Bisconti, cit. s. v. “Giona”, 191ss.
[177] Cf. Mazzoleni, Id.,
195 ss., su Gv 11,11-14. Per una sintetica presentazione del tema
è utile rimandare alla v. “Lazzaro” di M. Guj, in Temi di iconografia
paleocristiana, a cura di F. Bisconti, 201ss.
[181] Cf. Calcagnini, Resurrezione
del figlio della vedova di Naim, 268 s., dove si fa cenno anche ad un altro
episodio di risurrezione, raffigurato assai di rado, quello delle ossa
inaridite riferito in Ez. 37,1-14.
[183] At 9,36-41 (Pietro risuscita a Joppe una donna, Tabitha, cf. la v.
“Tabitha” di U. Utro,
in Temi di iconografia paleocristiana, 284s.
[185] Cf. Tristan,
Les premières images chrétiennes, 186. Sono noti gli esempi sardi di San Salvatore presso Tharros,
tuttavia molto dubbio, e di Sant’Antioco, fin dal IV secolo d.C.: Levi, L'ipogeo di San Salvatore, 57
e tav. XII b (molto dubbia); Nieddu,
La pittura paleocristiana, 266 ss.
[187] CIL XII 2422 = ILCV 1341, cf. Testini,
Archeologia cristiana, 430 (anche per CIL XII 2185, 2188, 2310, 2423).
[189] CIL XII 2185 = ILCV 3467. La stessa formula anche in CIL XII 2310
(Grenoble), per un Cassianus ed in CIL XII 2423 (Vienne), per una famula
Dei.
[191] Vives, ICERV 68 nr.
220 = A. Alföldy, Roman
Inscription of Tarraco, Madrid 1975 ss (= RIT) 956; vd. anche Vives, ICERV 68 nr. 221 = RIT 447 nr. 1012 (frammentaria).
[193] CIL VIII 20905 = CLE 1837 = ILCV 1103, ll. 8 s. Per
un’analoga dedica da Satafis, vd. ora ILAlg II,3 8299 = AE 1922,
25 = 1937, 176 = 1966, 546.
[195] CIL XI 2585 = ILCV 259 = ICI, XI, regio VII, Clusium, Bari
[198] ILCV
[200] CIL XII 2073 = ILCV
[201] CIL XII 2058 = ILCV
[204] CIL VIII 10689, cf. 16742 = ILAlg. I 2966 = ILCV 1683, cf. Testini, Archeologia cristiana,
430 (erron. CIL VIII 20301). Conosciamo altri casi analoghi: ILCV 3845, Roma: [re]surgat.
[206] Cf. ICI, 6, regio VI, Umbria, Bari 1989, nr. 81 = CIL XI 4964 ed
ILCV 1606; cf. Binazzi, Un’iscrizione
umbra, 223-228 e Emerick,
Il tempietto sul Clitunno a Pissignano, 15-22.
[207] ICVR IV 12418 = ILCV 969, 2-3.6 = Ferrua, Epigrammata damasiana, nr. 12; Carletti, Iscrizioni cristiane a
Roma, 99ss, nr. 88; traduzione di Janssens, Vita e morte del cristiano,
271 e n. 236. Cf. anche Sanders, L’idée
du salut, 245. Il testo è parzialmente ripreso in ICVR II 1758 = Ferrua, Epigrammata damasiana,
nr. 121. Cf. Testini, Archeologia
cristiana, 430; Grossi Gondi,
Trattato, 239.
[210] CIL X 1377 = ILCV 3461 B e 1380 = ILCV
[217] AE 1940, n. 23; una foto a colori nella copertina di M. Bouchenaki, Tipasa. Site du patrimoine mondial, Alger 1988.
[221] CLE 669 = ICVR I 317 e 1703 = ILCV 316. Cf. Lucr. 6, 1021: possunt
consurgere in auras, già ripreso in CLE 279,18.
[225] Anastasia corrisponde al latino Reparatus, cf. I. Kajanto, The latin cognomina,
Helsinki 1965, 111 s.