Livio Paladin
storico della Costituzione repubblicana*
Università
di Sassari
Multum egerunt qui ante nos fuerunt, sed non
peregerunt
Seneca, Ad Lucilium, Ep.
LXIV.2.9.
1. – Un’opera è stato un importante riferimento
nella lettura di Per una storia costituzionale dell’Italia
repubblicana di Livio Paladin[1]:
si tratta delle Lezioni di metodo storico di Federico Chabod. Ed in
particolare di due pensieri, tra i più fondamentali dell’intero
saggio monografico: «la conoscenza storica è conoscenza del
“vero”»; «la cosiddetta “realtà esterna”
a noi, non riusciamo mai ad afferrarla se non attraverso noi stessi,
cioè attraverso le nostre sensazioni e i nostri sentimenti: e questa
è poi la materia che il nostro pensiero elabora criticamente»[2].
Ora, è fuor di dubbio che la storia costituzionale di
Paladin è costantemente animata da questa ricerca del “vero”
in senso storico, attraverso il suo personale punto di vista, che è
quello di un acuto costituzionalista laico che ha prestato sempre viva
attenzione alle norme ed alla giurisprudenza, specie a quella costituzionale,
per poi scendere nel vivo della lotta politica, sino ai meandri più
oscuri (e torbidi) della storia repubblicana, interrogandosi con
puntualità sul “farsi” della storia politica.
E’ storia scritta da un «giurista puro»[3],
come ben nota Enzo Cheli nella sua introduzione all’opera, ma si tratta
di un «prodotto maturo», pur se incompiuto per l’immatura
scomparsa dell’Illustre Maestro (giunge sino alla fine del 1972, con
riferimenti preziosi a vicende politiche e costituzionali successive, della
metà degli anni ’70), che a ben vedere porta a compimento una
profonda sensibilità storica, che il Paladin ha sempre dimostrato di
possedere.
Si ponga mente, sul punto, all’introduzione storica al
manuale di Diritto Regionale[4],
o ai sempre pregevoli riferimenti storici contenuti nel manuale di Diritto
Costituzionale[5],
per citare due esempi tra i più immediatamente individuabili.
Ma nell’opera di cui si discorre Paladin compie un passo
ulteriore: come nota Cheli, «il giurista che ha raggiunto la
maturità attraverso la completa padronanza del dato normativo»
adotta «un metodo in grado di perforare questo dato e di collocare le
vicende costituzionali nella dimensione più ampia della trama sociale e
politica di un determinato Paese»[6];
«in questo senso, si può cogliere in queste pagine proprio il
segno di una maturità raggiunta, che sente il bisogno di allargare i
propri orizzonti ponendosi alla ricerca delle radici più profonde della
propria vocazione».
Vocazione che non significa rinuncia «al rigore delle
categorie proprie del giurista”, ma “progressivo e consapevole
spostamento della scienza costituzionale dal terreno delle analisi normative a
quello della misurazione delle dinamiche istituzionali»[7].
E questo per il tramite di un costante interesse per la
«Costituzione vivente», per «quel complesso di regole che si
collocano al di là della Costituzione scritta», e che, secondo
Paladin, rappresentano «il più grande fattore di complicazione
delle scienze costituzionalistiche»[8].
Sul punto si deve notare che mentre Paladin rifiutò sempre
la categoria mortatiana della “Costituzione materiale”, ha
costantemente cercato di individuare la traduzione di «un certo modello
costituzionale…in concrete realtà istituzionali»[9],
con il riferimento e l’utilizzo della “Costituzione vivente”,
nozione anche utilizzata dal Giannini.
E lo ha fatto arricchito dalla sua personale esperienza, sia di
docente universitario che di “uomo delle istituzioni”, in
particolare di giudice costituzionale e di ministro della Repubblica.
Qui torna d’ausilio l’insegnamento chabodiano: Paladin
nella sua storia costituzionale fa emergere la sua esperienza personale
attraverso, ad esempio, i molteplici richiami alla giurisprudenza
costituzionale; così come lascia trasparire la sua passione civile,
nella difesa di una idea “alta” di democrazia e nella critica
pungente di gravi derive partitocratriche.
Insomma, non resta un “osservatore neutrale” sulla
soglia della storia che analizza.
Ciò si nota dalle prime pagine dell’opera, dalla parte
dedicata alla «tregua istituzionale» ed ai diversi compromessi
politici che determinarono la scelta del referendum istituzionale del 2 giugno
1946.
Ma soprattutto, e questo a nostro avviso è un aspetto di
grande importanza, la sua è storia scritta da un giurista, e quindi
storia definibile “specialistica”, che si apre alla “storia
degli storici” quando si tratta di analizzare nodi politici cruciali
della storia politica della Repubblica italiana: così, per portare un
primo esempio, il tema della natura del compromesso costituzionale del 1946,
tra la cultura cattolica, quella laica d’ispirazione prevalentemente
crociana e quella marxista.
Il giurista Paladin è attento nel riepilogare le
caratteristiche della forma di governo italiana nel biennio
dell’Assemblea Costituente, in particolare la spettanza della
potestà legislativa, in quel periodo in gran parte attribuita al
Governo, e l’organizzazione dei lavori dell’Assemblea Costituente,
con l’istituzione della Commissione dei 75, con il compito di predisporre
e presentare un progetto di Costituzione.
Ma, nell’entrare nel vivo della complessa stesura della Carta
Costituzionale del ’48, richiama con senso critico le tesi degli storici
(Pombeni, Scoppola), affianco a quelle dei giuristi (Guarino,
Balladore-Pallieri, Cheli), senza mostrare particolare entusiasmo per il
compromesso costituzionale accettato dalle maggiori forze politiche, sebbene
«le posizioni assunte in partenza dai diversi schieramenti non erano
affatto di tipo compromissorio»[10],
inteso più come un «compromesso garantistico» che come un
«compromesso ideologico».
Paladin rifiuta una «grossolana idea del compromesso»[11],
sottolinea che «compromissoria non è l’intera Carta ma
soltanto la “Costituzione economica”», «il terreno sul
quale si sono scontrate concezioni antitetiche (o profondamente diverse), senza
che il testo costituzionale faccia intendere quali siano i vincitori e quali
gli sconfitti». Quindi viene richiamato il testo finale dell’art.
41 Cost., che garantisce la libertà d’iniziativa economica privata,
limitandola in modo così stringente, anche per
l’«onnicomprensivo limite» dell’«utilità
sociale»[12],
da risultare, secondo l’opinione dell’illustre autore, peraltro
difforme da quella di chi scrive, una norma «anfibologia».
Si pone dappresso in evidenza la natura polisensa della tutela
costituzionale della proprietà privata, secondo Paladin fortemente
limitata dalla clausola della «funzione sociale», grazie alla quale
da un lato si è consentito «che la mano pubblica assumesse in
Italia dimensioni inusuali nel mondo occidentale», dall’altro ha
permesso «che la giurisprudenza costituzionale ragionasse di un contenuto
essenziale delle situazioni proprietarie, non sopprimibili ad arbitrio da parte
del legislatore ordinario»[13].
Al di fuori di queste norme sui “rapporti economici”,
per Paladin, «insistere sul carattere compromissorio delle soluzioni
adottate dall’Assemblea sarebbe invece inesatto e fuorviante se non altro
nella gran parte dei casi»[14].
Per cui, secondo questa ricostruzione, più che di
compromesso, si può parlare di «generali o larghissimi
consensi» di cui «hanno formato l’oggetto»
«numerosi ed importantissimi precetti costituzionali», e questo con
riguardo sia alla disciplina costituzionale dei «rapporti civili»,
sia con riguardo alla forma italiana di governo.
Il giudizio complessivo sul testo costituzionale focalizza una
grossa ed insuperabile contraddizione, che secondo Paladin influenzerà
fortemente lo snodarsi della storia repubblicana: da una parte la Costituzione
è “garantista” in tema di libertà e diritti civili e politici
e “lunga”, dedicando ampio spazio alla tutela dei diritti sociali e
dei rapporti economici, nonostante, secondo il Nostro, le aporie richiamate;
dall’altra la forma di governo parlamentare accolta nel testo
costituzionale non razionalizza a sufficienza il sistema parlamentare stesso,
poiché i principali esponenti delle maggiori forze politiche furono
concordi «nel senso che i partiti dovessero in sostanza rimanere liberi,
per manovrare a proprio piacimento i congegni della forma parlamentare»[15].
Il realismo paladiniano non concede, perciò, alcun spazio a
giudizi storici affrettati o ottimistici sull’Assemblea Costituente.
Certamente, si sottolinea l’ampio consenso che vi fu
sull’ordine del giorno Dossetti, sulla «precedenza sostanziale
della persona umana» e sulle proclamazioni di base dell’art. 2
Cost., in particolar modo sul riconoscimento costituzionale dei «diritti
inviolabili dell’uomo», che «ha segnato un profondissimo
distacco fra le ideologie dei costituenti e quella “scienza
giuridica” di stampo ottocentesco»[16].
Si pone anche in risalto la «vittoria della sinistra», che si
realizza con l’approvazione del testo dell’art. 3, comma secondo,
Cost., del principio d’eguaglianza sostanziale.
Ma si afferma contestualmente, quasi a voler circoscrivere l’effettiva
portata innovativa di quella norma, che si trattò soltanto di «una
rivoluzione promessa», così riprendendo la celebre frase del
Calamandrei.
A ben vedere le osservazioni critiche del Paladin, peraltro non
condivise dallo scrivente, ma indubbiamente puntuali e ben argomentate,
lasciano emergere l’ampio iato sussistente tra la Costituzione scritta,
la cultura dei padri costituenti, gli indirizzi di pensiero che dominarono il
dibattito in sede di Assemblea Costituente e la reale configurazione del sistema
politico italiano, totalmente influenzato dal quadro politico internazionale, e
del sistema economico italiano, segnato dal conflitto bellico, caratterizzato
dal dualismo tra Nord e Sud del Paese ed ancora in ritardo con riferimento al
decollo del settore industriale.
Insomma: le novità non nascono per fratture, ma per
complesse mediazioni che portano anche una forza politica di classe e popolare,
quale il P.C.I., ad assumere un atteggiamento cauto e realista in diverse
circostanze e più moderato dell’altro importante partito della
sinistra, il P.S.I.
E la Repubblica italiana non nasce come un quid novi,
scisso dalla storia politica ed istituzionale antecedente, da qui il giudizio
“continuista” e non “discontuinista” del Paladin sul
rapporto tra Repubblica e Stato fascista, tra ordinamento costituzionale
democratico ed ordinamento statutario monarchico.
Anche sul tema il realismo paladiniano significa esame attento dei
fatti storici e delle fonti che interessano alla storia giuridica, ricerca
dell’essere, ossia della verità che lo storico indica al di
là delle apparenze e che non può essere ipotizzabile, ma deve
essere documentata e documentabile nella ricerca della «causa
prima» (o delle «cause prime») dei fatti politici.
Questi ultimi, ci si consenta il ricorso al linguaggio di Francesco
Guicciardini, concernono gli «innumerevoli esempi» di
«instabilità», «errori vani» e «variazioni
della fortuna», le «calamità d’Italia»[17].
Cioè, per tornare all’indagine paladiniana, una storia
repubblicana ricca di ritardi, aggrovigliamenti, misteri, inattuazioni
costituzionali, faticose realizzazioni.
Entriamo in medias res. L’esame della prima
legislatura repubblicana mette ben in luce il «congelamento
costituzionale».
Esauritasi l’esperienza politica dei governi delle ampie
intese tra le maggiori forze politiche, la D.C., il P.C.I. ed il P.S.I., nel
1947, archiviata la stagione delle grandi speranze di cambiamento politico,
anche per causa del contesto internazionale, rigidamente diviso in “due
blocchi” e sempre più pervaso da un clima di “guerra
fredda”, e dell’adesione italiana alla N.A.T.O., il problema
dell’attuazione costituzionale viene rinviato sine die e la
consistente vittoria del partito democristiano, che il 18 aprile 1948 ottiene
la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, determina, anche per la
successiva e costante esclusione del P.C.I. dal governo del Paese («conventio
ad excludendum»), una democrazia incompiuta, fondata
sull’assoluta centralità del partito d’ispirazione
cattolica, sempre e necessariamente al Governo.
L’assetto di poteri ed organi costituzionali,
dettagliatamente disegnato dal Costituente del ’48, resta lettera morta.
Scrive Paladin che «in seguito alle elezioni politiche del 18
aprile 1948, come pure negli anni immediatamente successivi, le sole
istituzioni funzionanti, fra quelle prevista dalla Carta Costituzionale, erano
le Camere del Parlamento, il Presidente della Repubblica e il Governo. Lo
stesso Senato non corrispondeva pienamente … al modello prefigurato dagli
articoli 57 e seguenti della Costituzione»[18].
E «nel rapporto fra gli organi costituzionali in atto, fino alla tarda
primavera del 1948, venne comunque ad instaurarsi una sorta di sistema
parlamentare puro, che funzionava indipendentemente da quasi tutti i
contropoteri e gli altri meccanismi di garanzia indicati dalla Costituente. A
fronteggiare il raccordo Governo-Parlamento, fondato sul rapporto di fiducia,
stava infatti il solo Einaudi, eletto Presidente della Repubblica al quarto
scrutinio; ma il Capo dello Stato affiancò De Gasperi, offrendo al
Governo i propri pareri e i propri ammonimenti, piuttosto che porsi in aperta
antitesi all’esecutivo»[19].
Peraltro, il Presidente del Consiglio dei Ministri, essendo il
leader del partito di maggioranza assoluta, somigliava «ad un Primo
ministro di stampo britannico», con una «posizione personale»
«molto forte, qualunque fosse il testo normativo di riferimento»[20],
pur nell’ambito della «scelta deliberata delle coalizioni
interpartitiche di centro, in luogo dei governi formati dalla sola Democrazia
Cristiana», e pur entro il rispolveramento del «vetusto decreto n.
466 del 1901, sulle competenze del Consiglio dei ministri»
(«nell’impossibilità di riferirsi alla legislazione fascista
sul Capo del Governo»), che esaltava «il principio della
collegialità governativa, indebolendo sul piano giuridico il Presidente
del Consiglio». Il giudizio del Paladin sulle «attuazioni
costituzionali strettamente intese» compiute dai governi De Gasperi
è giustamente critico. Ritiene l’insigne costituzionalista che
«negli anni introduttivi della prima legislatura, De Gasperi e la sua
maggioranza seppero peraltro realizzare ben poco»[21],
ed «a partire dal giugno ’48… fu il Governo ad assumere le
proposte necessarie per attuare la Costituzione…, spettò al Governo
il compito di selezionare le iniziative stesse…»[22].
Sicché, «sulla base di scelte squisitamente
politiche» si attuò «il congelamento della
Costituzione», attraverso l’esclusione dell’attuazione di
previsioni costituzionali, l’individuazione delle poche norme
costituzionali da attuare in un breve arco di anni, il rinvio a tempi lontani
dell’attuazione della gran parte delle previsioni costituzionali, e
questo a prescindere dalle «sollecite iniziative del Governo». Quel
che è più grave è che, ovviamente per scelta politica, non
avranno mai attuazione né i consigli di gestione delle aziende,
contemplati dall’art. 46 Cost., istituto basilare della democrazia
industriale e della democrazia economica, né la norma dell’art. 39
Cost., che disciplina le strutture e le funzioni dei sindacati, che è
rimasta “lettera morta” e che non è stata mai né
abrogata né revisionata, «salva la libertà di
organizzazione sindacale»[23].
Paladin, inoltre, sottolinea con opportune osservazioni, che non si
approvò una legge attuativa dell’art. 40 Cost., che tutela il
diritto di sciopero[24]
(nonostante il disegno di legge Rubinacci, ritenuto fondatamente inadeguato),
non vi fu la volontà politica di riformare l’ordinamento
giudiziario e di attuare la disciplina costituzionale in materia, così
non ponendo in funzione il C.S.M., né le disposizioni costituzionali in
tema di «organi speciali di giurisdizione», né la
«complessiva giustizia militare»[25].
Sul punto l’autore lascia emergere una solida passione
democratica e civile in quella che si chiamava “ricerca del vero”.
Scrive, infatti, che «nel corso della prima legislatura repubblicana non
si ebbe l’approvazione di leggi liberticide, neanche a carico del Partito
Comunista e dei suoi sostenitori. Ma l’obiettivo di emarginare le
sinistre fu spesso raggiunto per mezzo di norme risalenti al periodo fascista,
che la maggioranza evitava di revisionare e dunque rendeva pur sempre
applicabili»[26].
Al riguardo è citata la triste vicenda dell’insabbiamento della
riforma del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza per volontà
del ministro Scelba.
L’inattuazione costituzionale è qualcosa di diffuso e
pervasivo, espressione della volontà politica dominante, anche se si sottolinea
opportunamente , citando Enzo Cheli, che una piena attuazione costituzionale
sarebbe stata difficile ed impraticabile, considerato il quadro politico
interno e quello internazionale. Paladin menziona il «congelamento della
riforma regionale»[27]
e delle «proposte destinate ad attuare il referendum», i ritardi ed
i rinvii per l’approvazione delle leggi sulla giustizia costituzionale. E
cita più volte Calamandrei, parlando di “arretramento” e non
soltanto di “immobilismo” costituzionale, la crisafulliana nozione
di “Costituzione tradita”[28],
le critiche del Balladore-Pallieri, il “deliberato ostruzionismo della
maggioranza”, locuzione dello stesso Calamandrei[29].
Altrettanto lucido e critico è il giudizio sul riformismo
degasperiano, pur con l’evidenziazione dei suoi pregi. La riforma
fondiaria, volta ad attuare l’art. 44 Cost. «fissando limiti
all’estensione della proprietà terriera privata», per
attuare il «razionale sfruttamento del suolo» e stabilire «equi
rapporti sociali», si realizzò con due leggi del 1950, la legge
“Sila” e la “legge stralcio”; ma la successiva
attuazione normativa mise in luce «una serie di limiti e
inconvenienti», tra cui le «insufficienti dimensioni delle aziende
costituite al termine del processo espropriativi e redistributivo» e la
«scarsa assistenza pubblica, finanziaria e tecnica». Purtuttavia,
la riforma agraria fu frutto di «coraggio politico» e
realizzò la «scomparsa della grande proprietà a coltura
estensiva» nel Sud[30].
Così come la Cassa per il Mezzogiorno, ente istituito con il lodevole intento di
«predisporre e realizzare un piano di “opere straordinarie di
pubblico interesse”» nel Mezzogiorno ed in alcune province del
Centro, non evitò l’aumento del divario economico tra Nord e Sud ed
i suoi stessi interventi finirono con «l’avvantaggiare le industrie
e l’economia del settentrione»[31].
L’età degasperiana non è ancora il tempo del “regime
democristiano”, purtuttavia si assiste ad un «crescente intervento
della mano pubblica nel campo dei rapporti economici»[32],
anche con l’istituzione dell’ENI (Ente nazionale idrocarburi) del
1953.
L’autore, dappresso, con il medesimo senso critico, affronta
il tema delle «prime limitazioni della sovranità italiana»
(le adesioni alla NATO ed alla CECA) e quello della “legge truffa”
del ’53. L’ingresso dell’Italia nella NATO è definito
quale «opzione…sostanzialmente necessitata»,
«fortemente sollecitato, se non addirittura imposto, dagli Stati Uniti e
dagli altri patners occidentali», causa di «pesanti limitazioni di
sovranità», pur parlando di «carattere irrealistico»
delle «posizioni neutralistiche»[33].
Con particolare attenzione alla “legge-truffa”, la legge elettorale
approvata nel ’53, che prevedeva un consistente premio di maggioranza al partito o alla
coalizione che fosse riuscita a superare il 50%, si parla di «grave e
determinante errore politico imputabile a De Gasperi», mirante a
«rafforzare la conventio ad excludendum relativa al Governo»
nei confronti del partito comunista, ad «agevolare il “movimento
pendolare” della D.C.» e ad «indebolire…gli stessi
partiti alleati»[34].
Sul tema la valutazione storico-politica è esauriente, come
l’analisi esclusivamente istituzionale (basta dare un attento sguardo
alle citazioni di opere di storia generale e di storia istituzionale), e
l’attenzione alla dimensione prettamente fattuale e politica emerge con
tutta la sua forza espressiva, così costituendo il tessuto connettivo di
pagine intense.
2. – La seconda parte dell’opera, su «la
riscoperta della Costituzione», si segnala anzitutto per l’analisi
della «forma di governo negli anni 1953-1960». L’illustre
autore si sofferma anzitutto sulla sempre maggiore incidenza del «partito
politico di massa» sugli assetti istituzionali e sulla forma di governo:
«le forze politiche tradizionali tendono ad irrobustirsi, traducendosi in
istituzioni stabili e capillarmente organizzate, i cui congressi (e consigli
nazionali) contano politicamente ben più dei Consigli di ministri o
delle ricorrenti riunioni delle Camere»[35].
Si coglie un’interessante analisi delle mutazioni della forma
di governo, tesa ad individuare i nessi tra le dinamiche istituzionali e
«gli attori della politica nazionale», «quasi tutti in
movimento». Permane la “conventio ad excludendum”, ma
il Presidente della Repubblica Gronchi afferma «l’esigenza di
attrarre nuove forze
nell’orbita della politica democratica»; la D.C. si divide
in correnti «a tal punto che gli esecutivi monocolori rappresentano pur
sempre altrettanti governi di coalizione»; «i laici minori vanno
alla ricerca di nuovi ruoli e di nuove legittimazioni»; «le
destre…aspirano a far parte dell’area di governo»[36].
Paladin attraversa con attenzione le metamorfosi del sistema
politico italiano dopo la prima legislatura repubblicana[37],
parla di «forte instabilità politica e governativa», di
«crisi semipermanente», «di esecutivi assai fragili, dotati
in partenza di un carattere transitorio o amministrativo». Sottolinea,
poi, come a partire dal ’53 il Presidente del Consiglio «non era
più in condizioni di porsi come la guida della rispettiva coalizione di
governo, ma doveva rassegnarsi a svolgere il ruolo di un paziente mediatore tra
le forze costituenti la sua maggioranza»[38].
D’altro canto, la fragilità della forma di governo
è ben radiografata con riferimento al Parlamento. Se, secondo
l’opinione dell’illustre autore, il Governo «aveva le mani
legate», a causa del crescente ed inarrestabile potere dei partiti
politici, «le forze politiche organizzate, componenti le coalizioni
governative» esautoravano «le assemblee parlamentari»,
«la democrazia fondata sui partiti avviliva il Parlamento»[39].
Nel triennio ’57-’60 sono frequenti le crisi extraparlamentari,
«terreno principale dello scontro», «provocate da questo o da
quel partito indipendentemente da un voto di sfiducia»[40].
Il che, pur non contraddicendo la Costituzione scritta, come
notarono all’epoca Crisafulli ed Esposito, perché «la
funzione dei partiti quali mezzi “per concorrere a determinare la
politica nazionale” veniva non soltanto presupposta ma espressamente riconosciuta
dall’art. 49 della Costituzione»[41],
causò le giuste obiezioni delle opposizioni di sinistra, che criticavano
«il fatto che crisi del genere stessero diventando la norma»,
«ed anzi offendessero il Parlamento nelle sue prerogative».
Tuttavia, il Paladin nota come fosse illusorio ritenere che «una
“parlamentarizzazione” delle crisi potesse in ogni caso agevolarne
la risoluzione», «ed anzi il semplice fatto di rendere pubblici i
motivi del dissenso faceva correre il rischio – in situazioni politiche
come quelle italiane – di ostacolare la ricomposizione d’una
maggioranza parlamentare, rendendo più difficili i compromessi necessari
allo scopo»[42].
Oltre a queste importanti questioni, il tema della forma di governo
negli anni del neocentrismo ebbe come motivo dominante, come «filo conduttore
delle cronache costituzionali», le «dispute sul ruolo del Capo
dello Stato».
Con l’elezione di Gronchi a Capo dello Stato si assiste ad
«crescente influenza» di quest’ultimo. Anzitutto
perché, a differenza di Einaudi, «espresso dalla maggioranza governativa
di centro»[43],
«Gronchi venne eletto – al quarto scrutinio – per effetto di
una estemporanea convergenza di voti, promossa da un rappresentante
dell’opposizione di sinistra quale Pietro Nenni. Prendeva in tal modo
l’avvio quello che fu definito il “disgelo costituzionale».
Quest’ultimo, peraltro, trovò immediatamente conferma nel
messaggio introduttivo dello stesso Gronchi, «dove si poneva
l’accento sulla “necessità” che la Costituzione
venisse completata in tutti gli istituti da essa previsti». Inoltre,
Gronchi «rivendicò il suo diritto-dovere di “segnare
indirizzi ed orientamenti”, ogniqualvolta egli stesso lo considerasse “essenziale agli
interessi della Nazione”». Di conseguenza, «emersero in tal
modo le cosiddette esternazioni presidenziali», «libere
manifestazioni del proprio pensiero, che il Capo dello Stato soleva effettuare
nelle occasioni e nei modi più diversi»[44].
Il ruolo del Presidente della Repubblica muta profondamente.
Paladin parla di discorsi ed interventi pubblici che «hanno assunto un
peso del tutto ignorato durante la presidenza di Einaudi», «tanto
da far sostenere che essi avrebbero concretizzato un vero e proprio potere
presidenziale, imprevisto dalla Costituzione e però inarrestabile, se
non ricorrendo all’estremo e difficilissimo rimedio della messa in
accusa»(e sul punto è citata l’acuta tesi del Motzo)[45].
La ricostruzione paladiniana del settennato di Gronchi entra nei
più diversi risvolti dei rapporti istituzionali, segnala un non sempre
controllabile attivismo presidenziale, che vuole incidere sulla formazione
degli esecutivi in modo sempre più penetrante, che intende farsi
portatore di una propria politica estera, che suscita perplessità e
proteste[46].
Basta citare la controversa e discussa formazione dell’esecutivo Zoli[47],
che spinse Scelba a definire il Presidente del Consiglio
“ciambellano” del Presidente della Repubblica e Sturzo e Caristia a
presentare un ordine del giorno «che sottolineava … i limiti
costituzionali dell’attività presidenziale»[48].
Si descrivono anni convulsi, segnati dal lento tramonto del
centrismo, in cui con molta probabilità il «protagonismo
presidenziale» supplisce, nonostante tutte le sue distorsioni, alla
estrema debolezza dei governi, ma ciò pone in evidenza, d’altra
visuale, la complessiva instabilità dell’incompiuta democrazia
italiana. Prova lacerata di ciò è l’atto conclusivo del
centrismo, il governo Tambroni, unico esecutivo della storia repubblicana che
ottenne la fiducia delle Camere con i voti decisivi della destra neofascista.
Anche su questa vicenda la descrizione dei fatti storici fornita
dal Paladin è lucida: «gli scontri di piazza, tragicamente
succedutisi nel giugno-luglio 1960 … hanno segnato … la fine del
neocentrismo e l’esaurimento delle mire ambiziose del Presidente della
Repubblica…». Questo pone in rilievo il corto respiro di un sistema
politico caratterizzato da oscillazioni e sbalzi e privo di un ampio consenso
democratico e soprattutto che è, comunque, quest’ultimo «a
riplasmare di continuo il ruolo del Capo dello Stato e non viceversa»[49].
Ma è nel costante dissolversi del progetto politico
centrista, nota Paladin, contraddistinto da «spiccata instabilità
governativa», «che il Parlamento adottò parecchie
deliberazioni – legislative e non legislative – di primaria
rilevanza costituzionale». Senza dubbio il triennio 1955-1958
realizzò importanti attuazioni costituzionali e questo a partire
dall’elezione di Gronchi e dalla caduta del governo Scelba,
«caratterizzato da una chiusa logica centrista» e da una costante
discriminazione nei confronti degli oppositori politici[50].
«La più importante conseguenza del nuovo
indirizzo», osserva l’illustre autore, «fu la conclusione
dell’estenuante processo formativo della Corte Costituzionale»[51].
Processo formativo rallentato anche nella sua fase conclusiva, successiva
all’entrata in vigore della prima disposizione transitoria della legge n.
87 del ’53, anche per contrasti emersi tra le forze politiche di
maggioranza e le opposizioni. Sul tema sono opportunamente richiamati alcuni
indirizzi di pensiero sul «peso effettivo della Corte
nell’ordinamento costituzionale italiano». In particolar modo, la
tesi svalutativa dello Jemolo, che riteneva che il Giudice delle Leggi
«comportasse una garanzia relativa», perché sempre in
sintonia con l’interpretazione della Costituzione fornita dai partiti di
governo[52].
La tesi paladiniana sul tema è difforme. Se da una parte
l’esecutivo cercò di influenzare l’attività della
Corte e le sue pronunce, «la Corte non poteva non assumere una piena
competenza … negli anni iniziali del suo funzionamento» «in
antitesi alle interessate sollecitazioni dell’esecutivo»[53].
L’insigne autore evidenzia pure come «la presenza dell’organo
della giustizia costituzionale nel quadro politico si fece notare
ripetutamente, ben oltre il sindacato sulla legittimità delle leggi
anteriori alla Costituzione»[54].
E ricorda due episodi importanti: le dimissioni del Presidente De Nicola, del
10 marzo 1957, in risposta alle critiche di Pio XII alla Corte, «per
stigmatizzare le decisioni in tema di libera manifestazione del
pensiero»; la polemica tra il Presidente della Corte Azzariti ed il
Presidente del Senato Merzagora sulla posizione della Corte nella forma di
governo italiana.
Per cui, la Corte sin dal 1956 cercò di ritagliarsi un suo
spazio entro i rapporti tra gli organi costituzionali, così incidendo
con le sue pronunce sui meccanismi di funzionamento del sistema democratico. Si
sottolinea «il coraggio e l’inventiva con cui la Corte
Costituzionale arricchì la gamma delle sue pronunce, al di là dei
disposti della Costituzione e della legge n. 87», oltre, quindi, il
binomio “decisioni di accoglimento”-“decisioni di
rigetto” previsto dall’Assemblea Costituente e dal Parlamento[55].
Infatti, sin dal 1956 «la Corte si avvalse delle sentenze interpretative
di rigetto», in tal modo preannunciando le sentenze interpretative di
accoglimento e le decisioni additive o manipolative degli anni sessanta e
settanta, con cui vorrà quasi assumere (e questo con tutti i rischi
connessi, considerato che i giudici della Corte non hanno un’investitura
democratica e popolare) la «veste di una terza Camera del
Parlamento»[56].
L’autore dedica, poi, diverse pagine all’istituzione
del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) e del Consiglio
superiore della magistratura (CSM)[57],
organi dello Stato la cui istituzione ed attivazione, pur se ritardata
(«le iniziative legislative del Governo rimontavano al 1954; ma la loro
traduzione in leggi formali si ebbe appena negli anni 1957-58»), conferma
la fase politica di «disgelo costituzionale» negli anni della
Presidenza della Repubblica di Gronchi.
Così come quegli stessi anni furono decisivi per importanti
scelte di politica estera incidenti sull’ordinamento costituzionale.
Paladin approfondisce, infatti, la c.d. «restituzione di Trieste
all’Italia», che dopo fasi alterne (e «velleità
irrealistiche» ed “ambivalenze”), giunse ad un primo decisivo
compimento con il d.p.r. del 27 ottobre 1954, che nominava un
«Commissario generale del Governo» per Trieste (atto istitutivo
contestato e ritenuto «palesemente incostituzionale»)[58];
il decreto commissariale emanato il 3 marzo 1955, «per estendere a
Trieste i “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato
italiano”»; la legge ordinaria n. 493 del 1956, «che rese
possibile la partecipazione dei cittadini di Trieste alla elezione della Camera
dei deputati»[59].
Così come è dedicata attenzione al Trattato
istitutivo della CEE, del 1957[60],
in cui, secondo il Nostro, l’esecutivo italiano «dimostrò una
rara preveggenza ed una notevole capacità propositiva», nonostante
la novità del Trattato CEE, quasi che «non incidesse – sia
pure in prospettiva – sull’ordinamento costituzionale e
sull’intero sistema normativo dello Stato italiano»[61],
non fu colta né dai costituzionalisti né dai cultori di diritto
interno. Cosicchè, «la posizione del Governo e della maggioranza,
in vista della ratifica dei Trattati di Roma, fu curiosamente nel senso che
quegli accordi non comportassero alcuna limitazione della sovranità,
bensì il congiunto esercizio di poteri spettanti ai singoli
Stati»,e questo sebbene «il Trattato istitutivo e l’intero
ordinamento della CEE non rimanevano avulsi dall’ordinamento di ciascuno
Stato membro, ma condizionavano le rispettive legislazioni, integrandosi con
esse».
Al riguardo il Paladin ricorda l’importante sentenza n. 14
del 1964, in cui il Giudice delle Leggi, «nel decidere sul preteso
contrasto fra la legge istitutiva dell’ENEL ed il Trattato CEE»,
«sostenne … che l’Italia fosse ancora libera di derogare in
via legislativa alla legge n. 1203»(che recepì il Trattato CEE
nell’ordinamento giuridico italiano), «senza perciò
contraddire l’art. 11 della Costituzione»[62].
Quest’ultimo assunto fu dappresso modificato dalla giurisprudenza
costituzionale, a partire degli anni settanta, «per non collidere con gli
orientamenti delle istituzioni comunitarie (e specialmente della Corte europea
di Giustizia)».
La seconda metà degli anni cinquanta, secondo il Paladin,
lascia, comunque, irrisolti non pochi problemi e ne propone di nuovi, che si
espanderanno poi negli anni sessanta.
Anzitutto, la “vexata quaestio” della
riforma della pubblica amministrazione, anche per attuare l’art. 97
Cost., i principi costituzionali dell’imparzialità e del buon
andamento amministrativo. Gli esecutivi e la maggioranza parlamentare non
raccolsero «gli spunti offerti dai lavori della Commisione Forti, presso
il Ministero della Costituente». L’illustre autore analizza un
quadro organizzativo che ricorda, si consenta la metafora, “il disordine
costituito” di cui parla il filosofo Emanuel Mounier o il
“disordine del mondo” del “Sillabario” dello scrittore
Goffredo Parise. Si parla, infatti, di «scarsa efficienza» e
«crescente gigantismo di stampo tradizionale»; di lentezza delle
procedure”, “frammentazione” e «settorializzazione
degli apparati», di «sorda resistenza che l’amministrazione
opponeva alle riforme funzionali ed organizzative»[63].
Perciò, si muovono anche critiche ai criteri organizzativi contemplati
dal Testo unico n.3 del 1957, sulla disciplina delle “carriere” del
personale amministrativo.
Più che riformare l’amministrazione statale
tradizionale, si costituirono amministrazioni parallele, quali la Cassa per il
Mezzogiorno o la Federazione dei consorzi agrari, e gli enti pubblici
«autonomi di gestione» (IRI, ENI, già istituiti dal
fascismo) del sistema delle partecipazioni statali, così come
razionalizzato dall’ordinamento dell’economia pubblica disciplinato
dalla legge 22 dicembre 1956, n. 1589, che introdusse i “criteri di economicità”
degli enti di gestione stessi (formula peraltro ambigua e criticata dal
Paladin, che non produsse gli effetti sperati)[64].
L’insigne costituzionalista muove rilievi critici al
funzionamento del sistema delle partecipazioni statali, divenuto poi uno
strumento di occupazione dello Stato da parte dei partiti al potere[65].
Ora, il tema è puntualmente ricollegato al ruolo
costituzionale dei partiti politici, che, da strumenti essenziali di
partecipazione politica democratica, divennero “centri di potere”
che attuano il «perverso utilizzo di risorse pubbliche»[66]
per finanziare la propria attività politica. «Ipertrofico aumento
della spesa pubblica», “corruzione”, «occupazione dello
Stato complessivamente inteso»: sono questi gli argomenti che tra gli
anni cinquanta e sessanta connotano il discorso storico-politico e
costituzionalistico sulle forze politiche di maggioranza e sulla D.C.
Ed il Paladin chiude provvisoriamente il discorso sul tema, poi
ripreso nel capitolo quarto, con una domanda profonda e presaga: «quale
poteva essere, infatti, l’avvenire del regime democratico, dal momento
che i partiti tendevano a non assolvere più il loro ruolo
essenziale?»[67].
Così come è realisticamente pessimista il riferimento
ai «primi passi della programmazione economica» degli anni
’50. Il “Piano Vanoni”, intitolato “Schema di sviluppo
dell’occupazione e dei redditi in Italia nel decennio 1955-1964”,
«non riuscì ad incidere notevolmente né sugli sviluppi
complessivi del Paese né sulla stessa azione di governo, nel corso degli
anni del neocentrismo … il boom economico, a cavallo tra gli anni
cinquanta e sessanta, si mosse in direzioni ben diverse da quelle
programmate…». Manca ancora una programmazione economica generale,
ma gli obiettivi del Piano Vanoni furono inadeguati rispetto alla tumultuosa
espansione economica.
Pur non condividendo la forte diffidenza del Paladin verso la
programmazione economica, che dappresso richiameremo più diffusamente,
se ne deve riconoscere l’indubbia aderenza ad aspetti non trascurabili
della realtà storica ed economica.
3.1. – L’autore torna ad affrontare questi ultimi temi
nel quarto capitolo, sulla preparazione e l’avvento del
«centro-sinistra organico».
Il progetto politico neo-centrista si dissolse, come suscritto, con
la cruenta fine dell’esecutivo Tambroni. Mutato il quadro internazionale,
con la presidenza Kennedy e la fine dello stalinismo, e venuto meno il veto
vaticano ad un allargamento dell’area di governo al P.S.I., nel luglio
del 1960 fu varato il governo Fanfani delle “convergenze parallele”[68],
«sorretto dalla determinante astensione del P.S.I.»; esecutivo che,
pur vivendo «una vita stentata», realizzò il «periodo
più vitale del centro-sinistra», «ancora incompiuto come
formula, sia quanto alla maggioranza governativa, sia quanto alla composizione
del Governo, ma capace di realizzazioni incisive, che sarebbero invece
difettate nel caso dei governi Moro della successiva legislatura».
Mentre il giudizio di Paladin sul “centro-sinistra
organico” è severo, parlando di «esperienza centrista»
priva di «profonde novità» (pur scrivendo che si deve tener
conto, nella valutazione storica, «delle trasformazioni subite dalla
società italiana negli anni sessanta») e non evidenziando
pienamente l’intelligenza politica di Aldo Moro[69]
(definito come una sorta di «mediatore dell’immobilismo», a
capo di esecutivi troppo divisi ed immobili) e l’importante novità
della presenza socialista negli esecutivi, la «spinta politica
innovativa» del governo Fanfani è pienamente valorizzata.
Si sottolinea, infatti, sul tema, l’importanza della legge n.
1643 del 1962, che nazionalizzò l’ENEL, sulla base dell’art.
43 Cost.[70],
e della legge n. 1859 dello stesso anno, che «ridisciplinava la scuola
media in dichiarata esecuzione dell’art. 34, quanto alla protrazione
dell’obbligo scolastico “per almeno otto anni”», pur
costituendo «l’approvazione e l’applicazione di tali atti
… il frutto di vicende ben altrimenti problematiche»[71].
Il biennio ‘62-’63 è un crocevia di grande
importanza. La fragile democrazia italiana si mostra incapace di portare a
compimento le tendenze politiche riformiste.
Paladin ricorda giustamente il sacrificio dello schema di legge
urbanistica predisposto dal Ministro Sullo (che poi scrisse sul tema un bel
libro, Lo scandalo urbanistico), «che prospettava una disciplina
assai complessa e fortemente innovativa dell’intera materia»[72];
sottolinea le spinte conservatrici dei settori politici più moderati del
partito democristiano, anche preoccupati degli eventuali esiti della consultazione
del 1963. E ritorna sul forte e significativo ritardo nell’attuazione del
Titolo V della Costituzione e del regionalismo, ricordando che tra il ’62
ed il ’63 furono approvati due soli testi sulla riforma regionale, il
“piano straordinario” per la rinascita della Sardegna e lo
“Statuto speciale per la Regione Friuli-Venezia Giulia”.
Con eguale distaccato disincanto l’autore si sofferma sui
successivi sviluppi del centro-sinistra e degli esecutivi retti da Aldo Moro.
L’insigne autore evidenzia gli «aperti dissensi» tra
democristiani e socialisti, la faticosa formazione del primo governo Moro e del
primo governo “organico” di centro-sinistra, che causò gravi
malumori nella destra democristiana, capeggiata da Mario Scelba, e la fuoriuscita
dal P.S.I. di parlamentari della sinistra socialista, che diedero vita al
P.S.I.U.P. Sul punto il Paladin mostra un’attenzione di rilievo
all’analisi politologica: la D.C. viene descritta quale «un partito
di correnti, destinate a mantenere un minimo grado di unità, per quanto
si contrapponessero e si moltiplicassero», il P.S.I. è definito
«un partito di frazioni fortemente ideologizzate, che non esitavano a
scindersi là dove fosse in questione la loro identità»[73].
Quest’ultimo aspetto, secondo il Nostro, emerse anche nella breve
esperienza dell’unificazione di socialisti e socialdemocratici nel
P.S.U., che finì con la sconfitta politica del 1968, ed in cui «la
parte residua della sinistra socialista continuò a recalcitrare».
Peraltro, l’analisi del centro-sinistra organico giunge a
definire la maggioranza priva «di compattezza e di efficienza»[74],
di unità e solidarietà, retta, da una visuale
costituzionalistica, «dal principio del policentrismo
ministeriale», per cui «la coerenza della politica
governativa» non era «affidata a meccanismi giuridico-formali,
bensì all’eventuale convergenza delle vedute dei soggetti
interessati», e «venne anzi esasperata quanto ai molti Comitati
interministeriali, che in quegli anni andavano affiancando il Consiglio dei ministri;
giacchè si sostenne che ognuno di essi disponesse di competenze
esclusive, laddove il Consiglio sarebbe stato dotato d’una competenza
meramente residuale». Quest’ultima, secondo l’autore,
costituì una delle anomalie del sistema di governo della quarta
legislatura repubblicana.
Paladin evidenzia altre disfunzioni, quasi a voler rimarcare la
pluralità di domande sociali cui l’esecutivo doveva far fronte ed
i sempre instabili equilibri politici faticosamente raggiunti. Si legge, ad
esempio, che i lavori del Consiglio dei ministri, che «si riuniva con una
cadenza bisettimanale», si svolgevano «in modo affannoso, sulla
base di ordini del giorno quanto mai affollati»; e che «dal canto
loro…le Camere stesse apparivano in crisi», «se andavano
montando le iniziative parlamentari, diminuiva il numero complessivo delle
leggi approvate nel corso della quarta legislatura»[75].
Purtuttavia, l’autore riconosce che una qualche tendenza
riformista vi fu, sia pure non corrispondente alle istanze programmatiche dei
governi Moro e sia pure sempre criticata.
Si ricordano, ad esempio, la legge n. 756 del 1964, «che
riuscì finalmente ad incidere in tema di patti agrari, ponendo il
divieto di stipulare nuovi contratti di mezzadria»; la legge n. 303 del
1966, «che metteva fine alla scandalosa gestione della Federconsorzi,
istituendo l’Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo
(AIMA)»; la legge n.604 del ’66, «che tutelava il diritto al
lavoro nelle imprese dotate di almeno 35 dipendenti»[76].
Senza dubbio, però, le conclusioni paladiniane più critiche
e pessimiste riguardano «la parabola della programmazione economica negli
anni sessanta»[77].
Il processo programmatorio, che inizia con la “Nota
aggiuntiva” del ministro del bilancio La Malfa, presentata alla Camera il
22 maggio 1962, che si poneva come scopo il superamento degli “squilibri
generati o accentuati dalla stessa espansione economica”, ebbe un
percorso poco lineare e farraginoso, che culminò nell’unica legge
di programmazione economica approvata,.la legge 27 luglio 1967 n. 685, che
intese attuare la previsione costituzionale del terzo comma dell’art. 41
Cost.
Il discorso del Paladin non esita a parlare «di un pasticcio
senza precedenti nell’intera storia costituzionale italiana»[78],
ricordando il giudizio sarcastico di Fanfani (“un libro dei sogni”)
e quello duro del Predieri (“legge beffa”), affermando che
«quasi nessuna delle riforme destinate a saldarsi con il programma
… entrò in vigore della quarta legislatura».
L’autore indaga, con ricchezza di riferimenti al contesto
storico-economico, sulle cause del fallimento della programmazione economica.
Sul tema il Paladin, ricordando le tesi di Lombardini e di Ruffolo, parla di
assenza di «un’adeguata considerazione dei mezzi
indispensabili» per l’attuazione degli obiettivi del Programma
economico e di «mancanza di strumenti operativi efficaci»[79].
E’ scritto, altresì, che «non ebbe successo il
tentativo di far rispettare il programma, a cavallo fra la quarta e la quinta
legislatura, dal Governo e dallo stesso Parlamento»; che «il
programma 1966-70 rimase largamente inapplicato … nella stessa parte
concernente la finanza pubblica»; che il comitato interministeriale per
la programmazione economica non riuscì ad esercitare in modo incisivo i
poteri che gli erano stati attribuiti dalla legge n. 48 del 1967 che lo
istituì[80].
Purtuttavia, le conclusioni del Paladin sono solo in parte
condivisibili. Se è vero che sono mancati, sia nella fase ascendente che
discendente, interventi organici per l’effettiva attuazione del
programma, e che le pretese della legge di programmazione economica erano
ampiamente generiche e difficilmente attuabili; non si può non
evidenziare come lo sforzo programmatorio costituì il portato di una
avvertita esigenza politica di riforma del sistema economico, di equa redistribuzione
delle risorse, di superamento del divario tra Nord e Sud, pur nel rispetto dei
vari modi di produzione coesistenti nel sistema economico nazionale. Insomma,
di un “kòmbinat” di fattori (Ruffolo) che con interventi
complessi (e talora frastagliati) cercava di attuare la Costituzione economica
del ’48, nonostante i diversi errori commessi.
Paladin sull’argomento richiama, invece, il filosofo ed
economista liberale Hayek, ritenendo che «la stessa idea di
programmazione globale e pluriennale … era ed è viziata»[81].
Nonostante ciò, è indubbiamente da condividere la
riflessione sulle «frequenti e spesso imprevedibili emergenze economiche
e politiche», che «inducono o costringono anche i governi … a
discostarsi di continuo dalle previsioni e dagli impegni programmatici,
offrendo soluzioni scoordinate»; e quella sulle «interdipendenze
delle varie economie», in cui è richiamata la crisi petrolifera
degli anni settanta e l’integrazione tra l’economia italiana e
quella degli altri Stati della Comunità europea, ritenendo opportunamente
che la globalizzazione non sia solo «un fenomeno peculiare del periodo
più recente»[82].
3.2. – Nell’analisi della forma di governo
dell’età del centro-sinistra organico il Nostro analizza il ruolo
svolto dai due Presidenti della Repubblica dell’epoca, Segni e Saragat[83].
Segni, esponente autorevole della D.C., fu eletto con una
maggioranza risicata, con i voti del M.S.I., «in chiara antitesi rispetto
all’emergente coalizione governativa» ed «ha inteso in modo assai
penetrante le sue funzioni di controllo e di partecipazione alle scelte
dell’esecutivo». Ma l’episodio controverso della Presidenza
Segni fu la crisi dell’estate del ’64. Durante la formazione del
secondo governo Moro, oltre alle consuete consultazioni, Segni incontrò
anche alti ufficiali, tra cui il generale dei carabinieri De Lorenzo, di questi
incontri «fu data pubblica notizia» ed essi furono pure intesi nel
senso che «il Capo dello Stato intendesse risolvere la crisi travolgendo
la formula del centro-sinistra». Quel che è più inquietante
è che a distanza di pochi anni emerse che De Lorenzo «aveva
predisposto il cosiddetto “Piano Solo”, tale da condurre la tutela
dell’ordine pubblico ai limiti del colpo di Stato».
Sul tema la “passione civile” dell’insigne autore
è il vero motivo dominante della ricostruzione proposta. La Commissione
parlamentare d’inchiesta, istituita con la l.n. 93 del 1969, secondo il
Paladin, «non ha dissolto interamente l’ombra così gettata
– di riflesso – sulla Presidenza Segni». Se, infatti, la
relazione di maggioranza ha concluso «nel senso che la
responsabilità del piano fosse addebitabile a De Lorenzo», la
più corposa relazione di minoranza, redatta da Terracini ed altri, ha
ritenuto che il Presidente della Repubblica non poteva non essere a conoscenza
dello stesso “Piano Solo”, così scavalcando il ministro
della difesa.
Siamo dinanzi ad uno dei misteri irrisolti della storia
repubblicana e la ricerca del “vero” storico non tocca più
solo fatti noti, ma strategie occulte e rapporti personali non chiari. Si
entra, perciò, in una «rete di connessioni» che va oltre la
politica strettamente intesa e tocca sfere di interessi di una sorta di,
volendo usare una metafora, «realtà sub-liminale», per
riprendere una locuzione cara allo scrittore Manlio Cancogni.
Sull’argomento è anche ricordata in nota «la finale
testimonianza resa da Moro alle Brigate Rosse» sull’argomento[84].
Peraltro, la Presidenza Segni ebbe breve durata, per le condizioni
di salute dello stesso Capo dello Stato, e dopo qualche mese di
«impedimento temporaneo», che costituì un caso di assoluta
novità, Segni rassegno le dimissioni.
Di altro natura fu la convergenza politica che si realizzò
nell’elezione di Saragat, nel dicembre del ’64, di ampio respiro e
comprensiva, novità rilevante, del voto del P.C.I., quasi a voler
sottolineare uno stacco rispetto alla Presidenza Segni[85].
Saragat si volle immediatamente caratterizzare quale il «Presidente del
centro-sinistra», anzi «difese ad oltranza la formula del
centro-sinistra».
L’autore sottolinea, peraltro, «l’attivismo di
Saragat» in politica estera; l’esercizio del potere di esternazione
e di quello di grazia (che può considerarsi un potere «di stampo
presidenzial-governativo»); la nomina di due uomini politici in
attività, quali Leone e Nenni, a senatori a vita; l’utilizzo delle
«supplenze parziali» del Presidente del Senato nel periodo di un
viaggio presidenziale all’estero; il problematico rapporto tra il Capo
dello Stato, quale Presidente del C.S.M. ed il C.S.M. stesso. Tutti elementi
connotativi del settennato saragattiano, in cui sono rinvenibili fattori
eterogenei rispetto alle precedenti presidenze. Ma, come ben ritiene il
Paladin, «resta fermo che i profili più notevoli della presidenza
Saragat siano stati quelli relativi ai suoi rapporti con il Presidente
incaricato e con l’intero esecutivo»[86].
Insomma: con Segni e Saragat, nonostante le forti differenze tra le
due presidenze, appare evidente che il Capo dello Stato sia soprattutto un
«garante politico», «un soggetto immerso nel gioco dei
rapporti politici fra i partiti e gli organi costituzionali di governo, che i
suoi stessi atti concorrono ad influenzare, generando effetti politicamente
rilevanti»[87].
Perciò, Saragat sostenne il secondo governò Moro nel
’65 e facilitò la formazione e la successiva attività del
terzo governo del medesimo esponente politico nel ’66. Dopo le elezioni
politiche del ’68 gli incarichi conferiti divennero, addirittura,
“vincolati”, al fine di garantire la formazione di un esecutivo di
centro-sinistra o, persino, di un «organico quadripartito».
3.3. – Gli anni del centro-sinistra, inoltre, nonostante le
forti contraddizioni, si sono caratterizzati per «la crescita delle
libertà individuali e collettive»[88].
Lo «sviluppo dei diritti di libertà (e delle altre
situazioni soggettive costituzionalmente rilevanti)…tanto sul piano della
normazione quanto in vista dell’applicazione delle leggi vigenti»
è coinciso, «secondo un assunto di Cheli», con «una
seconda fase dell’attuazione costituzionale propriamente intesa».
L’autore menziona anzitutto la l.n. 66 del 1963 sul «conferimento
alle donne del diritto di accedere a tutte le cariche, le professioni e gli
impieghi pubblici, magistratura compresa». Ma ricorda altre importanti
leggi, tra cui la legge per la ratifica e l’esecuzione del Trattato
istituente la Corte europea dei diritti dell’uomo e la legge
costituzionale del ’67 (e la conseguente legge ordinaria) relativa
all’estradizione per i delitti di genocidio.
Si afferma «una più salda civiltà giuridica»,
la «dilatazione dello spirito di libertà» che esercita
influenza sulla stessa applicazione delle leggi e sull’operato della
magistratura ordinaria, ormai propensa ad «applicare direttamente la
Costituzione» se ciò fosse «tecnicamente possibile»,
ed a ricorrere all’«interpretazione adeguatrice delle leggi
ordinarie», «in conformità ai principi contenuti nella
Costituzione»[89].
Paladin, inoltre, riconosce un ruolo di rilievo, nel
“cammino” delle libertà durante gli anni del
centro-sinistra, alla Corte Costituzionale, e questo soprattutto per le
pronunce che, rendendo «inefficaci norme legislative del periodo
statutario-fascista, compensando le omissioni del legislatore senza
contrapporsi frontalmente al Parlamento repubblicano», hanno inciso sulla
effettiva titolarità dei diritti civili e sul rafforzamento della
protezione dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi[90].
Ora, l’autore, con riferimento a ciò, parla di
consonanza tra gli orientamenti giurisprudenziali del Giudice delle Leggi e
«l’opinione pubblica di quel periodo», così sollevando
una particolarmente attuale questione, quella dell’influenza delle
aspettative dei giuristi, degli intellettuali e della sfera pubblica sugli
indirizzi dell’organo di giustizia costituzionale.
3.4. – Le considerazioni paladiniane più suggestive di
questo capitolo sono, però, quelle dedicate al ruolo delle forze
politiche organizzate e dei sindacati negli anni del centro-sinistra. Oltre ad
emergere una particolare finezza ricostruttiva, sono pagine che si segnalano anche
per la costante attenzione prestata, oltre che alla dottrina
costituzionalistica, anche alla dottrina politologica (in particolare alle
ricostruzione del Farneti, del Galli e del Sartori)[91].
Le preoccupazioni dell’insigne autore riguardano anzitutto il
“ruolo atipico” assunto dai partiti, i quali non erano più
corrispondenti al modello costituzionale: «negli anni sessanta era
già dominante l’avviso che l’essenza di tali associazioni
non consistesse nel fungere da comunità intermedie fra il popolo e lo Stato-governo;
bensì nell’essere fine a se stesse, quali organizzazioni rivolte
ad acquisire e conservare posizioni di potere , a vantaggio di burocrazie
partitiche ormai tendenzialmente chiuse».
I partiti di massa diventano partiti “pigliatutto”,
«miranti a raccogliere consenso per ogni dove». La partecipazione
dei cittadini alla vita democratica viene piegata ad esigenze di “basso
profilo”: si ricorda il pernicioso fenomeno delle «tessere troppo
sospette» nella D.C., con un ingrossamento incontrollato del numero degli
iscritti. Ciononostante, si ritiene, in sintonia con il Farneti, che i partiti
restassero, in ogni caso, strutture “di solidarietà” e non
solo di “interesse”[92].
Ma l’ “espansione centrifuga” dei partiti e la loro
insopportabile invadenza divennero smisurate, questo anche con riferimento alla
pervasività dell’incidenza partitica sull’amministrazione
pubblica.
Se a ciò s’aggiunge la particolarità del
“quadro politico” italiano, dominato dal “bipartitismo
imperfetto”, per riprendere il linguaggio di Giorgio Galli, e dalla
“conventio ad excludendum”, cioè dalla
“inamovibilità” della D.C. «quale fulcro delle
coalizioni di governo», si spiegano bene alcuni gravi fenomeni, quali la
corruzione entro il gigantismo degli apparati partitici, centrali e periferici
e nell’ambito del crescente correntismo. Fenomeni che hanno poi assunto
una pregranza fortemente degenerata nei successivi eventi della storia
repubblicana, al punto da far esplodere l’intero sistema politico-partitico
della prima Repubblica nella significativa vicenda c.d. di
“tangentopoli”.
Peraltro, l’autore rileva come all’incipiente declino
dei partiti faceva riscontro la crescita delle grandi confederazioni sindacali,
la sempre maggiore “unità d’azione” delle tre
confederazioni maggiormente rappresentative nell’ambito
dell’autonomia sindacale dalle forze politiche di riferimento; «la
tendenza dei sindacati ad esorbitare dall’ambito delle mere
rivendicazioni salariali…, per dialogare in prima persona con gli organi
statali di governo e per contribuire in questo modo alla definizione ed
all’attuazione delle riforme legislative di rilievo
economico-sociale»[93].
4.1. – L’ultima parte dell’opera purtroppo
incompiuta riguarda la quinta legislatura repubblicana, il quadriennio
1968-1972.
Paladin esordisce accennando ad una fase storico-politica in cui
inizia un lungo periodo, che durerà sino alla fine degli anni ’70,
«di malfunzionamento delle istituzioni, aggravato dalla crisi
generalizzata dell’economia nazionale: il periodo forse più
difficile dell’intera storia repubblicana, anche nel confronto con i
traumatici anni novanta»[94].
Ciononostante, sono anni in cui entrano in vigore diverse leggi ed altri atti
normativi attuativi delle disposizioni costituzionali e nel sistema politico,
come l’autore ben osserva, si cerca «un rinnovato rapporto tra le
forze politiche del centro sinistra e il Partito comunista (anche se la conventio
ad excludendum continuava e continuò ad imporsi per un lungo
periodo, ben oltre le elezioni del ’72)»[95].
Sull’argomento il Paladin manifesta una forte diffidenza, non
condivisa dallo scrivente, sia verso la formula socialista degli
“equilibri avanzati”, sia con riguardo a quella democristiana
dell’“arco costituzionale”, sia verso quella specificamente
morotea della “strategia dell’attenzione”, sia, soprattutto,
nei confronti di «prospettive ancora più ambiziose», quali
il “compromesso storico” tra la D.C. ed il P.C.I. teorizzato da
Berlinguer. Parla espressamente di “parole d’ordine” o
“slogan”. Purtuttavia, si deve aggiungere che dietro a queste
complesse formule politiche, contrariamente a quanto scritto
dall’illustre costituzionalista, era talora ben presente sia
un’esigenza di piena attuazione e di difesa della partecipazione democratica
contemplata dal testo costituzionale, sia di «controllo delle masse sugli
apparati». Però, le incisive analisi paladiniane in sede
storico-politica sono notevoli se si pone in giusta evidenza la mancata (o
parziale) realizzazione delle formule politiche surriferite ed il loro scarso
rendimento storico, soprattutto alla luce della vischiosità ed
impermeabilità dei vertici del sistema partitico italiano, specie del
partito di maggioranza relativa.
A prescindere da ciò, è storicamente rilevante che le
leggi attuative della Costituzione costituiscano un primo terreno
d’incontro tra i partiti di governo e quello comunista e che, dal 1970,
con la creazione delle Regioni ordinarie, il P.C.I. sia diventato una forza di
governo a livello regionale, un partito «semi-accettato». La fase
storica che si esamina è costellata da «governi nazionali …
molto più fragili che nel recente passato, pur contraddistinto dalla
debolezza e dalla conflittualità delle alleanze di centro-sinistra.
Quella stessa formula non era più atta a costituire un punto comune di
riferimento, sebbene si tentasse continuamente di rivitalizzarla, tanto ad
opera del Capo dello Stato quanto da parte delle forze politiche già
coalizzate». Anni particolarmente convulsi in cui la fisionomia dello
Stato pluralista laico vacilla.
La vicenda dell’approvazione della legge sul divorzio
è emblematica. La D.C. non potendone evitare il varo ottiene
l’approvazione della legge attuativa della disciplina delle consultazioni
referendarie. Non solo: il terzo governo presieduto da Mariano Rumor, come i
due precedenti di durata molto breve, conseguì la fiducia il 29 marzo
1970, ma «inopinatamente il 6 luglio di quello stesso anno Rumor rendeva
nota la propria determinazione a dimettersi; il che concretava, per la prima e
unica volta nella storia repubblicana, l’ipotesi dottrinale di una crisi
sostanzialmente voluta e causata dal solo Presidente»[96].
Si parlò di caduta dell’esecutivo per ragioni né
extraparlamentari, né extrapartitiche. Motivi poi chiariti dallo stesso
Rumor, nelle sue memorie, molti anni dopo, e riguardanti soprattutto «i
difficilissimi rapporti fra il Governo e la Santa Sede per effetto della legge
sul divorzio, la definitiva approvazione della quale si stava
approssimando».
Ma anche il successivo governo Colombo, pur durando circa diciotto
mesi, ebbe vita molto travagliata per i costanti dissidi tra i partiti della
coalizione governativa, e cadde definitivamente, dopo “pseudocrisi”
e “rimpasti”, poco dopo l’estenuante investitura di Giovanni
Leone alla carica di Capo dello Stato, avvenuta con i voti della destra e senza
quelli socialisti[97].
Questa vicenda politica, oltre a sancire l’ulteriore irreversibile
declino del centro-sinistra, portò al primo scioglimento anticipato
delle Camere della storia repubblicana, decretato da Leone il 28 febbraio 1972.
Peraltro, il modo in cui si giunse allo scioglimento anticipato da
parte del Capo dello Stato è definito dallo stesso Paladin «la
più manifesta … scorrettezza costituzionale commessa da Leone,
durante il complessivo mandato presidenziale»[98].
Questo perché anziché rinviare il governo dimissionario
presieduto da Colombo alle Camere, «per far constatare la formale rottura
del rapporto fiduciario e finalmente sciogliere le Camere stesse, con un
decreto controfirmato dal Presidente del Consiglio uscente; oppure …
conferire un nuovo incarico per la formazione di un governo elettorale
“tecnico”»; conferì l’incarico ad Andreotti, che
accettò senza riserve, ed il cui esecutivo minoritario non si
limitò alla gestione degli affari correnti, avendo fatto ricorso alla
decretazione d’urgenza ed avendo nominato numerosi alti funzionari.
4.2. – Il maggior risultato della quinta legislatura fu
l’avvio della riforma regionale. L’attuazione del Titolo V della Costituzione
fu determinato da fattori storici notevoli che posero in risalto la crisi dello
Stato-apparato: l’autunno caldo del 1969 e le contestazioni del 1968-69.
Il varo delle Regioni ad autonomia ordinaria è stato
salutato con eccessive aspirazioni e «si affermava addirittura che la
riforma regionale costituisse un “fatto rivoluzionario”».
Queste ottimistiche previsione furono presto disattese. Anzitutto sul piano dei
contenuti degli Statuti regionali, che, oltre a discostarsi «in modo
sistematico dalle puntigliose disposizione del ‘53», della Legge
Scelba, «con particolare riguardo alla forma regionale di governo»,
contenevano una serie di retoriche norme programmatiche che affidavano
«sovente alle amministrazioni regionali compiti eccedenti la loro potestà»[99].
Poi, per «le compressioni più significative dell’autonomia
regionale … verificatesi nel ’70 e nel ’72, a carico della
finanza e dell’amministrazione delle Regioni ordinarie». Inoltre,
«le funzioni affidate alle amministrazioni regionali erano troppo
circoscritte»[100],
non fu attuata la «delega per il riordino dell’amministrazione
centrale»[101],
«i governi regionali risentivano delle scarse risorse disponibili, in una
fase storica in cui la crisi della finanza pubblica stava divenendo
inarrestabile»[102].
Ed anche il «secondo trasferimento delle funzioni statali
alle Regioni ordinarie», culminato nel d.p.r. n.616 del 1977, pur
ridefinendo «svariate materie regionali, anche al di là delle
testuali indicazioni della Carta Costituzionale», viene definito dal Paladin
non «un punto d’arrivo», «troppe…erano le riforme
ulteriori che esso preventivava … e troppi di questi annunci rimasero
insoddisfatti» («la riforma aveva trasformato solamente il
“dorso” del complesso formato dai pubblici apparati lasciando
indenni la testa e gli arti: vale a dire lo Stato centrale e gli enti autonomi
territoriali»: questa è la tesi di fondo ripresa dal
“Rapporto ‘79” di Giannini)[103].
La ricostruzione della quinta legislatura dedica poi ampio spazio
all’introduzione del referendum; ai nuovi regolamenti parlamentari; alle
riforme concernenti i diritti ed i doveri dei cittadini, in particolare
all’approvazione dello Statuto dei lavoratori ed al nuovo ordinamento
tributario; alla riforma del servizio pubblico radiotelevisivo ed al nuovo diritto
di famiglia (attuazioni queste ultime realizzate nella sesta legislature,
rispettivamente dalla l.n. 103 del 1974 e della l.n. 151 del 1975). Tutte
tematiche che l’autore affronta con rigorosa analisi delle norme, sempre
cogliendovi elementi importanti di attuazione della Costituzione e del sistema
democratico.
Con riferimento al referendum, in particolare, Paladin esamina
anche le posizioni delle forze politiche sul tema referendario e le diffidenze
del P.C.I. verso la democrazia diretta, che temeva un uso sproporzionato ed
abnorme dello strumento referendario[104].
Ma si ricostruisce anche l’importante e significativo esito
del referendum sulla legge sul divorzio del 1974, referendum che si
espletò dopo rinvii e tentativi di «scongiurare in tutti i modi un
voto popolare che i divorzisti temevano e che la stessa Democrazia cristiana
preferiva evitare, purché si riuscisse a soddisfare le esigenze della
Santa Sede»[105].
5. – Pur se opera incompiuta, quella di Paladin è
storia costituzionale, come suscritto, articolata, attualizzata ed approfondita
nell’instabile equilibrio tra diritto, politica e storia. Questo anche in
considerazione della difficoltà di scrivere su eventi storici
contemporanei, su cui, comunque, l’insigne autore dimostra di sapersi
soffermare con aderenza, riprendendo Benedetto Croce, al documento ed alla
critica, alla vita ed al pensiero, che sono «le vere fonti della
storia», «i due elementi della sintesi storica»[106],
con cui si realizza quella che il Marrou chiamava, con altro linguaggio, la
«comprensione del documento» prodotta dalla «ricerca
critica», e quindi la «conoscenza storica»[107].
Lo stesso Croce, peraltro, insegnava che «nel fondo di ogni giudizio
storico» «c’è un bisogno pratico … che …
conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”,
perché … essa è, in realtà storia sempre riferita al
bisogno e alla situazione presente»[108].
Ed il richiamo al presente è ben chiaro nelle pieghe delle
pagine esaminate.
* Il presente saggio, dedicato alla memoria del Prof. Livio Paladin,
è di prossima pubblicazione nella rivista “Clio” e
riproduce, ampliato e rivisto, il testo della relazione presentata
all’incontro di studio “Costituzione e storia in Livio Paladin”,
tenutosi il 6 aprile 2004 a Sassari per iniziativa della cattedra di Dottrina
dello Stato della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università
di Sassari, in cui furono anche relatori i Proff.ri Arduino Agnelli, purtroppo
scomparso, e Carlo Ghisalberti.
[1] L. Paladin, Per
una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004.
[3] Cfr. E. Cheli, Introduzione
a L. Paladin, Per una storia
costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004, 10.