Università
di Sassari
Due recenti pubblicazioni, dedicate
alla giurisprudenza romana e al suo linguaggio giuridico, riproducono gli atti
dei convegni, frutto dell’incontro interdisciplinare tra gli studiosi nel
quadro del Progetto di ricerca, Il latino
del diritto e la sua traduzione. La traduzione dei Digesta di Giustiniano: Il Linguaggio dei Giuristi Romani [Università di Lecce
– Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Studi di Filologia
e Letteratura 5], a cura di O. Bianco e S. Tafaro, Congedo editore, Galatina 2000;“Scientia iuris” e linguaggio nel sistema giuridico romano,
a cura di F. Sini e R. Ortu [Università degli Studi di Sassari.
Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze Giuridiche 1], Giuffrè, Milano
2001.
Il primo lavoro pubblica gli Atti del
Convegno Internazionale di Studi tenutosi a Lecce, il 5-6 dicembre 1994.
Nell’Introduzione il Tafaro
sottolinea l’importanza dei colloqui di carattere interdisciplinare,
poiché essi completano le singole conoscenze. Il convegno, che
s’incentra sul linguaggio tecnico della scientia iuris, mira, infatti, ad «un avanzamento scientifico
delle conoscenze sul diritto romano, visto come momento della realtà
romana, guardando al passato, ma non senza ammiccare al presente». Il
primo contributo, La ‘terminologia
matrimoniale’ nelle costituzioni di Costanzo II: uso consapevole della
lingua e adattamento politico, di G. de Bonfils, procede ad una analisi del
vocabolario relativo al matrimonio. L’atto di sposarsi dell’uomo
veniva indicato con la locuzione ducere
uxorem, poiché in origine lo sposo conduceva l’uxor nella propria casa, per sottoporla
alla manus. Tale espressione non
mutò di significato e venne utilizzata in modo costante presso i
giuristi del III e del IV secolo d.C. Rimase immutato fino ai giuristi
postclassici anche l’uso del verbo nubere,
termine indicante l’azione di sposarsi delle donne, derivato
dall’uso delle spose di velarsi il capo. Questo vocabolario matrimoniale
risulta sporadico nella legislazione del IV secolo, mentre l’uso è
più frequente nel Codice giustinianeo. Dall’analisi degli atti
normativi di Costanzo II e Costante, si può affermare che il raro
utilizzo di tale terminologia nel IV secolo non derivò da «un
processo degenerativo della lingua». Al contrario, si descrissero alcune
fattispecie matrimoniali criminose con dei voluti barbarismi, proprio per
impedire che, con l’uso delle espressioni classiche corrette, questi reati
si potessero accostare al matrimonio romano. Segue poi “Negotiantes-humiliores” in un testo di Ulpiano, di E.
Höbenreich, dove si analizza il passo ulpianeo tratto dall’VIII
libro de officio proconsulis,
conservato in D. 47, 11, 6 pr. Qui il giurista severiano descrive alcuni comportamenti
criminosi contro l’annona. In riferimento alle pene previste per tali
crimini, Ulpiano procede alla distinzione tra negontiates e humiliores,
suddivisione ricondotta dalla communio
opinio alla dicotomia honestiores-humiliores. Dall’analisi del testo
appare che la distinzione honestiores-humiliores sarebbe da riportare
all’interno della categoria dei negontiates,
cioè coloro che svolgevano l’attività commerciale.
Nell’intervento successivo M. Marrone procede a delle Osservazioni su D.50.16, il titolo delle
Pandette De verborum significatione,
la cui lettura origina diverse perplessità. In particolare, si rileva
come l’ordine dei verba non sia
né alfabetico, né per materia. Il disordine fu spiegato sulla
base della famosa teoria delle masse del Bluhme (Die Ordnung der Fragmente in den Pandectentiteln. Ein Beitrag zur
Entstehungsgeschichte der Pandecten, in Zeitschrift
für geschichtliche Rechtswissenschaft 4, 1820, pp. 257 ss.), per cui i
compilatori giustinianei procedettero alla lettura congiunta delle opere
relative alla massa in questione. Tuttavia, secondo l’A., questa
osservazione «spiega ma non giustifica». Oltre al disordine nella
disposizione dei frammenti, il titolo si presenta disomogeneo, per la
eterogeneità delle varie significationes.
Nel titolo si raccolgono ulteriormente alle interpretazioni della
giurisprudenza, che indicavano gli orientamenti generali, le numerose
definizioni; tuttavia paiono assenti «le definizioni più familiari
alla tradizione romanistica», come, ad esempio, le definizioni celsine di
ius ed actio. Questo fatto può sostenere l’ipotesi secondo
cui l’intento dei compilatori fu di rendere D. 50, 16 «un titolo
“sussidiario” dove far posto alle significationes che non avevano riscontro altrove nella
compilazione». Nel suo intervento, Di
nuovo sulla «definitio» fra retorica e giurisprudenza, R.
Martini riaffronta il tema delle definitiones
già intrapreso in indagini precedenti. In tal modo, lo studioso ripercorre le ricerche di due autori
spagnoli, J. Iglesian Redondo (La tecnica
de los juristas romanos, Madrid 1987) e F. Reinoso-Barbero («Definitio periculosa»:
¿Javoleno o Labeon?, in BIDR 90,
1987, pp. ss. 285 ss.). R. Quadrato, in L’abuso
de diritto nel linguaggio romano: la “regula” di “Gai
Inst.” 1.53, analizza il brano in cui si afferma che «male nostro iure uti non debemus»,
in cui Gaio appare schierarsi contro un uso abnorme dei propri diritti,
attraverso la declamazione di una precisa regula.
Tuttavia, la sua esortazione «rimase senza gli auspicati sviluppi
normativi: un’istanza di fatto inascoltata, un’aspettativa
delusa». Siete prevenciones en la
interpretación del lenguaje jurisprudencial è il titolo del
contributo di F. Reinoso-Barbeiro, il quale propone per lo studio del
linguaggio giurisprudenziale alcuni criteri a suo avviso necessari per
l’interpretazione delle numerose similitudini presenti nel Digesto. V.
Giodice-Sabbatelli, Il catalogo degli
“iura” e “constituere” nel proemio delle Istituzioni
gaiane, procede ad un’analisi etimologica del termine constituere, utilizzato nel liguaggio
giuridico in quasi tutte le sue accezioni. Il termine si rinviene nel proemio
del manuale gaiano che descrive gli iura del
popolo romano, dove constituere indica
l’attività normativa del princeps.
In tale brano si può rinvenire la «persuasione gaiana che la lex e gli atti ad essa in vario modo
assimilabili sono manifestazioni imperative e stabili all’interno
dell’ordinamento giuridico del popolo romano». S. Schipani procede
ad un Primo rapporto
sull’attività della ricerca: “Il latino del diritto e la sua
traduzione. Traduzione in italiano dei “Digesta” di Giustiniano.
L’A. descrive alcuni aspetti dello svolgimento del programma, il cui
obiettivo di tradurre il Digesto consiste nella
«‘ripenetrazione’ dell’uso diretto» da parte dei
suoi destinatari, «i giuristi del sistema romanista». Dedicato a La negazione del linguaggio precettivo dei
sacerdoti romani, è l’indagine di F. Sini, nella quale si
rileva che il latino dei documenti sacerdotali era precettivo, e si connotava
in senso negativo, come l’uso frequente del verbo negare. Queste caratteristiche sono confermate da alcuni frammenti
di derivazione sacerdotale, che mostravano l’interpretatio di auguri e pontefici (Servio Dan., Aen. 2, 351; Cicerone, De div. 2, 42-43; 2, 77; De leg. 2, 58; De dom. 136; Gellio, Noct.
Att. 4, 6, 9-10; 5, 17, 2; 10, 15, 1-5). Le motivazioni teologiche e
giuridiche sottese alla negazione nel linguaggio precettivo dei sacerdoti era
la preservazione della pax deorum,
teorizzata dall’interpretatio
sacerdotale. Il rapporto di amicizia tra uomini e dei, infatti, costituiva il
fondamentale elemento del sistema giuridico-religioso romano. Conclude il
volume L. Zurli, Sulla formula del
negozio fiduciario, il quale analizza in particolare, sotto il profilo
della fiduciae causa, un frammento de
De litteris singularibus, da
attribuire a M. Valerius Probo Berijtus, e il documento epigrafico detto Formula Boetica.
La seconda opera presa in esame, che
riproduce gli Atti del Convegno di Studi svoltosi a Sassari il 22-23 novembre
1996, si apre con
* * * * *
Tra le pubblicazioni dedicate ad
opere di giuristi classici segnaliamo:
R. Astolfi, I libri tres iuris civilis di Sabino [Pubblicazioni
della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova
95], 2a ediz., Cedam, Padova 2001;
G. Falcone, Appunti sul IV
commentario delle Istituzioni di Gaio,
Giappichelli, Torino 2003; E. Stolfi, Studi sui «libri ad edictum» di Pomponio. I. Trasmissione e
fonti [Università di Torino. Memorie del Dipartimento di Scienze
Giuridiche. Serie V-Memoria XVI], Jovene, Napoli 2002; A. D’Ors, Las “Quaestiones” de Africano
[Studia et Documenta. Sectio Iuris Romani et Historiae Iuris 1], Pontificia
Università Lateranense. MURSIA, Roma 1997; T. Masiello, Le
“Quaestiones” di Cervidio Scevola, Cacucci Editore, Bari 2000.
La ricerca dell’Astolfi mira a ricostruire l’impianto e il
contenuto dei libri tres iuris civilis di Sabino. Nell’Introduzione
si indicano i criteri elaborati da Otto Lenel come strumento di tale
ricostruzione. La prima istruzione leneliana segnala che i commentatori
dell’opera sabiniana, Pomponio, Paolo e Ulpiano, adottarono lo stesso
ordine delle materie seguite da Sabino. Tuttavia, tale considerazione deve
essere utilizzata «tenendo conto che è del commentatore
approfondire l’argomento e passare all’esame di quelli
collegati». Per il secondo criterio suggerito dal Lenel i tre commenti ad
Sabinum possiedono una struttura lemmatica. Dunque, per accertare i lemmi
utilizzati da Sabino si deve far ricorso ad un impiego contemporaneo del
criterio formale e di quello storico. I criteri formali a cui l’Astolfi
fa riferimento sono quelli proposti da Fritz Schulz (Sabinus-Fragmente in
Ulpians Sabinus-Commentar, Halle 1906, pp. 1-10). Nella ricostruzione
dell’opera sabiniana i suoi commentari rappresentano la principale fonte,
a cui si accostano anche altre fonti sussidiarie, giuridiche e letterarie, come
ad esempio le Istituzioni di Gaio. Tuttavia, nonostante la loro importanza, i
commentari conservano gran parte delle citazioni di Sabino prive
dell’indicazione del luogo da cui sono tratte.
Nei
capitoli successivi, Passi di Sabino nel Commentario di Pomponio; Passi
di Sabino nel Commentario di Paolo; Passi di Sabino nel Commentario di
Ulpiano, si enucleano i frammenti dell’ad Sabinum contenuti
nei commentari della giurisprudenza successiva. Sulla base di questa analisi,
si ricostruisce Il “ius civile” di Sabino, che appare
articolarsi in quattro parti (successioni, persone, obbligazioni, cose),
più un’appendice relativa al postliminium. In questa
ricostruzione il sistema di Sabino risulta «più completo e
organico di quanto supposto da Schulz e merita il giudizio positivo di
Lenel». La ricostruzione del componimento sabiniano di ius civile
rappresenta «il presupposto necessario per metterlo a confronto con le
opere di ius civile contemporanee, precedenti e successive e per
stabilire in quale rapporto storico si trovi con le medesime. Ma, come mostra
il Sabinussystem di Lenel, tutto questo va oltre i compiti che si
prefigge chi voglia procedere alla palingenesi dell’opera di Sabino».
G. Falcone incentra la propria riflessione sul
commentario conclusivo delle Istituzioni gaiane, dedicato alle actiones. Il IV commentario, incentrato
prettamente sulla formula, appare caratterizzato dall’omissione
degli aspetti procedurali del processo formulare. Questa peculiarità
tecnico-narrativa è stata solo accennata dalla dottrina, che non ha
ricondotto il fenomeno ad un disegno unitario all’interno del
commentario. L’unica eccezione è l’articolo di F. Bonifacio
(Ius quod ad actiones pertinet, in Studi in onore di E. Betti, II, Milano
1962, pp. 97 ss.), opera specifica, ma secondo il nostro Autore «non
adeguata». A fronte dell’assenza di dibattito dottrinale, si
procede alla verifica dell’incidenza delle conceptiones verborum, alla luce della quale l’intero
commentario appare legato al testo della formula.
Oltre alle formulae, infatti, sono
illustrati come conceptiones verborum
anche le legis actiones, le exceptiones, le praescriptiones, gli interdicta.
La conceptio verborum, quindi,
risulta essere l’elemento centrale, ed in alcuni casi (ad es., nella
distinzione tra actiones e agere per formulas) appare possedere un
significato equivalente al termine actio.
Tuttavia, il Falcone avverte che «non può assumersi che la
totalità delle informazioni impartite dal docente sia confinata agli
schemi verbali, né, soprattutto, che questi siano presi in
considerazione da Gaio con un esclusivo interesse per il profilo formale ed
esteriore senza che rilevino, al contempo, aspetti contenutistici racchiusi nei
verba». Sotto il profilo della conceptio verborum si pongono anche la
suddivisione tra actiones in rem ed in personam, e la distinzione tra actiones che ‘ad legis
actionem exprimuntur’ e quelle che ‘sua vi ac potestate constant’ (Gai. 4, 2; 4, 10), le
uniche ripartizioni ad essere «impostate in modo diretto e immediato
sull’actio».
Dal
successivo accertamento dell’ottica e degli intendimenti di Gaio intorno
agli «istituti-schemi verbali», emerge come le conceptiones verborum siano concepite in chiave strumentale. Il
giurista considera, quindi, gli schemi verbali come strumenti, oggetto di
utilizzo dalle parti. Questa prospettiva strumentale è di stampo
cautelare, poiché l’intento primario del commentario è di
indicare le conseguenze dell’utilizzo delle conceptiones verborum, e lo schema verbale più vantaggioso.
L’approccio cautelare si rinviene in particolare nella trattazione del plus/minus
ponere all’interno della formula (Gai. 4, 53-60), in cui l’idea
del rischio viene espressa attraverso la semantica del periculum. Al concetto di pericolosità Gaio ricorre nella
segnalazione di una poena (ad es.
Gai. 4, 13-14; 91-95): si rinviene così nelle Istituzioni
l’alternativa di agere cum poena o
sine poena, in special modo in materia di interdetti (Gai. 4, 141). Anche
i paragrafi conclusivi del commentario (171-187), relativi all’in ius vocatio e al vadimonium, sono caratterizzati dall’orientamento cautelare,
e dalla segnalazione dei rischi di una poena.
Questa prospettiva di un insegnamento delle conceptiones
verborum in chiave cautelare spiega l’assenza di una organica
trattazione della cognitio extra ordinem,
in quanto processo privo dell’uso tecnico di schemi verbali,
particolarità questa, che impediva al maestro di indicare il periculum. Infatti, il IV commentario si
configura «quasi come un testo di ‘istruzioni per
l’uso’ delle conceptiones
verborum e di alcuni passaggi procedurali imperniati su di esse». Le actiones come conceptiones verborum, sotto una prospettiva strumental-cautelare,
generano la scelta dei temi, il loro ordine interno, e il tenore della loro
disamina nel commentario, di cui offrono un quadro omogeneo. Anche la
digressione storica sulle legis actiones (Gai.
4, 11), e l’esposizione delle formulae
ficticiae (Gai. 4, 34-38), che precede l’illustrazione delle
nozioni-base della formula, rispondono a quest’ottica, finalizzata
a «far apprezzare agli studenti quanto le forme dell’agere vigente fossero, comunque,
elastiche e duttili rispetto ai modi
agendi che le hanno storicamente precedute».
Nelle Prospettive
di ricerca si auspica un’indagine sui restanti commentari del manuale
gaiano, per coordinare i dati ottenuti, e per verificare se si rinviene, come
nel IV commentario esaminato, l’esistenza di un apposito interesse
tematico, che diviene il filo conduttore e il «filtro selettivo»
della trattazione.
L’opera dello Stolfi si occupa dei libri ad edictum del giurista del II sec. d.C.
Sesto Pomponio. La parte prima, Trasmissione,
impianto, datazione, si apre con il capitolo Una tradizione indiretta, in cui inizialmente si prende in
considerazione il genere letterario ad
edictum, fortunata produzione giuridica, che si incentrò, in
particolare, sul commento dell’editto dei pretori. A tale genere si
dedicò la giurisprudenza tra il periodo tardo repubblicano e il III
secolo d.C., che costruì «un’architrave della compilazione
giustinianea», soprattutto per mezzo delle opere ad edictum dei giuristi severiani Paolo ed Ulpiano. La maggioranza della
dottrina ha concepito questo tipo di produzione letteraria come un filone dalle
particolari tecniche di scrittura, in cui si dissolvevano le personalità
dei singoli giuristi. Per questo motivo, secondo la communis opinio, i commissari giustinianei utilizzarono
esclusivamente la produzione dell’età severiana, senza attingere
alle opere ad edictum delle epoche
precedenti. In particolare questa posizione dottrinaria vede
nell’utilizzo dei commentari di Paolo ed Ulpiano, più adatti ad un
uso didattico, il motivo della mancata trasmissione dell’opera ad edictum di Pomponio. Secondo
l’A. questa è una interpretazione «tutt’altro che
implausibile … ma che tuttavia non supera il livello della congettura,
per di più viziata da un eccessivo automatismo». Per tale motivo
si procede ad un’indagine intorno alle cause della scomparsa
dell’opera pomponiana, una delle più vaste produzioni giuridiche,
visto che secondo alcune stime si componeva di oltre 150 libri. Il commento è conosciuto solo indirettamente,
attraverso i riferimenti successivi, poiché si perse probabilmente tra
Alessandro Severo e Diocleziano, età questa del passaggio dal rotolo al
codice. Presumibilmente l’eccessiva mole dell’opera comportò
una sua limitata circolazione, «su cui poi, inevitabilmente, sono
intervenuti fattori di causalità». Il commento venne usato
ampiamente nelle opere ad edictum di
Paolo e soprattutto di Ulpiano. La consonanza di questi commentari spinge lo
Stolfi, in Pomponio e i giuristi
severiani, a scoprire il canale attraverso cui il lavoro del giurista
adrianeo si riversò nelle opere successive. Dall’indagine emerge
una rilevante sintonia di Ulpiano con Pomponio, una particolare concordanza che
non si rinviene nelle citazioni di Paolo. In particolare, nel commento ulpianeo
le frasi sono aperte con il parere pomponiano, al contrario, Paolo mostra una
maggiore autonomia di pensiero, collocando le posizioni del giurista adrianeo
in chiusura di frase, o come appendice. A distinguere i due commentari ad edictum severiani v’è la
diversa tecnica di scrittura, ed anche il modo di esposizione delle
interpretazioni precedenti. Dallo studio sulle forme verbali, assunte dai due
giuristi dell’età dei Severi per richiamare Pomponio, emerge un
ricco impiego di moduli espressivi, dove «si mantiene vivo il rapporto
con una scrittura costantemente ripercorsa, ma anche la mediazione che essa
opera sul confronto intellettuale». Per quanto riguarda
l’approvazione, le critiche e le integrazioni apportate dai giuristi
severiani a Pomponio, emerge che i giurisperiti posteriori giudicavano
positivamente l’interpretazione pomponiana per la sua
“correttezza” e “verità”, per il richiamo alla ratio, e per l’elegantia delle sue soluzioni. In tale
contesto appare chiaramente «il considerevole dislivello, per numero ed
approfondimento, che corre fra Paolo ed Ulpiano». Questo dialogo
privilegiato tra Pomponio e il suo commentatore emerge anche
dall’indagine sulle divergenze dottrinarie tra i giuristi severiani e le
teorie pomponiane: anche qui vi è un profondo divario tra Ulpiano e
Paolo, sia dal punto di vista quantitativo, sia di quello qualitativo. Il
maggior numero di dissensi rilevato nel commento ulpianeo è legato ad un
vasto numero di riferimenti, e questo fatto evidenzia ancora «la
pervasività del legame, la cui articolata restituzione non si rivela in
quei casi meno necessaria». Nonostante l’evidente sintonia, nei
passi in cui si rilevano dei contrasti dottrinari, si rinviene inoltre tra
Pomponio ed Ulpiano una difformità di metodo nel rapportarsi con le
norme edittali: «il primo immergendone il dettato – appena
cristallizzato – in un universo di casi, le cui esigenze incidevano sulla
sua interpretazione; il secondo utilizzandone i precetti – pur ripercorsi
lemma dopo lemma – come nervatura di un discorso più “sistematico”,
che intendeva chiudere un plurisecolare impegno dei prudentes». Questo diverso impianto, che comportava una
immensa mole di fattispecie e di opinioni, forse fu una delle cause che
limitarono la trasmissione dell’opera edittale di Pomponio.
Nel terzo capitolo si analizza La struttura dell’opera, nel
tentativo di offrirne una nuova restituzione palingenetica rispetto alla
ricostruzione leneliana, almeno fino all’83° libro. Il problema di
una ricostruzione del testo sorge dalla mancanza di citazioni precise della
seconda parte dell’ad edictum
di Pomponio. Lo stesso Ulpiano, il quale cita puntualmente il commento
pomponiano, ne interrompe i richiami proprio a metà della sua opera,
forse per sveltire i criteri di lavoro. L’A. sostiene che nella parte
mancante è altamente probabile che Pomponio si discostasse dalla
sistematica del testo edittale. Nel capitolo seguente si procede ad Un tentativo di datazione, poiché
l’opera di Pomponio non fu mai, in modo complessivo, «oggetto di
una precisa collocazione cronologica». Il problema della cronologia sorge
a causa della mancanza di riferimenti nell’opera a personaggi pubblici, e
di qualsiasi elemento che ne permettano una precisa collocazione temporale. Lo
Stolfi ipotizza come plausibile che il commento di Pomponio venne iniziato
intorno a metà degli anni
Nella seconda parte dell’opera,
Le fonti di Pomponio, si procede
inizialmente a delineare i Profili di una
formazione intellettuale del nostro giurista, per capire quali fossero gli
autori richiamati direttamente da Pomponio, e quali invece gli accostamenti
operati dai giuristi severiani. Un tale studio operato sulle citazioni
«offre anche - sottolinea l’A. – la misura di quanto e quale
passato del ius … sopravviveva
nelle soluzioni attuali». Il richiamo ai propri predecessori era
frequente nelle opere giuridiche, e Pomponio appare ricorrere profusamente alle
citazioni dottrinarie, che sistemava attraverso un’elaborata tecnica
espositiva, pur non segnalandole puntualmente. Dalla analisi dell’opera ad Sabinum di Pomponio si potrebbe
affermare che, probabilmente, anche nel suo commentario all’editto vi
fosse presente un’ampia rassegna della giurisprudenza precedente.
Per conoscere le ascendenze intellettuali nell’opera di
Pomponio, l’A. muove dall’analisi del noto frammento dell’Enchiridion conservato in D. 1, 2,
Nel secondo capitolo, La giurisprudenza fra repubblica e
principato, si procede
all’individuazione delle possibili fonti giurisprudenziali di Pomponio. In
tal senso si considerano i giuristi citati in D. 1, 2,
La ricerca del D’Ors si incentra sulle Quaestiones del giurista Sesto Cecilio
Africano, il cui cognomen ne rileva
l’origine africana, al pari del suo maestro Salvo Giuliano. Nella Introducción vengono offerti
alcuni cenni biografici del giurista, il quale operò sotto Adriano, e
sotto Antonino Pio, sebbene egli non paia aver partecipato ad alcun consilium. La personalità del
giurista presenta una «singularidad intelectual», ed una
particolare sensibilità storica, attitudini che emergono in Aulo Gellio
(Noct. Att. 20, 1), il quale
riferisce di una discussione che Africano ebbe con il filosofo Favorino,
intorno alla norma decemvirale per l’esecuzione concorsuale sul corpo del
debitore insolvente. Il precetto venne considerato dal giurista come
disposizione dissuasoria, mai applicata nella pratica.
Sebbene nel Digesto giustinianeo si
rinvenga qualche sporadica citazione di alcune opere del giurista afranico, e
in particolare Ulpiano (21 Sab., D. 30, 39 pr.) faccia riferimento ad un
libro 20 di epistulae, per l’A. la sua produzione letteraria, allo
stato delle nostre conoscenze, si riduce alle Quaestiones, opera in nove libri, i cui frammenti sono conservati
nel Digesto di Giustiniano. Il giurista, allievo come si è detto di
Giuliano, fu citato meno dagli autori successivi rispetto al suo maestro, e
ciò dipese probabilmente sia dalla brevità della sua opera, sia
dal fatto che egli fu un epigono di Giuliano. Africano, infatti, non fu un
giurista particolarmente apprezzato tra i suoi contemporanei, e questo
influenzò la sua scarsa considerazione presso la giurisprudenza
posteriore. I commissari giustinianei, al contrario, parvero stimare la sua
opera. Sebbene le Quaestiones furono
spesso utilizzate per rinvenire le opinioni di Giuliano, difficilmente si
spiega il favore «desproporcionado» dei giustinianei verso
l’opera di Africano, che Giustiniano annovera tra gli antiqui iuris auctores (C. 7, 7,
Il lavoro di T. Masiello analizza un’altra opera di quaestiones, i Quaestionum libri XX di Cervidio Scevola, giurista tardo antonino,
e membro del consilium di Marco
Aurelio, di cui, nonostante la scarsità delle fonti, si offre La biografia nel primo capitolo. L’A.
colloca la nascita di Cervidio Scevola tra il 125 e il 130 d.C., ed accoglie
l’ipotesi di una sua origine africana. Intorno alla formazione giuridica
di Scevola, è probabile che egli ebbe più maestri, poiché
dall’età di Nerone lo studio del diritto si articolava su tre
livelli. La dottrina individua in Salvo Giuliano il referente didattico per la
formazione specialistica di Scevola. Per individuare chi ancora impartì
i fondamenti istituzionali al giusperito, il Masiello indaga sulle connessioni
tra Scevola e i giuristi Pomponio, Africano, Meciano e Marcello. Tra queste
figure il giurista Africano appare, insieme a Giuliano, «il più
autorevole referente didattico e scientifico di Scevola», visto il comune
utilizzo di scelte stilistiche e tecniche argomentative non consueto, come il
disquisire “per consequentiam”,
frequente anche in Giuliano. Per quanto attiene agli altri giuristi in
questione, si deve escludere un rapporto didattico con il nostro giurista. La
produzione scientifica di Pomponio, infatti, è di carattere
enciclopedico, mentre le opere di Scevola sono rivolte alla casistica; Marcello
fu oggetto di critica da parte del nostro giusperito (ad es. D. 23, 3, 12, 1;
29, 7, 19); e, sebbene Scevola attribuisse ampia rilevanza a Meciano, questi
possedeva differenti interessi scientifici. Il nostro giurista fu, a sua volta,
maestro di diritto, ed è molto probabile che egli influenzò la
formazione scientifica di Paolo e Trifonino; inoltre, l’A. non considera
infondata la notizia di SHA, Caracalla
8, per cui il giurista tardo antonino fu insegnante di Papiniano e del futuro
principe Settimio Severo.
A
“Quaestio” e
“quaestiones” è dedicato il capitolo seguente, in cui si
offre un breve excursus del titolo quaestiones, genere letterario diffuso
in diverse discipline. Nell’età tardo repubblicana e nel
principato, i termini quaerere e quaestio indicavano tecnicamente un
procedimento penale; in tale contesto, legato all’esperienza retorica in
cui la ‘questione’ nasceva dalla contrapposizione delle posizioni,
la quaestio era una attività
di ricerca, generata da un problema, che coinvolgeva almeno due parti
contrapposte, e richiedeva l’utilizzo «di concrete tecniche
‘procedimentali’». Rispetto alla realtà del
procedimento penale, nel diritto, nella grammatica, e nella filosofia, il
termine quaestio ebbe
un’accezione più ampia, per l’assenza della contrapposizione
delle parti, in quanto il tema in discussione ammetteva diversi «percorsi
interpretativi». In particolare, le quaestiones
giuridiche furono caratterizzate dal metodo casistico, per cui la ricerca
si incentrava sulla discussione di problemi che sorgevano dal caso concreto;
tale particolarità rendeva i libri
quaestiones «funzionali all’alto insegnamento
scientifico». Il terzo capitolo si incentra sui Quaestionum libri XX di Cervidio Scevola, di cui diversi frammenti
sono tramandati dal Digesto di Giustiniano. Per la presenza di un riferimento
nelle fonti dell’opera del giurista intitolata Variae quaestiones, il Masiello ipotizza «con molta cautela,
una doppia circolazione, occidentale ed orientale, con titoli diversi, delle
edizioni delle ‘Questioni’». L’opera di Scevola
adottava l’ordine dei digesta,
assetto seguito successivamente anche da Papiniano e Paolo. Lo stile e il
contenuto delle Quaestiones indicano
chiaramente un’originaria destinazione scolastica dell’opera. Nel
quarto capitolo, La tradizione testuale,
si espongono alcune teorie di interpolazione, avanzate in passato. In
particolare, si illustra l’ipotesi leneliana (O. Lenel, Palingenesia
iuris civilis, II, Lipsiae 1889, pp. 271 ss.), secondo cui l’opera di
Scevola sarebbe stata alterata in epoca postclassica e in età
giustinianea. Il Masiello rigetta l’idea di un’edizione
epiclassica, ma condivide l’ipotesi di alterazioni giustinianee.
Tuttavia, rispetto alle precedenti congetture, l’A. propone
un’ipotesi di tradizione testuale che «non è guidata da
pregiudizi metodologici, non è ispirata da un bipolarismo
filologico-interpretativo, classico-giustinianeo, giustamente superato, ma
costituisce l’esito di un’analisi puntuale dei frammenti superstiti
delle Quaestiones».
Così, si riesaminano singolarmente i frammenti delle Quaestiones, in cui Lenel individuava
glosse postclassiche, e alterazioni giustinianee, ed altri passi sospetti di
interpolazione da parte di altri autori moderni.
L’ultimo
capitolo, I problemi, evidenzia come
l’opera di Scevola, utilizzata per l’insegnamento giuridico di
livello elevato, riflettesse «itinerari educativi reali», per cui i
problemi analizzati paiono essere stati disaminati realmente nella scuola. Nel
contesto didattico, il maestro enucleava i problemi del caso concreto, per una
riflessione problematica, in cui «tra fatto, caso e problema si instaura
un processo dialettico, di tipo circolare».
Sebbene non si possano individuare
particolari modelli espositivi per le Quaestiones,
l’A. cerca «di ricostruire l’originario tenore della quaestio e degli itinerari logici
probabilmente seguiti dal giurista»; per questo motivo procede ad
analizzare i singoli frammenti di Scevola conservati nel Digesto.