Università
di Padova
* Recensione della monografia di Lorenzo
Franchini, La desuetudine delle
XII tavole nell’età arcaica, Milano, Vita & Pensiero,
2005, pp. 110.
1. –
L’a. affronta, in un agile volume che si fonda su sicura padronanza delle
fonti utilizzate, giuridiche e non (essenzialmente letterarie), delle quali
fornisce alla fine un accurato indice (pp. 105-110), e su vasta conoscenza
della letteratura romanistica (l’indice degli autori citati è a
pp. 99-103), solo non aggiornata per l’ultimo biennio a causa delle more
intercorse nella pubblicazione del libro, l’interessante e trascurato
tema del venir meno, ancora nell’ambito dell’età arcaica,
per l’incidenza di varie cause, dell’applicazione di norme
decemvirali.
Una orientativa premessa metodologica
costituisce il contenuto del I capitolo (pp. 7-18), in cui l’a. chiarisce
anzitutto termini e relativi concetti da lui adoperati nel corso della ricerca.
Così, parlando di applicazione/disapplicazione della legge, egli intende
far riferimento al fenomeno di comportamento sociale diretto
all’osservanza o meno della disposizione di legge da parte dei suoi
destinatari. Il processo di disapplicazione, necessariamente verificantesi nel
corso del tempo, è quindi da lui distinto a seconda che si attui tramite
inosservanza della norma di legge (desuetudo
in senso stretto) o di affermarsi di una disciplina con essa incompatibile
(consuetudo contra legem), fermo restando
per diritto romano arcaico il principio della abrogabilità di norme
legislative ad opera della consuetudine, in quanto si deve riconoscere
parità di rango di fonte di tale diritto a legge e consuetudine, salvo
rilevare che in esso il più sovente la disapplicazione della legge non
è il prodotto spontaneo dei consociati ma ne è indotto
dall'intervento di fattori esterni, quale peraltro non sussiste in caso di
prassi diretta ad escludere l’applicazione di norme legislativa di per sé
derogabile.
L’intento perseguito
dall’a. è quindi quello di verificare, in ordine ai casi
più significativi di risalente disapplicazione di precetti decemvirali,
specie per l’introduzione di disciplina incompatibile, la
necessità dell’apporto propulsivo di altra norma legislativa
(eventualmente anch’essa decemvirale), o dell’intervento (specie
edittale) pretorio, o di responsi della giurisprudenza pontificale (quando non
di decreti dello stesso collegio dei pontefici): apporto giurisprudenziale
quest’ultimo particolarmente determinante in fatto di riti solenni,
negoziali o processuali, sicché financo espressioni testuali come desuetudo o tacitus consensus o mos
non si riferirebbero quasi mai a prassi sociali spontanee, slegate all’interpretatio prudentium.
2. –
Con il II e più consistente capitolo (pp. 19-70) l’a. propone una
serie di esempi tra i più significativi di norme decemvirali cadute in
desuetudine, non tutte relative alla disciplina di atti solenni né tutte
desuete in età arcaica. L’ordine della rassegna, non potendosi
seguire quello tavolare tradizionale oggi fondatamente posto in crisi nei suoi
stessi presupposti, rispecchia, per mere ragioni di comodità, il sistema
espositivo delle Istituzioni di Gaio.
Una
prima ipotesi disapplicativa riguarda il venir meno della necessità del trinoctium ad evitare la caduta della
donna in manum mariti, messo fuori
uso nell’ambito del totum ius
relativo alla manus che Gaio (1.111)
dichiara rispettivamente sublatum e obliteratum in parte legibus e in parte ipsa desuetudine. Secondo l’a. l’obliteratio del trinoctium
sarebbe bensì dipesa dalla prassi sociale diffusa di ricorrervi
reiteratamente sì da ridurlo a semplice formalità dipoi andata
anch’essa desueta, ma sin da antico su impulso della giurisprudenza che
avrebbe finito per pervenire, in una materia in cui l’esigenza di
certezza del diritto sarebbe risultata particolarmente sentita, alla
abrogazione dell’istituto stesso, in tal modo fatto cadere per
desuetudine.
Altra ipotesi è costituita
dall’ambitus originariamente richiesto
come spazio intercorrente tra costruzioni urbane ma la cui esistenza appare
messa già in crisi sin dal III secolo a.C. per l’esigenza di
utilizzare il più possibile gli spazi in città: risalgono invero
a Plauto le prime testimonianze dell’edificazione del paries communis tra edifici. Secondo
l’a. la necessità dell’ambitus
sarebbe stata considerata, per prassi sociale, derogabile dalle parti, pur
rimanendo la relativa norma decemvirale formalmente in vigore in tempi avanzati
e dovendosi del resto riconoscere l’operato della giurisprudenza nella
individuazione, lungo il corso del II secolo a.C., di figure di servitù
urbane incompatibili con la presenza dell’ambitus, la cui persistenza ne sarebbe stata definitivamente posta
in crisi.
Terza ipotesi considerata è
quella relativa al venir meno delle norme delle XII Tavole concernenti la
chiamata dei gentiles alla
successione intestata come alla tutela o cura legittime degli incapaci, andate
in desuetudine con il totum gentilicium
ius (vd. Gai. 3.17), completamente anche oltre l’età della
tarda Repubblica. Secondo l’a. vi avrebbe contribuito l’intervento
del pretore in materia successoria ma soprattutto il progressivo dissolvimento
della organizzazione gentilizia implicante un sistema di vocazione ereditaria di
tipo collettivo atta a creare difficoltà applicative alle quali,
relativamente alla sopravvivenza dei sacra
familiaria nell’ambito della gens,
non poté mancare l’intervento della giurisprudenza sin da quella
pontificale: senza considerare la difficoltà vieppiù crescente di
determinare a chi spetti la qualifica di gentilis.
La vocazione gentilizia sarebbe comunque venuta meno non per formale
abrogazione ma per prassi disapplicativa, favorita dall’applicazione di
altri istituti.
Viene quindi in esame la testimonianza
di Gellio (noctes Att. 16.10.8)
secondo cui l’insieme delle norme decemvirali, ma con specifico richiamo
a singoli istituti prevalentemente di diritto sostanziale, sarebbe stata resa
obsoleta (consopita) dalla lex Aebutia, peraltro di riforma del
rito processuale. Secondo l’a. sarebbe pertanto probabile che detta
legge, incidente sulla tutela giurisdizionale degli istituti ricordati da
Gellio e previsti nelle XII Tavole, ne abbia potuto in qualche modo accelerare
la desuetudine: ed è ciò che egli si accinge ad acclarare con
riferimento a ciascuno di essi.
Quanto alla quaestio lance licioque, istituto rituale di evidente origine
pontificale sul quale non avrebbe potuto avere incidenza la prassi spontanea
dei consociati,
Quanto alla norma sulla talio, la sua desuetudine sarebbe stata
favorita, prima che dalla riforma pretoria e dalla legge Ebuzia, dalla
utilizzazione nella prassi, incentivata dalla giurisprudenza, della
possibilità, prevista dalla norma stessa, di ricorrere al pacere tra le parti, sino a considerare
comminabile la pena del taglione solo ad opera del giudice ed a colpevole
consenziente (cfr. Gell. Noctes Att. 20.1.37-38),
il che sarebbe potuto presumibilmente avvenire solo in base a presa di
posizione del collegio pontificale, trattandosi di modifica di un procedimento
di legis actio.
Viceversa in ordine alla sanzione delle
iniuriae, per la desuetudine della
sua determinazione decemvirale in ammontare pecuniario fisso ha avuto ruolo
decisivo l’introduzione da parte del pretore della formula, di azione diretta all’aestimatio del danno arrecato (cfr. Gell. Noctes Att. 20.1.13 e I. 4.4.7), sulla cui diffusione ha potuto
incidere
Riguardo ad istituti processuali,
ancora Gellio (noctes Att. 16.10.8)
testimonia la disapplicazione, in epoca successiva, del regime decemvirale
relativo ai requisiti richiesti per il vindex,
ai vades ed ai subvades. Secondo l’a la sostituzione, per il vindex, della condizione di locuples a quella originaria di adsiduus, prima di essere edittalmente
sanzionata dal pretore, si potrebbe supporre fosse dipesa già da una
mera prassi spontanea, se non propiziata quanto meno riconosciuta dalla
giurisprudenza e poi recepita anche in atti pubblici, per cui si sarebbe
trattato di una sorta di consuetudo
contra legem. Quanto al ricorso alla cautio
vadimonium sisti in luogo della antica figura dei vades, esso si sarebbe andato affermando
ad opera della giurisprudenza e del pretore per divenire poi esclusivo a
seguito di intervento di legge, ove non vi sarebbe stato spazio, dato il
carattere tecnico della materia, per l’operare di una mera prassi
spontanea.
Resta l’ultima ipotesi,
considerata dall’a., di disapplicazione di norma decemvirale, relativa a
messa a morte dell’addictus da
parte del creditore. Mentre la corporis
sectio, cui farsi ricorso in caso di pluralità di creditori,
potrebbe anche non essere mai stata effettivamente applicata, una risalente
prassi diffusa avrebbe condotto a preferire, all’uccisione dell’addictus, alla previsione della quale si
sarebbe conservato valore formale a scopo deterrente, l’attuazione di
altre alternative riconosciute dalle stesse XII Tavole: si sarebbe quindi avuta
la disapplicazione di una norma in favore della applicazione di altre.
Così si sarebbe potuto ricorrere a patto di riscatto dell’addictus di contro al pagamento della
somma dovuta, o all’accordo per cui l’addictus sarebbe stato trattenuto in qualità di nexus per sfruttarne a tempo determinato
la capacità lavorativa (onde il necessario intervento della
giurisprudenza pontificale per il perfezionamento delle formalità
negoziali all’uopo occorrenti), o alla vendita trans Tiberim dell’addictus
medesimo, o infine al prolungarsi di fatto del suo asservimento con relativa
confusione in merito tra situazioni di diritto e situazioni di mero fatto che
avrebbe contribuito a render desueto lo stesso regime decemvirale.
3.
– Alla trasformazione tacito
consensu del rito decemvirale del manum
conserere nell’ex iure manum consertum vocare di cui parla
Gellio, noctes Atticae 20.10.7-9, ove
l’espressione tacito consensu,
inteso in senso meramente modale, farebbe riferimento all’assenza di
strumento legislativo, ma non dell’intervento giurisprudenziale, è
dedicato infine dall’a. il III capitolo (pp. 71-97).
L’introduzione eo iure quod tacito consensu receptum est,
anziché lege o praetoris edicto, di successioni di altro genere rispetto a quelle mortis causa si trova invero affermata da Gaio (3.82) con riferimento
all’adrogatio e alla conventio in manum, istituti dei
quali non sarebbe neppure immaginabile la recezione per mera prassi senza
l’apporto della interpretatio prudentium. Parimenti la
necessità di un responso giurisprudenziale per la modifica del rito
processuale (consistente in verba e gesta) del manum conserere risulta a
fortiori dal fatto che lo stesso Gaio
(4.11) richiama un responsum
(presumibilmente pontificale) col quale si sarebbe dichiarata persa la lite per
la semplice menzione di vites al
posto delle arbores di cui era parola
nelle XII Tavole in relazione al rito di legis
actio sacramenti.
Ora, mentre il manum conserere tra le
parti di tale rito doveva, per disposizione decemvirale, avvenire in iure,
e cioè alla presenza del magistrato, nonché in re praesenti, e cioè in presenza della cosa oggetto della
contesa, assai presto, per la pratica esigenza di evitare al magistrato di
spostarsi, i pretori dovettero avallare la prassi dell’ex iure manum consertum vocare,
consistente nel recarsi le parti, dopo averne formulato reciprocamente
l’invito, nel luogo in cui si trovava la cosa immobile o difficilmente
trasportabile per riportarne un suo simbolo sul quale effettuare poi, in iure, le rispettive vindicationes. Alla reciproca vocatio delle parti Cicerone (pro Mur. 12.26), in un contesto di
critica all’eccesso di formalismo dei giuristi, testimonia
l’intimazione del pretore alle parti stesse di recarsi sul luogo ove
effettuare il prelievo del simulacro, subito seguita dall’intimazione a
ritornarsene: si sarebbe trattato della degenerazione ultima di un rito che,
forse dal III secolo a.C., avrebbe in un primo tempo richiesto la sua
effettiva, e non solo fittizia, realizzazione, introdotta su elaborazione della
giurisprudenza, pontificale prima che laica.
Ma sarebbe, per l’a., difficile
pensare che il magistrato, trattandosi di modifiche apportate al formalismo
processuale anche per quanto riguardava la sua stessa partecipazione ad esso,
si fosse potuto accontentare in merito del responso rilasciato da un singolo
giurista pontefice, anziché dall’intero collegio pontificale,
eventualmente per interposizione di un pontefice all’uopo delegato,
diverso comunque da quello che Pomponio (vd. D. 1.2.2.6), dopo aver
riconosciuto quale depositario dell’interpretatio
delle actiones detto collegio,
ricorda come annualmente delegato affinché praeesset privatis.
Quanto ai modi nei quali si procedeva
alla consultazione pontificale, risulta dalle fonti come avvenisse quella
relativa a materie di sacra publica,
ove era il magistrato, incaricato dal senato, a interpellare formalmente il
collegio al fine di ottenere decretum
di risposta, comunicato dal pontefice massimo al richiedente e reso esecutivo
con delibera senatoria. A parte la partecipazione del senato, giustificata
trattandosi di sacra publica, si
potrebbe ipotizzare analogo procedimento di consultazione per rapporti tra
privati ma coinvolgenti riti pubblici, come le actiones processuali, ai quali partecipava lo stesso magistrato
giusdicente, tanto più ove tali riti, come il sacramentum, avessero origine sacrale.
In conclusione, il consensus di cui parla
Gellio in merito al mutamento del rito decemvirale del manum conserere sarebbe da intendersi non come relativo ad una
prassi spontanea, bensì quale indotto da mutamento di indirizzo
giurisprudenziale sancito con decreto del collegio pontificale: ne risulterebbe
confermata l’impressione che l’evolversi della disciplina del
processo si effettuasse, rispetto a quella negoziale, in modi più
ufficiali, attraverso i canali distinti della produzione legislativa
(normativa, dice l’a) da un lato e della elaborazione giurisprudenziale
dall’altro, che avrebbero seguito criteri loro proprii; ne apparirebbe
inoltre evidenziata come sfera elettiva, ancorché non esclusiva, di
applicazione dell’attività individuale di consulenza
giurisprudenziale quella negoziale, e sottolineata la risalente collaborazione
tra magistrato giusdicente e giuristi (pontefici) in ambito processuale.
4.
– La ricerca appare metodologicamente bene impostata e organicamente
orientata in riferimento ai più rilevanti fenomeni di disapplicazione di
singole norme decemvirali, tenendo conto dei vari fattori che di volta in volta
hanno potuto incidere su di essa, eccezionalmente la prassi spontanea, ma assai
di più l’interpretatio dei giureconsulti, soprattutto
pontefici, effettuata in materia di pubblico interesse tramite decreta
dell’intero collegio, l’intervento del pretore specie attraverso
disciplina edittale, quando non anche l’applicazione alternativa di nuove
disposizioni di legge o di altra norma delle stesse XII Tavole: fattori spesso
contemporaneamente operanti in reciproco collegamento tra loro.
Ne risultano coinvolti da un lato
problemi più generali in fatto di produzione, interpretazione e
applicazione del diritto postdecemvirale, dall’altro delicate e discusse
questioni relative a istituti arcaici, sostanziali e processuali, non prive di
aspetti sacrali. In merito le prese di posizione dell’a., che
opportunamente tende a limitarle in funzione di quanto rilevante per
l’intento prefissatosi, appaiono sempre equilibrate, con richiamo alle
opinioni della migliore dottrina. Né mancano valutazioni originali sul
tema specifico prescelto, come stimolanti spunti di riflessione su più
ampie problematiche, sicché non resta se non attendere dall’a.
ulteriori prove delle sue indubbie capacità di studioso.