N. 4 –
2005 – In Memoriam – Da Passano
Mario Da
Passano
Preside della Facoltà
di Scienze Politiche
dell’Università
di Sassari
Il «delitto di Regina Cœli»
In carcere, come noi, lo costrinsero a
pregare
i giudici, gli stessi nostri, in
latino
nel nome del popolo hanno sentenziato,
sul letto di contenzione, come noi,
nudo
l’hanno disteso.
D. Fo, Sono carcerato, da E il settimo giorno Dio
creò le carceri, 1973, non
messo in scena
Sommario: 1. Di carcere si può morire. – 2. Ferri, cinture e camicie di
forza. – 3. Morire in contenzione. – 4. L’«orribile morte di un detenuto»
– 5. Il “caso
D’Angelo” in Parlamento. – 6. Una morte senza responsabili. – 7. Il regio decreto 14 novembre
1903 n. 484 e la sua applicazione. – 8. La repressione dei ribelli fra nostalgie e suggerimenti di
innovazioni tecniche: i risultati di un Referendum. – 9. Una prassi dura a morire.
Ai delitti commessi dai rappresentanti
del potere e dai loro agenti alla luce del giorno, si aggiungono quelli che
vengon da loro commessi nelle tenebre delle prigioni, su persone affidate al
loro arbitrio, i cui gemiti vengono soffocati dal pugno di ferro del carnefice.
Abbiamo già visto a che punto può giungere la crudeltà
umana nelle prigioni, dove vengono rinchiusi i grandi criminali (…) e a quali
raffinatezze può arrivare per rendere la vita una vera agonia, sia in
senso fisico, sia in senso morale. Nessuno potrebbe credere a tutti i delitti
che si possono commettere nei confronti di uomini sepolti vivi, ai quali
è stata tolta ogni possibilità di comunicare, non solo con l’esterno,
ma anche con il mondo interno alla prigione stessa … E non è solo
nei bagni penali che sono possibili simili infamie. Le nostre prigioni,
preventive o correzionali, sono forse le peggiori che esistano nei paesi civili
… Ed in queste prigioni, abbandonate al vergognoso affarismo dei
direttori, degli appaltatori e dei fornitori – in queste prigioni, in cui
i regolamenti moderni, nel loro sistematico disprezzo per ogni sentimento
umano, hanno chiuso anche i più piccoli spiragli attraverso i quali si
alimentava un tempo la vita morale dei prigionieri –, in queste prigioni
regna l’arbitrio sfrontato di carcerieri senza cuore e senza
intelligenza, arbitrio permesso, voluto, garantito nelle sue criminali
conseguenze non soltanto dai superiori gerarchici degli stessi carcerieri, ma
da quei magistrati, più crudeli dei carcerieri, e più incuranti
del proprio dovere, che la legge incarica di visitare le prigioni e di
ascoltare i reclami dei detenuti … Ma quello che non possiamo tacere sono
gli assassinî che si commettono nelle prigioni, non di tanto in tanto,
incidentalmente, ma in continuazione, sistematicamente, per
un’ininterrotta tradizione … Dal 1869 al 1889 vent’anni di
continui assassinî, malgrado i processi, le grida d’indignazione
della stampa e i cambiamenti di personale. Ogni prigione ha il suo
martirologio.
Francesco
Saverio Merlino, che scrive queste pagine di indignata e veemente denuncia nel
1890[1],
non può certo essere considerato un osservatore imparziale, ma egli
stesso ne è consapevole e, proprio per questo, per avvalorare le sue
affermazioni non riporta «nulla che non sia ammesso da persone non
sospette di tendenze rivoluzionarie e provato da numerose testimonianze ed
anche da atti processuali». E’ comunque un dato di fatto
difficilmente contestabile che, nell’Italia liberale, nei luoghi in cui
si può finire detenuti a vario titolo (come condannati, imputati,
indagati o magari solo arrestati a fini “preventivi”) – siano
essi bagni, case di pena, carceri giudiziarie, riformatori, camere di sicurezza
della polizia o dei carabinieri – la violenza e l’arbitrio regnano
sovrani, per cui possono essere assai pericolosi per l’incolumità
e la vita stessa di chi è costretto a soggiornarvi; e questo avviene sia
in virtù delle norme stesse che stabiliscono i modi in cui è
regolata la vita dei reclusi nei diversi istituti, sia a causa delle continue e
sistematiche vessazioni abusive a cui questi sono sottoposti[2].
Ne fa fede una fonte certo non sospetta, quale è la «cronaca
spicciola dei singoli stabilimenti penali, riportata con incosciente candore
nelle prime annate del “Bullettino ufficiale della Direzione generale
delle carceri”»[3]
e «intessuta di continui episodi di brutalità e violenza»[4].
Non mancano neppure le denunce in
Parlamento, anche se quasi sempre sono destinate a non trovare molta udienza.
Nel 1897 Matteo Renato Imbriani-Poerio, uno fra i deputati che prestano
maggiore attenzione a questi temi, parla in proposito di
moderni farisei, i quali hanno abolito la
pena di morte, ma d’altra parte fra le pareti sorde dei reclusori, dai
quali non possono uscire né lamenti né proteste di vittime,
infieriscono con torture molto peggiori della morte[5]
e pochi giorni
dopo aggiunge:
è da considerarsi specialmente
che, se l’Italia ha l’onore, fra le nazioni civili, di avere
abolita la pena di morte, non deve poi darle dei succedanei. Se la pena di
morte in se stessa è stata come concetto etico abolita, non le si deve
far succedere una serie di vessazioni che diventano delle torture, che
conducono allo stesso scopo in un tempo più lungo; e queste sono
condizioni ancora più incivili della pena di morte stessa![6]
Nel quadro di
questa situazione generale, i cui aspetti più negativi si acuiscono nel
corso della crisi di fine secolo, alcuni episodi assumono una particolare
gravità, talvolta arrivando anche a suscitare una forte impressione in
parte dell’opinione pubblica, soprattutto perché riguardano fatti
e personaggi di immediato e diretto rilievo politico.
Così, ad
esempio, la vicenda di Giovanni Passanante, che nel
là l’infelice, roso dalle
infiltrazioni saline e dalla umidità subì il lurido amplesso
dello scorbuto. Gli caddero letteralmente tutti i peli dal corpo, le palpebre
si rovesciarono sugli occhi, le guancie si svuotarono e gonfiarono come due
bisaccie, e scolorì fino all’inverosimile;
viene quindi
trasferito in un’altra cella sopra il livello del mare, sempre in
assoluto isolamento[12],
«ed era già in tale stato che s’ajutava a stento con le mani
a sorreggere la pesante catena di diciotto chili che gli opprime perpetuamente
le reni». La denuncia, viene ripresa anche da altri giornali, in
particolare il «Messaggero» e il «Caffaro», che
sottolinea l’illegalità di questo trattamento, e il ministero
è costretto a fare un comunicato in cui si tenta di minimizzare e si
dà notizia che nel 1889 Passanante è stato riconosciuto pazzo[13]
e trasferito al manicomio criminale di Montelupo[14],
dove morirà nel 1910[15].
Non molto
dissimile, anzi per certi versi peggiore poiché dura più a lungo,
è la vicenda di Pietro Acciarito, autore nel 1897 di un altro fallito
attentato a Umberto I a Roma: condannato dopo un processo lampo attentamente
seguito dal ministro dell’Interno tramite la questura di Roma, viene
rinchiuso prima a S. Stefano e poi a Portoferraio e infine, impazzito per le
continue vessazioni[16],
viene a sua volta trasferito al manicomio di Montelupo, dove morirà
soltanto nel 1943[17].
E proprio in
occasione dell’attentato di Acciarito si verifica un episodio che, a
seguito di una campagna sull’«Avanti!» e dell’azione
dei deputati socialisti, radicali e repubblicani, occupa a lungo
l’attenzione della stampa e della Camera, anche se il punto centrale
dello scontro politico che si innesta sulla vicenda finisce con l’essere
soprattutto quello delle violenze e degli abusi della polizia (e in particolare
la questione degli arresti arbitrari), che è ormai da tempo e
sarà ancora a lungo oggetto di vivaci polemiche, e poi anche quello
più generale dei rapporti fra esecutivo e giudiziario. Subito dopo il
fallito attentato e con l’avvicinarsi del 1° maggio, per ordine di Di
Rudinì vengono operati a Roma numerosi arresti, fra cui, il 29 aprile
1897, quello del falegname Romeo Frezzi, in casa del quale viene trovata una
foto di gruppo in cui casualmente compare anche Acciarito; rinchiuso nel
carcere di S. Michele, allora in uso alla polizia, tre giorni dopo Frezzi muore
per le percosse ricevute, mentre la questura fornisce tre diverse versioni
successive sulle cause del suo decesso (si è suicidato battendo la testa
contro il muro, è morto per cause naturali colpito da aneurisma, si
è suicidato arrampicandosi al primo piano e buttandosi di sotto); il
medico di fiducia della questura non fa nulla per approfondire l’esame,
una prima perizia medica del dottor De Pedys[18],
col parere contrario del suo collega Pardo, e due indagini amministrative (una
sommaria del senatore Beltrani Scalia e una formale affidata al capo divisione
Talpo e al capo dell’ufficio riservato della pubblica sicurezza Scrocca)
cercano di avvalorare la tesi del suicidio, ma sono smentite dalla nuova
perizia chiesta dalla magistratura, che dispone anche l’arresto di alcuni
agenti, una perquisizione della questura e un mandato di comparizione per il
questore, mentre Di Rudinì interviene a difesa della polizia, suscitando
ulteriori polemiche[19].
Il 30 aprile 1898 il processo contro il questore (per arresto arbitrario), un
delegato (per occultamento di reato) e due agenti di polizia (per omicidio
volontario), si chiude in istruttoria con il proscioglimento di tutti gli
imputati, il primo per inesistenza del reato, gli altri per insufficienza
d’indizi[20].
Infine il
regicida Gaetano Bresci, dopo qualche mese in assoluto isolamento a S. Vittore,
incatenato e sorvegliato notte e giorno da due guardiani, a novembre viene
trasferito in gran segreto a Portoferraio e rinchiuso nella cella sotterranea
che aveva già ospitato Passanante, in palese violazione delle stesse
norme del regolamento carcerario del 1891; quindi, anche per le complicazioni
sorte con gli altri detenuti e per evitare che ciò venga a conoscenza
dell’opinione pubblica, alla fine di gennaio del 1901 Bresci è
trasferito a S. Stefano, dove è stata costruita una nuova cella
appositamente per lui, sul modello di quella di Dreyfus all’Ile du
Diable, completamente separata dalle altre, e lì il 22 maggio
inaspettatamente e inspiegabilmente, nonostante la continua sorveglianza a
vista a cui è sottoposto, si sarebbe suicidato impiccandosi con un
asciugamano che non avrebbe dovuto avere o con il fazzoletto in dotazione,
secondo le due diverse versioni fornite dalle autorità[21].
Fra
l’altro in due di queste vicende è coinvolto più o meno
direttamente un funzionario dell’amministrazione carceraria, Alessandro
Doria, che ha iniziato a lavorare come copista a Volterra, ma ha fatto rapidi
progressi da quando, dirigendo provvisoriamente Regina Cœli, ha avuto suoi
“ospiti” illustri personaggi coinvolti nello scandalo della Banca
romana. Già nel 1896 cumula numerose cariche[22];
nel 1898 è capo di gabinetto del direttore generale, Giuseppe Canevelli,
e assieme a lui, al capo della polizia, Francesco Leonardi, e al direttore
carcerario di terza classe Alfredo Angelelli, appositamente trasferito da
Catanzaro a S. Stefano (ma nella vicenda hanno parte anche l’ex direttore
generale Beltrani Scalia, Pelloux e Di Rudinì), mette in piedi una
atroce macchinazione per indurre Acciarito a confessare che si è
trattato di un complotto e a rivelare i nomi dei complici[23];
al processo che ne segue però la montatura cade e Angelelli, i cui
metodi vengono definiti da Doria «sotto ogni aspetto, deplorevoli e
ributtanti», si assume tutta la responsabilità ed è
immediatamente scaricato e trasferito in Sardegna; nel 1905, grazie alle
rivelazioni di Angelelli (che finisce anche in manicomio), il cattolico
«Avvenire d’Italia» porta alla luce l’intera vicenda,
provocando anche un dibattito alla Camera a seguito delle numerose
interrogazioni presentate[24],
ma il conseguente processo, condotto in maniera non proprio esemplare, si
conclude con l’assoluzione di Doria e Canevelli, protetti da Giolitti[25].
Nel caso del preteso suicidio di Bresci, alquanto sospetto e mai chiarito, il
giorno stesso del fatto Doria viene mandato a condurre l’inchiesta
amministrativa, ma anche quattro giorni prima risulta una sua visita a S.
Stefano, a seguito della quale ha fatto una «relazione personale»
segreta a Giolitti (poi scomparsa) sul penitenziario e la detenzione di Bresci,
e l’esame autoptico del cadavere rileva uno stato di decomposizione inspiegabile
a soli due giorni dal decesso; queste circostanze, assieme alla sparizione di
documenti relativi ad esse, ben a ragione hanno indotto a formulare
l’ipotesi inquietante di un omicidio premeditato[26].
Ebbene, dopo questi due episodi, il cavalier Doria nel 1902 diventa direttore
generale delle carceri, con un avanzamento nella carriera assolutamente
eccezionale (e un consistente aumento retributivo)[27].
Ma quello che
più colpisce sono le ripetute denunce, che peraltro non suscitano molta
commozione né hanno grande risonanza, di quanto accade normalmente nel
buio delle carceri ai detenuti qualunque, vicende che molte volte si concludono
con la loro morte, spesso travestita da suicidio o da decesso accidentale,
mentre i responsabili, se e quando vengono individuati e perseguiti, finiscono
quasi sempre col non subire alcuna conseguenza.
Così,
per citare alcuni esempi, tralasciando i ripetuti casi di detenuti feriti o
uccisi a colpi di fucile dalle guardie, anche in circostanze non
particolarmente gravi e pericolose[28],
l’anarchico Amilcare Cipriani[29],
assiduo e involontario ospite delle prigioni italiane (e non solo), nelle sue
lettere Da Rimini a Portolongone,
pubblicate sul «Messaggero», parla «di condannati uccisi a
colpi di chiave nelle celle sotterranee di punizione»; si scopre che nel
bagno di Civitavecchia «un detenuto che era stato fatto passare per morto
di morte naturale, era stato in realtà assassinato dai secondini
(…) e si seppe che altri delitti della stessa natura erano stati
perpetrati in precedenza»; nel 1888 la «Tribuna giudiziaria»
di Napoli fa «dolorose rivelazioni sugli omicidî camuffati da
suicidî, che avvengono nelle prigioni» e segnala un episodio
avvenuto a Venosa[30];
nel 1896, nel corso della discussione sul bilancio dell’Interno, Imbriani
sostiene alla Camera che
sventuratamente vi sono anche altri
luoghi di pena, specie fra i più lontani, per esempio quello di
Portoferraio, i quali lasciano molto a desiderare. Là si commettono
addirittura delitti che rimangono impuniti … si trasportano alle volte in
celle di sicurezza i detenuti, e loro si danno colpi sullo stomaco, con
sacchetti di sabbia, i quali spesse volte ne producono la morte. E i dottori,
compiacenti, non ne trovano poi traccia[31];
e l’anno
seguente rinnova la sua denuncia:
negli ergastoli, nei luoghi di pena si
usa di colpire i poveri detenuti colle sacchette di arena, le quali rompono
internamente alcuni visceri, eppoi viene il medico, dà uno sguardo, non
trova lesione apparente e fa il verbale di morte naturale … Riaffermo
qui, signor presidente del Consiglio, ciò che ho detto l’anno
passato, che nelle case di pena, nelle reclusioni, negli ergastoli, si usano
contro i detenuti modi assolutamente incivili, e che molti di essi ricevono la
morte sotto diverse forme[32].
E infine vanno
segnalate alcune interrogazioni al ministro dell’Interno, poi decadute:
nel 1900 quella di Bovio sulle «responsabilità del potere di
polizia e dei medici carcerarii nella morte di Mariano Picardi nel carcere di
Napoli e se le torture e la pena di morte, abolite dalla legge e dalla
civiltà, debbono entrare per altre vie nel presente sistema
carcerario» e nel 1901 quelle di Giacomo Morando «per sapere se il
suicidio di Bresci si deve considerare come uno dei tanti risultati di mancata
sorveglianza così frequenti nei nostri stabilimenti penali» e di
De Felice Giuffrida «sui maltrattamenti inflitti al condannato Emilio
Riccardi nella casa di reclusione di Alessandria»[33].
Anche dopo
l’Unità, tutte le successive disposizioni che regolano la vita nei
luoghi di detenzione, continuano a prevedere punizioni corporali per i reclusi[34],
sino a quel «mostruoso strumento normativo» che è il
regolamento del 1891[35],
che generalizza il ricorso ai ferri, alla cintura e alla camicia di forza come
mezzi di punizione e di contenzione (applicabili anche a donne e minori)[36],
ma nella prassi l’armamentario a cui si fa ricorso è ancora
più ampio e variegato.
Così nel
1896 sempre Imbriani sostiene che «sia nelle camere di sicurezza dello
Stato, sia nelle prigioni dei carabinieri, sia in quelle delle guardie di
pubblica sicurezza» si usano ancora i ceppi e forse i bracciali:
I bracciali consistono in due anelli
infissi al muro, con due catene e poi due manette nelle quali si pongono i
polsi dell’arrestato in modo che egli resta così appeso; mentre i
ceppi consistono in due incavi posti nella tavola che fa orlo al tavolato, sui
quali poi si ripiegano due altri pezzi di legno che prendono come in una
scatola i piedi dell’infelice che vi è sottoposto … I
carabinieri conducono là dentro l’arrestato, magari lo mettono ai
ceppi, e poi se ne vanno pei fatti loro, forse a bere per il paese. Intanto il
povero infelice deve passar la notte in tortura[37];
Di
Rudinì, dopo averlo interrotto per chiosare, non si capisce a che fine,
che gli Abissini chiamano i ceppi ghindò,
risponde che le manette le conosce come tutti, ma che non crede che
«altri strumenti di punizione e di tortura (…) esistano nelle
nostre carceri», poiché i regolamenti non lo permettono, e
assicura che comunque adotterà opportuni provvedimenti se dovesse
risultargli qualcosa in contrario[38].
Ma ancora diversi anni dopo l’«Avanti!» pubblica una
descrizione e uno schizzo dei ceppi, evidentemente tutt’altro che
abbandonati[39].
Nel 1900 il
tribunale di Cassino condanna un vice brigadiere per sevizie e omicidio colposo
e un carabiniere per omicidio colposo e vilipendio di cadavere:
nell’ottobre del
perché avvinazzato, ebbero,
sembra, a colluttare con lui. Dapprima gli strinsero i polsi fino a farlo
sanguinare, poi gli passarono una catena al collo e lo lasciarono così
per tutta la notte in camera di sicurezza. Almeno si constatò che la
catena aveva causato lo strangolamento. L’autopsia avrebbe inoltre posto
in rilievo che al Conte erano state inferte delle battiture. Il vilipendio
consisteva nell’aver il Lucchetti sputato sulla bara, pronunziato parole
ingiuriose in previsione delle noie che il fatto gli avrebbe procurato[40].
Se poi si passa
ai luoghi di detenzione vera e propria la situazione è ancora molto
peggiore. Nel 1867 il Tribunale di Firenze assolve il responsabile del giornale
torinese della sinistra parlamentare «Il diritto», Enrico Giovanni,
che ha pubblicato un articolo di denuncia delle violenze e degli abusi commessi
nel carcere di Parma ed è stato querelato per diffamazione dal
direttore, Paolo Belmondi Quesada; al processo, fra l’altro, emerge che
persona qualificata vide da uno spiraglio
di cella carceraria che un detenuto, legate le mani strettamente al dorso, e
avvinto di ferri ai piedi, si divincolava per terra, e con grandi sforzi
poté col mento serrare al muro un pezzo di pane e addentarlo. Furono
riscontrate contusioni e offese in tre detenuti, prodotte dall’attrito di
corpetto e di cinto graduabile nella sua applicazione, e prodotte da
compressione e in seguito alla strozzatura del cingolo[41].
Poco dopo
Federico Bellazzi, che con la pubblicazione del suo volume Prigioni e prigionieri nel Regno d’Italia ha già
suscitato vivaci polemiche[42],
presenta alla Camera un’interpellanza sugli stabilimenti penali italiani
e nella discussione che ne segue Giuseppe Civinini fra l’altro,
riferendosi sempre al caso di Parma, sostiene che essendo quella una casa
penale,
a norma dei regolamenti, non si sarebbe
potuta applicare né la camicia di forza né il cingolo. Eppure
questo fu applicato con tale severità, che se qualche onorevole membro
di questo parlamento ebbe a riconoscerne, come perito medico, gli effetti, ve
ne volesse fare la funesta descrizione, potrebbe farvi ancora inorridire[43].
Nel 1869 un
tipografo napoletano, Gennaro de Angelis, pubblica un opuscolo in cui,
raccontando la sua esperienza personale, testimonia dello stato in cui versano
le carceri giudiziarie della sua città e degli abusi di cui sono vittime
i detenuti[44],
riprendendo anche le denunce già apparse sul «Piccolo giornale di
Napoli» del ricorso prolungato alla camicia di forza; l’opuscolo ha
un’eco immediata e molto forte su tutta la stampa locale,
indipendentemente dall’orientamento politico («Il piccolo»,
«L’avvenire», «Il pungolo», «Roma»,
«Il conciliatore», «La patria», «Il vero messaggiero
di Napoli», «Nuova Roma», «La libertà»,
«L’Italia», «Il popolo d’Italia»,
«L’indipendente», «La libertà cattolica»)[45],
ma anche sulla «Gazzetta del popolo» di Torino, che si sofferma in
particolare sulle sevizie a cui sono sottoposti i carcerati:
La camicia
di forza “è una specie di giubbettino di forte traliccio, che abbraccia
il torace e stringe il petto così da far mancare il respiro”. Il
gastigo della palla consiste
“nell’avvicinare il detenuto al muro, dove all’altezza di
otto palmi, sono due forti anelli: s’incrociano le braccia del paziente
con correggia di cuoio legata dietro le reni”. Quindi “gli si
attaccano ai polsi due piccole catene, le quali passano entro gli anelli di
ferro e cadono per il peso di 2 palle di circa
Anche il
corrispondente del «Times», Wredford, si occupa del tema e, oltre
che sul suo giornale, in un articolo apparso su «La riforma» e in
una lettera all’«Avvenire» denuncia che si ricorre non solo
alla cintura e alla camicia di forza, ma al “cassone”[47],
come sostitutivo del “puntale” («una catena corta, colla
quale il prigioniero era una volta attaccato colle gambe al muro» di cui
ha visto vari esemplari nella stanza del direttore); si apre così una
polemica con la rivista dell’amministrazione carceraria[48],
sulle cui pagine viene pubblicata una replica, già inviata alla
«Gazzetta del popolo», dell’ex direttore delle carceri
giudiziarie napoletane, Martino Garrone, che nega l’uso del puntale, ma
ammette e giustifica quello del cassone solo come «mezzo di
sicurezza», affermando che invece «sono invenzioni maligne il
coperchio che del cennato letto farebbe una scatola, e l’acqua fredda che
si disse versarsi sopra la persona giacente»[49].
La campagna di
stampa costringe il governo ad istituire una commissione ministeriale per
condurre un’inchiesta sulle carceri giudiziarie napoletane (Di
Rudinì pres., Pirro De Luca, Domenico Pisacane, Giovanni Minghelli
Vaini, Stefano Di Maria di Castelnuovo)[50]
e la sua relazione finale, oltre a fornire in generale una versione molto
edulcorata di una realtà notoriamente disastrosa, sul punto specifico
afferma che dei tre letti di contenzione, ereditati nel 1862 dall’abolito
ospedale centrale delle carceri, «l’uno fu ritenuto per quel di S.
Francesco, e mandato l’altro in quel di Castelcapuano, il terzo, quello
per le donne, a S. Maria ad Agnone», dove sono rimasti chiusi nei
magazzini, e che questo strumento è stato «due volte sole
(…), per ragioni d’infermità, adoperato: nel 1862, per il
caso del Monti, e poi, nel 1865, per quello di altro pazzo sottoposto a
giacervi per poche ore, durante il delirio furioso, e toltovi, appena la
urgenza del pericolo era venuta a scemare»[51].
E tuttavia, in sede di proposte conclusive, la commissione, dopo aver osservato
che «è parso che nel regolamento il castigo, talvolta, soverchi la
colpa, e nei castighi si largheggi di quelli che affliggono e viziano il
corpo», auspica che l’applicazione della camicia di forza come
punizione sia abolita «e lo strumento rimandato alle infermerie, dove
dovrebbero stare altresì i letti costringenti, siccome quelli che non
furono mai adoperati altrove, né possono adoperarsi altrimenti, che a
preservazione degli infermi»[52].
Invece il
direttore generale delle carceri, Napoleone Vazio, in risposta alle
osservazioni della commissione, sostiene che l’uso di mezzi come il
cassone e il puntale costituisce una violazione del regolamento, un «eccesso
condannevole», ma che il ricorso a «strumenti meccanici di
repressione delle violenze e delle indisciplinatezze dei prigionieri»,
«destinati, se non ad opprimere, almeno a contenere», è una
dolorosa necessità[53],
un rimedio estremo, che però non deve avere «altro scopo fuor di
quello di costringere all’inazione il detenuto, affinché non
offenda e non si offenda» e che in particolare la cintura e la camicia di
forza, ordinariamente utilizzate nei manicomi, sono «mezzi atti
più a contenere che ad offendere e comprimere», anzi
tanto per la loro flessibilità,
che permette la libertà dei movimenti, e non arreca danno al detenuto
che voglia reagire, quanto per la loro uniformità in tutte le prigioni
del Regno, questi stromenti sono il portato del progresso moderno, il quale,
dappoiché non vede ancor giunta l’era della abolizione dei mezzi
meccanici di costrizione, intende però che essi siano informati a quella
mitezza che vuolsi usare verso i prevenuti[54].
Nel 1881, Luigi
Lucchini, in una relazione su un viaggio d’istruzione compiuto con i
neolaureati in giurisprudenza dell’università di Siena, racconta
fra l’altro che nel bagno di Portoferraio i condannati alla cella di
punizione occupano «uno stanzone a parte, ove si tengono costantemente
con la catena fissa al suolo, come belve feroci, per impedir loro di nuocere
anche nella gran gabbia del bagno» e che un forzato, per
l’uccisione di un carabiniere di scorta, è stato condannato
all’isolamento con la catena fissa per dieci anni[55].
Nel 1903, ad
Ancona, un giovane processato in pretura per oltraggio alle guardie carcerarie,
suscitando viva impressione nel pubblico, denuncia «di essere stato
legato per 15 giorni con la camicia
di forza!»[56].
E ancora, un
detenuto politico racconta nelle sue memorie un episodio che testimonia quale
uso abbia visto fare della camicia di forza e con quali modalità di
applicazione nel carcere di Trani:
Una guardia più delle altre
zelante consigliò di porre al Faccetti la camicia di forza, le altre
aderirono e senz’altro si posero alla valorosa opera: la camicia di forza
per la corporatura esile del Faccetti era un po’ larga e perché
stesse meglio in corporatura gli fu
passato un guanciale per la schiena e in quattro dico quattro guardie, si
misero a tirare a tutta forza le cinghie. Il sotto capo guardia, che era
presente e nello svolgimento della triste scena mai aveva fatto una parola, per
un solo momento sentì d’esser uomo e disse: non tirate tanto. Ma
la solita zelante guardia sovreccitata disse: con questa gente non ci vuol
compassione, e con più forza stringeva ancora più le cinghie
… Al mattino presto vennero gli sgherri e tolsero al povero Faccetti la
camicia di forza; egli disteso sull’indecente saccone (…) non
parlava, più non fiatava, ed io lo chiamavo, e lui con flebile voce per
rassicurarmi tentava dirmi che nulla era[57].
Ed ecco infine
una descrizione della camicia di forza, dei suoi effetti e delle impressioni
che suscitano:
legati e stretti violentemente da una
pesante blouse, con le braccia
incrociate sul petto e le mani inchiodate sulle spalle dalle cinghie pendenti
dai polsi, tese ed annodate sull’anello che posteriormente porta alla
cintola, ed impossibilitati al riposo sui fianchi da due altri grossi anelli di
ferro, i derelitti sopportano inaudite sofferenze ancora più inasprite
dal nutrimento di solo pane, da ostinata insonnia, dalle molestie degli insetti
che pullulano nell’odiato vestito, e dalla necessità di
imbrattarsi dei loro escrementi nella soddisfazione dei bisogni corporali
… E bisogna vederli, come li ho visti io, in quale stato orrendo essi ne
vengono fuori. Ischeletriti, barcollanti, con gli occhi infossati sono ridotti
cadaveri ambulanti, uomini che già furono pieni di vita e di vigore.
Qualcuno di tempo in tempo vi rimane vittima[58].
Io fui testimone degli strazi nefandi e
assistei al tremendo spettacolo di questa maledetta camicia di forza, ed anche
oggi la memoria rifugge inorridita, al triste ricordo … Io non saprei
descrivervi il senso da cui due volte fui preso allorché mi fu giocoforza
assistere ai lamenti di un torturato dalla camicia di forza. Nella notte si
sentivano gli urli dei disgraziati a cui era applicata; e forse saranno state
le più tristi creature che possano germogliare nel rigagnolo delle vie,
ma bisognava sentire le proteste che si elevavano da tutto il carcere in quel
momento, ed io sono sicuro che, se quei detenuti fossero riusciti a scardinare
le porte in quel momento di santo altruismo, si sarebbero lanciati contro i
cannibali che non rispettano i deboli, perché il carcerato che non
può reagire è pari alla donna ed al fanciullo e deve essere sacro
a tutte le persone di cuore come dev’essere maledetto chi lo percuote[59].
Questo largo
ricorso alla camicia di forza come strumento di contenzione e di punizione
– anche oltre i casi in cui è ammesso dalle norme vigenti –
e i modi in cui viene praticato, hanno spesso conseguenze letali per chi vi
è sottoposto e, visto che negli episodi che vengono alla luce più
volte le autorità carcerarie cercano di occultare o di mascherare la
verità, si può a ragione supporre che in realtà i casi di
decesso che si verificano siano ben più numerosi.
Il 18 giugno
Nel 1869 il
giornale napoletano «Il vero», riferendo dei risultati
dell’inchiesta sulle carceri giudiziarie napoletane, scrive che a S.
Efremo Nuovo
è risultato che si abusava dei ferri
e delle camicie di forza, sino a far morire i prigionieri nei ferri, poi si
trasportava il cadavere nell’infermeria per far credere che l’uomo
era morto di malattia. Si seppe, inoltre, che molti condannati avevano la testa
rotta, altri i denti spezzati, altri infine, spinti alla disperazione, si erano
suicidati. Inutile parlare del trattamento inflitto ai detenuti, della
scarsità e della grossolanità del cibo, inutile raccontare come
per punizione si rifiutasse ai detenuti una goccia d’acqua, come li si
incatenasse come bestie feroci, senza liberarli, neppure quando dovevano
soddisfare qualche bisogno[61].
Nel 1873 un
detenuto, «imputato di gravi reati, di pessima condotta, soggetto a
continue punizioni», è chiuso in cella di punizione e gli si
applica la camicia di forza, per aver ferito il direttore, che accompagnava la
commissione sanitaria provinciale in visita al carcere, e un guardiano; ma
poche ore dopo, quando un guardiano
aprì quella cella di punizione per la consegna del pane, vide sul letto
la camicia di forza ridotta in brandelli ed il P. giacente in terra morto
strangolato. Nella parete aveva incise, con l’ardiglione della fibbia che
era alla cintura della camicia di forza, le seguenti parole: Muoio contento perché mi sono
vendicato[62].
Nel 1888 la
«Tribuna giudiziaria » di Napoli denuncia che ancora nel carcere di
S. Efremo Nuovo un detenuto ammalato, dopo essere stato lasciato per 35 giorni
a dieta in cella d’osservazione, protesta e per tutta risposta un sotto
capo e alcune guardie, dopo una colluttazione, lo legano con la camicia di
forza: il giorno seguente viene trovato morto e, provocando una protesta dei
reclusi prontamente sedata, si avanza l’ipotesi del suicidio, peraltro
esclusa dallo stesso ispettore delle carceri[63].
Nel 1890 si
celebra il processo a carico di alcune guardie del bagno di Civitavecchia,
accusate di aver causato nell’autunno del 1887 la morte di un forzato,
che aveva già dato segni di squilibrio e si era ribellato alle guardie
che volevano portarlo in isolamento: queste, assieme a un altro forzato
assegnato ai servizi interni, «a furia di calci e di percosse» lo
avevano gettato nella cella, assicurandolo al puntale e applicandogli la
camicia di forza e il bavaglio, e, di fronte ai suoi tentativi di resistenza,
«gli sono sopra, lo serrano alla gola, lo strozzano»; in aula, dove
depongono anche dei forzati, qualcuno dichiara fra l’altro che il sistema
di strangolare era usuale nel bagno; il processo si conclude con la condanna di
una sola guardia e del forzato addetto ai servizi interni come complici
necessari, ma il primo a tre anni di reclusione e il secondo a nove, non
essendogli riconosciuta alcuna attenuante[64].
Nel 1901, ad
Ancona, Ezio Pierani di 29 anni, arrestato perché si è opposto
all’arresto di due mendicanti, oppone «viva resistenza oltraggiando
gli agenti»; portato in carcere e condannato per direttissima a sette
giorni di reclusione,
subito dopo cominciò a mostrarsi
eccessivamente agitato, e (…) il capo guardia, ritenendo avere da fare
con un matto, o con uno che simulasse la pazzia, per evitare che potesse
offendere sé e gli agenti di sorveglianza, gli fece applicare il busto
di forza, dando ordine alle guardie di sorvegliarlo di continuo dalla bocchetta
lasciata espressamente aperta.
La notte
seguente Pierani viene trovato morto e, toltagli la camicia di forza, vengono
avvisati un medico, il direttore e il pretore, ma quest’ultimo constata
«che il cadavere presentava alla parte interiore e alla base del collo
una striscia rossastra il che fece sorgere il sospetto che al Pierani fosse
stata applicata la cosiddetta camicia di forza e gli agenti di custodia
risposero affermativamente» e, sulla base dell’autopsia, riferisce
che
la morte del Pierani, esclusa ogni altra
causa, debba attribuirsi ad asfissia e
stasi meningoencefalica in seguito a compressione del collo … la
camicia di forza ha potuto esercitare, nei movimenti incomposti fatti dal
paziente, una pressione tale da produrre la soffocazione … tutto esclude
che nel fatto doloroso vi sia stato dolo, ma nel medesimo tempo tutto fa
sospettare che vi sia concorsa la massima imprudenza da parte di chi ha
applicato la camicia di forza senza il consiglio del medico e senza la debita
vigilanza nel Pierani assoggettato a tale mezzo di rigore.
Il prefetto,
preoccupato per l’ordine pubblico poiché il fatto «ha
impressionato la popolazione» e immediatamente il Partito repubblicano
indipendente ha tenuto un comizio di protesta, mentre «on. Barilari, con
socialista Bocconi e anarchico Giangiacomi (…) hanno fatta dichiarazione
per eseguire domani passeggiata dimostrativa dal centro città al
cimitero», suggerisce di aprire prontamente un’inchiesta
amministrativa, dando subito notizia dei risultati. Il direttore generale
Canevelli si affretta a seguire il consiglio e affida l’incarico ad
Alessandro Doria (ancora lui), che, pur facendo risalire le cause
dell’accaduto al detenuto stesso, non può fare a meno di rilevare
le responsabilità del personale carcerario:
Dalla rigorosa inchiesta eseguita circa
cause morte Pierani Ezio risultommi che costui poté ubbriacarsi nel
carcere essendo digiuno da 48 ore e che ciò produssegli straordinario
eccitamento nervoso da farlo supporre impazzito. La morte per asfissia se la
produsse da se divincolandosi perché camicia di forza non fu certamente
assicurata bene sul davanti in modo da impedirgli salire al collo. Era un
alcoolizzato il cui organismo trovavasi in condizioni anormali ed aveva inoltre
forte iperemia polmonare tanto da ritenere che per quelle cause individuo sano
e robusto non sarebbe deceduto. Capo guardia Gaddo autorizzò e agente
Alberico misegli prima e dopo consenso superiore e senza giustificate
imprescindibili ragioni camicia di forza mentre avrebbero potuto quando Pierani
dava in escandescenze farlo assistere da altri detenuti o toglierlo dalla
segregazione cellulare. Direttore informato della applicazione suddetta non
pensò di accertare di persona vero stato di cose ciò che avrebbe
determinata immediata revoca misura arbitraria presa. Sanitario dottor Fuà
richiesto dal capo guardia non visitò mai Pierani[65].
Nell’aprile
del
L’episodio
più famoso, anche perché costituisce l’occasione di una
vera e propria campagna di stampa e di mobilitazione popolare condotta da
socialisti, repubblicani, radicali e anarchici, è però quello del
marinaio Giacomo D’Angelo. A seguito di ripetute discussioni col capitano
della goletta Rosalia Emilia Galante,
su cui era imbarcato, causate dal suo licenziamento, il 29 aprile
la camicia fu apposta dalla guardia
Landi, la quale dichiara d’aver fermato le braccia con due strisce di tela
legate rispettivamente ai ferri laterali della branda e di avere applicati ai
piedi del paziente due gambaletti di cuoio, assicurati pure ai ferri della
branda con spago. In seguito dalla guardia Sopranzi, che ha la diretta
sorveglianza di giorno sul braccio intermedio, furono sostituiti i gambaletti
di cuoio con una fascia di tela, ed una fascia simile venne applicata alle
ginocchia ed assicurata come le altre ai ferri laterali della branda. Durante
l’istruttoria si accennò pure all’esistenza di una fascia
che avrebbe circondato il petto del D’Angelo ed i cui capi sarebbero
stati legati al ferro superiore della branda. Negata costantemente dalle
guardie Sopranzi ed Orlando, dal medico dott. Ponzi, negata pure nella prima
loro deposizione dai detenuti Albani e Mattei, che frequentarono nel giorno 3
la cella n. 29, l’esistenza di quella fu poi invece affermata da costoro
nel seguito dell’istruttoria ed al pubblico dibattimento.
D’Angelo
rimane così immobilizzato per più di due giorni, durante i quali
viene visitato per due volte da un medico del carcere, che «trovò
regolarmente applicata la camicia di forza, appose il bene fatto sul registro all’uopo destinato dal direttore
Kustermann e chiese informazioni sullo stato del malato alla guardia Sopranzi
(…), la quale lo assicurò che il D’Angelo aveva mangiato.
Non diede alcuna speciale prescrizione, ma raccomandò la
sorveglianza». Nella notte tra il 4 e il 5 maggio il marinaio urla per
ore e cerca di divincolarsi, sollevando anche la branda fissata al muro, ma
le grida però si affievolirono e
cessarono poi del tutto nelle prime ore del 5 maggio e quando verso le 6 1/2 la
guardia Sopranzi ed il detenuto Albani entrarono nella cella n. 29 per la
solita pulizia mattinale, trovarono il povero D’Angelo morente. Lo
sciolsero subito, lo portarono all’infermeria, ove, nonostante i soccorsi
prestatigli, moriva alle ore 7,30 del medesimo giorno[67].
Per alcuni
giorni si riesce a tenere nascosto il fatto, ma il 10 maggio la notizia compare
nella cronaca di Roma del «Giornale d’Italia»[68],
del «Messaggero»[69]
e dell’«Avanti!», i quali ultimi già nel titolo
sollevano pesanti interrogativi sulla vicenda, anche in seguito ai risultati
della prima autopsia[70],
mentre il «Popolo romano» assume una posizione molto più
cauta[71];
l’11 il «Giornale d’Italia» la riporta in prima pagina[72]
e il quotidiano socialista anche sulle colonne nazionali, accompagnata da un
duro commento[73].
Col passare dei giorni emergono particolari sempre più inquietanti: i
medici che eseguono il primo esame autoptico attribuiscono immediatamente la
causa della morte a soffocamento e constatano che «il morto non aveva da
parecchi giorni preso alimento alcuno»[74];
il medico del carcere, Pietro Ponzi, in un’intervista al
«Messaggero», dice di non credere alla morte per fame, ma, pur non
escludendo né affermando in modo assoluto alcuna causa, ritiene
piuttosto che il decesso sia avvenuto «per congestione cerebrale» a seguito di percosse ricevute sulla
nave («l’aneurisma del
Frezzi!» commenta l’«Avanti!»), afferma che, pur avendo
ordinato di dare del cibo a D’Angelo, non è certo i suoi ordini
siano stati eseguiti[75],
difende i guardiani e il direttore[76],
pur rimettendosi ai risultati delle inchieste, e ammette un ricorso frequente
alla camicia di forza[77];
sembra che nella notte fatale una guardia, infastidita dalle urla del marinaio
«che non mangiava da tre giorni», gli abbia ulteriormente stretto
le cinghie della camicia di forza e poi si sia addormentata[78];
secondo il «Messaggero» la stessa guardia gli avrebbe messo anche
uno straccio bagnato in bocca per impedirgli di gridare[79],
mentre secondo il «Giornale d’Italia», avrebbe usato un vero
e proprio bavaglio, strumento peraltro in uso e che si dice sia conforme alle
disposizioni regolamentari[80];
sempre il «Messaggero» riferisce che, dopo la prima notte, il
vicino di cella, l’ex deputato Raffaele Palizzolo, si era lamentato con
una guardia di non aver potuto riposare disturbato dai lamenti di
D’Angelo e che questa gli avrebbe risposto ammiccando:
ha ragione, onorevole; ma la colpa è
di quel fre…scone del mio compagno che ogni tanto si lascia convincere a
dargli dell’acqua. Con la gola inumidita si capisce che grida. Ma io non
sono tanto fre…scone; da oggi non gli do più da bere e stanotte,
con la gola secca, ha voglia di gridare. Stia tranquillo, onorevole, che
dormirà tranquillamente[81].
Le
autorità dal canto loro tentano di ridurre al minimo i danni, senza
peraltro cercare di andare a fondo nella ricerca della verità: la
direzione generale delle carceri dispone un’inchiesta e Giolitti, allora
ministro dell’Interno, ne affida personalmente un’altra al cavalier
Cardosa, già direttore delle Carceri Nuove, inchieste di cui peraltro si
riesce a sapere poco o nulla[82];
pare che sempre Giolitti faccia mettere agli arresti per misura disciplinare
alcune guardie; il direttore di Regina Cœli, Enrico Kustermann, in carica
da quattro anni dopo essere stato a Volterra e a Civitavecchia, viene
immediatamente trasferito a Catania[83],
suscitando le proteste della stampa siciliana[84]
e dei socialisti, che sembrano stimarlo e soprattutto ritengono la sua presenza
indispensabile per le indagini[85].
Ma la stampa
non si limita a seguire attentamente gli sviluppi della vicenda. Sulle pagine
dell’«Avanti!», oltre a dettagliati resoconti nella cronaca
di Roma, compaiono in prima pagina anche alcune feroci vignette di Galantara[86]
e ripetuti articoli nelle colonne nazionali che attaccano direttamente e
pesantemente Giolitti, collegando il caso all’annosa polemica sugli
arresti arbitrari (operati del resto anche negli stessi giorni di quello di
D’Angelo, in occasione della visita del re d’Inghilterra e
dell’imperatore tedesco[87]),
ma anche contestando in generale i sistemi in uso nelle carceri italiane (e in
particolare il ricorso alla camicia di forza) e criticando i tentativi di
rallentare e insabbiare le indagini per coprire le responsabilità
dirette nell’episodio[88];
alla vicenda viene dedicato anche un articolo di fondo, in cui Enrico Ferri,
dopo aver stigmatizzato sarcasticamente l’episodio, sintomo in
realtà di un sistema, ribadisce le sue idee sull’inutilità
della carcerazione cellulare e in favore delle colonie penali agricole, ritorna
sulla questione degli arresti arbitrari e denuncia le responsabilità
politiche di Giolitti[89].
Il «Messaggero», a sua volta, fa risalire la causa della morte al
ricorso alla camicia di forza e ai sistemi disciplinari in uso a Regina
Cœli[90],
ma ne trae anche conclusioni di carattere generale sulle condizioni di
internamento nelle carceri italiane:
E’ l’ambiente che necessita
cambiare, rifare, rimodernare. Occorre fissar bene in mente a tutto il
personale direttivo, amministrativo, sanitario e subalterno, che i detenuti non
sono animali da macello, bensì cittadini; e che tra gli avariati stanno
i sani, gli onesti, gli innocenti come Giacomo D’Angelo: e che, ad ogni
modo, verso tutti, indistintamente, si devono usare modi civili; che le guardie
carcerarie devono considerarsi infermieri, non aguzzini; e molto meno carnefici[91].
Lo stesso
giornale scrive che secondo alcuni ci sarebbero state altre morti misteriose a
Regina Cœli[92],
dove le sevizie sarebbero usuali[93],
dà notizia di una denuncia sui maltrattamenti inflitti a dei detenuti a
Napoli (percossi a sangue e poi astretti nella camicia di forza), che porta ad
un’altra inchiesta affidata a Cardosa[94],
e pubblica in prima pagina un’intervista di Italo Carlo Falbo ad Enrico
Morselli, in cui «l’insigne psichiatra e alienista», pur non
pronunziandosi sull’episodio specifico e ammettendo il ricorso alla
camicia di forza (ma solo «in casi estremi», sotto completa
responsabilità del medico e se opportunamente e adeguatamente
applicata), afferma che «si può esser giustamente rigorosi, senza
tramutarsi in veri e propri aguzzini», che, se ciò che è
emerso dalle indagini è vero, «è orribile», che
occorre dare maggiore importanza al servizio medico nelle carceri, affidandolo
ad esperti «scelti fra gli studiosi di scienze psichiatriche e criminali,
e mediante regolare concorso, e, soprattutto, che «è necessario
creare degli istituti intermedi tra le carceri e i manicomii: i manicomii
criminali», poiché
Altrimenti, si dica pure che la pena di
morte è abolita solo di nome, ma in realtà conservata sotto forma
più crudele perché più lenta e meditata. L’aver
tolto ad un individuo la libertà, la donna e ogni divertimento, è
di per sé pena gravissima, che aggravare con altre privazioni e con
altre angherie non è umano[95].
E infine il
«Giornale d’Italia», accentrando la sua attenzione
soprattutto su Regina Cœli, dopo aver scritto che forse è stato
occultato qualche mese prima un altro caso di morte sospetta in quel carcere[96],
dove l’uso dei ferri corti ai piedi e del bavaglio sarebbe normale[97],
chiede al ministro dell’Interno se sia vero che l’anno precedente
è stata trasferita una guardia che aveva denunciato i maltrattamenti ai
detenuti, che pochi mesi prima è morto un detenuto alle Carceri Nuove
per mancanza di cure, che a Regina Cœli c’è un reparto,
denominato “Bolognesi” dal cognome di una guardia, appositamente
destinato all’applicazione della camicia di forza «con una frequenza
addirittura eccessiva», che ad Alghero «vi fu una volta un
direttore che aveva inventato una speciale camicia di forza (…) che
chiudeva anche le gambe e che poi fu destituito, ma in seguito assunto come
impiegato al Ministero dell’Interno»[98];
riferisce delle lettere di cittadini che testimoniano sulle urla continue dei
reclusi e dei numerosi casi di suicidio[99];
denuncia le violazioni del regolamento e i maltrattamenti inflitti anche ad
ammalati e minori[100].
Ma la campagna segue
anche la via della mobilitazione popolare: di giorno in giorno si moltiplicano
le prese di posizione e le iniziative «contro il sistema carcerario e
contro l’assassinio del marinaio D’Angelo» da parte delle
organizzazioni locali del Partito socialista, dal Galluzzo a Bologna, da Roma a
Tivoli, da Livorno a Certaldo, da Firenze a Genova, da Napoli a Sanremo, da
Castellamare a Vittoria[101].
Il 21 maggio, promossa dalla sezione romana del Partito repubblicano e
accuratamente preparata[102],
si tiene a Roma una grande manifestazione popolare – come era già
accaduto per il caso Frezzi – per protestare «contro le
inqualificabili infamie che si consumano impunitariamente nel silenzio
impenetrabile delle nostre carceri»: all’iniziativa aderiscono
La vicenda
approda naturalmente anche alla Camera, dove vengono presentate numerose
interrogazioni (e non solo da deputati di sinistra)[106],
alle quali il 16 maggio, dopo qualche rinvio[107],
risponde però non Giolitti[108],
ma il sottosegretario Scipione Ronchetti, mentre «
che noi agevoleremo in tutti i modi
l’azione dell’autorità giudiziaria, che apporteremo il
concorso volonteroso della nostra opera perché intera si conosca la
verità, perché le investigazioni siano sollecite e complete, e
perché nessuno, in qualunque ufficio si trovi, qualunque il nome che
porti, sfugga alle responsabilità che gli possano spettare.
Ronchetti
difende quindi i provvedimenti governativi, compreso il trasferimento di
Kustermann e di altri due impiegati, deciso per favorire la scoperta di
possibili colpevoli consentendo di raccogliere testimonianze senza
condizionamenti, e conclude affermando che da tempo il governo è
impegnato ed ha avviato gli studi per una riforma dei regolamenti carcerari
«che pur troppo non rispondono in alcun modo né alle esigenze
moderne delle discipline carcerarie, né alle esigenze in parte
dell’umanità», come dimostra la presentazione del progetto
di legge sul lavoro dei condannati all’aperto[109],
ma che si tratta di un problema che «per la sua complessità e
importanza, non si poteva risolvere senza meditazione»[110].
Nessuno degli
interroganti si accontenta però di queste assicurazioni e promesse
ministeriali. Socci si dichiara insoddisfatto della risposta, con
l’eccezione dell’ultima parte (sempre che alle parole seguano i
fatti), si sofferma sul comportamento del medico del carcere, che ritiene
riprovevole, ma soprattutto condanna fermamente l’uso della camicia di
forza, «strumento di inquisizione e indegno di un popolo che si rispetta,
maledetto da tutta la gente di cuore», a cui invece si ricorre largamente[111],
e ne auspica l’immediata abolizione, in mancanza della quale il governo
sarebbe «non solo responsabile, ma complice di tanto delitto». Santini
lamenta di non aver ricevuto alcuna risposta sulle «cause che avrebbero
determinato la morte, non naturale, frase molto cortese» di
D’Angelo, dichiara che si vergogna dell’accaduto «quale
italiano e quale medico», che l’applicazione della camicia di forza
è avvenuta violando le norme in proposito[112],
che la vittima non avrebbe dovuto essere portata in un carcere, che «il
Governo ha voluto levarsi la responsabilità, punendo il direttore; ma
non è sicuro se questo sia colpevole o no», che è certo che
tutto finirà «in un bicchier d’acqua», come nel caso
Frezzi, perché «ormai anche i partiti estremi sono
addomesticati», e conclude chiedendo un ritorno alla pena di morte[113].
Turati, dopo aver accennato al fatto che l’arresto di D’Angelo
(come di consueto) era illegale, che «i mezzi di tortura autorizzati
nelle nostre case di pena sono ormai aboliti anche nei manicomi per gli stessi
pazzi furiosi» e che «ad ogni modo, anche per le nostre carceri, il
regolamento pone dei freni, e al regolamento non fu obbedito»[114],
afferma che fatti del genere sono «come finestre che si aprono d’un
tratto e che gettano un’immensa luce su tutto un tenebroso viluppo di
cose tristi e delittuose», cioè sul mondo delle prigioni,
«un paese assolutamente sconosciuto … un paese di dolori e di
soprusi in cui occhio umano non penetra» e dove tutto può accadere[115];
l’unica soluzione è quella di cambiare radicalmente tutto il
sistema[116],
certo non limitandosi ad adottare provvedimenti come i lavori all’aperto
– «riforma, dice Turati, che io temo troppo nasconda un ritorno
alla pena di morte per effetto di malaria contro infelici sprovvisti
d’ogni difesa» – e per fare ciò sarebbe forse bene
cominciare a valutare se non sia opportuno affidare la competenza sulle carceri
al ministero di Grazia e giustizia anziché a quello dell’Interno[117]
e soprattutto istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sul
sistema carcerario italiano «fatta da persone oneste, competenti,
indipendenti, munite di pieni poteri, che vivano per un po’ di giorni la
vita delle carceri». Infine Mazza sostiene che la prima parte della
risposta di Ronchetti è «una confessione manifesta ed esplicita
che tanto l’autorità di pubblica sicurezza, quanto i carabinieri
(…) e le autorità carcerarie hanno violato la legge» e che
conferma «la responsabilità amministrativa e penale di coloro che,
con tanta ferocia e con tanta inciviltà» hanno deciso di ricorrere
alla camicia di forza, accusa il medico del carcere di essere «il
principale complice di questo delitto» e ricorda che egli stesso
già nel 1901, nella relazione al bilancio dell’interno, definiva
il regolamento carcerario (riferendosi in particolare anche alla previsione del
digiuno, dei ferri e della camicia di forza) «difettoso e
incivile», «iniquo, orrendo, cento volte più orrendo del capestro
e della mannaia».
Non a caso
quindi, due giorni dopo, numerosi deputati delle opposizioni di sinistra
(Filippo Turati, Enrico Ferri, Agostino Berenini, Savino Varazzani, Ettore
Ciccotti, Oddino Morgari, Angiolo Cabrini, Carlo Catanzaro, Ettore Socci,
Gustavo Chiesi e Filippo Garavetti) presentano una mozione formale
perché «ad una Commissione di dieci deputati eletti dal Presidente
della Camera sia demandata un’inchiesta con pieni poteri d’indagini
su tutto il sistema delle carceri e dei riformatorii con mandato di riferire
alla Camera nel novembre prossimo»[118],
ma l’iniziativa è destinata a cadere nel vuoto; del resto
già alcuni anni prima due proposte analoghe avanzate da Imbriani con la
presentazione di una mozione e di un ordine del giorno[119],
si sono scontrate con il rifiuto di Di Rudinì[120]
e miglior sorte non ha avuto la stessa richiesta fatta da Socci con
un’interrogazione [121],
né avranno seguito le richieste in tal senso avanzate da Romussi e
Turati nel 1906 con due delle interpellanze relative al caso
Angelelli-Acciarito[122].
E infine
Chimienti presenta un’interpellanza al ministro dell’Interno per
sollecitare comunque un’immediata modifica del regolamento carcerario
nel senso di togliere dal novero delle
punizioni da infliggersi ai detenuti la camicia
di forza, la quale, discussa dalla scienza medica ed ammessa, e non da
tutti, come necessità dolorosa, costituisce, senza dubbio, inflitta come
pena disciplinare, dalle autorità dirigenti delle carceri e dei
reclusorî, uno strumento obbrobrioso e selvaggio di tortura fisica[123],
mentre il
professor Luigi Maria Bossi, che sull’argomento ha già pubblicato
una lettera aperta ai medici italiani[124],
coglie l’occasione per presentare un’interrogazione sui criteri di
nomina dei medici carcerari e sull’opportunità di provvedervi con
concorso, ma Ronchetti risponde che ciò si fa già, almeno per le
carceri di maggiore importanza, e con ottimi risultati[125],
lasciando almeno in parte insoddisfatto l’interrogante[126].
L’anno
seguente, nel corso della discussione sul bilancio dell’Interno, Turati
ricorderà nuovamente i casi di Frezzi e D’Angelo, come esempi
dell’interesse solo occasionale per la situazione delle carceri italiane,
destinato a rimanere senza seguito dopo l’emozione momentanea suscitata
da singoli episodi:
tratto tratto, qualche caso sanguinoso,
l’episodio di un Frezzi, o di un D’Angelo, apre una breccia,
projetta un raggio sinistro nel buio delle cose dei morti nel nostro Paese.
Allora l’opinione pubblica insorge per un momento, qualche deputato
interroga, il ministro dell’Interno risponde che provvederà, e i
sepolcri tornano a chiudersi ermeticamente finché qualche nuova tragedia
non li dissuggelli[127].
Pochi mesi
dopo, il 7 novembre, alla sesta sezione del Tribunale di Roma si apre il
processo contro il medico, l’ex direttore, un capoguardia, due sottocapi
e quattro guardie di Regina Cœli imputati di omicidio colposo[128].
Nel corso delle udienze emergono molti elementi che gettano nuove ombre sia sul
caso specifico in discussione sia, più in generale, sulle condizioni di
vita nelle carceri italiane. Un sottocapo dice di non saper nulla della fascia
al torace, ma «ammette però che fu applicata ad altri
detenuti», un altro, già condannato per ferimento, «alla
osservazione del presidente che egli avrebbe avuto l’obbligo di
assicurarsi che il D’Angelo fosse sciolto nelle ore del pasto risponde
che la disposizione riguarda i detenuti in punizione e non quelli aventi la
camicia di forza per misura precauzionale» e una guardia
«trovò che [D’Angelo] aveva orinato nel letto, ma non lo
sciolse perché, essendo agitato, doveva aspettare la visita
medica»; il dottor Ponzi, che riceve attestati di stima pressoché
unanimi, sostiene che la camicia di forza è stata applicata a
D’Angelo «secondo il regolamento», ricorda che «qualche
anno indietro propose ed ottenne l’abolizione di un certo cassone che era una barbarie»,
«afferma che la discussione del processo si deve a lui» e spiega
che dopo la morte del marinaio la camicia di forza non è stata
più messa agli agitati, ma che «questo provvedimento ha tramutato
il reparto in una bolgia infernale»; Kustermann spiega che
diverso è il sistema di
applicazione della camicia di forza a seconda che si tratti di agitati o
puniti. Al D’Angelo fu messo un corpetto con le braccia piegate
sull’addome, lateralmente assicurate con cinghie ai ferri della branda
per impedire che si muovesse. La camicia di forza che si applica ai puniti ha
le fibbie dietro e permette di stare in piedi[129].
Una guardia,
sempre rispondendo ad una domanda del presidente, afferma «che i detenuti
legati per sicurezza personale non vengono sciolti durante i pasti e per i
bisogni corporali»[130].
Un detenuto
fa inoltre rilevare che le guardie non
mostrano al dottor Ponzi tutti i detenuti ai quali applicano la camicia di
forza, perché essendo egli di cuore buono li fa subito sciogliere.
Invece li fanno visitare dal Montechiari che li fa stare fino a venti giorni
legati,
e un altro
dichiara che
fu per punizione tenuto quindici giorni con
la camicia di forza; questa era talmente stretta che si sentiva soffocare,
tanto più che la guardia Orlando gli aveva messo una coperta sul viso.
Dalla guardia Sopranzi fu anche battuto. Assicura che fu visitato dal
Montechiari una volta sola in quei quindici giorni[131].
Un ex detenuto
testimonia a sua volta che
gli fu applicata
più volte la camicia di forza che veniva sempre fatta allentare dal
dottor Ponzi perché gli agenti, quando non vi sono i superiori, non
hanno pietà per alcuno. Ricorda pure che il dottor Ponzi raccomandava
sempre alle guardie che pensassero alla nutrizione dei detenuti legati[132].
Il cavalier
Cardosa cerca di sminuire le responsabilità del personale, rispetto a
quanto ha scritto nella relazione al ministro, acquisita agli atti, mentre il
direttore generale Doria
afferma che il personale carcerario
è vittima continua di ingiuste accuse … Dichiara di avere una
grandissima stima del dottor Ponzi come uomo e come professionista, tanto che
se non fosse sopravvenuto il caso D’Angelo era già pronta la sua
nomina a cavaliere della Corona. Circa il cavalier Kustermann dice che è
un distinto funzionario, ma non crede che abbia tutte le qualità
necessarie per dirigere uno stabilimento qual’è Regina Cœli[133].
Infine
un emozionante incidente, si ebbe quando
il p. m. annunziò di aver ricevuto dalla madre del detenuto Albani, uno
dei più importanti testi a carico, una lettera nella quale denunziava
che il proprio figlio era stato maltrattato dai guardiani a causa della
deposizione resa in giudizio, e chiese che fosse richiamato e sentito il teste.
Infatti, di lì a poco, compariva pallido, emaciato, disfatto
l’Albani negli abiti del recluso, mentre la prima volta era comparso
vestito dei suoi panni e di florido aspetto; ma la difesa si oppose energicamente
a che fosse inteso, e il tribunale le diede ragione. Fu allora che un avvocato
della p. c. osservò giustamente che non importava sentirlo, ma bastava
vederlo[134].
Il 1°
dicembre il tribunale pronunzia la sua sentenza, che, nonostante tutto
ciò, assolve gli imputati «per inesistenza del reato loro
ascritto»[135]:
secondo la corte, la stessa perizia d’accusa, caratterizzata da dubbi e
incertezze, sostiene che D’Angelo doveva essere affetto da delirio acuto
– una «cerebro-psicopatia (…) determinata sopra un fondo di
debolezza nervosa, presumibilmente congenito, e resa ancor più
suscettibile dall’azione dell’alcol, dalle contrarietà
recentemente subite dal D’Angelo e soprattutto dagli ultimi episodi della
sua vita» – anche se non è possibile stabilirne la gravità,
e in presenza di tale affezione, come sostiene la perizia a difesa del dottor
Ponzi, la causa immediata della morte va individuata nel «collasso, fine
naturale e normale del delirio acuto», «in un fatto cioè
naturale», mentre gli altri presunti coefficienti colposi
(l’applicazione della camicia di forza, l’alimentazione
insufficiente, le condizioni igieniche, la mancanza di assistenza[136]),
né singolarmente né nel loro complesso, «in ogni caso non
avrebbero mai il carattere di causa efficiente per la evidente, intuitiva
sproporzione tra la loro entità, i loro effetti anormali e
l’evento letale che avrebbe dovuto esserne la conseguenza».
Quei
coefficienti, «sempre quando ne fosse dimostrata la sussistenza»,
potrebbero però aver causato un danno e quindi essere puniti come
lesioni personali colpose, ma l’esame delle singole specifiche
responsabilità degli imputati porta ad escludere anche questa ipotesi.
Infatti, quanto al medico e agli agenti, va anzitutto tenuto conto
dell’«ambiente delle carceri, nel quale da una parte la pazzia va
soventi accanto alla simulazione e d’altra parte manca qualsiasi
personale tecnico d’infermieri che possa fornire al medico i dati
necessari per distinguere i pazzi dai simulatori». Perciò il
medico – la cui responsabilità «non può essere
misurata con i criteri comuni in materia di colpa, ma alla stregua di quei
criteri più larghi universalmente riconosciuti, che reggono oggi la
valutazione capacità professionale dei medici» e quindi limitata
alla colpa grave – non avrebbe potuto «formare (…) una
diagnosi della malattia» e sarebbe stato legittimo il sospetto di
simulazione, per cui non gli si può rimproverare né «la
permanenza di mezzi coercitivi contrari alla natura del morbo», anche
ammessa tale discussa contrarietà e tenuto conto che ha usato quello che
aveva a disposizione[137],
né il «nichilismo alimentare»; anche altri addebiti,
indicati «nella brevità delle visite, e nell’aver usato il
dermotatto anziché il termometro (…) ed infine nel nichilismo
terapeutico» sono privi di fondamento[138];
inoltre «alla pubblica udienza ebbe da medici illustri, da agenti del
carcere, dai detenuti tutti unanimi lodi per la sua intelligenza, perizia e
mitezza». Quanto agli agenti di custodia[139],
la loro responsabilità «appare nei riguardi della malattia del
D’Angelo anche minore di quella del medico, che coll’approvazione
data all’applicazione della camicia di forza viene quasi ad eliminare su
questo punto la responsabilità degli agenti». Infine, per
ciò che riguarda il capoguardia e il direttore, «l’alta sorveglianza
che spettava a costoro, e specialmente all’ultimo, sull’intero
stabilimento di Regina Cœli la cui popolazione varia fra i 1200 e i 1500
detenuti, basterebbe già ad eliminare qualsiasi diretta
responsabilità penale»; inoltre, avendo il capoguardia visitato
due volte D’Angelo e riferito al direttore, «da lui non si poteva
pretendere maggiore diligenza», mentre, «trattandosi di sospetto
alienato» dell’applicazione della camicia di forza era
«arbitro» il medico e non Kustermann, al quale non si può neppure
addebitare né il fatto di non aver visitato personalmente D’Angelo
né un’abituale applicazione della camicia di forza eccessivamente
frequente[140].
La sentenza,
oltre ad un tentativo di manifestazione di protesta[141],
suscita qualche polemica: la «Rivista di discipline carcerarie»,
prima ancora di pubblicare «di buon grado» il testo della sentenza
assolutoria «per aderire alle ripetute raccomandazioni fatteci dai nostri
abbonati»[142],
esprime la sua viva soddisfazione per l’esito del processo:
Di questo pronunziato dei magistrati
nostri molto hanno da compiacersi la «Rivista» e
l’Amministrazione carceraria, inquantoché, più di una
vittoria giudiziaria, esso rappresenta per il personale delle Carceri una
rivincita morale, contro una corrente di ingiusta antipatia e di mal
dissimulato odio di parte. Nel lungo dibattito, malgrado l’artifiziosa e
preconcetta montatura dell’ambiente, la voce serena della scienza ha
prevalso … Così l’Amministrazione delle Carceri ed il suo
benemerito personale, contro cui eransi scagliate per naturale reazione dello
spirito pubblico, al primo annunzio del caso insolito, le ire dei malevoli,
risorge ora detersa da questo lavacro di prove giuridico-scientifiche;
perché, come mai era avvenuto che funzionarî ed agenti preposti ad
un delicato ed importante servizio pubblico, qual è quello della
custodia dei detenuti, si fossero macchiati di un reato tanto grave, neppure
nell’ordine giuridico della semplice colpa, così oggi è
luminosamente provato da elementi testimoniali non sospetti, che manca nel
personale stesso anche la capacità a delinquere, malgrado la lotta
incresciosa ch’esso combatte ogni giorno, e le occasioni provocatrici e
pericolose, ed i sistemi che gli sono imposti nella lotta stessa[143];
la
«Rivista penale» è invece particolarmente critica nei
confronti della sentenza, che commenta con amaro sarcasmo:
Per l’uccisione di Frezzi tutto fu
liquidato in sede istruttoria; per la morte, non uccisione, del marinaio
D’Angelo c’è voluto il dibattimento alla sesta sezione del Tribunale di Roma. Un dibattimento che
à dato uno splendido risultato: assoluzione generale … per quanto
sembri inverosimile, nessuna responsabilità si è potuta stabilire
di fronte al fatto accertato e inconcusso che Giacomo D’Angelo, arbitrariamente
detenuto nel carcere di Regina Cœli,
sottoposto alla tortura della camicia di forza, vale a dire con gambali di
cuoio ai piedi e con solide fascie alle braccia e al petto, fissate agli orli
della branda, dopo cinquant’ore di spasimi moriva la mattina del 5 maggio
1903. Diamo dunque la colpa all’enormità e medievalità dei
regolamenti come già fece alla udienza il sost. proc. del re Puija,
invocandone l’immediata e completa riforma[144];
e anche il
«Messaggero» pubblica un articolo altrettanto severo, anche se
addebita una buona parte di responsabilità ai periti:
La sentenza che li assolve è
logica … Poiché gli uomini della scienza si erano ricreduti e
ritenevano il marinaio morto di morte naturale, era naturalissimo che i giudici
accettassero le loro ultime conclusioni. Dato che D’Angelo doveva morire,
in carcere come in casa, come in mare ad epoca fissa, o quasi e che morì
perché tale era il suo destino, che sarebbe morto anche se ben nutrito,
i giudici dovevano passar sopra a tutte le testimonianze in contrario e
ritenere che unico colpevole della sua morte fosse il destino. E come nessun
tribunale è chiamato a giudicare il destino, ma solamente gli uomini,
poiché gli incausati apparivano colpevoli solo di qualche negligenza era
in obbligo di assolverli. E li assolse … Il buon vecchio marinaio [il
padre] vada a nascondere il suo atroce dolore sui flutti dell’Oceano,
invece di presentarsi dinanzi ai giudici a chiedere vendetta per la morte del
figlio. Questi è morto di morte naturale. Lo ha detto la scienza e lo ha
confermato la giustizia. Tutt’al più si potrà pensare a far
ricoverare la madre di Giacomo nel manicomio quando verrà dimostrato che
ella sia veramente impazzita per la miseranda fine del figlio suo![145]
Con
l’assoluzione di tutti gli imputati cala definitivamente il sipario anche
sul «pietoso caso di quel povero marinaio D’Angelo, morto, non
ammazzato, nel carcere di Regina
Cœli a Roma»[146]
e tuttavia il clamore suscitato dalla vicenda e la battaglia delle opposizioni
portano a qualche risultato, sia pure minimo. Infatti poco prima della sentenza
viene pubblicato un decreto che si limita però a modificare alcuni
articoli del regolamento generale carcerario, senza intaccarne l’impianto
complessivo: non quindi una riforma generale, come aveva promesso il
sottosegretario Ronchetti, ma solo qualche ritocco al regolamento del 1891,
come rileva criticamente Turati[147].
E se si legge la relazione al ministro del direttore generale Doria, a nome
della commissione, si vede chiaramente come
l’intento della riforma –
scontato un generico fine umanitario e pietistico – non è di
mutare il fondamento del sistema disciplinare, ma semplicemente di razionalizzarlo,
eliminando alcune infrazioni e punizioni che non avevano dato buona prova e
introducendone altre di cui si era avvertita l’esigenza, in modo da
snellire la complessa materia e renderla di più facile interpretazione e
applicazione[148].
In particolare
ferri, cintura e camicia di forza scompaiono dal novero delle punizioni
previste per le infrazioni disciplinari dei detenuti ed è ammesso
soltanto il ricorso alla cintura come «mezzo preventivo e repressivo
contro le violenze», a determinate condizioni e con particolari cautele:
Art. 5. Quando sia assolutamente
indispensabile di reprimere le violenze a cui i detenuti si abbandonino per
momentanea esaltazione mentale o per deliberato proposito di aperta ribellione,
è ammesso l’uso della cintura di sicurezza, come mezzo preventivo
e repressivo ad un tempo, al solo scopo di contenerli e di impedire che essi
producano danno materiale a se stessi e agli altri. L’applicazione di
siffatta cintura, quando i mezzi morali siano riusciti inefficaci e vani, può
essere fatta, in via d’urgenza, per ordine del comandante o capoguardia,
e alla sua presenza, con ogni cautela; detti graduati hanno però
l’obbligo di darne immediato avviso al direttore, il quale fa chiamare
subito sul luogo il sanitario e a lui rimette il giudicare se tale sistema di
repressione sia per ogni singolo caso da continuarsi, e per quanto tempo, da
sospendersi o da risparmiarsi; il sanitario stesso dà in proposito le
opportune disposizioni scritte, da firmarsi sul registro dei rapporti.
Anche in questo
caso specifico, la relazione di Doria palesa però come la misura sia
suggerita senza molta convinzione, quasi per forza, a seguito anche del clamore
suscitato dal “caso D’Angelo”, e come la proposta non manchi
di ambiguità:
Degli antichi sistemi carcerari,
inspirantisi ad un concetto di vendetta sociale, residui della barbarie
derivante dall’antica legge mosaica del taglione, è oggi tuttora
in piedi, come un rudero superstite tra gli edificî della civiltà
nuova, quello della coercizione corporale afflittiva, quale mezzo di punizione
e di repressione ad un tempo, constituente in sostanza un aggravamento
indebito, anzi un inasprimento della pena. La lunga esitanza nello sbarazzarsi
di tale vestigio di crudeltà deve però attribuirsi piuttosto alla
necessità della difesa contro il maleficio; che tanti sono purtroppo,
ora più che mai, gli agguati e i tradimenti avverso la legge, quella
penale in ispecie, nella sua applicazione, e così disperata è la
lotta per la libertà e contro l’individuale costringimento. La persistenza
nel mantenerlo, malgrado la critica incessante, è dovuta senza dubbio
assai più alla indomita malvagità umana che alla pretesa
crudeltà di legislatori e di amministratori; questo ultimo avanzo di un
sistema ormai condannato ha resistito finora quale bisogno disciplinare
supremo, ritenuto imprescindibile arma di difesa e come garanzia d’ordine
nelle carceri. Cionondimeno la pubblica opinione, la coscienza universale
reclamano ora l’abolizione anche di questo ultimo vestigio dei tempi
andati … [la commissione] credette poi suo imprescindibile dovere
proporre la soppressione d’ogni strumento di coercizione corporale e di
tortura fisica, come la camicia di forza ed i ferri … si è
ritenuto necessario ammettere però l’uso di una cintura di
sicurezza quale mezzo contenitivo per gli agitati, siano essi affetti da vere
psicosi, o semplicemente spinti alle violenze da cosciente malvagità, ma
si è riservato l’uso di tale mezzo al giudizio e alla
responsabilità del sanitario, onde evitare lo stesso pericolo d’inconvenienti
e di danni alla salute fisica e psichica dei detenuti[149].
E sempre Doria,
pochi mesi dopo, definisce le questioni interpretative poste dai direttori
«dubbiezze e perplessità, di carattere assolutamente transitorio,
d’altronde inevitabili nel passaggio rapido quanto inopinato da un metodo
all’altro»[150].
Non si creda
però che anche una riforma minima come questa passi in maniera pacifica
ed indolore e sia tranquillamente accettata da tutti. Lo stesso direttore
generale, pur prendendo in qualche modo le distanze[151],
ospita sulle pagine della rivista dell’amministrazione carceraria un
articolo fortemente critico di Epaminonda Querci Seriacopi[152],
un funzionario che diventerà ispettore generale. A suo parere, infatti,
l’abolizione dei ferri e della camicia di forza come strumenti punitivi,
dopo quella della catena dei forzati[153],
è certo un’idea «nobile ed elevata»,
ma se agli entusiasmi generosi del primo
momento succeda la calma riflessione dello spirito, potrà forse apparire
troppo ardita e non sufficientemente ponderata questa riforma così
radicale, dovuta evidentemente ad una spinta occasionale, irresistibile per la
sua natura e forma rivoluzionaria, più che alla evoluzione logicamente e
ragionevolmente innovatrice ch’è il risultato naturale del felice
connubio tra scienza ed esperienza. Perché noi, chiamati per dovere
d’ufficio ad applicare la legge penitenziaria, noi soli che sosteniamo il
peso di una responsabilità gravissima, noi soli che combattiamo la lotta
contro il malefizio, acuita dalle circostanze speciali inerenti alla espiazione
della pena, possiamo avere la visione chiara e completa delle conseguenze di
una troppo ardita riforma; visione che sfugge naturalmente a tutti coloro i
quali dopo aver propugnato per ispirito di liberalità e per intenti di
civile filantropia la causa dei pretesi oppressi, non sanno, o non possono o
non curano d’interessarsi degli effetti relativi. E un dubbio penoso ci
assale al pensiero, non pure della responsabilità personale nostra, ma
delle conseguenze immediate e mediate di un mutamento forse troppo repentino
nella compagine dell’organismo carcerario, con tanto evidente e
rimarchevole sproporzione tra causa ed effetto; e pensiamo che il voler
secondare con arrendevolezza forse soverchia una corrente artifiziosa e diremo
pur tendenziosa nei riguardi della spinta ad essa data dai partiti estremi,
provocata da un fatto singolo ed unico – alimentata in sostanza dalla
propaganda di un morboso sentimentalismo; il voler seguire l’impulso
occasionale onde s’impone una riforma che i pratici giudicano prematura
perché non reclamata dai risultati positivi di un sistema che la scienza
e l’umanità abbiano veramente condannato, o dagli eccessi
nell’abuso di un metodo – né richiesta infine dal maturo
consiglio della dottrina e dell’esperienza, rechi una scossa sensibile
all’organismo stesso – inceppi per avventura il retto funzionamento
di una istituzione secolare – nuoccia all’ordine pubblico e
all’amministrazione della giustizia e non giovi per converso al principio
fondamentale della emenda dei colpevoli.
Gli argomenti
che Querci Seriacopi usa per contestare la novità introdotta dal decreto
appena pubblicato sono vari e di vario genere. Anzitutto va premesso che le
prigioni sono essenzialmente luoghi di punizione e quindi di sofferenza e di
costrizione, attuate inevitabilmente con l’impiego della forza[154];
ciò costituisce una «causa, benché ingiusta, di avversione
latente … un elemento di dissensione e di lotta» dei detenuti nei
confronti del personale di custodia, che comporta «la evidente
necessità di un sistema di difesa (…) che consiste appunto
nell’istituto disciplinare, il quale vuole essere rigoroso nei mezzi e
nella applicazione » e che quindi «deve trascendere a dibattito di
lotta materiale violenta». In secondo luogo le punizioni corporali sono
in uso, e in misura ben maggiore, in tutti i paesi civili, a cominciare
dall’Inghilterra (e qui fa capolino anche una velata nostalgia per la
pena di morte)[155].
Inoltre l’abolizione non trova una giustificazione logica né
«nel progresso della educazione individuale e sociale e nel sollevarsi
del livello morale del popolo», cioè in una diminuzione della
delinquenza e in un miglioramento degli istinti della «folla
delinquente», né nel fatto che tali castighi siano «un
aggravamento arbitrario della pena stabilita dal codice, arbitrariamente
inflitti come un raffinamento di crudeltà, anziché una vera e
propria garanzia dell’ordine contro l’opera demolitrice di elementi
sovversivi» ed è invece «in aperta contraddizione colle
necessità antropologiche, biologiche e sociologiche del modo
moderno»[156].
Infine il ricorso a quei mezzi, all’impiego della forza, non ha uno scopo
offensivo, ma puramente difensivo e, abbandonando il campo della teoria,
l’esperienza pratica dimostra che è assolutamente necessario[157].
Se poi si passa
dal campo delle disquisizioni teoriche a quello dell’applicazione pratica
del decreto, come spesso accade, le sorprese non mancano.
Qualche mese
dopo la pubblicazione,
Ma le consegne
delle nuove cinture di sicurezza procedono a rilento e comunque alcuni
direttori continuano ad usare i vecchi sistemi, chiedendo esplicitamente di
essere autorizzati a farlo. Il direttore di Firenze, su sollecitazione del
medico, domanda se le nuove disposizioni si devono intendere estese anche
«all’uso, nelle infermerie carcerarie, del letto di forza,
(…) il quale anche prima d’ora fu mezzo non di punizione, ma di cura»[163]
e richieste analoghe giungono da L’Aquila[164],
Sulmona[165],
Pianosa[166]
e Venezia[167];
il procuratore generale di Napoli riferisce che il procuratore del re di S.
Maria Capua Vetere gli ha chiesto l’autorizzazione al trasferimento dalla
carceri locali di un pericoloso camorrista,
il quale simulando una pazzia tendente al
suicidio, manteneva in movimento tutto il personale di custodia, con grave
danno del servizio; ed aggiungeva che, nel fine di evitare qualche sinistro,
quel Direttore, a premura del Sanitario, gli aveva fatto applicare la camicia
di forza. Interessato da me a dire come, non ostante la abolizione, si
adoperasse tuttora la camicia di forza, ha ora assicurato che, in mancanza
delle cinture di sicurezza delle quali, dopo reiterate richieste alla Casa di
Reclusione di Ancona, unica fornitrice, soltanto nel 16 volgente ne furono
spedite talune, fu dai sanitari delle carceri, sotto la loro
responsabilità, ordinato l’uso della camicia, come unico mezzo di
freno, essendosi il Puglisi, nel momento della sovraeccitazione, da cui venne
preso, reso pericoloso a sé ed agli altri detenuti; ma che la stessa fu
tolta immediatamente, poiché il detto detenuto rientrò subito in
calma[168];
la direzione
delle carceri giudiziarie di Napoli invece «propone l’imbottitura
di alcune celle da destinarsi agli epilettici che non è conveniente
conferire nei manicomi giudiziari del Regno», ma non ottiene risposta[169].
Ciò che
più colpisce non è però questa sorta di resistenza passiva
da parte delle autorità periferiche, che, peraltro, almeno formalmente,
fa riferimento soprattutto al problema del trattamento da riservare agli
“agitati”, quanto piuttosto l’atteggiamento che assume
si avverte che (…) ha bensì soppresso gli
strumenti di coercizione corporale in uso come aggravamento di gastigo, e
cioè la camicia di forza ed i ferri, ma non ha introdotto limiti a
quelle prescrizioni, che i sanitari credessero di stabilire in ogni singolo
caso per la sicurezza dei detenuti e di coloro che devono avvicinarli[171],
per cui tutte
le domande vengono accolte, purché siano rispettate tali condizioni.
Il problema non
si pone soltanto nella fase transitoria di prima applicazione del decreto;
anzi, col passare del tempo, le cinture di sicurezza risultano (o vengono
ritenute) inefficaci e di difficile applicazione, per cui alcuni direttori
chiedono di poter ricorrere a mezzi alternativi, fra cui i ferri, il cui
utilizzo è stato implicitamente abolito.
Il direttore
della colonia coatta delle Tremiti chiede, senza alcuna spiegazione,
l’autorizzazione ad «acquistare sei ferri in uso presso i RR.
Carabinieri ed Agenti di Pubblica Sicurezza da sostituire alle cinture di
sicurezza» ed in questo caso la risposta, forse anche per la mancanza di
qualsiasi motivazione, è negativa «perché l’uso di
tali mezzi repressivi non sarebbe consentito dalle attuali norme disciplinari
per gli Stabilimenti carcerari alle quali sono anche i coatti
assoggettati»[172].
Qualche tempo dopo però il direttore di Portoferraio chiede un parere
sul fatto che ha applicato i ferri ad alcuni detenuti aggregati dalla sezione
di rigore di Portolongone, «che trascendevano a violenza contro le cose e
contro le persone, e per i quali erano stati inutili i modi persuasivi e la
presenza della forza pubblica», così come lo stesso impiego delle
cinture di sicurezza, che in generale «non sono di pratica applicazione a
detenuti ribelli, sia per la fatica che occorre per adattarle, sia
perché dopo adattate i detenuti se ne liberano in pochissimo tempo e se
ne fanno un’arma con la quale aggrediscono gli agenti posti alla loro
custodia»[173];
il direttore della casa di reclusione di Amelia chiede se può aderire
alla richiesta, avanzata da quello delle carceri giudiziarie di Perugia,
«di cessione gratuita dei ferri di punizione qui disponibili» e se
può usare i ferri anche lui «in caso di assoluta necessità,
poiché mancano qui le celle d’isolamento»[174];
il direttore di Firenze scrive a sua volta:
la poca praticità delle attuali
cinture di sicurezza e facilità con cui i detenuti ribelli riescono a
liberarsene, mettono spesso
In tutti questi
casi, con un significativo mutamento d’indirizzo, la direzione generale
risponde positivamente: «nulla vieta che ove i detenuti ribellandosi al
regime disciplinare si rendano pericolosi a sé e agli altri, sul
consiglio del Sanitario, si usino mezzi idonei a contenerli nei loro atti impulsivi
e violenti», compresi i ferri[176].
Invece il
direttore di Saliceta S. Giovanni (Modena), dopo ripetute insistenze del
medico, manda una sua relazione in cui afferma
avergli l’esperienza dimostrato in
modo assoluto che la cintura di sicurezza (…) non si può convenientemente
adottare per frenare i detenuti in preda a delirio maniaco, ed agli epilettici
durante gli accessi, in quanto che, oltre di essere di non facile applicazione,
riesce dannosa ai pazienti per la sua conformazione. Soggiunge che molto
più adatto e pratico sotto ogni aspetto è un corpetto di tela in
uso presso quasi tutti gli ospedali civili, (…) le cui cinghie posteriori
sono da legare tra loro sotto la branda
e ne allega un
modello avuto dall’ospedale di Modena, «dove la sua diuturna
applicazione non ha mai cagionato inconvenienti»; la direzione generale,
pur contestando le affermazioni del medico, anche in questo caso rinvia alle
autorità locali la scelta dei mezzi più idonei:
il Ministero osserva anzitutto essere
egli il primo e l’unico che abbia espresso un giudizio così
assoluto in senso negativo sull’uso della cintura di sicurezza, adottata
ormai da più di un anno in tutti gli stabilimenti carcerari del Regno
senza gravi obbiezioni da parte delle respettive Direzioni. D’altronde
siffatto istrumento venne sottoposto, prima dell’adozione definitiva, al
giudizio di persone competenti in materia, e di distinti alienisti, fra cui lo
stesso professor Leonardo Bianchi, e fu debitamente sperimentato, per lo che il
Ministero non può soffermarsi ora sul tardivo giudizio di un solo
sanitario per introdurre modificazioni nel sistema adottato, e intende che la
cintura di sicurezza rimanga qual’è e venga mantenuta in uso ai
sensi e per gli effetti indicati nel decreto 14 novembre 1903 n. 484. Occorre
avvertire peraltro come l’uso della detta cintura, sostituito
semplicemente alla camicia di forza, non tolga al medico la facoltà
preesistente di valersi sotto la sua responsabilità per contenere gli
agitati, di quei mezzi che la scienza e l’esperienza gli suggeriscano,
come il letto di sicurezza, le fascie, e anche il corpetto[177].
Il direttore
della casa penale femminile di Torino, comunica che nell’istituto, in
sostituzione della camicia di forza, «era già in uso, e vige
tuttora, un apparecchio di contenzione, formato di strisce di tela, quale si
usa comunemente nei manicomi» e chiede se «detto apparecchio possa
surrogare il cinturino di sicurezza di prescrizione (…) riuscendo questo
di difficile applicazione per una donna»; la direzione generale risponde
che le norme «non indicano la forma dello strumento che, con diverso
nome, è destinato a contenere materialmente gli atti di ribellione e di
violenza dei detenuti delle carceri», per cui
Se l’apparecchio usato a questo scopo
per le donne dal dottor Salvotti in cotesto penitenziario in casi
eccezionalissimi, pur essendo diverso nella forma dal tipo comunemente usato,
raggiunge con efficacia e senza danno per le persone pazienti, l’intento
che la legge nel suo spirito e nella lettera stessa si prefigge, il Ministero
non ha che da approvare la variante; anzi loda lo interessamento posto dal
Sanitario predetto nel ricercare il mezzo migliore di applicazione delle
disposizioni vigenti sulla materia[178].
Il direttore
del riformatorio di Torino chiede invece se esistono disposizioni particolari e
se comunque «in casi eccezionali» si possa procedere
all’applicazione della cintura di sicurezza anche nei confronti dei
minori «ricoverati che, con atti di aperta e violenta ribellione, minacciano
la disciplina dello Stabilimento», «come mezzo di sicurezza e di
prevenzione allo scopo di evitare il ripetersi di altre violenze»; la
direzione generale risponde che non esiste alcuna circolare in proposito,
«né vi era bisogno di dare al riguardo disposizioni, dovendo nelle
speciali contingenze provvedersi dal medico chirurgo il quale, esaminato il
soggetto, dispone secondo le esigenze del momento e l’interesse del
minorenne»[179].
E quattro anni dopo l’allora militante anarchica Maria Rygier denuncia
che
in tutti, o quasi tutti i Riformatori
d’Italia s’infliggono ai minorenni, per lunghe settimane, la cella
a solo pane e acqua, senza passeggio, i ferri ai piedi e alle mani – quei
ferri il cui uso è proibito ormai anche nelle case penali – la
camicia di forza e le cinghie, senza contare le percosse largamente distribuite
dal personale di custodia;
in particolare
in quello di Pisa
la tortura peggiore consiste
nell’immobilizzare i ragazzi per lunghe ore, e talvolta per giornate e
settimane intere, sul letto di forza, legandoli strettamente con grosse cinghie
di cuoio, che, penetrando nelle carni, le fanno diventare livide e gonfie e
spesso lacerano la pelle, facendo spruzzare sangue dalle ferite
mentre appunto
in quello di Torino
atroce a dirsi, nonostante che dai regolamenti non solo dei
riformatori, ma anche delle stesse case di pena, siano state cancellate le
barbare punizioni dei ferri e delle cinghie, viceversa alla
«Generala» (come del resto avviene anche in altri riformatori) vi
sono ben dieci celle con letti di forza, che vengono adoperati spesso e per
futili motivi[180].
«Essendo
inammissibile l’uso nei penitenziari di attrezzi non consentiti dal
regolamento generale», viene invece respinta, «pur apprezzando le
considerazioni svolte», la richiesta del direttore di Alessandria di
acquistare una specie di idrante, utilizzabile anche come estintore, da cui
«il liquido, ch’è risultato innocuo, (…) uscendo con
violenza stordisce l’aggressore e lo rende impotente»[181].
Il prefetto di
Napoli comunica che il direttore della colonia coatta di Ventotene, assicurando
di aver ricevuto da Ancona le sei cinture di sicurezza richieste, chiede al
tempo stesso di sapere
se in caso di esaltazione od alienazione
mentale di qualche coatto, ovvero in caso di eccessiva e sfrenata ubbriachezza
da parte degli stessi possa, previo il parere del sanitario, far uso del letto
di forza già esistente in caricamento di quella colonia, al fine di
scongiurare eventuali pericoli o danni ai predetti coatti, ovvero ad altri, come
in simili casi si è praticato[182].
Il direttore di
S. Maria Capua Vetere segnala che
in breve periodo di tempo, si è
avuto occasione di riconfermare il dubbio sulla efficacia del cinto di
sicurezza, nei momenti critici in cui è necessario ricorrervi. E ne
è derivato un duplice convincimento negativo: nei detenuti, che basti il
non volerlo subire per toglierselo; negli agenti di custodia, che quel cinto
non è una difesa contro il pericolo, e che sia pressoché sprecata
la fatica di applicarlo. Ne consegue uno stato di affannosa incertezza, per la
quale, spesso si ricorre ad assicurare sul letto di sicurezza i ribelli od i
violenti contro se stessi od altrui – specie gli epilettici o i
dilettanti di epilessia. E’ risaputo che molti, pur di spuntarla a non
subire, almeno per il momento, la cella di punizione, ricorrono a tutte le
violenze e le simulazioni di fenomeni epilettoidi, per essere trasportati sul
letto di sicurezza, nell’infermeria, dove trovano la cointeressata
compiacenza dei guarda-matti;
per tali ragioni,
col parere favorevole dei due sanitari e del procuratore del re, ha fatto
spostare in una cella sottostante («la più aerata ed
illuminata») un letto di sicurezza per «i puniti violenti contro se
stessi e altrui», mentre «per gli altri – gli epilettici e i
maniaci – il letto omonimo seguiterà a funzionare
nell’apposita sezione della infermeria», e la direzione generale
approva[183].
E ancora,
quando la direzione generale svolge un’indagine per sapere «se e
quante celle imbottite esistano» nelle singole case di pena per i
detenuti epilettici, il direttore di Civitavecchia risponde che (come nella
maggior parte dei penitenziari) non ce n’è nessuna e che «si
fa uso, in casi urgenti e gravi, di letti di contenzione»[184].
Infine il
direttore del carcere giudiziario di Pozzuoli trasmette la descrizione e il
modello di un «nuovo sistema di repressione e di sicurezza ad un tempo
pei detenuti ribelli e per quelli esaltati», inventato da un sottocapo
guardia:
Con detto apparecchio si avrebbe un tipo unico
per qualsiasi corporatura. Esso è composto di due fogli di cuoio che
arrotolandosi prendono la forma di due maniche di vestiario, contro le quali
verrebbero assicurate le braccia, e che perciò il sottoscritto ha dato
il nome di bracciali di sicurezza. Invece di cuoio potrebbero essere
d’altra materia leggiera purché resistente … Per la chiusura
di detti bracciali si adatterebbero bene quei bottoni automatici che sono in
uso nella cinta di sicurezza d’ultima costruzione. Detti bracciali
verrebbero assicurati al corpo per mezzo di cinghie che partendo da essi si
andrebbero a congiungere dietro la schiena. Verrebbero pure assicurati ad un
collaretto, da chiudersi dietro la nuca, la cui striscia interna sarebbe bene,
per maggior resistenza, fosse di fascia metallica … Per la sicurezza
delle gambe basterebbero i gambali della cinta di sicurezza in uso, e solo
sarei di parere che non starebbe male un lucchetto piccolo e forte (come quello
che usano i carabbinieri) per raccorciare all’occorrenza la catena dei medesimi
per il riottoso che si dà a dar calci contro la porta della cella.
Ma la direzione
generale, pur apprezzando l’impegno del graduato, tanto ad attribuirgli
un compenso in danaro anche per rimborsarlo della spesa sostenuta per il
modello, risponde di ritenere lo strumento «troppo complicato, troppo
pesante ed ingombrante, e di difficile applicazione, e non esclude anche il
pericolo di materiali lesioni alle persone cui dovrebbe applicarsi»[185].
Quasi tutta la
parte prima dell’annata 1908 della «Rivista di discipline
carcerarie» è dedicata ad ospitare le numerose risposte pervenute
ad un Referendum sul sistema di governo
dei detenuti indisciplinati, ribelli ed agitati, negli stabilimenti carcerari,
risposte, che, pur con qualche diversificazione, lasciano pochi dubbi su quali
siano gli orientamenti degli addetti ai lavori. La direzione ha elaborato un questionario
rivolto a sociologi, antropologi, psichiatri, pubblicisti, funzionari e
«a tutti i cultori della pianta uomo nelle sue varie manifestazioni di
attività e d’inerzia, coscienti ed incoscienti, riflesse ed
impulsive», al fine di offrire «una serena analisi scientifica per
la soluzione del problema», nella convinzione che il decreto del 1903
abbia prodotto un effetto contrario a quello ingenuamente sperato di una
riduzione dell’indisciplina nelle carceri[186];
in particolare il quinto e ultimo quesito è così formulato e
giustificato:
Quali nell’ordine fisico dovrebbero
essere i mezzi di repressione degli attentati violenti al fine di impedire ai
soggetti impulsivi il male a sé medesimi ed agli altri? Di quali
istrumenti o congegni sia possibile valersi per attutire le forze fisiche degli
esaltati e per rendere i conati di violenza egualmente innocui al soggetto
agente e al personale di custodia? … Conviene avvertire che tale
istrumento [la cintura di sicurezza], di difficile applicazione, complicato con
manopole, pedali e numerose fibbie e cinghie, mal si presta, specialmente nei
casi urgenti, e fece prova non buona, anche per la relativa facilità da
parte dei pazienti di liberarsene, con la forza o con l’astuzia; che in
questi casi viene a mancare assolutamente il mezzo di contenzione,
sicché gli agenti di custodia, esposti al pericolo gravissimo della
lotta corpo a corpo, sono messi nella necessità della difesa personale,
che astrae naturalmente da ogni metodo d’ordine, di disciplina e di
moralità, e trae seco conseguenze talora deplorevoli, ma inevitabili.
Certo, non
manca chi ritiene che le cause dell’indisciplina vadano ricercate
anzitutto nelle condizioni delle carceri e che si debba agire con fermezza ma
anche con dolcezza (Carlo Ruata, professore di materie mediche
all’università e di igiene all’Istituto agrario di Perugia[187]),
chi si dichiara decisamente contrario all’uso di mezzi di coercizione
fisica (Lombroso[188]
e Sergi[189]),
chi pensa che le sanzioni disciplinari in carcere non raggiungano gli scopi della
pena e che occorra usare una «umana severità» (Perozzi, vice
direttore[190]),
chi pensa che occorra in generale una riforma improntata agli stessi criteri di
quella adottata per i riformatori e una maggiore flessibilità nel
rapporto fra infrazione e sanzione (Edoardo Morvillo, segretario[191])
o ancora chi, pur giudicando «dannoso, perché eccessivamente
ideale, e starei quasi per dire pastorale, il concetto» della riforma del
1903, approva ed elogia la soppressione dei ferri e della camicia di forza
(Alessandro Stoppato, professore di diritto e procedura penale a Bologna e
deputato[192]).
Nello stesso senso si esprime anche il medico del penitenziario di
Civitavecchia, Carlo Mauri, che sostiene essere preferibile l’isolamento
in quanto più temuto e afferma che «se non ripugna adottare la
cintura o il letto di sicurezza contro un ribelle, che lo sia per un fatto
patologico, conoscendo che la sua ragione è offuscata, non è
così quando si tratti di un essere che deliberatamente si ribella»[193]. Ed anche
l’allievo di Virgilio e suo successore alla direzione del manicomio
criminale di Aversa, Filippo Saporito, nel suo lungo e argomentato parere,
– pur pensando che alla fine l’uso di una qualche forma di
coercizione meccanica nei confronti degli incorreggibili e nei manicomi
è inevitabile, tanto che la sua totale abolizione, per quanto
teorizzata, non viene poi messa in pratica, e che « tutto (…) si
riduce a stabilire i confini entro cui la coercizione meccanica può
ritenersi compatibile» – afferma che
… Limitando (…) tutta la
coercizione al solo comune giubbotto di sicurezza, con gli accessori
indispensabili, bisogna bandirne l’applicazione intesa come punizione o
come mezzo disciplinare … è forse questa la ragione per cui
l’uso della così detta camicia di forza è divenuto non solo
inutile negli stabilimenti carcerari comuni, ma si è tramutato in una
fonte di inconvenienti maggiori di quelli che essa sarebbe destinata a
combattere,
che quindi,
nella sua applicazione, occorre sostituire a quello disciplinare un criterio
«assolutamente sanitario e curativo» e che ciò
toglierebbe alla coercizione meccanica
tutto ciò che essa ha di odioso, e non lascerebbe – generalmente
– rancori di sorta nei detenuti coscienti, ma incapaci di autoinibizione
… Un tal sistema, che, dopo tutto, rientra nell’orbita della legge
più volte citata [il decreto del 1903], garantirebbe da ogni abuso e
troncherebbe ogni pretesto a recriminazioni e lamenti postumi, che assai
spesso, sorpassando le mura delle prigioni, guaste e ingigantite dalla fantasia
popolare, eccitano falsi sentimentalismi che turbano la quiete
dell’amministrazione[194].
Ma se molti
propongono la creazione nelle carceri di “sezioni agitati” con
personale specializzato e vorrebbero che si distinguessero nettamente gli
agitati per cause psichiatriche (da trasferire e curare in manicomio) e i
ribelli per natura, quanto al trattamento di questi ultimi i più,
soprattutto fra il personale dell’amministrazione carceraria, ritengono
opportuno il ricorso ai mezzi in uso nei manicomi[195]
e quindi anche a strumenti di contenzione fisica, sia pure come soluzione
estrema e con le dovute cautele[196];
e, in questo quadro, se sono diffuse le critiche alla cintura introdotta con il
decreto del 1903[197],
mentre alcuni rimpiangono la vecchia camicia di forza, altri propendono
piuttosto per il letto, magari suggerendo innovazioni tecniche, o esercitano la
propria fantasia repressiva proponendo soluzioni diverse.
Così
Paolo Funaioli, direttore della clinica delle malattie nervose e mentali di
Siena, ritiene che i «criminali di natura propria refrattari ad ogni
consiglio, ad ogni persuasione e qualsiasi conato messo in pratica per
mantenerli calmi, ordinati nel contegno, per esercitare su di loro una benefica
suggestione» vadano isolati e, se occorre, contenuti: in tal caso
«non v’ha miglior mezzo del corpetto o camicia di forza» se
applicato come si deve e sotto osservazione[198].
Anche per Adolfo Zerboglio
Ai turbolenti riluttanti ai mezzi morali
si dovrebbero aprire le porte del carcere per quelle del manicomio, dove a
molti spiace andare e dove, il malato sottentrando al delinquente, i metodi
curativi agiscono utilmente da metodi repressivi senza prender l’aspetto
di odiosità carcerarie. Nel caso di accessi in cui il soggetto agente
corre rischio di ledere sé o terzi, io penso che si debba applicare la camicia di forza a mio avviso
preferibile a quel «basto»
che è la cintura di sicurezza colla quale la si volle sostituire. La
«camicia di forza» deve essere proibita come ordigno di punizione
ma non quale provvedimento non surrogabile in diversa maniera. Molti carcerieri
addosso ad un indemoniato possono portare ad effetti identici a quelli della
camicia di forza male applicata, e, d’altronde il personale di custodia
ha diritto a riguardi … almeno al pari di un omicida in delirio od in
preda a convulsioni epilettiche![199]
E dello stesso
parere sono il direttore Napoleone Foà, anche se pensa che la maggiore
indisciplina non sia addebitabile al decreto del 1903, il vice direttore Cesare
Verdelli, che invece mette l’accento sulle cause “sociali”
(fra cui l’eccesso di benessere e di diritti, l’odio di classe e
«la commiserazione del pubblico e della stampa strillanti quando nella
colluttazione un condannato resta ferito, silenziosi se una guardia viene scannata»,
ma soprattutto la soppressione dei mezzi repressivi) e il contabile Pietro
Franti, che vagheggia una riclassificazione complessiva degli istituti di pena:
Al cinto di sicurezza che ha fatto
cattiva prova, se la scienza non ha trovato di meglio, bisogna sostituire
ancora la camicia di forza; ma a giudizio del sanitario, e purché sia
pronto ed energico, nei casi estremi si può ricorrere ad un bagno caldo,
generale, in tinozza, o ad una docciatura: ottimi calmanti che non danneggiano
la salute e non abbrutiscono[200]
… senza lo spauracchio di un severo castigo immediato i sentimenti pravi
non si contengono. Vada per la cella oscura – l’igiene non
l’ammette – si lascino nel dimenticatoio i ferri –avanzo di
barbarie – ma si rimetta la camicia di forza, la quale oltre essere
intimidatrice, mette il riottoso nella impossibilità di recar guasti, di
nuocere a sé ed agli altri. Un solo caso isolato, ancora dubbio
perché più unico che raro, non può, non deve far sparire
un mezzo tanto eccellentemente repressivo[201]
… il regime disciplinare [delle case penali ordinarie] sarà
spogliato di ogni sentimentalismo ed avrà per caposaldo la camicia di
forza[202].
E ancora il
medico del penitenziario di Procida, Nicola De Maria, sostiene che
l’aumento di «repulsività» nelle carceri italiane sia
da addebitare all’impunità derivata dal decreto del 1903 ed
è dell’opinione che
si debba conservare per i casi ordinari l’attuale
sistema punitivo della cella e per i casi straordinari dei ribelli ed
incorreggibili (…), senza tema d’essere retrivo, che si debba
ritornare un poco al passato … Il giubbotto di sicurezza, comunemente
chiamato camicia di forza, e contro il quale si elevarono tanti clamori, non
è che una semplice giubba grossolana di tela, la quale non produce altra
molestia che quella di tener le braccia al sen conserte. Esso si applica e si
toglie facilmente e quindi è l’arnese più semplice che si
possa immaginare. In tanti anni non ha prodotto mai gravi inconvenienti,
specialmente quando si applica con diligenza, col parere del sanitario e sotto
la responsabilità del personale di custodia. Qualche caso accidentale o
disgraziato che ha potuto avvenire non può costituire la norma generale.
La cintura di sicurezza che fu sostituita al giubbotto, oltre di essere un
arnese poco artistico e molto complicato, è per unanime consenso, di
difficile applicazione, senza dire di molti fatti che provano la sua
inutilità;
non solo, ma
aggiunge:
molti però son d’avviso, che
l’uso temporaneo dei ferri sia il miglior mezzo per ridurre
all’impotenza i violenti e gl’incorreggibili, giacché tali
strumenti, applicati agli arti, non producono nessun danno ad organi importanti
del corpo e quindi impediscono al paziente di far male a sé ed agli
altri. Parrebbe che al giubbotto di sicurezza fosse preferibile l’uso dei
ferri, perché oltre della surriferita ragione di nessuna compressione ad
organi vitali, ricordo che i detenuti erano scontenti dell’uso di
quest’ultimo mezzo[203].
E il direttore
Francesco Bufardeci sostiene che la maggiore repulsività dipende dalla
vita in comune e dall’ozio dei detenuti e dalla eccessiva mitezza delle
leggi penali e dei regolamenti carcerari e che quindi l’unico rimedio
è il rigore e «soprattutto niente sentimentalismo con soggetti che
si allontanano dalla schiera dei delinquenti ordinari, per erigersi al di sopra
della legge»; i mezzi che concretamente propone sono la segregazione con
l’obbligo del lavoro, una nuova scala di sanzioni disciplinari «da
infliggersi sempre collegialmente e che possano incutere timore agli
spavaldi» e, in caso di inefficacia, la deportazione nelle colonie; in
questo quadro
poiché nessuno strumento di
coercizione sarà perfetto, sino a quando lasci libere le mani, è
necessario di rivolgere il pensiero alla camicia di forza. Ma perché
l’uso di essa deve permettersi nei manicomi e severamente vietarsi nelle
carceri? Forse che la collettività ha interesse di garantire i violatori
della legge, ribelli ad essa, più degli onesti cittadini colpiti da
malattia mentale? Non si comprende perché nel manicomio l’infermiere
può garantirsi dalle violenze del pazzo comune, mentre lo agente
dell’ordine deve restare esposto agli attentati del pazzo delinquente,
più pericoloso dell’altro … Nell’ordine fisico dunque
il principale mezzo di repressione degli attentati violenti, al fine
d’impedire nei soggetti impulsivi il male a sé medesimi ed agli
altri, dovrebbe essere la camicia di forza, siccome quella che fece sempre
buona prova. Proporrei che tale strumento di coercizione fosse modificato:
1° fissandolo con una cinghia di olona che partendo dalla estremità
anteriore, corrispondente alla regione ombelicale, passi per la regione
ano-perineale e si fissi all’altra estremità inferiore del dorso.
2° Scollandola sufficientemente per modo che, per quanto possa dibattersi
il paziente, gli orli superiori di essa non arrivino mai al collo. Così
modificata la camicia di forza affiderebbe di più e risponderebbe
ugualmente allo scopo di contenere i movimenti delle braccia e delle mani. E
poiché gli agitati, quando non possono usare le mani, tentano di farlo
coi piedi, sarebbe indispensabile, limitatamente a tali estremità,
l’uso dei ferri, rimedio assolutamente innocuo ed efficace[204].
Anche il
contabile Armando Giani ha nostalgia per i ferri, che
erano, e sono, il mezzo di maggiore
intimidazione che mai esistà o possa esistere per i ribelli, ma
poiché non è possibile riavere questo mezzo, adattissimo, nella
primiera piena disponibilità, è certo desiderabile di poter
arrivare allo stesso scopo per altra via, senza bisogno di dover ricorrere a
mezzi qualsiasi di forza, che, naturalmente, è necessario però
poter avere sempre sotto mano per gli inevitabili casi d’eccezione
… Quando occorra indispensabilmente reprimere violenze dipendenti da
esaltazioni momentanee o da propositi malvagi, dovrebbe il Consiglio di
disciplina deliberare che il detenuto venisse assicurato nel letto di forza,
come mezzo preventivo e repressivo[205].
Gian Giacomo
Perrando, professore di medicina legale a Catania, sostiene che in tutti gli
stabilimenti carcerari andrebbe aperta una «sezione pericolosi»,
«oggetto di particolari cure» da parte dei medici (che
«dovrebbero essere sempre autorevoli ed insospettabili specialisti, non mai reclutati, senza
garanzie speciali, tra lo scarto del proletariato professionale, come
purtroppo, non raramente avviene»); in tale sezione, che «potrebbe
anche avere qualche efficacia intimidativa sull’animo degli
impulsivi»,
qualsiasi
metodo fisico di repressione degli attentati violenti potrebbe essere praticato a seconda dei
casi e dei mezzi disponibili, così come si pratica negli istituti
manicomiali. In questo modo verrebbero eliminate molte delle
responsabilità del personale carcerario troppo sinistramente sospettato
dall’opinione pubblica per ingiusti tradizionali preconcetti, ed anche
per diffidenza (non sempre ingiustificata) sulle attitudini morali e di
competenza tecnica[206].
Anche
l’avvocato Giovanni Battista De Mauro, che ha «in generale
(…) poca fiducia in mezzi puramente morali», ritiene che i
condannati ribelli andrebbero assegnati ad una «sezione speciale»,
quando passino ad atti di violenza andrebbero isolati in celle imbottite e
nei casi estremi e quando
l’isolamento non è stato sufficiente a calmare il condannato,
allora potrebbe venirgli applicata la camicia di forza (che del resto, in
mancanza di meglio, si adopera ancora nei manicomi), non però dalle
guardie ma da appositi infermieri e in seguito a parere favorevole di un medico
specialista per le malattie mentali, e possibilmente sotto la sua direzione e
sorveglianza[207].
Secondo Augusto
Saccozzi, direttore del manicomio giudiziario di Reggio Emilia, «la cella
e i mezzi di repressione non sono sfregi alla dignità umana (…),
ma sono mezzi validissimi di prevenzione e di cura … il contenere, il
frenare impedendo la violenza, è dunque per tutte le ragioni
necessario», sia pure scegliendo opportunamente gli strumenti e il
personale addetto, e, pur apprezzando la camicia di forza, «che, pel
passato, e quantunque non si voglia dirlo, anche al presente, presta ottimi
servigi nei manicomi, sfidando certe aure di sentimentalismo esagerato, che
confido quanto prima svanirà, davanti alla necessità della
custodia e della cura dei folli», ritiene che «si possa escogitare
un mezzo più semplice di repressione e di più facile
applicazione, scevro da qualunque pericolo» e a tal fine sta mettendo a
punto «un tipo di bustina» di cui presenterà presto un
modello[208].
Alfredo
Goffredo, primo segretario del Ministero dell’interno, convinto che in
generale «urge (…) ricostituire, come in tutti gli ordinamenti,
anche in quelli carcerari, il principio di autorità e di
disciplina» e che «bisogna dimostrare coi fatti che le violenze, le
ribellioni debbono essere a qualunque costo e con qualsiasi mezzo represse, e
che l’autorità deve rimanere salda», non solo pensa che
«si potrà ancora ricorrere alle bende che sono in uso nei manicomi
o anche ripristinare la soppressa (forse troppo presto!) camicia di forza, o
rinchiuderli nelle celle imbottite lasciandoli sbraitare finché si
stanchino», ma, poiché «non è possibile tenerli sempre
rinchiusi o legati; e dall’altra parte le bende e le cinture non sempre
si possono applicare per le violenze stesse dei soggetti, i quali anche spesse
volte riescono a liberarsene», sostiene l’opportunità di
ricorrere ai «mezzi (…) estremi, adoperati in tanti altri paesi
civili, delle costrizioni corporali», come i «gastighi mediante
battiture», naturalmente da applicarsi «con la massima prudenza e
col più giusto criterio»[209].
Il giudice di
tribunale Silvio Longhi, che abbonda in dotte citazioni, sarebbe favorevole
alla pena disciplinare del bastone, «men dannosa e crudele di altre pene,
contro cui la crociata venne dichiarata», e, contrario agli eccessi di
mitezza, sostiene che comunque non si può rinunciare come soluzione
estrema alle «prevenzioni e repressioni corporali»[210].
Invece Cesare
Polidori, medico degli stabilimenti carcerari di Viterbo, scrive una lunga e
articolata memoria, in cui fra l’altro propone dei miglioramenti al tipo
di letto di contenzione in uso, sostenendo che
non si può seriamente affermare di
sopprimere ogni mezzo di contenzione nelle case di criminali e specie negli
stabilimenti per pazzi violenti … la necessità di un mezzo prontamente e completamente dominatore della violenza si impone. Non si tratta,
in nome di un umanitarismo di maniera, di sopprimere la contenzione ma di
applicarla, come ogni altro provvedimento nel regime penale, togliendole ogni
movente e carattere di offesa, di vendetta, di coercizione punitiva. Né occorre in quest’ordine, che
gli inventori lambicchino i propri cervelli per spremere cinture, cinturini,
istrumenti e apparecchi complicati e decorativi. Il letto di forza (e
poiché la qualifica è ostica alla gente che guarda alle parole)
diremo meglio, di sicurezza, è il solo mezzo di contenzione adatto e
possibile. Non giuocattoli e finimenti da museo; ma mezzi curativi
corrispondenti a dati fisiologici e patologici. Il letto è tra questi
poiché la neuroterapia lo designa fra i migliori calmanti, è
inoltre sempre e facilmente applicabile. Migliorato l’attuale rozzo
modello di letto di sicurezza; reso più stabile nelle fascie da
allacciamento; resone mobile il giogo che fissa gli arti inferiori pur
lasciandoli allacciati; tolti gli angoli acuti, imbottitone bene il fondo, esso
diviene l’ideale dei mezzi contenitivi ed arrecherebbe meraviglia somma
chi, avendolo a disposizione, ne cercasse altri. Il suo uso non può
produrre inconvenienti e permette che un piantone, nel periodo di dibattersi
violento, possa moderare completamente ogni eccesso, evitando anche al detenuto
ogni pericolo. La posizione orizzontale e la subitanea impotenza motoria, del
resto, affievoliscono prontamente il violento, e l’effetto immobilizzante
sarà massimo se invece di portare il letto in celle sotterranee e tetre,
lo si ponga in celle piene di luce, possibilmente anzi illuminate
dall’alto. La fisiologia insegna quanto grande sia l’influenza
sonnifera dei potenti stimoli luminosi diretti; e un buon fascio di luce che
stanchi le retine dell’agitato completerà l’opera del letto,
accelerando il sonno riparatore[211].
A sua volta il
sottocapo Gustavo Campagna propone che siano creati degli stabilimenti speciali
per i ribelli diretti da un alienista, in cui i mezzi repressivi siano
«quelli ordinari dei manicomi», mentre
in tutti gli stabilimenti ordinari
dovrebbero esserci una o più celle imbottite, o letti di speciale
costruzione muniti in ogni parte di reti metalliche solidissime, pel che
rinchiudendovi un agitato, questi, pur restando libero nei suoi movimenti,
sarebbe posto nella assoluta impossibilità di nuocere a sé o ad
altri[212].
Il medico di
Favignana, Emanuele Mirabella, persuaso anche lui che l’indisciplina
nelle carceri rifletta in qualche modo quanto sta accadendo nel paese, propone
la «abolizione completa della inutile cintura di sicurezza,
dappoiché questa se da un lato frena le manifestazioni esterne, rende
l’animo più perverso» e il ricorso a celle imbottite,
idranti, bastoni elettrici, ma soprattutto all’immobilizzazione dei
ribelli non sul letto ma su una sedia di forza[213].
Quest’ultima soluzione è suggerita, nella forma di una specie di
scatola e con dovizia di particolari, anche dal direttore Enrico Danese:
Essa dovrebbe essere imbottita, infissa
al suolo nelle celle dove sarebbero rinchiusi i detenuti nell’atto che si
abbandonino a conati di violenza. Tale sedia dovrebbe avere sportelli di legno
noce, solidi, massicci ed imbottiti, per modo che, messo a sedere il paziente e
chiusi gli sportelli, la sola testa starebbe di fuori. Una sedia quasi simile
(…) è adoperata negli stabilimenti termali per le stufe, cui sono
sottoposti gl’infermi di artriti, e nelle cliniche pei così detti
bagni di luce elettrica, consigliati per attivare il ricambio organico nei
sofferenti di gotta. La sedia di sicurezza, oltre ad impedire al ribelle di
continuare a nuocere, sarebbe assolutamente innocua all’agitato ed
avrebbe la prerogativa di essere, più che un congegno, un mobile
tappezzato, senza cinghie, senza ferri, senza anelli, senza catene, così
da soddisfare le maggiori esigenze di umanità, giacché se prima
si doveva «legare» il ribelle, d’ora innanzi lo si metterebbe
semplicemente a sedere[214].
Per il
direttore di Lucca, Egidio Savio, i mezzi repressivi andrebbero
“limitati” ai seguenti:
1° - Manette di ferro come le usano i
carabinieri. 2° - Cinturino semplice di cuoio robusto, munito di manopole
di cuoio imbottito, fisse lateralmente al cinturino, per tenere costrette le
braccia in prossimità dei fianchi. 3° - Letto di sicurezza quale
s’usa nei manicomi per gli epilettici e gli agitati (il tipo adottato
nelle carceri è troppo monumentale, causa i molti cuscini per imbottire
il fondo, i fianchi e le testate …). 4° - Pei soli agitati che danno
segni di pazzia e hanno tendenza a rompere tutto, propongo una cella colla
finestra alta, munita di uno strato di alga marina sterilizzata e nel quale si
dovrebbero lasciare liberi ma nudi. Questa alga servirebbe loro di letto e di
vestimenta … 5° - Una pompa, capace di un buon getto d’acqua,
da dirigersi sugli agitati o ribelli[215].
Infine per il
direttore Federico Alborghetti il ritorno al passato dovrebbe essere ancora
più drastico: per i ribelli responsabili delle proprie azioni «non
è il caso di parlare di cure o di blandizie, ma di gastighi e di
rigori» ed è
necessario di mezzi repressivi più
efficaci selezionando i peggiori elementi e segregandoli, senza troppe
difficoltà e formalità burocratiche, in apposite case di rigore,
nelle quali sarebbe opportuno adottare gli antichi sistemi disciplinari …
sarebbe bene di sostituire quale mezzo di repressione, alla cintura di
sicurezza, il vecchio cassone, di cui più facile riesce
l’applicazione e dal quale è impossibile al ribelle di
sciogliersi, come frequentemente si verifica colla detta cintura[216].
In conclusione,
teoricamente il decreto del 1904 prevede esplicitamente soltanto il ricorso
alla cintura di sicurezza, di cui viene adottato un tipo unico per tutti gli
stabilimenti carcerari, ma lo consente a fini sia “curativi” sia
repressivi, e quindi in qualche modo anche punitivi, nonostante non sia
prevista alcuna sanzione corporale per le infrazioni disciplinari, lasciando
così ampi margini di discrezionalità alle autorità
carcerarie, sia pure con l’intervento del medico. La riforma non viene
certo accolta con entusiasmo e in pratica nei singoli istituti ferri, letti di
forza ed altri strumenti di contenzione, che spesso se non sono camicie di
forza vi somigliano molto, continuano ad essere largamente utilizzati, con il
beneplacito della direzione generale, che dà un’interpretazione
del decreto molto estensiva, ponendo come unica condizione reale, oltre alla
valutazione sull’eccezionalità ovviamente molto discrezionale, la
richiesta o il parere favorevole del sanitario. In particolare si diffonde sempre
di più, nella prassi e al di fuori di ogni norma, il ricorso al letto di
contenzione, che finirà con l’essere identificato con la cintura
di sicurezza.
E quanto alle
finalità del ricorso a tali strumenti, è significativo che nella
circolare 27783-
Anche il
regolamento carcerario fascista del 1931 riprende quasi alla lettera la norma
del 1904: le uniche variazioni riguardano il fatto che l’applicazione
della (sola) cintura è permesso più genericamente soltanto
«nei casi di assoluta necessità» e che è prescritta
una visita quotidiana del medico al detenuto[219].
Ma, ancora una volta, l’uso del letto di contenzione con finalità
anche punitive continua e continua ad avere le sue vittime[220]
e nelle carceri italiane (e a maggior ragione ovviamente nei manicomi
giudiziari[221])
è purtroppo destinato a durare sino a tempi a noi molto, troppo, vicini.
Due circolari
del 1946 e del 1951 cercano di limitarne l’uso indiscriminato, il che
significa palesemente che nella pratica è ancora diffuso; la prima,
poiché «alcuni mezzi di contenzione possono riuscire
pregiudizievoli alla salute dei detenuti», prescrive che «vengano
usati solo nei casi di assoluta necessità»[222]
e la seconda, recependo sul punto le conclusioni della commissione parlamentare
d’inchiesta che ha concluso i suoi lavori nel 1950, vieta l’impiego
a fini repressivi della cintura di sicurezza[223];
comunque entrambe vengono largamente disattese e le testimonianze dirette sulla
presenza e l’uso del letto di forza sono molte, naturalmente in
prevalenza di detenuti[224],
ma anche di qualche magistrato[225];
nelle carceri ce ne sono anzi di due tipi, uno che è una normale branda,
fissata al pavimento e dotata di un materasso di crine con un buco al centro
per i bisogni fisiologici, a cui il detenuto completamente nudo viene legato
con fasce di cuoio o di stoffa, l’altro, noto nel gergo carcerario come
la “balilla”, che funziona allo stesso modo ma è costituito
da un tavolaccio dotato di polsiere e cavigliere in ferro[226].
Se direttori e
funzionari ministeriali sostengono che «il letto contenzione viene usato
raramente e solo in casi di evidente squilibrio mentale», in
realtà esso costituisce «l’ultimo anello della catena
repressiva», a cui si ricorre frequentemente e soprattutto come mezzo di
intimidazione e punizione «per chi dà segni di insofferenza per il
regime disciplinare»[227].
E’ significativo al riguardo che, nella sua relazione al primo congresso
nazionale dell’Associazione dei medici dell’amministrazione
penitenziaria italiana (Perugia, 16-18 maggio 1969), Carlo Mastantuono, pur
premettendo «che il suo uso nelle carceri in Italia è oggi
limitatissimo. Alcuni istituti ne sono addirittura sprovvisti … che
numerose circolari ministeriali invitano le singole Direzioni a ricorrervi
soltanto in casi di effettiva, estrema necessità», scriva poi:
Il letto di contenzione attende ancora
una definizione. E’ un mezzo di natura disciplinare? E’ uno
strumento sanitario? L’essere adottato nelle carceri e soprattutto nei
manicomi, ne fa l’una e l’altra cosa insieme … La sua
presenza nelle carceri è giustificata? In astratto dovremmo non
ammetterla… nelle carceri finisce per rappresentare un mezzo di quasi
esclusiva natura disciplinare e questo fatto non può lasciare che
perplessi circa la sua utilizzazione a questo fine;
e, quanto alle
modalità di applicazione del letto e all’opportunità di
continuare a ricorrervi, aggiunge:
Tre casi sono possibili in pratica: a) il
medico è presente e decide di persona b) il medico è assente e il
detenuto viene sorvegliato a vista fino al suo arrivo; c) il medico è
assente e il detenuto viene assicurato. La prima eventualità non
dà luogo, per ora, a discussioni. Nel secondo caso, quale motivo
dovrebbe sussistere, per assicurare un detenuto, quando è sufficiente
sorvegliarlo? Il terzo caso non dovrebbe verificarsi. Perché allora
dovrebbe essere mantenuto l’uso del letto di sicurezza? …io mi
faccio (ed invito anche voi colleghi a farlo), un esame critico tutte le volte
che mi è capitato di esaminare un soggetto al letto di contenzione, o di
esprimere un giudizio preventivo circa l’opportunità di
assicurarvelo. Personalmente sono tormentato dal sospetto che,
nell’adottare la misura vi sia stata sempre una certa fretta. Il nostro
animo, signori, è purtroppo influenzabile da innumerevoli condizioni
… In frangenti che il nostro tempo e la nostra responsabilità e
che investono altri di identiche preoccupazioni, non dobbiamo scegliere sempre
la strada più breve, per raggiungere un fine, che ci lasci tranquilli.
Questo discorso valido per i medici, è validissimo anche per le
direzioni, che hanno il dovere di non influire sui sanitari perché
prendano al più presto un provvedimento, che ponga fine ad uno stato di
allarme e che non imponga sacrifici di personale od ore di insonnia …
sono convinto che il letto di contenzione possa essere abolito. A sostegno di
questa affermazione (…) riporto le seguenti considerazioni: 1) I detenuti
delle carceri normali, sono persone sane di mente e pertanto trattabili sempre
con appropriata psicoterapia. 2) Nei reparti per malati o per tubercolotici, che
dal punto di vista disciplinare, costituiscono il gruppo di soggetti meno
facilmente governabili, il letto di contenzione è, di norma, abolito. 3)
In epoche, anche non lontane, quando si faceva largo uso del letto di
contenzione, i gravi atti d’indisciplina o le manifestazioni di violenza
contro se stessi o contro altri, non erano meno frequenti o con minori
conseguenze;
e sostiene
infine che, se anche si decidesse di mantenerlo, il medico deve avere «il
dovere e diritto di pretendere che un uomo assicurato sul letto di contenzione
sia sorvegliato a vista (e non soltanto come generica sorveglianza di reparto)
da un agente infermiere, per tutto il tempo in cui dovrà
soggiacervi»[228].
Nella stessa occasione peraltro il sanitario di Spoleto racconta che, avendo
fatto obiezioni al direttore in proposito, questi gli aveva risposto seccamente
«Qui comando io»[229].
E tale prassi
diffusa continua ad avere effetti talvolta letali. Nel 1947 suscita scalpore la
denuncia da parte di alcuni giornali locali e nazionali (fra cui
«L’umanità», «Momento sera»,
«L’europeo») di gravi sevizie ai detenuti operate da un
gruppo di agenti di custodia nei sotterranei del carcere di Poggioreale a
Napoli, che hanno portato alla morte di uno di essi, e forse anche di altri[230];
nonostante l’inchiesta giudiziaria e quella amministrativa procedano con
impegno, nell’estate dell’anno seguente un altro detenuto, Luigi
Volpe, già ammalato di tubercolosi, muore a seguito delle percosse
inflittegli, dopo che gli è stata applicata la camicia di forza, da una
guardia, aiutata da un altro carcerato (soprannominato dai suoi compagni
«il boia dei sotterranei di Poggioreale») e con la
complicità del medico; durante le indagini emergono altri episodi di
violenze e in una cella dei sotterranei vengono trovati «un bastone, che
come provavano le alterazioni, serviva per le fustigazioni e, inoltre, cinghie,
camicie di forza, materassi, tutto macchiato di sangue» e «ciocche
di capelli (…) strappate durante la tortura»[231].
Nel 1962 esce il film di Pier Paolo Pasolini Mamma Roma e nella sequenza che precede il finale, che nella sua
geometrica e tragica bellezza rimanda esplicitamente al Cristo morto di
Mantegna, il figlio della protagonista, incarcerato per un piccolo furto, muore
su un letto di contenzione; ma non si tratta di una semplice invenzione
cinematografica: come raccontava lo stesso Pasolini, l’idea gli era
venuta leggendo la notizia di un fatto analogo realmente avvenuto ancora una
volta a Regina Cœli alla fine del 1959, protagonista involontario un giovane
detenuto, Marcello Elisei di diciotto anni, che, colpito da un attacco di
peritonite mentre era legato sul letto di forza, «in preda a dolori
fortissimi urlò, urlò a lungo, ma nessuno si accorse di lui.
Urlò finché morì»[232].
Nel gennaio del
1972 il giudice di sorveglianza di Napoli trasmette senza esito una relazione
sulla morte di Luigi Cesaro, avvenuta mentre era legato sul letto di
contenzione nel manicomio giudiziario; ma qualche mese dopo si trova a doverne
inoltrare un’altra sul caso del detenuto Giovanni B. di 20 anni,
incriminato dalla procura per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni ai
danni degli agenti di custodia, colpito da «paralisi degli arti superiori
da lesione del plesso brachiale sui due lati derivante dalla costrizione sul
letto di contenzione durata tre giorni e, dopo oltre due mesi di ricovero in
ospedale, giudicata non guarita»[233].
Questa volta il ministero, per opera di Girolamo Minervini, interviene
decisamente con una circolare, che finalmente intima a tutte le direzioni di
«rimuovere immediatamente i letti di contenzione»; tuttavia lo
stesso giudice di sorveglianza di Napoli racconta che, avendo chiesto ai
direttori degli istituti di sua competenza assicurazione scritta
dell’adempimento, mentre quelli di Poggioreale, di Procida e del manicomio
giudiziario femminile di Pozzuoli rispondono positivamente (anche se non sempre
sinceramente, visto che proprio in quest’ultimo si verificherà di
lì a qualche anno il caso già ricordato di Antonia Bernardini),
quello del manicomio giudiziario di Napoli si limita ad informare di aver
domandato «istruzioni e chiarimenti alle Superiori Autorità»[234].
Ancora una volta, nonostante questa esplicita disposizione, il letto di
contenzione continua a venire arbitrariamente usato, sia pure forse in misura
sempre minore, ed esistono testimonianze sul suo impiego ancora nei tardi anni
Settanta[235],
anche dopo la riforma del 1975, che pure al riguardo è abbastanza chiara
e netta[236].
Abbreviazioni: APC: Atti Parlamentari.
Camera dei deputati. Discussioni; ACS: Archivio Centrale dello Stato; MI. DGC.
AG: Ministero dell’interno.
Direzione generale delle carceri e dei riformatori. Archivio generale; MGG. DGI. AG: Ministero di grazia e giustizia. Direzione generale degli istituti di
prevenzione e pena. Archivio generale; «A»: «Avanti!»;
«GI»: «Il giornale d’Italia»; «M»:
«Il messaggero»; «PR»: «Il popolo romano»;
EC»: «Effemeride carceraria»; «RDC»:
«Rivista di discipline carcerarie» (poi «Rivista di
discipline carcerarie e correttive»); «RP»: Rivista
penale».
[1] F.S. Merlino, L’Italie
telle qu’elle est, Paris 1890, trad. it. di M. Bertini Bongiovanni,
Milano 1974, 129 ss. Su Merlino, oltre a M.
Nettlau, Saverio Merlino,
Montevideo 1948, v., anche per altri rinvii, la breve nota biografica in E. Santarelli, Il socialismo anarchico in Italia, Milano 1973, 219 s. e la voce di
G.M. Bravo in Il movimento operaio italiano. Dizionario
biografico 1853-
[2] Cfr. in proposito G. Neppi Modona, Carcere e società civile, in Storia d’Italia, V-2, I
documenti, Torino 1973, 1905 ss.; D. Fozzi, Indisciplina, violenza e repressione nelle carceri italiane dopo
l’Unità, in «Acta Histriæ», 10-1, 2002, 91
ss.
[3] Mentre la precedente
«Effemeride carceraria» era divisa in una Parte non Ufficiale e in una Parte
Ufficiale, con ogni numero della
«Rivista di discipline carcerarie», che la sostituisce, il posto
della seconda parte è preso dal «Bullettino», che è
pubblicato assieme ma con numerazione e impaginazione separata e che contiene
fra l’altro una rubrica intitolata Avvenimenti
straordinari. Note estratte dai registri della Direzione Generale delle Carceri,
che riporta appunto una cronaca minuta degli avvenimenti quotidiani nelle
carceri italiane, in cui però non è mai indicato lo stabilimento
dove sono accaduti.
[4] Neppi Modona, Carcere
cit., 1912 ss., che commenta: «[ciò] dimostra con la forza
indiscutibile dei fatti come la violenza bruta, condivisa e accettata dalla
stessa Direzione generale, costituisca il fondamento su cui si basano la
gestione degli istituti penitenziari e i rapporti tra personale di custodia e
detenuti».
[7] Un tal Antonio
Ghiglione pubblica anche una poesia per celebrare l’evento: Il motu proprio in occasione della grazia di
Sua Maestà Re Umberto I a Passanante. Ode alcaica, [Genova 1897].
[8] Cfr. M. Da Passano, La pena di morte nel Regno d’Italia (1859-1889), in
«Materiali per una storia della cultura giuridica», XXII-2, 1992,
380.
[9] A.M. Mozzoni, Ricordi e
note dell’isola d’Elba, IV, in «Critica sociale»,
I, n. 7, 10 maggio 1891, 107 s.: «Bertani uscì dal maschio
profondamente impressionato e per molti giorni ne ebbe guastati
l’appetito ed il sonno. Benché già inoltrato nella
infermità che non permetteva alla sua mente d’insistere in
un’idea, vi ritornava spesso in tutti i giorni che ancora soggiornammo
nell’isola e ad intervalli esclamava: “Questo non è un castigo,
è una vendetta peggiore del patibolo!” oppure: “Il re non sa
nulla: non è possibile che lo sappia: egli non tollererebbe un fatto che
getta su lui un’ombra odiosa; è una vigliaccheria da
cortigiani”. E un bel momento scrisse a Beltrani Scalia, indignato,
minacciando una interpellanza alla Camera su tanta violazione del diritto
comune. Partiti otto giorni dopo dall’isola d’Elba, dopo due giorni
di sosta a Piombino, lo lasciai a Follonica. Era diretto a Roma dove passava la
maggior parte del tempo. Che cosa accadde colà? Mah! Fosse la
infermità che ne struggeva a vista d’occhio tutte le energie o la
inquietudine che lo dominava (…), fatto sta ch’egli ne parlò
con Scalia e con Depretis, ma non vi fu un’interpellanza». Su Anna
Maria Mozzoni v. l’ampia voce di F.
Pieroni Bortolotti, in Il
movimento operaio cit., III, 595 ss.; su Bertani v. le voci di E. Cantarella, in Il movimento operaio cit., I, 259 ss. e di B. Di Porto, in Dizionario
biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, 453 ss. Notizie sulle condizioni
di detenzione di Passanante erano già apparse anche su «Il
pungolo», 10 aprile 1888.
[10] «Il vescovo della
città pregò gli fosse concesso di arrivare fino a
quell’infelicissimo, (…) ma gli fu negato. L’ambasciatore
d’Inghilterra, parecchi alti personaggi italiani e stranieri, fecero
grandi premure per vederlo, ma inutilmente. Bertani (…), stimolato dalla
difficoltà, presentendo qualche cosa di grave, insistette per parecchi
giorni e non volle partire da Portoferrajo senza avere visitato il maschio; e
riuscì, dopo un vivo scambio di telegrammi col ministro e con Beltrani
Scalia … Bertani ottenne di entrare nel maschio, ma contro
l’accettazione di una specie di decalogo da osservarsi rigorosamente
sotto la responsabilità del direttore del bagno. Nella segreta non si
doveva assolutamente entrare. Egli poteva considerare il prigioniero per soli
cinque minuti da un buco impercettibile in quella oscurità. Durante la
contemplazione si doveva stare in assoluto silenzio, perché il
prigioniero non doveva accorgersi di essere considerato e neppure doveva
entrargli il sospetto che qualcuno dei suoi simili si occupasse di lui. Per
arrivare al buco d’osservazione si doveva camminare in punta di piedi e
con la massima precauzione, lungo lo stretto corridojo circolare interno,
sempre per non svegliare l’attenzione del recluso».
[11] Cfr. Perizia sullo stato di mente di G.
Passanante dei professori Tommasi,
Verga, Biffi, Buonomo, Tamburini (Relatore Tamburini). Con riflessioni sul processo
e sulle pubblicazioni relative, Reggio Emilia 1879 (estr. da «Rivista
sperimentale di freniatria e medicina legale», V, 1878, n. 1-2), con in
appendice Sulle «Considerazioni al
Processo Passanante», del Prof. Lombroso; C. Lombroso, Considerazioni sul processo Passanante e
Su Passanante. Risposta alle note
critiche del Professor Tamburini, in «Giornale internazionale delle
scienze mediche», n. s., I, 1879, 377 ss. e 990 ss.
[12] «Egli non vede
mai faccia d’uomo, mi diceva il medico; il cibo compare per mezzo di un
“turno” nella sua segreta, illuminata da una luce così tenue
che i suoi occhi soltanto, stati due anni interi nella assoluta
oscurità, riescono a discernere qualche cosa. Il cibo si ritrova nel
“turno” nella più gran parte e ritorna spesso intatto. Egli
vive miracolosamente».
[13] L’anno prima il
direttore del manicomio di Aversa, che ha avuto in cura un fratello di
Passanante e ha accuratamente raccolto «le notizie anamnestiche storico
genetiche e biografiche» sull’intera famiglia, ha pubblicato un
saggio in cui sosteneva la tesi che già al momento del suo gesto
l’attentatore era «un semipazzo, un imbecille», uno di quelli
che «sono sospesi nelle zone intermedie tra pazzi e delinquenti»,
un «mattoide» come aveva già sostenuto Lombroso, e che la prima
perizia era stata eseguita «fra gli angusti confini dei pezzi
d’appoggio consacrati nelle tavole processuali» e in «un
ambiente così poco favorevole per un sereno giudizio, che
gl’illustri scienziati, i quali dovevano rendere il loro parere sulla personalità
psichica di Passannante, è da credere, non potettero portarne
l’animo del tutto scevro di preoccupazione»: G. Virgilio, Passannante (sic) e la natura
morbosa del delitto, Roma 1888,
poi ripubblicato assieme a Sulla natura
morbosa del delitto. Saggio di ricerche,
Torino 1910. Probabilmente la pubblicazione di questo saggio è
all’origine della notizia non vera che anche Giovanni Passanante fosse
stato ricoverato ad Aversa sei mesi dopo la condanna, come sostiene F. Ricciardi, Il manicomio giudiziario di Aversa “Filippo Saporito”.
Storia, cronaca ed aneddoti, Aversa 1965, 24 s.
[14] Noi, I privilegi d’un graziato dal Re, in
«Critica sociale», I, n. 9, 20 giugno 1891, 139 s.: «Secondo
un ultimo comunicato del ministero degli Interni, il Passanante sarebbe
rinchiuso al Manicomio dell’Ambrosiana dal maggio del 1888. Nel bagno il
povero demente tenevasi segregato “anche (!) per suo desiderio (!!). Le
visite erano state sconsigliate dal sanitario e sfuggite dal condannato; il
cibo era quello prescritto dal medico”. Queste notizie, se vere,
confermano viemeglio – anziché smentirle – quelle da noi
stampate e ne aggravano l’orrore. Unica scusa a quelle ferocie (…)
sarebbe stata la convinzione di aver a fare con un assassino. Le
“smentite” ufficiose confermano come nessuno ignorasse che
l’uomo, che stavano “finendo” così scelleratamente,
non era altri che un infelice mentecatto. Nessuno, tranne certo il re, il quale
doveva essere completamente all’oscuro del delitto compiuto dagli inetti
suoi cortigiani. Intanto un’importante corrispondenza al Caffaro da Portoferrajo ribadisce le
nostre rivelazioni e aggiunge quanto segue: “Come si seppe che Passanante
non era più a Portoferrajo? … Ogni battelliere, e tutti coloro che
con barche passavano vicino alla torre ottagonale del bagno, a tutte le ore,
specie nelle notturne, udivano un rumore di catene trascinate, ed un lamento,
che a volte pareva di dolore, a volte di rabbia, e schiantava il cuore. Un
giorno quel rumore cessò e cessarono le grida. – Passanante è
morto – dissero prima; poi si seppe che, nottetempo, sul solito postale
che da Livorno va a Portoferrajo, era stato sbarcato a Piombino e di là
condotto al manicomio giudiziale di Montelupo, perché il più
prossimo”». Il conte Alessandro Guiccioli, che incontra Passanante
nel corso di una sua visita a Montelupo, annota nel suo diario: «Gli
parlo. E’ un mezzo cretino, il quale non fa che reclamare una certa lira
che, secondo lui, gli veniva data ogni mese e che ora non riceve
più»: cit. in U. Alfassio
Grimaldi, Il re “buono”,
Milano 1970, 162.
[15] Sulla vicenda di
Passanante v. anche L. Galleani, Giovanni Passanante, in «Cronache
sovversive», 29 agosto 1908, poi in Id.,
Aneliti e singulti, New York, 232
ss.; Merlino, L’Italia
cit., 124 ss.; Alfassio Grimaldi,
Il re “buono” cit., 142
ss., 155 ss.; A. Coletti, Anarchici e questori, Padova 1971, 20,
31 s.; P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin
a Malatesta, Milano 1974, 151 ss.; G.
Artieri, Cronaca del Regno
d’Italia, I, Da Porta Pia
all’intervento, Milano 1977, 126 ss. Il cranio, il cervello e alcuni
manoscritti di Passanante, ancora oggi conservati presso il Museo criminologico
di Roma, nel 1912 furono esposti, assieme ad altri reperti provenienti dai
manicomi criminali, nello stand della Direzione generale delle carceri e dei
riformatori all’Esposizione internazionale di igiene sociale di Roma, per
dimostrare come «sull’indirizzo del regime si sia introdotto
vittorioso il metodo positivo e come di questa folla inferiore, per i supremi
interessi sociali, si ricerchino, con amorevole assiduità, i caratteri
che la definiscono, le ragioni che la determinano, i provvedimenti che
all’aggregato sociale la rendono poco o nulla grave e dannosa»:
[16] Così lo descrive
Attilio Brunialti dopo una visita nell’ottobre del 1900: «Acciarito
leggeva un libro di devozione, o pareva leggesse, perché non voltava le
pagine, sembrava immobile, con la faccia stupida, quasi di ebete: solo dopo
molte insistenze ci volse un’occhiata, non saprei se d’odio o di
sdegno, ma fu un lampo» (cit. in Alfassio
Grimaldi, Il re
“buono” cit., 405 e in
Gli anarchici. Cronaca inedita dell’Unità d’Italia, a c.
di A. De Jaco, Roma 1971, 579).
[17] L. Galleani, Dormiranno
tranquilli ora?, in
«Cronache sovversive»,
29 agosto 1908 (e poi in Id., Aneliti cit., 184 ss.); Alfassio Grimaldi, Il re “buono” cit., 401 ss.; Gli anarchici cit., 581 ss.; Coletti,
Anarchici e questori cit., 76; Masini, Storia degli anarchici … a Malatesta cit., 293; Id., Storia degli anarchici italiani nell’età degli attentati,
Milano 1981, 107 ss.; Artieri, Cronaca cit., 598 ss.; G. Galzerano, Gaetano Bresci. La vita, l’attentato, il processo e la morte del
regicida anarchico, Casalvelino Scalo 1988, 134 s.
[18] Cavallotti sostiene
però che lo stesso dottor De Pedys, consulente del guardasigilli,
«nell’intimità della confidenza, ad un suo amico che gli
domandava il suo pensiero intimo (ed è un teste che può far fede,
se non l’ha già fatta davanti al giudice istruttore, essendo stato
già da esso interrogato) diceva queste precise testuali parole:
“Ecco, se io avessi trovato quel cadavere sulla pubblica strada, non
avrei potuto spiegarmi lo stato in cui si trovava con nessun’altra
ipotesi, se non con questa che gli fosse passato sopra ben carico un carro dei
fratelli Gondrand” (Commenti).
Aveva quel convincimento, e firmava quella perizia!» (APC, legisl. XX, sess. 1a, 17
maggio 1897, 730).
[19] V. le ampie notizie al
riguardo sulla stampa di quei giorni, in particolare
sull’«Avanti!» (in parte riportate anche in Gli anarchici cit., 604 ss.), e i dibattiti
alla Camera prima a seguito delle interrogazioni e delle interpellanze
presentate da Morgari, Costa, Ferri e Turati (5 maggio 1897), da Cavallotti e
Imbriani-Poerio, da Costa, Sichel, De Marinis e Badaloni, da Costa, Berenini,
De Marinis, Sichel e Nofri, da Venturi, da Ravagli (15 e 17 maggio), da
Imbriani-Poerio, Pinna, Gaetani, De Marinis e Pala (2 giugno), da
Imbriani-Poerio, da Turati, Bissolati e Costa (8 giugno), da Cavallotti (9
giugno) e ancora da Imbriani-Poerio (17 giugno) e poi nel corso della
discussione sul bilancio del ministero dell’Interno (17, 18, 19 e 20
giugno) e al Senato a seguito dell’interpellanza di Parenzo,
Tommasi-Crudeli, Vitelleschi e Cannizzaro (26 maggio); un accurato resoconto,
favorevole all’azione della magistratura, per quanto sia intervenuta
«assai lentamente e quasi stentatamente», e ostile alle
interferenze di Di Rudinì, viene pubblicato anche nella rubrica Corti e tribunali in «RP»,
XLVI, 1897, 422. Sul “caso Frezzi” v. A. Angiolini, Socialismo
e socialisti in Italia, Roma 1966, 310 s.; Alfassio Grimaldi, Il
re “buono” cit., 397 s.; Gli
anarchici cit., 606 ss. e 619 ss.; Coletti,
Anarchici e questori cit., 51 s.; Masini, Storia degli anarchici … attentati cit., 110 ss.;.A. D’Orsi, Il potere repressivo. La polizia. Le forze dell’ordine italiano,
Milano 1972, 16 s.; M. Felisatti,
Un delitto della polizia? Oggi 2 maggio
1897 Romeo Frezzi si è suicidato nel carcere di S. Michele, Milano
1975; N. Dell’Erba, Giornali e gruppi anarchici in Italia
(1892-1900), Milano 1983, 104 s.
[21] Cfr. in proposito Alfassio Grimaldi, Il re “buono” cit., 460 ss.; Artieri, Cronaca cit.,
743 ss. e 765 ss.; Galzerano, G. Bresci cit.; A. Petacco, L’anarchico
che venne dall’America. Storia di Gaetano Bresci e del complotto per
uccidere Umberto I, Milano 2000 (1a ed. 1969).
[22] Nel corso della
discussione sul bilancio dell’Interno, il 4 giugno 1896, Imbriani
sostiene fra l’altro: «Fra i canoni delle istituzioni democratiche
vi è l’unicità dell’ufficio. Ora domando al
presidente del Consiglio come possa adempiere al suo ufficio chi abbia le
seguenti occupazioni: 1° Direttore del carcere giudiziario di Regina
Cœli; 2° Ispettore di circolo; 3° Direttore delle carceri delle
donne; 4° Direttore del carcere di Villa Altieri; 5° Direttore della
scuola allievi guardie carcerarie, la quale è stata trasferita, per
desiderio della medesima persona, da Civitavecchia a Roma, nei locali del Buon
Pastore; 6° Amministratore della Gazzetta
Ufficiale; 7° Direttore della tipografia delle Mantellate. Ebbene,
questi sette uffici sono concentrati nella medesima persona del cavaliere
Alessandro Doria … E questi uffici sono retribuiti o con stipendi
propriamente detti o con indennità. Sicché si tratta di sette
diversi cumuletti, che formano ciò che è contrario alla legge del
1862, cioè, il cumulo degli stipendi. Perciò richiamo
l’attenzione del ministro dell’interno su questo fatto che non
è lodevole. E certamente egli vi dovrà rimediare, perché
né il cavaliere Doria può adempiere con coscienza a tutte queste
funzioni, né è giusto che egli le abbia, perché sono
contrarie alla legge ed allo spirito democratico dei tempi»; per tutta
risposta Di Rudinì, presidente del Consiglio e ministro
dell’Interno, pur ammettendo di non essere informato e promettendo di
prendere eventualmente dei provvedimenti, argomenta così:
«Evidentemente il direttore delle carceri di Roma ha alle sue dipendenze
gli uffici varii, che esistono nella medesima città. Questo avviene a
Roma, ma anche in varie altre città, dove esistono varii stabilimenti
… Dunque il cumulo di queste funzioni lo spiego così. In quanto
alle indennità bisogna vedere a quanto esse ammontano. Evidentemente,
trattandosi di uffici diversi, raggruppati intorno ad una persona sola, questa
persona, sia per trasferte o per altre cause, che non saprei dire, qualche
volta deve sostenere spese, di cui deve essere rimborsata perché non ci
può rimettere del suo stipendio. Così mi spiego le
indennità … Ma mi sembra difficile che vi siano delle
irregolarità (…) per due motivi: perché il cavalier Doria,
secondo informazioni mie, avute anche prima che io fossi ministro
dell’interno, è tenuto per uno dei più onesti funzionari
dello Stato; in secondo luogo, perché egli è sotto la vigilanza
diretta del Direttore generale delle carceri [Beltrani Scalia], il quale
è uno dei cittadini più integri, più capaci ed onesti che
siano nell’Amministrazione italiana, ed un uomo della cui amicizia, debbo
dirlo all’onorevole Imbriani, altamente mi onoro» (APC, legisl. XIX, sess. 1a,
5214 s.).
[23] Ad Acciarito, prima
affiancato da un altro ergastolano confidente del direttore, viene poi fatto
credere, tramite una lettera falsa della sua innamorata, che nel frattempo,
ignara di tutto, si è fidanzata con un poliziotto, che è
diventato padre e che la sua famiglia versa nella più assoluta miseria,
completamente abbandonata dai suoi compagni; la vicenda è narrata con
dovizia di particolari nell’intervento del deputato Cameroni, che alla
Camera legge e illustra i documenti pubblicati dall’«Avvenire
d’Italia»: APC, legisl.
XXII, sess. 1a, 18 giugno 1906, 8655 ss.; v. anche Artieri, Cronaca cit., 859 ss.
[25] Gli anarchici cit., 627 ss.; Petacco,
L’anarchico cit., 153 ss. Doria
pubblica sulla sua rivista una lettera di ringraziamento per le numerose
felicitazioni ricevute per l’assoluzione: «RDC», XXXIII,
1908, 345.
[26] Da subito la moglie e
gli anarchici, soprattutto in America, respingono la tesi del suicidio: cfr. Masini, Storia degli anarchici … attentati cit., 166 ss.; Galzerano, G. Bresci cit., 11 ss.; Petacco,
L’anarchico cit., 136 ss.; Alfassio Grimaldi, Il re “buono” cit., 468, 470 s., basandosi sulle
denunce degli anarchici Luigi Galleani, Ezio Taddei, Virgilio Mazzoli e Armando
Borghi e sulle testimonianze raccolte in carcere durante il fascismo dal
deputato socialista Ezio Riboldi, afferma: «Quel 22 maggio tre guardie
gli avevano fatto il “Santantonio”: cioè coperte e lenzuola
addosso e poi bastonate fino alla fine; i resti erano stati seppelliti, in
luogo rimasto senza traccia negli archivi di S. Stefano, da due ergastolani
mandati appositamente da un’altra casa di pena e ricondotti subito via;
il comandante dell’ergastolo era stato promosso e le tre guardie
premiate»; Sandro Pertini alla Costituente (Atti dell’Assemblea Costituente. Discussioni, IX, 2179, 19
novembre 1947) sostiene la stessa tesi, ripresa peraltro anche da uno storico
conservatore come Giovanni Artieri (Cronaca
cit., 861 ss.).
[27] Petacco, L’anarchico
cit., 158; scrive l’«Avanti!» (Il delitto di Regina Cœli, 13 maggio 1903): «[il comm.
Doria], grazie alla benevolenza dell’on. Giolitti, spiccò di
recente un balzo prodigioso fino alla Direzione generale».
[29] Su di lui, oltre alla
voce di L. Casali in Il movimento operaio italiano cit., II,
48 ss., v. Santarelli, Il socialismo cit., 213 s. e V. Emiliani, Gli anarchici, Milano 1973, 113 ss. Nel suo opuscolo Bresci e Savoia. Il regicidio, Boston s.
a.3, 28 ss., Cipriani
pubblica uno stralcio da un articolo apparso su «Le soir», che
descrive le condizioni di detenzione e le punizioni in uso nelle carceri
italiane, e ricorda che lui stesso a Portolongone è rimasto per otto
anni e mezzo in isolamento assoluto e incatenato al muro.
[33] APC, legisl. XXI, sess.
1a, 987 s., 22 novembre 1900, 4322, 24 maggio 1901 e 6877, 18
dicembre 1901.
[35] R. d. 1° febbraio
1891 n. 260, Regolamento generale per gli
stabilimenti carcerari e pei riformatori governativi del Regno; la
definizione è di Neppi Modona,
Carcere cit., 1913.
[37] APC, legisl. XIX, sess. 1a, 4 giugno 1896, 5210. Per
precedenti denunce sull’uso di tali strumenti da parte dei carabinieri v.
Gli strumenti della tortura e I fatti di Baronissi, in «La
capitale», 23-24 marzo e 5-6 aprile 1884.
[39] Goliardo [G. Podrecca],
In carcere. II. La camera di sicurezza,
in «A», 27 maggio 1903: «Se non v’ha eccessiva
affluenza d’inquilini, il tavolaccio compie assai meglio il suo ufficio
di letto e nel tempo stesso di stromento di coercizione per gli indisciplinati
che abbiano il ticchio di protestare contro la sua durezza o contro gli insetti
che vi formicolano. In questo caso i piedi del detenuto son serrati nella
cerniera di fondo … e buona notte! Si dorme per forza!».
[40] «RP», LI,
1900, 232 s. L’episodio è stato anche oggetto di
un’interpellanza di De Felice Giuffrida, che peraltro il presidente del
Consiglio ha dichiarato di non poter accettare essendo in corso un processo: APC, legisl. XX, sess. 3a,
23 novembre 1899, 185.
[41] «Cesare
Beccaria», I, 1867, s. 2a, n. 1,
[42] Cfr., anche per altri
rinvii bibliografici, M. Da Passano, F.
Frau, Una rivista
“tecnica”: l’«Effemeride carceraria», in Storia della comunicazione in Italia dalle
Gazzette a Internet, a c. di A. Varni, Bologna 2002, 69 ss.; Fozzi, Indisciplina cit., 115 ss.
[45] Cfr. in proposito G. Machetti, “Tre mesi di prigionia”. Il caso dell’inchiesta sulle
carceri giudiziarie napoletane del
[47] «… è
una cassa lunga, un letto, per colui a cui piace chiamalo così, della
lunghezza d’un uomo e presso a poco delle di lui larghezza,
all’estremità del quale vi sono dei ceppi, in cui si serrano i
piedi ai prigionieri; ai lati del cassone
sonovi due buchi, pei quali si fanno passare delle corregge da affibbiarsi
sopra le gambe e sopra il capo della vittima … L’infermo o il
criminale, essendo prima stato vestito colla camicia di forza, è messo
in questa cassa, e vi è legato al fondo con strisce di cuoio»:
cit. in N. Vazio, Le prigioni di Napoli, in «EC», V, 1870, 294 s.
[49] Carceri giudiziarie di Napoli, in «EC», III, 1868, 222
s.: «Il puntale,
[51] Relazione della commissione d’inchiesta sulle carceri giudiziarie
di Napoli, in «EC», IV, 1869, 497 ss.; comunque, per ogni
evenienza, il direttore Garrone, «visto che quello di Castelcapuano
s’era deteriorato assai, ordinò al cavalier Magno Oliverio,
impresario attuale, che vi arrecasse i riattamenti necessari, i quali furono di
conseguenza eseguiti».
[53] Vazio, Le prigioni cit.,
300: «E’ doloroso certamente, che per l’altrui difesa debba
venirsi fino a codesti estremi; ma quando si pensi, che senza di questi il
danno sarebbe assai maggiore, non si esiterà ad ammettere le nostre
teorie. Nelle prigioni non di rado s’incontrano delle nature tanto
selvaggie e feroci, tanto forti e prepotenti, contro le quali i mezzi meccanici
di compressione valgono appena; ed è fortuna lo averli, onde non metter
codeste nature in continua lotta cogli agenti destinati alla loro custodia. E
l’usarli talora è eziandio carità per impedire a taluno di
suicidarsi, o di recarsi danno in qualsiasi modo».
[55] L. Lucchini, Case di
forza, bagni penali e colonie agricole. Note ed impressioni di
un’escursione scientifica, in «RP», XIV, 1881, 444.
[57] V. Buttis, Carceri e
domicilio coatto, Venezia 1897, 15 s. Su Vittorio Buttis v. la voce di T. Detti in Il movimento operaio italiano cit., I, 429 ss.
[61] Cit. in «La civiltà
cattolica», XX, 1869, s. 7a, vol. VIII, 626 e in Merlino, L’Italia cit., 131 s.
[65] ACS, MI. DGC. AG, b. 373; sul “caso Pierani” v. anche Un precedente ad Ancona, in «GI», 15 maggio 1903 e Neppi Modona, Carcere cit., 1924.
[66] Carcere omicida a Sulmona, in «A», 16 maggio 1903.
Nello stesso articolo si racconta anche che un detenuto del medesimo carcere ha
denunciato due guardie per averlo percosso a sangue a colpi di battente, ma
che, nonostante le «molteplici e schiaccianti prove» prodotte, il
processo è stato chiuso con un non luogo a procedere per insufficienza
di indizi.
[68] La orribile morte di un detenuto, in «GI», 10 maggio
1903, che definisce il fatto «un caso penosissimo che le autorità
tentavano tenere celato, dovuto in gran parte alla negligenza del personale
carcerario di Regina Cœli» e aggiunge che si tratta di
«colpevole negligenza».
[69] Un detenuto morto strozzato a Regina Cœli. Suicidio o delitto?,
in «M», 10 maggio 1903; nell’articolo si critica il silenzio
delle autorità carcerarie, si parla di una ingiustificata «morte
violenta, e barbara» e si ricorda il “caso Frezzi”.
[70] Un nuovo caso Frezzi? Il detenuto strangolato a Regina Cœli,
in «A», 10 maggio 1903: «La morte improvvisa non giustificata
da alcun possibile motivo, impressionò i sanitari del carcere, che ne
stesero denuncia. Il giudice istruttore Squarcetti si recò a visitare il
cadavere e ne ordinò il trasporto alla camera mortuaria di Campo Verano.
E colà fattagli l’autopsia dai dottori Amante e Impallomeni, si
constatò doversi la morte ad asfissia. Il cadavere presentava una lunga
ecchimosi nella parte anteriore del collo: nessun dubbio, l’asfissia
è stata prodotta da strangolamento! Altre ecchimosi il cadavere
presentava in varie parti del corpo, segno delle precedenti percosse subite. Ma
la morte come era avvenuta? Si era potuto strozzare da sé il
D’Angelo? E allora chi l’aveva strozzato? Sull’orribile
fatto, interrogate le autorità si sono mantenute impenetrabili. In
questura non ne sanno niente, perché non riguarda loro. A Regina
Cœli e alla Direzione generale delle carceri si rifiutano di rispondere.
Si attendono i risultati del giudice istruttore. E forse la cronaca
dovrà fra giorni registrare un nuovo caso Frezzi!».
[71] La morte misteriosa di un detenuto, in «PR», 10 maggio
1903: «Allo stato delle cose ogni giudizio non potrebbe essere che
prematuro, non potendosi nel momento determinare se la morte sia stata prodotta
da cause naturali o dagli sforzi violenti fatti dal D’Angelo nel cercare
di liberarsi dalla camicia di forza, oppure da mancata assistenza e quindi da
negligenza colpevole del personale carcerario».
[72] Per un delitto carcerario, in «GI», 11 maggio 1903:
l’articolo rileva che non è la prima volta che dalle carceri
giungono «echi di crudeltà che destano indignazione e
disgusto» e sostiene che occorre agire di fronte ad una situazione ormai
insostenibile, cambiando i regolamenti, se sono sbagliati, e il personale, se
non è all’altezza dei suoi compiti.
[73] Un nuovo caso Frezzi?, in «A», 11 maggio 1903: «
L’eco raccapricciante del caso Frezzi – che a suo tempo destò
nella coscienza popolare fremiti d’indignazione e di protesta –
è viva ancora nella stampa italiana. Da quel tempo non si contano gli
altri atti di ferocia compiuti dagli organi polizieschi italiani. Essi non
hanno proprio nulla da imparare dai sistemi della czaresca polizia russa. Lo knut slavo, è sostituito dalla
camicia di forza! Ma noi italiani siamo facili all’obblio ed al perdono.
Gli uccisori sono stati sempre lasciati impuniti. E nelle segrete delle
prigioni continua – sotto l’ala dell’impunità e del
silenzio compiacente della stampa – la tortura della carne umana. E i
nostri professori di diritto penale continuano a celebrare le gloriose
tradizioni di Cesare Beccaria che ha combattuta la pena di morte. Nelle sordine
delle questure intanto si compiono, di tanto in tanto, dei veri supplizi, dei
tormenti raffinati ed odiosi. L’alta civiltà della nostra
legislazione civile non se ne offende. Il governo, suo depositario, non se ne
cura. I processi incoati sotto la pressione della protesta, si dissolvono come
gallozzole di sapone al vento. Così nelle carceri penetra la sicurezza
dell’impunità. E la ferocia si sfrena più turpe. Ora
è tempo di finirla! Quando un caso di così triste degenerazione
viene ad offendere il senso dell’umanità e della civiltà, bisogna
costringere la giustizia a fare intero il suo corso. Essa deve essere tanto
più inesorabile quanto più inutile e stupida appare la
persecuzione compiuta a danno di uomini incapaci di ogni difesa. E noi vogliamo
che la verità intera si faccia attorno a quest’altro delitto della
buia vita carceraria». V. anche Il
detenuto morto strozzato a Regina Cœli. Nuovi orribili particolari, in
«M», 11 maggio 1903: «[D’Angelo è] morto dopo
una lunghissima atroce agonia: ed è morto per colpa di quei carcerieri
che lo ebbero in custodia. Quei carcerieri, anzi, sono i soli direttamente
responsabili della sua morte violenta».
[74] Il delitto di Regina Cœli. Il detenuto morto per strangolamento,
in «A», 11 maggio 1903: «Il D’Angelo dunque quando
soffrì della violenza di cui era traccia nel collo già si trovava
in condizioni disperate!»; v. anche Il
detenuto morto strozzato a Regina Cœli. Nuovi orribili particolari e L’orribile morte di un detenuto,
in «M» e «GI», 11 maggio 1903.
[75] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli, in «M»,
12 maggio 1903; commenta l’«Avanti!» (Il delitto di Regina Cœli, 12 maggio 1903): «Bel
medico! Ma noi conosciamo per esperienza personale che cosa sanno fare questi
pretesi sanitarii nelle carceri del bel regno!».
[76] «Conosco i
guardiani e non li credo crudeli … conosco i guardiani e in fondo li
ritengo buona gente … Creda, ad ogni modo, che il cav. Kustermann
è un’ottima persona, un valente funzionario e che se vi fu colpa
questa non dev’essere attribuita a lui».
[77] «E’ frequente
tale applicazione nello stabilimento? – Da settembre a oggi venne
applicata duecento volte. – E’ un numero abbastanza rilevante!
– Già; ma l’isolamento nella cella influisce sui
temperamenti nervosi, li eccita e sovente li fa dare in escandescenze furiose.
Diventano per qualche giorno dei pazzi pericolosi. Aggiunga poi, che molti
simulano la pazzia per essere portati all’infermeria e sfuggire
all’isolamento che li opprime; e l’applicazione della camicia di
forza vale a render calmi specialmente i finti pazzi». Al processo,
dall’esame dell’apposito registro, risulterà che la camicia
di forza è stata applicata a 29 detenuti per misura di sicurezza e a 22
per provvedimento disciplinare dal 12 settembre al 31 dicembre
[78] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. La conferma delle
nostre informazioni, in «M», 13 maggio 1903; Il delitto di Regina Cœli, in
«A», 13 maggio 1903: «D’Angelo non sarebbe morto per
solo effetto della stretta datagli dalla guardia, se non fosse stato già
agli estremi per inanizione. Il delinquente dunque non fu soltanto il guardiano.
Qualcun altro non provvedendo all’alimentazione anche forzata
dell’infelice lo aveva messo in fin di vita».
[79] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. I misteri di Regina
Cœli, in «M», 15 maggio 1903; Il delitto di Regina Cœli. L’autore è un guardiano,
in «A», 15 maggio 1903.
[80] L’orribile morte di un detenuto e Intorno al detenuto ucciso a Regina Cœli, in «GI»,
14 e 15 maggio 1903: «Il bavaglio si
applica sulla bocca dei detenuti, quando essi si mostrano agitati ed emettono
continue grida: è formato da una larga striscia di tela grigiastra alle
cui estremità sono posti due lacciuoli. Nel centro della striscia e
cioè nel punto che trovasi a contatto della bocca è situato una
specie di tampone di tela, che entra nella bocca stessa e soffoca qualunque
grido. La striscia ha poi un’apertura per il naso ed un’altra
funicella perpendicolare che si tira sulla fronte e si riannoda alla nuca del
detenuto con le altre due fettuccie»; Il
delitto di Regina Cœli, in «A», 16 maggio 1903: «Lo
straccio bagnato che il guardiano – unico responsabile! – avrebbe
messo nella bocca del marinaio Giacomo D’Angelo, non sarebbe stato
– secondo le ultime versioni – un trovato della fantasia delittuosa
dell’omicida; ma uno strumento di punizione usuale che si applica in conseguenza
delle disposizioni regolamentari pel mantenimento della disciplina. Questo
corre ora sulle colonne dei giornali bene informati. Giacomo D’Angelo
dunque sarebbe stato ucciso con tutte le formalità, a norma del regolamento! Già non si tratta d’un misero
straccio raccattato non si sa dove ed adoperato non si sa come, ma d’un
vero e proprio bavaglio con forma
determinata ed uso idem …
Tiranni medievali, preti della Santa Inquisizione, aguzzini del Montjuich
venite, venite coi vostri amminicoli nella casa di correzione della capitale
della civilissima Italia, sotto il governo del liberalissimo Giolitti! Qui
può esservi scuola per voi!». Vent’anni prima uno strumento
simile era stato mostrato da un imputato al tribunale militare di Napoli: La tortura nelle carceri militari, in
«La capitale», 5-6 gennaio 1884.
[81] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. La tortura della sete
per lasciar dormire Palizzolo!, in «M», 19 maggio 1903; D’Angelo muore e Palizzolo dorme,
in «A», 19 maggio 1903; v. anche le testimonianze in proposito rese
al processo in «PR», 13 e 15 novembre 1903. Invece secondo la
ricostruzione del Tribunale di Roma «il primo [il detenuto Mattei]
affermò che la guardia Davidde avevagli vietato di dare da bere al
D’Angelo, ma all’udienza cadde in tali contraddizioni circa il
momento in cui l’ordine sarebbe stato dato, da rendere le sue
dichiarazioni poco attendibili. Il Mieli [un altro detenuto] poi depose che la
guardia Davidde, parlando la sera del 4 col detenuto Raffaele Palizzolo, il quale
si lamentava di non aver potuto la notte precedente prender sonno per le
continue grida del D’Angelo, gli avrebbe detto “Stia tranquillo,
commendatore, io non gli darò né acqua né vino,
così non strillerà più”. Però il Palizzolo,
sentito dal Tribunale per rogatoria, spiegando le sue deposizioni scritte,
affermò che la guardia Davidde avevagli semplicemente detto che non
avrebbe dato da bere vino al D’Angelo. Certo se quella intenzione di non
dare da bere acqua fosse stata veramente espressa dalla guardia Davidde, egli
avrebbe dimostrato ferocia da delinquente, ma per rendere in qualsiasi modo
imputabile quell’intenzione occorrerebbe pure sempre che essa fosse stata
almeno parzialmente tradotta in atto, mentre di un principio di esecuzione
manca qualsiasi prova» (Causa
D’Angelo cit., 187). Sempre il 19 maggio «Il giornale
d’Italia» pubblica un’intervista con il cappellano di Regina
Cœli, don Saverio Damiani, che giustifica il comportamento delle guardie e
sostiene che D’Angelo si sarebbe soffocato accidentalmente cercando di
liberarsi della camicia di forza.
[82] Il delitto di Regina Cœli, in «A», 12 maggio 1903:
«Ci si informa all’ultima ora che il cav. Cardosa, già
direttore delle Carceri Nuove, ha consegnato oggi al Ministro la sua inchiesta.
Si afferma che le conclusioni ne siano rigorose, portando allo stato di accusa
per due guardie e un capo guardia»; Il
delitto di Regina Cœli, in «A», 14 maggio 1903:
«Attendendo le circostanze che assoderà e i provvedimenti
dell’autorità giudiziaria, almeno si potesse sapere che cosa han
concluso le inchieste ordinate dal Ministero dell’interno. Invece nulla
di nulla. Siamo nel campo delle supposizioni, delle congetture. L’on
Giolitti pare abbia ordinato di indagare e riferire per sua soddisfazione
personale, come se alla morte del povero D’Angelo e alla rivelazione dei
metodi barbari che si usano nelle carceri non si fosse commossa tutta
l’Italia!»; Il nuovo caso
Frezzi, in «A», 13 maggio 1903: «Attendevamo con viva
ansietà notizie nuove sulla inchiesta promossa personalmente dal
ministro Giolitti, intorno al tragico avvenimento di Regina Cœli. Ma fino all’ora che scriviamo abbiamo
atteso invano»; Il nuovo caso
Frezzi, in «A», 14 maggio 1903: «la sua [di Giolitti]
inchiesta, che ha un compito tanto circoscritto e tanto agevole, si trascina
ancora tortuosamente nel mistero». V. anche L’orribile morte di un detenuto, in «GI», 12 e 13
maggio 1903; Il detenuto morto strozzato
a Regina Cœli, in «M», 12, 13 e 14 maggio 1903.
[83] Gravi provvedimenti (?) pel nuovo caso Frezzi. Il trasloco del direttore di Regina Cœli; Il delitto di Regina Cœli, in «A», 11, 12, 13 e 14
maggio 1903. Kustermann viene sostituito provvisoriamente con il cavalier Carlo
Vitolo, proveniente da Gaeta (Il detenuto
morto strozzato a Regina Cœli, in «M», 12 maggio 1903) e secondo l’«Avanti!»
(Il delitto di Regina Cœli, 13
maggio 1903) «il Vitolo fu sotto Doria vice-direttore a Regina Cœli.
Attualmente, come ci si dice, è direttore d’ultima categoria.
Sembra che il Doria volesse da tempo premiare in lui la devozione antica ai
suoi voleri. Così il provvedimento a carico del Kustermann verrebbe ad
avere anche un’altra motivazione»; pochi giorni dopo viene nominato
direttore Giuseppe Augier, già direttore a Lucca e poi a Oneglia, dove
era stato mandato per sedare la rivolta in cui era coinvolto anche
l’anarchico Paolo Schicci (Il
detenuto ucciso a Regina Cœli e Il
detenuto morto strozzato a Regina Cœli. I misteri di Regina Cœli,
in «GI» e«M», 16 maggio 1903).
[84] Il delitto di Regina Cœli, in «A», 13 maggio 1903:
«L’Ora di Palermo
occupandosi di questo provvedimento protesta con parole vivaci “se il
direttore è veramente colpevole, sia messo a disposizione
dell’autorità giudiziaria o destituito, ma non inviato a Catania
dando al provvedimento il clamoroso significato di una punizione”»;
Il nuovo caso Frezzi, in
«A», 13 maggio 1903: «A Catania la stampa giustamente
protesta contro l’offesa che si fa alla Sicilia, relegando
nell’isola ormai, abitualmente, i funzionari meno degni». V. anche Intorno al detenuto ucciso a Regina
Cœli e Pel detenuto ucciso a
Regina Cœli, in «GI», 15 e 18 maggio 1903, che segnalano
anche le proteste apparse su «
[85] Il delitto di Regina Cœli, in «A», 12 maggio 1903:
«Trattandosi di un fatto gravissimo certamente delittuoso, di cui –
a dire delle autorità – non si sono ancora accertate le cause e le
responsabilità, la presenza del Kustermann, colpevole egli o no, era qui
indispensabile. Ci si dice che il Kustermann – romano di nascita,
già direttore del penitenziario di Volterra, ove, ai tempi delle
condanne crispine pei fatti di Sicilia, ebbe in custodia l’on. De Felice
– sia buon funzionario, compreso dei suoi doveri e nello stesso tempo
disposto a mitigare i rigori della legge verso coloro che gli vengono affidati.
Noi di tutto questo non ci occupiamo. Vogliamo rimanere nei limiti del caso
attuale: o il Kustermann è colpevole ed allora bisogna accertare
scrupolosamente in che ha errato e punirlo di conseguenza, o è innocente
ed allora non v’è ragione alcuna d’un procedimento, sia pure
non pregiudizievole, a suo carico. In ogni modo – ripetiamo – era
indispensabile in questo momento la sua presenza qui. Ma come? – Accade
un fatto delittuoso in un istituto dello Stato; il governo lo vede circondato
da mistero e ordina due inchieste; e per primo provvedimento sottrae alle
indagini il direttore di quell’istituto? Tutto questo sarebbe ridicolo
… se non fosse preordinato ad uno scopo»; Il delitto di Regina Cœli, in «A», 13 maggio 1903:
«Il trasloco del direttore del carcere cav. Kustermann vien giudicato
anche da altri come noi lo giudicammo un’ostentazione di energia fatta
per impressionare, per gettare polvere negli occhi, non certo per favorire
l’accertamento delle responsabilità … noi insistiamo sul
nostro primo concetto: colpevole o no il cav. Kustermann doveva essere
trattenuto qui a disposizione dell’autorità amministrativa e
dell’autorità giudiziaria, per la ricerca completa della
verità». Anche la «Rivista penale», LIX, 1904, 99,
commentando la sentenza assolutoria che concluderà il processo,
definisce Kustermann «meritatamente fra i più stimati funzionari
dell’amministrazione carceraria». Invece per il
«Messaggero» (Il detenuto
morto strozzato a Regina Cœli. I risultati dell’inchiesta, 14
maggio 1903) «A Regina Cœli v’era un direttore onesto, buono,
ma debole, che ebbe il torto gravissimo di lasciarsi rimorchiare
dall’ambiente e di permettere, di tollerare che la disciplina carceraria,
già di per sé molto rigida, venisse incrudelita e fosse lasciata
facoltà a sottocapi e guardiani di accrescerne capricciosamente i
rigori; mentre, d’altra parte, la disciplina era rilassata verso i
sottocapi e i guardiani che andavano a passeggiare, o a dormire, nelle ore in
cui dovevano stare di guardia e vigilare, specialmente sui cosidetti
“agitati”, molti dei quali non si agitavano affatto».
[86] Ratalanga, Gli
strangolatori di “Regina Cœli”, San Domenico di Guzman a “Regina Cœli” e L’inchiesta ministeriale sulle carceri,
in «A», 12, 13 e 18 maggio 1903. Su Gabriele Galantara v. G.D. Neri, Il morso dell’Asino, Milano 1965.
[88] Oltre al già
citato Un nuovo caso Frezzi? (11
maggio), v. gli articoli intitolati Il
nuovo caso Frezzi pubblicati il 12 («Il D’Angelo – per
alcuni suoi atti di protesta – dovette essere serrato tra le strette
mitigatrici di quell’ignobile strumento di tortura che è la
camicia di forza. Noi non vogliamo qui discutere se è proprio necessario
per assicurarsi l’incolumità di un disgraziato, il serrarne e
torturarne le membra tra le cinghie in cui si avvincono i pazzi furibondi e
pericolosi. A tale scopo sarebbe bastato l’isolamento. Contro
l’applicazione di questa tortura protesta il senso umanitario
d’ogni animo civile … le responsabilità denunciate si allargano
fino a colpire persone estranee all’autorità carceraria. Si tratta
di sapere perché e come il
morto fosse strappato alla libertà …»), 13 («Occorre
ora scovrire i colpevoli. E’ necessario per assicurare un funzionamento
più civile e più umano della disciplina carceraria italiana.
L’impunità non solo sarebbe oltraggio alla famiglia, che ha veduto
così inopinatamente cadere il lutto sulla sua casa, ma soprattutto
perché essa non serva come bill
d’indennità per altre ferocie e per altri frezzamenti … egli fu arrestato arbitrariamente, come tutti i
detenuti politici che la stupidaggine poliziesca avea ghermiti … Egli
dunque si trovava in arresto in modo arbitrario per un mero sequestro di persona. Che cosa ne dice
il ministro Giolitti?»), 14 («Sarebbe una vergogna per la pubblica
coscienza italiana, se stendesse il velo dell’indifferenza sul
raccapricciante delitto di Regina Cœli. Notiamo già nei compiacenti
giornali, ligi al governo, un rallentamento d’interesse attorno allo sciagurato
caso D’Angelo … non daremo tregua e staremo con la spada alle reni
a questo ministero che va dando prove di così musulmana indifferenza in
un fatto che va commuovendo tutto il mondo civile … è possibile
che si arrivi a tale stato raccapricciante di cose che la vita e la libertà
dei cittadini italiani debbano stare all’arbitrio cieco d’una
polizia stupida e crudele, presidiata e incoraggiata dal governo nella sua
opera liberticida e omicida. L’on Giolitti – in questa occasione
– mostra ancora una volta il suo cinismo politico») e 16 maggio
(«La posizione del ministro è assai scabrosa. Nessun provvedimento
ancora è stato preso di fronte alla voce implacabile della pubblica
indignazione … il ministro Giolitti sta preparando intanto la sua difesa.
Ma è tempo perso per lui. Non riuscirà che ad accumulare sul
governo più gravi responsabilità»).
[89] E. Ferri, Carcere
omicida. A proposito del nuovo caso Frezzi, in «Avanti», 15
maggio 1903: «Oh! non l’hanno gettato dalla balaustra del secondo
piano fracassandogli cranio e costole, come il povero Frezzi – non lo
hanno assassinato a colpi di sacchetti di sabbia, che non lasciano traccie,
come altri! No. Pare che nel caso D’Angelo si tratti di “omicidio
involontario” – per negligenza. Se l’erano dimenticato, dopo
avergli messo la camicia di forza, che ora non si mette quasi più
neanche ai pazzi. No, egli è morto – pare – un po’ per
fame un po’ per strangolamento. Una morte eclettica … i casi Frezzi
flagellano, di tanto in tanto l’intorpidita coscienza dei governanti,
portando alla luce della ribalta pochi fra i mille casi di tortura misteriosa
nel carcere … il carcere, stupidamente regolato com’è dalle
nostre leggi penali, che imposero il sistema cellulare quando già
l’esperienza di tutto il mondo aveva dichiarato la bancarotta di questo,
che io chiamai e ripeto “una aberrazione del secolo XIX”, il
carcere è strumento di tortura, e forma ipocrita della pena di morte,
anche senza il malvolere dei guardiani e dei direttori. L’albero
dà i suoi frutti – e la sepoltura di un uomo in una cella non può
farne che una bestia arrabbiata o un povero istupidito. Nell’un caso e
nell’altro, un candidato alla recidiva, che è la piaga cancrenosa
della odierna giustizia penale: irreparabile sventura per i colpiti –
insufficiente difesa per la società degli onesti! … non vi
può essere carcere, dove la creatura umana diventa un numero di matricola (e ancora si pretende di volerne così
la riabilitazione e l’emenda!) senza i tormenti dei guardiani e
direttori, ignoranti di psicologia e di psichiatria (…) né senza i
frezzamenti di Regina Cœli. E’
il sistema cellulare che bisogna cambiare, sostituendovi il lavoro igienico e
ristoratore dell’aria libera, nelle colonie agricole, con semplice
divisione notturna … io non
credo si debba addossare all’on. Giolitti la responsabilità
personale per questo “omicidio colposo”. Ma penso che egli, come
ministro dell’interno, è responsabile del punto di partenza:
l’arresto arbitrario – e del punto di arrivo: il danno inenarrabile
della vedova e dei figli del morto … che giace. Responsabile
politicamente, s’intende. Cioè … irresponsabile
praticamente, finché la coscienza popolare italiana non arrivi, con
parola leonina, ad imporre che lo Stato, il Governo,
[90] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. La conferma delle
nostre informazioni, in «M», 13 maggio 1903: «Ci risulta
che a Regina Cœli si infligge con generosa abbondanza il castigo della
camicia di forza, la quale viene applicata allegramente per dieci, quindici,
venti giorni, anche per un mese ai detenuti turbolenti; e sotto la qualifica di
“turbolenti” passano molti di temperamento eccitabile che sono o si
credono arrestati e imprigionati ingiustamente … la prolungata applicazione
della camicia di forza vale ad irritare maggiormente, a sconvolgere il cervello
dei detenuti più assai dell’isolamento, del sistema cellulare che
pure dà di per sé un notevole contingente ai manicomi criminali.
Quando poi si tratta di “agitati” cioè di detenuti esaltati,
l’applicazione della camicia di forza vien fatta senza limitazione di
tempo e senza intermittenze. I castigati hanno diritto di farsi sciogliere da
questo sacco in cui vengono legati e fermati con corregge, ogni volta che
occorre loro un bisogno corporale … Ma il diritto accordato ai
turbolenti, è negato agli agitati; per cui questi devono fare le loro
occorrenze restando insaccati nella camicia di forza; e questa vien loro
cambiata quando il carceriere si accorge che … la detta camicia non
è molto pulita, né molto odorosa … Il coefficiente maggiore
sta nel sistema, nella disciplina – chiamiamola così – che
è in vigore a Regina Cœli. La morte violenta di Giacomo
D’Angelo è un lugubre effetto di tale sistema, di questa strana
specie di disciplina che è in vigore nel detto carcere».
[94] I misteri delle prigioni, in «M», 21 maggio 1903; v.
anche Dopo la morte del detenuto
D’Angelo, in «GI», 21 e 22 maggio 1903.
[95] A proposito del caso D’Angelo. Le miserie delle nostre carceri.
Un’intervista col prof. Enrico Morselli. Mali e rimedi, in
«M», 21 maggio 1903.
[100] Notizie di una rivolta a Regina Cœli. Altri incidenti
impressionanti. Una nostra inchiesta, in «GI,», 17 maggio 1903.
[103] La dimostrazione di domani per D’Angelo, in «A»,
21 maggio 1903; nel manifesto pubblicato dal comitato ordinatore si legge:
«Cittadini, Un’altra
morte misteriosa è venuta a gettare una luce sinistra nel buio tetro e
muto del nostro ambiente carcerario: essa è sintomo pauroso, rivelazione
improvvisa di una nascosta e fitta serie di dolori e di lagrime. Una giovane,
innocente esistenza fu troncata, un uomo fu spento, perché il silenzioso
isolamento della cella ed il pensiero torturatore della ingiustificata
detenzione avevano agitato il suo povero cervello. L’angoscia morale fu
calmata e vinta con la camicia di forza e col bavaglio. Dimostrate che il cuore
di Roma ha palpiti di commiserazione e di simpatia per chi sofferse durante tre
giorni spasimi e strazi, come quelli che uccisero Giacomo D’Angelo. Dimostrate che per voi la vita umana
è sacra, e va protetta non soltanto dalle notturne e rare aggressioni
dei teppisti, ma anche dagli articoli di regolamenti più adatti a
governare serragli che a disciplinare moltitudini di uomini. Dimostrate che la
libertà personale è patrimonio comune di tutti i cittadini, e non
soffre restrizioni a danno di coloro, cui infiammano ideali politici
eterodossi».
[104] Queste sono infatti le
direttive del comitato «per l’ordinamento del corteo»:
«intendiamo che nessuna bandiera e nessun concerto venga a dare un
linguaggio di colori od una eloquenza di inni al corteo; il popolo esprima il
suo cruccio, rimpianto e minaccia ad un tempo, tacendo, astenendosi
dall’emettere qualsiasi grido, che potrebbe dar pretesto a chiassi e
disordini desiderati da coloro, che hanno interesse di dimostrare essere il
popolo impari alle libertà, che reclama. Così i nastri delle
corone ricordino la vittima senza inutili imprecazioni contro gli assassini;
poiché noi non vogliamo restringere la protesta ai 4 o 5 aguzzini che
assassinarono D’Angelo, ma allargarla alla barbarie dei sistemi, dei
quali Roma, città civile, deve dirsi nauseata, partecipando alla
solennità di questa dimostrazione popolare» (ibid.).
[105] Il delitto di Regina Cœli. La dimostrazione popolare d’oggi,
in «A», 22 maggio 1903; v. anche La grande dimostrazione di ieri pel detenuto morto strozzato a Regina Cœli,
in «M» e La commemorazione
popolare pel detenuto ucciso, in «GI», 22 maggio 1903. Invece
«Il popolo romano» (Una
dimostrazione di protesta, 21 maggio 1903) critica l’iniziativa e
difende l’azione del governo, l’uso della camicia di forza e il
personale carcerario: «Chiunque abbia sentimenti umani non può che
deplorare il triste caso toccato al disgraziato marinaio … Ma da questo a
farlo passare per un martire della efferatezza
del personale delle carceri ci corre, o per dire meglio occorre conoscere prima
i risultati dell’inchiesta, ordinata dal Governo, sulla quale il Ministro
stesso, pur avendo preso pronti provvedimenti, allontanando o infliggendo
talune punizioni al personale per provate negligenze, perché
l’inchiesta riesca libera e completa, non è in grado, come
dichiarò alla Camera, di dare notizie positive, per essere
l’inchiesta tuttora in corso … Resta la questione generica
dell’uso della camicia di forza nelle carceri … Che vi possano
essere dei casi e delle circostanze, in cui si debba ricorrere alla misura, per
quanto eccezionalissima, della camicia di forza per qualche detenuto,
irrefrenabile con ogni altro mezzo, nessuno potrà contestare, come lo
prova il fatto che in tutti i regolamenti carcerari del mondo è ammessa,
con opportune garanzie, s’intende, la camicia di forza. D’altronde
poiché il Ministero dell’Interno ha riconosciuta la
necessità d’una revisione dei regolamenti, ci sembra che ogni
discussione al riguardo sia superflua. Quello che noi, fino a prova contraria e
nonostante tutte le declamazioni, ci rifiutiamo di credere è che la
deplorata morte del D’Angelo sia dovuta ad impulso di efferatezza o di
feroci istinti, come si vorrebbe far credere, da parte del nostro personale
carcerario. Il quale, come affermano anche scrittori stranieri competenti e
specialisti in materia carceraria, è per disciplina, attitudine e modi
urbani e pazienti, non inferiore al personale dei più civili Stati
d’Europa. Certamente tutto è possibile ed anche nel numeroso
personale delle carceri può trovarsi talvolta qualcuno che ecceda o si
lasci trascinare da malvagio impulso, ma non è giusto perciò
proiettare una luce sinistra sopra un Corpo di qualche migliaio di funzionari
ed agenti, che prestano un servizio faticoso e poco grato allo stato e alla
società».
[106] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 16 maggio 1903, 7683 ss. Le
interrogazioni sono di Salvatore Barzilai ed Ettore Socci («sulla tragica
fine del detenuto D’angelo a Regina Cœli»), del generale
Felice Santini («intorno alle cause che avrebbero determinato la morte,
non naturale, di un detenuto nel carcere di Regina Cœli»), di
Alfredo Bertesi («per sapere le cause della morte del detenuto
D’Angelo, avvenuta nelle carceri di Regina Cœli, e per sapere quali
provvedimenti egli abbia presi e intenda prendere a punizione degli eventuali
colpevoli e a tutela della vita e di un umano trattamento dei detenuti»),
di Filippo Turati («sulla legalità dell’arresto e della
detenzione del marinaio D’Angelo, defunto a Regina Cœli; e inoltre
per sapere se il ripetersi di fatti analoghi a quello che determinò la
sua morte, quali che siano le responsabilità immediate in ogni caso
speciale, non sembri al Governo sintomo sufficiente per determinarlo a proporre
una riforma radicale nell’ordinamento degli stabilimenti carcerari in genere»)
e di Pilade Mazza («sulla morte del detenuto D’Angelo»).
[107] Il nuovo caso Frezzi, in «A», 16 maggio 1903: «Il
governo chiede ancora tregua per rispondere all’interrogazione
sull’efferato assassinio di Regina
Cœli. Oggi alla Camera l’attesa era assai viva. Invece il
pubblico accorso in folla è rimasto deluso».
[108] Il quotidiano
socialista commenta: «Al banco dei ministri non v’è
l’on. Giolitti il quale avrebbe dovuto sentire oggi il dovere di essere
presente, dovendosi svolgere alcune interrogazioni di grande interesse per il
suo ufficio di ministro degli interni»: L’omicidio D’Angelo alla Camera, in «A», 17
maggio 1903.
[109] Cfr. in proposito M. Da Passano, «Il male contro il male». L’impiego dei condannati
nei lavori di bonifica e dissodamento, in Dall’antichità al mondo contemporaneo. Studi in onore di
M. Brigaglia offerti dal Dipartimento di storia dell’Università di
Sassari, Roma 2001, 599 ss.
[110] Commenta il quotidiano
socialista: «La risposta dell’on. Ronchetti ha ribadito purtroppo
l’incorreggibilità governativa – sotto qualunque ministero
– in fatto di libertà personale. Parole commosse per “la
morte” di quel disgraziato, sì. Ma non una parola per condannare
la illegalità dell’arresto, che pure è stata la origine
prima dell’omicidio del povero D’Angelo! Qui sta il marcio: in
questa ostinata indifferenza di ogni governo, reazionario o liberale, per il
rispetto alla libertà personale dei cittadini. Tanto più che nel
caso D’Angelo non c’era nemmeno il pretesto dell’ordine
pubblico, come facile bill d’indennità
agli arresti arbitrarii dei pretesi sovversivi. E questo silenzio del
governo significa incoraggiamento a proseguire, per la polizia che arresta e
getta in carcere, come per i magistrati che assolvono sempre i funzionari di
polizia quando sono querelati per arresto illegale! Quanto al carcere omicida,
l’on. Ronchetti ha annunciato la nomina di una delle solite commissioni,
fatte apposta per spargere fiori di papavero sulle questioni … messe a
dormire»: Note alla seduta della
Camera. Il caso D’Angelo, in «A», 17 maggio 1903.
[111] «E questa camicia
di forza, della quale io spero che
[112] «La camicia di
forza non si deve applicare che quando il medico la prescrive; e quei signori,
che hanno applicato la camicia di forza a quel disgraziato, avevano il tempo di
mandare una carrozza a prendere il medico delle carceri, perché egli
solo deve giudicare se la camicia di forza doveva o no mettersi; il medico, e
non il secondino, è l’arbitro di questa applicazione».
[113] «Per mio conto, dinanzi
a questi fatti crudeli, se è vero, come purtroppo ne ho la convinzione,
come medico, che il D’Angelo sia stato condannato a morte, un ritorno a
quella pena che riconosceva non aver diritto alla vita colui che ad altri
l’ha tolta, non sarebbe a rimpiangere. Datemi pure del forcaiolo; ma di
fronte a tanta colpabilità, quando fosse provata, io non esiterei a
sopprimere colui che avesse ammazzato il povero D’Angelo». Commenta
l’«Avanti!» (Note alla
seduta cit.): «Anche l’on. Santini si è associato alla protesta,
pur concludendo – con la solita psicologia dei militaristi, che non sanno
vedere altro che la violenza sanguinosa – per il ritorno alla pena di
morte agli uccisori del D’Angelo. Come se impiccando uno o due guardiani
omicidi, sarebbero tolte le cause sociali e legali, che provocano di tanto in
tanto l’assassinio e mantengono sempre la tortura, lenta e quotidiana,
nelle carceri! E’ tutto il sistema che bisogna cambiare – nella
polizia, nei tribunali, nelle carceri – triade cieca alle più
luminose verità della scienza».
[114] «La camicia di
forza non può essere applicata che due giorni su tre e deve essere tolta
all’ora dei pasti, e (…) l’articolo 355 del regolamento
impone che, quando occorre di applicarla, si faccia subito denunzia all’autorità
giudiziaria. E tutto questo non fu, sciaguratamente, osservato».
[115] «Ivi non la pena
emendatrice, non la custodia tutrice, ma si esercita la vendetta sociale
più obbrobriosa, fatta di ferocia e di viltà; nessun controllo
effettivo, nessun reclamo efficace è possibile, e nessun detenuto (lo
dichiaro sul mio onore) farà mai un reclamo, perché sa bene che
il reclamo non giungerà al suo destino, e, se giungesse, sarebbe tanto
peggio per lui, sarebbe il frezzamento,
sarebbe il d’angelamento
(creiamo questi tristi neologismi!), perché il Governo è lontano
e l’aguzzino invece gli sta sopra e gli farà scontare a caro
prezzo l’audacia di aver fatto appello alla giustizia …
Dall’istante che uno vi è entrato, che è sottomesso a
quella operazione obbrobriosa della tosatura, che gli è infilato
quell’esecrabile vestito a righe, che è diventato un numero, che
ha cessato di essere un uomo, l’infelice diventa l’oggetto di tutte
le ferocie, di tutte le viltà, di uno schiacciamento sistematico,
continuo, contro il quale non esiste possibilità di difesa, e che deve
condurre alla follia o all’abbrutimento, se non giunge prima la morte
liberatrice».
[116] «La segregazione
cellulare è un delitto senza nome; fortunatamente noi la instaurammo
sulla carta, ad attuarla interamente ci mancano i quattrini. Ma ne venne un
sistema misto che concilia quasi tutti i difetti della segregazione e quelli
della promiscuità. Il regolamento carcerario, quale uscì dal
pensiero del Beltrani Scalia, consterebbe di due parti: una parte per
l’intimidazione e per il terrore; l’altra destinata ad elevare il
condannato, a confortarlo a prepararlo a una nuova vita. Senonché,
soltanto la prima parte viene realmente applicata: ed è naturale, poiché
chiudere un uomo, spaventarlo, mettergli la camicia di forza, tutto ciò
è molto facile e libera i custodi da qualunque altra noia; ma tutta la
parte che dovrebbe essere educativa, redentrice, le scuole, le biblioteche,
l’esame e la cura dei condannati, tutto ciò che costerebbe un
po’ di fatica, di lavoro, di pietà, di ingegno rimane lettera
morta. I direttori non sono che funzionarii amministrativi e contabili, che non
conoscono neppure i loro detenuti; e il personale inferiore è come
carcerato esso stesso, odia le carceri e si vendica sui condannati della vita
maledetta che gli è imposta».
[117] «E’ invero
molto sintomatico questo fatto, che il condannato sia considerato come un
oggetto che non appartiene più né alla giustizia né alla
grazia, e sul quale i criteri della pubblica sicurezza debbono imperare da
soli».
[120] APC, legisl. XX, sess. 1a, 17 maggio 1897, 751:
«Io non posso accettare una inchiesta, che si farebbe contro
l’amministrazione, che io presiedo. Questa non l’accetterò
mai; datemi un voto di sfiducia e buona notte, ma che io accetti
un’inchiesta contro di me, questo non sarà mai. Posso accettare un’inchiesta
sopra l’amministrazione, ma non un’inchiesta sulle sevizie, che
commette l’amministrazione, perché nego che si commettano; e, se
avessi notizia di un fatto qualsiasi, non avrei bisogno dell’inchiesta
per punire»; 25 giugno 1897, 2395: «non c’è bisogno di
questa inchiesta, perché le condizioni delle nostre carceri sono
precisamente conosciute; e si sanno due cose: primo, che
l’amministrazione carceraria italiana è una fra le più
civili e le più progredite che vi siano nel mondo civile; secondo, che
gli sforzi che da più anni si fanno in questa amministrazione urtano
contro una grave difficoltà che è quella dei fabbricati carcerari
… è certo che la nostra Amministrazione carceraria, a giusta
ragione gode nel mondo civile una grande reputazione per le sue tendenze
sinceramente civili ed umanitarie; ed io non vorrei che proprio con le nostre
mani stesse si dovesse offuscare questa riputazione che fa onore al nostro
paese».
[121] APC, legisl. XX, sess. 3a, 27 novembre 1899, 194 s.:
«Bertolini, sotto-segretario di Stato per l’interno. Debbo
dichiarare all’onorevole Socci che non è negli intendimenti del
Ministero di procedere, come egli desidererebbe, ad una inchiesta generale
circa i frequenti deplorevoli fatti che avverrebbero nelle case di pena. E
colgo questa occasione per deplorare la vera campagna di denigrazione che
è stata intrapresa contro il personale carcerario, dando troppo sovente
ascolto e facendo assorgere a testimonianza di verità le deposizioni di
gente la quale costituisce il rifiuto della società civile. Ma nello
stesso tempo devo dichiarare all’onorevole Socci che è fermissimo
il proposito del Ministero di accertare tutte le responsabilità nelle
quali possano essere incorsi funzionari od agenti carcerari, e di punire
severamente chi di essi abbia mancato».
[124] I medici carcerari, in «A», 19 maggio 1903:
«tendono a rendersi troppo frequenti i casi in cui i colleghi funzionanti
da sanitari nelle carceri apparirebbero (non discuto se o meno giustamente)
quasi complici dei barbari abusi dei carcerieri e dei questurini e non tali da
comprendere i moderni inconfutabili progressi dell’igiene in generale e
della profilassi criminologica particolare … la nomina dei medici delle
carceri, perché la scelta sia socialmente e scientificamente utile
dovrebbe spettare non all’autorità politica ma al giudizio
cumulativo del neuropatologo, dello psichiatra e dell’igienista».
[125] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 29 maggio 1903, XXX: «La cura dei detenuti
è fatta con amore e senza indebite economie: i medicamenti son buoni,
non si rifugge spese di specialità farmaceutiche che sieno trovate
necessarie, non si esita a mutamenti di luoghi di espiazione di pena se il
mutamento di clima è imposto da ragioni comprovate di salute. Tutto
considerato, noi crediamo che a questo ramo di servizio si soddisfi in modo
lodevole; e che non ci sieno novità da introdurre».
[126] «… io come
sanitario debbo lamentare il troppo frequente ripetersi di casi come quello di Regina Cœli, i quali mostrano che
purtroppo molti sanitari non comprendono l’importanza della carica che
rivestono e non la comprendono né dal lato umanitario, né da
quello sanitario e neanche dal lato scientifico … prego il Governo di voler
dare opera perché non si ripetano più d’ora innanzi casi
come quello di Regina Cœli, a
proposito del quale un sanitario ha impunemente scritto e stampato di aver
consentito più di duecento applicazioni di camicia di forza in un breve
periodo di tempo ed è risultato che non solo alcuni condannati hanno
scontata la punizione con la sete e con la fame, ma qualche volta perfino dei
disgraziati carcerati forse anche innocenti. Richiamo su tutto questo
l’attenzione del Governo perché (…) voglia obbligare subito
i prefetti a nominare i medici carcerari fra coloro che hanno dato prova di
conoscere i moderni progressi dell’igiene, della psichiatria e della
neuropatologia».
[127] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 11821, 18 marzo 1904; il
discorso viene pubblicato anche come opuscolo: F. Turati, I cimiteri
dei vivi (Per la riforma carceraria), Roma 1904.
[129] «PR», 10
novembre 1903. Questa e le citazioni che seguono sono tratte dalla cronaca
giudiziaria del «Popolo romano», ma dettagliati resoconti
quotidiani delle udienze si possono leggere anche sul «Giornale
d’Italia» e sul «Messaggero».
[132] «PR», 15 novembre 1903. Nella stessa udienza il tribunale si trasferisce
anche in carcere per fare un esperimento sull’applicazione della camicia
di forza e si appura che gli strumenti in uso a Regina Cœli, acquistati al
manicomio, sono di un modello vecchio: «GI», 15 novembre 1903.
[133] «PR», 17
novembre 1903. Oltre a Cardosa e Doria, al processo sono chiamati a
testimoniare in difesa degli imputati anche il direttore e l’ex direttore
di Regina Cœli, Arturo Della Ferrera e Giuseppe Augier, l’ex
direttore generale Canevelli, e l’ispettore Aristide Bernabò
Silorata: «GI» e «M», 18 e 19 novembre 1903.
[135] Causa D’Angelo cit., 175: «Imputati – Il dott.
Ponzi (…) per avere (…), per negligenza, imperizia nella propria
professione (e massime per l’applicazione di mezzi coercitivi, quasi
immobilizzanti ed ostacolanti la respirazione – alimentazione deficiente
e impropria, condizioni igieniche deplorevoli, mancanza di conveniente
assistenza) nonché per inosservanza del Regolamento generale carcerario
(…), cagionato la morte di Giacomo D’Angelo. Tutti gli altri
(…) per avere (…), per imprudenza e negligenza (specie per non
avere convenientemente assistito e sorvegliato il detenuto D’Angelo) e
per inosservanza del riferito Regolamento carcerario (…) cagionato la
morte del carcerato D’Angelo». Il p. m. aveva chiesto la condanna
soltanto del medico e di una guardia ad un anno di detenzione e mille lire di
multa: «PR», 28 novembre 1903; «RP», LIX, 1904, 99.
[136] Ibid., 181 s.: «Anzitutto l’applicazione dei mezzi
coercitivi, e cioè della camicia di forza, presentasi tuttora come una
dolorosa necessità allorquando la malattia mentale non è ancora
conclamata, e l’ammalato potrebbe d’un tratto rendersi pericoloso a
sé e agli altri. Contro il sistema del restringere si è molto
gridato dai sostenitori del non restringere, ma in realtà la permanenza
della camicia di forza in tutti i manicomi è già valido argomento
per dimostrare come le necessità pratiche s’impongono talvolta a
tutte le discussioni teoriche. E’ ben vero che il modello di camicia di
forza adottato dal carcere di Regina Cœli, sebbene provenisse dal
manicomio di Roma, non rappresentava certo l’ultimo progresso nella
materia, ma è d’altra parte constatato che quel modello si usa
ancora in qualche manicomio (…) e che del resto esso permetteva il
compiersi regolare delle funzioni respiratorie, come si constatò anche
con esperimenti eseguiti in presenza del Collegio. L’alimentazione
deficiente non può aver avuto seria influenza, quando si pensi il
D’Angelo aveva ben mangiato nel giorno 2 maggio (…), mangiò
sei o sette cucchiai di brodo, e circa
[137] «Egli, che
usò l’unico sistema a disposizione offertogli dal carcere, non
può essere chiamato a rispondere, trattandosi di sistema che non
impediva la respirazione. Né si può chiamarlo a rispondere della
fascia al petto, la cui esistenza non si può dire provata con
certezza».
[138] «Non l’ha
il primo, perché è accertato che le visite durarono dai cinque ai
sette minuti (…), durante i quali egli s’informò dello stato
del malato, lo interrogò, lo osservò e quindi date le molteplici
altre incombenze del medico, il tempo impiegato non si può dire troppo
breve. Sul dermotatto come mezzo per accertare la temperatura, gli stessi
periti d’accusa che lo dichiararono indice mal sicuro, riconobbero come
esso possa valere a stabilire non il grado della febbre, ma certo
l’esistenza o meno di uno stato febbrile, e come negli stessi
manicomî, dove pur non mancano i mezzi per constatare la temperatura, nei
periodi di osservazione il medico si limiti sovente ad un saggio grossolano della
temperatura per un orientamento generale … Infine al dott. Ponzi venne
rimproverato il nichilismo terapeutico, l’assoluta mancanza cioè
di prescrizioni mediche o di mezzi curativi siano pur sintomatici … Ora
il dott. Ponzi, che preferì l’ultimo di questi sistemi [le cure di
pura aspettativa], il quale del resto gli era imposto dalla mancanza di
fenomeni conclamati e dai limitati mezzi offertigli dal carcere, non può
essere tacciato di imperizia evidente, di colpa grave».
[139] «Anche la
responsabilità professionale degli agenti carcerari non va considerata
cogli astratti criteri che potrebbe suggerire un razionale ordinamento delle
carceri. Certo in quest’ambiente, che costituisce qualche cosa
d’intermedio tra il manicomio e la società normale, ambiente nel
quale sovente i pazzi ed i simulatori sono in gran numero, la scienza
psichiatrica e la sociologia criminale augurano bene altri ordinamenti ed un
personale tecnico adatto. Il Collegio deve però esaminare la
responsabilità di agenti che non posseggono alcuna cognizione necessaria
per la cura di alienati, che sottostanno ai regolamenti carcerari attuali ed
hanno molteplici incombenze e mezzi limitatissimi».
[140] «Egli
adempì al suo specifico dovere ordinando al capogardia Arrighini la
sorveglianza, e non gli si può rimproverare, a titolo di colpa punibile,
di non aver visitato il D’Angelo, non solo perché non è
provato che tale visita avesse potuto giovare, ma perché l’art. 69
lettera n. del Regolamento lo
obbligava soltanto a visitare i detenuti quanto più di frequente gli
fosse possibile, e non quindi a visitarli tutti giornalmente. Né infine
egli può essere ritenuto responsabile del sistema invalso a Regina
Cœli di applicare con molta facilità e senza seria
necessità, come si afferma dall’accusa, la camicia di forza, solo
perché egli istituì un registro relativo a tale applicazione, che
prima di lui non esisteva, mentre pur esisteva il sistema consacrato anche dal
Regolamento (art. 275). Quel registro fu per l’istruttoria fonte di
ricerche e dati preziosi e prova anzi come egli volesse regolarizzare un
sistema che prima di lui era sottratto ad ogni controllo».
[141] Dopo la sentenza, il
Circolo giovanile socialista di Roma indice una manifestazione «contro i
barbari nostri sistemi carcerari», ma il questore vieta il corteo che
avrebbe dovuto andare da Campo dei Fiori alla tomba di D’Angelo al
Verano, convocando i promotori e diffidandoli, e accetta soltanto che i
dimostranti vadano al cimitero alla spicciolata, in gruppi di non più di
otto o dieci persone; così molti vanno a deporre fiori, «nella
maggior parte garofani rossi», e una corona dei «partiti
popolari» sulla tomba di D’Angelo, nonostante un imponente
schieramento di agenti di polizia in divisa e in borghese, carabinieri a piedi
e a cavallo, cavalleggeri e granatieri; qualche momento di tensione, ma senza
conseguenze, si ha quando i dimostranti incrociano un funerale civile che sta
arrivando e vorrebbero seguirlo, ma la polizia si oppone e chiude i cancelli
del cimitero: «A», 19, 20 e 21 dicembre 1903. Secondo «Il
Messaggero» (19 e 21 dicembre 1903, L’agitazione
popolare contro il sistema carcerario) alla dimostrazione partecipano circa
duecento persone, mentre per «Il popolo romano» (21 dicembre 1903, Una protesta sfumata) non più di
cento.
[143] «RDC»,
XXVIII, 1903, 469, La sentenza nella
causa D’Angelo. La stessa «Rivista» riporta anche un
articolo apparso sulla «Tribuna», a firma Fabricius, che coglie
l’occasione per sollevare il problema dei periti criticando duramente il
sistema in vigore e per sollecitare una riforma delle norme
sull’istruttoria (XXIX, 1904, 12 ss.).
[147]
APC, legisl. XXI, sess. 2a, 18 marzo 1904, 11821: «[la
commissione ministeriale per la riforma del regolamento] esiste da molto tempo
e mi sembra abbia fatto suo quello che dicono essere il precetto migliore per
le donne oneste: il non far parlare di sé. Per effetto dei suoi lavori,
il Ministro dell’interno ha modificato alcuni articoli disciplinari del
regolamento, stabilendo garanzie maggiori per l’applicazione della
camicia di forza; ma di ben altro hanno bisogno le nostre carceri, che della
modificazione di qualche articolo di regolamento».
[149] ACS, MI. DGC. AG, b. 256, 2 agosto 1903, Miglioramento del Regolamento generale delle
Carceri.
[150] Circolare 35/90 del 20
gennaio 1904, Applicazione delle
disposizioni del R. d. 14 novembre 1903 n. 484 (in ACS, MI. DGC. AG, b. 285), con cui Doria
comunica che il ministero, come, al momento della pubblicazione, non ha
ritenuto opportuno aggiungere al decreto delle disposizioni transitorie
«non soltanto perché non gli parve che ve ne fosse assoluta
necessità, ma per la considerazione altresì che intendeva il
passaggio dall’antico al nuovo sistema dovesse e potesse avvenire senza
scosse, con opportuni provvedimenti di momentanea transizione»,
così ora non crede di dover «impartire speciali istruzioni in base
ad una casistica multiforme di difficile previsione» e «affida alle
Autorità dirigenti, la applicazione delle nuove disposizioni medesime,
colla maggiore ponderazione anzitutto, e quindi col dovuto spirito di
equanimità e di rettitudine di criterî, nello intento di evitare
illegalità e parzialità di qualsivoglia natura».
[151] «Fedeli al
vecchio sistema di lasciare ai nostri collaboratori piena libertà di
discussione e di critica, non esitiamo a pubblicare quest’articolo, pur
facendo le più ampie riserve. Nota della Direzione».
[153] Dopo che il deputato
Francesco Spirito ha sollevato la questione con ripetute interrogazioni, come
ha già preannunciato il sottosegretario Ronchetti nella risposta, il
governo, con il r. d. 2 agosto 1902 n.
[154] «Se si trattasse
soltanto di istituti aventi finalità esclusivamente educative, od anche
semplicemente correttive, si potrebbe esigere allora con piena ragione il bando
assoluto di ogni concetto di forza materiale nello indurre gli spiriti traviati
al loro morale miglioramento; ma bisogna non dimenticare che il carcere
è in genere un luogo di espiazione, il quale porta per natural
conseguenza un contingente di dolore nella privazione della libertà,
nell’astensione forzata dalle più comuni soddisfazioni della vita
libera; bisogna partire dal principio che nel carcere si deve soffrire in
ragione diretta del benefizio, vero o supposto, che è frutto del reato,
e che questa sofferenza è inseparabile contributo di reintegrazione dell’ordine
giuridico e morale offeso od infranto. Se dunque il carcere è e deve
essere principalmente una punizione, e rappresenta nella sua essenza un
concetto prevalente di coercizione, ne consegue per logica illazione che tutta
la sua azione intrinseca sia materiata di forza, e dalla forza stessa come
principio inconcusso debba attingere ogni sua consistenza».
[155] «Noi fummo fra i
primi nel mondo civile e civilizzato ad abolire di fatto e poi di diritto la
pena di morte, mentre molti paesi la mantengono ancora nei loro Codici e la
eseguono; e non per questo si ottenne una diminuzione nella delinquenza. Noi
siamo i primi, anzi gli unici, ad abolire oggi coazioni e gastighi corporali
pei colpiti dalla legge penale … E ciò quando tutti indistintamente
questi paesi, nell’applicazione pratica del diritto penitenziario, si
servono di tali mezzi di repressione con larghezze per noi inusitate ed
incredibili».
[156] «…
parrà questa forse una eresia scientifica a chi, basandosi sui
criterî che informano la nuova scuola di diritto penale (…)
consideri i detenuti, e i delinquenti specialmente, come altrettanti anomali,
bisognosi di custodia e di cura piuttostoché meritevoli di subire una
pena; avvegnaché pur accogliendo in senso assoluto questo principio, non
si possa egualmente astrarre dal concetto del costringimento corporale che
rappresenta il gastigo, quando si tratta di reprimere o violenze, o follie come
dir si vogliano gli atti di ribellione all’ordine costituito. Ed anche se
questa repressione violenta potesse ritenersi eccessiva nel senso subbiettivo,
essa è nondimeno necessaria dal punto di vista del prevalente collettivo
interesse di una comunità, di un reggimento d’ordine, e
massimamente di un Carcere, dove, checché possa dirsi in contrario, sono
individui perversi, sia pure per fatale morbo psichico trascinati al malefizio,
i quali costituiscono un elemento antisociale pericolosissimo».
[157] «E questa forza
violenta, sia detto una volta per sempre, non ha nel concetto nostro lo scopo
di produrre un dolore fisico o morale, per ispirito di crudeltà
reazionaria o per bramosia di vendetta individuale o sociale; non mira a frenar
le tendenze od a sopprimere gl’istinti, od a servire di correttivo
sistematico. Sarebbe tale presupposto offesa gratuita quanto immeritata a tutta
un’Amministrazione, ad un personale non certo sospetto di siffatti
intenti disumani, di un personale che, se ha una pecca, questa è, in
generale, di soverchia mitezza d’animo nello esercizio di facoltà
e di poteri disciplinari, e di predilezione per i mezzi persuasivi morali.
E’ quindi il natural diritto della difesa – e della difesa sociale
principalmente, il quale reclama assolutamente quell’uso di forza che con
malintesa pietà si combatte in astratto da tanti ignari della umana
miseria che si cela entro le mura di una prigione; è la difesa pura, e
non l’offesa, nella lotta diuturna fra la legalità e
l’arbitrio, fra l’ordine e il disordine, fra il delitto e la forza,
fra la ragione cosciente e la cieca brutalità, sia pure, tra la salute e
la infermità, in un campo nel quale pur troppo unica terapeutica
è precisamente la forza. Perché è ingenuo il pensare che
si possa colle blandizie verso i normali o colle astuzie presso gli anormali il
rispetto alla legge e ai suoi rappresentanti; e se riesce invero doloroso in
ogni caso il convincimento radicato dalla esperienza, e che non può
certo scuotersi colle tirate rettoriche dei moralizzatori idealisti a base di
dottrina pedagogica applicata alla educazione carceraria».
[159] V. le lettere dei
direttori di Padova, L’Aquila e Alghero (11 gennaio 1904), Napoli, Pesaro
e Cosenza (12 gennaio), Turi (12 gennaio e 26 marzo), Piombino (13 gennaio), in
ACS, MI. DGC. AG,
b. 285.
[164] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 11 gennaio 1904:
«… se per i detenuti affetti da epilessia si può, quando il
Sanitario lo ravvisi opportuno, continuare l’uso del letto di forza, che,
dopotutto, non è che un letto di sicurezza».
[165] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 18 gennaio 1904:
«… se nei casi in cui il Sanitario ne riconoscesse necessario, e ne
ordinasse per iscritto l’uso, può ancora adoperarsi, per i detenuti
furiosi il letto di sicurezza».
[166] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 22 gennaio 1904:
«… se si può continuare l’uso dei letti speciali pei
detenuti epilettici e maniaci, rinchiusi in questa casa per cronici. Detti
letti sono pressoché eguali agli altri e cioè in ferro, uso
brande, ma sono fissati sul pavimento ed hanno all’ingiro un’asta
in modo da poter applicare all’occorrenza delle cinghie per assicurare
gli infermi nell’accesso del male. Questi Sanitari ritengono indispensabile
tale mezzo, non bastando la cintura di sicurezza per i malati suddetti, onde
garantire non facciano danno a loro stessi ed agli altri».
[167] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 6 febbraio 1904:
«… se è ancora consentito, per i pazzi furiosi, in attesa
del loro passaggio in un manicomio, l’uso del letto di forza, ed in caso
affermativo indicarmi il modello ed il sistema di tale letto, per modificare,
ove occorra, quelli esistenti»; qualche mese dopo, lo stesso direttore
inoltra una «richiesta di accessori per letto di forza» (16 giugno
1904).
[170] Una prima risposta al
quesito del direttore di Turi, secondo cui «per i detenuti agitati
può continuarsi l’uso della camicia di forza con ogni cautela e
solo quando il Sanitario lo ravvisi opportuno, sino a che anche codesto
Stabilimento non sarà provvisto della cintura di sicurezza», non
viene inoltrata.
[171] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, risposte ai
direttori di L’Aquila (22 gennaio 1904), Pianosa (29 gennaio), Venezia (13
febbraio), Turi (26 marzo), Firenze (29 marzo).
[180] M. Rygier, Il Governo e
l’infanzia abbandonata; Il
riformatorio maschile di Pisa; Il
Riformatorio «
[181] ACS, MGG. DGI. AG, b. 34, 21 giugno e 26
agosto 1907; il direttore di Alessandria motivava così la sua richiesta:
«da parte dei teppisti milanesi e torinesi, che abbondano in questo
Penitenziario, sovente avvengono delle ribellioni alle Guardie in ispecie
quando trovansi rinchiusi nelle celle di punizione. Ad evitare la colluttazione
che spesso ridonda a svantaggio del personale di custodia, il quale dopo aver
ricevuto calci e pugni dai riottosi è accusato di violenze usate a
questi che adducono a prova le contusioni da essi stessi procuratisi, a volte
anche a studio, proporrei l’acquisto dell’apparecchio
“Minimax”».
[186] «RDC»,
XXXIII, 1908, 34 ss.: «Si riteneva in buona fede che un vero rinnovamento
morale dovesse seguire a siffatto mutamento di sistema; si sperava che i
detenuti in generale avessero a mostrarsi grati delle cure
dell’amministrazione in loro favore, e che per virtù di quello
spirito di particolare mitezza al quale il governo disciplinare andava
informandosi, dovesse mancare ad essi perfino l’occasione di agitarsi e di
ribellarsi. Vane speranze! Quel senso e quel sistema di mitezza, lungi dal
frenare gli atti di violenza dei criminali, ci risulta che valsero invece ad
imbaldanzirli. Ebbero essi la illusione che la legge si piegasse servile alle
loro protervie piuttostoché foggiarsi alla civiltà dei tempi
cancellando l’onta della corporale repressione per il miglioramento
morale di essi medesimi; e dalla clemenza delle nuove disposizioni trassero,
sventuratamente, maggior forza di resistenza e di ribellione. Così in
nome della scienza, scrutatrice sottile delle cause psichiche del male, in nome
dell’umanesimo moralizzatore e vindice, la disciplina, che pure è
elemento di ordine e di virtù educatrice, soffrì una scossa
notevole negli stabilimenti carcerari. E ne derivò uno stato di
incertezza nella materiale esecuzione dei provvedimenti disciplinari, un
malessere morale negli esecutori, un disagio imbarazzante
nell’amministrazione in generale».
[188] Perché i criminali aumentano e peggiorano colle nuove mitezze
penali e carcerarie, in «RDC», XXXIII, 1908, 66 ss.:
«… quando è immobilizzato dai lacci, e dalla cintura di
sicurezza, scemeranno le manifestazioni esterne, ma si renderà sempre
peggiore l’eccitamento esterno … Fino a che le esplosioni causate
da anomalie interne si trattano come perversità volontarie, si
avrà l’effetto presente, che è quello di moltiplicarne il
numero».
[189] Il governo dei detenuti (ripreso da «Vita»), in
«RDC», XXXIII, 1908, 112 s.: «… bisogna riconoscere
nella delinquenza un processo morboso, che ha molti caratteri comuni con la
pazzia, cui spesso è associata; e le impulsività, e le
agitazioni, e le ribellioni persistenti, allora, non sono che effetti fatali
dello stato morboso del delinquente … non posso parlare di repressione
con mezzi materiali, tanto meno di strumenti
o congegni per attutire le forze fisiche degli esaltati».
[191] «RDC»,
XXXIII, 1908, 497 ss.: «Oggi la carezza è debolezza, la camicia di
forza è barbarie, le doccie fredde o tiepidi sono inutili come le buone
letture o la cintura di sicurezza, come il lavoro o le stanze imbottite».
[194] F. Saporito, Gl’incorreggibili
e il loro governo razionale. Note di psicopatologia criminale, in
«RDC», XXXIII, 1908, 76 ss., 155 ss., 437 ss. (per le citazioni 450
s.).
[195] Così Cesare
Civoli, professore di diritto e procedura penale a Pavia, Paolo Pellacani,
professore di medicina legale a Bologna, il dottor Carlo Mucciarelli, Guido
Guidi, aiuto alla clinica psichiatrica di Roma; anche Ugo Conti, ordinario di
diritto e procedura penale all’Istituto superiore di studi commerciali di
Roma, giudica positivamente il decreto, ma pensa che «quando si abbiano
accessi di furore, può essere provvida la camicia di forza –nel
modo preciso in cui essa interviene nella terapeutica delle cliniche
psichiatriche – quella camicia di forza che in nessun modo può
essere concepibile come punizione
disciplinare»: «RDC», XXXIII, 1908, 71 ss., 115 ss., 180 s.
[196] Così ad esempio Rossana [Z. Centa Tartarini], Un
interessante «Referendum», in «RDC», XXXIII, 1908,
137 ss., sostiene che «i detenuti ribelli, indisciplinati ed agitati per
uno spostamento organico dovuto alla passione, al rimorso, alle privazioni, ai
dolori, dovranno essere curati come tutti gli ammalati; gli altri, i detriti
umani che la natura nel suo possente moto di ricambio lascia monchi, storpi,
depravati o corrotti, sieno pietosamente raccolti e segregati e messi
nell’impossibilità di nuocere», in casi estremi anche con il
ricorso a bende, fasce, uose, camicia di forza, ma «coordinato a sistemi
e criteri prettamente scientifici, con mezzi acconci, in locali adatti, da un
personale appositamente educato e sopra soggetti preventivamente studiati e
psicologicamente sezionati»; v. anche il parere di G. Crippa, direttore del reclusorio di
Milano, in «RDC», XXXIII, 1908, 301.
[197] Rossana, Un
interessante cit., 139: «Soppressa per gli agitati la camicia di
forza, fu sostituita con una cintura di sicurezza che obbliga le guardie ad una
lotta non sempre fortunata col detenuto stesso, che naturalmente tenta di
ribellarsi»; E. Denise, in
«RDC», XXXIII, 1908, 485: «la cintura di sicurezza (…)
non fu all’atto pratico riconosciuta idonea all’uso che deve farsene,
perché, oltre la difficoltà di applicazione, il paziente rimane
colle mani quasi libere e può inoltre camminare nella cella. Egli
perciò riesce a liberarsene facilmente»; F. Bufardeci, in «RDC», XXXIII, 1908, 488:
«La cintura di sicurezza (…) è la negazione di ogni mezzo
repressivo. Un profano che la esamini ne riporta un sentimento di orrore,
credendola uno strumento di tortura; un delinquente che la cinge se ne ride e
non di rado se ne libera; senza dire che quando non voglia che gli si applichi,
occorrono molti agenti e molte fatiche, prima che si raggiunga lo scopo»;
v. anche infra le osservazioni di
Zerboglio, Mirabella, De Maria e Alborghetti.
[198] «RDC»,
XXXIII, 1908, 144 ss.: «Tutti gli altri mezzi contenzione o non sono
adatti a contenere e se li tolgono; sono talora dannosi potendo produrre
escoriazioni, contusioni, talora lussazioni, raramente anche fratture negli
sforzi quasi sovrumani a cui si abbandonano questi infelici nei periodi di
grave agitazione. La camicia di forza, contro la quale tanto si è
parlato e protestato e si protesta tuttora, da alcuni forse anco senza
conoscerla, inferociti contro il vocabolo più che contro
l’espediente curativo, è l’apparecchio più innocuo
che si conosca, considerando lo scopo a cui è destinato,
sull’efficacia del quale si può contare quando sia applicato
convenientemente e sia sorvegliato il paziente dopo la sua applicazione …
Occorre però, è bene ripeterlo, che sia applicata a dovere (e per
questo sono necessari infermieri o secondini pratici) e che da quando a quando
ne sia sorvegliata l’applicazione. Con questo apparecchio però si
impedisce che un impulsivo si faccia del male, tenti alla propria esistenza e a
quella degli altri e si è sicuri che il paziente non se la toglie. Tutti
gli altri apparecchi non offrono questa sicurezza, sono causa di contusioni, di
escoriazioni molto più frequenti di quelle che può produrre
l’apparecchio tanto temuto, per quanto sia stata all’ordine del
giorno in passato molto più che adesso, essendo ridotta la sua
applicazione a pochissimi casi, dall’epoca di Esquirol, a cui si deve,
sino ad oggi. Oggi anzi si dice che se ne è soppresso l’uso in
qualche manicomio in ogni caso; ma se
ciò si è fatto nei manicomî, non vediamo la
necessità che altrettanto si attui nelle carceri».
[208] «RDC», XXXIII, 1908, 260 ss. Dello stesso Saccozzi v. anche Carcere
e manicomio. Le diverse categorie dei delinquenti e dei folli in ordine al loro
trattamento, in «RDC», XXXV, 1910, 138 ss. e 208 ss.
[211] C. Polidori, Etiologia
– profilassi – cura della violenza ed incorreggibilità dei
detenuti, in «RDC», XXXIII, 1908, 224 ss., 345 ss., 375 ss.
(per la citazione 381 ss.).
[213] «RDC», XXXIII,
1908, 243 ss.: «… mai sul letto di forza, ma sopra una sedia
apposita, dove, con semplicissimi ordegni, possa rendersi all’impotenza
l’individuo; sedia che con un semplice meccanismo possa di notte mutarsi
in letto. Il letto di forza attuale, vecchio ordegno da museo, non corrisponde
agli scopi desiderabili; l’individuo il quale è punito con tale
strumento, necessita di una rigorosa sorveglianza, deve essere guardato a vista
e servito ad ogni bisogno. Egli con astuzia può facilmente liberarsi dai
manicotti e dalle cinghie che lo tengono immobile ed essere quindi di pericolo
a sé e agli altri. Invece con una sedia di forza, priva di cinghie e di
serrature, ma con manipole e gambali di ferro, che immobilizzino le mani e le
ginocchia, gli atti di ribellione si renderanno inutili».
[219] Relazione e R. D. 18 giugno 1931 n. 787. Regolamento per gli istituti
di prevenzione e di pena, art. 158; nella relazione Rocco scrive in
proposito che «l’applicazione della cintura di sicurezza è
ammessa con tutte le cautele e le limitazioni suggerite dalla più
progredita tecnica, autorizzandola nei casi di assoluta necessità e
disponendosi l’opportuno controllo medico, appena possibile».
[220] Nel
[221] Solo alcuni esempi: il
27 dicembre 1975, nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Pozzuoli,
Antonia Bernardini muore bruciata nel letto di contenzione a cui è
legata da 55 giorni: il tragico fatto dà luogo anche a una lunga vicenda
giudiziaria che, dopo le condanne in primo grado, si conclude nel 1979 con
un’assoluzione generale in appello e porta comunque alla chiusura di
Pozzuoli, le cui ricoverate vengono trasferite a Castiglione delle Stiviere
(v., oltre alla stampa dell’epoca, I.
Cappelli, Gli avanzi della
giustizia. Diario di un giudice di sorveglianza, Roma 1988, 57 ss.); sempre
nel 1975 l’ex detenuto Alfredo Bonazzi racconta di essere stato legato al
letto di contenzione per sessantotto giorni consecutivi nell’ospedale
psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia (Squalificati
a vita, Torino 1975); vent’anni dopo, nella stessa struttura, viene
denunciato il caso di un uomo contenuto da venti mesi e la direttrice dichiara
di non avere personale sufficiente per seguirlo altrimenti (v. D. Barbieri, Un lager italiano: quei matti da slegare, in
«Avvenimenti», 20 settembre 1995). Cfr. anche alcune delle
testimonianze (su Barcellona Pozzo di Gotto e Aversa) riportate in A. Ricci, G. Salierno, Il carcere in Italia, Torino 1971, 109
ss. e quella di un detenuto, portato in manicomio criminale e tenuto per sei
mesi quasi sempre legato al letto di contenzione, in F. Montagni, D. Protti, Le
carceri italiane. Un’accusa per tutti, Bologna 1972, 81 s.
[222] E. Sanna, Inchiesta
sulle carceri, Bari 1970, 51 (il volume, corredato anche da foto, è
frutto di un’inchiesta condotta con il regista Arrigo Montanari per un
reportage televisivo, Dentro il carcere,
trasmesso nel gennaio del 1970); Ricci,
Salierno, Il carcere cit.,
111.
[223] Circ. del ministro Zoli
n. 4014/2473 del 1° agosto 1951: «Deve essere assolutamente bandita
quale mezzo atto a riportare il detenuto al rispetto dell’ordine e della
disciplina, la cintura di sicurezza, la quale dovrà essere usata
solamente dietro prescrizione medica, e nei casi in cui sia assolutamente
necessaria per cautelare la vita stessa del detenuto, raggiunto da
infermità mentale o da crisi nervosa tale per cui si rende pericoloso
per lui o per gli altri il lasciarlo libero nei propri movimenti»
(«Rassegna di studi penitenziari», I, 1951, 793); cfr. Neppi Modona, Carcere cit., 1987 s. e 1990.
[224] V. ad es. A. Bonazzi, Ergastolo azzurro, Torino 1970 e le numerose testimonianze di
detenuti, ma anche di un direttore e di alcune guardie, riportate sempre in Ricci, Salierno, Il carcere cit., 109 ss. e quelle sulle Murate di Firenze in Montagni, Protti, Le carceri cit., 62, 85 ss., 125, 131, 138.
[226] Ricci, Salierno, Il
carcere cit., 109; v. anche Sanna,
Inchiesta cit., 51 s.: «Il
letto di contenzione (o “cintura di sicurezza”) viene ancora usato
con frequenza. Di che cosa si tratta? Ne ho visto un esemplare nel
penitenziario di Augusta. E’ in un punto appartato del carcere. Vi si
arriva attraverso un dedalo di corridoi dall’aria viscida e un po’
equivoca che avevano un tempo i vespasiani e i casini di infima qualità.
Si accede alla cella attraverso una porta decrepita munita di catenacci enormi
e di spioncino. La cella è una stanza nuda di due metri per tre. Sulla
parete di sinistra in alto si apre una finestra piccolissima, munita di
inferriate. Nel mezzo della cella sta il letto o “cintura” come lo
chiamano i funzionari ministeriali. E’ una specie di branda, color
marrone per la sporcizia che vi si è depositata: un oggetto incredibile
nella sua decrepitezza, che sembra giunto direttamente dal medioevo. Alle
estremità del letto stanno arrotolate quattro cinture di cuoio,
anch’esse incrostate di sporcizia e vecchie di una vecchiezza di secoli:
vengono usate per immobilizzare le braccia e le gambe del detenuto. Ma la cosa
più raccapricciante e nefanda è nel mezzo del letto. La branda
infatti si avvalla verso il centro, dove si apre, contornato dallo stesso cuoio
e sporco delle cinture, un buco. Sotto il letto all’altezza del buco,
c’è un pitale. Si intuisce come funziona la “cintura”.
Chi protesta o dà in escandescenze, magari per giustificati motivi,
viene prelevato dalla cella, denudato, legato al letto. Ci rimarrà
finché non si sarà calmato».
[228] C. Mastantuono, Problemi
di medicina penitenziaria, in «Rassegna di studi penitenziari»,
1970, 506 ss. che sintetizza così le sue proposte sul tema:
«… 3) Nomina di una commissione medica composta da patologi,
psichiatri, igienisti, per lo studio dei mezzi di coercizione ed in particolare
del letto di contenzione e della alimentazione forzata mediante sonda. 4)
Disposizione normativa sulla cintura di sicurezza circa la sorveglianza a vista
da parte di un agente infermiere, di un soggetto assicurato».
[230] V. le interrogazioni al
ministro di Grazia e giustizia di Pertini; Calosso; Salerno, Giovanni Leone e
Stefano Riccio; Persico in Atti dell’Assemblea Costituente.
Discussioni, IX, 2177 ss., 19 novembre 1947.
[231] «La stampa», 28 gennaio-2 marzo 1951; per una cronaca
del processo, che si conclude con la condanna della guardia a 11 anni per
omicidio preterintenzionale, del medico ad 1 anno per omicidio colposo, del
detenuto a 6 mesi per lesioni e con l’assoluzione di alcune guardie imputate
di maltrattamenti ad altri detenuti, v. anche «Il mattino», 29
gennaio-2 marzo 1951.
[233] Cappelli, Gli avanzi cit.,
38 ss., che nella relazione descrive anche il famigerato attrezzo e il modo in
cui al detenuto sono state procurate le lesioni: «Il letto di contenzione
è costituito generalmente da un rozzo giaciglio con un buco centrale
atto a favorire le funzioni corporali di evacuazione nel sottostante bugliolo.
Un ruvido panno di tela, necessariamente antiigienico perché fisso e
inamovibile, ricopre una precaria imbottitura, e di altrettanto ruvida materia
sono fasce e legami atti a costringere le estremità degli arti superiori
e inferiori. La contenzione viene talora eseguita, come nel caso del detenuto
B., con la misura supplementare di una fascia che, passando dietro il collo e
sulla regione toracica, interessa più o meno strettamente i cavi
ascellari, in modo da costringere a una posizione assolutamente supina.
L’Uomo è previamente
denudato, - sempre necessariamente scoperte le parti addominali e genitali e le
cosce, - ricoperto sommariamente, se del caso, da una rozza coperta non
rimboccabile a causa del raccordo tra i legami e le sponde perimetrali del
letto».
[235] S. Ronconi, Diario
carcerario, www.ristretti.it.
[236] L. 26 luglio 1975 n.
354, Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della
libertà, art. 41: «Non è consentito l’impiego della
forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia
indispensabile per prevenire e impedire atti di violenza, per impedire
tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva,
all’esecuzione degli ordini impartiti. Il personale che, per qualsiasi
motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti o degli
internati, deve immediatamente riferirne al direttore dell’istituto, il
quale dispone, senza indugio, accertamenti sanitari e procede alle altre indagini
del caso; Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non
sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può
far ricorso a fini disciplinari ma al solo fine di evitare danni a persone o
cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto. L’uso
deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere
costantemente controllato dal sanitario …».