Università di
Sassari
Livio
1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum*
Sommario: 1. L’istituzione
del sacerdozio pontificale. – 2. Quibus hostiis sacra fierent. – 3. Quibus diebus sacra
fierent. –
4. Ad quae templa sacra fierent. – 5. Atque unde in eos sumptus
pecunia erogaretur.
– 6. Cetera quoque omnia
publica privataque sacra. – 7. Funebria.
– 8. Prodigia.
– 9. Potenzialità
sistematiche del passo liviano. – 10. Adempimenti
rituali. – 11. Conclusioni.
Liv.
1.20.5-7:
5. [Numa]
Pontificem deinde Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia
exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa
sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. 6. Cetera quoque
omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo
consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus
peregrinosque adsciscendo turbaretur; 7. nec caelestes modo caerimonias, sed
iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque
prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Ad ea
elicienda ex mentibus divinis Iovi Elicio aram in Aventino dicavit, deumque
consuluit auguriis quae suspicienda essent.
I
pontefici romani[1],
fin dal loro apparire, si presentarono come esperti ufficiali dei riti[2]
patri della religione romana[3].
La citata testimonianza di Livio in merito alla creazione del collegio dei
pontefici[4]
da parte di Numa Pompilio[5],
mostra la peculiarità delle funzioni originarie di questi sacerdoti. Lo
storico patavino, infatti, offre sul punto un racconto particolareggiato, in
cui vengono elencate le vaste competenze pontificali.
Livio
tramanda che Numa Pompilio[6],
nel dare forma all’organizzazione sacerdotale romana[7],
affidò il pontificato[8]
a Numa Marcio, figlio di Marcio, esponente dei patres, legato alla stirpe regale, genero dello stesso rex e padre di Anco Marcio[9].
Il re
sabino affidò al pontefice tutti i sacra[10],
dopo averli posti per iscritto[11]
in maniera estesa e dettagliata, sacra
omnia exscripta exsignataque[12],
minuzia che rivela la particolare importanza dell’argomento, e la
necessità di procedere ad una fissazione della liturgia[13].
I sacra, infatti, come anche gli auspicia, rappresentavano i pilastri
fondamentali della religione romana[14].
L’importanza
del compimento da parte pontificale dei sacra
non era sconosciuto neanche alla
giurisprudenza severiana, come emerge chiaramente da un passo ulpianeo
conservato nel Digesto:
D. 2.4.2 (Ulp. 5 ad edict.): In ius vocari non oportet neque consulem neque
praefectum neque praetorem neque proconsulem neque ceteros magistratus, qui
imperium habent, qui et coercere aliquem possunt et iubere in carcerem duci:
nec pontificem dum sacri facit: nec eos qui propter loci religionem inde se
movere non possunt: sed nec eum qui equo publico in causa publica transvehatur.
Praeterea in ius vocari non debet qui uxorem ducat aut eam quae nubat: nec
iudicem dum de re cognoscat: nec eum dum quis apud praetorem causam agit: neque
funus ducentem familiare iustave mortuo facientem[15].
Qui, tra
i soggetti i quali non oportet chiamare
in giudizio, dopo l’elenco dei magistrati muniti di imperium e di potere coercitivo, si ritrova il pontefice
nell’atto di compiere le cerimonie, un’azione che viene indicata
con il verbo facere, che, seppure sia un termine che possiede
infiniti significati, nel brano conserva accostato a sacer l’accezione tecnica di sacrificare[16].
Secondo il commento di Ulpiano questa attività risultava talmente
importante ed eminente da impedire il normale iter per la tutela degli
interessi privati.
Il
controllo pontificale sui sacra era meticoloso, e ciò lo si
evince dalla precisa elencazione data da Livio[17]
delle materie su cui doveva estendersi la competenza dei pontefici[18]:
hostiae, dies, templa, pecunia, cetera omnia publica privataque sacra, funebria,
prodigia. Un elenco questo in cui non vengono citati gli dèi,
sebbene la classificazione dei loro nomi fosse pur sempre di competenza
sacerdotale. Nonostante l’assenza di un richiamo alle divinità, si
tratta di un inventario, quasi teocentrico: si espongono le materie legate sia
ad una completa soddisfazione del divino (le vittime sacrificali, i giorni in
cui celebrare le attività religiose, gli spazi sacri, i patrimoni da
utilizzare per il culto, la totalità dei riti, compresi quelli
funerari), sia ad una perfetta comprensione delle manifestazioni ultraterrene,
mirata alla riparazione di eventuali errori umani. Argomenti, questi, che
riguardavano un sistema in cui gli spazi e i tempi umani sono allo stesso tempo
spazi e tempi divini[19].
Un sistema che trova la sua coerenza proprio in una minuziosa enumerazione di
ogni aspetto teso ad una perfetta convivenza tra dèi e Romani, nel tempo
e nello spazio[20],
in quanto entrambi parti di una stessa societas, regolata dalla medesima
norma, di una civitas communis deorum atque hominum, secondo la visione
ciceroniana[21].
L’aver
iniziato, non a caso, l’elenco degli argomenti di competenza pontificale
con le hostiae[22] dimostra che i sacrifici di esseri
viventi erano il fulcro della pratica cultuale romana[23],
ed il problema della scelta delle hostiae
purae[24]
doveva essere di particolare importanza in età monarchica, vista la
cautela con la quale, secoli più tardi, il pontefice massimo e giurista
Tiberio Coruncanio[25],
nel III secolo a.C., si espresse intorno alla purezza rituale dei ruminanti in
relazione all’età. Infatti gli animali solo diverso tempo dopo la
loro nascita rispondevano ai requisiti richiesti dal ius sacrum alle vittime sacrificali. La notizia viene riportata da
Plinio, il quale, dopo aver elencato l’età in cui maiali, pecore e
buoi divenivano puri, ricorda il responso pontificale che negava la
possibilità di utilizzare per i sacrifici i ruminanti fin tanto che
possedessero ancora due denti della prima dentizione: Coruncanius ruminalis hostias donec bidentes fierent, puras negavit[26].
A partire
dal periodo tardo repubblicano per il significato del termine bidentes furono diverse le spiegazioni
date dagli antiquari[27],
ma indipendentemente dalla versione che si intende accettare, v’è
da sottolineare come da tali riflessioni emerga l’autorità
pontificale in materia[28].
La
competenza dei pontefici sulle vittime sacrificali[29]
è confermata, inoltre, da un passo tratto dal secondo libro del de legibus ciceroniano:
Cic., de
leg. 2.29: Iam illex institutis pontificum et haruspicum non mutandum est,
quibus hostiis immolandum cuique deo, cui maioribus, cui lactentibus, cui
maribus, cui feminis.
Risultava
immutabile ciò che veniva stabilito dai pontefici e dagli aruspici in
materia di vittime che dovevano essere immolate a ciascuna divinità[30].
Qui Cicerone[31]
fa riferimento anche a due dei requisiti che dovevano essere controllati dai
sacerdoti: l’età delle vittime (lactentes/maiores)[32],
e il loro sesso (maris/feminis)[33].
Ma, oltre
a queste, vi erano altre caratteristiche delle hostiae di cui i
pontefici dovevano tenere conto[34].
Ad esempio, l’oratore non fa riferimento ad un attributo importante,
quale il colore dell’animale sacrificale.
Questo
controllo della colorazione delle vittime, invece, viene ricordato da Apuleio
tra le tante forme di osservanza religiosa dei diversi popoli:
deo Socrat. 149: Itidem pro
regionibus et cetera in sacri si differunt longe varietate: pomparum agmina,
mysteriorum silentia, sacerdotum officia, sacrificantium obsequia; item deorum
effigiae et exuviae, templorum religiones et regiones, hostiarum cruores et
colores[35].
Sebbene
non si faccia specifico riferimento alla sola religione romana, si può comprendere
come nell’antichità il colore della vittima da sacrificare e il
modo della sua messa a morte fosse fondamentale per evitare un mancato
gradimento da parte della divinità[36].
Per un
totale apprezzamento divino del sacrificio era inoltre importante procedere
alla probatio per evitare che le vittime non presentassero anomalie fisiche[37].
Le hostiae idonee al sacrificio erano
qualificate eximiae, termine tecnico sacerdotale:
Macr., sat. 3.5.6: Eximii quoque
in sacrificiis vocabulum non poeticum ™p…qeton
sed
sacerdotale nomen est. Veranius enim in Pontificalibus quaestionibus docet
eximias dictas hostias quae ad sacrificium destinatae eximantur e grege, vel
quod eximia specie quasi offerendae numinibus eligantur[38].
Il
vocabolo rimanda ad un’individuazione della vittima che veniva separata
dal resto degli animali della sua specie, posta quindi al di fuori del gregge,
perché destinata al sacrificio. L’ultima frase del passo,
però aggiunge che il termine veniva usato anche ad indicare la vittima
che per le sue particolarità zootecniche era idonea ad essere offerta
agli dèi.
Oltre
all’accertamento della purezza rituale delle hostiae, i pontefici dovevano occuparsi delle divinità alle
quali indirizzare i sacrifici (quibus
hostiis-cuique deo)[39],
come emerge dal già citato testo ciceroniano de leg. 2.29 supra.
In un
altro brano tratto dal de legibus si
riafferma il compito dei sacerdoti di conoscere le vittime adatte per ciascun
dio[40].
Ma l’asserzione fondamentale è l’assoluta competenza
pontificale sul culto di ogni divinità[41]:
Cic., de leg. 2.20: Divisque aliis alii sacerdotes, omnibus pontifices,
singulis flamines sunto.
Questa
particolare competenza si può ricollegare ad un’altra compilazione
attribuita a Numa, la stesura per iscritto degli indigitamenta, i nomina
deorum et rationes ipsorum nominum[42].
Gli appellativi degli dèi che si utilizzavano nei rituali andarono poi a
confluire nei libri pontificali. Varrone, infatti, secondo una notizia di
Servio[43],
ricordava che gli indigitamenta
costituivano la base originaria dei libri dei pontefici[44].
La
precisa conoscenza delle singole divinità era di estrema rilevanza e
dipendeva dal fatto che a Roma si invocavano gli dèi per ottenerne un
vantaggio[45],
e pertanto la conoscenza dei nomi, delle competenze e delle vittime gradite era
finalizzata all’ottenimento di un determinato scopo[46].
Vista
l’ampia conoscenza pontificale relativa ai nomi delle divinità,
sorge l’interesse del perché una simile facoltà non
rientrasse tra quelle originarie elencate da Liv. 1.20.5. A titolo di mera
ipotesi si può supporre che tale competenza fosse inclusa nel
riferimento al controllo delle vittime sacrificali, dato lo stretto rapporto
che è emerso dall’analisi delle fonti tra hostis e divis.
Questa
funzione era legata ad una delle prime riforme attribuite a Numa Pompilio, la
composizione di un calendario[47]
di 12 mesi che si basava sulle fasi lunari[48],
che rimase in vigore fino alla riforma di Giulio Cesare[49].
Il
sistema calendariale così creato presentava una struttura complessa, in
cui l’anno civile non corrispondeva a quello naturale[50].
Per tale motivo bisognava aggiungere un mese intercalare ogni due anni, e
questo compito venne affidato ai pontefici. Si trattava di un incarico di
estrema delicatezza, che richiedeva conoscenze tecniche precise e che
attribuiva un enorme potere, come emerge dall’orazione ciceroniana pro
Murena[51],
in quanto la stessa vita costituzionale della città ruotava intorno al
calendario.
In
riferimento alla riforma, Livio afferma che Numa stabilì la distinzione
tra giorni fasti e quelli nefasti, legata all’agere cum populo, e quindi ai pubblici affari[52]:
Liv. 1.19.7: Idem nefastos dies fastosque fecit, quia aliquando
nihil cum populo agi utile futurum erat[53].
Si può
ipotizzare che anche
Serv. Dan., in Verg. Georg. 1.270: Sane quae feriae a quo genere hominum vel
quibus diebus observentur, vel quae festis diebus fieri permissa sint, siquis
scire desiderat, libros pontificales legat.
Dopo una prima
distinzione sacrale dei giorni da parte del re sabino, fu
l’attività pontificale ad essere mirata alla compositio anni, in quanto il collegio procedeva alla compilazione
della lista dei giorni fasti, nefasti e comiziali[54]:
Cic., de
leg. 2.29: Cum est feriarum festorumque dierum ratio in liberis requietem
litium habet et iurgiorum, in servis operum et laborum; quas compositio anni
conferre debet ad perfectionem operum rusticorum. Quod ad tempus ut
sacrificiorum libamenta serventur fetus que pecorum, quae dicta in lege sunt,
diligenter habenda ratio intercalandi est; quod institutum perite a Numa
posteriorum pontificum neglegentia dissolutum est.
Qui siamo
in presenza di una importante testimonianza sul rapporto tempo /
attività umana / sacrifici. In particolare nei giorni dedicati alle
celebrazioni sacre[55]
alcune attività non potevano essere svolte né da liberi,
né da schiavi[56].
Nel complicato computo per la composizione del calendario si doveva far
concordare il lavoro dei campi con la struttura dell’anno. Inoltre nel
calcolo per l’intercalatio[57]
bisognava collocare in maniera conforme i riti legati alle offerte di primizie
e dei parti degli animali. Tuttavia, con il tempo l’operato pontificale
si rivelò “negligente”[58]
nel procedere al computo del mese intercalare[59].
Negligenza che viene contrapposta dall’oratore alla perizia di Numa
Pompilio (perite), per una
attività che in realtà bisognava svolgere diligenter.
L’azione
pontificale in campo calendariale concerneva anche la soluzione di eventuali
problemi nell’ambito del diritto sacro. Qualora sorgessero dubbi sulla
connotazione di un certo giorno e sulla possibilità di celebrare dei
sacrifici, i pontefici si pronunciavano, in riferimento all’importanza
della questione, tramite decreto[60].
Interessante al proposito un passo di Gellio[61]
dove si ricorda che il senato, nel
Un altro
caso è riferito da Macrobio il quale ha come fonte Giulio Modesto:
l’augure Messalla richiese la consulenza pontificale intorno alla
questione se dovessero ritenersi festivi i giorni di mercato e le idi[65].
Un altro
indice della specifica competenza pontificale sui dies, è la
proclamazione con decreto da parte del collegio di alcune festività come
le feriae Latine[66],
in quanto l’importanza e il peso di simili celebrazioni richiedeva un
atto formale.
Secondo
Livio i pontefici ebbero l’incarico di occuparsi della precisa
definizione dello spazio in cui svolgere i riti[67].
In generale
il termine templum[68],
utilizzato nel passo, non deve essere inteso solo come edificio di culto.
Infatti, nella teologia augurale, la parola, oltre ad designare uno spazio
liturgico stabilito in terra e nel sottosuolo, indicava anche una suddivisione
sacerdotale della volta celeste[69].
Questa
ripartizione spaziale emerge dalla definizione di templum data da
Varrone. Il grammatico procede ad una tripartizione dei templa: ab
natura in caelo, ab auspiciis in terra ed a similitudine sub
terra[70].
Dal passo
si evince che le delimitazioni augurali relative alla terra si
distinguevano in locus designatus in aēre e locus inauguratus.
Il primo, locus designatus in aēre, veniva costituito attraverso la
consultazione di Iuppiter, per mezzo dei segni che potevano essere ex caelo,
oppure ex avibus[71].
Il locus inauguratus, invece, veniva determinato quando, in seguito alla
domanda presentata da un augure alla divinità, si otteneva la risposta
divina affermativa[72];
in questa procedura, la inauguratio, competenti esclusivi erano gli
auguri[73].
Il brano
di Livio, parlando delle attribuzioni dei pontefici, non fa alcun riferimento
alla suddivisione augurale dello spazio. Sarebbe da escludere, dunque, un
coinvolgimento dei pontefici nell’atto della definizione del templum e
della inaugurazione dello spazio così definito.
Nella
testimonianza liviana il termine templum si riferisce propriamente ai
luoghi di culto, o meglio, agli spazi liturgici, vista la presenza del sostantivo
sacra. Il nuovo sacerdote doveva, dopo l’attività svolta
dagli auguri, soprintendere alla consacrazione del luogo in cui svolgere i
riti, e con tutta probabilità era suo il compito di conservare e
implementare un elenco scritto redatto da Numa, ufficio questo che ben si
collega alla attività di memorizzazione del collegio.
Significativo
è l’esempio dei sacraria
Argeorum[74].
Nell’opera liviana si tramanda che fu Numa ad istituire i riti degli
Argei, procedendo anche alla consacrazione dei luoghi[75]
in cui si dovevano celebrare[76].
I sacra Argeorum furono raccolti in
un testo scritto[77] nel quale minuziosamente si elencavano
i luoghi di culto[78],
testo che venne affidato al pontefice massimo[79].
Dalle
fonti, tuttavia, in materia di spazi liturgici, non emerge solo
l’attività di memorizzazione della precisa ubicazione; in
particolare da una testimonianza macrobiana si evince l’esistenza del
controllo pontificale nella denominazione di luoghi sacri:
Macr., sat. 3.4.1:
Nomina etiam sacrorum locorum sub congrua proprietate proferre pontificalis
observatio est. Ergo delubrum quid pontifices proprie vocent
et qualiter hoc nomine Vergilius usus sit requiramus.
Qui si
ricorda l’observatio pontificale per fare un conveniente e proprio
utilizzo delle denominazioni dei loca sacra, che richiedevano quindi
precisione terminologica; un’attività che fa emergere la
caratteristica dei membri del collegio di conoscitori di ogni aspetto del
rituale liturgico.
Macrobio,
inoltre, fa riferimento al caso del delubrum[80],
luogo sacro dal controverso significato[81],
la cui nozione venne attribuita proprie dai pontefici: sarebbe questo un
esempio di autorità della giurisprudenza pontificale in materia.
Anche
durante la repubblica i pontefici avevano tra le loro competenze le questioni
degli spazi, in quanto in ultima analisi erano gli esperti della
sacralità di un luogo. Non erano quindi solo i conoscitori dei nomi dei loca
sacra, per una mera azione di memorizzazione, ma la loro generale
competenza giuridica e religiosa sui sacra si estendeva ampiamente anche
in questa specifica materia. Esemplare fu l’episodio legato alla casa di
Cicerone, questione talmente scottante che, nonostante una votazione popolare,
venne rimessa dal senato al giudizio di una commissione composta da diversi sacerdoti,
nella quale ebbero un peso rilevante i pontefici[82].
Alcune
fonti tramandano inoltre che i pontefici possedevano la facoltà
d’opporsi alla designazione di luoghi sacri[83],
e potevano rilevare eventuali irregolarità nella dedica di un tempio.
Tuttavia, la competenza non era legata solo alla conoscenza circa
l’ubicazione ed il possesso dei requisiti in materia di sacralità
dei luoghi. Da un passo del Danielino risulta che i pontefici partecipassero
anche alla consacrazione dello spazio da destinare al culto:
Serv. Dan., in Verg. Aen. 1.446:
antiqui enim aedes sacras ita templa faciebant, ut prius per augures locus
liberaretur effareturque, tum demum a pontificibus consecraretur, ac post
ibidem sacra edicerentur.
Dal brano
si evince che l’azione pontificale doveva essere successiva a quella
augurale, vista la presenza delle parole ut prius … tum demum.
Dopo la consacrazione pontificale si procedeva a sacra edicere. Il verbo utilizzato edicere rimanda ad un annuncio solenne, ad un proclamo normativo,
intorno alla sacralità di un luogo[84].
Interessante, al proposito, la notizia varroniana secondo cui il termine fanum[85],
che indica un luogo consacrato alle divinità, deriva da finis ed è ricollegabile ad
un’azione pontificale, con la quale venivano dichiarati i limiti dello
spazio sacro[86].
Le
notizie tramandateci dal Danielino e da Varrone sono da porre in relazione con
quanto indicato nelle Institutiones gaiane. Le res, infatti,
secondo l’insegnamento di Gaio, erano validamente consacrate dopo che una
legge od un senatoconsulto avessero autorizzato[87].
La consecratio[88]
era, dunque, un atto prettamente sacerdotale, per quanto i pontefici operassero
ex auctoritate populi Romani. La dedicatio[89],
invece, era un atto di diritto pubblico, che il magistrato solitamente compiva
avvalendosi di formule elaborate dai pontefici. Questi sacerdoti sovrintendevano,
infatti, all’esatto compimento del rito: redigevano la lex
dedicationis[90]
e suggerivano le precise formule dei verba[91][92],
che essi conservavano nei libri pontificii[93].
Questi verba venivano solennemente
recitate dai magistrati, come attesta un brano varroniano:
Varr., de ling. Lat. 6.61:
Hinc Ennius: ‘dico qui hunc dicare’; hinc iudicare, quod tunc ius
dicatur; hinc iudex, quod iudicat accepta potestate, id est quibusdam verbis
dicendo finis: sic enim aedis sacra a magistratu pontifice prae<e>unte
dicendo dedicatur[94].
Ciò
nonostante, vi sono alcune fonti che riportano l’azione diretta del
pontefice massimo nella dedica di templi[95].
Famoso è l’episodio della dedicatio del tempio a Giove
Ottimo Massimo compiuta dal console e pontifex
maximus Orazio Pulvillo[96],
ricordato da diverse testimonianze solo come
pontefice massimo, probabilmente in
quanto la carica era ordinariamente di estrema rilevanza per l’esatto
compimento della cerimonia di dedicazione[97].
Anche
Lucano offre una notizia degna di nota sul rapporto tra spazi rituali e
competenze pontificali sui riti. Nel suo bellum
civile si racconta che quando Cesare richiamò le coorti sparse nella
Gallia[98],
a Roma dilagò il terrore, e vi fu una fuga di massa[99].
In questa situazione politica instabile si verificarono terribili presagi e
prodigi sinistri[100].
Per comprendere il significato delle manifestazioni divine si chiamarono a Roma
dei vati etruschi. Il più anziano tra questi, Arruns, ordinò, fra
i vari provvedimenti, una processione solenne per la purificazione delle mura[101],
e in questa occasione i pontefici, sacri
quibus est permissa potestas, dunque in quanto preposti ai sacra,
dovettero longa per extremos pomeria
cingere fines[102]. Si
tratta di un importante esempio, seppur dettato da estrema necessità,
del rapporto tra l’azione sacrale dei pontefici e i luoghi sacri, e della
generale competenza pontificale sulle cerimonie.
La
competenza riservata ai pontefici intorno alla fonte cui si dovesse attingere
la pecunia per coprire le spese
relative ai sacra non era certamente
irrilevante. Qui è importante innanzitutto sapere cosa si intende per pecunia, termine che ha modificato con
il tempo la sua accezione. Come è noto pecunia deriva dalla parola pecus[103],
e poiché il bestiame era destinato agli scambi commerciali, la parola
andò ad indicare le cose mobili e in particolare la moneta. Si
arrivò in seguito a designare con pecunia
l’intero patrimonio, quando sorse la necessità nella vita
comune di una stima pecuniaria di ogni bene[104].
La legge
di Numa sugli spolia opima[105],
che sarebbe stata conservata nei libri dei pontefici[106]
e tramandata da Varrone, statuisce come si dovesse procedere agli atti di culto
prescritti in relazione al bottino di guerra[107].
La consacrazione alle divinità di questi spolia veniva compiuta
secondo un preciso ordine dal comandante militare, unitamente alla celebrazione
di sacrifici[108].
Tra i modi elencati vi è anche quello di dare una quantità di aes rude, da cui si può forse
dedurre che nel tempo a cui Livio si riferisce il termine pecunia avesse
già acquistato un significato ulteriore rispetto a quello originario,
andando a ricomprendere una merce di scambio, quale era l’aes rude[109].
È utile al proposito la ricostruzione di una glossa festina, molto
lacunosa, da cui risulta il significato del termine pecunia relativamente alle cerimonie sacrificali:
Fest., v. Pecunia
sacrificium,
Secondo
la spiegazione del grammatico nella pratica cultuale si utilizzava il termine pecunia poiché si offriva mola
pura[111]:
la farina sacrificale, infatti, era ottenuta dai fruges e dai fructus[112],
beni che costituivano il patrimonio familiare[113].
Dopo
questo breve cenno sul significato di pecunia, bisogna soffermarsi sui
motivi che portarono, durante la monarchia sabina, a regolare l’aspetto
economico dei culti delegandolo ad un intervento pontificale. Oltre a Liv.
1.20.5, in materia vi è una testimonianza di Dionigi d’Alicarnasso
secondo il quale sia sotto Romolo, sia sotto Numa, si destinavano ai sacrifici
parte delle rendite dei fondi regi[114].
Si può ipotizzare che Numa abbia cercato di razionalizzare le spese dei
culti[115],
forse perché ne era aumentato il numero, e ciò avrebbe gravato in
maniera incisiva sulle finanze della monarchia, qualora si accetti la notizia
dello storico greco. Tuttavia, dal de re publica emerge un’altra
possibile risposta. Secondo quanto afferma Cicerone, il re sabino, nel
riformare le istituzioni religiose, articolò in maniera complessa i
culti, ma ne eliminò comunque il dispendio:
Cic., de re pub. 2.27: [Numa] nam quae perdiscenda quaeque observanda essent, multa
constituit, sed ea sine inpensa. Sic religionibus colendis operam addidit,
sumptum removit.
Questa
riforma, inserita in una generale opera di fondazione del sistema religioso,
appare non necessitata da motivi economici. Si tratterebbe di una
regolamentazione ispirata dalla tendenza, perseguita anche in periodi
successivi, ad escludere ogni ostentazione di lusso e di fasto nelle
celebrazioni[116].
Tale aspirazione alla frugalità dei riti si può inserire nella
tradizione che riferisce a Numa il disegno di infondere un nuovo spirito nel
popolo Romano[117],
divenuto da tempo avvezzo alle guerre intraprese dal suo predecessore[118].
Il re avrebbe dunque limitato le spese per riportare nella città un vero
sentimento religioso.
Per
tornare alla testimonianza liviana, il Turchi ha affermato, ma la sua resta
puramente un’ipotesi, che Liv. 1.20.5 testimoni l’istituzione
numana di un erario, l’arca pontificum, proprio dei pontefici[119].
Nell’arca pontificum, che secondo il Mommsen consisteva in una
sorta di cassa religiosa centrale, confluivano in antichità i beni
derivanti da alcune attribuzioni pontificali, quali, ad esempio, i sacramenta,
le multe inflitte ai subalterni, le ammende funerarie[120].
Tuttavia, il verbo erogare[121] presente
nel passo indica l’azione del prelevare la pecunia, e non
menziona l’istituzione di alcun erario. Inoltre, con riferimento al tema
delle risorse da utilizzare per i sacrifici, il brano non offre alcuna
indicazione sull’unde.
Dalla
notizia sopra riportata di Dionigi d’Alicarnasso risulta che si
destinavano parte delle rendite dei fondi regi come risorse per il compimento
dei sacrifici.
Il
Peruzzi[122]
collega, pur non dandone spiegazione, il testo di Livio ad alcune disposizioni
attribuite a Numa, come la norma relativa alla pelex[123], e la legge sugli spolia
opima[124].
Queste leges regiae condannavano in caso di trasgressione ad un piaculum,
che consisteva nell’uccisione sacrificale di una vittima come rito
espiatorio, a carico del trasgressore.
Tuttavia,
nonostante questa indicazione nulla emerge circa l’unde; anzi, le
fonti riguardano un periodo molto successivo all’età di Numa.
Sulla base delle testimonianze si può solo affermare che ai pontefici ab
antiquo fosse stata attribuita la funzione di occuparsi del reperimento
delle risorse da destinare ai riti.
La
competenza dei pontefici intorno alla copertura finanziaria per le
attività cultuali non comprendeva il quantum,
anche se il dubbio si presentò. Livio,
infatti, racconta un fatto accaduto nel
L’argomento
della pecunia poteva divenire materia di competenza del collegio anche
in riferimento al tema del corretto adempimento di un voto. Sempre Livio
ricorda il caso del
Liv. 31.9.8: Quamquam et res et auctor movebat, tamen ad
collegium pontificum referre consul iussus si posset recte votum incertae pecuniae
suscipi. Posse rectiusque etiam esse pontifices decreverunt[134].
Dal brano
emerge come il collegio dei pontefici appaia il solo competente in materia di
esatto compimento dei riti. Per quanto riguarda la soluzione del caso vi
è un chiaro esempio di escamotage creato dal collegio, che decise
contro quanto aveva detto il pontefice massimo. Il console, infatti,
pronunciò la formula di un voto quinquennale, opportunamente modificata,
sotto dettatura del pontefice massimo[135].
Questo modus operandi da parte pontificale sarà oggetto di
riflessione nel proseguo del lavoro.
Nel sesto
paragrafo del passo liviano in esame si legge che il re sottopose alle
decisioni pontificali ogni questione in materia di sacra pubblici e privati[136],
per impedire la violazione dei riti della civitas,
elevando il pontefice a referente istituzionale che il popolo poteva consultare
per ciò che attiene alle istituzioni religiose. Il termine cetera posto a principio di frase si
riferisce a tutte le questioni non relative ad aspetti elencati nel paragrafo
precedente, in modo da rendere l’insieme delle materie di competenza
pontificale potenzialmente aperto. Il discorso viene rafforzato anche dalla
specificazione dei sacra pubblici e
di quelli privati, e dal riferimento alla ricezione di riti peregrini[137].
I culti
stranieri sono qui posti sullo stesso piano di quelli patrii, e la simmetria
è espressa nel testo da una locuzione in forma endiadica patrios ritus peregrinosque; anche questi sacra dovevano essere
posti in essere e celebrati con diligenza, e rientravano quindi nei poteri di
vigilanza e di interpretazione pontificale. Nel passo liviano, dunque, si
rinviene un forte segnale dell’originaria apertura romana[138]
verso qualsiasi forma di culto e di religiosità, che andava a formare un
sistema tollerante[139].
Tra le
funzioni attribuite al nuovo sacerdote vi era quella di fornire consulti in
qualità di interprete delle manifestazioni divine, qualora fossero sorti
dubbi in materia religiosa: ut esset quo
consultum plebes veniret[140].
Del resto ad essi era attribuita la sanctitas,
cioè la conoscenza teologica del culto divino[141].
Proseguendo
nel racconto liviano (par. 7) si legge che Numa stabilì che le prescrizioni
pontificali dovessero abbracciare oltre al culto degli dèi celesti, i
riti funerari, il modo di placare i Mani[142].
Particolare qui è l’uso del verbo ēdoceō, derivato docere[143],
che indica l’azione di insegnare profondamente, o informare esattamente[144]:
un altro riferimento alle funzioni di guida e di minuzioso insegnamento svolte
dal pontefice[145].
Secondo la testimonianza di Livio la competenza del pontefice doveva riguardare
tutte le cerimonie, tanto quelle caelestes
quanto i funebria.
Questo si
può porre in relazione con quanto afferma Valerio Massimo[146]
nell’incipit del primo libro, de religione, della sua opera: Maiores statas sollemnesque caerimonias
pontificum scientia[147].
Come si sostiene in un altro brano dei facta et dicta memorabilia, le
cerimonie furono affidate alla scienza pontificale in modo che si rispettasse
l’exactissimus cultus caerimoniarum,
mai dimenticato dalla civitas, in quanto quod tam scrupolosa cura parvula quoque momenta religionis examinari
videntur[148].
La
distinzione degli dèi celesti dai Mani[149],
che si rinviene in Livio, era rilevante anche nel campo del ius civile, come si evince dalla classificazione delle res operata da Gaio:
Gai. 2.3-6: 3. Divini iuris sunt
veluti res sacrae et religiosae. 4. Sacrae
sunt, quae diis superis consecratae sunt; religiosae, quae diis Manibus
relictae sunt. 5. Sed sacrum
quidem hoc solum existimatur, quod ex auctoritate populi Romani consecratum
est, veluti lege de ea re lata aut senatus consulto facto. 6.
Religiosum vero nostra voluntate facimus mortuum inferentes in locum nostrum,
si modo eius mortui funus ad nos pertineat.
La
divisione delle res prospettata dal giurista antoniniano aveva rilevanza
nel campo del diritto civile, poiché l’appartenenza ad una o
all’altra “categoria” di dèi comportava una differente
qualificazione delle res divini iuris,
e diverse modalità di consacrazione. La dicotomia presente nelle res divini iuris sacre/religiose[150],
beni che si differenziano dalle res
humanis iuris[151], è speculare a quella dei sacra che emerge da Liv. 1.20.7, caelestes caerimonias/funebria, entrambe in rapporto con la
bipartizione relativa alle divinità, superes/manes. Si può affermare con una
certa sicurezza che la classificazione res sacrae / res religiosae sia
derivata da una interpretazione pontificale, in quanto è attestato che
ancora in epoca repubblicana al collegio veniva delegato il compito di decidere
quale res fosse sacra e quale profana[152].
Naturalmente
l’insegnamento di Gaio si riferisce ad un periodo di gran lunga
successivo a quello di cui ci stiamo occupando. I problemi che esso solleva,
tuttavia, risultano particolarmente interessanti al fine di comprendere quale
estensione avesse conservato in età classica la competenza pontificale
in materia di funebria. Il giurista contrappone la necessità di
un intervento del popolo Romano o del senato, per la consacrazione delle res
sacrae, alla nuda volontà del privato che rende religioso un luogo
attraverso la sepoltura di un defunto[153].
Secondo le parole di Gaio erano necessarie la volontà, la
proprietà del luogo in capo a chi effettuava la sepoltura, e la
pertinenza a lui dei riti funebri.
Gli
elementi della volontà e della proprietà del luogo vengono
evidenziati anche da altre fonti, dalle quali emerge che la voluntas del
proprietario era comunque necessaria, pur potendo essere successiva[154].
Se una sepoltura veniva effettuata in luogo altrui, si intende senza
volontà del dominus, veniva concessa a costui un’azione in
factum diretta ad ottenere il pagamento del prezzo del terreno utilizzato
in alternativa alla rimozione del cadavere[155],
cosa quest’ultima che non poteva avvenire senza l’intervento dei
pontefici[156].
Il terzo
elemento, quello della necessaria pertinenza dei riti funerari in capo a chi
seppelliva affinché un luogo divenisse religioso, compare in Gaio, ma
non nelle Istituzioni giustinianee[157].
Il tema
della spettanza delle sepolture e delle relative spese viene ampiamente
affrontato nelle fonti, senza però collegare tutto ciò con la religiosità
del luogo[158].
L’inumazione viene posta in relazione alla legittimità di
provvedere al funerale, in particolare per quanto attiene all’actio
funeraria contro l’onerato a tale ufficio attribuita a colui che
aveva sepolto il defunto[159].
La pertinenza del funus
richiamata da Gaio è da porre in relazione con il principio sacra
cum pecunia elaborato dalla giurisprudenza pontificale[160],
per superare alcune storture che si potevano presentare negli istituti
successori, quale ad esempio la possibilità che l’intero
patrimonio ereditario venisse disperso attraverso legati, e all’erede
restasse solo l’onere dei culti domestici. Il tema aveva una rilevanza
tale che a questo enunciato seguirono ulteriori provvedimenti pontificali[161].
Sulla base di questo principio, i pontifices non solo legarono la pecunia
all’onere dei culti domestici[162],
ma ascrissero alle stesse persone tenute ai sacra anche isdemque
ferias et caerimonias. Dunque, si può affermare con una certa
sicurezza che i pontefici elaborarono una disciplina intorno alla attribuzione
dei funebria.
Una rilevante
testimonianza intorno ai riti funebri a cui l’erede era tenuto
esattamente, per evitare una possibile turbativa, è data da Paolo
Diacono:
Paul.
Fest., v. Everriator,
Qui si ricorda che
l’onere del rito era in capo a qui iure accepta hereditate, ma
nella spiegazione delle exverriae si fa riferimento alla domus,
qui da intendersi come familia[164]
che deve occuparsi della sepoltura, rimandando quindi ad una antica
attribuzione di tale onere svincolata dalla pecunia. Questo obbligo di
purificazione della familia funestata da un lutto si rinviene anche in
Varrone, con riferimento alla inumazione[165];
appare dunque una stretto rapporto tra sepolture e cerimonie funerarie.
La
regolamentazione dei riti funebri[166]
da parte del diritto pontificale[167],
era scrupolosa in quanto deorum Manium
iura sancta sunto[168],
e proprio tale diritto doveva preservare la sanctitudo delle sepolture. Ma
sebbene i sepolcri attenessero alla sfera religiosa, come attestano diverse
fonti giuridiche[169],
non vi era alcuna necessità di un intervento sacerdotale per il rito
delle sepolture, neanche di quello dei pontefici[170].
Il collegio pontificale interveniva qualora sorgessero dubbi intorno
all’esattezza dei funebria a
cui la famiglia colpita da un lutto era obbligata. I pontifices inoltre,
sebbene non fossero tenuti a partecipare alle inumazioni[171],
potevano colpire in maniera incisiva le violazioni dei rituali funebri,
qualificandole come sacrilegio inespiabile:
Cic., tusc. 1.27:
Itaque unum illud era insitum priscis illis, quos cascos appellat Ennius, esse
in morte sensum neque excessu vitae sic deleri hominem, ut funditus interiret;
idque cum multis aliis rebus, tum e pontificio iure et e cerimonias sepulcrorum
intellegi licet, quam maxumis ingeniis praediti nec tanta cura colissent nec
violatas tam inexpiabili religione sanxissent, nisi haereret in eorum mentibus
mortem non interitum esse omnia tollentem atque delentem[172].
A parte
le considerazioni filosofiche sulla natura della morte[173],
dal brano si apprende che la tanta cura dei
pontefici per questi culti doveva essere pervasa da estrema
scrupolosità. Un esempio della minuzia in materia di riti funebri viene
offerta dallo stesso Cicerone intorno ad un decreto di Publio Mucio Scevola[174].
Il pontefice stabilì l’esatto rituale (piaculum et ferias) a cui si doveva attenere l’erede di colui
il cui corpo esamine, per morte violenta, si era disperso in mare[175].
La necessità di una regolamentazione in materia sorgeva in quanto il
defunto non era stato inumato come prescriveva il diritto pontificale[176]:
Cic., de
leg. 2.57: Quod haud scio an timens ne suo corpori posset
accidere, primis e patriciis Corneliis igni voluti cremari. Declarat enim Ennius de Africano: “Hic est ille situs”. Vere,
nam siti dicuntur ii, qui conditi sunt. Nec tamen eorum ante sepulcrum est quam
iusta facta et porcus caesus est. Et quod nunc communiter in omnibus sepultis
venit usu, ut humati dicantur, id erat proprium tum in iis, quos humus iniecta
contexerat, eumque morem ius pontificale confirmat. Nam priusquam in ossa
iniecta gleba est, locus ille ubi crematum est corpus, nihil habet religionis;
iniecta gleba tum et illic humatus est, et sepulcrum vocatur, ac tum denique
multa religiosa iura conplectitur.
Dal passo
emerge chiaramente come il problema della inumazione, che coinvolgeva multa religiosa iura, fosse di rilevante
importanza per la definizione di sepulcrum, e quindi per la qualificazione giuridica
del luogo. Inoltre, Cicerone afferma che un luogo diveniva sepolcro
qualora si svolgessero i riti necessari e l’uccisione di un porco. Il
riferimento ciceroniano al compimento di iusta
facta, intendendosi per iusta le prescritte cerimonie funebri, si rinviene anche nel passo
sopra riportato di Paolo Diacono che richiama il iusta facere[177].
La notizia del sacrificio di un porcum[178]
pare ricollegarsi alla immolazione della porca praecidanea[179],
a cui fanno riferimento diverse fonti, per cui l’hostia veniva sacrificata
prima della mietitura, quam piaculi gratia, in rapporto alla
purificazione della familia[180].
La necessità di questo sacrificio per chi non aveva posto in essere i iusta
viene ricordata da Paolo Diacono, sebbene ci sia una certa confusione tra i riti
funerari e quelli legati alla raccolta dei frutti:
Paul., Fest. ep., v. Praecidanea,
Dalla
lettura della glossa paolina appare come il mancato compimento dei iusta corrispondesse
alla mancata sepoltura[181].
La
competenza pontificale non solo per i riti funebri, ma anche per le questioni
relative al ius sepulchri[182],
alla sepoltura[183],
ed alla riesumazione delle spoglie[184],
è attestata nel Digesto:
D. 11.7.8pr. (Ulp. 25 ad edict.): Ossa quae ab alio illata sunt vel corpus an liceat
domino loci effodere vel eruere sine decreto pontificum ‘seu iussu
principis’, quaestionis est: et ait Labeo expectandum ‘vel’
permissum pontificale ‘seu iussionem principis’, alioquin
iniuriarum fore actionem adversus eum qui eiecit.
In questo
passo si sottintende che normalmente il proprietario era tenuto ad attendere il
decreto pontificale, o il iussum del princeps nel caso dovesse effodere
vel eruere resti umani. La questione sorgeva qualora le ossa od il corpo
fossero stati sepolti da un terzo, lasciando sottendere la mancanza di consenso
del proprietario alla sepoltura. Per la soluzione del problema Ulpiano riporta
l’opinione di Labeone, secondo cui era necessario il parere dei
pontefici, od il comando del princeps[185].
La competenza pontificale in materia risulta originaria[186],
nel frammento infatti il richiamo all’autorità del principe,
secondo gran parte della dottrina, è frutto di interpolazione[187]. Si è evinto
che i pontefici si occupassero proprio della conservazione e del trasporto
delle spoglie umane. Di questa cura pontificale è testimone una epigrafe
rinvenuta in un sepolcro nei pressi di Terracina, che menziona un decreto del
collegio per il trasporto della salma di una fanciulla[188].
Risulta
interessante anche un altro passo ulpianeo in cui si pone la questione del completamento
di un monumento funebre nel quale fossero stati seppelliti dei resti umani:
D. 11.8.5 (Ulp. 1 opin.): Si in eo monumento, quod imperfectum
esse dicitur, reliquiae hominis conditae sunt, nihil impedit quominus id
perficiatur. Sed si religiosus locus iam factus sit, pontifices explorare
debent, quatenus salva religione desiderio reficiendi operis medendum sit[189].
Dal passo
emergono alcune considerazioni: innanzitutto non bastava la sepoltura per
rendere il locus religiosus[190].
Infatti nel testo è detto esplicitamente che il luogo poteva non essere
ancora divenuto “religiosus”, e che in tal caso nonostante
la sepoltura di resti umani nulla avrebbe impedito il perfezionamento del
monumento[191]
in quanto locus profanus. Come si evince
da un frammento del giurista Paolo, perché il luogo divenisse religioso
la sepoltura doveva essere fatta con l’intenzione di offrire alle spoglie
una sede eterna:
D. 11.7.40 (Paul. 3 quaest.): Si quis enim eo animo corpus intulerit, quod cogitaret inde alio postea
transferre magisque temporis gratia deponere, quam quod ibi sepeliret mortuum
et quasi aeterna sede dare destinaverit, manebit locus profanus[192].
In
secondo luogo, in presenza di un locus religiosus spettava ai pontefici
pronunciarsi intorno al completamento del monumento funebre. Essi dunque
dovevano explorare[193]
se si poteva ultimare l’opera, in quanto lo spazio in questione ormai
apparteneva alla categoria di res
religiosae, che diis Manibus relictae
sunt[194]. In tal caso il collegio avrebbe dovuto
contemperare gli interessi umani, il desiderio di sistemare l’opera
funeraria, e quelli religiosi.
Per
tornare al problema della qualificazione giuridico-religiosa di un luogo come religiosus,
emerge che con il tempo si definirono le caratteristiche del luogo che poteva
divenire religioso, oppure si precisarono le peculiarità dei luoghi che
non potevano divenire religiosi nonostante la inumazione, operazione materiale
accompagnata dalla volontà di dare eterna sede alle spoglie umane[195].
Per
quanto riguarda il periodo più antico si può supporre che fosse
la sepoltura di un cadavere a rendere il luogo religioso[196],
e quindi separato dal mondo dei viventi[197].
Le fonti ribadiscono la necessità di offrire sepoltura alle spoglie
umane, anche se solo simbolica[198].
Tuttavia, l’inumazione appare completata da una serie di adempimenti
liturgici codificati dalla disciplina pontificale[199].
Per comprendere quali erano gli antichi principi romani intorno ai sepolcri,
risulta interessante un passo di Paolo:
D. 47.12.4 (Paul. 27 ad edict. praet.): Sepulchra hostium religiosa nobis non sunt:
ideoque lapides inde sublatos in quemlibet usum convertere possumus: non
sepulchri violati actio competit[200].
Secondo
il giurista non è considerato religioso il sepolcro in cui riposano le spoglie
dell’hostis[201].
Questo rimanderebbe, secondo l’avviso di una parte della dottrina[202],
ad una disciplina molto risalente, derivata dai mores, elaborata
nell’ambito della civitas, per cui il rito della sepoltura con la
sua connotazione religiosa sarebbe un antico istituto proprio del diritto
romano. In tale periodo, infatti, gli antenati defunti venivano a sovrapporsi
ai Mani[203].
Il
racconto liviano elenca tra le materie di competenza pontificale i prodigia[204], e in particolare la materia fulgurale[205],
che la tradizione ricollega a Numa[206].
L’interpretare i segni sovrannaturali era di particolare importanza, in
quanto bisognava individuare la divinità che li aveva inviati[207],
e rispondere efficacemente alle manifestazioni ultraterrene con tutti i mezzi
che risultavano necessari[208],
attraverso la procuratio prodigiorum[209].
Stando a Livio Numa avrebbe dato ai pontefici la competenza in materia dei prodigia,
competenza attestata dallo stesso storico anche per l’età
repubblicana. Durante la res publica, dopo eventi particolarmente
terrificanti, come la caduta di un fulmine, la pioggia di pietre o di sangue, o
le nascite di mostri umani, o animali, era il senato a richiedere al collegio
dei pontefici l’indicazione degli strumenti atti a placare l’ira
degli dèi, manifestata attraverso i prodigi. Ai pontifices
spettava il compito di prescrivere, tramite decreto, sia a quale
divinità attribuire il segno ultraterreno, sia i mezzi per ristabilire
la pace con gli dèi[210].
Prescrizioni religiose che si ponevano in essere attraverso senatoconsulti. Lo
stesso senato, tuttavia, poteva rivolgersi anche agli aruspici[211],
i detentori della Etrusca disciplina[212],
per conoscere il modo per procedere alla procuratio[213].
Si
tratterebbero, dunque, di importanti uffici che richiedevano una certa
oculatezza. Tale cautela quasi prudenziale dei pontefici nel rapportarsi agli
dèi ben si comprende da un ulteriore testo liviano. In questo episodio
l’intero collegio, che esercitava un controllo teologico sulla sussistenza
dei requisiti richiesti dal ius sacrum,
si oppose alla consacrazione di un unico tempio a due divinità. La
spiegazione pontificale è degna di menzione[214]:
Liv. 27.25.7-9: Marcellum aliae
obiectae animo religiones tenebant; in quibus quod, cum bello Gallico ad
Clastidium aedem Honori e Virtuti vovisset, dedicatio eius a pontificibus
impediebatur quod negabant unam cellam amplius quam uni deo recte dedicari,
quia si de caelo tacta aut prodigii aliquid in eam factum esset, difficilis
procuratio foret, quod utri deo res divina fieret sciri non posset; neque enim
duobus nisi certa certis deis rite una hostia fieri[215].
Emerge la
preoccupazione teologica di essere sempre in grado di ricollegare un prodigio
ad una divinità. Nella vicenda che, riguardando problemi di diritto
sacro, coinvolgeva il supremo interesse della res publica, risulta evidente che al diniego del collegio
presiedeva una logica rigorosa[216],
frutto della costante preoccupazione di interpretare adeguatamente le
manifestazioni divine. Il fatto che la decisione pontificale fosse munita di
commento si può ricollegare alle originarie attribuzioni del pontefice
stabilite da Numa: il sacerdote, infatti, doveva edocere in materia di prodigi[217].
L’estrema
cautela sacerdotale si rinviene anche in un passo di Aulo Gellio, in cui si
riporta il testo originale di un antico senatoconsulto risalente al consolato
di Marco Antonio e Aulo Postumio:
Gell., noct. Att. 4.6.2:
‘Quod C. Iulius L. filius pontifex nuntiavit in sacrario in regia hastas
Martis movisse, de ea re ita censuerunt, uti M. Antonius consul hostiis
maioribus Iovi et Marti procuraret et ceteris dis, quibus videretur,
lactantibus. Uti procurasset, satis habendum censuerunt. Si quid succidaneis
opus esset, robiis succideret’.
Dalle
parole del provvedimento si evince la necessità che il prodigio fosse
annunciato ufficialmente dai pontefici, in quanto questo annuncio veniva
inserito come premessa all’atto che il senato rivolgeva al console.
Ciò potrebbe far pensare che il collegio pontificale potesse procedere
ad una sorta di inchiesta sulla veridicità dell’evento, prima di
darne formale comunicazione. Le prescrizioni sono stabilite in modo talmente
preciso da far pensare a delle disposizioni suggerite dagli stessi pontefici[218].
Per
tornare al racconto di Liv. 1.20.7, la fine del paragrafo ricorda che con atto
di estrema cautela Numa fece erigere un’ara sull’Aventino a Giove
Elicio[219],
e tramite gli auguri consultò la divinità per conoscere i prodigi
da prendere in considerazione. Probabilmente l’ara venne eretta per la
pratica nota al re sabino[220]
di attirare sulla terra i fulmini[221].
La stessa etimologia offerta da Varrone[222]
collega l’ara dedicata a Giove Elicio[223]
sull’Aventino al verbo elicere[224],
andando a confermare così quanto riportato in Liv. 1.20.7.
Dalla testimonianza
di Livio in ordine all’istituzione del pontificato emergono alcune
considerazioni. Innanzitutto le materie su cui verteva la competenza pontificale
erano 7: hostiae, dies, templa, pecunia, cetera res, funebria, prodigia[225].
nell’elenco non vi è cenno alla creazione di ponti[226],
per cui nulla fa pensare ad un collegamento al pons Sublicius[227]
dal cui nome alcune fonti vogliono far derivare l’etimo di pontifex[228].
Etimologia, questa, non riconducibile ad una elaborazione pontificale[229],
come dimostra il fatto che il pontefice massimo (e grande giurista) Quinto
Mucio Scevola[230]
ne propose una diversa[231],
secondo cui il nome pontifex[232] derivava da posse e facere[233].
A parte i problemi relativi all’etimologia, vi è nella teoria di
Quinto Mucio il riflesso di un’acuta elaborazione teologica, che denota
il potere di cui godevano i pontifices nell’ambito
della religione cittadina.
Nell’elenco
liviano non vengono menzionati uffici strettamente religiosi, ma si ricordano
esclusivamente funzioni cautelari, che sono preponderanti
nell’attività svolta dai pontefici[234].
Parrebbe che le attribuzioni originarie non contemplassero particolari
tabù[235].
Questo ben si collega alla figura certamente ieratica, ma allo stesso tempo non
carismatica dei pontefici[236],
nonostante la rilevanza[237]
che ad essi derivava dalle loro funzioni di guida per il popolo[238]
e di interprete delle manifestazioni divine. Essi apparivano come i conoscitori
e i definitori dell’ordine spazio-temporale scandito da una serie di date
e di nomi[239],
la cui conoscenza era posta al servizio della civitas[240].
Il loro operare nella religione faceva spaziare il raggio d’azione
pontificale nelle sfere del ius sacrum[241],
del ius publicum[242] e del ius privatum[243],
differenti campi del ius fra loro
intimamente connessi all’interno
del sistema giuridico-religioso romano[244].
Proprio per la peculiarità di questo sistema, che vedeva i sacerdoti
come parte integrante della costituzione romana[245],
la carica di pontefice occupava una posizione assai elevata, paragonabile a
quella dei più alti magistrati. Il titolo di pontifex riportato
nelle fonti[246]
spesso precede quello delle magistrature curuli[247],
ed inoltre questa carica sacerdotale si menziona negli atti ufficiali[248].
Ciò avvalora l’idea di un sacerdozio inserito pienamente
nell’assetto costituzionale che doveva salvaguardare la res publica attraverso il generale
controllo e la custodia dei sacra[249].
In
materia di diritto sacro, come si è finora evinto, i pontefici
possedevano una competenza generale che si dispiegava in ogni campo. Questa
cognizione comportava che i pontifices fossero gli specialisti ai quali
spettava l’insegnamento e il controllo dell’esatto compimento delle
prescrizioni religiose[250].
La necessità di avere degli esperti di diritto sacro sorgeva dal fatto
che la religione romana si fondava sui riti che dovevano essere compiuti con
estrema precisione e cautela[251],
per evitare l’infausta rottura della pace con gli dèi. Questa
immensa attenzione nel rapportarsi alle divinità si ritrova nel discorso
di Catone il giovane riportato da Sallustio:
Sall., Cat. 52.28-29:
Scilicet res ipsa aspera est, sed vos non timetis eam. Immo vero maxume; sed
inertia et mollitia animi alius alium exspectantes cunctamini, videlicet dis
immortalibus confisi qui hanc rem publicam saepe in maxumis periculis
servavere. Non votis neque suppliciis muliebribus auxilia deorum parantur:
vigilando, agendo, bene consulendo prospera omnia cedunt. Ubi socordiae te
atque ignaviae tradideris, nequiquam deos implores; irati infestique sunt[252].
Nel passo
dunque vengono elencati i tre verbi con i quali si può mantenere una
solida pace con gli dèi: vigilare[253],
agere[254],
bene consulere[255].
I
pontefici svolgevano un importante ruolo che permetteva di non perdere per
sempre il favore delle divinità. Infatti, nella concezione che dava un
grande valore alla forza della parola[256]
e dei nomi[257],
si credeva che attraverso il rito dell’evocatio[258]
si potesse attirare la divinità tutelare di una città. Il rito
dell’evocazione dei numi tutelari di altri popoli era contemplato nella disciplina dei pontefici, i quali,
proprio come tutori della civitas,
erano anche coloro che conservavano il nome del dio protettore di Roma[259]:
una grande responsabilità da cui dipendevano le sorti stesse della
città.
Riassumendo,
le principali funzioni in materia religiosa che le fonti, in particolare Tito
Livio, attribuiscono ai pontefici si esplicavano attraverso:
1) Una costante
attività di consulenza sui sacra[260].
I pontefici si pronunciavano sulla sacralità di cose[261]
e di luoghi[262].
Tale funzione comprendeva anche il suggerimento della esatta formula.
Insegnamenti, informazioni, indicazioni e prescrizioni portavano alla
formulazione di responsa[263] e di decreta[264],
come avveniva anche per altri collegi sacerdotali.
2) Controllo del
regolare svolgimento dei riti[265],
al quale potevano seguire, in caso di violazioni, la repressione,
l’imposizione della ripetizione[266],
o di riti espiatori[267].
La repressione pontificale[268]
si manifestava nell’ambito del rapporto gerarchico con flamini[269],
vestali[270],
e altri sacerdoti[271]
o sottoposti[272].
Questa cautela, tesa ad impedire che si incrinasse il pacifico rapporto con le
divinità, si esplicava anche nella competenza per la risoluzione di
problemi attinenti alle misure da adottare in caso di prodigia, e di gravi sacrilegi[273].
3) Alle due funzioni
precedenti si collega anche l’archiviazione e la memorizzazione[274]
di ogni fatto, norma, o interpretazione, ritenuti importanti per la civitas[275].
Per
quanto riguarda le funzioni religiose[276]
cui secondo le fonti erano preposti i pontefici, alcuni autori ritengono tali
uffici non caratterizzanti la reale essenza dei pontefici, veri e propri
teologi, e non sacrificatori[277].
Una
cerimonia che richiedeva la presenza pontificale, ad esempio, viene ricordata
da Ovidio. Durante i fordicilia[278] i pontefici dovevano sacrificare alcune
vacche pregne[279];
questo rito è ricollegato dal poeta ad una azione interpretativa del re
Numa, creatore del collegio, secondo il suggerimento della ninfa Egeria[280].
Diverse
fonti, poi, parlano del pasto rituale[281]
da compiersi in occasione di alcuni giochi solenni (romani e plebei). Questa
incombenza[282]
passò nel
Dubbia
è la partecipazione dei pontefici ai carmentalia[286],
il cui intervento viene accennato solo da Ovidio[287].
L’incertezza deriva dal fatto che tali riti, che cadevano l’11
gennaio, erano dedicati alla dea Carmenta[288],
alla quale probabilmente era preposto un flamine minore[289].
I Fasti
ovidiani son fonte di gran pregio[290]
in particolare quando, nell’offrire l’etimologia di februa, ricordano la richiesta
pontificale rivolta al rex sacrorum e
al flamen Dialis di lane rituali, da
utilizzare in alcune cerimonie come strumenti di purificazione[291].
In questo caso, tuttavia, non emerge se la richiesta avvenisse in virtù
di un rito al quale anche i pontefici prendevano parte, o si trattasse invece
dell’azione di controllo tipica del collegio[292].
Alla luce di quanto
detto si possono comprendere le tecniche, anche estensive, utilizzate dal
collegio pontificale nella elaborazione e nella interpretazione del ius
sacrum.
Una
caratteristica della interpretatio pontificale del diritto sacro
è l’impiego della massima in
sacris simulata pro veris accipiuntur[293],
il cui uso può essere riconosciuto sin da un episodio attribuito a Numa
Pompilio. Si tratta del dialogo tra il re sabino[294]
e Iuppiter, inserito da Ovidio nei suoi Fasti[295],
racconto che trova origine in una tradizione precedente[296].
L’incontro[297]
tra i due re, quello umano e quello divino, avvenne grazie
all’intercessione di due divinità agrestes[298],
Fauno e Pico[299],
dopo che erano stati liberati dalla trappola che Numa aveva teso loro dietro
consiglio della ninfa Egeria[300]. Il re sabino doveva infatti sapere
dalla massima divinità quali azioni rituali[301]
fossero necessarie per sospendere un’eccessiva caduta di fulmini sulla
terra[302]:
Constat Aventinae
tremuisse cacumina silvae,
terraque subsedit
pondere pressa Iovis;
corda micant regis.
Totoque e corpore sanguis
fugit, et hirsutae
deriguere comae.
Ut rediit animus,
“Da certa piamina” dixit
“fulminis,
altorum rexque paterque deum,
si tua contigimus
manibus donaria puris,
hoc quoque, quod
petitur, si pia lingua rogat”.
Adnuit oranti, sed
verum ambage remota
abdidit et dubio terruit ore virum.
“Caede caput” dixit; cui rex “Parebimus” inquit
“caedenda est hortis eruta cepa meis”.
Addidit hic “hominis”; “sumes” ait ille
“capillos”;
postulat hic animam; cui Numa “piscis” ait.
Risit, et “His” inquit “facito mea tela procures,
o vir conloquio non abigende deum.
Sed tibi, protulerit cum totum crastinus orbem
Cynthius, imperii
pignora certa dabo”.
Dixit et ingenti
tonitru super aethera motum
fertur adorantem
destituitque Numam.
La pesante richiesta
di un sacrificio umano da parte di Giove Elicio apre un articolato confronto[303],
descritto da Ovidio attraverso una minuziosa precisione testuale[304].
Nonostante il timore reverenziale nei confronti di Giove, il re si dimostra
audace nella interpretazione del dettato divino[305].
La sua perizia gli fa sostenere un contrasto dialettico con la divinità,
basato esclusivamente sulle parole, che possedevano a Roma una forza intrinseca[306].
Durante il dialogo, appunto, Numa, per eludere la pretesa divina, procede ad un
gioco di parole[307]
tra caput e capillos[308].
La proposta finale del re di offrire in sacrificio dei pesci[309]
risulta talmente divertente da distogliere Iuppiter dalla sua grave pretesa[310].
Il re nel racconto di
Ovidio riesce ad imporre a Giove l’accettazione di un sacrificio
simbolico operato non su uomini ma su dei transfert[311],
cipolle, capelli e pesci. Con tutta evidenza siamo in presenza della massima simulata pro veris accipiuntur, che
veniva applicata quando i sacerdoti non eseguivano dei sacrifici umani ma li
simulavano con fantocci, animali o cose[312].
Dall’episodio emerge anche l’importanza dei riti e delle formule
grazie ai quali Fauno[313]
e Pico[314]
fanno apparire Giove al cospetto di Numa[315].
Il rito, infatti, è un elemento essenziale della religione romana, la
sua correttezza nel rapporto con le divinità[316]
richiede la scienza di cui sono depositari i pontefici[317].
Una pregnante
affermazione di Robert Turcan traccia in maniera interessante alcune
caratteristiche della religione romana: «On s’adresse aux dieux
comme aux magistrats, quand on a une affaire à régler. Le formalisme des gestes et des mots est solidaire d’un juridisme
strict […] La religion romaine relève de la procédure
judiciaire. Elle est contractuelle: do ut
des»[318]. Il
rapporto tra religione e diritto è però, a nostro avviso, diverso
da quello che l’Autore sembra prospettare. In realtà, la religione
non acquisì lo stretto formalismo e il rigore nel compimento dei riti
dal diritto, ma al contrario fu il ius
civile, attraverso l’operato sacerdotale, ad improntarsi agli schemi
tipici della religione romana. Nella religione, come nell’antico diritto,
il rito è essenziale, è efficace solo se è corretto,
è pregnante in quanto gli effetti si producono indipendentemente dalla
volontà, ma solo attraverso un esatto compimento[319].
Per tornare
all’opera dei pontefici, l’interpretazione dei riti era necessaria,
per l’emergere di nuove esigenze al fine di piegare gli stessi riti ad
altri scopi rispetto a quelli per i quali erano nati. Del resto, stando a
quanto afferma Cicerone, le questioni relative al corretto compimento degli
atti erano di pertinenza interna al collegio[320].
Un antico esempio di
utilizzo di finzione, che rinvia ai meccanismi della massima simulatis pro veriis, si potrebbe
ritrovare sulla “presa” di alcuni sacerdoti[321],
e in particolare delle vestali[322].
Questa cerimonia, che seppur relativa alla sfera del sacro conservava un
collegamento inscindibile in ambito del ius civile, rimandava alla
cattura durante un conflitto bellico[323].
È probabile che questo fosse uno strumento, escogitato dagli stessi
pontefici, per congelare la potestas
del pater della nuova sacerdotessa, e
permettere al pontefice massimo di averne la potestà[324].
In tal caso, dunque, si affermava che la cattura era avvenuta[325],
per ottenere gli effetti voluti. La cerimonia è interessante in quanto ius sacrum (in materia di investitura di
nuovi sacerdoti) e ius civile (per
ciò che attiene alla patria
potestas) risultano collegati strettamente da una operazione pontificale[326].
In tale azione i sacerdoti procedevano in modo del tutto impeccabile, per
evitare che in un rito importante, quale è l’investitura
sacerdotale, si turbasse la pax deorum
e si sovvertisse il sistema giuridico e religioso della civitas,
rappresentato nel caso specifico dal diritto familiare.
È evidente che
qui si impiegava la massima simulata pro
veris tipica della religione romana[327],
che permetteva un uso strumentale delle forme degli istituti attraverso un
procedimento di finzione.
* Sono sottolineati i titoli dei
contributi ed i richiami (infra e supra) raggiungibili attraverso collegamento ipertestuale.
[1] Sul collegio pontificale
risulta ancora indispensabile l’opera di A. Bouché-Leclercq: Les
pontifes dans l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses
de Rome, Paris 1871 [rist. anast., New York 1975];
v. Pontifices, in Dictionnaire des
antiquités grecques et romaines, IV.1 (N-Q), Paris s.d. (1900?), 567
ss.; vedi, inoltre: G.J. Szemler, v. Pontifex, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft,
Supplementband XV, München 1978, 331 ss.;
R. Seguin, Remarques sur les origines des pontifes
romains: Pontifex Maximus et Rex
Sacrorum, in Hommages à H. Le
Bonniec. Res Sacrae, publ. par D. Porte et J.-P. Néraudau, Bruxelles
1988, 405 ss.; A.M. Smorchkov, Коллегия понтификов и понтификальное право в российской историографии, in Ius Antiquum - Древнее Право 5, 1999, 109 ss.; Id., Коллегия понтификов, in Aa.Vv., Collegia sacerdotum Romae Primordialis. Ad problemam de incremento iuris sacri et publici, Moskva 2001, 100 ss.
(per quanto attiene alla storiografia russa in materia).
Da
vedere anche alcune opere dedicate alla religione romana: J. Marquardt, Le culte chez les Romains [Manuel
des antiquités romaines 12], trad. fr. par M. Brissaud, I, Paris
1889, 281 ss.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, 2a
ed., München 1912 [unver. Nachdr.,
München 1971], 501 ss.; N. Turchi,
La religione di Roma antica [Storia di Roma 18], Bologna 1939, 40 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, München 1960, 400 ss., 195 ss.; M. Le Glay, La religion romaine, Paris 1971, 142 ss.; G. Dumézil, La religion
romaine archaïque, 2a ed., Paris
1974, 116 ss.
Un rilievo
indiscutibile ha l’attività pontificale nel campo del diritto
civile, ma in quanto il tema esula da questo lavoro rimandiamo a: F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. di G. Nocera, Firenze
1968, 19 ss.; C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica
europea. I. Dalle origini all’opera di Labeone,
Torino 1997; F.
Wieacker, Pontifex iurisconsultis.
Zur Hinterlassenschaft der römischen Pontifikaljurisprudenz, in Hommage à R. Dekkers,
Bruxelles 1982, 213 ss.; F. Cancelli,
La giurisprudenza unica dei pontefici e
Gneo Flavio tra fantasie e favole romane e romanistiche, Roma 1996; S. Tondo, Appunti sulla giurisprudenza pontificale, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei
pontefici alla scuola di Servio. Atti del seminario di S. Marino, 7-9 gennaio
Per
quanto attiene ai problemi di origine del termine pontifices vedi infra nt. 228.
[2] Per un’analisi
del termine ritus nella età più antica rimando a M. Piantelli, Una ricerca su
«ritus» in epoca arcaica, in Studi in onore di G.
Grosso, VI, Torino 1974, 207 ss.
[3] La necessità
di esperti nel campo del diritto sacro era la diretta conseguenza della natura
della religione romana fondata sui rituali, come emerge da Cicerone in de nat. deor. 2.8: Religione, id est cultu deorum. Lo Scheid ha particolarmente
evidenziato questa caratteristica della religione romana, definita come
«orthopraxie» (La parole des
dieux. L’originalité
du dialogue des Romains avec leurs dieux,
in OPVS. Rivista
internazionale per la storia economica e sociale dell’antichità 6-8, 1987-1989, 129;
vedi anche dello stesso A. Les espaces cultuels et leur interprétation,
in Klio 77, 1995, 424).
[4] Secondo P.M. Martin, L’idée de royauté
à Rome. De
Sui primi
libri di Tito Livio rimando a: W.
Soltau, Livius’ Geschichtswerk seine Komposition und seine
Quellen. Ein Hilfsbuch für Geschichtsforscher und Liviusleser, Leipzig
1897 [ed. anast., Roma 1971], 85 ss.; R.
Bloch, Tite-Live et les premiers
siècles de Rome, Paris 1965; R.
von Haehling, Zeitbezüge des T. Livius in der ersten Dekade
seines Geschichtswerkes: nec vitia nostra nec remedia pati possumus [Historia.
Einzelschriften 61], Stuttgart 1989; G.
Forsythe, Livy and Early Rome. A Study in Historical Method and
Judgment, Stuttgart 1999, 99 ss.; per
una estesa esposizione della bibliografia precedente vedi J.E. Phillips, Current Research in
Livy’s First Decade: 1959-
[5] Tra i Romani vi era
un’affermata tradizione che attribuiva al re di stirpe sabina la creazione
del pontificato: Cic., de
or. 3.73: Sed ut pontifices
veteres propter sacrificiorum multitudinem tres viros epulones esse voluerunt,
cum essent ipsi a Numa, ut etiam illud ludorum epulare sacrificium facerent
instituti, sic Socratici a se causarum actores et a communi philosophiae nomine
separaverunt, cum veteres dicendi et intellegendi mirificam societatem esse
voluissent; de re publ. 2.26: Idemque
Pompilius et auspiciis maioribus inventis ad pristinum numerum duo augures
addidit, et sacris e principum numero pontifices quinque praefecit; Dion.
Halic. 2.73.1: Teleuta‹oj d' Ãn
tÁj NÒma diat£xewj merismÕj Øpe;r tîn ƒerîn, ïn
œlacon oƒ t¾n meg…sthn par¦ `Rwma…oij
ƒerate…an caˆ ™xous…an œcontej. oátoi
kat¦ me;n t¾n ˜autîn
di£lekton ™f' ˜nÕj tîn ›rgwn Ö
pr£ttousin ™piskeu£xontej t¾n xul…nhn
gšfuran pont…fikej prosagoreÚontai, e„sˆ de; tîn meg…stwn
pragm£twn kÚrioi; Liv. 4.4.2: Pontifices, augures Romulo regnante nulli erant: ab Numa Pompilio
creati sunt; Plut., Num. 9.1: Nom´
de;
kaˆ t¾n tîn ¢rcieršwn, oÞj pont…fikaj
kaloàsi, di£taxin kaˆ kat£stasin
¢podidÒasi, kaˆ fasin aÙtÕn ›na
toÚtwn tÕn prîton gegonšnai; Flor., epit. Liv. 1.2.2: Ille sacra et caerimonias omnemque
cultum deorum inmortalium docuit, ille pontifices augures Salios ceteraque
populi R. sacerdotia creavit; de vir. illustr. 3.1: [Numa] pontificem maximum creavit; Lact., inst. Div. 1.22.4: [Numa]
pontifices, flamines, salios, augures creavit. Cfr. anche Cic., de nat. deor. 3.5: Numan sacris constitutis fundamenta; Verg., Aen. 6.808-812: Quis procul
ille autem ramis insignis olivae / sacra ferens? Nosco crinis incanaque menta /
regis Romani primam qui legibus urbem / fundabit, Curibus parvis et paupere
terra / missus in imperium magnum.
[6] Sul modo in cui Livio
presenta la figura del monarca vedi, ad esempio: G. Stübler, Die
Religiosität des Livius, Amsterdam 1964, 34 ss.; D.S. Levene, Religion
in Livy, Leiden-New York-Köln 1993, 134 ss., e più in generale
sulla rappresentazione liviana dell’età monarchica vedi M. Fox, Roman Historical Myths. The Regal Period in Augustan Literature,
Oxford 1996, 96 ss.
[7] Sulla riforma
religiosa di Numa vedi: F. Ribezzo,
Numa Pompilio e la riforma etrusca della
religione primitiva di Roma, in Rendiconti
della Accademia Nazionale dei Lincei ser. VIII, 5, 1950, 553 ss.; S. Accame, I re di Roma nella
leggenda e nella storia, 2a ed., Napoli
s.d. (1959?), 219 ss.; E.M. Hooker, The Significance of Numa’s Religious Reforms, in Numen 10, 1963, 87 ss.; G.B. Pighi, La religione romana
[Lezioni «A. Rostagni», Istituto di Filologia classica
dell’Università di Torino 3], Torino 1967, 31 s.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia. Rivista di letterature classiche
26, 1974, 3 ss.; M.A. Levi, Il re Numa e i ‘penetralia
pontificum’, in Rendiconti
dell’Istituto Lombardo. Classe di Lettere e Scienze morali e storiche
115, 1981 (ma 1984), 161 ss.; L.
Fascione, Il mondo nuovo. La
costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica’ di Dionigi
d’Alicarnasso, I parte, Napoli 1988, 128 ss.; G. Capdeville, Les
institutions religieuses de
V’è chi ha negato
credibilità storica alla descrizione liviana dell’organizzazione
religiosa di Numa: F. Blaive, Rex sacrorum. Recherches
sur la fonction religieuse de la royauté romaine, in Revue Internationale des droits
de l’Antiquité 42, 1995, 126, 152; vedi anche J. Poucet, Les Sabins aux de Rome. Orientations et
problèmes, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt I.1, Berlin-New York 1972, 101 s., il
quale esclude il carattere sabino delle istituzioni religiose che secondo la
tradizione vennero create da Numa.
Tuttavia, ancora ai tempi di
Tertulliano vi era il ricordo dell’azione del re sabino: de praescr. haeret. 40: si Numae Pompilii superstitiones revolvarus,
si sacerdotalia officia et insignia et privilegia, si sacrificantium ministeria
et instrumenta et vasa <si> ipsorum sacrificiorum ac piaculorum et
votorum curiositates consideremus, nonne manifeste diabulus morositatem illam
Iudicae legis imitatus est?; Apol.
21.29: homo fuit Pompilius Numa, qui Romanos operosissimis superstitionibus
oneravit. Cfr. anche Arnob., adv. nat. 2.12.
[8] Sebbene Livio ricordi
la nomina da parte di Numa di un singolo pontefice, in un altro luogo (4.4.2,
vedi supra nt.
5), lo storico fa riferimento alla creazione di più pontefici. Le altre
fonti a noi pervenute riferiscono tutte dell’istituzione di un collegio:
Cic., de or. 3.73 (vedi supra nt. 5); de
re publ. 2.26 (vedi supra nt. 5); Dion. Halic.
2.73.1 (vedi supra nt.
5); Plut., Num. 9.1 (vedi supra
nt. 5); Flor., epit. Liv. 1.2.2
(vedi supra nt. 5).
La
letteratura è orientata nel senso di ritenere che Numa abbia creato non
un solo pontefice, ma un collegio (J. Marquardt,
Le culte chez les Romains, I,
cit., 286 e nt. 3; Th. Mommsen, Le droit public romain [Manuel des
antiquités romaines 3], trad. fr. par P.F. Girard, III, Paris 1893
[réimpr. 1984], 23; F. Ribezzo,
Numa Pompilio e la riforma etrusca della
religione primitiva di Roma, cit., 568; R. Del Ponte, La religione
dei romani. La religione e il sacro in Roma antica, Milano 1992, 98 s.,
103), e giustamente il Bouché-Leclercq osserva che lo stesso Livio non
menziona una riforma consistente nel passaggio delle funzioni da un solo
pontefice ad un collegio (A. Bouché-Leclercq,
Les pontifes de l’ancienne
Rome. Étude historique sur les institutions religieuses de Rome,
cit., 7). Sembra pertanto probabile l’ipotesi che Liv. 1.20.5 riferisca
della creazione del pontefice massimo (vedi in particolare J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psycologique, 2a ed.,
Paris 1969 [rist., 1976], 98, 101), insieme all’attribuzione di
specifiche funzioni al collegio. D’altra parte della creazione del pontifex
maximus si tratta anche in de vir.
illustr. 3.1 (vedi supra
nt. 5). Lo stesso Bouché-Leclercq, tuttavia, ritiene che la riforma
vada attribuita ad Anco Marcio (59
s.); mentre alcuni autori negano credibilità alla notizia di Livio ed
affermano la preesistenza della funzione pontificale alla formazione della civitas: E. Pais, Storia di Roma,
I.I. Critica della tradizione sino alla caduta del decemvirato, Torino
1898, 283 ss., il quale negando storicità di Numa, afferma che lo stesso
nome Pompilio deriverebbe da pontifex; G.
Chicca, Orientamenti per la storia
del diritto romano delle origini (fino alla legislazione decemvirale),
Napoli 1956, 12 ss.
[9] Sulla genealogia dei
Marcii vedi E. Peruzzi, Origini di Roma, I. La famiglia, Firenze 1970, 142 ss. Lo stesso A. (vedi anche Origini di Roma, II. Le lettere, Bologna 1973, 156 ss.) dimostra la derivazione
sacerdotale del testo liviano. Lo studioso sottolinea come solo qui Livio
ricordi un personaggio con la piena formula onomastica, informazione questa che
pare risalire agli annales maximi, in quanto l’indicazione
dei nomi per esteso era propria delle annotazioni burocratiche. Inoltre la
riforma di Numa viene esposta con maggiori e minute informazioni proprio sulla
carica del pontifex.
[10] L’esclusiva
competenza pontificale sui sacra
affermata dal racconto dello storico patavino viene menzionata anche da altre
fonti: Cic., de nat. deor. 1.122: sacris pontifices; de har. resp.
14: ad pontifices reicietur,
quorum auctoritati, fidei, prudentiae maiores nostri sacra religionesque et
privatas et publicas commendarunt; de
dom. 41: sacrorum iure pontifices;
Lucan., bell. civ. 1.595: pontifices, sacris quibus est permissa
potestas; Val. Max. 1.1.1: Maiores
statas solemnesque caerimonias pontificum scientia. I pontefici dunque
erano i garanti delle credenze e delle cerimonie sacre: Cic., de nat. deor. 3.5; de har. resp. 18. Vedi inoltre Fest., v. Municipalia sacra,
[11] A. Bouché-Leclercq (Les pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses
de Rome,
cit., 59) sottolinea che per la complessità e la minuzia della liturgia
fissata, secondo la tradizione da Numa, la stessa liturgia doveva essere posta
per iscritto. Infatti, come ha ben sottolineato J. Scheid, Les archives
de
Per i
documenti e gli archivi dei collegi sacerdotali vedi ad esempio: R. Besnier, Les archives
privées, publiques et religieuses à Rome au temps de rois, in
Studi in memoria di E. Albertario, II, Milano 1953, 1 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica. I. “Libri” e
“commentarii”, Sassari 1993; Id.,
Sua cuique civitati religio.
Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 75 ss.; R. Del Ponte, Documenti sacerdotali in Veranio e Granio Flacco: problemi
lessicografici, in Diritto
@ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 4,
novembre 2005.
Antichi
testi liturgici, cui ricorrere in casi di particolare gravità, erano
anche i libri sibillini, sui quali vedi (lett. ivi): H.W. Parke, Sibyls and
sibylline prophecy in classical antiquity, edit. B.C. McGing, London-New
York 1988, 190 ss.
[12] Livio (40.29.3-14)
racconta del ritrovamento alle falde del Gianicolo nel
[13] Nonostante il
richiamo delle fonti ad una religione le cui norme erano poste per iscritto, F.
Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., 52 s., afferma per il
periodo arcaico una totale carenza dell’utilizzo della forma scritta. In
particolare sostiene il «fermo rifiuto di riconoscere la scrittura come
formalità giuridica», poiché la scelta per solenni atti
orali «garantisce che le parti interessate saranno presenti alla sua
conclusione, e la loro presenza era richiesta dai giuristi per bisogno di
chiarezza e ad evitare malintesi». Tuttavia, anche se l’uso della
scrittura non si era sviluppato appieno nel periodo arcaico, si deve dar
rilievo alla sua grande importanza, di cui la locuzione sacra omnia exscripta exsignataque del brano liviano rappresenta un
chiaro esempio.
Per la rilevanza e il potere della
scrittura vedi in particolare: A.
Romano, Il “collegium
scribarum”. Aspetti sociali e giuridici della produzione letteraria tra
III e II secolo a.C., Napoli
1990, 13, la quale evidenzia che nella fase più arcaica in cui si
introdusse la scrittura questa venne «adoperata in funzione
conservatrice, in quanto supporto tecnico utile alla registrazione di un sapere
tuttora insito nella memoria vivente dei rappresentanti delle
élites»; W.V. Harris,
Lettura e istruzione nel mondo antico,
trad. it., Roma-Bari 1991, 174 s., per cui la scrittura aveva usi religiosi che
garantivano l’esattezza verbale da un periodo talmente antico e quindi di
difficile precisazione. Vedi inoltre per l’utilizzo della scrittura nella
tarda repubblica E. Rawson, Intellectual Life in the Late Roman Republic,
London 1985, e per l’età più antica G. Colonna, “Scriba cum rege sedens”, in Mélanges offerts à J. Heurgon. L’Italie
préromaine et la Rome républicaine, I, Rome 1976, 187 ss.
[14] Questo infatti
è l’insegnamento di Cic., de
nat. deor. 3.5: Cumque omnis populi
Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit si
quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sybillae interpretes
haruspicesve monuerunt, harum ego religionum nulla umquam contemnendam putavi
mihique ita persuasi Romulum auspiciis, Numan sacris constitutis fundamenta
icisse nostrae civitatis, quae numquam profecto sine summa placatione deorum
immortalium tanta esse potuisse.
In argomento R. Schilling, L’originalité du vocabulaire
religieux latin, in Revue belge de
philologie et d’histoire 49, 1971, 38 (ora in Id., Rites, cultes,
dieux de Rome, Paris 1979, 37) afferma come la divisione sacra/auspicia
corrispondesse alle provinciae in cui agivano pontefici e auguri,
«piliers fondamentaux» per la religione romana risalente. Per il
significato della bipartizione sacra-auspica nella tradizione
sacerdotale rimando alla pregnante riflessione di F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 13 s.: «Sacra e auspicia
non solo costituiscono i due principali campi della religio, ma
devono essere considerati più propriamente gli originari fundamenta
(riferibili, infatti, alle origini dell’Urbs di Romolo e di Numa
Pompilio) della res publica: sia l’elevato potere conseguito dal
Popolo romano nel corso della sua storia, sia l’estensione
“mondiale” dell’imperium populi Romani sarebbero del
tutto inspiegabili sine summa placatione deorum immortalium».
[15] Per A. Calonge, El Pontifex Maximus y el problema de la distinción entre
magistraturas y sacerdocios, in Anuario
de historia del derecho español 38, 1968, 8, dal passo si evince la
distinzione tra magistratura e sacerdozio in quanto, sebbene si equipari il
pontefice al console, al prefetto, al pretore e al proconsole, in materia di
chiamata in ius, il sacerdote appare separato dai magistrati dalla
locuzione neque ceteros magistratus.
[16] Facere con significato di sacrificare
si ritrova in diverse fonti: Cic., pro
Mur. 90: Nolite a sacris patriis
Iunonis Sospitae cui omnes consules facere necesse est domesticum et suum
consulem potissimum avellere; Varr., de
ling. Lat. 7.88: ut suo quisque ritu
sacrificium faciat; Verg., eglog. 3.77:
cum faciam vitula pro frugibus, ipse
venito; Liv. 25.12.10: decemviri Graeco ritu hostiis sacra faciant;
Fest., v. Curia,
Per la pregnanza di tale verbo vedi in
particolare R. Seguin, Remarques sur les origines des pontifes
romains: Pontifex Maximus et Rex
Sacrorum, cit., 406.
[17] F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione
e diritto pubblico in Roma antica, cit., 178, sottolinea «le
potenzialità classificatorie e sistematiche insite nel testo
liviano».
[18] Secondo E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le
lettere, cit., 157 ss., Livio, da quibus
hostis in poi, riporterebbe i titoli dei capitoli dei libri rituali redatti da Numa e consegnati al pontefice.
[19] Sul tema del rapporto
tra spazio e tempo: P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. “Mundus”, “Templum”,
“urbs”, “ager”, “Latium”,
“Italia”, cit., 442 ss.; G.
Piccaluga, Terminus. I segni di
confine nella religione romana, Roma 1974, 229 ss., 265 ss.; J. Scheid, Religion et piété à Rome, Paris 1985; C. Ampolo, La città
riformata e l’organizzazione centuriata. Lo spazio, il tempo, il sacro
nella nuova realtà urbana, in Storia di Roma, I.
Roma in Italia, Torino 1988, 203 ss.; F.
Sini, Bellum nefandum. Virgilio e
il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991,
22, 73 ss. Circa le relazioni tra l’espansione spaziale di Roma e la sua
vita temporale: R. Turcan, Rome éternelle et les conceptions
greco-romaines de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca. Atti del I Seminario internazionale di studi
storici “Da Roma alla terza Roma”. 21-23 aprile 1981 [Studi 1], Napoli 1983, 9 s.; Id., Terminus et l’universalité
hétérogène: idées romaines et chrétiennes,
in Popoli e spazio romano tra diritto e
profezia. Atti del III Seminario internazionale di studi storici “Da Roma
alla terza Roma”. 21-23 aprile 1983 [Studi 3], Napoli 1986, 49 ss.
[20]
P. Catalano, Aspetti spaziali del
sistema giuridico-religioso romano. “Mundus”,
“Templum”, “urbs”, “ager”,
“Latium”, “Italia”, cit., 442 ss., osserva come dalle
fonti emerga la concezione romana per cui il populus Romanus Quirites sarebbe
nato in un determinato luogo, e in determinato tempo grazie alla volontà
di Iuppiter, accertata auguralmente da Romolo: «l’esistenza del
popolo romano si fonda sulla volontà divina, manifestatasi storicamente e
giuridicamente in un ‘punto dello spazio-tempo’» (442).
[21] Cic., de leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione
melius, eaque est et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis
societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis
est: quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus.
Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem
haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem
imperiis et potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti
discriptioni mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic
mundus una civitas communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in
civitatibus ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum
distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque
praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur. Vedi sul punto: P. Catalano, Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio
reipublicae e rivoluzioni, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995, 724; F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto
pubblico in Roma antica, cit., 190 s.
[22] Nelle fonti si
rinvengono diverse etimologie del termine hostia:
Ovid., fast. 1.336-338: hostibus a domitis hostia nomen habet. /
Ante, deos homini quod conciliare valeret, / far erat et puri lucida mica salis;
Serv., in Verg. Aen. 1.334: ‘Hostia dextra’ hostiae
dicuntur sacrificia quae ab his fiunt qui in hostem pergunt, victimae vero
sacrificia quae post victoriam fiunt. Sed haec licenter confundit auctoritas;
Isid., orig. 6.19.33-34: Hostiae apud veteres dicebantur sacrificia
quae fiebant antequam ad hostem pergerent. Victimae vero sacrificia quae post
victoriam, devictis hostibus immolabant. Et erant victimae maiora sacrificia
quam hostiae. Alii victimam dictam putaverunt, quia ictu percussa cadebat, vel
quia vincta ad aras ducebatur; Paul. Fest., v. Hostia,
[23] Così F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione
e diritto pubblico in Roma antica, cit., 177 ss.
[24] Sui genera hostiarum vedi la bipartizione,
da ricondursi a Trebazio Testa, riportata in Macr., sat. 3.5.1: Cum enim
Trebatius libro primo de Religionibus doceat hostiarum genera esse duo, unum in
quo voluntas dei per exta disquiritur, alterum in quo sola anima deo sacratur,
unde etiam haruspices animales has hostias vocant, utrumque hostiarum genus in
carmine suo Vergilius ostendit.
È da notare come il tema delle vittime fosse trattato dal giurista nel
primo libro sulla religione: per la ricostruzione del De religionibus libri
IX (XI?) vedi F.P.
Bremer, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, I. Liberae rei publicae. Iuris consulti,
Lipsiae 1896 [ed. anast., Roma 1964], 404 ss. Per la derivazione pontificale
del frammento: R. Fiori, ‘Homo sacer’. Dinamica
politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996,
41; F. Sini, Sua cuique
civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica,
cit., 195 s.; per la sua provenienza dalla haruspicina
etrusca: C.O. Thulin, Die etruskiche Disciplin, XII, Die Haruspicin, Göteborg 1906,
11 ss. (ripubblicato in Id., Die etruskische Disciplin, I-III, unver.
reprograf. Nachdr., Darmstadt 1968); Id.,
v. Haruspices, in Paulys Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, 7.2, Stuttgart 1912, 2449; G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 419 nt. 1;
M. Talamanca, Trebazio Testa fra retorica e diritto,
in Questioni di giurisprudenza
tardo-repubblicana. Atti di un seminario, Firenze 27-28 maggio
[25] Il pontefice-giurista
viene ricordato dalle fonti per la sua saggezza e perizia: Cic., de dom. 139; Cat. mai. 27; de amicit.
18; de orat. 3.56; 3.134; per
ciò che riguarda l’attività di Coruncanio in materia di diritto
pontificale vedi in part. Gell., noct. Att. 4.6.10.
In generale su Tiberio Coruncanio vedi: W. Kunkel, Die Römischen Juristen. Herkunft
und soziale Stellung, 2a ed., Graz 1967 [unver. Nachdr., Köln-Weimar-Wien 2001],
7 s.; F. d’Ippolito, Sul pontificato massimo di Tiberio
Coruncanio, in Labeo. Rassegna di
diritto romano 23, 1977, 131 ss.;
Id., I giuristi e la città,
Napoli 1978, 27 ss.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics. A study of the Roman
jurists in their political setting, 316-82 BC.,
München 1983, 71 ss.; F. Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino 1995, 81 ss.;
Id., Sua cuique civitati religio. Religione
e diritto pubblico in Roma antica, cit., 218 ss.; G. Viarengo, I giuristi arcaici: Tiberio Coruncanio,
in Ius Antiquum - Drevnee Pravo 7, 2000, 73 ss. Per
il cursus honorum vedi T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I. 509 B.C. – 100 B.C.,
[26] Plin., nat. hist. 8.206: Suis fetus sacrificio die quinto plures est,
pecoris die VII, bovis XXX. Coruncanius ruminalis
hostias donec bidentes fierent, puras negavit. Per l’esegesi del passo F. Sini, A quibus iura civibus
praescribebantur. Ricerche sui giuristi
del III secolo a.C., cit., 89 ss., a cui rimando per la bibliografia e le
fonti sull’argomento.
[27] Vedi: Gell., noct. Att. 16.6.12-15;
Macr., sat. 6.9.5-7; Serv., in Verg. Aen. 4.57; 6.39; Paul. Fest., v. Bidental,
[28] In particolare, la
competenza dei pontefici in materia risulta da: Gell., noct. Att. 16.6.12-15: 12. P. autem Nigidius in libro, quem de
extis composuit, ‘bidentes’ appellari ait non oves solas, sed omnes
bimas hostias, neque tamen dixit apertius, cur bidentes; 13. sed, quod
ultro existumabamus, id scriptum invenimus in commentariis quibusdam ad ius
pontificum pertinentibus ‘bidennes’ primo dictas d littera inmissa
quasi biennes, tum longo usu loquendi corruptam vocem esse et ex bidennibus
bidentes factum, quoniam id videbatur esse dictu facilius leniusque. Appellari
ait non oves solas, sed omnes bimas hostias, neque tamen dixit apertius, cur
bidentes; 14. Hyginus tamen Iulius, qui ius pontificum non videtur
ignorasse, in quarto librorum, quos de Vergilio fecit, ‘bidentes’
appellari scripsit hostias, quae per aetatem duos dentes altiores haberent.
15. Verba illius ipsa posui: Quae bidens est inquit hostia, oportet habeat
dentes octo, sed ex his duo ceteris altiores, per quos appareat ex minore
aetate in maiorem transcendisse; Macr., sat.
6.9.5-7: 5. Publius autem Nigidius in
libro quem de extis composuit bidentes appellari ait non oves solas sed omnes
hostiae bimas; neque tamen dixit cur ita appellentur. 6. Sed in commentariis ad ius pontificium pertinentibus legi bidennes
primo dictas, d littera ex superfluo, ut saepe adsolet, interiecta. Sic pro
reire redire dicitur et pro reamare redamare, et redarguere, non rearguere; ad
hiatum enim duarum vocalium procurandum interponi solet d littera. 7. Ergo bidennes primum dictae sunt quasi biennes, et longo usu loquendi
corrupta est vox ex bidennibus in bidentes. Hyginus tamen, qui ius pontificium
non ignoravit, in quinto librorum quos de Vergilio fecit bidentes appellari
scripsit hostias quae per aetatem duos dentes altiores haberent; per quos ex
minore in maiorem transcendisse constaret aetatem.
Per la
corrispondenza tra i due passi, e la dipendenza di Macrobio da Gellio, vedi F.
Sini, A quibus iura civibus
praescribebantur. Ricerche sui giuristi
del III secolo a.C., cit., 91 nt. 21.
Per le vittime bidentes vedi inoltre Hor., carm.
3.23.9-16: Nam quae nivali pascitur
Algido / devota quercus inter et ilices / aut crescit Albanis in herbis /
victima, pontificum securis / cervice tinguet; te nihil attinet / temptare
multa caede bidentium / parvos coronantem.
[29] Vedi anche Aurel.
Vict. 28.4, il quale fa riferimento ad una lex
pontificum che regolava l’esatto compimento rituale
dell’immolazione delle hostiae:
Quod equidem denuntiatum ferunt illo
tempore prodigiis portentisque; ex quis unum memorare brevi libet. Nam cum
pontificum lege hostiae mactarentur, suis utero maris feminarum genitalia
apparvere.
[30] Questa corrispondenza
tra vittima e divinità viene ricordata anche da Arnob., adv. nat. 7.19: Diis feminis feminas, mares maribus hostias immolare abstrusa et
interior ratio est vulgique a cognitione dimota [per le nozioni giuridiche
di Arnobio vedi ad esempio: C. Ferrini, Le cognizioni giuridiche di Lattanzio, Arnobio e Minucio Felice, in
Memorie dell’Accademia delle
Scienze di Modena ser. II, 10, 1894, 201 ss. (ora in Id., Opere di Contardo Ferrini,
II. Studi sulle fonti del diritto
romano, a cura di E. Albertario, Milano 1929, 474 ss.); J. Gaudemet, Le droit romain dans la littérature chrétienne
occidentale du IIIe au Ve siècle, in Ius romanum medii aevi, Pars I, 3, b, Mediolani 1978, 45 ss.].
[31] Per ciò che
attiene al pensiero religioso dell’oratore rimando a: J. Vogt, Ciceros Glaube an Rom [Würzburger Studien zur
Altertumswissenschaft 6], Stuttgart 1935 [unver. Aufl., Darmstadt 1963]; S. Jannaccone, Divinazione e culto
ufficiale nel pensiero di Cicerone, in Latomus 14, 1955, 116 ss.; R.D. Sweeney, Sacra in the Philosophic
Works of Cicero, in Orpheus 12,
1965, 99 ss.; J. Guillén, Dios y los dioses en Cicerón, in Helmantica. Revista de humanidades clasicas 25,
1974, 511 ss.; J.-M. André, La
philosophie religieuse de Ciceron. Dualisme Académique et Tripartition
Varronienne, e J. Kroymann, Cicero und die römische Religion, in Ciceroniana. Hommages à K. Kumaniecki [Roma aeterna 9],
éd. A.
Michel, Leiden 1975, rispettivamente alle pagine 11 ss., e 116 ss.; L. Troiani, La religione e Cicerone, in Rivista
storica italiana 96, 1984, 920 ss.; C.
Bergemann, Politik und Religion im
spätrepublikanischen Rom, Stuttgart 1992.
[32] Per quanto riguarda
la purezza delle vittime lactantes,
vedi, ad esempio, Plin., nat. hist. 29.58:
Catulos lactentes adeo puros existimabant
ad cibum, ut etiam placandis numinibus hostiarum vice uterentur iis. Le hostiae maiores venivano sacrificate normalmente in importanti occasioni
che coinvolgevano i riti pubblici, vedi solo a titolo d’esempio: Cic., lege agr. II.93:
Erant hostiae maiores in foro
constitutae, quae ab his praetoribus de tribunali, sicut a nobis consulibus, de
consilii sententia probatae ad praeconem et ad tibicinem immolabantur; Liv.
21.62.7: Iam primum omnium urbs lustrata
est hostiaeque maiores quibus editum est dis caesae; 25.12.12: Ea cum inspecta relataque ad senatum
esse<n>t, censuerunt patres Apollini ludos vovendos faciendosque et,
quando ludi facti essent, duodecim milia aeris praetori ad rem divinam et duas
hostias maiores dandas; 30.27.10-11: Sedecim
non amplius eo anno legionibus defensum imperium est. Et ut placatis dis omnia
inciperent agerendeque, ludos quos M. Claudo Marcello T. Quinctio consulibus T.
Manlius dictator quasque hostias maiores voverat si per quinquennium res
publica eodem statu fuisset, ut eos ludos consules priusquam ad bellum
proficiscerentur facerent; 37.52.2: Supplicatio
inde in triduum decreta est, et quadraginta maiores hostiae immolari iussae;
41.9.7: Eorum prodigiorum causa consules
maiores hostias immolarunt, et diem unum circa omnia pulvinaria supplicatio
fuit.
[33] Sul genere delle
vittime rimando a Serv., in Verg. Aen. 8.641:
‘Iungebant foedera porca’ foedera,
ut diximus supra, dicta sunt a porca foede et crudeliter occisa; [Serv. Dan.: nam cum ante gladiis configeretur, a fetialibus inventum ut silice
feriretur ea causa, quod antiqui Iovis signum lapidem silicem putaverunt esse.
Cicero foedera a fide putat dicta. Sed huius porcae] mors optabatur ei, qui a
pace resilisset. Falso autem ait ‘porca’: nam ad hoc genus
sacrificii porcus adhibebatur. Ergo aut usurpavit genus pro genere, ut timidi
venient ad pocula dammae, cum has dammas dicamus, item supra
‘lupam’, cum artis sit ‘hic’ et ‘haec
lupus’: aut certe illud ostendit, quia in omnibus sacris feminini generis
plus valent victimae. Denique si per marem litare non possent, succidanea
dabatur femina; si autem per feminam non litassent, succidanea adhiberi non
poterat.
[34] I pontefici
classificavano e controllavano le vittime anche in base ad altri parametri,
quale, ad esempio, il risultato che si voleva ottenere con i sacrifici (vedi
Serv., in Verg. Aen. 12.170: non
praeter rationem est quod ait ‘fetum suis’, item ‘intonsamque
bidentem’, id est brevem adhuc: nam in rebus, quas volebant finiri
celerius, senilibus et iam decrescientibus animalibus sacrificabant, in rebus
vero, quas augeri et confirmari volebant, de minoribus et adhuc crescentibus
immolabant), oppure in base all’altezza, in quanto le vittime corte
non erano gradite dagli dèi (vedi Plin., nat. hist. 8.183, il quale quando
parla dei tori afferma: Hinc victimae
opimae et cautissima deorum placatio. Huic tantum animali omnium, quibus
procerior, cauda non statim nato consummatae ut ceteris mensurae: crescit uni,
donec ad vestigia ima perveniat. Quam ob rem victimarum probatio in vitulo, ut
articulum suffraginis contingant; breviore non litant. Hoc quoque notatum,
vitulos ad aras umeris hominis adlatos non fere litare, sicut nec claudicante,
nec aliena hostia deos placari, nec trahente se ab aris). Come riporta
Arnobio (adv. nat. 7.18), infatti, le
divinità pagane reclamavano una vasta gamma di sacrifici: Quae enim est causa ut ille tauris deus,
hoedis alius honoretur aut ovibus, hic lactentibus porculis, alter intonsis
agnis, hic virginibus bubulis, capris ille cornutis, hic sterilibus vacculis,
at ille incientibus scrofis, hic albentibus, ille taetris, alter faeminei
generis, alter animantibus masculinis. Questa testimonianza, seppure
inserita in un duro attacco contro la religione politeista romana, offre la
misura del minuzioso lavoro per questa disciplina compiuto dai pontefici.
[35] Riguardo al colore
dei polli: Plin., nat. hist. 10.156: Ad rem divinam luteo rostro pedibusque purae
non videntur, ad opertanea sacra nigrae; per le corna di colore dorato
delle vittime maggiori 33.39: Deorum
honoris causa in sacris nihil aliud excogitandum est quam ut auratis cornibus
hostiae maiores dumtaxat, immolarentur.
Sempre in
riferimento al colore delle hostiae si deve ricordare il racconto di Valerio
Massimo (2.4.5), il quale, nell’illustrare l’origine dei ludi saeculares, fa riferimento al precedente rito dei ludi Tarentini,
da cui sarebbero derivati appunto i ludi saeculares nati
dall’episodio del ricco Valesio e dei suoi figli miracolati da una grave
malattia, al quale le divinità richiesero il sacrificio di vittime furvae (Qua potata salutari quiete sopiti diutina vi morbi repente sunt
liberati patrique indicaverunt vidisse se in somnis a nescio quo deorum spongea
corpora sua pertergeri et praecipi ut ad Ditis Patris et Proserpinae aram, a
qua potio ipsis fuerat adlata, furvae hostiae immolarentur lectisterniaque ac
ludi nocturni fierent), intendendosi
per “furvae” nigrae (Valesius … hostias nigras, que
antiquitus furvae dicebantur, Tarenti immolavit. Sulle hostiae furvae
vedi anche: Hor., carm. 2.13.21: Quam paene furvae regna Proserpinae;
Paul. Fest., v. Furvum,
[36] Lo stesso Apuleio,
nel paragrafo seguente del de deo Socratis, afferma come, nonostante
fossero state fissate le procedure sacre, frequenti furono i segnali di
indignazione divina: 150: Quae omnia pro cuisque more loci sollemnia et rata
sunt, ut plerumque somniis et vaticinationibus et oraculis conperimus saepe
numero indignata numina, si quid in sacris socordia vel superbia neglegatur.
[37] Vedi per le probationes:
Cic., lege agr. II.93
(vedi supra nt. 32); Plin., nat. hist. 8.183
(vedi supra nt. 34); Serv., in Verg.
Aen. 12.173: ‘Dant fruges
manibus salsas’ far
et sal: quibus rebus et cultri aspergebantur et victimae. Erant autem istae probationes,
utrum aptum esset animal sacrificio. Obliquum etiam cultrum a fronte usque ad
caudam ante immolationem ducere consueverant: nam hoc est quod dicit ‘et
tempora ferro summa notant pecudum’.
Nello studio di H. Rix, Etrusco un, une, unu «te, tibi, vos» e le preghiere dei rituali paralleli nel liber
linteus, in Miscellanea etrusca e italica
in onore di M. Pallottino, I,
Archeologia Classica. Rivista del Dipartimento di Scienze storiche
archeologiche e antropologiche dell’antichità 43, Romae 1991,
665 ss., si evidenzia questa necessità di un’idoneità delle
vittime, anche nei rituali umbri e nel liber
linteus di Zagabria. Durante il sacrificio si procedeva ad una preghiera
presentativa, la cui funzione era quella di presentare la vittima ancora viva
alla divinità, come priva di vizi (ad es. nelle Tavole Iguvine si
può leggere la presentazione al dio di un porco da sacrificare privo di
vizi: 2 b 7: si … sevakne naratu).
L’A. individua in queste espressioni, oltre alla formula presentativa,
una offertiva che seguiva alla prima, frase rituale con la quale si dichiarava
l’offerta della vittima come tale. L’espressione offertiva si
rinviene anche nelle preghiere latine, portando come esempio Cat., de agr. 139: te hoc porco piaculo immolando preces precor.
Questa cautela nel compimento dei
sacrifici si riscontra in diverse prescrizioni: vedi, ad esempio: Gell., noct. Att. 2.28.3; Serv., in Verg. Buc. 5.66; cfr. anche Serv.
Dan., in Verg. Buc. 8.75.
[38] Come Macrobio, riconduce
ad un utilizzo rituale del termine Paul. Fest., v. Eximium,
Per un esempio dell’utilizzo
della parola nel vocabolario rituale romano in relazione ai sacrifici offerti a
Ercole: Liv. 1.7.12: Ibi tum primum bove eximia capta de grege sacrum
Herculi … factum. Interessante la tarda testimonianza di Aelius
Donatus, nel suo Commentum Hecyrae 1.1.9.3: Sed proprie eximii sunt porci
maiores, qui ad sacrificandum excepti uberius pascuntur. Etenim boves, qui ad
hoc electi sunt egregii dicuntur et oves lectae (ed. P. Wessner, II,
Lipsiae 1905, 205), il quale propone una classificazione tecnica rispetto alle
famiglie zoologiche delle hostiae. Rimando per i vari significati del
termine alla voce relativa di: Æ. Forcellini,
Totius latinitatis Lexicon, II, cit.,
231 s.; M. Leumann, in Thesaurus Linguae Latinae V,2, fasc. 10 exhorresco-expavesco, Lipsiae 1942,
coll. 1491 ss. Per l’analisi etimologica vedi A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine. Histoire des mots, cit., 195, dove si intende la parola come derivato di emere, ed eximius
ha il significato di «mis à part, qui se détache des
autres, et par suite “excellent, hors de pair”», e
probabilmente in origine fu un termine rituale. Sottolinea la tecnicità del
termine eximius da ultimo R. Del
Ponte, Documenti sacerdotali in Veranio e Granio Flacco: problemi
lessicografici, cit., il quale afferma che «chiaro risulta
l’esatto senso da darsi all’aggettivo eximius, non un
semplice epiteto esornativo, bensì sacerdotale nomen, in quanto
riferito a quelle vittime quae ad sacrificium destinatae eximantur,
vengono cioè scelte dall’armento in virtù delle loro
specifiche qualità come più adatte agli dèi».
[39] Così E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le
lettere, cit., 158. Vedi inoltre un significativo passo di Catone (de agr. 134) che
descrive il rituale da compiersi prima di ogni mietitura, in cui si elencano minuziosamente
alcune offerte insieme alla divinità alla quale dovevano essere rivolte:
Priusquam messim facies, porcam
praecidaneam hoc modo fieri oportet: Cereri porca praecidanea porco femina,
priusquam hasce fruges condant: far, triticum, hordeum, fabam, semen rapicium.
Thure, vino Iano, Iovi, Iunoni praefato, priusquam porcum feminam immolabis;
Iano struem ommoveto sic: “Iane pater, te hac strue ommovenda bonas
preces precor uti sies volens propitius mihi liberisque meis, domo familiaeque
meae”. Fertum Iovi ommoveto et mactato sic: “Iupiter, te hoc ferto
obmovendo bonas preces precor uti sis volens propitius mihi liberisque meis,
domo familiaeque meae mactus hoc ferto”. Postea Iano vinum dato sic:
“Iane pater, uti te strue ommovenda bonas preces bene precatus sum,
eiusdem rei ergo macte vino inferio esto”. Postea Iovi sic:
“Iuppiter, macteisto ferto esto, macte vino inferio esto”. Postea
porcam praecidaneam immolato. Ubi exta prosecta erunt, Iano struem ommoveto
mactatoque item uti prius obmoveris; Iovi fertum obmoveto mactatoque item uti
prius feceris; item Iano vinum dato et Iovi vinum dato item uti prius datum ob
struem obmovendam et fertum libandum. Postea Cereri exta et vinum dato. Per un suo commento rimando a R. Goujard, in Caton, De l’agriculture [Collection des
Universités de France], Paris 1975, 113 ss. Si tratta di un piaculum operis faciendi che permetteva
di procedere ad una data attività, quale la raccolta, senza con
ciò compromettere il rapporto con gli dèi. La presenza di
numerosi termini arcaici può dimostrare l’originalità della
formula, ed è probabile che essa provenga proprio da documenti
pontificali. È arcaico l’uso, ad esempio, di porcum al femminile, (vedi Fest., v. Recto fronte,
[40] Cic., de leg. 2.20: Itemque alios ad dies ubertatem lactis feturaeque servanto, idque nec
omitti possit, ad eam rem rationem habento, cursus annuos sacerdotes finiunto,
quaeque quoique divo decorae grataeque sint hostiae, providento. Per l’attribuzione della
vittima più idonea a ciascuna divinità vedi anche: Serv., in Verg. Aen. 3.118: ‘Meritos’ unicuique aptos; ratio
enim victimarum fit pro qualitate numinum: nam aut haec immolantur quae obsunt
eorum muneribus, ut porcus Cereri, quia obest frugibus, hircus Libero, quia
vitibus nocet: aut certe ad similitudinem, ut inferis nigras pecudes, superis
albas immolent, item tempestati atras, candidas serenitati; in
Verg. Georg. 2.380: ‘Non aliam ob culpam Baccho c.
o. a.’ victimae numinibus aut per similitudinem aut per contrarietatem
immolantur: per similitudinem, ut nigrum pecus Plutoni; per contrarietatem, ut porca,
quae obest frugibus, Cereri, ut caper, qui obest vitibus, Libero, item capra
Aesculapio, qui est deus salutis, cum capra numquam sine febre sit.
‘Aris’ autem ‘omnibus’ non sine causa dixit; nam cum
numinibus ceteris varie pro qualitate regionum sacrificetur - ut Veneri Paphiae
tantum de ture, unde est haud equidem tali me dignor honore, Genetrici vero, id
est Romanae, etiam de victimis -, Libero ubique caper immolatur.
Vedi inoltre, ad esempio: Propert., eleg.
4.1.21-28, i cui versi riportano ciò che Vesta chiedeva nei
sacrifici: Vesta coronatis pauper
gaudebat asellis, / ducebant macrae vilia sacra boves. / Parva saginati
lustrabant compita porci, / pastor et ad calamos exta litabat ovis. / Verbera
pellitus saetosa movebat arator, / unde licens Fabius sacra Lupercus habet. /
Nec rudis infestis miles radiabat in armis: / miscebant usta proelia nuda sude;
per quanto riguarda le vittime da destinare alla Mater Magna: Macr., sat. 1.12.20: Adfirmat quidam, quibus Cornelius Labeo consentit, hanc Maiam cui mense
Maio res divina celebratur terram esse, hoc adeptam nomen a magnitudine, sicut
et Mater Magna in sacris vocatur; adsertionemque aestimationem suae etiam hinc
colligunt quod sus praegnas ei mactatur, quae hostia propria est terrae.
[41] Del resto anche i
nomi degli dèi venivano conservati nei libri pontificali: Cic., de nat. deor. 1.84: Deinde nominum non magnus numerus ne in pontificiis quidem nostris.
[42] Vedi a proposito del
rapporto tra gli indigitamenta e Numa: Arnob., adv. nat. 2.73.18: Non
doctorum in litteris continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta
nescire?; Lact., inst. Div. 1.22.4:
[Numa] deos per familias descriptis. Cfr. per indigitamenta e indigetes: Cens., de die nat. 3.2: Eundem esse Genium et Larem
multi veteres memoriae prodiderunt, in quis etiam Granius Flaccus in libro quem
ad Caesarem de indigitamentis scriptum reliquit; 4: alii sunt praeterea
dei conplures hominum vitam pro sua quisque portione adminiculantes; quos
volentem cognoscere indigitamentorum libri satis edocebunt; Serv., in Verg. Aen. 12.794: ‘Indigetem Aenean scis ipsa et scire fateris’ sabaudis ‘fore’. Et indigetes dii duplici
ratione dicuntur: vel secundum Lucretium, quod nullius rei egeant, qui ait
«ipse suis pollens opibus» nihil indiga curae [Serv.
Dan.: vel quod nos deorum indigeamus, unde quidam omnes deos indigetes
appellari volunt. Alii patrios deos indigetes dici debere tradunt, alii ab
invocatione indigetes dictos volunt, quod ‘indigeto’ est precor et
invoco]: vel certe indigetes sunt dii ex hominibus facti, et dicti
indigetes quasi in diis agentes; Paul. Fest., v. Indigetes,
Per gli indigitamenta e gli di indigetes vedi: Lilius Gregorius Gyraldus, Historiae
Deorum Gentilium, Basileae (per Ioannes Oporinus) 1548, 26,
[testo edito e posto in rete dalla Kommission für antike Literatur und
lateinische Trasmission der Österreichische Akademie der Wissenschaften];
J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 45 e
nt. 1; Id., Le culte II, trad. fr. par M. Brissaud, Paris 1890, 10 ss., 37 ss.;
A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome.
Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, cit., 24
ss.; G. Wissowa, Religion und
Kultus der Römer, cit.,
18 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 43 ss.; N.
Turchi, La religione di Roma antica, cit., 157 ss.; G.B. Pighi, La religione romana,
cit., 46 ss.; A. Pastorino, La
religione romana, cit., 199 ss.; G.
Dumézil, La religion
romaine archaïque, cit., 52 ss.; R.E.A. Palmer, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays, Philadelphia 1974,
128 ss.; R. Del Ponte, La religione dei romani. La religione e il sacro
in Roma antica, cit., 78 ss.; Id., Aspetti del lessico pontificale: gli
«indigitamenta», in Ius
Antiquum - Древнее
Право 5, 1999, 154 ss. (ora in Diritto @ Storia. Scienze Giuridiche e Tradizione Romana
1, maggio 2002).
[43] Serv., in Verg. Georg. 1.21: Quod autem dicit ‘studium quibus arva
tueri’ nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in
libris pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum
continent, quae etiam Varro dicit. Per questo grammatico della fine del IV
sec. d.C. vedi da ultimo A. Pellizzari,
Servio. Storia, cultura e istituzioni
nell’opera di un grammatico tardoantico, Città di Castello
2003 (ivi letteratura precedente 301 ss.).
[44] Una testimonianza
della conservazione degli indigitamenta
nei libri pontificali è anche Macr., sat.
1.12.21: Auctor est Cornelius Labeo huic Maiae id est terrae aedem kalendis
Maiis dedicatam sub nomine Bonae Deae et eandem esse Bonam Deam et terram ex
ipso ritu occultiore sacrorum doceri posse confirmat. Hanc eandem Bonam Faunamque, Opem et Fatuam pontificum libris indigitari.
[45] L’aspettativa
di un vantaggio emerge, ad esempio, in Plaut., curc. 531: Quoi homini di
sunt propitii, lucrum ei profecto obiciunt; interessante anche la frase
successiva del leno Cappadox che
vuole ringraziare gli dèi per aver concluso un buon affare. Il lenone,
infatti, allude ad un ringraziamento sostanzioso, quasi proporzionale alla
bontà dell’affare: Nunc rei
divinae operam dabo; certumst bene me curare. Questa correlazione tra scopi
voluti e vittime sacrificali si ritrova anche in Tib., eleg. 1.1.22: nunc
agna exigui est hostia parva soli (Tibulle
et les auteurs du corpus tibullianum, 5a ed., éd. M.
Ponchont,
Paris 1961, 11); ma vedi anche l’edizione di G. Luck, Albii Tibulli aliorumque carmina,
Stuttgart 1988: Nunc agna exigui est
hostia magna soli. Cfr. ancora: Val. Max. 2.5.6: Et ceteros [sic deos] quidem ad benefaciendum venerabantur;
Aug., de civ. Dei 4.22: Quid est ergo,
quod pro ingenti beneficio Varro iactat praestare se civibus sui, quia non
solum commemorat deos, quos coli oporteat a Romanis, verum etiam dicit quid ad
quemquem pertineat? … «Ex eo enim poterimus, inquit, scire quem
cuisque causa deum advocare atque invocare debeamus, ne faciamus, ut mimi
solent, et optemus a Libero aquam, a Lymphis vinum». Alle volte,
tuttavia, nonostante gli sforzi umani, i sacrifici non erano graditi agli
dèi, vedi, ad esempio, Liv. 27.23.4: Horum
prodigiorum causa diem unum supplicatio fuit. Per dies aliquot hostiae maiores
sine litatione caesae, diuque non impetratat pax deum.
[46] Da diverse fonti,
come ad esempio Arnob., adv. nat. 7.19 (vedi supra nt. 30), risulta una sorta di
corrispondenza speculare tra le caratteristiche delle divinità e quelle
delle vittime. Di conseguenza determinate peculiarità delle bestie erano
elementi indispensabili che rendevano le hostiae atte al sacrificio
offerto allo specifico dio. Questo emerge chiaramente da un brano delle res rusticae, in cui Varrone spiega il
rapporto intercorrente tra colture agricole – animali - dèi:
1.18-19: Quaedam enim pecudes culturae
sunt inimicae ac veneno, ut istae quas dixti caprae. Haec enim omnia novella
sata carpendo corrumunt, non minimum vites atque oleas. Itaque propterea
institutum diversa de causa ut et caprino genere ad alii dei aram hostia
adduceretur, ad alii non sacrificaretur, cum ab eodem odio alter videre nollet,
alter etiam videre pereuntem vellet. Sic factum ut Libero Patri, repertori
vidis, irci immolaretur, proinde ut capite darent poenas; contra Minervae
caprini generis nihil immolarent propter oleam, quod eam quam laeserit fieri
dicunt sterilem: eius enim salivam esse fructuis venenum. Su
«certaines corrélations symboliques» tra le vittime e le
divinità alle quali si sacrificavano rimando a G. Dumézil, La
religion romaine archaïque, cit., 550 s.; dello stesso A. vedi anche Jupiter et les victimes mâles,
pubblicato in parte in Quaestiunculae indo-italicae, 11-
[47] Per il calendario
romano rimando da ultimi a: G. Radke, Fasti
Romani. Betrachtungen
zur Frühgeschichte des römischen Kalenders, Münster 1990; J. Rüpke, Fasti. Quellen oder
Produkte römischer Geschichtsschreibung?, in Klio 77, 1995, 184
ss.; Id., Kalender und
Öffentlichkeit. Die Geschichte der Repräsentation und religiösen
Qualifikation von Zeit in Rom [Religionsgeschichtliche Versuche und
Vorarbeiten 40], Berlin-New York 1995;
L. Magini, Astronomy and calendar in ancient Rome: the eclipse
festivals, Roma 2001 (ivi letteratura precedente).
[48] Per l’attribuzione a Numa della riforma del calendario vedi: Liv.
1.19.6: Atque omnium primum ad cursus
lunae in duodecim menses describit annum; quem, quia tricenos dies singulis
mensibus luna non explet desuntque dies solido anno qui solstitiali
circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita dispensavit ut
vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis omnium annorum
spatiis, dies congruerent; Macr., sat.
1.16.2: Numa ut in menses annum, ita
in dies mensem quemque distribuit, diesque omnes aut festos aut profestos aut
intercisos vocavit. Festi dis dicati sunt, profesti hominibus ob administrandam
rem privatam publicamque concessi, intercisi deorum hominumque communes sunt.
Cfr. anche Cens., de die nat.
20.4-6. Tuttavia
in materia non si trova una piena concordanza delle fonti: M. Giuno Graccano
(Cens., de die nat. 20.4)
attribuiva la riforma del calendario a Tarquino Prisco, mentre Varr., de ling. Lat. 6.34, colloca la creazione
dell’anno composto da dieci mesi prima di Numa, e ricorda la successiva
introduzione dei mesi di gennaio e di dicembre senza però riportarne
l’autore. Questa riforma è da collegare alle innovazioni in campo
religioso attribuite tradizionalmente a Numa. A tale fine si devono ricordare
le riflessioni di M. Le Glay, La religion romaine, cit., 19 s., per
cui molto velocemente gli antichi Romani pervennero ad una: «conception
temporaliste de leur religion»; infatti, il calendario primitivo, sotto
influenza etrusca, si strutturò per racchiudere un rituale «organisé
dans le temps, codifié par des prêtes pour rendre à des
dieux de plus en plus nombreux et personnalisés les honneurs
correspondant aux préoccupations saisonnières des hommes».
[49] Avvenuta nel
[50] Secondo M. Meslin, La fête des kalendes de janvier dans l’empire romain. Etude
d’un rituel de Nouvel An, Bruxelles 1970, 10, l’adattamento del
calendario lunare al ciclo solare derivò dall’influenza etrusca. Siamo di fronte ad una «véritable révolution, sans
doute enseignée à Rome par les Etrusques et qui devait placer le
début d’année vers les alentours du solstice d’hiver,
selon une mesure astronomique du temps, et non plus selon l’estimation
plus ou moins empirique du renouveau printanier».
[51] Cic., pro Mur. 25: Posset agi lege necne pauci quondam
sciebant; fastos enim vulgo non habebant. Erant in
magna potentia qui consulebantur; a quibus etiam dies tamquam a Chaldaeis
petebatur. Inventus est scriba quidam Cn. Flavius qui cornicum oculos
confixerit et singulis diebus discendis fastos populo proposuerit et ab ipsis
cautis iuris consultis eorum sapientiam compilarit. Itaque irati illi, quod
sunt veriti ne dierum ratione pervulgata et cognita sine sua opera lege
<agi> posset, verba quaedam composuerunt ut omnibus in rebus ipsi
interessent.
[52] Degne di nota
risultano le considerazioni di G.
Piccaluga, Terminus. I segni di
confine nella religione romana, cit., 235, la quale afferma che attraverso
la riforma numana «il tempo, pur calcolato in base a fatti astronomici e
dunque legato alla natura, si distacca da questa e diviene, specie nella sua
sistemazione ultima articolantesi in giorni festivi e non (differenziazione,
questa esistente solo sul piano umano), una creazione culturale per
eccellenza».
[53] Cfr. anche il suo
epitomatore Flor., epit. Liv. 1.2.2: annumque in duodecim menses, fastos dies
nefastosque discripsit.
[54] Per la definizione
dei giorni fasti, comiziali e nefasti vedi: Varr., de ling. Lat. 6.29: Dies
fasti, per quos praetoribus omnia verba sine piaculo licet fari. Comitiales dicti, quod
tum ut coiret populus constitutum est ad suffragium ferundum, nisi si quae feriae
conceptae essent, propter quas non liceret, <ut> Compitalia et Latinae.
Contrarii horum vocantur dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem: do,
dico, addico; 6.53: Hinc fasti dies, quibus verba certa legitima sine piaculo praetoribus
licet fari; ab hoc nefasti, quibus diebus ea fari ius non est et, si fati sunt,
piaculum faciunt. Per gli altri giorni vedi Fest., v. Profestum facere,
[55] Vedi anche Cic., de divin. 1.102: Quae maiores nostri quia valere censebant, idcirco omnibus rebus
agendis ‘quod bonum, faustum, felix fortunatumque esset’
praefabantur, rebusque divinis, quae publice fierent, ut ‘faverent
linguis’, imperabatur inque feriis imperandis, ut ‘litibus et
iurgiis se abstinerent’; de
leg. 2.19: Feriis iurgia amovento,
easque in famulis operibus patratis habento, itaque, ut rite cadant in annuis
anfractibus, descriptum esto. Certasque fruges certasque bacas sacerdotes
publice libanto, hoc certis sacrificiis ac diebus (da notare
nell’ultima frase l’utilizzo insistente di certas/certis).
Per le
ferie vedi in particolare: Macr., sat. 1.16.4:
Sacra celebritas est vel cum sacrificia dis
offeruntur vel cum dies divinis epulationibus celebratur vel cum ludi in
honorem aguntur deorum vel cum feriae observantur; Paul. Fest., v. Ferias,
Per
i giorni dedicati al culto, vedi ad esempio: L.G.
Gyraldus, Historiae Deorum Gentilium, cit., 679 ss.; A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique
sur les institutions religieuses de Rome,
cit., 113 ss.; G. Vaccai, Le
feste di Roma antica. Miti, riti, costumi, Torino 1902; G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 432 ss.; L. Delatte, Recherches sur quelques
fêtes mobiles du calendrier romain, in Antiquité classique 5,
1936, 381 ss.; Id., Recherches
sur quelques fêtes mobiles du calendrier romain (suite et fin), in Antiquité
classique 6, 1937, 93 ss.; G.
De Sanctis, Storia dei Romani, IV. La
fondazione dell’impero, II. Vita
e pensiero nell’età delle grandi conquiste, 1953 [rist.,
Firenze 1963], 323 ss.; D.P. Harmon, Public Festivals of Rome, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt, II.16.2, Berlin-New York 1978, 1440 ss.; Id., The Family
Festivals of Rome, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt, II.16.2, Berlin-New York 1978, 1592 ss.; H.H. Scullard, Festivals and
Ceremonies of the Roman Republic, London 1981; G. Radke, Fasti Romani. Betrachtungen zur Frühgeschichte des römischen
Kalenders, cit., 25 ss.; J. Rüpke,
Kalender und Öffentlichkeit. Die Geschichte der Repräsentation und
religiösen Qualifikation von Zeit in Rom, cit., 487 ss.
[56] Per quanto riguarda
le possibili ferie per gli animali vedi Catone, secondo cui non esistevano
feste, anche se facevano eccezione le festività familiari: de agr. 138: Boves feriis coniungere licet. Haec
licet facere: aruehant ligna, fabalia, frumentum, quod non saturus erit. Mulis,
equis, asinis feriae nullae, nisi si in familia sunt. In particolare offre la
serie di prescrizioni nei giorni feriali, e fa riferimento a istruzioni
pontificali in materia di animali, Colum., res
rust. 2.21: M. Porcius Cato mulis,
equis, asinis nullas esse ferias ait, idemque boves permittit coniungere
lignorum et frumentorum advehendorum causa. Nos apud pontifices legimus fereis
tantum denicalibus mulos iungere non licere, ceteris licere. Intorno agli
interventi sugli ovini nei giorni festivi vedi, ad esempio, Macr., sat. 3.3.11: Cavetur enim in iure pontificio ut, quoniam oves duabus ex causis
lavari solent, aut ut curetur scabies aut ut lana purgetur, festis diebus
purgandae lanae gratia oves lavare non liceat, liceat autem, si curatione
scabies abluenda sit, dove la deroga al divieto pontificale di lavare le
pecore, nel caso l’animale fosse afflitto dalla scabbia, par colorarsi di
un principio di economicità. Sembra alludere ad un riposo bovino Orazio
nella sua ode rivolta a Fauno, carm.
3.18.9-12: Ludit heboso pecus omne campo.
/ Cum tibi Nonae redeunt Decembres, / festus in patris vacat otioso / cum bove
pagus.
La
funzione della messa a riposo degli animali viene ricordata da G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 557, per il quale aveva
«vertu revigorante». «Per il riposo sacrale degli animali da
lavoro» rimando in particolare a P.P.
Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema
giuridico romano, Torino 2002, 85
ss.
[57] Per l’intercalare rimando a: A.K.
Michels, The Intercalary Month in the Pre-Julian Calendar, in Hommages
à A. Grenier, édit. par M. Renard, Bruxelles 1962, 1174 ss.; V.M. Warrior, Notes on
Intercalation, in Latomus 50, 1991, 80 ss.; Id., Intercalation and the Action of M’. Acilius Glabrio (cos.
191 BC),
in Studies in Latin Literature and Roman history, VI , édit. par C. Deroux, Bruxelles 1992, 119
ss. Per gli effetti dell’intercalare «nel traffico giuridico
quotidiano» vedi F. Bona, “Ius pontificium” e “ius
civile” nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema
aperto, in “Contractus” e
“pactum”. Tipicità e libertà negoziale
nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e
della presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina,
Copanello 1-4 giugno
[58] Più di
“negligenza” bisognerebbe parlare dell’uso politico
dell’intercalare: cfr. F. Bona,
“Ius pontificium” e
“ius civile” nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana: un
problema aperto, cit., 224 ss.
[59] Anche in altre fonti
si sostiene che i pontefici non svolsero questo incarico in maniera diligente.
Se Cicerone (de leg. 2.29, vedi supra in questo
par.) parla di negligenza, ricorda
addirittura abusi commessi dai pontefici Censorino, de die nat. 20.7: Sed horum
plerique ob odium vel gratiam, quo quis magistratu citius abiret diutiusve
fungeretur aut publici redemptor ex anni magnitudine in lucro damnove esset,
plus minus ve ex libidine intercalando rem sibi ad corrigendum mandatam ultro
quod depravarunt, mentre fa riferimento a vizi tali da sfasare
completamente le celebrazioni Svetonio,
Caes. 40.1: Conversus hinc ad
ordinandum rei publicae statum fastos correxit iam pridem vitio pontificum per
intercalandi licentiam adeo turbatos, ut neque messium feriae aestate neque
vindemiarum autumno conpeterent; annumque ad cursum solis accommodavit, ut
trecentorum sexaginta quinque dierum esset et intercalario mense sublato unus
dies quarto quoque anno intercalaretur.
[60] Vedi Gell., noct. Att. 4.6.10, in cui si ricorda un
decreto dell’intero collegio che non rilevò alcun impedimento
religioso per le feriae praecidaneae
inaugurate in diem atrum dal
pontefice massimo Tiberio Coruncanio. Per questo frammento rimando a F. Sini, A quibus iura civibus
praescribebantur. Ricerche sui giuristi del
III secolo a.C., cit., 92 ss.
[61] Gell., noct. Att. 5.17.1-2: Verrius Flaccus in quarto de verborum
significatu dies, qui sunt postridie Kalendas, Nonas, Idus, quos vulgus
imperite ‘nefastos’ dicit, propter hanc causam dictos habitosque
‘atros’ esse scribit. ‘Urbe’ inquit ‘a Gallis
Senonibus recuperata L. Atilius in senatu verba fecit Q. Sulpicium tribunum
militum ad Alliam adversus Gallos pugnaturum rem divinam dimicandi gratia
pstridie Idus fecisse; tum exercitum populi Romani occidione occisum et post diem
tertium eius diei urbem praeter Capitolium captam esse; compluresque alii
senatores recordari sese dixerunt, quotiens belli gerendi gratia res divina
postridie Kalendas, Nonas, Idus a magistratu populi Romani facta esset, eius
belli proximo deinceps proelio rem publicam male gestam esse. Tum senatus eam
rem ad pontifices reiecit, ut ipsi, quod videretur, statuerent. Pontifices
decreverunt nullum his diebus sacrificium recte futurum’.
[62] L’etimologia
del nome di tali giorni in Varr., de ling. Lat. 6.28: Nonae appellatae aut quod ante diem nonum
idus semper aut quod, ut novus annus Kalendae Ianuarie ab novo sole appellatae,
novus mensis <ab> nova luna Nonae. Per
le none vedi da ultimo J. Rüpke,
Kalender und Öffentlichkeit. Die Geschichte der Repräsentation und
religiösen Qualifikation von Zeit in Rom, cit., 212 ss.
[63] Sull’etimologia
delle idi, il grammatico reatino affermava che: Idus ab eo quod Tusci itus
vel potius quod Sabini edus dicunt (de
ling. Lat. 6.28). Per le idi vedi sempre J. Rüpke, Kalender und
Öffentlichkeit. Die Geschichte der Repräsentation und religiösen
Qualifikation von Zeit in Rom, cit., 209 s.
[64] Dal passo tuttavia,
pare che la questione venne rinviata ai pontefici per la loro generale competenza
sui sacrifici. Nel racconto dello stesso episodio Macrobio specifica che il
rinvio al collegio avvenne in merito all’osservanza religiosa: sat. 1.16.21-24: Dies autem
postriduanos ad omnia maiores nostri cavendos putarunt, quos etiam atros velut
infausta appellatione damnaruntur. Eosdem tamen non nulli communes velut ad
emendationem nominis vocitaverunt. Horum causam Gellium ‘annalium’
libro quinto decimo et Cassius Hemina ‘historiarum’ libro secundo
referunt. 22. Anno ab urbe condita trecentesimo sexagesimo tertio a
tribunis militum Virginio Manlio Aemilio Postumio collegisque eorum in senatu
tractatum quid esset propter quod totiens intra paucos annos male esset
afflicta res publica; et ex praecepto patrum L. Aquinium haruspicem in senatum
venire iussum religionum requierendarum gratia dixisse: 23. Q. Sulpicium
tribunum militum ad Alliam adversum Gallos pugnaturum rem divinam dimicandi
gratia fecisse postridie idus Quintiles; item apud Cremeram multisque aliis
temporibus et locis post sacrificium die postero celebratum male cessisse
conflictum. 24. Tunc patres iussisse ut ad collegium pontificum de his
religionibus referretur; pontificesque statuisse postridie omnes kalendas nonas
idus atros dies habendos, ut hi dies neque proeliares neque puri neque
comitiales essent.
[65] Macr., sat. 1.16.28: quod Iulius Modestus
adfirmat Messalla augure consulente pontifices, an nundinarum Romanorum
nonarumque dies feriis tenerentur, respondisse eos nundinas sibi ferias non
videri.
[66] Sul punto vedi, ad
esempio, Liv. 32.1.9: Feriae Latinae
pontificum decreto instauratae sunt, quod legati ab Ardea questi in senatu
erant sibi in monte Albano Latinis carmen, adsolet, datam non esse. Circa
la derivazione del nome di queste ferie vedi Varr., de ling. Lat. 6.25:
Similiter Latinae feriae dies conceptivus, dictus a Latinis populis, quibus
in Albano monte ex sacris carnem petere fuit ius cum Romanis, a quibus Latinis
Latinae dictae. Per l’origine della festa vedi ancora, tra le diverse
testimonianze letterarie: de vir. illustr. 8.2: Gabios per Sextum
filium simulato transfugio in potestatem redegit et ferias Latinas primus
instituit; Macr., sat. 1.16.17: nec Latinarum tempore, quo
publice qondam indutiae inter populum Romanum Latinosque firmatae sunt,
inchoari bellum decebat.
[67] Parrebbe riferirsi
alla conservazione nei libri pontificali dei sancta loca la lacunosa
glossa festina, v. <Tesca>,
[68] Per le accezioni e
l’etimologia del termine vedi: Æ. Forcellini, Totius
latinitatis Lexicon, consilio et cura J. Facciolati, IV, Patavii 1771, v. templum, 335 s., e A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 680 s. Vedi
inoltre l’indagine linguistica di P.
Cipriano, Templum, Roma 1983.
Per i templa vedi, ad esempio: I.M.J. Valeton, De templis Romanis,
in Mnemosyne 20, 1892, 338 ss.; 21, 1893; 62 ss., 397 ss.; 23, 1895, 15
ss.; 25, 1897, 93 ss., 361 ss.; 26, 1898, 1 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit.,
527 ss.; P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. “Mundus”, “Templum”,
“urbs”, “ager”, “Latium”,
“Italia”, cit., 467 ss.;
D. Scagliarini Corlàita, v. tempio, in Enciclopedia virgiliana,
V, T-Z, Roma 1990, 80 ss., con
particolare riferimento all’uso nelle opere di Virgilio. Per la
concezione del templum estrusco,
inteso come spazio di osservazione limitato e diviso vedi A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’antiquité,
IV. Divination italique (étrusque – latine – romaine),
Paris 1882 [rist., New York 1975], 17 ss.; vedi 31 per il templum umbro, e 187 ss. per quello romano, che non differisce da
quello etrusco.
[69] Per il termine templum
come divisione dello spazio, in particolare nelle auspicazioni e nelle
operazioni augurali, vedi ad esempio: Fest., v. Templi,
[70] Varr., de ling.
Lat. 7.6-8: 6. Templum tribus modis dicitur: ab natura, ab
auspicando, a similitudine; <ab> natura in caelo, ab auspiciis in terra,
a similitudine sub terra. In caelo te<m>plum dicitur, ut in Hecuba:
‘o magna templa caelitum, commixta stellis splendidis’. In terra,
ut in Periboea: ‘scrupea saxea Ba<c>chi templa prope aggreditur’.
Sub terra, ut in Andromacha: ‘Acherusia templa alta Orci saluete
infera’. 7. Quaqu[i]a intuiti era<n>t oculi, a tuendo primo
templum dictum: quocirca caelum qua attuimur dictum templum; sic:
‘contremuit templum magnum Iovis altitonantis’, id est, ut ait
N<a>evius, ‘h[i]emisph<a>erium ubi conc<h>a
c<a>erula septum stat’. Eius templi partes quattuor dicuntur,
sinistra ab oriente, dextra ab occasu, antica ad meridiem, postica ad
septemtrionem.
[71] Vedi P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano.
“Mundus”, “Templum”, “urbs”,
“ager”, “Latium”, “Italia”, cit., 468,
471 ss.
[72] Così P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano.
“Mundus”, “Templum”, “urbs”,
“ager”, “Latium”, “Italia”, cit., 468,
473 ss.
[73] Per questo collegio sacerdotale
ed il diritto augurale risulta di fondamentale importanza l’opera di P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale. I, Torino 1960.
[74] La leggenda vuole che
fossero sacri i luoghi in cui vennero seppelliti i compagni di Ercole che da
Argo si recarono a Roma, e questi luoghi sacri erano 27, posti nelle quattro
regioni della Roma serviana: Varr., de ling. Lat. 5.45: Reliqua
urbis loca olim discreta, cum Argeorum sacraria septem et viginti in
<quattuor> partis urbi<s> sunt disposita. Argeos dictos putant a
principibus, qui cum <H>ercule Argiuo venerunt Romam et in Saturnia
subsederunt. E quis prima scripta
est regio Subur[b]ana, secunda Esquilina, tertia Collina, quarta Palatina. Ovidio ricorda che nel
mese di marzo una processione si recava in questi sacrari: fast. 3.791: Itur ad Argeos
(qui sint, sua pagina dicet) / hac, si commemini, praeteritaque die.
Le fonti
indicano con lo stesso nome un rito di purificazione che potrebbe essere
collegato per il ricorrere del numero 27. Durante il rituale, che si svolgeva
nel mese di maggio, le vestali lanciavano dal ponte Sublicio 27 fantocci nel
Tevere: Varr., de ling. Lat. 7.44: Argei ab Argis; Argei fiunt e scirpeis,
simulacra hominum XXVII; ea quotannis de ponte sublicio a sacerdotibus publice
deici solent in Tiberim; Enn., ann.
2. v. 121, 20 Vahalen (= Varr., de ling. Lat. 7.44): Mensas constituit idemque ancilia / Libaque
fictores Argeos et tutulatos; Paul. Fest., v. Argeos,
Diverse
sono le interpretazioni intorno a tale cerimonia. Secondo G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della
famiglia, 4a ed., Napoli 1989, 300 ss., questo rito sarebbe il ricordo del
sacrificio degli anziani, uccisi per annegamento, posto in relazione alla
penuria di cibo. Rimando a E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico
all’epoca augustea, Padova 1997, 54 ss., il quale ha studiato il rito
nel generale argomento delle finzioni giuridiche. Per la partecipazione delle
vestali al culto degli Argei vedi il lavoro dedicato a questo collegio di J.C. Saquete, Las Vírgenes Vestales. Un sacerdocio femenino en la religión
pública romana, Madrid 2000, 52 s.
Sul rito
degli Argei in generale vedi fra gli ultimi: D.P.
Harmon, Public Festivals of Rome,
cit., 1446 ss.; A. Carandini, La
nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all’alba di una
civiltà, Torino 1997, 395 ss. (lett. ivi).
[75] Per i loca Argea rimando
a R. Del Ponte, Dei e Miti
Italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica, 3a ed.,
Genova 1998, 85 ss.
[76] Liv. 1.21.5: [Numa]
Multa alia sacrificia locaque sacris faciendis, quae Argeos pontifices vocant,
dedicavit; da questa notizia emerge come i pontefici conservassero la
memoria dei luoghi rituali, e intervenissero sulla loro denominazione.
[77] Secondo E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le
lettere, cit., 159, il testo che riguardava il rituale degli Argei doveva
far parte dei sacra omnia exscripta
exsignataque di Numa Pompilio. In precedenza G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen
Pontifices, Berlin 1936, 59 ss., aveva sostenuto l’esistenza di un
autonomo commentarius sacrorum Argeorum detenuto
dal collegio pontificale, mentre per J.
Scheid, Les archives de la
piété. Réflexions sur les livres sacerdotaux, cit.,
181 ss., i sacra Argeorum sarebbero
un estratto del commentario annuale dei pontefici, e proverebbero
l’esistenza di estesi testi di liturgia romana.
[78] Vedi Varr., de ling. Lat. 5.50: In sacris Argeorum scriptum sic est: ‘Oppius mons princeps
[quilis] [o]uls lucum Facu[l]talem: sinistra quae secundum m<o>erum est.
Oppius mons terticeps cis lucum Esquilinum: dexterior via in tabernola est.
Oppius mons quarticeps c<i>s lucum Esquilinum: viam dexteriorem in figlinis
est. Cespius
mons quinticeps cis lucum Poetelium Esquili[n]is est. Cespius mons sexticeps
apud <a>edem Iunonis Lucinae ubi <a>editumus habere solet’; 52: Dictos enim collis pluris
apparet ex Argeorum sacrificiis, in quibus scriptum sic est: ‘collis
Quirinalis terticeps cis <a>edem Quirini. Collis Salutaris quarticeps
adversum + est pilonarois + <a>edem Salutis. Collis Mucialis quinticeps
apud <a>edem dei [de] Fidi in delubro ubi <a>editumus habere solet.
Collis Latiaris sexticeps in vico Insteiano summo apud auraculum; aedificium
solum est’. Cfr. Varr., de ling. Lat.
5.47.
[79] Sul pontefice massimo
vedi, ad esempio: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 294
s., 376 ss.; Th. Mommsen, Le droit public romain, III, cit., 19
ss.; Z. Zmigryder-Konopka, Pontifex maximus, iudex atque arbiter
rerum divinarum humanarumque, in EOS 34, 1932-33, 361 ss.; J. Bleicken, Oberpontifex und Pontifikalkollegium. Eine Studie zur römischen Sakralverfassung, in Hermes. Zeitschrift für classische Philologie 85, 1957, 345 ss.
(ora in Id., Gesammelte Schriften, I, 1.
Griechische Geschichte. 2. Römische Geschichte (Anfang), hrsg. von F.
Goldmann, M. Merl, M. Sehlmeyer und U. Walter, Stuttgart 1998, 409 ss.);
A. Calonge, El Pontifex Maximus y el
problema de la distinción entre magistraturas y sacerdocios, cit., 5
ss.; J.-Cl. Richard, Sur quelques grands
pontifes plébéiens, in Latomus 27, 1968, 786 ss.; R. Del Ponte, La religione dei romani. La religione e il
sacro in Roma antica, cit., 107 ss. Per i poteri del pontefice massimo vedi anche,
sebbene incentrato sulla politica augustea, J.
Scheid, Auguste et le grand pontificat. Politique
et droit sacré au début du Principat,
in Revue Historique de Droit français et étranger 77,
1999, 1 ss.
[80] Per
l’etimologia del termine delubrum vedi: Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, II, cit., 39; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 168,
per cui la parola indica un tempio od un santuario, pur rimanendo impossibile
stabilire l’accezione precisa.
[81] Vedi Macr., sat. 3.4.2-5, nel quale l’autore
riferisce di due significati del termine: come area riservata agli dèi,
e come luogo dove si è consacrata la statua di una divinità.
[82] Cic., de har. resp. 11. Vedi circa il ruolo
che i pontefici ebbero nell’episodio, consistente nel giudicare per i
soli aspetti religiosi, Cic., ad Att. 4.2.4:
Tum M. Lucullus de omnium collegarum
sententia respondit religionis iudices pontifices fuisse, legis <es>se
senatum; se et collegas suos de religione statuisse, in senatu de lege
statu<tur>os cum senatu. Durante l’esilio di Cicerone, infatti,
il suo nemico Clodio, per impedirne il rientro in patria, aveva fatto demolire
la sua casa, e con varie macchinazioni aveva fatto consacrare il terreno, sul
quale era stato innalzato un tempio ed eretta una statua della Libertas. Nella commissione alla quale
fu rimessa la faccenda erano presenti anche altri sacerdoti, che
l’oratore ringraziò (de har.
resp. 12). Tuttavia, Cicerone dedicò un discorso celebrativo solo ai
pontifici, il de domo, pronunciato
nel
Per la
vicenda rimando da ultimi a: C.J. Classen,
Diritto retorica, politica. La
strategia retorica di Cicerone, trad. it., Bologna 1998, 219 ss.; M. Beard-J. North-S. Price, Religions of
[83] Vedi ad esempio: Liv.
27.25.7-9 (vedi infra
par. 8); Val. Max. 1.5.8 (vedi infra nt. 214); cfr. Cic., de leg. 2.58.
[84] Per i vari
significati del termine: Æ. Forcellini,
Totius latinitatis Lexicon, II, cit.,
v. edīco, 145, il quale rinviene
diverse accezioni: «dire pubblicamente, far sapere,
spiegare […] comandare […] intimare, far un
editto»; O. Hey, v. ēdīco,
in Thesaurus Linguae Latinae V.2,
fasc. 10 e-efficax,
Lipsiae 1931, coll. 63 ss.; A. Ernout-A.
Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine. Histoire des mots, cit., 172,
secondo cui ēdīcō significa «proclamer un
édit, publier, ordonner».
[85] Per il significato e
l’etimologia del termine fanum vedi:
Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, II, cit., v.
fanum, 278; W. Bannier, v. fānum, in Thesaurus Linguae Latinae VI, fasc. II familia-fenestro, Lipsiae
1915, coll. 271 ss.; A. Ernout-A.
Meillet, Dictionnaire étymologique
de la langue latine. Histoire des mots, cit., 215 s.
[86] Varr., de ling. Lat. 6.54: Hinc fana nominata, quod pontifices in
sacrando fati sint finem; hinc profanum quod est ante fanum coniunctum fano;
hinc profanatum quid in sacrificio atquae Herculi decuma appellatum ab eo est
quod sacrificio quodam fanatur, id est ut fani lege fit.
Vedi
anche Paul. Fest., v. Fana,
Secondo P. Cipriano, Varrone e
l’uso «calendaristico» dei termini fas e nefas, in Atti del Congresso
Internazionale di Studi Varroniani in occasione del bimillenario della morte di
Marco Terenzio Varrone (116-
[87] Gai. 2.5: Sed
sacrum quidem hoc solum existimatur quod ex auctoritate populi Romani
consecratum est, veluti lege de ea re lata aut senatusconsulto facto. Vedi
anche: Cic., de dom. 127: Quis eras tu qui dedicabas? quo iure, qua
lege, quo exemplo, qua potestate? Ubi te isti rei populus Romanus praefecerat?
Video enim esse legem veterem tribuniciam quae vetet iniussu plebis aedis,
terram, aram consecrari; 136: Cum Licinia, virgo Vestalis summo loco
nata, sanctissimo sacerdotio praedita, T. Flaminino Q. Metello consulibus aram
et aediculam et pulvinar sub Saxo dedicasset, nonne eam rem ex auctoritate
senatus ad hoc collegium Sex. Iulius praetor rettulit? cum P. Scaevola pontifex
maximus pro collegio respondit, ‘quod in loco publico Licinia Gai filia
iniussu populi dedicasset, sacrum non viderier’; ad Attic. 4.2.3:
Cum pontifices decressent ita, ‘si neque populi iussu neque plebis
scitu is qui se dedicasse diceret nominatim ei rei praefectus esset neque
populi iussu aut plebis scitu id facere iussus esset’, videri posse sine
religione eam partem areae mihi restitui; I. 2.1.8: Sacra sunt, quae rite et per pontifices deo consecrata sunt, veluti
aedes sacrae et dona, quae rite ad ministerium dei dedicata sunt, quae etiam
per nostra constitutionem alienari et obligari prohibuimus, excepta causa
redemptionis captivorum. Si quis vero auctoritate sua quasi sacrum sibi
constituerit, sacrum non est, sed profanum. Locus autem, in quo sacrae aedes
aedificatae sunt, etiam diruto aedificio adhuc sacer manet, ut et Papinianus
scripsit, dove emerge l’attività dei pontefici nell’atto
della consacrazione. Secondo C. Ferrini,
Sulle fonti delle
“Istituzioni” di Giustiniano, in Bullettino dell’Istituto di Diritto romano 13, 1901, 144 s.
(ora in Id., Opere di Contardo Ferrini, II. Studi sulle fonti del diritto romano,
cit., 355) si tratterebbe di un rimaneggiamento di un passo di Marciano, di
cui, attraverso il confronto con D. 1.8.6.3 (Marcian. 3 inst.): Sacrae autem res sunt
hae, quae publice consecratae sunt, non privatae: si quis ergo privatim sibi
sacrum constituerit, sacrum non est, sed profanum. Semel autem aede sacra facta
etiam diruto aedificio locus sacer manet, l’A. tenta una
ricostruzione del testo genuino: «sacrae autem res sunt hae, quae publice
per pontifices diis (superis) consecratae sunt, veluti aedes sacrae. si quis
vero auctoritate sua privatim quasi sacrum sibi constituerit, id sacrum non
est, sed profanum. semel autem aede sacra facta, etiam diruto aedificio, locus
sacer manet: ut et Papinianus scripsit».
La ricostruzione non soddisfa P. de
Francisci, Primordia civitatis,
Romae 1959, 315. Più di recente vedi per un raffronto tra la
classificazione delle res di Gaio,
Marciano e Giustiniano, M.G. Zoz, Riflessioni in tema di res publicae,
Torino 1999, 20 ss.
[88] Diversi autori
affermano che la consacrazione rientrava nelle funzioni pontificali: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 323 ss., per cui i pontefici
prendevano parte all’atto della consacrazione in tre modi, esprimendo il
proprio parere prima dell’autorizzazione (che in origine veniva data dal
senato); redigendo la lex dedicationis,
cioè l’atto di fondazione del tempio; pronunciando le parole
solenni per la dedica del tempio, formula poi ripetuta dal magistrato; R. Fiori, ‘Homo sacer’. Dinamica politico-costituzionale di una
sanzione giuridico-religiosa, cit., 29, secondo il quale era
«fondamentale, perché potesse parlarsi del sacrum, il ruolo
dei sacerdoti, e in particolare dei pontifices. Sono questi a giudicare
circa la qualità di sacrum di un alcunché, compiendo essi
stessi la consecratio e la dedicatio […] oppure
fornendo indicazioni sul luogo (locus) e sul tempo (dies) della
eventuale consecratio privata».
[89] La stretta connessione tra la consecratio
e la dedicatio è stata
particolarmente messa in luce da G.
Wissowa, v. Consecratio, in Paulys Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, 4.1, Stuttgart 1900, coll. 896 ss., il quale affermava che la consacrazione: «geschickt durch
den Akt der dedicatio, der mit der C.
so eng zusammenhängt, dass beide Ausdrücke oft mit einander
verbunden» (col. 897). In varie fonti, infatti, i due atti si presentano come
una endiadi: Cic., de nat. deor. 2.79: … Mens Fides Virtus Concordia consecratae et publice
dedicatae sunt; Fest., v. Sacer mons,
[90] Vedi, ad esempio, il
testo epigrafico che qui riporto integralmente dove si rinviene una legge di
dedicazione: ILS II.1, nr. 4907: L. Aelio Caesare II P. Coelio Balbino
Vibullio Pio cos. VII idus Octobres, C. Domitius Valens IIvir. i. d., praeeunte
C. Iulio Severo pontif., legem dixit in ea verba quae infra scripta sunt:
Iuppiter optime, quandoque tibi hodie hanc aram dabo dedicaboque, ollis legib.
ollisque regionibus dabo dedicaboque, quas sic hodie palam dixero, ut infimum
solum huis arae est: si quis hic hostia sacrum faxit, quod magmentum nec
protollat, it circo tamen probe factum esto; ceterae leges huic arae ea[e]dem
sunto, quae arae Dianae sunt in Aventino monte dictae. Hisce legibus regionib.
sic, uti dixi, hanc tibi aram, Iuppiter, optime maxime, do dico dedicoque,
uti sis volens propitius mihi collegisque meis, decurionibus, colonis, incolis
coloniae Martia[e] Iulia Salonae, coniugibus liberisque nostris. Vedi anche
CIL I2.2.1, nr.
[92] Secondo G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., 68, al modello utilizzato per
le formule di dedicazione venivano apportate delle modifiche di volta in volta:
«Gewiß hat ein allgemeingültiges Muster auch für die
Dedikationsformel bestanden; doch mußte diese jedesmal in der richtigen
Weise abgewandelt werden. Die Formel mußte die Angabe enthalten, was
geweiht wurde, ob eine ara oder eine aedes oder etwas anderes;
ferner mußte der Gott in ihr genannt sein; auch wichen die für die
einzelnen Tempel geltenden Bestimmungen – die leges templorum –,
die bei der Dedikation ausgesprochen wurden, voneinander ab».
Per quanto
riguarda il praeire verba vedi ad
esempio: Liv. 4.27.1; 8.9.4-8; 9.46.6; 10.28.14; 31.9.9; 36.2.3; 42.28.9;
Varr., de ling. Lat. 6.61;
Tac., hist. 4.53.3; ILS II.1, nr.
4909. Rimando al riguardo a F. Sini, A
quibus iura civibus praescribebantur.
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., 126 nt. 23.
Questa funzione pontificale rimase
anche nel principato: Svetonio (Claud. 22.2)
ricorda che il divus Claudius,
in qualità di pontefice massimo, suggeriva la formula delle
preghiere propiziatorie al popolo, in occasione della sinistra apparizione di
un uccello infausto sul Campidoglio.
[93] Per la conservazione
di tali verba nei libri dei pontefici rimando a F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma
antica, cit., 111 ss. (ivi letteratura precedente).
[94] Secondo il racconto
di Liv. 9.46.6 Gneo Flavio, in rapporto ad una linea d’azione
antipatrizia, aedem Concordiae in area
Vulcani summa invidia nobilium dedicavit; coactusque consensu populi Cornelius
Barbatus pontifex maximus verba praeire, cum more maiorum negaret nisi consulem
aut imperatorem posse templum dedicare. La regola risalente ai mores, dunque, riconduceva ad un magistrato munito di imperium la funzione di dedicazione dei
templi, a cui il pontefice doveva collaborare con il suggerimento della formula
apposita. L’utilizzo del verbo negare
(su cui vedi infra
nt. 215), di cui fanno
spesso uso i sacerdoti, suggerisce che in tale brano Livio abbia riportato un
precedente responso tratto da un archivio collegiale, con tutta
probabilità dei pontefici, proprio in materia di templa. Th. Mommsen, Le droit public romain [Manuel
des antiquités romaines 1], trad. fr. par P.F. Girard, I, Paris 1892
[réimpr. 1984], 277, specifica che nella concezione antica la dedicazione
era una attribuzione dei magistrati superiori.
[95] Vedi la glossa
paolina Fanum,
[96] Orazio Pulvillo risulta console suffectus, in quanto
successore di Lucrezio, nel
[97] Vedi: Cic., de dom. 139: Quae si omnia e Ti. Coruncani scientia, qui peritissimus pontifex
fuisse dicitur, acta esse constarent, aut si M. Horatius ille Pulvillus, qui,
cum eum multi propter invidiam fictis religionibus impedirent, restitit et constantissima
mente Capitolium dedicavit, huius modi alicui dedicationi praefuisset, tamen in
scelere religio non valeret; Val. Max. 5.10.1: Horatius Pulvillus, cum in Capitolio Iovi Optimo Maximo aedem pontifex
dedicaret interque nuncupationem sollemnium verborum postem tenens mortuum esse
filium suum audisset, neque manum a poste removit, ne tanti templi dedicationem
interrumperet, neque vultum a publica religione ad privatum dolorem deflexit,
ne patris magis quam pontificis partes egisse videretur; Sen. phil., cons. ad Marc. 13.1: Ne nimis
admiretur Graecia illum patrem qui, in ipso sacrificio nuntiata filii morte,
tibicinem tantum iussit tacere et coronam capiti detraxit, cetera rite
perfecit, Pulvillus effecit pontifex, cui postem tenenti et Capitolium dedicanti
mors filii nuntiata est. Quam ille exaudisse dissimulans, solemnia pontificii
carminis verba concepit, gemitu non interrumpente precationem et ad filii sui
nomen Iove propitiatio. Ricorda al contrario la carica di console Liv.
2.8.6-8: 7.3.8. Cfr. anche Polyb. 3.22.1. Per
l’«importance dans l’élaboration du récit
annalistique de la dédicace du temple de la triade capitoline»
rimando a R. Bloch, Tite-Live et les premiers siècles de
Rome, cit., 75 ss.
[99] Lucan., bell. civ. 1.466-522.
[100] Lucan., bell. civ. 1.523-583. Intorno comparsa
dei presagi sinistri alla vigilia della guerra civile, particolarmente
evidenziati nel primo libro dell’opera di Lucano, rimando a M. Rambaud, Présages et procuratio
au livre I de
[101] Si tratterebbe della
prescrizione della cerimonia dell’amburbium, che per R.E.A. Palmer, The king and the
Comitium. A study of Rome’s oldes public document, Wiesbaden 1969, 15,
18 ss., Lucano descrive in modo dettagliato, con diverse influenze etrusche, e
combina con una lustrazione.
[102] Lucan., bell. civ. 1.584-598: Haec propter
placuit Tuscos de more vetusto / acciri vates. Quorum qui maximus aevo / Arruns
incoluit desertae moenia Lucae, / fulminis edoctus motus venasque calentes /
fibrarum et monitus errantis in aere pinnae, / monstra iubet primum, quae nullo
semine discors / protulerat natura, rapi sterilique nefandos / ex utero fetus
infaustis urere flammis. / Mox iubet
et totam pavidis a civibus urbem / ambiri et festo purgantes moenia lustro /
longa per extremos pomeria cingere fines / pontifices, sacri quibus est
permissa potestas. / Turba minor ritu sequitur succincta Gabino, / Vestalemque
chorum ducit vittata sacerdos / Troianam soli cui fas vidisse Minervam. Si
può ritrovare la corsa lungo i fines
nei lupercali, connessi ad antichi
riti per la protezione della città e per la propiziazione della
fecondità (per questa valenza del rito dei lupercali vedi P. de
Francisci, Primordia civitatis,
cit., 302). Caratteristica simile si ritrova sia nell’amburbiumin cui le vittime sacrificali venivano condotte lungo i confini
della città, a scopo apotropaico, sia negli ambarvalia, dove ai fini della lustratio
di un campo vi si conducevano intorno per tre volte un porco, un toro ed un
ariete. Su questi due riti vedi: Serv., in
Verg. Buc. 3.77: Dicitur autem hoc
sacrificium ambarvale, quod arva ambiat victima: hinc ipse in georgicis terque novas
circum felix eat hostia fruges: sicut amburbale vel amburbium dicitur
sacrificium, quod urbem circuit et ambit victima; Paul. Fest., v. Amburbiabes,
[103] Vedi
l’etimologia proposta da Ovid., fast.
5.279-282: ‘cetera luxuriae nondum instrumenta vigebant; / aut pecus aut
latam dives habebat humum / (hinc etiam locuples, hinc ipsa pecunia dicta est);
/ sed iam de vetito quisque parabat opes. Vedi inoltre Varr., de ling. Lat. 5.95: Pecus ab eo quod [per]pascebant, a quo
pecora universa. Quod in pecore pecunia tum pastoribus consistebat); res rust. 2.1.11: Cum convertissent in eum ora omnes, Scrofa, igitur, inquit, est
scientia pecoris parandi ac pascendi, ut fructus quam possint maximi capiantur
ex eo, a quibus ipsa pecunia nominata est: nam omnis pecuniae pecus fundamentum
(per un commento al passo rimando a Marcus Terentius Varro, Gespräche über die Landwirtschaft,
Buch 2, hrsg. von D. Flach, Darmstadt
1997, 198); Fest., v. Peculatus,
In posizione di netta controtendenza
è É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes. 1.
Économie, parenté, société, cit., 47 ss., il
quale procede all’analisi di *peku
e dei suoi derivati nei tre grandi dialetti, indo-iraniano, italico e
germanico. Questo studio porta l’A. ad un rovesciamento della visione
tradizionale. Per Benveniste infatti in origine *peku avrebbe designato la
«“richesse mobilière personnelle” – et
c’est seulement par spécifications
successives qu’il a pu désigner, dans certaines langues, le
“bétail”, le “petit bétail”, le
“mounton”». Per i rilievi critici rimando ad A. Guarino, Storia di cose e storia di
parole, in Index 3, 1972, 550 (ora in Id., Le origini quiritarie. Raccolta di scritti romanistici,
Napoli 1973, 33 s.), il quale afferma di non aver nulla da obiettare sul piano
linguistico all’analisi di pecunia fatta dal Benveniste, ma
nonostante tutto è del parere che «a conti fatti, si debba ancora
dar ragione al vecchio Varrone (pecunia a pecu)». Per le
riflessioni della giurisprudenza romana intorno alla pecunia: G. Melillo, Economia e giurisprudenza a Roma. Contributo al lessico economico dei
giuristi romani, Napoli 1978, 51 ss.
[104] Questa estensione del
significato di pecunia viene data per
invalsa da alcuni giuristi: D. 50.16.178pr. (Ulp. 49 ad Sab.): ‘Pecuniae’
verbum non solum numeratam pecuniam complectitur, verum omnem omnino pecuniam,
hoc est omnia corpora: nam corpora quoque pecuniae appellatione contineri nemo
est qui ambiget; D. 50.16.222 (Hermog. 2 iuris epitomat.): ‘Pecuniae’
nomine non solum numerata pecunia, sed omnes res tam soli quam mobiles et tam
corpora quam iura continentur.
[105] Tra le ultime opere
dedicate alle spolia opima rimando ad
A. Maffi, Opima spolia, in Mélanges
de droit romain et d’histoire ancienne. Hommage à la mémoire de A. Magdelain, études coord. et rassembl. par M. Humbert et Y. Thomas,
Paris 1998, 285 ss.
[106] Sull’importanza
dell’archivio pontificale vedi F.
Sini, Documenti sacerdotali di
Roma antica. I. “Libri” e “commentarii”, cit., 15,
il quale sottolinea come questo superasse «di gran lunga gli altri per
importanza e per ricchezza di materiale». Per una bibliografia
sull’archivio pontificale vedi dello stesso A., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 5 nt. 11.
[107] Fest.,
v. Opis,
[108] Bisogna accettare i
rilievi di A. Maffi, Opima
spolia, cit., 297, il quale dimostra l’autenticità di questa
legge numaica, contro quella posizione dottrinale che considera la norma un
falso tardo repubblicano: A. Magdelain, Quirinus
et le droit (spolia opima, ius fetiale, ius quiritium),
in Mélanges de l’École française de Rome 96,
1984, 210 (= ora in Id., Jus imperum auctoritas. Études de droit romain, Rome
1990, 244); B. Albanese, Brevi
studi di diritto romano. V. Note sugli opima spolia, in Annali del
Seminario Giuridico della Università di Palermo 42, 1992, 91, 93.
[109] Così E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le
lettere, cit., 159. Per l’antica monetazione romana rimando a: T. Frank, Storia economica di Roma. Dalle origini alla fine della repubblica [Collana storica 13], trad. it. di
B. Lavaggi, Firenze 1924, 65 ss.; E.
Peruzzi, Money in early Rome,
Firenze 1985.
[110] Cfr. l’edizione
di W.M. Lindsay, 286: Pecunia sacrificium
f<ieri dicitur, cum> ---- tumque causa mola pu---- cio, quia omnis res
fam<iliaris, quam nunc pecuniam> dicimus ex his rebus con<stat>.
[111] Secondo Plin., nat. hist. 18.3, l’uso della
farina sacrificale è da rapportarsi a Numa: Numa instituit deos fruge colere et mola salsa supplicare atque, ut
auctor est Hemina, far torrere, quoniam tostum cibo salubrius esset, id uno
modo consecutus, statuendo non esse purum ad rem divinam nisi tostum. Sulla
mola salsa vedi: Varr., de ling. Lat. 5.104: Hinc declinatae fruges et frumentum, sed ea
e terra; etiam frumentum, quod <ad> exta ollicoqua solet addi ex mola, id
est ex sale et farre molito; Val. Max. 2.5.5: Erant adeo continentiae adtenti, ut frequentior apud eos pultis usus
quam panis esset, ideoque in sacrificiis mola quae vocatur ex farre et sale
constat; Fest., v. Mola,
[112] La locuzione fruges fructusque si rinviene anche in
altre fonti; ad esempio Cicerone con essa indica i beni creati allo scopo di
servire gli animali che a loro volta devono servire l’uomo: de nat.
deor. 2.37: Sic praeter mundum cetera omnia aliorum causa esse generata,
ut eas fruges atque fructus quos terra gignit animantium causa; i fruges ed i fructus vengono
ricompresi dall’oratore tra i beni degli uomini: de nat. deor. 3.86:
Atque hoc quidem omnes mortales sic habent, externas commoditates, vineta
segetes oliveta, ubertatem frugum et fructuum, omnem denique commoditatem
prosperitatemque vitae a dis se habere; virtutem autem nemo umquam acceptam deo
rettulit, che si ottengono grazie al lavoro: de off. 2.12: Neque
enim valitudinis curatio neque navigatio neque agricultura neque frugum
fructuumque reliquorum perceptio et conservatio sine hominum opera ulla esse
potuisset. Cfr. anche: Pomp. Mel., de chorograph. 3.58: Talge in
Caspio mari sine cultu fertilis, omni fruge ac fructibus abundans, sed vicini
populi quae gignuntur adtingere nefas et pro sacrilegio habent, diis parata
existimantes diisque servanda; Macr., sat. 1.10.19: Hanc autem
deam Opem Saturni coniugem crediderunt, et ideo hoc mense Saturnalia itemque
Opalia celebrari, quod Saturnus eiusque uxor tam frugum quam fructuum
repertores esse credantur; 1.10.20: Quos etiam non nullis caelum ac
terram esse persuasum est Saturnumque a satu dictum cuius causa de caelo est,
et terram Opem cuius ope humanae vitae alimenta quaeruntur, vel ab opere, per
quod fructus frugesque nascuntur; 1.10.22: Philochorus Saturno et Opi
primum in Attica statuisse aram Cecropem dicit, eosque deos pro Iove terraque
coluisse, instituisseque ut patres familiarum et frugibus et fructibus iam
coactis passim cum servis vescerentur, cum quibus patientiam laboris in colendo
rure toleraverant.
[113] Questo significato
del termine pecunia emerge in Paul. Fest.,
[114] Dion. Hal. 3.1.4: oátoj
œrgon ¡p£ntwn megaloprepšstaton ¢podeix£menoj
aÙtÕj eÙqÝj ¤ma tù paralabe‹n
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‡dion b…on ¢fqÒnouj ei\con
eÙpor…aj; sul brano vedi l’opera di E. Gabba, Dionigi e la
storia di Roma arcaica, cit., 155.
[115] Per far fronte alle
spese cultuali i templi conservavano un proprio tesoro: vedi, ad esempio, Liv.
29.8.9; 18.15.
[116] A questa propensione
verso una purezza rituale, con celebrazioni prive di spese, ritorna più
volte lo stesso Cicerone, il quale fa riferimento alle prescrizioni di una
legge sacra: de leg. 2.22: Sumptum in ollos luctumque minuunto; 25: Quod autem «pietatem adhiberi, opes amoveri» iubet,
significat probitatem gratam esse deo, sumptum esse removendum. Quid enim?
Paupertatem cum divitiis etiam inter homines esse aequalem velimus, cur eam
sumptu ad sacra addito deorum aditu arceamus?; 62: Nostrae quidem legis interpretes, quo capite
iubentur «sumptum et luctum» removere a deorum Manium iure, hoc
intellegant in primis, sepulcrorum magnificientiam esse minuendam. Contro
il lessum dei riti funebri vedi la
tab. 10.4 del testo decemvirale: Mulieres
genas ne radunto, neve lessum funeris ergo habento (Fontes iuris Romani
antejustiniani, I, cit., 67). L’interpretatio
di questa norma decemvirale ad opera di Sestio Elio Peto Cato, si rinviene
in Cic., de leg. 2.59 (Extenuato igitur sumptu tribus riciniis et
tunicula purpurea et decem tibicinibus tollit etiam lamentationem: Mulieres
genas ne radunto neve lessum funeris ergo habento. Hoc veteres interpretes Sex.
Aelius, L. Acilius non satis se intellegere dixerunt, sed suspicari vestimenti
aliquod genus funebris, L. Aelius lessum quasi lugubrem eiulationem, ut vox
ipsa significat; quod eo magis iudico verum esse, quia lex Solonis id ipsum
vetat), per un commento vedi F.
Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., 147 ss.
[117] Tra le fonti che
testimoniano il tentativo di incivilimento dei Romani da parte di Numa vedi:
Cic., de re publ. 2.26: Pompilius … animos proposit legibus
his quas in monumentis habemus ardentis consuetudine et cupiditate bellandi
religionum caerimoniis mitigavit; 27: Quibus
rebus institutis ad humanitatem atque mansuetudinem revocavit animos hominum
studiis bellandi iam immanis ac feros. Sic ille cum unde quadraginta annos
summa in pace concordiaque regnavissit … excessit e vita, duabus
praeclarissimis ad diuturnitatem rei publicae rebus confirmatis, religione
atque clementia; Liv. 1.19.1-2: Qui
regno ita potitus urbem novam, conditam vi et armis, iure eam legibusque ac
moribus de integro condere parat. Quibus cum inter bella adsuescere videret non
posse, quippe efferari militia animos, mitigandum ferocem populum armorum
desuetudine ratus, Ianum ad infimum Argiletum indicem pacis bellique fecit,
apertus ut in armis esse civitatem, clausus pacatos circa omnes populos
significaret; Ovid., fast. 3.277
ss.; Calp. Sicul., eclog. 1.63-68: Plena quies aderit, quae stricti nescia
ferri / altera Saturni referet Latialia regna, / altera regna Numae, qui primus
ovantia caede / agmina, Romuleis et adhuc ardentia castris / pacis opus docuit
iussitque silentibus armis / inter sacra tubas, non inter bella, sonare;
Flor., epit. Liv. 1.2.4: [Numa] Eo denique ferocem populum redegit, ut, quod vi et iniuria occuparat
imperium, religione atque iustitia gubernaret; Eutrop., breviar. ab urbe cond. 1.3.1: Postea Numa Pompilius rex creatus est, qui
bellum quidem nullum gessit, sed non minus civitati quam Romulus profuit.
Anche Dionigi d’Alicarnasso (2.74.1) ricorda come la copiosa normativa
del re mirava ad indirizzare il singolo verso principi quali la
frugalità e la temperanza, e soprattutto verso un profondo senso di
giustizia per la salvaguardia della città. Pregnanti le considerazioni
sul monarca sabino di R. Schilling, La religion romaine de Vénus. Depuis les origines
jusqu’au temps d’Auguste, 2a ed., Paris
1982, 57: «sans doute, la tradition l’a consacré roi pieux
par excellence. Mais il est le fondateur de la piété
organisée».
[118] Per quanto attiene
alla monarchia di Romolo e alle guerre da lui intraprese vedi: D. Briquel, Trois études sur Romulus, in Recherches sur les religions de l’antiquité classique,
Genève-Paris 1980, 320 ss.; A.
Fraschetti, Romolo il fondatore,
Bari 2002, 89 ss.; sulla sua figura di fondatore rimando a A. Mastrocinque, Romolo (la fondazione di Roma tra storia e leggenda), Este 1993.
Interessante la comparazione tra i due re, in cui si pongono in evidenza delle
precise antitesi, in G. Dumézil, Les dieux souverains des
Indo-Européens, 2a ed., Paris 1977, 159 ss.
[119] N. Turchi, La religione di Roma
antica, cit.,
[120] Th. Mommsen, Le droit public romain, III, cit., 77 ss. Tra coloro che sostengono
l’idea mommseniana dell’arca pontificum come di «eine
Art sakraler Zentralkasse», vedi G.
Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 407.
[121] Per le accezioni del
termine: Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, II, cit., v.
erŏgo, 193; L. Junod, v. ērogo, in Thesaurus
Linguae Latinae 5.2, fasc. 5 eo-erogo,
Lipsiae 1935, coll. 799 s.; 5.2, fasc. 6 erogo-etiamnum
(-nc), Lipsiae 1936, coll. 801 ss.
[122] E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le
lettere, cit., 159. L’A. sostiene che queste norme di Numa sarebbero
state inserite nel quarto capitolo, intitolato unde in eos sumptus pecunia
erogaretur, del documento che il monarca consegnò al pontefice
massimo.
[123] La norma ricordata da
Fest., v. Pelices,
[125] In generale per i
giochi vedi F. Bernstein, Ludi
publici. Untersuchungen zur Entstehung und Entwicklung der
öffentlichen Spiele im republikanischen Rom, cit., (lett. ivi).
[126] Per le prospettive
ideologiche connesse a Giove rimando a: C.
Koch, Der römische Juppiter,
2a ed., Frankfurt am Main 1937 [unver. Aufl., Darmstadt 1968] (ora in trad. it.
di L. Arcella: Giove Romano, Roma 1986); J.R. Fears, The Cult of Jupiter and Roman Imperial
Ideology, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt II.17.1, Berlin-New York 1981, 3 ss.
[127] Dedicato agli epiteti optimus maximus rivolti a Giove è il
contributo di G. Radke, Iuppiter
Optimus Maximus: dieu libre de toute servitude, in Revue Historique de
Droit français et étranger 64, 1986, 1 ss.
[128] Per la carriera del
personaggio vedi T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic,
I, cit., 369.
[129] Liv. 39.5.6-10: His victus castigationibus tribunus cum
templo excessisset, referente Ser. Sulpicio praetore triumphus M. Fulvio est
decretus. Is cum gratias patribus conscriptis egisset, adiecit ludos magnos se
Iovi Optimo Maximo eo die quo Ambraciam cepisset vovisse; in eam rem sibi
centum decempondo auri a civitatibus collatum; petere ut ex ea pecunia quam in triumpho latam in aerario positurus
esset id aurum secerni iuberent. Senatus
pontificum collegium consuli iussit nam omne id aurum in ludos consumi
necessarium esset. Cum pontifices negassent ad religionem pertinere quanta
impensa in ludos fieret, senatus
Fulvio quantum impenderet permisit, dum ne summam octaginta milium excederet.
[130] Per la vicenda
rimando al lavoro di L. Franchini, A
proposito del votum ex incerta pecunia del
[131] Liv. 31.9.5-6: Cum dilectum consules haberent pararentque
quae ad bellum opus essent, civitas religiosa in principiis maxime novorum
bellorum, supplicationibus habitis iam et obsecratione circa omnia pulvinaria
facta, ne quid praetermitteretur quod aliquando factum esset, ludos Iovi
donumque vovere consulem cui provincia Macedonia evenisset iussit. Uno
stretto rapporto questo tra la civitas e la religiosità, che si
rinviene ad esempio anche in Fest., v. Religiosi,
[132] Per
la vita del pontefice-giurista rimando da ultimo a F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C.,
cit., 113 ss., ivi i riferimenti bibliografici. Per
il suo cursus honorum: W.
Drumann, Geschichte Roms in seinem Übergange von der
republikanischen zur monarchischen Verfassung oder Pompeius, Caesar, Cicero und
ihre Zeitgenossen, 2a ed., IV: Junii-Pompeii, Leipzig 1908-1910, 59
s. [reprograf. Nachdr.,
[133] Liv. 31.9.7: Moram voto publico
Licinius pontifex maximus attulit, qui negavit ex incerta pecunia voveri
debere, quia ea pecunia non posset in bellum usui esse seponique statim deberet
nec cum alia pecunia misceri: quod si factum esset, votum rite solvi non posse.
[134] Per un’analisi
del frammento liviano vedi F. Sini, A
quibus iura civibus praescribebantur.
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., 122 ss.
[135] Liv. 31.9.9-10: Vovit in eadem verba consul praeeunte maximo
pontifice quibus antea quinquennalia vota suscipi solita erant, praeterquam
quod tanta pecunia quantamtum cum solveretur senatus censuisset ludos donaque
facturum vovit. Octiens ante ludi magni de certa pecunia voti erant, hi primi
de incerta.
[136] Per il conferimento
dei sacra pubblici e privati al
collegio pontificale vedi, ad esempio: Cic., de har. resp. 14 (vedi supra nt. 10). L’attribuzione dei
culti pubblici ai pontifices da parte di Numa emerge anche da un passo
liviano (1.32.2), nel quale si racconta che all’inizio del suo regno Anco
Marcio considerò come dovere primario ristabilire i sacra publica istituiti dal nonno. Così ordinò al
pontefice massimo di trarli dai commentari regi e di pubblicarli. Per
l’importanza di non trascurare i culti pubblici per quelli privati vedi
Liv. 5.52.4: An gentilicia sacra ne in
bello quidem intermitti, publica sacra et Romanis deos etiam in pace deseri
placet, et pontifices flaminesque neglegentiores publicarum religionum esse
quam privatus in sollemni gentis fuerit? È necessario ricordare, in
tale contesto, la posizione di P.
Catalano, Populus Romanus Quirites,
Torino 1974, 124 ss., per cui «il sistema romano dei sacra si era formato assai prima che si introducesse la
giustapposizione fra publicus e privatus» (124), per ciò
l’A. esclude «la possibilità di applicare alla religione
romana la distinzione moderna tra ‘religione privata’ e
‘religione dello stato’» (126).
[137] Per i riti peregrini
vedi: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 44
ss., 81 ss.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit., 348 ss.
[138] Vedi F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma
antica, cit., 47, secondo
il quale nel passo liviano la contemporanea presenza di riti patri con quelli
peregrini indica come fin dalle origini tale coesistenza di culti fosse un
«dato originario, e fra i più caratteristici, della riforma
religiosa di Numa Pompilio». Una prova questa della
«‘apertura’ cultuale» che contrassegnava la religione
romana.
[139] La religione a Roma
si presentava, fin dai primordi, tollerante e universalistica. Questa
caratteristica che improntava il sistema giuridico-religioso romano si
rifletteva sul piano politico internazionale: vedi P. Catalano, Linee del
sistema sovrannazionale romano. I [Università
di Torino. Memorie dell’Istituto giuridico ser. II, 119], Torino
1965, dove in part. a 289, l’A. sintetizza i risultati della sua ricerca:
«Il sistema giuridico-religioso romano ha il suo centro in Iuppiter,
ed è, proprio per questo, virtualmente universale. La virtuale
universalità è attuata in una sfera di rapporti (con reges,
populi o singoli stranieri) la cui esistenza è indipendente vuoi
da particolari accordi vuoi da comunanza etnica». Perciò definisce
il sistema romano come sovrannazionale, in quanto si rinviene la
«volontà politica tendente ad una società
universale». In seguito il concetto di universalità è stato
approfondito da F. Sini, Dai peregrina
sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune
riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
60, 1994, 49 ss., in cui, oltre a sostenere una religione romana non
esclusivista per la fase primordiale, si sofferma sul concetto di alieno, di
natura umana e di natura divina; dello stesso A. vedi anche Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma
antica, cit., 1 ss., dove si afferma come attraverso l’interpretatio
Romana si assimilavano i culti stranieri. Per l’apertura della
religione romana verso l’integrazione di divinità adorate dagli
stranieri rimando anche a R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain,
Paris 1989. Per il rapporto con le religioni aliene: A. Watson, The State,
Law and Religion: pagan Rome, Athens, Georgia-London 1992, 58 ss.
Queste
teorie universalistiche hanno ormai scardinato la tesi
dell’ostilità naturale, il cui esponente di spicco fu Theodor
Mommsen, di cui vedi in particolare Disegno del diritto pubblico romano,
trad. it. di P. Bonfante, 2a ed. a cura di V. Arangio-Ruiz, s.l. 1943 [rist.
anast., Milano 1973], 91. Per una esposizione di questa posizione dottrinaria
rimando a F. De Martino, Storia
della costituzione romana, 2a ed., II, Napoli 1973, 13 ss., e
F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico”, cit., 30 ss.
[140] Il termine consultum rimanda in maniera suggestiva
a iuris consulti, alla
attività di consultazione in materia di ius sacrum, di cui è esempio l’episodio del
[141] Cic., de nat. deor. 1.116: Sanctitas autem est scientia colendorum deorum. Per
l’attribuzione dell’aggettivo sanctum
rispetto ai pontefici vedi Cic., de
har. resp. 12: De sacris publicis, de
ludi maximis, de deorum penatium Vestaeque matris caerimoniis, de illo ipso
sacrificio quod fit pro salute populi Romani, … quod tres pontifices
statuissent, id semper populo Romano, semper senatui, semper ipsis dis
immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum esse visum est.
Qui l’oratore utilizza tre aggettivi in sequenza, sanctum/augustum/religiosum, a sottolineare la rilevanza
dell’attività dei pontefici, mentre Macrobio (sat. 3.3.1), sempre per ciò
che attiene ai decreti pontificali in materia di sacra: Et quia inter decreta
pontificum hoc maxime quaeritur quid sacrum, quid profanum, quid sanctum, quid
religiosum. Vedi sul passo macrobiano: V.
Scialoja, Teoria della
proprietà nel diritto romano, lezioni ordinate curate edite da P.
Bonfante, I, Roma 1933, 139, il quale ne sottolinea la rilevanza in quanto
«contiene un gruppo di definizioni giuridiche dei più importanti
giureconsulti della fine della repubblica»; M. Talamanca, Trebazio
Testa fra retorica e diritto, cit., 52 nt. 58, 53 nt. 62, il quale
nell’analizzare anche i paragrafi 3 e 4 successivi, ha rilevato nella
definizione offerta da Macrobio una contrapposizione di tipo terminologico di profanum a religiosum, e una di tipo
sostanziale dello stesso termine con sacrum.
Per sacrum, sanctus e religiosum
vedi A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome.
Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, cit., 84
ss. Sebbene
inserito in uno studio più generale, per i termini della lingua latina
che indicano “sacro” e “sacralità”, dove si
analizza anche la fonte macrobiana rimando a F.
Bolgiani, Il concetto di
“sacro” nella storia delle religioni. Parte prima. Per una storia
della ricerca. Premesse metodologiche. Da Schleiermacher a Max Müller.
Lezioni del Corso di Storia delle Religioni dell’A.A. 1971-72 raccolte a
cura degli studenti, Torino 1972, 34 ss.; sulla opposizione tra sacrum e profanum vedi R. Schilling, Sacrum et
profanum: essai
d’interprétation, in Latomus
30, 1971, 953 ss. (ora in Id.,
Rites, cultes, dieux de Rome,
cit., 54 ss.). Per l’analisi linguistica di sacer e sanctus:
É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes. 2. Pouvoir,
droit, religion, cit., 187 ss. Per il rapporto tra sacro, santo e politica
dal diritto romano al linguaggio ecclesiastico e alla terminologia canonistica
vedi G. Dalla Torre, «Sacro»,
«santo» e «politica della santità» nella
tradizione latina, in Archivio giuridico «F. Serafini» 221, 2001, 311 ss.
[142] La familiarità
dei pontefici con le divinità ctonie emerge anche dalla circostanza che
essi erano i detentori della formula della devotio,
con la quale il generale romano si votava ai Manes e a Tellus. Questa
frase rituale in cui è presente il verbo nuncupare viene
tramandata da Liv. 8.9.5-8: Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et velato capite, manu
subter togam ad mentum exserta, super telum subiectum pedibus stantem sic
dicere: ‘Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, divi
Novensiles, di Indigetes, divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, dique
Manes, vos precor, veneror, veniam peto oroque, uti populo Romano Quiritium vim
victoriamque prosperetis hostesque populi Romani Quiritium, terrore, formidine
morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupavi, ita pro re publica [Quiritus],
exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium legiones auxiliaque
hostium me cum deis Manibus Tellurique devoveo’ (per l’analisi
del carmen devotionis Decii rimando a
C. Thulin, Italische sakrale Poesie und Prosa. Eine metrische Untersuchung,
Berlin 1906, 54 ss.); vedi ancora: Liv. 5.41.3; Flor., epit. Liv. 1.13.9; Ampel., lib. memorial. 20.7; de vir. illustr. 26.5; 27.3. Sulla
pertinenza dei sacra e del ius Manium al diritto civile, e a quello
pontificale: Cic., de orat. 2.45-46: Atticus. – Habeo ista.
Nunc de sacris perpetuis et de Manium iure restat. Marcus. – O miram memoriam, Pomponi, tuam! At mihi
ista exciderant. Atticus. – Ita credo. Sed tamen hoc magis eas res et
memini et exspecto, quod et ad pontificium ius et ad civile pertinent.
[143] Nella epitome di
Floro, al contrario, si utilizza proprio docere: epit. Liv. 1.2.1-2: Succedit
Romulo Numa Pompilius, quem Curibus Sabinis agentem ultro petiverunt ob
inclitam viri religionem. Ille sacra et caerimonias omnemque cultum deorum
inmortalium docuit, ille pontifices augures Salios ceteraque populi R.
sacerdotia creavit. Per questo epitomatore vedi per tutti L. Bessone, Floro: un retore storico
e poeta, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt II.34.1, Berlin-New York 1993, 80 ss.
[144] Vedi per il termine:
Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, II, cit., v.
edocĕo, 147, che individua come
significati «informare, far sapere minutamente […] insegnare,
mostrare»; O. Hey,
v. ēdoceo, in Thesaurus Linguae Latinae V,2, fasc. 1 e-efficax, Lipsiae 1931, coll. 106 ss.,
in cui si elencano le diverse accezioni della parola: «i. q. perdocere,
diligenter docere; inferiore aetate fare i. q. simplex docere, facere ut
aliquis quid sciat, teneat. Est verbum tam declarandi (i. q. certiorem facere
aliquem, comunicare aliquid; sic passim) quam instruendi (i. q. habilem, aptum
facere aliquem, instituere aliquid […])», in particolare, per
questo brano liviano preso in considerazione alla col. 108, all’accusativus nominis, v’è un
rimando per cui «saepius significatione instruendi, erudendi» (col.
106); A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine.
Histoire des mots, cit., 180 s., in cui il vocabolo
viene tradotto come «enseigner à fond». Il verbo viene
utilizzato dalle fonti letterarie per indicare un insegnamento delle pratiche
di un culto: Fest., v. Potitium,
[145] Un richiamo alla
attività di insegnamento che doveva essere svolta dai pontefici ancora
alla fine della repubblica è contenuto in Cic., de dom. 141, dove l’oratore ricorda
come Clodio avesse consacrato la casa dello stesso Cicerone con l’ausilio
di un giovane ed inesperto pontefice: Non
potuit ullo modo – quamquam et insolentia dominatus extulerat animos et
erat incredibili armatus audacia – non in agendo ruere ac saepe peccare, praesertim
illo pontifice et magistrato qui cogeretur docere ante quam ipse didicisset.
Vedi anche il paragrafo 33: Quid est enim aut tam adrogans quam de
religione, de rebus divinis, caerimoniis, sacris pontificum collegium docere
conari, aut tam stultum quam, si quis quid in vestris libris invenerit, id
narrare vobis, aut tam curiosum quam ea scire velle de quibus maiores nostri
vos solos et consuli et scire voluerunt? Vedi inoltre Macr., sat. 3.20.2,
in cui, intorno alla classificazione dei fichi, si afferma che docent nos
utrumque pontifices.
[146] Per il rapporto di
questo autore con la storiografia rimando a G.
Maslakov, Valerius Maximus and Roman Historiography. A Study of the exempla Tradition, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt II.32.1, Berlin-New York 1984, 437 ss. (lett. ivi).
[148] Val. Max. 1.5.8: Non mirum igitur si
pro ea imperio augendo custodiendoque pertinax eorum indulgentia deorum semper
excubuit, quod — videntur, quia numquam remotos ab exactissimo cultu
caerimoniarum oculos habuisse nostra civitas existimanda est.
[149] Per queste divinità vedi: Fest., v. Manias,
[150] Bisogna tuttavia
ricordare come Gaio, nonostante abbia affermato al paragrafo 2 che rientrano
nell’accezione di res divini iuris i
beni sacri e quelli religiosi, sostiene in seguito (Gai. 2.8) che sanctae quoque res, veluti muri et portae,
quodammodo divini iuris sunt, ma è proprio la presenza del termine quodammodo che spinge a ritenere questa
terza categoria di res un’aggiunta
all’originaria dicotomia. Nella sua analisi della nozione del sacro sia
nella concezione pagana, sia in quella cristiana, J. Gaudemet, «Res
sacrae», in L’Année
Canonique 19, 1970, 299 ss. [ora in Id.,
Études de droit romain, III. Vie familiale et vie sociale, Napoli 1979, 487 ss.], rileva come
la tripartizione proposta da Gaio per le res
divinis iuris, in res sacrae, religiosae e sanctae, rispondeva ad una affermata tradizione ripresa in seguito
dai giuristi posteriori, e si conservò «bien que l’on soit
passé d’une société païenne à un empire
chrétien» (304 = 494).
[151] Per la distinzione res divinis e res humanis iuris in Gaio rimando a G. Grosso, Appunti
sulle distinzioni delle “res” nelle Istituzioni di Gaio, in Studi di storia e di diritto in onore di E.
Besta per il XL anno del suo insegnamento, I. Diritto romano, Milano
1937-1939, 33 ss. [ora in Id., Scritti storico giuridici. III. Diritto privato persone obbligazioni successioni, Torino 2001, 567
ss. Per la classificazione gaiana e giustinianea delle res vedi G.G. Archi, La “summa
divisio rerum” in Gaio e in Giustiniano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 3, 1937, 5 ss.
[152] Nel
[153] Parte della dottrina
afferma l’ampiezza della categoria delle res religiosae. Come
sostiene C. Ferrini, Manuale
di pandette, 4a ed., a cura di G. Grosso, Milano 1953, 201
nt. 9, «a torto i moderni sogliono limitare» alle sepolture le res religiosae: queste infatti potevano
essere anche beni mobili come le lapidi e le cose lasciate all’interno
del sepolcro. Tanto è vero che si discuteva se un tesoro trovato
all’interno di una tomba fosse o non fosse religiosus: D.
48.13.5.3 (4.6) (Marcian. 14 inst.): Non fit locus religiosus, ubi
thesaurus invenitur: nam et si in monumento inventus fuerit, nam quasi
religiosus tollitur. Quod enim sepelire quis prohibetur, id religiosum facere
non potest: at pecunia sepeliri non potest, ut et mandatis principalibus
cavetur. Vi è anche chi, come J.
Marquardt, La vie privée des Romains [Manuel des antiquités romaines 14],
trad. fr. par V. Henry, I, Paris 1929, nel considerare la definizione gaiana di
res religiosae troppo ristretta, ha elencato una serie di loca
religiosa, tra cui
[154] D. 1.8.6.4 (Marc. 3 inst.):
Religiosum autem locum unusquisque sua voluntate facit, dum mortuum infert
in locum suum. In commune autem sepulchrum etiam invitis ceteris licet inferre,
sed et in alienum locum concedente domino licet inferre: et licet postea ratum
habuerit quam illatus est mortuus, religiosus locus fit; I. 2.1.9: Religiosum
locum unusquisque sua voluntate facit, dum mortuum infert in locum suum. In
communem autem locum purum invito socio inferre non licet: in commune vero
sepulcrum etiam invitis ceteris licet inferre. Item
si alienus usus fructus est, proprietarium placet nisi consentiente
usufructuario locum religiosum non facere. In alienum locum concedente domino
licet inferre: et licet postea ratum habuerit, quam illatus est mortuus, tamen
religiosus locus fit. La volontà del proprietario del
terreno come requisito per la religiosità della sepoltura è stata
affermata, ad esempio, da G. Longo, Le
droit funéraire romain dans son développement historique, in Scritti
in memoria di A. Giuffrè, I, Rievocazioni – Filosofia e
Storia del diritto – Diritto romano – Storia delle idee, Milano
1967, 633 ss., dove a 635, sostiene che «le régime des sepulchra
est le fait exclusif de la volonté privée du fondateur du
tombeau. Cette règle garde sa validité
pendant tout le cours de l’histoire juridique romaine et se maintient
immuable dans les sources classiques».
[155] D. 11.7.7pr. (Gai. 19 ad edict.
prov.): Is qui intulit mortuum in alienum locum, aut tollere id quod
intulit aut loci pretium praestare cogitur per in factum actionem, quae tam
heredi quam in heredem competit et perpetua est.
[157] In alcune fonti si fa
riferimento alla pertinenza in capo a qualcuno del funerale, senza però
legarlo alla religiosità del luogo: D. 11.7.14.15 (Ulp. 25 ad edict.):
… Si autem pupillus funus ad se
pertinens; 17: Datur autem haec actio
adversus eos ad quos funus pertinent, ut puta adversus heredem bonorumve
possessorem ceterosque successores; C. 9.19.6: [Imp. Iustinus A. Theodoro pu.] … quos funus mortui pertinet
(a. 526). Vedi anche P.S. 1.21.10: Qui
alienum mortuum sepelerit, si in funus eius aliquid impenderit, recipere id ab
herede vel a patre vel a domino potest, dove il cadavere il cui funerale
non compete a chi procede alla sepoltura viene qualificato come alieno.
[158] Vedi, ad esempio: D.
11.7.14.1-2 (Ulp. 25 ad edict.): Si colonus vel inquilinus sit is qui
mortuus est nec sit unde funeretur, ex invectis illatis eum funerandum
Pomponius scribit et si quid superfluum remanserit, hoc pro debita pensione
teneri. Sed et si res legatae sint a testatore de cuius funere agitur nec sit
unde funeretur, ad eas quoque manus mittere oportet: satius est enim de suo
testatore funerari, quam aliquos legata consequi. Sed si adita fuerit postea
hereditas, res emptori auferenda non est, quia bonae fidei possessor est et
dominium habet, qui auctore iudice comparavit. Legatarium tamen legato carere
non oportet, si potest indemnis ab herede praestari: quod si non potest, melius
est legatarium non lucrari, quam emptorem damno adfici. Si cui funeris sui
curam testator mandaverit et ille accepta pecunia funus non duxerit, de dolo
actionem in eum dandam Mela scripsit: credo tamen et extra ordinem eum a
praetore compellendum funus ducere. Anche la letteratura non si è
particolarmente soffermata al riguardo, ad esempio: S. Lazzarini, “Sepulcrum familiare” e
“ius mortuum inferendi”, in Studi in onore di A. Biscardi,
V, Milano, 1984, 217 s., cita Gai. 2.6, per collegare il mortuum inferre «al possesso del ius funerum»; G.
Giliberti, «Dominium Caesaris», in Index. Quaderni camerti di studi romanistici
24, 1996, 199 e 214 nt. 1,
evidenzia del passo gaiano l’attributo del locus noster per
contrapporvi la condizione giuridica dei territori provinciali. Raramente la dottrina ha legato la
legittimità a provvedere al funus in relazione alla
religiosità della sepoltura: É.
Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romains, 2a ed.,
Paris 1928, 240, rileva che l’inumazione «suffit pour rendre
le terrain religieux sous trois conditions: qu’elle ait été
faite par celui qui a la charge des funérailles, dans un terrain lui
appartenant en propriété quiritarie, après qu’il a
rendu les derniers devoirs au défunt»; F. Fabbrini, Dai «religiosa loca» alle
«res religiosae», cit., 199 nt. 8, accenna al locus noster e
al ius funerarium per la religiosità del sepolcro. Tuttavia, da
Gai. 2.6, appare emergere la questione se fosse religiosa la sepoltura
effettuata da un soggetto privo di ius funerarium.
[159] D. 11.7.12.2-4 (Ulp. 25 ad edict.): Pretor ait: ‘Quod
funeris causa sumptus factus erit, eius reciperandi nomine in eum, ad quem ea
res pertinet, iudicium dabo’. Hoc edictum iusta ex causa propositum est,
ut qui funeravit persequatur id quod impendit: sic enim fieri, ne insepulta
corpora iacerent neve quis de alieno funeretur. Funus autem eum facere oportet,
quem decedens elegit: sed si non ille fecit, nullam esse huius rei poenam, nisi
aliquid pro hoc emolumentum ei relictum est: tunc enim, si non paruerit
voluntati defuncti, ab hoc repellitur. Sin autem de hac re defunctus non cavit
nec ulli delegatum id munus est, scriptos heredes ea res contingit: si nemo
scriptus est, legitimos vel cognatos: quosque suo ordine quo succedunt; D.
11.7.14.6 (Ulp. 25 ad edict.): Haec actio quae funeraria dicitur ex
bono ex aequo oritur: continet autem funeris causa tantum impensam, non etiam
ceterorum sumptuum. Aequum autem accipitur ex dignitate eius qui funeratus est,
ex causa, ex tempore et ex bona fide, ut neque plus imputetur sumptus nomine
quam factum est neque tantum quantum factum est, si immodice factum est:
deberet enim haberi ratio facultatium eius, in quem factum est, et ipsius rei,
quae ultra modum sine causa consumitur. Quid ergo si ex voluntate testatoris
impensum est? Sciendum est nec voluntatem sequendam, si res egrediatur iustam
sumptus rationem, pro modo autem facultatium sumptus fieri; D. 11.7.31.1
(Ulp. 25 ad edict.): Qui servum alienum vel ancillam sepelivit, habet
adversus dominum funerariam actionem, in cui emergerebbe un dovere per il dominus
di procedere alla sepoltura del proprio servo. Questa azione però non spettava
a colui che dava sepoltura mosso da un sentimento di affezione verso il
defunto: D. 11.7.14.7 (Ulp. 25 ad edict.).
[160] La materia viene
esposta in Cic., de leg. 2.48-52: 48. At postea haec iura pontificum
auctoritate consecuta sunt, ut, ne morte patris familias sacrorum memoria
occideret, iis essent ea adiuncta, ad quos eiusdem morte pecunia venerit. Hoc
uno posito, quod est ad cognitionem disciplinae satis, innumerabilia nascuntur,
quibus implentur iuris consultorum libri. Quaeruntur enim qui adstringatur
sacris. Heredum causa iustissima est; nulla est enim persona quae ad vicemeius
qui e vita emigrarti proprius accedat. Deinde qui morte testamentove eius
tantundem capiat quantum omnes heredes: id quoque ordine; est enim, ad id quod
propositum est, ad commodatum. Tertio loco, si
nemo sit heres, is qui de bonis, quae eius fuerint, quom moritur, usu ceperit
plurimum possedendo. Quarto, si [qui] nemo sit qui ullam rem ceperit, de
creditoribus eius qui plurimum servet. 49.
Extrema illa persona est ut, is, si qui ei, qui mortuus sit, pecuniam
debuerit neminique eam solverit, proinde habeatur quasi eam pecuniam ceperit.
Haec nos a Scaevola didicimus, non ita descripta ab antiquis. Nam illi quidem
his verbis docebant: tribus modis sacris adstringitur: aut hereditate, aut si
maiorem partem pecuniae capiat, aut si maior pars pecuniae legata est, si inde
quippiam ceperit. Sed pontificem sequamur. 50. Videtis igitur omnia
pendere ex uno illo, quod pontifices cum pecunia sacra coniungi volunt isdemque
ferias et caerimonias adscribendas putant. Atque etiam dant hoc Scaevolae, quom
est partitio, ut si in testamento deducta scripta non sit, ipsique minus
ceperint quam omnibus heredibus relinquatur, sacris ne alligentur. In donatione
hoc idem secus interpretantur: et quod pater familias in eius donatione, qui in
ipsius potestate est, adprobavit ratum est; quod eo insciente factum est, si id
is non adprobat, ratum non est. 51. His propositis quaestiunculae multae nascuntur,
quas qui non intellegat, si ad caput referat, per se ipse facile perspiciat.
Veluti si minus quis cepisset, ne sacris alligaretur, et post de eius heredibus
aliquis exegisset pro sua parte, id quod ab eo, quoi ipse heres esset,
praetermissum fuisset eaque pecunia non minor esset facta cum superiore
exactione quam heredibus omnibus esset relicta, qui eam pecuniam exegisset,
solum sine coheredibus sacris alligari. Quin etiam cavent ut, cui plus legatum
sit quam sine religione capere liceat, is per aes et libram heredes testamenti
solvat, propterea quod eo loco res est ita soluta hereditate, quasi ea pecunia
legata non esset. 52. Hoc ego loco multisque aliis quaero a vobis, Scaevolae,
pontifices maximi et homines meo quidem iudicio acutissimi, quid sit quod ad
ius pontificium civile adplicetis. Civilis enim iuris scientia pontificium
quodam modo tollitis. Nam sacra cum pecunia pontificum auctoritate, nulla lege
coniuncta sunt. Itaque si vos tantummodo pontifices
essetis, pontificalis maneret auctoritas; sed quod idem iuris civilis estis
peritissimi, hac scientia illam eluditis. Placuit P. Scaevolae et Ti.
Coruncanio pontificibus maximis itemque ceteris, eos qui tantundem caperent
quantum omnes heredes sacris alligari.
[161] Dal tormentato passo
ciceroniano emerge che alla regola sacra
cum pecunia fece seguito l’elaborazione di una primitiva
classificazione degli onerati ai culti domestici che Cicerone attribuisce agli
antichi. Questa ripartizione, che riaffermava come l’eredità fosse
il primo mezzo con il quale si era vincolati ai sacra, era tesa a sollevarne l’erede che non avesse
acquistato una parte rilevante del patrimonio: si trattava quindi di una
esplicitazione del fondamentale principio secondo cui i culti domestici
dovevano seguire il patrimonio. Seguì poi la regola del tantundem, in base a cui coloro che
acquistavano quanto le quote spettanti a tutti gli eredi (quantum omnes heredes) erano vincolati al culto dei sacra familiari, un precetto ampio
questo che ricomprendeva i casi esposti nella precedente classificazione, e che
rifletteva una più attenta elaborazione. Successivamente vi furono altri
provvedimenti di Publio e Quinto Mucio Scevola, la cui elaborazione di cinque
classi di onerati alla prosecuzione dei sacra
viene presentata dall’oratore in forma unitaria. Gli interventi degli
Scevola dimostrano come la questione si presentasse particolarmente difficile,
e fosse di grande rilevanza ancora nel I sec. a.C.
[162] Secondo la teologia
romana i sacra privati non dovevano estinguersi: Cic., leg. 2.22: Sacra privata perpetua manento; 2.47: De sacris … una sententia, ut conserventur semper. Anche nell’opera di Gaio
(2.55) resta ancora memoria dell’osservanza dei culti familiari: quorum illis temporibus summa observatio
fuit. La costante tutela dei culti domestici nel tempo, dunque, era un
compito di rilevante importanza, assegnato al collegio pontificale, almeno fin
dai tempi di Numa, stando alla tradizione liviana che lo vede competente per
tutti i sacra.
[163] Questa purificazione
pare collegarsi ai riti di pulitura del Tempio di Vesta, che si svolgevano il
15 giugno, giorno contrassegnato dal calendario arcaico con la sigla Q.S.D.F., da sciogliersi come quando stercum delatum fas: Ovid., fast. 6.711-714: Tertia nox veniet, qua tu, Dodoni Thyone, / stabis Agenorei fronte
videnda bovis. / Haec est illa dies, qua tu purgamina Vestae, / Thybri, per
Etruscas in mare mittis aquas; Fest., v. Q. S. D. F.,
[164] Per questa accezione
di domus vedi Isid., orig. 9.4.3:
Domus unius familiae habitaculum est,
sicut urbs unius populi, sicut orbis domicilium totius generis humani. Est autem domus genus,
familia, sive coniunctio viri et uxori. Incipit
autem a duobus, et est nomen Graecum. Per i vari significati
del termine rimando alla v. domus, di
Io.B. Hofmann, in Thesaurus
Linguae Latinae V,1 fasc. 9 dolor-donec, Lipsiae 1930, coll. 1949
ss., ed in part. vedi coll. 1980 ss. per l’accezione di familia.
[165] Vedi Varr., de ling. Lat. 5.23 (vedi infra nt. 176).
Anche in D. 11.7.35 (Marc. 5 dig.) si rinviene, a contrario, un antico dovere per i familiari di effettuare riti
funebri: Minime maiores lugendum putaverunt eum, qui ad patriam delendam et
parentes et liberos interficiendos venerit: quem si filius patrem aut pater
filium occidisset, sine scelere, etiam praemio adficiendum omnes constituerunt.
[166] Tra i riti funerari
le fonti ricordano il silicernium: Varr., sat. Menip. frag. 303
(51 ed. Astury): Funus exequiati laute ad sepulchrum antiquo more
silicernium confecimus; Fest., v. Silicernium,
[167] Vedi per quanto
riguarda i giorni denicales, dedicati
ad onorare i morti, Cic., de leg. 2.55:
Totaque huius iuris conpositio
pontificalis magnam religionem caerimoniamque declarat (per un commento al
passo ciceroniano F. de Visscher, La lois des XII Tables et la protection des
tombeaux, in Mélanges P.
Meylan. I. Droit romain, Lausanne
1963, 360 ss.).
[168] Così
affermerebbe una lex de religione
secondo Cic., de leg. 2.22; sul tema
vedi: K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt. Ein Beitrag zur
philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift de Legibus [Historia. Einzelschriften 42], Wiesbaden 1983, 90 ss.; A. Bernardi,
Deorum Manium Iura Sancta Sunto
(dalle XII tavole) (I diritto degli
dei Mani siano rispettati), in Id., Pietas
loci. Riflessioni sulla religiosità antica e altri saggi di storia
romana, Como 1991, 71 ss. In un altro brano ciceroniano si fa riferimento
ugualmente alla sanctitudo delle sepolture, de re pub. 4.fr.8 (174, 7 Non.): eosdem terminos hominum curae atque vitae: sic pontificis in sanctitudo
sepolture.
L’importanza della celebrazione
dei funerali e di altri riti legati al culto dei morti, si rinviene nelle
deroghe ad alcuni obblighi: Gell., noct.
Att. 16.4.4, ricorda tra gli impedimenti giustificati al giuramento del
soldato: funus familiare feriaeve
denicales, quae non eius rei causa in eum diem conlatae sint; D. 2.4.2
(Ulp. 5 ad edict.), dove tra coloro che non devono essere chiamati in
giudizio si enumera anche chi funus
ducentem familiare iustave mortuo facientem (vedi supra par. 1). Vedi anche D. 35.2.1.19 (Paul. lib. sing. ad leg. Falcid.), che per la questione di una eventuale
deduzione delle spese affrontate per la costruzione di un monumento funebre, si
afferma che nec enim ita monumenti
aedificationem necessariam esse, ut sit funus ac sepultura.
[169] D. 24.1.5.8 (Ulp. 32 ad Sab.): Concessa donatio est sepulturae causa: nam sepulturae causa locum
marito ab uxore vel contra posse donari constat, et si quidem intulerit, faciet
locum religiosum. Hoc autem ex eo venit, quod definiri solet eam demum
donationem impediri solere, quae et donantem pauperiorem et accipientem faciet
locupletiorem: porro hic non videtur fieri locupletior in ea re quam religioni
dicavit; D. 41.2.30.1 (Paul. 15 ad
Sab.): Possessionem amittimus multis
modis, veluti si mortuum in eum locum intulimus, quem possidebamus: namque
locum religiosum aut sacrum non possumus possidere, etsi contemnamus religionem
et pro privato eum teneamus, sicut hominem liberum, e vedi anche D. 10.2.30
(Modest. 6 resp.):
… in eo fundo reliquiae sunt
conditae, quibus religio ab utriusque patribus debebatur…
[170] Sul punto vedi ad
esempio: F. Glück, Commentario alle pandette, I, tradotto
ed annotato da C. Ferrini, Milano 1888, 723: «Qui non si esigeva la
consacrazione sacerdotale, benché sulle tombe avessero sorveglianza i
sacerdoti. Perché un luogo diventasse religioso, la sepoltura doveva
essere definitiva». Non sorgeva quindi la necessità del compimento
di alcuno specifico rito civile: P. Bonfante,
Corso di diritto romano, II.I, cit., 27: «Nozze e funerali,
sogliono esser le cerimonie più solenni della vita dei popoli, ma per
gli effetti giuridici il diritto romano non richiede l’adempimento di
alcuna solennità civile».
[171] Anzi, si potrebbe
riconoscere nelle fonti un impedimento per il pontefice di vedere un cadavere:
Sen. phil., cons. ad Marc. 6.15.3: Ti. Caesar et quem genuerat et quem
adoptaverat amisit: ipse tamen pro rostris laudavit filium stetitque in
conspectu posito corpore, interiecto tantummodo velamento quod pontificis
oculos a funere arceret, et, flente populo Romano, non flexit vultum;
Serv., ad Verg. Aen. 3.64: ‘Atraque cupresso’ nigra,
funesta: nam inferis consecrata est, quia caesa numquam revirescit. Moris autem
Romani fuerat ramum cupressi ante domum funestam poni, ne quisquam pontifex per
ignorantiam pollueretur ingressus; 6.176: Qui enim de pietatis generibus
scripserunt primum locum in sepultura esse voluerunt: unde cum pontificibus
nefas esset cadaver videre, magis tamen nefas fuerat si visum insepultum
relinquerent. Cfr. inoltre, per il flamen Dialis: Gell., noct. Att. 10.15.24: Locum, in quo
bustum est, numquam ingreditur, mortuum numquam attingit; per gli auguri
Tac., ann. 1.62: Quod Tiberio haud probatum, seu cuncta Germanici in
deterius trahenti, sive exercitum imagine caesorum insepultorum que tardatum ad
proelia et formidolosiorem hostium credebat; neque imperatorem auguratu et
vetustissimis caerimoniis praeditum adtrectare feralia debuisse. Cfr. anche
Dio. Cass. 54.28.3; 54.35.4-5. La mancata partecipazione pontificale ai
funerali e alle esequie si può dedurre a contrario da D. 2.4.2 (Ulp. 5 ad edict.) (vedi supra par. 1), in
materia di deroghe alla chiamata in giudizio, per cui il pontefice
nell’atto di celebrazione dei riti, viene enumerato separatamente
rispetto a colui che conduce il funerale relativo alla propria famiglia e pone
in essere i iusta.
[172] La severità
dei pontefici era resa necessaria in quanto la reazione degli dèi Mani
poteva essere pericolosa per l’intera comunità, come ricorda
Ovidio, fast. 2.47-556, seguirono
catastrofici effetti dalla omessa celebrazione del giorno dedicato ai morti: At quondam, dum longa gerunt pugnacibus
armis / bella, Parentales deseruere dies. / Non impune fuit; nam dicitur omine
ab isto / Roma suburbanis incaluisse rogis. / Vix equidem credo: bustis exisse
feruntur / et tacitae questi tempore noctis avi, / perque vias Urbis latosque
ululasse per agros / deformes animas, volgus inane, ferunt. / Post ea
praeteriti tumulis redduntur honores, / prodigiisque venit funeribusque modus.
[173] Per una
interpretazione dell’immaginario mortuario dell’antichità
vedi F. Cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire
des romains, Paris 1942. Rimando anche ai lavori pubblicati in La mort
les morts et l’au-delà dans le monde romain. Actes du colloque de Caen, 20-22 novembre 1985,
sous la direct. de F. Hinard, Caen
[174] Per la biografia,
l’ideologia e l’attività giuridica di Publio Mucio Scevola: J. Roby, Introduzione allo studio
del Digesto giustinianeo. Regole e notizie per l’uso delle Pandette nella
scienza e nella pratica. Vita e opere dei giuristi romani, trad. it. di G.
Pacchioni, Firenze 1887, 96 ss.; R.A.
Bauman, Lawyers in Roman
republican politics. A study of the Roman jurists in their political setting,
316-82 BC, cit., 230 ss.; A.
Guarino, La coerenza di Publio
Mucio, Napoli 1981; M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
2a ed., Napoli 1982, 255 ss.; A.
Schiavone, Giuristi e nobili nella
Roma repubblicana. Il secolo della rivoluzione scientifica nel pensiero
giuridico antico, Roma-Bari 1987, 3 ss.; Id.,
Publio Mucio e la nascita della
letteratura giuridica romana, in Roma
tra oligarchia e democrazia. Classi sociali e formazione del diritto in epoca
medio-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano. Copanello 28-31 maggio
1986, Napoli 1988, 139 ss.; Id., Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, 41 ss.;
F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte.
Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I. Einleitung Quellenkunde Frühzeit und Republik, München
1988, 547 s. Per i suoi rapporti con la politica: E.S. Gruen, The
political allegiance of P. Mucius Scaevola, in Athenaeum 43, 1965, 321 ss.; per il suo operare tra politica e
diritto: G. Grosso, P. Mucio Scevola tra il diritto e la
politica, in Archivio giuridico
«F. Serafini» 175, 1968, 204 ss. (ora in Id., Tradizione e misura umana del diritto, Milano 1976, 105 ss.). Sui
frammenti relativi al pontefice-giurista vedi F.P.
Bremer, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, I. Liberae rei publicae. Iuris consulti,
cit., 32 ss.
[175] Cic., de leg. 2.57: Itaque in eo qui in nave necatus, deinde in
mare proiectus esset, decrevit P. Mucius familiam puram, quod os supra terram
non extaret; porcam heredi esse contractam, et habendas triduum ferias et porco
femina piaculum faciundum. Si in mari mortuus esset, eadem praeter piaculum et
ferias. Sul passo vedi B. Albanese, P. Mucio Scevola pontefice e
l’uccisione sulla nave, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano 98-99, 1995-1996, 27 ss., per il
quale si tratterebbe di una decisione dell’intero collegio pontificale
presieduto da P. Mucio Scevola in qualità di pontefice massimo (28).
Secondo G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 553, le festività a cui si fa riferimento nel brano di Cicerone
sono delle feriae privatae.
[176] Vedi Varr., de ling. Lat. 5.23:
Terra, ut putant, eadem et humus; ideo
Ennium in terram cadentis dicere: ‘cubitis pinsibant humum’: et
quod terra sit humus, ideo is humatus mortuus, qui terra obrutus; ab eo qui
Romanus combustus est, <si> in sepulc[h]rum eius abiecta gleba non est
aut si os exceptum est mortui ad familiam purgandam, donec in purgando humo est
opertum (ut pontifices dicunt, quod inhumatus sit), familia funesta manet;
qui si fa riferimento in materia al linguaggio tecnico stabilito dai pontefici.
La prevalenza e l’antichità del rito della inumazione vengono
ricordate anche da Plinio (nat. hist. 7.187):
Ipsum cremare apud Romanos non fuit
veteris instituti: terra condebantur. At postquam longinquis bellis obrutos
erui cognovere, tunc institutum. Et tamen multae familiae priscos servavere
ritus, sicut in Cornelia nemo ante Sullam dictatorem traditur crematus, idque
voluisse veritum talionem eruto C. Mari cadavere. [Sepultus vero intellegatur
quoquo modo conditus, humatus vero]. Sulla prevalenza della inumazione sul
rito della incenerizione in Roma: F. de
Visscher, Locus religiosus, in
Atti del congresso internazionale di
diritto romano e di storia del diritto. Verona 27–28–IX–1948,
a cura di G. Moschetti, III, Milano 1953, 179 ss.; Id., Le droit des
tombeaux romains, Milano 1963, 21 ss.; G.
Franciosi, Sepolcri e riti di
sepoltura delle antiche ‘gentes’, in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana, a cura di G.
Franciosi, I, Napoli 1984, 35 ss.
[177] Il richiamo ai iusta
si rinviene anche in D. 2.4.2 (Ulp. 5 ad edict.) (vedi supra par. 1) ed in
particolare nella disciplina numana sulla folgorazione di un uomo. La norma
vietava la sepoltura dell’uomo ucciso dal fulmine e prescriveva che per
il morto iusta nulla fieri oportet, ricordando così sia i riti
funerari, sia la sepoltura: Fest., v. Occisum,
[178] Il termine porcum qui è usato al femminile (vedi supra nt. 175), per tale valenza arcaica:
Fest., v. Recto fronte,
[179] G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit.,
[180] Vedi ad esempio: Gell., noct. Att. 4.6.7-8: Eadem autem ratione verbi
‘praecidaneae’ quoque hostiae dicuntur, quae ante sacrificia
solemnia pridie caeduntur. ‘Porca’ etiam ‘praecidanea’
appellata, quam piaculi gratia ante fruges novas captas immolare Cereri mos
fuit, si qui familiam funestam aut non purgaverant aut aliter eam rem, quam
oportuerat, procuraverant; Fest., v. Praecidanea porca,
[181] Il riferimento ad un
piacolo per la mancata sepoltura si rinviene anche in Hor., carm. 1.28.34:
teque piacula nulla resoluent.
[182] Intorno al ius sepulchri nel periodo monarchico sono pochi i lavori di riferimento,
poiché la dottrina si è dedicata particolarmente alle
questioni relative all’età classica e postclassica. Per le antiche sepolture gentilizie vedi G. Franciosi, Sepolcri e riti di sepoltura delle antiche ‘gentes’,
cit., 35 ss. Un problema dottrinale ha riguardato il contenuto e le
caratteristiche del ius sepulchri:
E. Albertario, Sul contenuto del ius
sepulchri, in Rendiconti
dell’Istituto Lombardo. Classe di Lettere e Scienze morali e storiche
43, 1910, 533 ss. (ora in Id., Studi di diritto romano, II. Cose
– diritti reali – possesso, cit., 29 ss.); M.E. Lucifredi Peterlongo, In tema
di jus sepulchri, in Studi in memoria di E. Albertario, II, cit., 27
ss.; F. de Visscher, De la prescription du «ius
sepulchri», in Studi in onore
di E. Betti, II, Milano 1962, 393 ss.;
G. Longo, Sul diritto sepolcrale romano, in IVRA. Rivista internazionale di diritto romano e antico 15, 1964,
137 ss. (ora in Id., Ricerche
romanistiche, Milano 1966, 259 ss.); P.
Stein, Some reflections on jus sepulchri, in Studi in onore di
B. Biondi, II, Milano 1965, 111 ss.; M.
de Dominicis, Il «ius
sepulchri» nel diritto successorio romano, in Revue Internationale
des droits de l’Antiquité 13, 1966, 177 ss. (ora in Id., Scritti romanistici, Padova 1970, 197 ss.); per il periodo tardo da ultimo P. Cuneo, La legislazione tardo-imperiale in materia di
sepolcri, in Studi in memoria di G. Impallomeni [Pubblicazioni della
Facoltà di Giurisprudenza della Università di Trieste 44], Milano
1999, 133 ss. Tra le altre questioni vi è la differenza fra sepolcri
familiari e quelli ereditari, su cui ad esempio: E. Albertario, Sepulchra familiaria e sepulchra
hereditaria, in Il Filangieri. Rivista
giuridica italiana di scienza, legislazione e giurisprudenza 35, 1910, 492
ss. (ora in Id., Studi di diritto romano. II, loc. cit.,
1 ss.); F. de Visscher, Le conflit entre la succession testamentaire
et le régime des tombeaux de famille, in Revue Internationale des droits de l’Antiquité 1,
1954, 283 ss.; O. Sacchi, Il passaggio dal sepolcro gentilizio al
sepolcro familiare e la successiva distinzione tra sepolcri familiari e
sepolcri ereditari, in Ricerche sulla
organizzazione gentilizia romana, a cura di G. Franciosi, III, Napoli 1995,
169 ss. Vedi anche in particolare sul contenuto dei sepolcri familiari: S. Lazzarini, “Sepulcrum
familiare” e “ius mortuum inferendi”, cit., 217 ss.; Id., Sepulcra familiaria. Un’indagine epigrafico-giuridica, Padova
1991, (ivi letteratura precedente).
[183] Per una esposizione
intorno alle antiche sepolture, dal X sec. al
[184] Vedi inoltre una
breve lettera di Plinio il Giovane all’imperatore Traiano, epist. 10.68: Petentibus quibusdam, ut sibi reliquias suorum aut propter iniuriam
vetustatis aut propter fluminis incursum aliaque his similia quaeucumque
secundum exemplum proconsulum transferre permitterem, quia sciebam in urbe
nostra ex eius modi causis collegium pontificum adiri solere, te, domine,
maximum pontificem consulendum putavi, quid observare me veli.
[185] Illuminante appare il
commento del passo ulpianeo di V.
Scialoja, Teoria della
proprietà nel diritto romano, cit., 165, che pone in evidenza le
questioni che sorgevano in materia: «Questo certamente era uno dei punti
più interessanti della teoria delle res religiosae, in cui veramente il rapporto
di diritto privato s’intreccia con la religiosità in un modo
singolare. Infatti: il luogo non può diventare religioso, se non per
disposizione di colui che ne ha il diritto; d’altra parte il cadavere per
sé stesso è la fonte della religiosità: nel contrasto fra
questa religiosità del cadavere e il dominio, il quale non può
essere offeso e impedisce la religiosità del luogo, non c’era
altra via d’uscita che quella che risulta dal testo».
[186] Di estremo interesse
appare, tra i provvedimenti edittali dell’imperatore Costanzo in materia
di violazione di sepolcri, la costituzione del 28 marzo
[187]
L’interpolazione è stata sostenuta da diversi autori, vedi ad
esempio: W. Kalb, Das
Juristenlatein. Versuch einer Charakteristik auf Grundlage der Digesten, 2a
ed., Nürnberg 1888, 69, il quale giustamente asserisce che «der
konservative Republikaner Labeo konnte so nicht schreiben» (nt. 6); C. Ferrini, De iure sepulcrorum apud Romanos, in Archivio giuridico 30, 1883, 448 (ora in Id., Opere di Contardo
Ferrini, IV. Studi vari di diritto
romano e moderno, a cura di E. Albertario, Milano 1930, 2), il quale
parlando della necessità di un decreto pontificale per disseppellire
resti umani afferma: «Haec iam Labeo docuit ac Tribonianus comprovabit
(D. 11, 7, 8, pr.). Nec miramur cum ipse dicat hoc et principis iussu fieri
posse: constat enim principem Pontificem Maximum fuisse, ita ut hinc quae
diximur confirmentur». Questo era il pensiero di Labeone, tuttavia,
«Tribonianus aut imprudens recepit aut aliam significationem
attribuit» (nt. 1); O. Lenel, Palingenesia iuris civilis. Iuris
consultorum reliquie quae Iustiniani Digestis continentur, II, Lipsiae 1889
[rist. a cura di L. Capogrossi Colognesi, Roma 2000], col. 562 ntt. 4 e 5; P. Bonfante, Corso di diritto romano, II.I, cit., 33 nt. 2, secondo il quale «probabilmente in
pratica decidono sempre i vescovi, come si debbono intendere i pontifices del testo di Ulpiano»;
G. Longo, Comunità
cristiane primitive e res religiosae, in Studi giuridici in memoria di
F. Vassalli, II, Torino 1960, 1028 (ora in Id., Ricerche romanistiche, Milano 1966, 223) sostiene
che «Dell’interpolazione relativa apportata in D. 11, 7, 8, pr., si
desume che, per diritto giustinianeo, e solamente per questo, si menziona,
accanto all’originaria, ed esclusiva competenza pontificale, che il
giurista rammentava, il potere Princeps»; inoltre «in tal
guisa, nel diritto della Compilazione, l’esclusiva competenza del
collegio sacerdotale è eliminata. La tutela dell’eterno riposo dei
morti di qualunque fede viene demandata, […] agli organi del potere
statuale» (1037 = 234). Vedi ancora: F.
de Visscher, Le droit des tombeaux
romains, cit., 62 nt. 65; A. Calonge,
El Pontifex Maximus y el problema
de la distinción entre magistraturas y sacerdocios, cit., 23. Vedi contra M. Kaser, Zum
römischen Grabrecht, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische
Abteilung 95, 1978, 27 nt. 49.
Incerta
appare B. Fabbrini, La deposizione
di Gesù nel sepolcro e il problema del divieto di sepoltura per i
condannati, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 61, 1995, 155: «forse l’aggiunta del iussus
principis è posteriore, oppure vi è inserita in quanto
l’imperatore è pontefice».
[188] CIL X.2, nr. 8259: [Dis] m(anibus) [s(acrum). C]ollegi[u]m
pon[tif]icum d[e]crevit, si ea ita suntque libelo [c]ontenentur, placere
per ...re puela[m], d(e) q(ua) agatu[r, s]acelo [eximere et i]ter[um ex]
pra[escr]ipto [d]eponere et scripturam tituli at pristinam formam restituere
piaculo prius dato operis faciendi ove atra (= Fontes iuris Romani
antejustiniani, I, cit., 330 s., nr. 63).
[189] A testimonianza di un
intervento pontificale per perficere un
monumento funebre vedi anche una iscrizione rinvenuta a Beneventum, CIL IX, nr.
1729: P. Aelius Venerianus hoc vas
disomum sibi et felicitati suae posuit et tribunal ex permissu pontiff.
perfecit.
[190] L’accezione
tecnica di sepolcro data da Ulpiano fa riferimento alla sepoltura dei resti
umani: D. 11.7.2.5 (Ulp. 25 ad edict.): Sepulchrum
est, ubi corpus ossave hominis condita sunt. Celsus autem ait: non totus, qui
sepulturae destinatus est, locus religiosus fit, sed quatenus corpus humatum
est, ma secondo l’opinione celsina, è religiosa solo
l’area fin dove è stato inumato il cadavere. La presenza delle
spoglie umane come elemento essenziale del locus
religiosus è dimostrata anche dalla negazione del carattere
religioso del cenotafio ad opera di Antonino e Vero: D. 11.7.6.1 (Ulp. 25 ad
edict.): Si adhuc monumentum purum est, poterit quis hoc et vendere et
donare. Si cenotaphium fit, posse hoc venire dicendum est: nec enim esse hoc
religiosum divi fratres rescripserunt, sebbene vi fu chi affermò la
religiosità del cenotafio, D. 1.8.6.5 (Marc. 3 inst.): Cenotaphium
quoque magis placet locum esse religiosum, sicut testis in ea re est Vergilius (per
la controversia tra Marciano e Ulpiano in materia rimando a P. Ferretti, De cenotaphio diatriba,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
66, 2000, 415 ss.). Non era necessario che il defunto fosse libero: anche il
luogo dove è seppellito il servo diveniva religioso: D. 11.7.2pr. (Ulp.
25 ad edict.): Locum in quo servus sepultus est religiosum esse
Aristo ait; del resto in Varr., de ling. Lat. 6.24, si attesta
l’esistenza di Mani servilibus. Qualora i resti fossero stati
sepolti in diversi punti diveniva religioso solo il luogo in cui si trovava la
parte principale del corpo: D. 11.7.44 (Paul. 3 quaest.): Cum in
diversis locis sepultum est, uterque quidem locus religiosus non fit, quia una
sepultura plura sepulchra efficere non potest: mihi autem videtur illum
religiosum esse, ubi quod est principale conditum est, id est caput, cuius
imago fit, inde cognoscimur. La sola necessità della sepoltura per
la connotazione religiosa è stata fortemente affermata da F. de Visscher, Locus religiosus, cit., 179 ss., il quale sostiene la diretta
relazione tra l’inumazione e i riti funerari romani, in quanto
l’incenerizione «n’a été admise comme
procédé régulier qu’à la condition de
s’achever par le rite essentiel de l’inhumation»
(188); vedi anche dello stesso A. Le droit des tombeaux romains, cit., 17
ss.
[191] Il permesso
pontificale per reficere un monumento sepolcrale si rinviene anche in
alcune epigrafi: CIL VI.1, nr. 2963: petit a pontifices ut sibi permitterent
reficere n. monumentum iuris sui lib(ertis) libertabusque sibi et suis
posterisque eorum (= Fontes iuris Romani antejustiniani, III. Negotia,
ed. V. Arangio-Ruiz, Florentiae 1968, 275); CIL VI.3, nr. 22120: sepulcrum
parentum suorum vetustate corruptum permissu pontificum c. v. restituit;
CIL VI.4.2, nr. 35068: permissu pontific. refec.
[192] Tra coloro che
affermano il requisito dell’eternità della sepoltura, vedi ad
esempio: F. Glück, Commentario alle pandette, I, cit., 723;
S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, I, Firenze, 1906, 372; F. de Visscher, Locus religiosus, cit., 181; Id.,
Le droit des tombeaux romains,
cit., 54, 189 nt. 81; G. Longo, Le
droit funéraire romain dans son développement historique,
cit., 635 s.; G. Impallomeni, Sulla capacità degli esseri
soprannaturali in diritto romano, in Studi
in onore di E. Volterra, III, Milano 1971, 45.
[193] Per i significati e
l’etimologia del termine vedi: Æ. Forcellini, Totius
latinitatis Lexicon, II, cit., v. explōro, 242 s.; O. Hiltbrunner, v. explōro, in
Thesaurus Linguae Latinae V,2, fasc. 11 expavesco-expono, Lipsiae
1949, coll. 1744 ss.; A. Ernout-A.
Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine, cit., 206. Tra le varie accezioni
vi è quella per cui il senso è «consulitur […] deus
sim. per sacrificium, oraculum, augurium sim.» (coll. 1749 s.),
cioè di consultare e di riflettere in relazione alla sfera del sacro,
cfr. in tal senso, ad esempio, Val. Max., 1.6.9: cum Is captarum Syracusarum
et Hannibalis ante Nolana moenia a se primum fugere coacti gloria inflammatus,
cum summo studio niteretur ut Poenorum exercitum aut in Italia prosterneret aut
Italia pelleret sollemnique sacrificio voluntates deorum explorareret, quae
prima hostia ante foculum cecidit, per cui attraverso il sacrificio si
cercava di conoscere la volontà degli dèi; Tac., de
orig. et sit. Germ. 10.6: Est et alia observatio auspiciorum, qua
gravium bellorum eventus explorant, relativa alla presa degli auspici per
conflitti bellici importanti.
[195] Vedi: D. 10.3.6.6
(Ulp. 19 ad edict.): Si quis in communem locum mortuum intulerit,
an religiosum fecerit videndum. Et sane ius quidem inferendi in sepulchrum unicuique
in solidum competit, locum autem purum alter non potest facere religiosum.
Trebatius autem et Labeo quamquam putant non esse locum religiosum factum,
tamen putant in factum agendum; D. 11.7.34 (Paul. 64 ad edict.): Si
locus sub condicione legatus sit, interim heres inferendo mortuum non facit
locum religiosum; D. 11.7.43 (Papin. 8 quaest.): Sunt personae,
quae, quamquam religiosum locum facere non possunt, interdicto tamen de mortuo
inferendo utiliter agunt, ut puta dominus proprietatis, si in fundum, cuius
fructus alienus est, mortuum inferat aut inferre velit: nam si intulerit, non
faciet iustum sepulchrum, sed si prohibeatur, utiliter interdicto, qui de iure
dominii quaeritur, aget. Eademque sunt in socio, qui in fundum communem invito
socio mortuum inferre vult. Nam propter publicam utilitatem, ne insepulta
cadavera iacerent, strictam rationem insuper habemus, quae nonnumquam in
ambiguis religionum quaestionibus omitti solet: nam summam esse rationem, quae
pro religione facit; C. 3.44.2: [Imp. Antoninus A. Hilariano] Invito vel ignorante te ab alio illatum corpus in
puram possessionem tuam vel lapidem locum religiosum facere non potest. Si
autem voluntate tuam mortuum aliquis in locum tuum intulerit, religiosus iste
efficitur: quo facto monumentum neque venire neque obligari a quoquam
prohibente iuris religione posse in dubium non venit (a. 223).
[196] Alla glossa festina Religiosus, 348-
[197] Che religiosus
avesse diverse accezioni è affermato inoltre da Aulo Gellio (noct.
Att. 4.9), anche se il
termine non viene accostato ai luoghi di sepoltura. Qui si riporta la
definizione di religiosus del
giurista Masurio Sabino, che richiama ad una concezione di separazione e di
lontananza delle cose religiose rispetto al mondo dei viventi: ‘religiosum’ … est, quod propter sanctitatem
aliquam remotum ac sepositum a nobis est; verbum a ‘relinquendo’
dictum, tamquam ‘caerimoniae’ a ‘carendo’ (par. 8), sebbene
Gellio accosti tale interpretazione a templa e delubra (questa
affermazione è stata attribuita da Macr., sat. 3.3.8 a Servio
Sulpicio Rufo: Servius Sulpicius religionem esse dictam tradidit quae
propter sanctitatem aliquam remota ac seposita a nobis sit, quasi a relinquendo
dicta, ut a carendo caerimonia).
[198] La necessità
di una inumazione si rinviene nelle parole delle Declamationes XIX maiores (5.6),
dello Pseudo Quintiliano, che ricorda l’uso di gettare una manciata di
terra sul cadavere insepolto: Hinc et ille venit affectus, quod ignotis
cadaveribus humum <in>gerimus, et insepultum quodlibet corpus nulla
festinatio tam rapida transcurrit, ut non quantulocumque veneretur aggestu;
vedi inoltre: Hor., carm. 1.20.23-25: At tu, nauta, vagae ne parce
malignus harenae / ossibus et capiti inhumato / particulam dare; Petr., sat.
114.11: ‘si nihil aliud, certe diutius’ inquit ‘iuncta
nos mors feret, vel si voluerit <mare> misericors ad idem litus
expellere, aut praeteriens aliquis tralaticia humanitate lapidabit, aut quod
ultimum est iratis etiam fluctibus, imprudens harena componet’. Vedi
anche Plaut., most. 500-504, per cui il nascondere un cadavere in una
casa appare uno scelus: Deceptus sum: hospes hic me necavit, isque me
/ Defodit insepultum clam [ibidem] in hisce aedibus, / Scelestus, auri causa. /
Nunc tu hinc emigra: / Scelestae hae sunt aedes, impiast habitatio.
[199] Per quanto attiene
alla sepoltura vedi Cic, de leg. 2.55: Iam tanta religio est sepulchrum, ut extra sacra et gentem inferri fas
negent esse. Secondo il passo non era fas seppellire qualcuno al di
là delle sue cerimonie e del suo sepolcro gentilizio. Per la materia
trattata, e per la struttura della frase, potrebbe trattarsi di un responso
pontificale. Si deve appoggiare quanto afferma A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses
de Rome, cit., 150: «La présence
d’un cadavre ou de ses cendres ne suffisait pas pour conférer
à un tombeau le caractère religieux; il fallait encore que le
mânes du défunt y fussent fixés et comme enfermés
par le pouvoir des formules et des cérémonies traditionnelles».
Anche J. Marquardt, La vie privée
des Romains, I, cit., 442, sostiene l’esistenza di un atto religioso
dopo l’inumazione che trasformava la sepoltura in un locus religiosus.
[200] Secondo i Romani, le res divinis iuris si estinguevano una
volta cadute in mano nemica, e ad esse si applicavano i meccanismi del
postliminio: D. 11.7.36 (Pomp. 26 ad Q. Muc.): Cum loca capta sunt ab
hostibus, omnia desinunt religiosa vel sacra esse, sicut homines liberi in
servitutem perveniunt: quod si ab hac calamitate fuerint liberata, quasi quodam
postliminio reversa pristino statui restituuntur.
[201] Si deve appoggiare
quanto sostiene F. de Visscher, Le droit des tombeaux romains, cit., 53,
secondo il quale nel periodo antico la norma era diretta ai sepolcri degli
stranieri. Diverse, infatti, sono le testimonianze che attestano un cambiamento
di accezione del termine hostis, da
straniero a nemico, in materia vedi F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio e il
problema del “diritto internazionale antico”, cit., 145 ss.
(ivi letteratura e fonti).
[202] Alcuni autori
sottolineano l’idea romana che emerge da questa disposizione, per cui la
religione della civitas sarebbe
prettamente legata a Roma stessa: C.
Ferrini, De iure sepulcrorum apud
Romanos, cit., 449 (ora in Id., Opere di Contardo Ferrini, IV.
Studi vari di diritto romano e moderno, cit., 3): «eatenus tantum
Romanorum religionem patere quatenus et imperii fines»; F. de Visscher, Le droit des tombeaux romains, cit., 53, il quale afferma che dalla
norma emerge per il passato un «point de vue étroitement
national».
[203] Vedi Cic., de leg. 2.55: Maiores eos, qui ex haec vita migrassent, in deorum numero esse
voluerunt. Questa idea che gli dèi Mani fossero gli stessi defunti
emerge anche in una costituzione di Costantino, secondo la sua stesura
originaria tramandataci dal Codice Teodosiano (C.Th. 9.17.4): aedificiam manium …, domus ita dixerim
defunctorum.
[204] Sul significato del
termine vedi: Fest., v. Prodigia,
Sui prodigi vedi, fra gli altri: A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’antiquité, IV.
Divination italique (étrusque – latine – romaine), cit.,
75 ss.; F. Luterbacher, Der Prodigienglaube
und Prodigienstil der Römer, eine historisch-philologische Abhandlung,
Burgdorf 1904 (Libelli 190, Nachdr., Darmstadt 1967); G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 538 ss.,
544 ss.; E. de Saint-Denis, Les
énumérations de prodiges dans l’œuvre de Tite Live,
in Revue de philologie, de littérature et d’histoire anciennes
68, 1942, 126 ss.; R. Bloch, Les
prodiges romains et la «procuratio prodigiorum», in Revue
Internationale des droits de l’Antiquité 2, 1949, 119 ss.; Id., La divinazione
nell’antichità, trad. it. di P. O’Connor, Napoli 1995,
65 ss., 84 ss.; P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. “Mundus”,
“Templum”, “urbs”, “ager”,
“Latium”, “Italia”, cit., 458 ss. (ivi precedente
bibliografia, 458 s. nt. 51); M.
Massenzio, v. prodigium, in Enciclopedia virgiliana, IV, Pe-S,
Roma 1988, 293 ss., con
particolare riferimento ai richiami in Virgilio; J. Champeaux, Le
Tibre, le Pont et les Pontifes. Contribution à l’histoire du prodige romain, in Revue des études latines 81,
2003, 25 ss. Per il caso dell’ermafroditismo, considerato prodigio
particolare vedi G. Crifò, «Prodigium»
e diritto: il caso dell’ermafrodita,
in Index 27, 1999, 113 ss.
Sull’affidabilità delle liste dei prodigi: B. MacBain, Prodigy and
expiation: a study in religion and politics in Republican Rome, Bruxelles
1982, 7 ss., e vedi anche 82 ss. per un indice dei prodigi. Per la
registrazione pontificale dei prodigi vedi: P.
Varese, Cronologia romana. I.
Il Calendario Flaviano (450-563 Varr.), Parte prima, Libri I-II, Roma 1908,
110 ss. Per l’attenzione data ai segni inviati dalle divinità
anche nel periodo che va dall’ascesa dei Severi all’inizio del IV
sec. vedi J.-P. Martin, Pouvoir et religions de
l’avènement de Septime Sévère au concile de
Nicée (193-325 ap. J.-C.), (Paris) 1998, 17 ss. Per «le
vocabulaire latin des signes et des présages» rimando a É.
Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes. 2. Pouvoir, droit, religion, cit., 255
ss., e in part. 260 ss. per l’analisi di prodigium. Su signa e portenta vedi G. Dumézil, La
religion romaine archaïque, cit., 584 ss.
[205] Lo scoliasta di
Giovenale (6.587, vedi l’edizione Scholia in
Iuvenalem vetustiora, collegit recensuit illustravit P. Wessner, 1931 [ed. stereot.,
Stuttgardiae 1967], 112), fa riferimento all’espiazione da parte di un
pontefice in caso di folgori: condi
fulgura dicuntur, quotienscumque pontifex dispersos ignes in unum
redi<g>it et quadam tacita ignora[n]t[i]a pr[a]ec[c]e locum adgestione consecratu[m];
il brano è interessante sebbene impreciso nella terminologia, come
rileva R. Schilling, Iuppiter
Fulgur. À propos de deux lois archaïques, in Mélanges de philosophie,
de littérature et d’histoire ancienne offerts à P.
Boyancé, Rome 1974, 684 nt. 2 (ora in Id., Rites, cultes,
dieux de Rome, cit., 361 nt. 1); infatti si utilizza la locuzione locus consecratus anziché locus religiosus.
[207] A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans
l’antiquité, IV. Divination italique
(étrusque – latine – romaine), cit., 81, rileva come i
pontefici tesero a fissare «une fois pour toutes les
cérémonies qui convenaient à chaque espèce de
prodiges, en faisant complètement abstraction du sens fatidique que
pouvait avoir ces phénomènes».
[208] Numerose sono le
testimonianze liviane intorno all’importanza della conoscenza pontificale
in materia di prodigia, vedi ad
esempio: Liv. 27.4.15: Haec prodigia
hostiis maioribus procurata decreto pontificum, et supplicatio diem unum Romae
ad omnia pulvinaria, alterum in Capenate agro ad Feroniae lucum indicta, dove si menziona un decreto
pontificale che prescriveva l’immolazione di vittime maggiori a seguito
di prodigi; 39.22.4: Addita et unum diem
supplicatio est ex decreto pontificum, quod aedis Opis in Capitolio de caelo
tacta erat, in cui si ricorda che tra i rimedi decisi per far fronte alla
manifestazione di gravi prodigi, i pontefici decretarono una supplicazione in
seguito alla caduta di un fulmine nel tempio di Ops; 40.37.1-2, secondo cui in
seguito alla morte di diversi magistrati e di illustri cittadini, considerata
come un prodigio, si incaricò il pontefice massimo di trovare i mezzi
espiatori per placare l’ira divina. Alle volte i prodigi erano la diretta
conseguenza della irregolarità dei riti: Liv. 2.42.10: Accessere ad aegras iam omnium mentes
prodigia caelestia, prope cotidianas in urbe agrisque ostentantia minas;
motique ita numinis causam nullam aliam vates canebant, publice privatimque
nunc extis, nunc per aves consulti, quam haud rite sacra fieri; qui terrores
tamen eo evasere ut Oppia virgo Vestalis damnata incesti poenas dederit.
[209] Per la procuratio prodigiorum vedi: A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique sur les
institutions religieuses de Rome, cit., 181 ss.; Id., Histoire de la
divination dans l’antiquité, IV. Divination italique
(étrusque – latine – romaine), cit., 74 ss.; J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 312 ss.; Id., Le culte chez les romains, II, cit., 139 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 391, 395
s., 538 ss.; R. Bloch, Les
prodiges romains et la «procuratio prodigiorum», cit., 119 ss.
[210] Per la nozione romana
di pax deorum sono fondamentali le riflessione di Francesco Sini (con
riferimento alle fonti e alle letteratura precedente): Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico”, cit., 256 ss.; Populus et religio dans
In
generale per il concetto di pace nell’antichità: E. Ciccotti, La guerra e la pace nel
mondo antico, Torino 1901 [Studia Historica 76, ed. anast., Roma 1971]; I. Lana, La pace nel mondo antico, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 13, 1967, 1 ss. (ora in Id., Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973, 41 ss.); Id., L’idea della pace nell’antichità, S. Domenico di
Fiesole 1991; C. Milani, Note
sulla terminologia della pace nel mondo antico, in Aa.Vv., La pace nel
mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1985, 17 ss.
[211] Per gli aruspici,
vedi, ma senza pretesa di completezza: A.
Bouché-Leclercq, Histoire
de la divination dans l’antiquité, IV. Divination italique
(étrusque – latine – romaine),
cit., 15 ss., 100 ss.; J. Marquardt, Le culte chez les Romains, II, cit., 135 ss.; Th. Mommsen, Le droit public romain, I, cit., 421 s.; C.O. Thulin, Die
etruskische Disciplin, XII, Die Haruspicin, cit.; Die Ritualbücher und Zur Geschichte und
Organisation der Haruspices, XV, Göteborg 1909 (lavori ora in Id., Die etruskische Disciplin, I-III, cit.); Id., v. Haruspices,
cit., coll. 2431
ss.; G. Wissowa, Religion und
Kultus der Römer, cit.,
543 ss.; N. Turchi, La
religione di Roma antica, cit., 161 ss.; G. De Sanctis, Storia dei
Romani, IV. La fondazione
dell’impero, II. Vita e
pensiero nell’età delle grandi conquiste. I, cit., 361 ss.; J.
Heurgon, Tarquitius Priscus et l’organisation de l’ordre
des haruspices sous l’empereur Claude, in Latomus 12, 1953,
402 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 157 ss.; 396 s.; A. Haury, Une querelle de clocher: Augures contre
Haruspices, in Mélanges d’archéologie et
d’histoire offerts à A. Piganiol, édit. par R.
Chevallier, 3, Paris 1966, 1623 ss.; J. Guillén, Los sacerdotes romanos, in Helmantica.
Revista de humanidades clasicas 24, 1973, 18 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 595 ss.; B. MacBain, Prodigy and expiation: a study in religion
and politics in Republican Rome, cit., 43 ss. Sugli
aruspici nell’età basso imperiale rimando a S. Montero, Política y adivinación en el Bajo Imperio Romano:
emperadores y harúspices (193 D.C. – 408 D.C.), Bruxelles
1991. Vedi
inoltre, per le attività di questi sacerdoti, e per l’ordo LX
haruspicum, P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. “Mundus”, “Templum”,
“urbs”, “ager”, “Latium”,
“Italia”, cit., 456 ss.
Per la pratica del ricorso agli esperti
etruschi vedi: Gell., noct. Att. 4.5,
dove si narra il caso, che rappresenta un episodio esemplare de perfidia aruspicorum Etruscorum, in cui vennero chiamati aruspici
dall’Etruria, in quanto la statua di Orazio Coclite posta nel Comitium era stata colpita da un
fulmine; Cic., de leg. 2.21: Prodigia portenta ad Etruscos [et]
haruspices, si senatus iussit, deferunto, Etruriaque principes disciplinam
doceto. Quibus divis creverint, procuranto, idemque fulgura atque obstita
pianto, da dove emerge la grande conoscenza in materia di questi sacerdoti.
[212] Per l’Etrusca disciplina vedi, ad esempio: K.O. Müller, Die Etrusker, II, Neubearb. von W. Deecke, Stuttgart 1877, 114 ss.; A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans
l’antiquité, IV. Divination italique (étrusque
– latine – romaine), cit., 3 ss.; C.O. Thulin, Die
Blitzlehre, in Göteborgs Högskolas Ärsskrift,
XI, 1905; Die Haruspicin, XII, cit.; Die Ritualbücher und Zur Geschichte und Organisation der
Haruspices, XV, 1909 (i tre lavori ora in Id.,
Die etruskische Disciplin,
Teil I-III, cit.); A.J. Pfiffig, Religio etrusca, Graz 1975, 36 ss.; P. Catalano, Aspetti
spaziali del sistema giuridico-religioso romano. “Mundus”,
“Templum”, “urbs”, “ager”,
“Latium”, “Italia”, cit., 455 ss. Vedi anche
l’appendice dedicata a La religion des Étrusques di G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 611 ss. Sull’importanza di tale disciplina, integrata nella
religione romana, che persiste anche con l’avvento del cristianesimo
rimando a D. Briquel, Chrétiens et la religion
étrusque, dernier rempart du paganisme romain, Paris 1997.
[213] Per la competenza in
materia di prodigi del senato vedi Liv. 37.3.1, dove si racconta che il senato priusquam consulem in provincias
proficiscerentur, prodigia per pontifices procurari placuit. Secondo Th. Mommsen, Le droit public romain, I, cit.,
[214] Riporta lo stesso
episodio Val. Max. 1.5.8: In qua cum Marcellus quintum consulatum gerens templum Honori et Virtuti,
Clastidio prius, deinde Syracusis potitus, nuncupatis debitum votis consecrare
vellet, a collegio pontificum impeditus est negante unam cellam duobus diis
recte dicari: futurum enim, si quid prodigii in ea accidisset, ne dinosceretur
utri rem divinam fieri oporteret; nec duobus nisi certis diis una sacrificari
solere.
[215] Nel passo si deve
evidenziare l’uso del verbo negare, presente anche in Val. Max. 1.5.8. Tale utilizzo
è attestato per i pontefici anche da altre fonti, vedi ad esempio: Liv.
31.9.7: Moram voto publico Licinius
pontifex maximus attulit, qui negavit ex incerta pecunia voveri debere;
39.5.9: Cum pontifices negassent ad
religionem pertinere quanta impensa in ludos fieret; Colum., res rust. 2.21: Quamquam pontificem negant segetem feriis saepiri debere; Plin., nat. hist. 8.206: Suis fetus
sacrificio die quinto plures est, pecoris die VII, bovis XXX. Coruncanius
ruminalis hostias donec bidentes fierent, puras negavit; Macr., sat. 1.16.25: Sed et Fabius Maximus Servilianus pontifex in libro duodecimo negat
oportere atro die parentare. Sarebbe questa un’altra caratteristica
peculiare dell’interpretatio sacerdotale,
un linguaggio precettivo che presenta una «straordinaria rilevanza della
negazione»: F. Sini, Negazione e linguaggio precettivo dei
sacerdoti romani, in Archivio Storico
e Giuridico Sardo di Sassari 4, 1997, 26 (ora in Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 229). Per
l’A. gli impedimenti e i divieti vengono espressi in una forma linguistica
negativa, e risultano chiaramente finalizzati, nella prospettiva della teologia
e del diritto, alla salvaguardia della pax
deorum.
In
funzione di queste caratteristiche del linguaggio dei sacerdoti, la vasta e
articolata regolamentazione in materia di devotio
(per la formula tramandata in Liv. 8.9.5-8 vedi supra nt. 142), che si ritrova nell’opera liviana, parrebbe frutto di
interpretazione sacerdotale, dalla grande dovizia di particolari, dalla
presenza di frasi in negativo (escendere
fas non esse; potiri fas non est)
e anche dalla indicazione di un piaculum, ed
è molto probabile che si tratti di una pontificalis interpretatio: Liv. 8.10.11-14: 11. Illud adiciendum videtur, licere consuli dictatorique
et praetori, cum legiones hostium devoveat, non utique se, sed quem velit ex
legione Romana scripta civem devovere. 12. Si is homo, qui devotus
est, moritur, probe factum videri; ni moritur, tum signum septem pedes altum
aut maius in terram defodi et piaculum hostiam caedi; ubi illud signum defossum
erit, eo magistratum Romanum escendere fas non esse. 13. Sin autem sese devovere volet, sicuti
Decius devovit, ni moritur, neque suum neque publicum divinum pure faciet, sive
hostia sive quo alio volet. Qui sese devoverit, Vulcano arma sive cui alii divo
vovere volet, ius est; 14. telo,
super quod stans consul precatus est, hostem potiri fas non est; si potiatur,
Marti suovetaurilibus piaculum fieri.
Si tratta della regolamentazione di quello che lo stesso Livio nel capitolo
successivo chiama divini humanique mos,
materia da rapportare agli interessi pontificali: Liv. 8.11.1: Haec, etsi omnis divini humanique moris
memoria abolevit nova peregrinaque omnia priscis ac patriis pracferendo, haud
ab re duxi verbis quoque ipsis, ut tradita nuncupataque sunt, referre, e
che rimanda alla connotazione data da Festo (v. Ordo sacerdotum,
[216] Va sottolineato che i
pareri del collegio non erano sempre privi di motivazione, nonostante numerose
fonti (in part. Cic., pro Mur. 25-26;
Liv. 9.46.5. Cfr. anche Liv. 4.3.9) attribuissero al sacerdozio la tendenza a
conservare segretamente la propria scienza. Oltre al caso ricordato da Livio,
un altro esempio di interpretazione munita di spiegazione logica si rinviene in
un passo di Macrobio, in cui si chiariva il motivo di un divieto in materia di
giorni atri (sat. 1.16.25: Sed et Fabius Maximus Servilianus pontifex
in libro duodecimo negat oportere atro die parentare, quia tunc quoque Ianum
Iovemque praefari necesse est, quos nominari atro die non oportet), con un ragionamento quasi sillogistico,
che legava fortemente le materie dei riti funebri, dell’idoneità
dei giorni e delle divinità. Sul punto bisogna seguire
l’affermazione di P.F. Girard,
Manuale elementare di diritto romano,
cit., 56, il quale pur definendo la giurisprudenza pontificale come esoterica,
ritiene esagerate le affermazioni delle fonti posteriori per cui tutto il diritto
veniva tenuto celato dai pontefici. Vedi anche F. Schulz, Storia della
giurisprudenza romana, cit., 27 e 44, per il quale i pontefices,
anche in un periodo precedente a Tiberio Coruncanio, diedero responsa pubblicamente. L’A.
è infatti del parere di rigettare la tradizione secondo cui proprio il
pontefice-giurista fu il primo a dare pareri in pubblico. Vedi in proposito
anche R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino
e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica,
in Bullettino dell’Istituto di
Diritto Romano 46, 1939, 255 (ora in Id.,
Scritti, II. Sezione prima Saggistica [Antiqua 78], con una nota di lettura di A.
Mantello, Napoli 1998, 622), per il quale più che le norme si doveva
tenere segreto il procedimento religioso «per il quale continuava a
doversi riconoscere in concreto la liceità o illiceità dei
singoli atti da compiere».
[217] Liv. 1.20.7.
[218] Nel caso si fosse
manifestato il prodigio del terremoto Varrone, ricordato da Gell., noct. Att. 2.28.3 (vedi infra nt. 257),
tramanda che veniva emanato un decreto pontificale che prescriveva un
sacrificio espiatorio. Nelle res gestae di
Ammiano Marcellino (17.7.10) si
conserva il ricordo delle prescrizioni pontificali in materia di terremoti, e
inoltre si offre la spiegazione della cautela adoperata nel rivolgersi alle
divinità, durante il compimento dei riti espiatori: Unde ut in ritualibus et pontificiis --- obtemperatur, observantibus
sacerdotiis caute ne alio deo pro alio nominato, cum, qui eorum terram
concutiat, sit in abstruso, piacula committantur. La stessa spiegazione si
rinviene nella ratio pontificale in
materia di procuratio nell’episodio
narrato da Liv. 27.25.7-9 (vedi supra in questo par.) e da Val. Max. 1.5.8
(vedi supra nt. 214). Cfr. anche Liv. 40.19.2, riferito al
[219] Iuppiter infatti
lanciava la maggior parte delle folgori: Plin., nat. hist. 2.138, ricorda come per i Romani, a differenza degli
Etruschi, i fulmini erano lanciati solo da Giove e da Summano, il dio della
folgore notturna. Vedi anche: Fest., v. Provorsum
fulgur,
[220] In alcuni versi di
Ovidio (fast. 3.310 ss.) Numa ottiene
un incontro con Giove Elicio, grazie all’aiuto di due divinità
silvestri. Ovidio omette il modo con il quale gli dèi fecero discendere
Iuppiter, in quanto scire nefas homini (v.
325). Dell’episodio sarà offerta una più ampia trattazione
più avanti (vedi supra par. 11).
La cautela
di Numa, tenuta nella pratica dell’attrazione dei fulmini sulla terra, si
contrappone alla scarsa oculatezza del suo successore, il quale, per aver
trascurato i riti, attirò su di sé e sulla sua famiglia le ire di
Giove Elicio: Liv. 1.31.8: Ipsum regem
tradunt volventem commentarios Numae, cum ibi quaedam occulta sollemnia
sacrificia Iovi Elicio facta invenisset, operatum iis sacris se abdidisse; sed
non rite initum aut curatum id sacrum esse, nec solum nullam ei oblatam
caelestium speciem, sed ira Iovis sollicitati prava religione fulmine ictum cum
domo conflagrasse; Plin., nat. hist.
28.4: Piso primo Annalium auctor est Tullum Hostilium regem ex Numae libris
eodem, quo illum, sacrificio Iovem caelo devocare conatum, quoniam parum rite
quaedem fecisset, fulmine ictum; multi vero magnarum rerum fata et ostenta
verbis permutari; Eutrop., Breviarium
ab urbe condita 1.4.2: Cum triginta
et duos annos regnasset, fulmine ictus cum domo sua arsit; Serv., in Verg. Buc. 6.42: sicut in Livio lectum est de Tullo Hostilio, qui eo igni exustus est
cum omnibus suis; Numa vero Pompilius impune eo usus est tantum in sacris
deorum. Per la folgorazione, G. Capdeville, Volcanus. Recherches comparatistes sur les origines du culte de Vulcain,
Rome 1995, 91 ss.
J.-M. Pailler, Bacchanalia. La
répression de 186 av. J.-C. à Rome et in Italie, Rome 1988, 654, facendo riferimento a Liv. 1.20.7, afferma che:
«Dans cette première mention du dieu et de ses relations avec le
roi de Rome, la formule ad ea elicienda revêt
un évident caractère étiologique. Or, on ne peut se
contenter d’interpréter la malheureuse tentative de Tullus
Hostilius pour évoquer le même Jupiter Elicien comme une
application manquée de prescriptions de Numa, entachée
d’une sorte de faute technique. Car d’après Tite-Live, pour
savoir quels prodiges retenir, Numa prévoyait une “consultation
par augures” du dieu. “Prodiges” et “augures”
sont par excellence évocateurs de la plus rigoureuse tradition
romaine».
[221] Secondo Plin., nat. hist. 2.140, exstat Annalium memoria dell’esistenza di alcuni sacra e precationes con cui si poteva comandare o ottenere il fulmine.
Vedi al riguardo Serv., in Verg. Aen. 12.200:
apud maiores arae non incendebantur, sed
ignem divinum precibus eliciebant, qui incendebat altaria, per cui il fuoco
divino veniva attirato attraverso la recita di alcune preghiere; Sen. phil., nat. quaest. 2.49.3: hospitalia, quae sacrificiis ad nos Iovem
arcessunt, et, ut verbo eorum molliore utar, invitant - sed non irasceretur
invitatus; nunc venire eum magno invitantium periculo adfirmant -. Tra i nomina
fulgurum proposti da Cecina, Seneca ricorda gli hospitalia,
attraverso cui si invitava Iuppiter a partecipare ai sacrifici (per
questa opera di Seneca rimando a C.
Codoñer, La physique de Sénèque: Ordonnance et
structure des ‘Naturales quaestiones’, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.36.3, Berlin-New
York 1989, 1779 ss.).
[222] Varr., de ling.
Lat. 6.94: Elicii Io[bis] vis[a] ara in Aventino ab eliciendo. Vedi
anche Ovid., fast. 3.327-328: Eliciunt
caelo te, Iuppiter; unde minores / nunc quoque te celebrant Eliciumque vocant.
[223] Plinio (nat. hist. 2.140) ricorda
l’ingresso successivo del culto di Giove Elicio: Lucosque et aras et sacra habemus interque Statores ac Tonantes et
Feretrios Elicium quoque accepimus Iovem. Su questa divinità vedi a
titolo di esempio: Aust, v. Elicius, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft,
5.2, Stuttgart 1905, coll. 2366 s.; G. Radke, Die Götter altitaliens [Fontes et commentationes.
Schriftenreihe des Instituts für Epigraphik an der Universität
Münster 3], Münster Westfalen 1965, 112 (ivi bibliografia e fonti); Id., Iuppiter Optimus Maximus: dieu
libre de toute servitude, in Revue Historique de Droit français
et étranger 64, 1986, 1; D.
Porte, Jupiter Elicius ou la
confusion des magies, in Hommages
à H. Le Bonniec. Res sacrae, cit., 352 ss., in cui si critica la
diffusa visione di accostare ad Elicius la pioggia, in quanto collegato al
culto dell’elicere aquam: «Il conviendrait, en
conséquence, de restituer ses foudres à Jupiter Elicius, avant d’essayer
d’éclaircir l’action efficace de ce dieu».
[224] Per i vari
significati del termine vedi: Æ. Forcellini,
Totius latinitatis Lexicon, II, cit.,
v. elicĭo, 162; I. Rubenbauer,
v. ēlicio, in Thesaurus Linguae Latinae V,2, fasc. 3 elaboro-emetior, Lipsiae 1933, coll. 365
ss.
[225] In tal senso, ad
esempio, vedi: F. Sini, A quibus
iura civibus praescribebantur. Ricerche
sui giuristi del III secolo a.C., cit., 86 s.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 178; S. Tondo, Appunti sulla giurisprudenza pontificale, cit., 4, il quale
evidenzia come tale suddivisione fosse conforme «all’ideologia
religiosa sabina, in un numero significativamente – oltre che dispari
[…] – anche rispondente al privilegiatissimo sette».
Affermano la tripartizione, ad esempio: A. Bouché-Leclercq,
Les pontifes de l’ancienne
Rome. Étude
historique sur les institutions religieuses de Rome,
cit., 61; E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le lettere, cit., 155 ss. Al
contrario N. Turchi, La
religione di Roma antica, cit., 41, individua nel passo liviano cinque
materie di competenza pontificale. Interessante e degna di richiamo
l’ipotesi di A.L. Prosdocimi, Redazione
e struttura testuale delle Tavole iguvine, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I.2, Berlin-New York
1972, 665 s., secondo il quale Liv. 1.20.5-7 rappresenterebbe «un indice
riassuntivo di quanto contengono le Tavole iguvine in relazione ai sacra».
[227] Per il ponte Sublicio
rimando a J. Le Galle, Le Tibre fleuve de Rome dans
l’antiquité, Paris 1953, 80 ss.
[228] Vedi: Varr.,
ling. Lat. 5.83: Sacerdotes universi a sacris dicti.
Pontufices, ut [a] Sc<a>evola Quintus pontufex maximus dicebat, a posse
et facere, ut po[n]tifices. Ego a ponte arbitror: nam ab his Sublicius est
factus primum ut restitutus s<a>epe, cum ideo sacra et uls et cis Tiberim
non mediocri ritu fiant; Serv. Dan., in
Verg. Aen. 2.166: Ex qua etiam causa
pontifices nuncupatos volunt: quamvis quidam pontifices a ponte sublicio, qui
primus Tybri impositum est, appellatos tradunt, sicut Saliorum carmina
loquuntur. Cfr. inoltre per
un collegamento tra il nome dei pontefici ed i ponti: Dion. Hal. 2.73.1, il
quale fa derivare il termine dal restauro del ponte di legno, compito collegato
ai pontefici; Zosim. 4.36.1-2, secondo cui i Romani riprendono un’antica
designazione greca, risalente a quando ancora non esistevano i templi e le
immagini della divinità venivano erette su un ponte; Suid., v.
Ποντίφιξ, ed. A. Adler, Suidae
lexicon, IV, Π-Ψ [Lexicographi graeci 1], Lipsiae 1935,
172. Questa etimologia venne criticata da Plutarco, il quale la considerava
ridicola (Num. 9.2-7).
Per una
rassegna bibliografica sulle varie teorie proposte in dottrina intorno alla etimologia di pontifex
vedi: J.P. Hallett, “Over Troubled
Waters”: The Meaning of the Title Pontifex, in Transactions and proceedings of the American
Philological Association 101, 1970, 219 ss.; G.J. Szemler, v. Pontifex, cit., coll. 334
ss.; P. Flobert, La relation
de sacrificare et de sacerdos, in
Hommages à H. Le Bonniec. Res
Sacrae, cit., 171 ss.; R. Seguin, Remarques sur les origines des pontifes
romains: Pontifex Maximus et Rex
Sacrorum, cit., 407 ss.; R. Del Ponte, La religione dei romani. La religione e il sacro in Roma antica, cit., 107 ss. Tra
gli specifici studi linguistici vedi, ad esempio: F. Ribezzo, Pontifices ‘quinionalis sacrificii
effectores’. I, in Rivista indo-greco-italica di
Filologia-Lingua-Antichità 15, 1931, 56; Id., I pontifices nella organizzazione e nella struttura
della città italica. II, in Rivista indo-greco-italica di
Filologia-Lingua-Antichità 15, 1931, 171 ss.; Id., Numa Pompilio e
la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, cit., 568, il quale
sostiene che il primo membro della parola pontefice è di origine umbro
sabellica e deriva da un istituto italico, la pomperia, gruppo di cinque
officianti, per cui il pom(p)ti-fac(o)s, sarebbe stato colui che pone in
essere il «sacrificio quinionale»;
A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine.
Histoire des mots, cit.,
[229] Così E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le
lettere, cit., 156 nt. 3, il quale in relazione al collegamento tra
pontefice e ponte Sublicio afferma che «la notizia deve essere in qualche
modo inesatta, poiché tale tradizione non era accettata proprio dai
pontefici: altrimenti non si comprenderebbe l’etimologia ricordata da
Varro LL 5.83».
[230] Per la vita,
l’ideologia e l’opera giuridica di Q. Mucio Scevola vedi: J. Roby, Introduzione allo studio
del Digesto giustinianeo. Regole e notizie per l’uso delle Pandette nella
scienza e nella pratica. Vita e opere dei
giuristi romani, cit., 104 ss.; O. Behrends, Die Wissenschaftslehre im Zivilrecht des Q. Mucius Scaevola pontifex,
in Nachrichten der Akademie
Wissenschaften in Göttingen. I. Philologisch-historische Klasse 7, 1976, 265 ss.; A.
Schiavone, Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero
giuridico nella Roma tardo-repubblicana, Roma-Bari 1976, 71 ss.; Id., Giuristi e nobili nella Roma repubblicana. Il secolo della rivoluzione
scientifica nel pensiero giuridico antico, cit., 25 ss.; Id., Linee di storia del pensiero giuridico romano, cit., 47 ss.; B. Albanese, Volontà negoziale e forma in una testimonianza di Q. Mucio
Scevola, in De iustitia et iure. Festgabe für U. von
Lübtow zum 80. Geburtstag, hrsg. von M. Harder
und G. Thielmann, Berlin 1980, 155 ss. (ora in Id.,
Scritti giuridici, a cura di
M. Marrone, II, Palermo 1991, 1523 ss.);
A. Bauman, Lawyers in Roman
republican politics. A study of the Roman jurists in their political setting,
316-82 BC, cit., 340 ss.; M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit., 107 ss.; F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte.
Quellenkunde,
Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur,
I. Einleitung Quellenkunde Frühzeit und Republik, cit., 595 ss.; V. Giuffrè, La traccia di Quinto Mucio. Saggio su «ius civile» / «ius
honorarium», Napoli 1993; M.J. Casado Candelas, Primae luces. Una introducción al
estudio del origen de la jurisprudencia romana, Valladolid 1994, 61 ss. Sui frammenti relativi
al pontefice-giurista vedi F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt,
I. Liberae rei publicae. Iuris consulti, cit., 48 ss. Per quanto
riguarda la riflessione giurisprudenziale e l’ambiente culturale nel
periodo tra Q. Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo vedi F. d’Ippolito, Cicerone e i maestri di Servio, in La giustizia tra i popoli nell’opera e
nel pensiero di Cicerone. Atti del convegno organizzato dall’Accademia
Ciceroniana. Arpino 11-12 ottobre 1991, Roma 1993, 53 ss.
[231] Il pensiero di Quinto
Mucio viene riportato e criticato da Varr., de ling. Lat. 5.83, cit. supra nt.
[232] Vedi anche
un’altra etimologia del termine in Isid., orig. 7.12.13: Pontifex
princeps sacerdotum est, quasi via sequentium.
[233] Termini questi legati
allo svolgimento dei rituali, vedi, ad esempio: A. Bouché-Leclercq, Les
pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses
de Rome, cit., 13; P. Flobert, La relation
de sacrificare et de sacerdos,
cit., 171 ss. Individuano nel verbo anche il significato di sacrum facere:
Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, II, cit., v.
facĭo, 267 ss., in part. 268; v. facio, in Thesaurus Linguae
Latinae VI,1, F, Lipsiae
1912-1926, coll. 82 ss., in part. coll. 96 s.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 209 ss.
Per le
diverse accezioni del verbo posse vedi: Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, III, cit., v. possum, 478; G. Kuhlmann,
v. possum, in Thesaurus Linguae
Latinae X,2, fasc. 1 porta-possum,
Leipzig 1980, coll. 125 ss., e in Thesaurus
Linguae Latinae X,2, fasc. 2 possum-potestas,
Leipzig 1982, coll. 153 ss.
[234] In Val. Max. 8.13.2,
è chiara la funzione pontificale tesa alla tutela delle cerimonie: Cuius vitae spatium aequauit Metellus
quartoque anno post consularia imperia senex admodum pontifex maximus creatus
tutelam caerimoniarum per duo et XX annos neque ore in votis nuncupandis
haesitante neque in sacrificiis faciendis tremula manu gessit.
[235] Numerosi sono i
tabù, al contrario, che gravavano sul flamen Dialis e su sua moglie: Gell., noct. Att. 10.15.
[236] Sebbene non si voglia
aderire ad una eccessiva connotazione laica del collegio, i cui membri erano
muniti di sacralità, data dallo svolgere pur sempre una carica
sacerdotale, si deve riconoscere che i pontefici erano inseriti nella
realtà politico-costituzionale attivamente. La possibilità di
esercitare contemporaneamente al sacerdozio le cariche magistratuali, e quindi
di salvaguardare la civitas “doppiamente” era cosa normale.
Lo stesso Livio, quando commenta l’elezione a pontefice massimo di P.
Licinio Crasso, sottolinea l’eccezionalità dei casi in cui furono
creati come pontefici coloro che non avessero ricoperto precedentemente
magistrature curuli: Liv. 25.5.4: Hic
senes honoratosque iuvenis in eo certamine vicit. Ante hunc intra centum annos
et viginti nemo praeter P. Cornelium Calussam pontifex maximus creatus fuerat
qui sella curuli non sedisset. La carica era del resto estremamente
importante e prestigiosa, e il suo peso politico emerge chiaramente nelle
perentorie parole di Cesare rivolte alla madre il giorno delle elezioni per il
pontificato massimo nel
Ai
rapporti e alle interazioni tra magistrature e sacerdoti sono dedicate le opere
di G.J. Szemler, The Priest of the Roman Republic. A study of Interactions
Between Priesthoods and Magistracies [Collection
Latomus 127], Bruxelles 1972; J.
Bleicken, Kollisionen zwischen
sacrum und publicum. Eine Studie zum Verfall der altrömischen Religion,
in Hermes. Zeitschrift für
classische Philologie 85, 1957, 446 ss. (= Id., Gesammelte Schriften, I, cit., 431 ss.), che oltre a rilevare il cumulo di
«staatlichen und sakralen Kompetenzen», analizza il rapporto tra
magistratura e sacerdozio, e le collisioni tra pubblico e sacro nello
svolgimento della vita costituzionale romana.
Vedi
inoltre, tra coloro che hanno sostenuto l’assenza di carisma della carica
pontificale: M. Humbert, Droit et religion dans
[237] Il sacerdozio era
assunto da persone eminenti, dalla vasta cultura, i più autorevoli ed
illustri cittadini, muniti di saggezza, scrupolosità, potere, i quali
svolgevano una funzione di rilevante importanza per lo stesso prestigio di
Roma: Cic., de dom. 1: Cum multa divinitus, pontifices, a maioribus
nostris inventa atque instituta sunt, tum nihil praeclarius quam quod eosdem et
religionibus deorum immortalium et summae rei publicae praesse voluerunt, ut
amplissimi et clarissimi civem rem publicam bene gerendo religiones, religionibus
sapienter interpretandorem publicam conservarent. Quod si ullo tempore magna
causa in sacerdotum populi Romani iudicio ac potestate versata est, haec
profecto tanta est, ut omnis rei publicae dignitas, omnium civium salus, vita
libertas, arae foci, di penates, bona, fortunae, domicilia vestrae sapientiae,
fidei, potestate commissa creditaque esse videantur. Nella frase riportata
il termine potestas ricorre per ben
due volte: dapprima si accosta alla parola iudicium,
mentre la seconda volta potestas
è associata ad altre prerogative dei pontefici, quali la sapientia e
[238] La funzione di guida
promana anche dal linguaggio precettivo tipico dei sacerdoti, sul quale oltre a
F. Sini, Negazione e linguaggio precettivo dei sacerdoti romani, cit. (ora
in Id., Sua cuique civitati
religio. Religione e diritto pubblico in
Roma antica, cit.), rimando anche alla ricerca di A. Magdelain, Un aspect négligé de l’interpretatio,
in Revue Historique de Droit français et étranger 61,
1983, 1 ss. (= ora in Id., Jus imperum auctoritas. études de droit romain,
cit., 95 ss.), per cui come le leggi, i libri sacerdotali ricorrono
all’uso dell’imperativo per enunciare i precetti, mentre si
esprimono diversamente gli editti magistratuali e i senatoconsulti. Questo uso
dell’imperativo si rinviene anche nella interpretatio del diritto
sacro.
[239] In particolare una
glossa festina, per cui solo con la
stima dei pontefici il culto privato poteva considerarsi sacro, richiama
la generale competenza pontificale a pronunciarsi su ciò che fosse sacrum: Fest., v. Sacer mons,
[240] Essi dovevano
assicurare il buon governo della civitas nel rapporto con gli dèi:
Cic., de dom. 1: bene gerendo religiones, poiché
le cose considerate sante sono difese attraverso la diligentia nella religione: de
nat. deor. 3.94: Et enim mihi tecum
pro aris et focis certamen et pro deorum templis atque delubris proque urbis
muris, quos vos pontifices sanctos esse dicitis diligentiusque urbem religione
quam ipsis moenibus cingitis. Il legame del collegio con la civitas emerge anche da Cic., Philipp. XIII 8, secondo il quale, tra
ciò che legava il pontefice massimo e imperator Marco Lepido alla res
publica vi era anche la carica sacerdotale più elevata: Magnis et multis pignoribus M. Lepidum res
publica inligatum tenet: summa nobilitas est, omnes honores, amplissimum
sacerdotium, plurima urbis ornamenta, ipsius, fratris maiorumque monumenta;
probatissima uxor, optatissimi liberi, res familiaris cum ampla tum casta a
cruore civili. Nemo ab eo civis violatus, multi eius beneficio et misericordia
liberati. Per il buon governo e la cura della res publica secondo il
pensiero ciceroniano vedi G. Jossa,
L’«utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, in
Studi romani XII.2, 1964, 269 ss.
[241] Ormai è
generalmente accettata l’origine comune di fas e di ius, e del
resto Val. Max. 2.5.2, afferma che il diritto civile rimase per molti secoli
confuso con il diritto sacro: Ius civile
per multa saecula inter sacra caerimoniasque deorum immortalium abditum
solisque pontificibus notum Cn. Flavius libertino patre genitus et scriba, cum
ingenti nobilitatis indignatione factus aedilis curulis, vulgavit ac fastos
paene toto foro exposuit. Qui cum ad visendum aegrum collegam suum veniret
neque a nobilibus quorum frequentia cubiculum erat completum sedendi loco
reciperetur, sellam curulem adferri iussit et in ea honoris periter atque
contemptus sui vindex consedi. Questi iura si separarono solo
successivamente, come è attestato da alcune fonti: Serv., in Verg. Georg. 1.269: ‘Fas et iura sinunt’ id est
divina humanaque iura permittunt: nam ad religionem fas, ad homines iura
pertinent; Isid., orig. 5.2.2: Fas lex divina est, ius lex humana.
Illuminante sul punto è R.
Orestano, Dal ius al fas. Rapporto
fra diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva
all’età classica, cit., 194 ss. (= in Id., Scritti, II,
cit., 561 ss.); Id., I fatti di normazione nell’esperienza
romana arcaica, Torino 1967, 102 ss., il quale afferma per il sistema
primitivo “un’unità genetica” delle norme, la cui
origine era sempre divina. Dunque, i precetti normativi rientravano in un
concetto unitario e omogeneo di ius, e si distinguevano solo per il loro
oggetto, divino od umano. In un primo momento i termini fas e ius mostravano la
conformità religiosa di un atto, solo in seguito, rimanendo fas nel suo originario significato, ius andò ad indicare una norma
astratta. Col tempo si arrivò ad una nuova concezione che distinse il fas dal ius sulla base discriminante non dell’oggetto, ma
dell’origine delle norme, intendendo il fas come ius divinum e il
ius come ius humanum.
Affermano l’originaria unità tra le due sfere anche, ad esempio: P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 394 e nt. 7, 486
s., 501 ss.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine,
Paris 1963, 133; P. Noailles, Fas et Jus. Études de droit romain,
Paris 1948; Id., Du droit sacré au droit civit. Cours
de droit romain approfondi 1941-42, Paris
1949, 24 ss.; G. Nocera, “Iurisprudentia”. Per una storia del pensiero giuridico romano, Roma 1973, 12; F. Bona, “Ius pontificium” e “ius civile”
nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto,
cit., 209.
Tra coloro che negano un collegamento
tra diritto e religione: C. Gioffredi,
Ius, Lex, Praetor. (Forme storiche e
valori dommatici), in Studia et
Documenta Historiae et Iuris 13-14, 1947-48, 14 ss.; M. Humbert, Droit et religion dans
Sul
rapporto semantico tra fas e ius: P.
Cipriano, Fas e nefas, Roma
1978, 13 ss. Per ciò che attiene all’etimologia dei due termini e
la bibliografia precedente rimando a F. Sini,
“Fas et iura sinunt”
(Virg., ‘Georg.’ 1, 269). Contributo allo studio della nozione
romana di ‘fas’, I,
Sassari 1984, 8 ss.; vedi anche Id., Bellum
nefandum. Virgilio e il problema del
“diritto internazionale antico”, cit., 83 ss., dove l’A.
procede ad un approfondito studio sulla morfologia, etimologia e sul valore
giuridico-religioso della nozione di fas.
[242] Sebbene ormai
rigettata dalla communis opinio, in passato la teoria di una iurisdictio dei pontefici per
l’epoca regia venne sostenuta da alcuni autori, quali ad esempio R. von Jhering, L’esprit du
droit romain dans les diverses phases de son développement, 3a ed.,
trad. par O. de Meulenaere, Paris 1886-1888 [rist. anast., Bologna 1969], I,
294 ss.; III, 84; O. Karlowa, Der
römische Civilprozess zur Zeit der Legisactionen, Berlin 1872, 22 ss.; E.
Pais, Le relazioni fra i sacerdozi
e le magistrature civili nella repubblica romana, in Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, I, Roma 1915,
271 ss., in part. 286 ss.; A. Calonge, El Pontifex Maximus y el problema de la distinción entre magistraturas y
sacerdocios, cit., 5 ss., in part. 18 ss. Lo stesso F. De Martino, La
giurisdizione nel diritto romano, Padova 1937, 5 ss., 23 ss.; Id., Storia della costituzione romana, I, cit., 211 s.), pur escludendo
una giurisdizione pontificale in senso tecnico, ipotizza che fosse riservato ai
pontifices il ius dicere nell’età più
arcaica, nel senso che questa «funzione primordiale dei pontefici
costituisce solo un antecedente storico della iurisdictio» (51).
Tra chi si oppone alla iurisdictio
pontificale, vedi, ad esempio: S. Di
Marzo, Storia della procedura criminale romana. La giurisdizione
dalle origini alle XII Tavole, Palermo 1898, 54 ss., 126 ss. (ora
pubblicato nella collana Antiqua 44, con una nota di lettura di R.
Orestano, Napoli 1986); P.F. Girard, Histoire
de l’organisation judiciaire des Romains. I. Les six premiers siècles
de Rome, Paris 1901, 58 ss.; C.
Bertolini, Appunti didattici di diritto romano, Serie seconda,
Il Processo Civile, I, Torino 1913, 72 s.;
G.I. Luzzatto, Procedura civile
romana, Parte II, Le legis actiones
dalle lezioni tenute nell’Università di Padova. Anno accademico
1947-48, Bologna 1948, 155 s.; C.
Gioffredi, Diritto e processo
nelle antiche forme giuridiche romane, Romae 1955, 74 ss.
[243] Vedi la tripartizione
di Quintiliano (inst. orat. 2.4.33)
sui genera del ius: genera sunt tria sacri,
publici, privati iuris. Circa il
rapporto tra queste positiones del ius si devono ricordare sia le parole di
Cicerone (Brut. 156) ius nostrum pontificium, qua ex parte cum
iure civili coniunctum esset, vellem cognoscere, sia l’insegnamento
di Ulpiano, D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 inst.)
… Publicum ius in sacris in
sacerdotibus, in magistratibus consistit. Su questi insegnamenti F. Sini (Documenti sacerdotali di Roma antica. I. Libri e commentarii, cit., 213 s.) osserva che la matrice ideologica che
sta alla base della concezione ciceroniana e ulpianea del ius publicum
«trae le sue radici da una gerarchizzazione assai antica delle parti del ius
publicum, sostanzialmente antiplebea, risalente di certo alla elaborazione
sacerdotale di età precedente al pareggiamento dei due ordini, o ad
età immediatamente successiva: prova di ciò può trovarsi
nel fatto che con l’avvento dei plebei alle magistrature, questi
introdussero la consuetudine non solo di cumulare magistratura e sacerdozio, ma
di anteporre gli honores ai sacerdotia» (214); vedi anche Id., Sua cuique civitati religio. Religione
e diritto pubblico in Roma antica, cit., 173 ss. Secondo P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone),
in Studi in onore di G. Grosso, VI,
cit., 670], la tripartizione ulpianea sarebbe stata ispirata dal de legibus di Cicerone, dove l’oratore tratta dei sacra e dei sacerdotes (2.19-22) e poi dei magistrati (3.3-4 e 6-11). Tra
coloro che hanno aderito alla posizione del Catalano vedi: C. Nicolet, Notes complémentaires,
in Polybe, Histoires, Livre VI, Paris 1977, 149 s. nt. 15, 1; J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdotes et le droit public
à la fin de
Per il
rapporto tra ius publicum e ius privatum vedi, ma senza presunzione
di esaustività: S. Romano, La distinzione fra “ius publicum” e “ius privatum” nella giurisprudenza romana, in Scritti giuridici in onore di S. Romano, IV. Diritto privato
– Diritto ecclesiastico – Altre scienze giuridiche, Padova
1940, 157 ss.; H. Müllejans, Publicus und Privatus im römischen
Recht unter besonderer Berücksichtigung der Unterscheidung Ius publicum
und Ius privatum [Münchener theologische Studien. III. Kanonistische
Abteil. 14], München 1961; G.
Grosso, Problemi generali del
diritto attraverso il diritto romano, 2a ed., Torino 1967, 87 ss.; G. Aricò Anselmo, Ius publicum
– ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del
Seminario Giuridico della Università di Palermo 37, 1983, 445 ss.; M. Kaser, ‘Ius publicum’
und ‘ius privatum’, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 103, 1986, 1 ss.;
G. Nocera, Il binomio pubblico-privato nella storia del
diritto, Napoli 1989; Id.,
Ius publicum e ius privatum secondo l’esegesi di Max Kaser,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
68, 2001, 1 ss. Per il binomio diritto pubblico-diritto privato nella
riflessione giurisprudenziale romana e moderna vedi P. Cerami, Potere ed
ordinamento nella esperienza costituzionale romana, 2a ed., Torino 1987, 29 ss.
[244] La locuzione
“sistema giuridico-religioso” è stata propugnata da P. Catalano (Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 30 ss.; Aspetti
spaziali del sistema giuridico-religioso romano. “Mundus”,
“Templum”, “urbs”, “ager”,
“Latium”, “Italia”, cit., 445 s.; Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, Torino 1990, 57). Utilizza l’espressione nella
totalità dei suoi scritti, con un espresso richiamo alle motivazioni
offerte dal Catalano, F. Sini, di
cui vedi ad esempio: Documenti sacerdotali di Roma antica. I. Libri
e commentarii, cit., 210 e ntt. 4 e
5; Bellum nefandum. Virgilio e il
problema del “diritto internazionale antico”, cit., 36 s. nt.
52; A quibus iura civibus praescribebantur.
Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., 47 nt. 18; Sua cuique civitati religio. Religione
e diritto pubblico in Roma antica,
cit., 169 nt. 15, 275 s. nt. 3; «Fetiales, quod fidei
publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e
“diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis,
pax), cit., 483 nt. 8; Ut iustum conciperetur bellum. Guerra “giusta” e sistema
giuridico-religioso romano, cit., 31 nt. 2. Aderiscono a questa concezione
anche: G. Lobrano, Plebei
magistratus, patricii magistratus, magistratus populi Romani, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
41, 1975, 251; P.P. Onida, Studi
sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, cit., in part. 75 s., 85; Id., Il guinzaglio e la museruola: animali, umani e non, alle origini di un
obbligo, in Archivio giuridico «F. Serafini» 224, 2004, 592, 596 s.
Alcune
perplessità sono state avanzate da G. Lombardi,
Persecuzioni laicità
libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla “Dignitas
humanae”, Roma 1991, 34 s., il quale propone un superamento
dell’espressione: «Forse sarebbe auspicabile, in prima
approssimazione, il tentativo di prescindere dai due termini
‘diritto’ e ‘religione’, così da potere
ricercare unitariamente le motivazioni in base alle quali si svolgeva la vita
sociale romana, in particolare sotto il profilo della sua organizzazione
ufficiale» (35).
Nonostante
la sua piena adesione al concetto di ordinamento giuridico, lo stesso R.
Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra
diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva
all’età classica, cit., 266 (= Id., Scritti, II,
cit., 633), ha utilizzato l’espressione “sistema
giuridico-religioso” riferendola al ius.
[245] Che le cariche
sacerdotali facessero parte della vita costituzionale romana, emerge proprio da
D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 inst.): Publicum ius in sacris in sacerdotibus, in
magistratibus consistit. Analizza ampiamente il brano ulpianeo affrontando
problemi di interpretazione e di genuinità G. Aricò Anselmo, Ius publicum – ius
privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, cit., 452 ss.
[246] Vedi: Cic., de prov. consular. 21: An vero M. ille Lepidus qui bis consul et
pontifex maximus fuit, non solum memoriae testimonio, sed etiam annalium
litteris et summi poetae voce laudatus est, quod cum M. Fulvio collega quo die
censor est factus, homine inimicissimo, in campo statim rediit in gratiam, ut
commune officium censurae communi animo ac voluntate defenderent?; Liv.
27.5.19: et ex eodem plebis scito ab Q.
Fulvio dictatore P. Licinius Crassus pontifex maximus magister equitum dictus;
27.22.3: Ceterae provinciae ita divisae:
praetoribus P. Licinio Varo urbana, P. Licinio Crasso pontifici maximo
peregrina; 40.51.1: Princeps lectus
est ipse censor M. Aemilius Lepidus pontifex maximus; CIL IV.1, nr. 1310: C. Iulius L. f. Caesar Strabo aed. cur. q.
tr. mil. bis X vir. agr. dand. adtr. iud. pontif. Alle volte il titolo di
pontefice lo si trova accostato all’importante riconoscimento di princeps civitatis: de nat. deor. 2.168: Tu autem Cotta si me audias eandem causam
agas teque et principem civem et pontificem esse cogites.
[247] Vedi ad esempio: CIL
IV.1, nr. 1301: Cn. Domitius M. f.
Calvinus pontifex cos. ite imper. de manibeis; nr. 1312: M. Livius M. f. Cn. Drusus pontifex, tr.
mil., X vir stlit. iudic., tr. pl., X vir a. d. a. lege sua et eodem anno V vir
a. d. a. lege Safeia in magistratu occisus est.
[248] Vedi ad esempio,
queste menzioni inserite in disegni di senatoconsulti: Cic., Philipp. V 41; 46; 53.
[249] Suggestiva, seppur
tarda, è l’esortazione rivolta ai pontefici ad occuparsi della
vita della civitas, tratta dagli Scriptores
Historiae Augustae, Vopis., Aurelian.
19.6: Agite igitur, pontifices, qua puri,
qua mundi, qua sancti, qua vestitu animisque sacris commodi, templum ascendite,
subsellia laureata const<r>uite, velatis manibus libros evolvite, fata
rei p. quae sunt aeterna perquirite.
Per
un rapporto tra pontefici e libertas rimando
a Cic, de dom. 1; de nat. deor. 3.94. In particolare vedi Philipp. XIII
[250] Un esempio di
controllo minuzioso operato dal pontefice massimo si trova nella scelta delle
vestali, ed in particolare questo traspare dalle solenni parole pronunciate
quando una nuova sacerdotessa veniva capta:
Gell., noct. Att. 1.12.14: ‘Sacerdotem Vestalem, quae sacra
faciat, quae ius siet sacerdotem Vestalem facere pro populo Romano Quiritibus,
uti quae optima lege fuit, ita te, Amata, capio’.
Questa formula ha aperto diverse
discussioni tra gli studiosi, in particolare fortemente dibattuto è il
significato da attribuire alla parola amata: per A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome.
Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, cit.,
294, il termine Amata veniva utilizzato in quanto si supponeva che la
prima vestale capta si chiamasse in tal modo. A. von Blumenthal, Zur römischen Religion der
archaischen Zeit, in Rheinischen Museum für Philologie 87,
1938, 267 s., ricollega il termine amata all’idioma sabino,
attribuendogli il significato di virgo. G. Dumézil, «te, amata, capio»,
in Revue des études latines 41,
1963, 90 s. (ora in Id., Mariages indo-européens, suive de
quinze Questions Romaines, cit., 241 ss.), presenta un’analisi
etimologica di amata, ricollegando
questo termine ad una rappresentazione indoiraniana che è prevedica; per
questo motivo: «Il n’y a […] lieu ni de torturer
l’étymologie d’amata,
ni d’écrire le mot avec une majuscule, ni d’en
déduire aucune forme de tendresse, même stylisée, coniugale
ou paternelle, entre
[251] Per l’esattezza
minuziosa delle cerimonie sacre è esemplare la formula riportata in
Cat., de agr. 141.4: Si minus in omnis litabit, sic verba
concipito: ‘Mars pater, si quid tibi in illisce suovitaurilibus
lactentibus neque satisfactum est, te hisce suovitaurilibus piaculo’. Si
uno duobusve dubitabit, sic verba concipito: ‘Mars pater, quod tibi illoc
porco neque satisfactum est, te hoc porco piaculo’, in cui si
prevedeva un sacrificio aggiuntivo, come piacolo in caso di errata pronuncia
della frase rituale. Per certuni esempi di piacula
prescritti in alcune leges sacrae rimando
alle Inscriptiones Latinae liberae rei
publicae, II, cit., 4 s. nr. 505, 5 nr. 506, 5 nr. 507. Per l’elenco
dei casi più rilevanti di espiabilità e di inespiabilità
vedi P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
19, 1953, 56 ss. (= Id., Studi di diritto romano, I, Padova 1985,
232 ss.). Questo sacrificio supplettivo richiama il sacrificio della porca
praecidanea, a cui fanno riferimento ad esempio: Cat., de agr. 134 (vedi supra
nt. 39), Gell., noct. Att. 4.6.7-8: (vedi supra, nt. 180), immolata in funzione
preventiva per espiare errori di procedura rituale ancora non commessi. Per
questa estrema cautela vedi sul punto quanto affermava C. Bailey, La religione
romana e l’avvento della filosofia, in Roma e il Mediterraneo. 218-
[252] Cfr. Serv., in Verg. Georg. 3.456:
‘Et meliora deos sedet omnia p.’ maiores enim expugnantes
religionem, totum in experientia collocabant: Sallustius non votis neque
suppliciis muliebribus deorum auxilia comparantur: vigilando, laborando
prospere omnia cedunt. Ubi socordiae tete atque ignaviae tradideris, nequiquam
deos implores: irati infestique sunt.
[253] Verbo che si ritrova
nelle formule sia di un antico rito durante il quale le vestali rivolgevano al rex sacrorum una esortazione sacrale
(Serv., in Verg. Aen. 10.228: ‘Vigilasne deum gens Aenea
vigila’ verba sunt sacrorum; nam virgines Vestae certa die ibant ad regem
sacrorum et dicebant ‘vigilasne rex? vigila’); sia di un rituale rivolto a Marte
dal magistrato designato alla guerra (Serv., in Verg. Aen. 8.3: ‘Utque
impulit arma’ hoc ad pedites. Est autem sacrorum: nam is qui belli
susceperat curam, sacrarium Martis ingressus primo ancilia commovebat, post
hastam simulacri ipsius, dicens ‘Mars vigila’). Cfr. anche Verg., Aen. 10.228-229: tum sic ignarum adloquitur: “Vigilasne, deum gens, / Aenea?
Vigila et velis immitte rudentis”. Per questi passi rimando a F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico”, cit., 214 ss. Vedi anche la spiegazione di J. Guillén, Los sacerdotes romanos, cit., 38 s., per
il quale il motivo del richiamo delle vestali verso il rex sacrorum, in
particolare durante il periodo bellico, risiedeva nel fatto che il sacerdote
«estaba sometido a severas precauciones. Si
él dormía, la magia por simpatía podía infundir un
sueño fatal a la tropa que había salido al campo de batalla. El
rey debía vigilar, y era normal que las sirvientas habituales, las
Vestales, trataran de mantenerlo en vela. No podía desempeñar
magistraturas públicas, por lo cual era un sacerdocio muy poco
apetecido. Esta prohibición debió de ser motivada por la misma
causa por la que lo subordinaron al pontefice: no fuera cosa que,
añadido ese honor al lo único que entonces preocupaba».
[254] Tra le varie
accezioni del verbo agere si rinviene un senso tecnico proprio del
linguaggio religioso: Æ. Forcellini,
Totius latinitatis Lexicon, consilio
et cura J. Facciolati, I, Patavii 1771, v. ago, 104 s., secondo il quale: «Agere enim dicebantur, qui hostia
mactabant: ex quo & Agonalia denominata
sunt»; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 15 ss., per cui la parola significa «accomplir les rites du
sacrifice, sacrifier» (16).
[255] Per questo verbo
rimando alle voci presenti in Æ. Forcellini,
Totius latinitatis Lexicon, I, cit.,
589, e in Thesaurus Linguae Latinae
IV, fasc. 3 consolor-continor,
Lipsiae 1907, coll. 576 ss. Per l’analisi etimologica vedi A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 139.
[256] Diverse sono le testimonianze relative alla forza insita
nella parola: Plinio (nat. hist. 28.14)
affermava che multi vero magnarum rerum
fata et ostenta verbis permutari;
significativa XII tab. 8.1 (Fontes
iuris Romani antejustiniani, I, cit., 52), che sanzionava il malum carmen incantare (su cui rinvio,
ad esempio, a: A. Ronconi, «Malum
carmen» e «malus poeta», in Synteleia V. Arangio-Ruiz [Biblioteca
di Labeo 2], a cura di A. Guarino e L. Labruna, 2, Napoli 1964, 958 ss.; A.D.
Manfredini, La diffamazione
verbale nel diritto romano. I. Età repubblicana, Milano 1979, 1
ss.; A.-M. Tupet, Rites magiques dans l’Antiquité
romaine, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt II.16.3, Berlin-New York 1986, 2592 ss. Per
l’analisi della parola carmen inserita nel testo decemvirale vedi J. Guillén, El latin de las
XII tablas, in Helmantica.
Revista de humanidades clasicas 19, 1968, 57 ss., e 83 per il termine incantare),
ricordata da diverse fonti: Cic., de re
publ. 4.12; Plin., nat. hist. 28.17;
Aug., de civ. Dei 2.9. Interessante
inoltre un’altra notizia pliniana (nat.
hist. 11.174: Metellum pontificem
adeo inexplanatae fuisse accipimus, ut multis mensibus tortus credatur, dum
meditatur in dedicanda aede Opi Opiferae dicere), che racconta di come il
pontefice Metello si torturò diversi mesi per superare dei problemi di
imbarazzo della propria lingua, in vista della dedica del tempio di Ops
Opifera. Una tortura facilmente spiegabile, poiché il discorso doveva
essere pronunciato senza alcuna esitazione, per evitare vizi nella
celebrazione.
[257] Questo emerge
soprattutto dalla clausola inserita nelle invocazioni della divinità,
che mirava ad evitare un eventuale errore liturgico intorno al nome del dio: Gell., noct. Att. 2.28.2-3:
Propterea veteres Romani cum in omnibus
aliis vitae officiis tum in consuetudinis religionibus atque in dis
immortalibus animadvertendis castissimi cautissimique, ubi terram movisse
senserant nuntiatumve erat, ferias eius rei causa edicto imperabant, sed dei
nomen, ita uti solet, cui servari ferias oporteret, statuere et edicere
quiescebant, ne alium pro alio nominando falsa religione populum alligarent.
Eas ferias si quis polluisset piaculoque ob hanc rem opus esset ‘si deo,
si dea’ immolabant, idque ita ex decreto pontificium observatum esse M.
Varro dicit, quoniam et qua vi et per quem deorum dearumve terra tremeret
incertum esset; Macr., sat. 3.9.10: Dis pater Veiovis Manes, sive vos quo alio nomine fas est nominare.
Come emerge dal passo gelliano qualora non si fosse sicuri del sesso divino si
invocava “un dio o una dea”. Questa formula è ricorrente:
essa, sive mas sive femina, era incisa su di uno scudo
consacrato posto nel Campidoglio (Serv. Dan., in Verg. Aen. 2.351); si rinviene poi nell’evocatio, riportata in Macr., sat. 3.9.7: Si deus, si dea est; e in alcune iscrizioni: Inscriptiones Latinae liberae rei publicae, I, curavit A. Degrassi,
Firenze 1957, 166 nr. 291: Sei deo sei
deivae sac(rum). C. Sextius C.f.
Calvinus pr(aetor) de senati
sententia restituit; 166 nr. 292: Sei
deus sei dea; 167 nr. 293: Sei deo
sei deae. La cautela nel
rapportarsi con le divinità si manifestava anche nella necessità
di rivolgersi ad generalitatem qualora
non si sapesse con precisione chi si dovesse invocare: Serv., in Verg. Georg. 1.21: ‘Dique deaeque omnes’ post
specialem invocationem transit ad generalitatem, ne quod numen praetereat, [Serv. Dan., in Verg. Georg. 1.21] more pontificum, (per) quos ritu veteri in
omnibus sacris post speciales deos, quos ad ipsum; sacrum, quod fiebat, necesse
erat invocari, generaliter omnia numina invocabantur.
[258] Per l’evocatio rimando a: V. Basanoff, Evocatio. Étude
d’un rituel militaire romain, Paris 1947; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 425 ss.; Id., L’oubli de l’homme et l’honneur des dieux, in Id., L’oubli
de l’homme et l’honneur des dieux et autres essais. Vingt-cinq
esquisses de mythologie (51-75), Paris
1985, 135 ss.; J. Le Gall, «Evocatio»,
in Mélanges offerts à J. Heurgon. L’Italie
préromaine et
[259] Vedi
l’insegnamento di Verrio Flacco riportato da Plin., nat. hist. 28.18: Verrius
Flaccus auctores ponit, quibus credat in obpugnationibus ante omnia solitum a
Romanis sacerdotibus evocari deum, cuius in tutela id oppidum esset,
promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in
pontificum disciplina id sacrum, constatque ideo occultatum, in cuius dei
tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent. Vedi ancora: Macr., sat.
3.9.2-5; Serv. Dan., in Verg. Aen. 2.351.
[260] Dal racconto di Livio
(Liv. 6.1.10) per il
[261] Vedi, ad esempio,
Liv. 26.34.12: Signa, statuas aeneas quae
capta de hostibus dicerentur, quae eorum sacra ac profana essent ad pontificum
collegium reiecerunt; Fest., v. Sacer
mons,
[262] Sui decreti
pontificali intorno a ciò che è sacro e ciò che è profano:
Macr., sat. 3.3.1 (vedi supra nt. 141). Secondo G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., 169, il passo di Macrobio
«bedeutet das nicht, daß die pontifices sich um die
Definition dieser Begriffe bemühten, sonders daß sie die
Berechtigung ihrer Anwendung in einzelnen Fällen, die sie zu entscheiden
hatten, erörterten».
[263] Cic., de har. resp. 21,
offre l’esempio di un responso del pontefice massimo intorno
all’esatto svolgimento delle cerimonie per i giochi in onore di Giove
Ottimo Massimo: Audio quibus dis violatis
expiatio debeatur, sed hominum quae ob delicta quaero: «Ludos minus
diligenter factos pollutosque». Quos ludos? Te appello, Lentule, - tui
sacerdoti sunt tensae, curricula, praecentio, ludi, libationes epulaeque
ludorum – vosque, pontifices, ad quos epulones Iovis Optimi Maximi si
quid est praetermissum aut commissum adferunt, quorum de sententia illa eadem
renovata atque instaurata celebrantur: qui sunt ludi minus diligenter facti,
quando aut quo scelere polluti? Respondebis et pro te et pro collegis tuis,
etiam pro pontificum collegio, nihil cuiusquam aut neglegentia contemptum aut
scelere esse pollutum, omnia sollemnia ac iusta ludorum, omnibus rebus
observatis, summa cum caerimonia esse servata.
[264] Vedi alcuni esempi di
decreti pontificali: Cic., epist. ad Att.
1.13.3; 4.2.3; Liv. 8.15.8; 27.4.15; 27.37.4; 32.1.9; 33.44.1; 34.45.7;
39.22.4; 40.45.2; Gell., noct. Att. 2.28.3;
4.6.10; 5.17.2. Tra i monumenti epigrafici vedi ad esempio ILS II.1, nr. 4939. Per i decreti
pontificali vedi da ultimi: G. Mancuso, Studi
sul decretum nell’esperienza giuridica romana, in Annali del
Seminario Giuridico della Università di Palermo 40, 1988, 78 ss.; S. Randazzo, «Collegium pontificum decrevit». Note in margine a CIL. X.
Probabilmente si tratterebbe di un
decreto il provvedimento emanato dal collegio, intorno al I sec. a.C., di cui
parla Gellio (noct. Att. 10.15.17)
quando elenca le prescrizioni a cui si doveva attenere il flamine di Giove: Sine apice sub divo esse licitum non est;
sub tecto uti liceret, non pridem a pontificibus constitutum Masurius Sabinus
scripsit. L’equiparazione del tetto al cappello rituale sembra frutto
di un’interpretazione estensiva, tesa a mitigare il complesso di divieti
a cui il flamen Dialis doveva ottemperare. La misura si inseriva infatti
in una serie di provvedimenti che dispensavano il sacerdote da alcuni oneri
religiosi, come si legge nel paragrafo successivo, noct. Att. 10.15.18: et alia
quaedam remissa, gratiaque aliquot caerimoniarum facta dicitur. La
necessità per il flamen Dialis di indossare sempre
all’aperto il copricapo rituale derivava dall’essere in quel
contesto tamquam sub oculis Iovis: noct.
Att. 10.15.20: Tunica intima nisi in
locis tectis non exuit se, ne sub caelo, tamquam sub oculis Iovis, nudus sit
(vedi anche Plut., quaest. Rom.
40.274a-b, dove la questione romana è proprio dedicata alla domanda del
perché il flamen Dialis non poteva consacrarsi all’aperto).
[265] Per il controllo
pontificale sulla regolarità dei riti vedi ad esempio Cic., de nat. deor. 1.61:
Itaque ego ipse pontifex, qui caerimonias
religionesque publicas sanctissime tuendas arbitror.
[266] Cic., de har. resp. 21 (vedi supra nt. 263), sostiene che i pontefici potevano decidere che la
celebrazione dei giochi fosse ripetuta nell’osservanza di una scrupolosa
cerimonia. Rimando inoltre a Liv. 41.16.1-2, nel quale si narra un episodio del
[267] Vedi, ad esempio,
Gell., noct. Att. 2.28.3 che
riferisce di un sacrificio espiatorio prescritto con un decreto pontificale, in
seguito alla profanazione delle feste celebrate dopo un terremoto (vedi supra nt. 257).
[268] In generale per il
potere disciplinare del pontefice massimo sugli altri sacerdoti vedi J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 376 ss.
[269] Ricordiamo la multa
inflitta nel
[270] Come esempi di
provvedimenti del pontefice massimo nei confronti di vestali: Liv. 4.44.11-12;
8.15.7-8; 28.11.6; Val. Max. 1.1.6; 4.44.12. Vedi la lapidaria formula espressa
da Cic., de leg. 2.22: Incestum pontifices supremo supplicio
sanciunto. Diversi sono gli esempi di quello che poteva succedere ad una
vestale, tra questi vedi Liv. 8.15.7-8: Eo anno Minucia Vestalis suspecta
primo propter mundiorem iusto cultum, insimulata deine apud pontifices ab
indice servo, cum decreto erum iussa esset sacris abstinere familiamque in
potestate habere facto idicio viva sub terram ad portam Collinam extra viam
stratam defossa Scelerato campo.
[271] Liv. 40.42.8-10,
riferisce della multa inflitta dal pontefice massimo al duumviro navale L.
Cornelio Dolabella, in quanto non aveva ottemperato all’ordine di
lasciare la magistratura per poterlo inaugurare re dei sacrifici. Alla multa fu
opposta la provocatio ad populum, ma
la decisione venne interrotta da un vitium
de caelo.
[272] Per il potere di
repressione del pontefice massimo sui suoi sottoposti, rimando ad un famoso
episodio del
[273] Si ritrovano,
infatti, diverse testimonianze della competenza pontificale su problemi
attinenti alla profanazione, sottrazione, saccheggio di statue e di oggetti
d’arte. Vedi come si affrontò nel
[274] Una pregnante
affermazione di A. Bouché-Leclercq,
Les pontifes de l’ancienne
Rome. Étude
historique sur les institutions religieuses de Rome,
cit., 6, sintetizza l’opera di memorizzazione pontificale: «La
mission des Pontifes était, en effet, de fixer la tradition religieuse,
les coutumes qui tenaient lieu de législation, enfin, toutes les habitudes
de la société, et de les préserver à la fois des
innovations et de l’oubli». Per ciò che attiene all’estesa
opera di scrittura da parte del collegio rimando principalmente alla ricerca
dedicata ai materiali scrittori dei sacerdoti romani di F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica. I. Libri e commentarii, cit., in part. 150 ss.; inoltre, tra i lavori
successivi vedi J.A. Norton, The Books of the Pontifices, in La mémoire perdue. Recherches sur
l’administration romaine, Rome 1998, 45 ss.
L’importante funzione di
memorizzazione si poneva in essere anche con la redazione degli annali, in cui
si registrava ogni avvenimento di una certa rilevanza: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 361 ss.; A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome.
Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, cit., 250
ss.; L. Cantarelli, Origine degli «Annales Maximi»,
in Rivista di Filologia e
d’Istruzione Classica 26, 1898, 209 ss. (ora in Id., Studi romani e bizantini, Roma 1915 [rist., Roma 1970], 145 ss.); E. Kornemann, Die älteste Form der Pontifikalannalen, in Klio 11, 1911, 245 ss. (ora in Römische Geschichtsschreibung [Wege
der Forschung 90], hrsg. von V. Pöschl, Darmstadt 1969, 59 ss.); J.E.A. Crake, The Annals of the Pontifex Maximus, in Classical Philology 35, 1940, 375 ss. (ora in trad. tedesca in Römische Geschichtsschreibung,
cit., 256 ss.); E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le
lettere, cit., 175 ss.; K.-E. Petzold, Annales
maximi und Annalen, in Ex Ipsis Rerum
Documentis. Beiträge zur Mediävistik. Festschrift für H.
Zimmermann, hrsg. von K. Herbers, H.H. Kortüm und C. Servatius, Sigmaringen 1991, 3 ss. (ora in Id., Geschichtsdenken und Geschichtsschreibung. Klein Schriften zur
griechischen und römischen Geschichte, Stuttgart 1999, 252 ss.); S. D’Ambrosio, Considerazioni sul valore giuridico degli
Annales pontificum, in Atti del II
convegno sulla problematica contrattuale in diritto romano. In onore di A. Dell’Oro Milano, 11-12 maggio 1995, Milano 1998, 237
ss.; B.W. Frier, Libri Annales Pontificum Maximorum. The Origins of the
Annalistic Tradition, 2a ed.,
[275] Per questa funzione
rimando al frammento di Catone (orig. 4.
frag. 1, ed. J. = 77 ed. P.) conservatoci da Gell., noct. Att. 2.28.4: Non lubet
scribere quod in tabula apud pontificem maximum est, quotiens annona cara,
quotiens lunae aut solis lumine caligo aut quid obstiterit.
L’importanza della memorizzazione pontificale degli avvenimenti storici
emerge anche da Livio (6.1.2) il quale sottolineava la difficoltà di
conoscere chiaramente le vicende del periodo arcaico romano: Quae ab condita urbe Roma ad captam tandem
Romani sub legibus primum, consulibus deinde ac dictatoris decemvirisque ac
tribunis consularibus gessere, foris bella, domi seditiones, quinque libris
exposui, res cum vetustate nimia obscuras velut quae magno ex intervallo loci
vix cernuntur, tum quod et rarae per eadem tempora litterae fuere, una custodia
fidelis memoriae rerum gestarum, et quod, etiam si quae in commentariis
pontificum aliisque publicis privatisque erant monumentis, incensa urbe
pleraeque interiere. Vedi, inoltre, quanto affermava Macrobio in materia di
annali massimi (sat. 3.2.17): Pontificibus enim permissa est potestas
memoriam rerum gestarum in tabulas conferendi, et hos annales appellant et
quidem maximos quasi a pontificibus maximis factos.
[276] Una precisa
elencazione delle funzioni prettamente sacerdotali da parte dei pontefici viene
offerta da A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome.
Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, cit., il
quale procede ad una distinzione tra i sacra ordinari a cui i pontefici
prendevano parte (267 ss.), e le cerimonie straordinarie di carattere
espiatorio (286 ss.).
[277] Per A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome.
Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, cit.,
265, «les Pontifes devaient être les surveillants et non les
desservants du culte», per cui le funzioni sacerdotali sarebbero delle
attribuzioni posteriori. Pregnante è anche l’affermazione di P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., 66 ss. (= Id., Studi di diritto romano, I, cit., 242): «I pontefici hanno,
sì, specifiche attribuzioni rituali, ma la loro importanza sta
più in quel che sanno che in quel che fanno».
[278] Per la festa vedi ad
esempio: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 238
s.; G. Vaccai, Le feste di
Roma antica. Miti, riti, costumi, cit., 94 s.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 192; J. Whatmough, Fordus and fordicidia,
in The Classical Quarterly 15.2,
1921, 108 s.; B. Perrin, La
consacration à Ceres, in Studi in memoria di E. Albertario,
II, cit., 403 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 68; G. Dumézil,
La religion romaine archaïque,
cit., 376 ss.
[279] Ovid., fast. 4.629-630: Tertia post Veneris cum lux surrexerit idus, / pontifices, forda sacra
litate bove. Vedi anche Varr., de ling. Lat. 6.15: Fordicidia a
fordis bubus; bos forda, quae fert in ventre; quod eo die publice immolantur
boves praegnantes in curiis complures, a fordis caedendis Fordicidia dicta.
[280] Ovid., fast. 4.641-672: Rege Numa, fructu non respondente labori, / inrita decepti vota
colentis erant. / Nam modo siccus erat gelidis aquilonibus annus, / nunc ager
adsidua luxuriabat aqua; / saepe Ceres primis dominum fallebat in herbis, et
levis obsesso stabat avena solo, / et pecus ante diem partus edebat acerbos, /
agnaque nascendo saepe necabat ovem. / Silva vetus nullaque diu violata securi
/ stabat, Maenalio sacra relicta deo: / ille dabat tacitis animo responsa
quieto / noctibus; hic geminas rex Numa mactat oves. / Prima cadit Fauno, leni
cadit altera Somno; / sternitur in duro vellus utrumque solo. / Bis caput
intonsum fontana spargitur unda, / bis sua faginea tempora fronde tegit; / usus
abest Veneris, nec fas animalia mensis / ponere, nec digitis anulus ullus
inest; / veste rudi tectus supra nova vellera corpus / ponit, adorato per sua
verba deo. / Interea placidam redimita papavere frontem / Nox venit et secum
somnia nigra trahit; / Faunus adest oviumque premens pede vellero duro / edidit
a dextro talia verba toro: / «Morte boum tibi, rex, Tellus placanda
duarum: / det scaris animas una iuvenca duas». / Excutitur terrore quies:
Numa visa revoluit / et secum ambages caecaque iussa refert; / expedit errantem
nemori gratissima coniunx / et dixit «Gravidae posceris exta
bovis». / Exta bovis gravidae dantur, fecundior annus / provenit, et
fructum terra pecusque ferunt.
[281] In generale i pasti
sacrali rappresentavano un momento solenne, in particolare Macr., sat. 3.13.10-11, fa riferimento
all’antichità del rito, e ricorda il pranzo offerto dal neoeletto
flamine di Marte: Refero enim pontificis
vetustissimam cenam quae scripta est in indice quarto Metelli illius pontificis
maximi in haec verba: Ante diem nonum kalendas Septembres, quo die Lentulus
flamen Martialis inauguratus est, domus ornata fuit, triclinia lectis eburneis
strata fuerunt, duobus tricliniis pontifices cubuerunt, Q. Catulus, M. Aemilius
Lepidus, D. Silanus, C. Caesar, --- rex sacrorum, P. Scaevola, Sextus ---, Q.
Cornelius, P. Volumnius, P. Albinovanus et L. Iulius Caesar augur qui eum
inauguravit, in tertio triclinio Popilia Perpennia Licinia Arruntia virgines
Vestales et ipsius uxor Publicia flaminica et Sempronia socrus eius nel paragrafo 12 si legge perfino la lista
delle vivande. Questo importante avvenimento registrato persino dal
pontefice massimo viene ricostruito da N.
Marinone, Il banchetto dei pontefici in Macrobio, in Maia.
Rivista di letterature classiche 22, 1970, 271 ss.
[282] A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome.
Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, cit., 282
s., afferma che il banchetto epulum Jovis era parte integrante delle
celebrazioni in onore di Jupitter, per cui originariamente non era visto come
una pesante incombenza da parte dei pontefici. Infatti,
il culto di Iuppiter «s’ouvrit facilement à leur ambition:
il s’était transformé sous l’influence des
idées grecques et le Flamen Dialis ne suffisait plus aux exigences
d’un dieu qui aimait les jeux, les cortèges pompeux et qui
invitait Sénat à dîner au Capitole».
[283] Per la collocazione
cronologica della magistratura del personaggio rimando a T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 336, 338.
[284] Per gli epuloni vedi
Paul. Fest., v. Epolonos,
[285] Per la creazione
degli epuloni vedi: Cic., de orat. 3.73
(vedi supra
nt. 5); Liv. 33.42.1: Romae eo primum
anno triumviri epulones facti C. Licinius Lucullus tribunis plebis, qui legem
de creandis his tulerat, et P. Manlius et P. Porcius Laeca; iis triumviris item
ut pontifici<bus> lege datum est togae pretextae habendae ius. Cfr.
intorno ad alcuni incidenti che potevano accadere durante un banchetto rituale,
presagi maggiormente funesti qualora capitassero ad un pontefice, Plin., nat. hist. 28.27: Cibus etiam e manu prolapsus reddebatur utique per mensas, vetebantque
munditiarum causa deflare; et sunt condita auguria quid loquenti cogitantive id
acciderit, inter exsecratissima, si pontifici accidat dicis causa epuloni. In
mensa utique id reponi adolerique ad Larem piatio est.
[286] Per la festa dei carmentalia,
vedi, ad esempio: G. Vaccai, Le
feste di Roma antica. Miti, riti, costumi, cit., 255 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 220 s.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 136; R.E.A.
Palmer, The archaic community of the romans, Cambridge 1970, 115
ss.
[287] Ovid., fast. 1.461-462: Proxima prospiciet Tithono nupta relicto / Arcadiae sacrum pontificale
deae. H. Le Bonniec, in
Ovide, Les fastes, I, Catania 1968, 44 nt. 94,
sottolinea come Ovidio sia l’unica fonte a ricordare la partecipazione
pontificale ai carmentalia, nonostante
alla dea fosse attribuito un flamen. Sostiene invece la partecipazione
pontificale A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique
sur les institutions religieuses de Rome,
cit., 281.
[288] Sulla dea rimando al saggio Carmenta
di G. Dumézil, in Apollon sonore et autre essais. Vingt-cinq
esquisses de mythologie, Paris 1982, 101 ss.; ma vedi anche: L.G. Gyraldus, Historiae Deorum
Gentilium, cit., 617 s.; G. Vaccai,
Le feste di Roma antica. Miti, riti, costumi, cit., 254 s.; G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 220 ss.; K. Latte,
Römische Religionsgeschichte, cit., 136; R.M. Ogilvie, A commentary on Livy,
Books 1-5, Oxford 1965 [reprint. 1998], 59;
G. Radke, Die Götter
altitaliens, cit., 81 ss. (ivi bibliografia prec. e fonti); E. Peruzzi, Mycenaeans in Early Latium, Roma 1980, 19 ss.; P. Flobert, in Varron, La langue
latine. Livre VI, Paris 1985, 79 nt. 7.
[290] Bisogna appoggiare
l’affermazione di D. Feeney, Letteratura e religione nell’antica
Roma. Culture, contesti e credenze, cit.,
174, secondo cui: «La meditazione poetica più elevata sul rito
romano è costituita dai Fasti di
Ovidio».
[291] Ovid.,
fast. 2.19-23: Februa Romani dixere piamina patres: / nunc
quoque dant verbo plurima signa fidem. / Pontifices ab rege petunt et flamine
lanas, / quis veterum lingua februa nomen erat.
[292] Per altre notizie
intorno a sacrifici celebrati dai pontefici, vedi, ad esempio: Cic., ad M. Iun. Brut. 1.15.8: Ego enim D. Bruto liberato, cum laetissimus
ille civitati dies illuxisset idemque casu Bruti natalis esset, decrevi ut in
fastis ad eum diem Bruti nomen adscriberetur, in eoque sum maiorem exemplum
secutus, qui hunc honorem mulieri Larentiae tribuerunt, cui vos pontifices ad
aram in Velabro sacrificium facere soletis; Ovid., fast. 6.104-105: Adiacet
antiquus Tiberino lucus Elerni: / pontifices illuc nunc quoque sacra ferunt; Macr., sat. 1.10.7: Duodecimo vero
feriae sunt divae Angeroniae, cui pontifices in sacello Volupiae sacrum faciunt.
[293] Per la massima in sacris simulata pro veris accipiuntur vedi,
ad esempio: Serv., ad Verg. Aen. 2.116;
4.512; Paul. Fest., v. Pilae et effigies,
Sul
principio della sostituzione vedi inoltre: A.
Bouché-Leclercq, Les
pontifes de l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses
de Rome, cit., 98 ss.; Th. Mommsen, Storia
di Roma,
trad. it. a cura di A.G. Quattrini, I, Roma 1938, 204, il quale afferma in
particolare che: «Come il mercante romano, senza per nulla perdere nella
sua fama di probità, può a rigor di legge e di costume stare
strettamente alla lettera del contratto, così, come insegnano i teologi
romani, si può anche nel contratto cogli dei dar l’immagine per la
cosa»; G. Capdeville, Substitution de victimes dans les sacrifices
d’animaux à Rome, in Mélanges
de l’ècole
Française de Rome (Antiquité) 83, 1971, 283 ss.; U. Robbe, La «hereditas iacet» e il significato della
«hereditas» in diritto romano. I, Milano 1975, 108 ss. Per il
rapporto tra finzione e simulazione rimando a N.
Dumont-Kisliakoff, La simulation
en droit romain, Paris 1970, vedi in part. 33 ss. per la simulazione nel
diritto arcaico.
[294] Per la figura di Numa
che emerge dall’opera ovidiana rimando a D. Porte, L’étiologie
religieuse dans les Fastes d’Ovide,
Paris 1985, 422 ss. Sulla rappresentazione dell’età monarchica nei
fasti di Ovidio vedi M. Fox, Roman Historical Myths. The Regal Period in Augustan Literature,
cit., 182 ss., e 202 ss. per la raffigurazione di Numa nell’opera di
Ovidio.
[295] Per questa opera di
Ovidio vedi, ad esempio: C. Marchesi, Leggende
romane nei “Fasti” di Ovidio, in Atene e Roma 13, 1910,
110 ss., 170 ss.; V. Titone, I
“Fasti” di Ovidio, in Atene e Roma n.s. 10, 1929, 77
ss.; M. Schanz, Geschichte der römischen Literatur bis
zum gesetzgebungswerk des Kaisers Justinian, II. Die römische
Literatur in der Zeit der Monarchie bis auf Hadrian,
4a Aufl. von C. Hosius, München 1935 [München 1967], 229 ss. (ivi letteratura
precedente); L. Castiglioni, Storia
del testo dei Fasti di Ovidio, in Rivista di filologia e di istruzione
classica 67, 1939, 319 ss.; L.
Rubio, El M.S. P. III-24 de El Escorial.
Los Fastos de Ovidio, in Emerita
29, 1961,
297 ss.; C. Santini, Motivi astronomici e
moduli didattici nei “Fasti“ di Ovidio, in Giornale
italiano di filologia 27, 1975, 1 ss.;
W. Fauth, Römische Religion
im Spiegel der ‘Fasti’ des Ovid, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.1, Berlin-New
York 1978, 104 ss.; L. Braun, Kompositionskunst
in Ovids ‘Fasti’, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt II.31.4, Berlin-New York 1981, 2344
ss.; D. Porte, L’étiologie religieuse dans les
Fastes d’Ovide, cit.; H. Le Bonniec, études
ovidiennes. Introduction aux «Fastes» d’Ovide [Studien
zur klassischen Philologie 43], Frankfurt am Main–Bern–New
York–Paris 1989, con ampia bibliografia; G. Herbert-Brown, Ovid and
the ‘Fasti’, Oxford 1994; D.
Feeney, Letteratura e religione
nell’antica Roma. Culture, contesti e credenze, trad. it. di C.
Solone, Roma 1999, 174 ss. Vedi anche l’opera generale di R. Syme, History in Ovid, Oxford 1978, 12 ss. per la «Evidence in the
Fasti».
[296] Riporta
la stessa tradizione, dagli Annali di Valerio Anziate, Arnob., adv. nat. 5.1: … et accepta regem scientia rem in Aventino
fecisse divinam, elexisse ad terras Iovem abeoque quaesisse ritum procurationis
morem. Iovem diu contatum “expiabis” dixe “capite fulgurita”.
Regem respondisse “caepitio”. Iovem rursus “humano”.
Rettulisse regem “sed capillo”. Deum “contra animali”.
“Maena” subiecisse Pompilium. Tunc ambiguis Iovem propositionibus
captum extulisse hanc vocem: “decepisti me, Numa; nam ego humanis
capitibus procurari constitueram fulgurita, tu maena, capillo, caepitio quoniam
me tamen tua circumvenit astutia, quem voluisti, habeto morem et his rebus,
quas pactus es, procurationem semper suscipies fulguritorum”. Vedi
anche Plut., Num. 15.3-9: 3. P©san d' Øperbšblhken
¢top…an tÕ Øpe;r
tÁj toà DiÕj Ðmil…aj ƒstoroÚmenon.
Muqologoàsi g¦r e„j tÕn 'Abent‹non
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sunoikoÚmenon, ¢ll' œconta phg£j te dayile‹j
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dÚo da…monaj P‹kon kaˆ Faànon: 4. oÞj t¦ me;n
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DaktÚloij sofizÒmenoi periišnai t¾n 'Ital…an. 5. ToÚtouj fasˆ ceirèsasqai
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Taàta lšgein ØpÕ tÁj 'Hyeg…aj
dedidagmšnon.
[297] Sulla base di una
analisi antropologica per M. Meslin, L’homme romain. Des origines au Ier
siècle de notre ère. Essai d’anthropologie, Paris 1978, 215 s., l’incontro tra Giove e Numa simbolizza
«l’attitude si particulière, à la fois
familière et prudente, de l’homme romain envers ses dieux
[…] Plus qu’un mythe étiologique d’un rituel de
procuration de foudre, cette scène atteste le souci essentiel de
l’homme romain de ne concevoir les dieux, fût-ce le plus grand, que
comme des partenaires avec qui il peut discuter, marchander, parvenir à
un accord, dans le respect mutuel des droits de chacun».
[298] Così si
definiscono le due divinità per bocca di Fauno: Dii sumus agrestes et qui dominemur in altis montibus (Ovid., fast. 3.315-316).
[299] In Lact., inst.
Div. 1.22.9, si rinviene il fattore comune tra il re sabino e queste due
divinità: Sed ut Pompilius apud Romanos institutor ineptarum religionum
fuit, sic ante Pompilium Faunus in Latio qui et Saturno avo nefaria sacra
constituit et Picum patrem inter deos honoravit et sororem suam Fentam Faunam
eamdemque coniugem consecravit.
[300] Ovid., fast. 3.300-325. Intorno alla tradizione
da cui è scaturito il racconto vi sono diverse posizioni. Secondo J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psycologique, cit., 48,
il rapporto tra Numa, Egeria, le due divinità agresti e Giove Elicio,
è senza dubbio un caso di «influences étrusques sans rapport
avec la tradition latine ou interférant artificiellement avec
elle». Nello stesso senso: J. Gagé, Les
femmes de Numa Pompilius, in Mélanges
offerts à P. Boyancé, cit., 292; P.M. Martin, L’idée
de royauté à Rome. De
[301] In questi versi
Ovidio utilizza la parola piamina,
intesa come mezzi espiatori per placare gli dèi, in tal senso anche:
Ovid., fast. 2.19-20
(vedi supra nt. 291); Plin., nat. hist. 25.30: Sucus est cactus
ferulae qualem diximus, radice multis corticis et salsi. Hac evolsa scrobem
repleri vario genere frugum religio est ac terrae piamentum; Fest., v. Piatrix, 232 e
[302] La disciplina dei
fulmini doveva essere particolarmente cara a Numa, al quale la tradizione
(Fest., v. Occisum,
Per il rito della procuratio fulguritorum rimando a: J. Marquardt, Le culte
chez les Romains, I, cit., 312 ss.; Id.,
Le culte chez les Romains, II, cit.,
312 ss.; E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico
all’epoca augustea, cit., 45 s.
[303] Il carattere di
contrattazione dell’incontro viene evidenziato da più parti, e con
varie sfumature: G. Dumézil (La religion romaine archaïque,
cit., 57) considera il dialogo come una sorta di verifica delle conoscenze
linguistiche, l’episodio sarebbe infatti «un marchandage qui est en
même temps un examen, par lequel le dieu vérifie que le roi sait
l’importance du vocabulaire et de syntaxe». G. Piccaluga (Aspetti e problemi della religione romana, Firenze 1974, 43) parla
di “dialogo/contrattazione”. R. Schilling
(La religion romaine de
Vénus, cit., 58) ricorda come questo spirito di contrattazione
derivi dalla creazione del culto di Fides,
attribuito a Numa dalla tradizione (Liv. 1.21.4), che rappresenta una
innovazione più significativa rispetto alla creazione dei sacerdozi. Questo nuovo culto, infatti «établit les rapports des hommes
et de dieux sur le plan juridique du respect des engagement. C’est un
changement radical du climat religieux: à la spontanéité
religieuse succède l’esprit de marchandage». Poiché
la pietas si sarebbe fondata sul
rispetto delle promesse, la riforma di Numa «permet à
l’homme de veiller à ses intérêts, avant de conclure
le contrat; elle ne lui interdit même pas les subterfuges, pourvu
qu’il ne viole pas la lettre de l’accord».
[304] M. Humbert, Droit et religion dans
[305]
L’interpretazione pontificale doveva essere rigorosa specie
nell’uso della terminologia. Questo precisione è da ricondurre
all’azione in campo religioso dello stesso Numa. Vedi al proposito il
passo del mitografo Fabius Planciades Fulgentius, dell’expositio
sermonum antiquorum ad grammaticum Calcidum, in Opera, ed. R. Helm,
Lipsiae 1898, 116, dove si richiama la prescrizione del re sabino in materia di
copricapi da utilizzare nei rituali, e che fa trasparire l’attenzione per
l’esattezza verbale: Numa vero
Pompilius et ipse de pontificalibus scribens tutulum dici ait pallium quo
sacerdotes caput tutabant, cum sacrificium accessissent.
[306] Per le fonti vedi supra, nt. 256.
Numerosi autori si sono occupati del tema, vedi ad esempio: R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma
dall’età primitiva all’età classica, cit., 261 (=
Id., Scritti, II, cit., 628), sostiene che «è una vera
superstizione della parola, una credenza religiosa nella potenza magica delle
formule, una fede nel valore creativo dei “verba” che attraverso la
religione si trasfonde nella vita del diritto ingenerando la convinzione che
taluni effetti giuridici si possono raggiungere soltanto mediante la pronuncia
di formule determinate»; vedi anche Id.,
I fatti di normazione
nell’esperienza romana arcaica, cit., 189 ss.: «Uno degli
aspetti più certi dell’esperienza romana antica è la
convergenza di numerose testimonianze di vario genere sul valore e sulla
funzione che in campo religioso e giuridico, accanto o insieme a gesti e atti
materiali […], aveva la “parola”, nel senso di segno
linguistico espresso oralmente» (189); S.
Riccobono, La “voluntas” nella prassi giudiziaria guidata
dai pontefici, in Festschrift F. Schulz, I, Weimar 1951, 304,
ricorda il «principio consacrato nella legge decemvirale: che la parola e
non la volontà vale a produrre gli effetti giuridici»; C.
Gioffredi, Religione e diritto
nella più antica esperienza romana. (Per la definizione del concetto di
‘ius’), in Studia et
Documenta Historiae et Iuris 20, 1954, 274 (in parte ora in Aa. Vv., Diritto e storia. L’esperienza giuridica di Roma attraverso le
riflessioni di antichisti e giusromanisti contemporanei: Antologia, a cura
di A. Corbino, Padova 1995, 256), per cui «la parola, che è
manifestazione e ha forza di pensiero, per i suoi riflessi psichici sembra
avere una virtù misteriosa»; R. Bloch,
Liberté et
déterminisme dans la divination romaine, in Hommages à J. Bayet, éd. par M. Renard et R.
Schilling, Bruxelles-Berchem 1964, 95, sottolinea la forza quasi magica della
parola; A. Ronconi, «Malum
carmen» e «malus poeta», cit., 958 ss., analizza
l’uso della parola anche per i malauguri, e ne rileva un collegamento tra
la parola e la scrittura: «la scrittura è essa stessa un
incantesimo, qualcosa che dà fissità alla parola e ne prolunga
gli effetti» (958); A. Calore, “Per Iovem lapidem”. Alle
origini del giuramento. Sulla presenza del ‘sacro’
nell’esperienza giuridica romana, Milano 2000, 111 s., il quale
sostiene che «ai verba certa e sollemnia, era affidato il compito di
porre in essere validi rapporti, pubblici e privati. Si direbbe che
l’‘atto’ fosse un effetto del ‘dire’; la
‘parola’ esercitava ‘potere’» (111). Per il
collegamento tra parola e potere nell’esperienza giuridica arcaica vedi A. Schiavone, Publio Mucio e la nascita della letteratura giuridica romana, cit., 146 s.
[307] L’importanza
dei giochi di parole e delle finzioni nell’interpretazione dei segni
divini resta in numerosi episodi della memoria romana. Secondo la tradizione
(vedi: Dion. Hal. 4.59-61, Plin., nat.
hist. 28.4; cfr. anche Liv. 1.55) durante i lavori di scavo delle
fondamenta per la costruzione del tempio capitolino, sotto il regno di
Tarquinio il Superbo si rinvenne una testa umana grondante di sangue, in cui
erano impresse alcune lettere dell’alfabeto etrusco. Sospesi i lavori, a
causa delle difficoltà incontrate dagli haruspices per l’interpretazione del prodigio, si
inviò una delegazione in Etruria per consultare il famoso esperto Olenus
Calenus. Qui però i rappresentanti romani vennero avvertiti dal figlio
dell’aruspice, poiché attraverso giochi di parole si poteva
spostare il punto di applicazione del prodigio. Infatti Olenus, segnando il
suolo, chiese ai Romani se proprio in quel punto era avvenuto il prodigio, ma
essi risposero che questo era avvenuto a Roma, e in tal modo si impedì
che un segno di grande fortuna come questo venisse dirottato dall’Urbe.
Per una analisi dell’episodio rimando a G.
Piccaluga, Terminus. I segni di
confine nella religione romana, cit., 202 ss., la quale sottolinea come ci
si trova davanti al «tentativo di invertire il prodigio della testa su un
fittizio Tarpeius mons» (205).
Dunque, si otteneva un semplice transfert attraverso dei segni e una
conferma verbale, a dimostrazione che la parola può rendere vero
ciò che non è, ma questa trasposizione, sebbene semplice (si
trattava di segni tracciati sul terreno) faceva deviare gli effetti di
manifestazioni divine. Questa “logica del transfert” si
può rinvenire anche nella devotio, in cui quando il condottiero
romano si dedicava agli dèi tramite nuncupatio, quindi con
l’utilizzo di precisi verba, creava una associazione, o meglio una
sorta di endiadi, tra lui e i propri nemici, per far sì che con la morte
del console anche l’hostis dovesse soccombere. La sostituzione di
un luogo per un altro con la semplice attribuzione fittizia del nome si
può rivenire in Paolo Diacono (v. Martialis campus,
[308] Nell’antico
rito feziale del foedus (Liv. 1.24.6:
Fetialis erat M. Valerius; is patrem
patratum Sp. Fusium fecit verbena caput capillosque tangens) le due parole
si trovano unite in modo ridondante, tipico del linguaggio religioso arcaico.
Per un uso pleonastico della locuzione contenente i due termini vedi Colum., res rust. 1.praef.: Adhuc enim scholas rhetorum et, ut dixi, geometrarum musicorumque vel,
quod magis mirandum est, contemptissimorum vitiorum officinas, gulosius
condiendi cibos et luxuriosus fericula struendi, capitumque et capillorum
concinnatores non solum esse audivi, sed et ipse vidi. Rimando a J. Andrè, Le vocabulaire latin de l’anatomie, Paris 1991, dove per caput si afferma l’antica
«efficacité magique de la tête humaine» (27 s.); vedi
ancora 212 ss. per i capillos.
Invero, l’uso della parola capillos,
che indica anche la chioma degli alberi, risulta ancor più singolare in
quanto potrebbe essere un’allusione a capillor,
parola dalla stessa radice, propria della lingua augurale, che indicava un
albero che veniva consacrato a Iuppiter
Fulgur dopo la presa degli auspici: Serv. Dan., in Verg. Aen. 10.423: Sane
superius de speciebus stativi augurii dictum est, in quibus capillorem esse
diximus, quod hoc loco tangit. Capillor autem dicitur cum auspicato arbor
capitur et consecratur Iovi Fulguri: dicit enim his versibus ‘da nunc,
Thybri pater, ferro, quod missile libro, fortunam’ et reliqua,
‘haec arma exuviasque viri tua quercus habebit’: hic ergo cum
arborem nominat, videtur veteris ritus inducere mentionem (per capillor vedi P. Catalano, Contributi
allo studio del diritto augurale, cit., 307, 315 s. e ntt. 283 e 286).
[309] Nei versi ovidiani,
oltre al gioco sulle sonorità tra caput/caepitum e caput/capilli D. Porte, L’étiologie religieuse dans les Fastes d’Ovide, cit., 132, sottolinea il possibile
scambio tra anima e maena: «Enfin, un
troisième, subtil, entre anima, et le nom du petit poisson,
sardine ou anchois, maena, qui en est tout simplement l’anagramme
(on trouve maena et maina)». Vedi
anche P. Salat, Comment Numa vainquit Jupiter dans une
joute verbale, in ALMA. Annales Latini Montium
Arvernorum. Bulletin du Groupe d’études latines de
l’Université de Clermont 11, 1984, 33 ss., il quale ritiene che nel
racconto ovidiano la terza risposta, “piscis”, data da Numa
non abbia collegamento con l’“anima” richiesta da
Giove, ed ipotizza che in origine anima era contrapposta a maina,
antica forma di maena, termine che Valerio Anziate rinvenne dalla sua
fonte.
Il
sacrificio dei pesci era raro a Roma, tanto che una legge dello stesso Numa non
considerava atte al sacrificio le specie ittiche prive di scaglie: Plin., nat. hist. 32.20: Pisces marinos in usu fuisse protinus a condita Roma auctor est Cassius
Hemina, cuius verba de ea re subiciam: Numa constituit ut pisces, qui squamosi
non essent, ni pollucerent, parsimonia commentus, ut convivia publica et
privata cenaeque ad pulvinaria facilius compararentur, ni qui ad polluctum
emerent pretio minus parcerent eaque praemercarentur (vedi Fontes iuris
Romani antejustiniani, I, cit., 10). Cfr. Fest., v. Pollucere,
[310] Sulla determinatezza
e la destrezza del sovrano, F.M.
Simón, ‘Flamen Dialis’. El sacerdote de
Júpiter en la religión romana,
Madrid 1996, 55 s., parla al proposito di «habilidad y
resolución» di Numa. Secondo l’A. nella vicenda si
può ritrovare un superamento «de un estadio primero de la
antropología romana» espresso allegoricamente attraverso le
«“antinaturales” constricciones de Numa» nei confronti
di Giove. Questo “primo stadio” sarebbe stato definito dalle
valenze magico-religiose come «elemento informador» delle relazioni
sociali, valenze che vennero sostituite in seguito dalle regole giuridiche. Sarrebbe «la propia condición de la religio romana» ad essere coinvolta nella iniziativa
«audaz y la “determinación” de Numa, ese
vínculo de obligaciones mutuas que, a partir de entonces van a definir
la relación entre los hombres y dioses».
[311] In tal caso Numa
è «l’‘interprete’
che, grazie alla sua eminente posizione, legittima la sostituzione e la rende
accetta alla divinità»: E.
Bianchi, ‘In sacris simulata
pro veris accipiuntur’ (Serv. Ad Aen. 2, 116), cit., 474.
[312] Vari sono gli esempi
di simulazione attraverso l’utilizzo di animali e di cose che si
ritrovano nelle fonti. Durante la festa dei Volcanalia, ad esempio, che si
svolgeva il 23 agosto, si procedeva alla sostituzione sacrificale di vittime
umane: Varr., de ling. Lat. 6.20: Volcanalia
a Volcano, quod ei tum feriae et quod eo die populus pro se in ignem animalia
mittit; Fest., v. Piscatori ludi,
Un altro
caso di sostituzione inserito nella legislazione numaica (vedi Fontes iuris
Romani antejustiniani, I, cit., 13 s.) viene evidenziato da G.M. Oliviero, In tema di «ultio
necis» del «de cuius»,
in Index. Quaderni camerti di
studi romanistici 27, 1999,
87, per cui la consegna dell’ariete agli agnati della vittima di omicidio
colposo sarebbe l’applicazione della massima simulata pro veris
«secondo la logica primitiva del sacrificio sostitutivo».
[313] Rimando per questa
divinità, ma senza presunzione di completezza, a: L.G. Gyraldus, Historiae Deorum
Gentilium, cit., 609 s.; A.
Bouché-Leclercq, Histoire
de la divination dans l’antiquité, IV. Divination italique
(étrusque – latine – romaine),
cit., 121 ss.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit.,
208 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV. La
fondazione dell’impero, II. Vita e
pensiero nell’età delle grandi conquiste. I, cit., 220 ss.; A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Roma 1956, 57 ss.; K.
Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 83 ss.; G. Radke, Die Götter altitaliens, cit., 119 ss. (ivi bibliografia e
fonti); T. Oksala, Religion und Mythologie bei Horaz. Eine literarhistorische
Untersuchung, Helsinki-Helsingfors 1973, 68 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 350 ss.; R.E.A. Palmer, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays, cit., 146 ss.; B. Liou-Gille, Cultes «héroïques»
romains. Les fondateurs, Paris 1980, 66 ss.; G. Martorana, Osservazioni sul flamen
Dialis, in φιλίας
χάριν. Miscellanea di studi classici in onore di E.
Manni, IV, Roma 1980, 1472 ss.; D. Briquel, Les enfances de Romulus et Rémus, in Hommages à R. Schilling, éd. par H. Zehnacker et G. Hentz, Paris 1983, 56 ss.; P. Baccini Leotardi, v. Fauno (Faunus),
in Enciclopedia virgiliana, II, De-In, Roma 1985, 480 s. (per l’uso virgiliano del
vocabolo); P.F. Dorcey, The cult of Silvanus. A Study in Roman Folk
Religion, Leiden-New York-Köln 1992, 33 ss.;
H.C. Parker, Romani numen soli: Faunus in Ovid’s Fasti, in Transactions of the American Philological
Association 123, 1993, 199 ss.; R.
Del Ponte, La religione dei
romani. La religione e il
sacro in Roma antica, cit., 192 ss.; Id., Dei
e Miti Italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica,
cit., 162 ss.; A. Carandini, La
nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all’alba di una
civiltà, cit., 175 ss.; J.
Aronen, Perché il verso Saturnio fu chiamato “Saturnio”?,
in Imago antiquitatis. Religions et
iconographie du mond romain. Mélanges offerts à R. Turcan, Paris 1999, 55 ss. Vedi anche il lavoro dedicato al tempio di Fauno nell’isola
Tiberina, M. Besnier, L’île Tibérine dans
l’antiquité, Paris 1902, 290 ss.
[314] Su Pico, vedi ad
esempio: L.G. Gyraldus, Historiae
Deorum Gentilium, cit., 75 s.; W.R.
Halliday, Picus-who-is-also-Zeus,
in Classical Review 22, 1936, 110 ss.; A.H. Krappe, Picus who is also Zeus, in Mnemosyne ser. III,
9, 1941, 241 ss.; G. Rohde, v. Picus,
in Paulys Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, 20.1, Stuttgart 1941, coll. 1214 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV. La
fondazione dell’impero, II. Vita
e pensiero nell’età delle grandi conquiste. I, cit., 219 s.; G. Radke, Die Götter altitaliens, cit., 255 (ivi bibliografia e fonti); T. Stillwell Mackay, Three poets observe Picus, in The American Journal of Philology 96.3,
1975, 272 ss.; A. Carandini, La
nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all’alba di una
civiltà, cit., 153 ss.; R.
Del Ponte, Dei e Miti Italici. Archetipi e forme della
sacralità romano-italica, cit., 134 ss.
[315] Ovidio (fast. 3.323-326) ammonisce su ciò
che gli uomini possono conoscere. Per questo motivo non riporta le parole usate
dalle divinità, in quanto si può declamare solo ciò che licet: Emissi laqueis quid agant, quae carmina dicant, / quaque trahant
superis sedibus arte Iovem, / scire nefas homini. Nobis concessa canetur /
quaeque pio dici vatis ab ore licet.
[316] Cfr. Val. Max. 1.5.8: quia numquam remotos
ab exactissimo cultu caerimoniarum oculos habuisse nostra civitas existimanda
est.
[317] In altri versi dei fasti (4.641-672) si possono ritrovare
alcuni dei personaggi che si rinvengono in questo aneddoto. Qui Ovidio spiega
l’origine numaica dei fordicidia:
durante una carestia, Numa si recò in una foresta sacra a Fauno e qui,
con estrema cautela religiosa, si addormentò su velli di pecore
sacrificate. Il re così pose in essere il rito della incubazione, per
mettersi in contatto con la divinità. Durante il sonno il dio con uno
oscuro oracolo indicò il modo per placare Tellus. Fu Egeria a
consigliare Numa sull’esatta interpretazione delle parole. La
celebrazione sacrificale dei fordicidia,
che la tradizione vuole sorta da un preciso atto di interpretazione letterale
da parte di Numa, o della sua ninfa, è stata attribuita ai pontefici
nell’ottica di una tradizionale consegna di competenze fatta dal re al
collegio. In questa occasione Numa compì «una delle sue tipiche
gesta, combinando senso religioso e furbizia interpretativa»: A. Barchiesi, Il poeta e il principe. Ovidio e il discorso augusteo, Roma-Bari
1994, 120. Nel racconto in questione Ovidio fu influenzato dall’Eneide
(Verg., Aen. 7.81-96: At rex sollicitus monstris oracula Fauni /
fatidici genitoris, adit lucosque sub alta / consulit Albunea, nemorum quae
maxima sacro / fonte sonat saevamque exhalat opaca maphitim. / Hinc Italiae
gentes omnisque Oenotria tellus / in dubiis responsa petunt; huc dona sacerdos
cum tulit et caesarum ovium sub nocte silenti / pellibus incubuit startis
somnosque petivit, / multa modis simulacra videt volitantia miris / et varias
audit voces fruiturque deorum / conloquio atque imis Acheronta adfatur Averni.
/ Hic et tum pater ipse petens responsa Latinus / centum lanigeras mactabat
rite bidentis / atque harum effultus tergo stratisque iacebat / velleribus;
subita ex alto vox reddita luco est) dove al posto di Numa si parla di
Latino (sul passo e sull’influenza virgiliana rimando a R.E.A. Palmer, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays, cit., 80 ss.).
[318] R. Turcan, Rome et ses dieux, Paris 1998, 13.
[319] Pur affermando un distacco tra diritto e religione M. Humbert, Droit et religion dans
[320] Cic., de dom. 138: Illa interiora iam
vestra sunt, quid dici, quid praeiri, quid tangi, quid teneri ius fuerit.
[321] Vedi Gell., noct. Att. 1.12.15-
Per capere flaminem, vedi ad
esempio: Liv. 27.8.5: Ob adulescentiam neglegentem luxuriosamque C. Flaccus
flamen captus a P. Licinio pontifice maximo erat, L. Flacco fratri germano
cognatisque aliis ob eadem vitia invisus; Gell., noct. Att. 1.12.16, il quale riporta un frammento del commentariorum
rerum gestarum di L. Cornelius Sulla: P. Cornelius, cui primum cognomen
Sullae impositum est, flamen Dialis captus; cfr. anche Val. Max. 6.9.3: Ceterum
a P. Licinio pontifice maximo flamen factus, quo facilius a vitiis recederet,
ad curam sacrorum et caerimoniarum converso animo, usus duce frugalitatis
religione, quantum prius luxuriae fuerat exemplum, tantum postea modestiae et
sanctitatis specimen evasit. Per un riferimento alla captio nelle
fonti giuridiche vedi: Gai. 1.130: Praeterea exeunt liberi virilis sexsus de
parentis potestate, si flamines Diales inaugurentur, et feminini sexus, si
virgines Vestales capiantur, in relazione all’uscita dalla
potestà paterna; Tit. Ulp. 10.5: In potestatem parentum esse desinunt
et hi, qui flamines Diales inaugurantur et quae virgines Vestae capintur.
Vedi ancora: Serv., in Verg. Aen. 7.303: ‘Conduntur thybridis
alveo’ ‘condi’ proprie dicuntur qui sibi statuunt civitatem.
‘Conduntur’ ergo sedem stabilem locant: Sallustium peste conditos
orbis terrarum. Et sunt propria verba, quae nulla ratione mutantur, ut
sacerdotes creari, virgines capti dicimus, in cui si afferma, a
titolo di esempio, la tecnicità del termine captio in riferimento
alla presa delle vestali.
Diverse sono le posizioni sul
significato da dare alla presa di queste sacerdotesse: Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, I, cit., 379, sottolineava la
sottrazione della futura vestale dalla manus paterna, attraverso un
istituto di carattere militare: «Speciatim capere dicebatur pontifex
maximus, cum virginem sacris inter Vestales addicendam a paterna domo
abducebat. Eam enim manu prehensam parentibus, veluti
bello captam, eripiebat»; per J.
Guillén, Los sacerdotes
romanos, cit., 48 ss., nel periodo antico le prigioniere erano destinate a
servire «el espíritu de la tribu, de la familia, que luego en Roma
[…] pasaría a expresarse con la palabra Genius» (51).
Queste, elevate a sacerdotesse da Numa, venivano bello capte e, in caso
di loro mancanze venivano punite «come verdaderas esclavas del Genio del
pueblo, por su representante el pontífice máximo» (52). Per R. Schilling, Vestales et vierges chrétiennes dans
[322] De virgine capinda vedi Gell., noct.
Att. 1.12. Nel paragrafo 14 si legge: In
libro primo Fabii Pictoris, quae verba pontificem maximum dicere oporteat, cum
virginem capiat, scriptum est. Bisogna condividere i rilievi di R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, cit.,
197: questo è uno degli esempi che dimostrano la forza che la parola
esplicava, in quanto il pontefice massimo quae
verba … dicere oporteat prendeva la vestale. Sottolinea in questo
istituto l’uso dei verba solemnia pronunciati dal pontefice
massimo, per mezzo dei quali si dava effetto costitutivo al gesto: F.J. Alvarez de Cienfuegos Coiduras, Algunas
notas a propósito de la «captio» de las vestales, cit.,
31 ss., per il quale si tratterebbe di una legum dictio.
[323] Per i tanti
significati del termine capere rimando a: Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, I, cit., v. capĭo, 379 ss., e la v. captus,
385; O. Hey, v. capio, in
Thesaurus Linguae Latinae III, fasc.
2 candidus-caro, Lipsiae 1907, coll.
318 ss., in part. vedi la col. 335, per il significato di «maxime de
virginibus Vestalibus et sacerdotibus pontificiis». Vedi inoltre coll.
323 s. per gli officia religiosa; coll. 325 ss. per l’uso in
bello; coll. 333 s. per la costruzione homines capiunt homines
relativa a «sic maxime in bello, latrocinio, sim. (facere captivum; de
populis: subicere; persaepe opponuntur caedere, interficere, interimere,
occidere vel in deditionem accipere)». Vedi anche la v. captus
dello stesso A., in Thesaurus Linguae
Latinae III, fasc. 2 candidus-caro, loc. cit., coll. 381 s. Afferma la tecnicità del termine capere
utilizzato da Gellio R. Düll, Privatrechtsprobleme
im Bereich der virgo Vestalis, in
Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 70, 1953, 380. Secondo A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 95 ss.,
sul verbo capere l’italo celtico ha sviluppato
«l’idée plus restreinte de “faire prisonnier”,
d’où captus, captīuus. Le captif est celui qui
est pris en main».
[324] Questo si può
dedurre dal fatto che Gell., noct. Att.
1.12.9, sottolinea che, senza alcun rito emancipatorio, o altro atto, la
vestale usciva dalla potestas paterna:
Virgo autem Vestalis, simul est capta
atque in atrium Vestae deducta et pontificibus tradita est, eo statim tempore
sine emancipatione ac sine capitis minutione e patris potestate exit et ius
testamenti faciundi adipiscitur. Sulla “quasi patria potestas”
del pontefice massimo nei confronti della vestale e del flamen Dialis
vedi: M. Voigt, Die XII Tafeln. Geschichte und System
des Zivil- und Kriminalrechts wie –Prozesses der XII Tafeln nebst deren
Fragmenten, 2. Das
Zivil- und Kriminalrecht der XII Tafeln, Leipzig 1883 [Neudr., Aalen 1966], 315 ss.;
idea ripresa, ad esempio, da S. Di
Marzo, Storia della procedura criminale romana. La giurisdizione
dalle origini alle XII Tavole, cit.,
130 ss. Vedi anche E. Volterra, Istituzioni di diritto
romano, Roma 1961, 108 nt. 1, il quale afferma che la vestale non era sui
iuris, in quanto sottoposta alla potestas del pontefice massimo.
[325] Gell., noct. Att. 1.12.13: ‘Capi’ autem virgo propterea dici videtur, quia pontificis
maximi manu prensa ab eo parente, in cuius potestate est, veluti bello capta
abducitur. Questo carattere militare della presa delle vestali si
può rinvenire nel rapporto tra il numero di queste sacerdotesse e
l’antica ripartizione del popolo romano: Fest., v. Sex Vestae sacerdotes,
[326] Per le questioni
giuridiche relative allo status delle vestali vedi R. Düll, Privatrechtsprobleme
im Bereich der virgo Vestalis, cit.,
380 ss. Intorno alla dispensa della tutela mulierum concessa alle
sacerdotesse di Vesta rinvio da ultimo a O.
Sacchi, Il privilegio dell’esenzione dalla tutela per le
vestali, in Ius Antiquum -
Древнее
Право 10, 2002, 56 ss., testo ripubblicato
con il titolo Il privilegio dell’esenzione della tutela per le vestali
(Gai. 1.145). Elementi per una datazione tra innovazioni legislative ed
elaborazione giurisprudenziale, in Revue
Internationale des droits de l’Antiquité 50, 2003, 317 ss., in
part. vedi 336 ss., per la storia del regime giuridico delle vestali.
[327] G. Demelius, Die Rechtsfiktion in ihrer geschichtlichen
und dogmatischen Bedeutung. Eine juristische
Untersuchung, Weimar 1858, 12 ss., ha sostenuto che la fictio sia sorta in ambito sacrale. Questa ipotesi è stata
appoggiata anche da E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico
all’epoca augustea, cit., 4, il quale sottolinea in tal senso che
«le più antiche finzioni si riscontrano nell’ambito del ius sacrum e […] il modulo
così generato si trasmette, poi, ad altre sfere del diritto»; per
l’utilizzo della sostituzione nel diritto pontificio vedi in part. 69
ss.; per aspetti analoghi nel diritto augurale e feziale 88 ss. Tra le critiche
opposte al Demelius, per cui la fictio iuris sarebbe passata dal diritto
sacro a quello profano vedi, ad esempio: R.
von Jhering, L’esprit du droit romain dans les diverses phases
de son développement, IV, cit., 279 s., il quale non rinviene alcuna
priorità tra diritto sacro e quello profano; U. Robbe, La fictio iurus e la finzione di adempimento
della condizione nel diritto romano, in Scritti in onore di S. Pugliatti,
IV. Scritti storico-filosofici, Milano 1978, 625 ss., in part. 636 ss.,
il quale sostiene le critiche degli studiosi precedenti, sebbene egli rilevi
come tale massima si rinvenga in tutto il diritto sacro e fosse utilizzata da
diversi collegi sacerdotali.