L’humanitas nel pensiero della giurisprudenza
classica
1. – Ius
est ars boni et aequi: lo si legge nel passo di Ulpiano che apre il
Digesto, la poderosa raccolta di brani provenienti dalla vasta produzione dei
giuristi attivi soprattutto nell’età del principato voluta da Giustiniano, a
imperitura memoria della loro impareggiabile maestria e a salvaguardia della
certezza del diritto da applicare nella concretezza della quotidianità[1].
Il valore dell’enunciazione, risalente a Giuvenzio Celso figlio –
figura eminente tra i prudentes che
operano nella prima metà del II secolo d.C.[2] – e particolarmente
apprezzata dallo stesso Ulpiano, che ne rimarca l’eleganza[3], è ancor oggi vivamente
dibattuto. Secondo la tesi che più convince, messa or non è molto a punto da
Filippo Gallo[4],
siamo di fronte a una vera e propria definizione del ius valevole sotto il profilo strettamente scientifico
costantemente privilegiato dai giuristi e non già, come vorrebbero altre e pur
autorevoli opinioni, a un’affermazione carica di vacua retorica[5], né a una mera
rappresentazione della tensione immanente al diritto verso idealità di ordine
etico[6] e neppure a una di quelle
che la dottrina tedesca chiama ‘Leerformeln’, cioè formule vuote, «in cui si
può, dal punto di vista sostanziale, versare qualsiasi contenuto, e che, in
effetti, le singole epoche hanno riempito nei modi che, di volta in volta,
erano imposti dalla cultura e dall’assetto socio-economico imperanti»[7]. Le parole di Celso, nelle quali inadeguato sarebbe anche scorgere
una qualificazione metaforica per laudem
del ius[8], mirano invero a chiarire
che questo, ossia il diritto inteso in senso oggettivo, come esperienza
giuridica nel suo complesso, che abbraccia la produzione, l’interpretazione e
l’applicazione del diritto, è il frutto di un’ars, cioè di un’attività dell’uomo governata da regole e tecniche[9], protesa al conseguimento
del bonum e dell’aequum[10]: e dunque alla
prospettazione di soluzioni che – a livello normativo, ermeneutico e attuativo
– realizzino l’uno e l’altro, mostrandosi conformi a ciò che esigono il canone
del rispetto dei boni mores, il
criterio di razionalità, che impone aderenza alle esigenze della realtà e
contemperamento degli opposti interessi, e il principio di uguaglianza, il
quale postula che a situazioni uguali corrispondano trattamenti uguali e a
situazioni disparate trattamenti disparati, operando con riferimento
all’organizzazione del gruppo sociale, ai rapporti tra i singoli e tra questi e
l’ente personificato o comunque la comunità.
In quanto il ius è,
secondo la corretta lettura di Celso, il risultato di un’ars, è allora evidente che, nella ricostruzione concettuale di
questi, di esso, o meglio dello stato di esso, è esclusivamente responsabile
chi tale ars esercita, ossia l’uomo;
così come è evidente che in esso, ovvero nella totalità dell’esperienza
giuridica, riposa l’essenza dell’uomo, il quale crea, interpreta e applica il
diritto mettendo a profitto tutte le sue capacità: non solo la ragione,
pertanto, ma anche le altre facoltà di cui è dotato, tra le quali la memoria,
l’intuizione e il sentimento.
Sbaglieremmo, peraltro, ove pensassimo che la definizione di
Celso fosse priva di ricadute sul piano pratico. Come acutamente rileva ancora
Filippo Gallo[11],
il giurista, individuando nel bonum et
aequum la «nota differenziale che … contraddistingue il diritto nell’ambito
del genere ars», ha nel contempo
«posto il criterio per stabilire quando c’è e quando manca la sostanza del
diritto al di sotto dei suoi aspetti formali. La sola apparenza esteriore non
basta: perché si abbia diritto è necessario che ne esista anche la sostanza,
ravvisata da Celso nel bonum et aequum.
Una prescrizione che presenti gli aspetti formali della norma, ma fuoriesca dal
bonum et aequum, non è diritto e,
come tale, non va osservata».
Ebbene, a ritenere che l’insegnamento di Celso, pur circolando
all’interno di un sistema aperto – qual è quello vigente nel periodo imperiale
–, dove domina il ius controversum e
le opinioni anche discordi dei prudentes
sono considerate diritto vivo[12], fosse ampiamente
condiviso, come io credo, dovremmo immaginare che le istanze insite nell’idea
di humanitas, sicuramente partecipi
di quanto reclamavano il bonum e l’aequum, orientassero costantemente
l’opera dei giuristi, anche al di fuori dei casi in cui essi motivavano i loro
pareri evocando espressamente esigenze umanitarie. E così è, infatti.
Ma procediamo per gradi, cercando anzitutto di lumeggiare i
contenuti dell’humanitas e il peso da
questi esercitato sull’evoluzione dell’ordinamento giuridico romano, agendo come
principi attivi sotterranei.
2. – Come ricorda Fritz Schulz nei suoi Prinzipien des römischen Rechts, apparsi
a Monaco nel 1934 e presto divenuti un classico della dottrina giuridica[13], la parola humanitas è una creazione autonoma dei
romani, che non ha esatti corrispondenti nel lessico greco: anche il vocabolo philanthropia ha infatti un’area
semantica più ristretta di quella propria di humanitas.
Con questo termine, nato nel circolo del giovane Scipione,
console nel
Quello di humanitas è
allora un concetto ampio[21], che si estende sino a
comprendere il riguardo per gli altri, il porre a se stessi dei limiti, il non
perseguire esclusivamente il proprio vantaggio, consapevoli che qualche cosa va
lasciato al prossimo, l’attribuire ai terzi con cui si sia in particolari
relazioni ciò che è conveniente secondo le esigenze dell’individualità di
ciascuno[22].
Ed è un concetto la cui forza costruttiva, sul piano giuridico,
si dispiega fin dal primo apparire della parola alla quale è sotteso, se non
anche in precedenza[23], e con notevole
intensità, affiorando peraltro in casi circoscritti – che prenderemo in
considerazione nel seguito – nelle argomentazioni poste dai giuristi (e dagli
imperatori) a sostegno delle loro decisioni[24]. L’influenza dell’idea di
umanità sul diritto è «comprensiva e profonda», sottolinea lo stesso Fritz
Schulz[25], aggiungendo
opportunamente che nel campo giuridico «questa idea prende subito
quell’atteggiamento caratteristicamente pratico, che la stacca una volta per
tutte dalla nebulosa e utopistica speculazione greca»: essa, invero, non tende
certo a «risolvere l’ordinamento giuridico in una fraternità generale»,
incidendo invece sui singoli ambiti in cui questo si articola in modo più
penetrante e comunque differenziato, «nella misura a ciascuno più confacente».
E così, per proporre qualche esempio, nel settore della famiglia l’humanitas induceva un miglioramento
della condizione della donna e la mitigazione del rigido rapporto potestativo
tra genitori e figli; in tema di schiavitù assicurava qualche progresso nel
trattamento dei servi; in materia
negoziale favoriva il consolidarsi della direttiva che impone di «non speculare
sulle parole e sulle forme»[26] e di interpretare gli
atti secondo il loro contenuto e l’effettiva intenzione delle parti; nell’area
del diritto e del processo penale comportava un incremento delle garanzie
dell’imputato, giudicato per lo più da un organo terzo rispetto a chi assumeva
il ruolo di accusatore, una accentuata limitazione dei casi di applicazione
della pena di morte e l’osservanza del duplice principio della personalità
della sanzione[27]
e della graduazione della medesima in relazione alle circostanze soggettive e
oggettive del reato, alla parte in esso avuta dal colpevole e alla sua condotta
anteriore e posteriore al fatto criminoso[28].
Ciò che è racchiuso nella parola humanitas riesce dunque a fungere da vero e proprio propulsore, per
lo più sommerso, della crescita del sistema[29]: e non poteva essere
diversamente, perché l’idea di humanitas,
che trova il suo fondamento «nella natura razionale e libera dell’uomo, nella
realtà dei rapporti fra gli esseri umani», come evidenzia Carlo Alberto Maschi[30], implica la costante
ricerca di soluzioni normative, ermeneutiche e attuative capaci di soddisfare
quelle esigenze di contemperamento degli opposti interessi alle quali deve
sempre attentamente guardare chi opera nel campo del diritto, secondo
l’insegnamento di Celso.
Qualche volta, tuttavia, l’humanitas,
come già accennato, va oltre il suo consueto ruolo di invisibile principio
informatore dello sviluppo dell’ordinamento ed emerge nel parere del giurista
(o nella pronuncia del principe), quale specifico e unico motivo ispiratore
della determinazione che vi si legge: ed è proprio a questi casi che dobbiamo
volgere l’attenzione, non senza aver prima indugiato sul modo in cui i prudentes di età classica contribuivano
al ‘farsi’ dell’esperienza giuridica.
3. – Al loro tempo, le regole che
componevano quell’ampia parte dell’ordinamento che aveva riguardo ai rapporti
intersoggettivi provenivano in modestissima misura da fonti autoritative, quali
le leges rogatae, approvate dalle
assemblee dell’intero popolo, i plebiscita,
votati dai concilia della plebe, le constitutiones principum a carattere
generale (edicta e mandata), nonché, ma solo a partire dal
II secolo d.C., quando la collettività aveva ormai definitivamente smesso
l’esercizio della funzione normativa, i senatusconsulta,
destinati a loro volta a tramutarsi presto nelle orationes principum in senatu habitae. Fermo che anche sulle poche
regole così introdotte non mancava comunque l’interpretazione dei giuristi
imperiali, volta a chiarirne, e non sempre univocamente, la portata, per le
rimanenti che integravano il sistema privatistico sostanzialmente due erano i
canali attraverso i quali venivano alla luce: il primo rappresentato
dall’attività creativa dei nostri giuristi, che normalmente si esplicava in
relazione a singoli casi pratici, fossero essi realmente accaduti o di pura
fantasia[31];
il secondo – inariditosi peraltro verso il 130 d.C. per volere dell’imperatore
Adriano – dagli editti di alcuni magistrati che presiedevano all’impostazione
delle cause, come i pretori, i quali in essi non versavano disposizioni
generali e astratte del tenore di quelle che oggi siamo soliti reperire nei
testi legislativi, ma si impegnavano a concedere agli interessati di litigare
processualmente secondo gli schemi che vi erano elencati per far valere i
propri diritti, i cui presupposti erano talora enucleabili, grazie
all’imprescindibile ausilio dei soliti giuristi, esclusivamente da tali schemi
(è così, ad esempio, che i pretori, promettendo nei loro editti tutela
giudiziale, sulla base di un apposito modello, a chi non ricevesse in
restituzione il bene affidato temporaneamente in custodia a un terzo in
conseguenza del dolo di costui, oltre a dare pieno riconoscimento giuridico
alla figura del contratto di deposito, delineavano le condizioni, sulle quali
intervenivano poi i giuristi a scopo di delucidazione, al cui ricorrere sorgeva
in capo al deponente la pretesa, protetta appunto sul piano del diritto, alla
riconsegna).
Anche rispetto alle regole affioranti per la seconda via, che – diversamente
da quelle direttamente individuate dai prudentes,
confluenti nel ius civile – formavano
il ius honorarium (una gran parte del
quale era costituito dal ius praetorium),
l’apporto dei giuristi era quindi notevole, tanto più che erano proprio costoro
che non di rado suggerivano ai magistrati l’inserimento nei loro editti di
ulteriori mezzi processuali di tutela. Ma naturalmente i giuristi, per giunta
suddivisi – durante il I secolo d.C. e fino alla metà del II – in due scuole
contrapposte, quelle dei sabiniani e dei proculeiani, ben potevano professare
opinioni diverse tanto a livello di ricostruzione di regole derivanti da fonti
esterne a loro quanto a livello di produzione da parte loro di regole nuove: il
che rende ragione di quel particolare fenomeno, al quale già si è accennato,
che caratterizza il periodo del principato (e non solo questo) e che va sotto
il nome di ius controversum, per cui
tutto ciò che, sul piano giuridico, pensavano i giuristi, anche in modo
difforme, era comunque considerato diritto vigente e dunque attingibile dal
giudice chiamato a decidere la singola controversia.
D’altro canto, se i pareri, pur divergenti, dei giuristi
riuscivano a imporsi come diritto applicabile, ciò si giustifica per l’auctoritas che assisteva quelli che li
emettevano: un’auctoritas fondata
soprattutto sul loro sapere tecnico, riconosciuto dalla collettività entro cui
vivevano. Le sententiae dei prudentes, infatti, rappresentavano il
frutto di una riflessione condotta con metodo scientifico, non di certo l’esito
di capricciose valutazioni di stampo puramente politico e nemmeno di personali
pulsioni verso vaghe idee di giustizia. E risiede proprio qui il motivo della
perenne attualità del diritto romano, cui continuiamo a guardare nonostante da
tempo non valga più come diritto positivo: il suo ergersi a prodotto di una
speculazione razionale. Ciò ha infatti permesso a quel diritto, e in specie a
quanto elaborato dalla giurisprudenza classica, di essere ripreso quale diritto
applicabile, nell’assenza di iura propria,
in territori sempre più vasti del continente europeo a partire dall’XI secolo e
sino alle grandi codificazioni che si susseguono tra la fine del Settecento e
tutto l’Ottocento: esse stesse, del resto, intessute come sono di disposizioni
che cristallizzano alcuni momenti del pensiero giuridico medievale e moderno,
eretto, come appena detto, su quello romano, si collocano – al pari delle
codificazioni ancora più recenti alle quali in qualche caso hanno ceduto il
posto – nell’area segnata dall’ars boni
et aequi praticata dalla giurisprudenza classica, di cui perpetuano il
linguaggio e la grammatica concettuale.
Né il quadro tratteggiato era sostanzialmente alterato dalla
presenza del principe. Quest’organo, che già sappiamo restio ad avvalersi di edicta e mandata per introdurre norme generali e astratte atte a
disciplinare i rapporti tra privati, incideva sul loro assetto mediante
costituzioni a carattere particolare, le quali altro non erano se non
statuizioni relative a casi concreti, che assumevano la forma del decretum quando decidevano una
controversia giudiziaria e quella del rescriptum
e dell’epistula quando indicavano al
richiedente (che poteva essere una persona qualsiasi ovvero un magistrato o un
funzionario) la soluzione che in punto di diritto si doveva adottare rispetto a
una determinata fattispecie: esse dunque, oltre a replicare l’approccio
casistico peculiare dei prudentes,
all’interno del ius controversum si
ponevano, al pari delle opinioni di questi, come precedenti, pur se particolarmente
autorevoli (ma non tanto da precludere una loro successiva valutazione critica
in sede di dibattito scientifico[32]) in considerazione
dell’organo da cui promanavano[33]. Senza poi dire che a
predisporre le costituzioni in esame, soprattutto dal II secolo d.C., erano
proprio dei giuristi, addetti alla cancelleria imperiale: a dimostrazione che
tra questa e il ceto dei prudentes vi
era simbiosi e non certo antagonismo.
4. – Conclusa questa digressione,
possiamo tornare al punto donde essa aveva preso avvio: l’humanitas, che pur permea di sé l’esperienza giuridica tutta,
influendo potentemente ancorché latentemente sul suo divenire, talora appare
esplicitamente invocata nelle decisioni giurisprudenziali e imperiali quale
ragione che tecnicamente giustifica la soluzione che vi è enunciata.
Vero è, peraltro, che per un certo tempo si è dubitato della
genuinità del richiamo: proprio Fritz Schulz[34], ad esempio, era così
convinto che i giuristi del principato rifiutassero di adoperare la parola humanitas, da affermare perentoriamente
che là dove essa ricorre nei loro scritti sempre saremmo al cospetto di
un’interpolazione, cioè di un’aggiunta di matrice giustinianea[35]. Ma oggi, denunciati
dalla dottrina gli inaccettabili eccessi in cui era caduta la critica interpolazionistica,
anche con specifico riguardo ai frammenti di età classica nei quali si parla di
humanitas[36], possiamo credere, almeno
in via tendenziale, alla piena autenticità degli stessi[37].
Quanto a questi, non è la loro esaustiva rassegna che qui maggiormente
interessa[38]:
più utile per noi, dato il valore paradigmatico che a tutti può riconoscersi, è
ricordare il contenuto di qualcuno, onde toccare con mano la rilevanza che la ratio humanitatis assume nell’opera dei prudentes e nelle statuizioni del principe[39].
Cominciamo da un brano, collocato in D. 34,5,22, di cui è autore
Giavoleno Prisco, unico tra i giuristi anteriori a Giuliano[40] – cui l’imperatore
Adriano affiderà il compito, espletato intorno al 130 d.C., di fissare in via
definitiva il testo degli editti dei magistrati giusdicenti, bloccandone così,
come già detto, ogni potenzialità innovativa rispetto al diritto vigente – a
fare apertamente leva su ciò che è riconducibile all’idea di humanitas[41]: vi si dice appunto che è
humanius ritenere che il figlio
pubere sia sopravvissuto alla madre nel caso in cui entrambi periscano in uno
stesso naufragio e non si riesca a stabilire chi dei due sia morto per primo.
Proprio di Giuliano sono varie soluzioni che agli occhi suoi o di
giuristi posteriori s’impongono perché in linea con quanto l’humanitas richiede. In D. 28,2,13 pr.,
ad esempio, egli, humanitate suggerente
e in adesione al pensiero di Giuvenzio Celso, si pronuncia così con riferimento
all’ipotesi in cui, attribuiti per testamento i due terzi dell’asse al figlio
postumo e il residuo all’uxor ovvero
il terzo alla figlia che sopravvenga e i due terzi alla moglie, nascano un
maschio e una femmina: il patrimonio dovrà essere diviso in sette parti, di cui
quattro andranno al figlio, due alla moglie e una alla figlia. E ciò di contro
alla regula iuris per cui il testamentum dovrebbe considerarsi ruptum, stante la non corrispondenza
alle sue previsioni di quanto verificatosi successivamente alla morte
dell’ereditando, e in conformità alla reale mens
di costui, che intendeva beneficiare comunque la moglie, sia che il postumo
fosse maschio sia che fosse femmina, volendo per l’uno il doppio della quota
della madre e per questa il doppio di quella della figlia. Invece, e ancora ad
esempio, in D. 7,1,25,1 (… sed Iuliani
sententia humanior est …), 21,1,23,8 (…
et videtur mihi Iuliani sententia humanior esse) e 44,4,7,1 (… et habet haec sententia Iuliani
humanitatem …) Ulpiano dichiara di accogliere, in relazione a questioni
diverse, l’opinione di Giuliano in quanto gli sembra assecondare più
intensamente le esigenze, specie di equilibrata composizione dei contrapposti
interessi, che l’humanitas porta con
sé.
A ciò che attiene all’humanitas
è sensibile anche Pomponio[42], come rivelano alcune sue
decisioni: a prescindere da quelle contemplate in D. 8,2,23 pr. (… et humanius est …), 33,5,8,2 (… humanius autem erit …) e 40,4,4,2 (… attamen humanitatis intuitu valebit
legatum …), è su una in materia di disposizioni mortis causa, riportata in D. 28,5,29, che merita soffermarsi.
Avendo il testatore designato come eredi Tizio e Seio, ciascuno per una quota
pari a quella per la quale avrà istituito erede il testatore stesso, se ambedue
non avessero provveduto a nominarlo quale erede né l’uno né l’altro avrebbe
potuto succedergli, secondo quanto riteneva Labeone. Ma per Pomponio humanius est eum quidem, qui testatorem suum heredem scripserit, in tantam
partem ei heredem fore, qui autem eum non scripserit, nec ad hereditatem eius
admitti: per lui, quindi, più che l’aderenza alla volontà del testatore
assumeva qui importanza, veicolata dall’humanitas,
un’istanza di giustizia sostanziale[43].
Determinazioni giustificate sulla scorta di ragioni umanitarie si
rinvengono poi in tre testi di Marcello, tramandati da D. 5,2,10 pr. (… humanius
erit …), 13,5,24 (… Marcellus
respondit …: est enim humanior et utilior ista interpretatio) e 28,4,3. In quest’ultimo luogo è riferito di un dibattimento svoltosi
davanti al tribunale di Marco Aurelio[44], al quale potrebbe aver
assistito pure il giurista, che del consilium
dell’imperatore era membro[45]. Vi si discuteva
dell’efficacia dei legati contenuti in un testamento nel quale più non
figuravano eredi, avendo il testatore cancellato i nomi di quelli
originariamente indicati. In base a una humanior
interpretatio, che anche Marcello
mostra di approvare, il principe dichiara validi i legati, ancorché essi
potessero, e probabilmente dovessero, ritenersi nulli, al pari delle
disposizioni a vantaggio degli eredi, per la mancanza di questi. E inoltre
decreta che lo schiavo manomesso nello stesso testamento, il cui nome il
testatore aveva altresì cancellato, fosse nondimeno libero, in omaggio a quel favor libertatis che rappresenta una delle estrinsecazioni dell’idea di humanitas[46].
A questa si appellano inoltre Trifonino, Scevola[47] e successivamente
Papiniano[48],
per dare sostegno a loro opinioni innovative. Papiniano, ad esempio, in D.
16,2,16,1 può sostenere, humanitatis
gratia, che nei confronti di colui che fa valere un credito derivante da
una sentenza di condanna ed esigibile è opponibile in compensazione un credito
nascente anch’esso da una sentenza di condanna e non ancora esigibile.
Di Marciano, Paolo[49], Ulpiano e Modestino[50] sono infine parecchi
testi nei quali le costruzioni giuridiche proposte risultano sorrette da quell’humanitas che i quattro prudentes avvertono come valore che
spinge pressantemente verso soluzioni conformi alla ragionevolezza e idonee al
bilanciamento degli interessi in gioco. Basti in proposito citare due brani di
Ulpiano: il primo dei quali in D. 11,1,11,6, culminante nell’assunto che è humana, e perciò da prediligere, la sententia secondo cui la risposta data
dall’interrogato, per quanto incongrua rispetto alla domanda, non può comunque
ridondare a suo svantaggio quando non sia falsa[51]; l’altro in D. 18.3.4.1[52], dove è riferita
un’opinione di Nerazio[53], dalla quale si evince
che il compratore che avesse pagato un anticipo del prezzo, risoltasi la
vendita con lex commissoria[54], avrebbe potuto
recuperarlo tramite l’actio ex empto.
E invero, se il venditore, per regola generale, avesse avuto il diritto di
trattenere l’anticipo versatogli, Nerazio non si sarebbe espresso nel senso che
il compratore, allorché perde la parte di prezzo che ha pagato, fa suoi i
frutti, normalmente dovuti in restituzione. Il principio doveva dunque essere
questo, che il venditore era tenuto a ritornare l’acconto al compratore, mentre
questi era vincolato alla restituzione dei frutti. I contraenti, tuttavia,
avrebbero potuto convenire che il venditore fosse esonerato dal dovere di
rimborso[55]:
ma in questo caso il compratore sarebbe stato sollevato dall’obbligo di rendere
i frutti, appunto in base alla sententia
Neratii, che Ulpiano condivide perché
humana.
Non mancano, peraltro, testi nei quali si configura come inhumanus «un comportamento difforme
rispetto al diritto equitativamente valutato»[56]: sono comunque testi
giurisprudenziali[57], talora di commento a
costituzioni imperiali, che confermano la crescente rilevanza che l’humanitas assume in età classica quale ratio decidendi.
5. – Giova riconsiderare, a questo
punto, una circostanza già evidenziata, perché illuminante: è solo con Giuliano
che la giurisprudenza inizia a ostentare, con una certa frequenza, l’humanitas quale ratio decidendi: prima di lui, infatti, solo Giavoleno Prisco la
richiama espressamente a fondamento di una sua opinione.
Ma noi sappiamo anche che è proprio Giuliano a provvedere alla
cd. codificazione degli editti dei magistrati giusdicenti, assolvendo un
incarico conferitogli dall’imperatore Adriano: di quegli editti grazie ai quali
questi magistrati, e in particolare i pretori (titolari, non va dimenticato, di
un potere discrezionale fondato sull’imperium),
riuscivano, inserendovi e rendendo così accessibili agli interessati nuovi
mezzi processuali, a integrare il sistema del ius civile, a supplirne le lacune e a correggere le sue asperità,
in aderenza a quanto richiedeva l’aequitas,
intesa come complesso dei valori insiti nei rapporti umani ovvero, secondo la
raffigurazione di Alberto Burdese[58], «come esigenza di
adeguamento del diritto a sentimenti di giustizia, che è conformità alle
istanze dell’ambiente sociale nel contemperamento degli opposti interessi in
gioco»[59].
E allora, constatato altresì che l’aequitas era percepita come entità concettuale che assorbiva in sé
quanto sotteso all’humanitas – tanto
che Giustiniano, nelle sue Institutiones
(e precisamente in 3,2,3), discorrendo in tema di eredità, potrà accennare ai praetores che avevano dato luogo a un
diritto consono ai dettami dell’humanitas,
lodandoli poi proprio per questo[60] –, si spiana la via a una
plausibile supposizione. Isterilitosi il ius
honorarium, gli unici interpreti delle esigenze sprigionanti dall’aequitas, anche sotto il profilo
formale, rimanevano i giuristi, unitamente al principe, con cui collaboravano:
solo loro erano in grado di tradurre quelle esigenze in nuove soluzioni tanto
normative, sia pure sempre di impianto casistico, quanto interpretative e
applicative del diritto preesistente. Essi non godevano però di uno spazio
creativo illimitato: le decisioni che prospettavano dovevano invero presentare
comunque un margine di compatibilità con l’ordinamento complessivo, pur
caratterizzato dal ius controversum,
in cui si calavano. Per questo è probabile che i prudentes, specie allorché avvertissero l’opinione propria (o del
principe) come di rottura, tale cioè da forzare il sistema senza peraltro
vulnerarlo, sentissero nel contempo il bisogno di rinvigorirne la solidità
attraverso l’espresso richiamo ora dell’aequitas[61] ora dell’humanitas, che pur stava dentro alla
prima[62], a seconda di quella che
apparisse loro più pertinente[63].
6. – Giunti al termine del nostro
viaggio all’interno della giurisprudenza classica, che ci ha restituito
l’immagine di una classe di scienziati costantemente ispirata dall’idea di humanitas, sulla quale infatti, anche
quando non lo proclama, eleva le architetture giuridiche più ardite, resta da
meditare sull’attualità della sua lezione. Ma su questo punto ha già scritto, e
in modo impareggiabile, Luigi Labruna[64], sicché è quasi
giocoforza ripetere le sue parole.
«Il primo dovere di chi crea, applica, insegna, interpreta il
diritto è quello di riflettere sui suoi fondamenti, sulla centralità dell’uomo rispetto
alle leggi, che debbono essere prodotte al fine di garantire ed esaltare la
persona umana, nella sua complessità ed in un mondo in cui si incontrano sempre
più le diverse culture. Nel grande tesoro della giurisprudenza romana, in cui …
sono le radici del diritto occidentale, anche su questo problema centrale della
modernità rinveniamo un’apertura, un’indicazione di metodo che non deve essere
ignorata. ‘Tutto il diritto (omne ius)
è costituito a causa degli uomini: hominum
causa constitutum est’ ammoniva Ermogeniano, in un testo non a caso
tramandatoci da Giustiniano nei Digesta.
… L’umanità del diritto, e dunque anche l’umanizzazione della pratica
giuridica, di cui la società oggi ha particolarmente bisogno, segna la strada
per l’attuazione dei diritti umani, per la realizzazione del diritto vero».
Dobbiamo allora comprendere e trasmettere la consapevolezza «che aequitas e humanitas, equità e umanità, sono categorie giuridiche di grande
profondità. Storicamente recepite nella cultura che in libertà si riconosce
nella comune matrice romanistica e nei ‘valori comuni dell’Occidente’. Esse
determinano la differenza tra le società che partecipano della civiltà del
diritto e quelle repressive, nelle quali … ‘il concetto stesso di uomo è la
parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio’. Certo,
se guardiamo alla realtà, al quotidiano, pure in culture giuridiche di elevato
livello possiamo notare che talvolta, ancora, ‘Gewalt und Grausamkeit’ sono al
servizio del ‘diritto’. Ciò però non deve significare, mai più, inclinazione di
quest’ultimo alla durezza, all’iniquità, all’inumanità: bisogna smascherare
qualsiasi ordinamento, qualsiasi ‘diritto’, che non ponga l’uomo al centro
della sua scala di valori. Recuperare aequitas
e humanitas contro ogni barbarie.
Costruire un diritto che sia sempre più equo e più umano, perché possa servire
all’uomo, nel solco profondo della nostra alta tradizione giuridica comune, che
ci mostra come il diritto possa e debba essere posto al servizio dell’umanità e
dell’umanesimo».
[1] Cfr. A. Burdese, Manuale di diritto privato romano4, Torino, 1993, 57 ss.
Con C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza
europea2, I, La
giurisprudenza romana e il passaggio dall’antichità al medioevo, Torino,
1976, 56, giova precisare che Ulpiano morì al più tardi nel 228 d.C.
[2] Membro del consilium di Adriano, il nostro Celso –
come precisa F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana,
trad. it., Firenze, 1968, 190 – coprì più magistrature urbane, tenendo per la
seconda volta il consolato nel 129 d.C., e fu governatore della Tracia e forse
d’Asia.
[3] Cfr. F. Gallo, Diritto e giustizia nel titolo primo del Digesto, in SDHI, LIV, 1988, 8; P. Voci, ‘Ars boni et aequi’, in Index,
XXVII, 1999, 1.
[4] E compiutamente
formulata nel suo contributo Sulla
definizione celsina del diritto, apparso in SDHI, LIII, 1987, 7 ss.
[8] Secondo la proposta
di R. Martini, della quale dà conto, prendendone le distanze, lo stesso F. Gallo, Sulla definizione celsina del diritto, cit., 9.
[9] Secondo P. Cerami, La concezione celsina del ius. Presupposti culturali e implicazioni
metodologiche, I, L’interpretazione
degli atti autoritativi, Palermo, 1985, 18 s.: «ars sta a significare … ricerca (skepsis) e prassi (praxis)
metodico-specialistica, ovvero, in senso unitario e pregnante, ‘esperienza’
metodicamente qualificata, il cui ‘idion’
epistemologico, inteso nel precipuo significato tecnico di ‘individualità
scientifica’, è dato appunto dalla peculiarità del fine, che Celso riassume
nella formula tecnica ‘bonum et aequum’».
[10] Come già per il
Cerami e il Mantello, da lui esplicitamente richiamati, anche per G. Falcone, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’. Sulla raffigurazione
ulpianea dei giuristi (D. 1.1.1.1), in Annali
del Seminario giuridico della Università di Palermo, XLIX, 2004, 33 (la
citazione è dall’estratto), «l’‘ars’
di Celso è da intendere in senso teleologico, come ricerca che tende
all’applicazione del bonum et aequum».
[12] Cfr. M. Talamanca, Il ‘Corpus iuris’ giustinianeo fra il diritto romano e il diritto
vigente, in Studi in onore di M.
Mazziotti di Celso, Padova, 1995, 777: «nel ius controversum … tutti i pareri dei giuristi erano diritto, in
quanto astrattamente applicabili senza che nessuno potesse imputare al giudice,
che avesse scelto o l’uno o l’altro, di aver deciso contra ius; ma, contemporaneamente, il diritto effettivamente
vigente nella singola controversia veniva individuato soltanto attraverso la
pronuncia del giudice».
[13] Essi, per quanto qui
interessa, sono da consultare alle pagine 164 ss. della versione italiana
curata da V. Arangio Ruiz,
pubblicata a Firenze nel 1946 con il titolo I
principii del diritto romano.
[14] Cfr. W. Schadewaldt, ‘Humanitas Romana’, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
I, 4, Berlin-New York, 1973, 52 ss.
[16] Cfr. J. Gaudemet, Des ‘droits de l’homme’ ont-ils été
reconnus dans l’Empire romain?, in Labeo,
XXXIII, 1987, 11 s.
[17] Cfr. A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da
Adriano ai Severi, Torino, 1992, 21.
[18] «L’idée de humanitas implique
une large éducation spirituelle, et une préparation approfondie à la vie
civique», dice H. Kupiszewski, ‘Humanitas’ et le droit romain, cit.,
89.
[20] Particolarmente
significativo in proposito è Gell. 13,17, il quale registra anche il fenomeno
della progressiva riduzione di significato di humanitas, che finirà per designare unicamente, almeno presso la
gente comune, una generica inclinazione e benevolenza verso la specie umana,
dopo aver indicato pure, e anzi soprattutto, ciò che nel mondo greco è detto paideia, di cui sono manifestazioni l’eruditio e l’institutio in bonas artes. Proprio sulla base di questo passo, del
resto, M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., 41, che
pur non lo richiama espressamente, può osservare che «l’homo humanus è … il Romano che eleva e nobilita la virtus romana attraverso
l’‘incorporazione’ della paideia
assunta dai Greci». Per altre fonti letterarie che concorrono a chiarire il
campo semantico del vocabolo humanitas,
tra le quali rientrano brani importanti dell’opera di Cicerone e Seneca, cfr. S. Riccobono jr., L’idea di ‘humanitas’ come fonte di progresso del diritto, in Studi in onore di B. Biondi, II, Milano,
1965, 596 ss.; A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione
e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 21 ss.
[21] Esso va comunque
tenuto ben distinto da quello, moderno, di ‘human rights’. Come sottolinea M. Talamanca, L’antichità e i ‘diritti dell’uomo’, in Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti umani
e delle libertà fondamentali, in Atti
dei Convegni lincei, 174, Roma, 2001, 51, non si deve infatti equivocare
fra il problema dell’humanitas e
quello di tali diritti, «fra l’aspetto di un tipo di diritti – di cui, anche
nel presente, sono soggette a discussione ed a cautela l’individuazione e le
modalità in cui, nella loro effettività, essi si presentano nella concreta
fenomenologia giuridica – e quello dei valori che li sottendono, e che possono
assumere anche altri modi di evidenziarsi in diversi contesti storici in cui
l’operatività non ne è necessariamente correlata all’esistenza di ‘diritti
dell’uomo’ come li intendiamo noi moderni»: valori che «nel mondo antico si
possono riconnettere alla terminologia di humanitas».
[22] Cfr. C. Castello, ‘Humanitas’ e ‘favor libertatis’. Schiavi e liberti nel I secolo, in ‘Sodalitas’. Scritti in onore di G. Guarino,
Napoli, 1982, 138.
[23] Ma non così a ritroso
come vorrebbe S. Riccobono jr., L’idea di ‘humanitas’ come fonte di
progresso del diritto, cit., 590 ss.
[24] Dissonante è la voce
di C. Sanfilippo, che nella Recensione al lavoro del Maschi citato infra, alla nt.
[27] Cfr. M.I. Núñez Paz, ‘Humanitas’ y limitaciones al ‘ius occidendi’, in Scritti in ricordo di B. Bonfiglio,
Milano, 2004, 265.
[28] Cfr. L. Garofalo, Concetti e vitalità del diritto penale romano, in ‘Iuris vincula’. Studi in onore di M.
Talamanca, IV, Napoli, 2001, 95 ss.
[30] In ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un
esempio: nel diritto dotale romano, in Scritti
in memoria di L. Cosattini, in Annali
triestini, XVIII, 1, 1948, 271.
[31] Correttamente scrive M. Talamanca, Il ‘Corpus iuris’ giustinianeo fra il diritto romano e il diritto
vigente, cit., 779: «la metodologia dei prudentes
è essenzialmente casistica e topicamente orientata: essa aggredisce il caso
concreto e lo risolve mediante la sussunzione in categorie generali, che non
hanno però la rigidità di quelle elaborate dalla scienza giuridica
contemporanea a partire dai dati legislativi. A parte i problemi di
inquadramento espositivo, caratteristico strumento della giurisprudenza
casistica romana è la regula che
fissa un principio di carattere più o meno generale … che va in linea di
massima applicato ove ricorrano situazioni di fatto che in essa rientrino»:
tuttavia «la regula … va sempre
reimmersa nella concretezza dei nuovi casi che essa è chiamata a disciplinare».
Alla medesima, dunque, inerisce un elevato coefficiente di elasticità: come
ancora precisa lo studioso, «essa va applicata nei limiti in cui non ricorrano
nel caso concreto elementi di fatto specifici che, non tenuti presenti
nell’enunciazione del principio, impongano un’altra soluzione, ma può anche
essere superata in base ad una diversa considerazione della portata
politico-legislativa degli elementi di fatto già tenuti presente».
[32] Nell’ambito del
medesimo, infatti, accadeva che si valutasse – come nota M. Talamanca, Elementi di diritto privato romano, Milano, 2001, 22 – «la
rilevanza di ulteriori elementi di fatto che si potesse sostenere non aver il princeps tenuti presenti nella
decisione».
[33] L’attività attraverso
la quale il principe arriva a creare nuove norme – osserva M. Bretone, Storia del diritto romano, Bari, 1995, 246 – «è in se stessa
episodica»: ed è alla giurisprudenza che «spetta invece una funzione
unificatrice». Fra i suoi compiti vi è infatti anche «quello di guadagnare, o
riguadagnare, di volta in volta l’equilibrio ‘formale’ dell’ordinamento». La
giurisprudenza dà dunque rilievo ai criteri – quali l’aequitas e l’humanitas,
come l’autore precisa a pag. 237 – che spesso ispirano quell’attività e non
rinuncia a cogliere la forza innovatrice delle statuizioni imperiali: ma di
fronte al procedere saltuario di tale attività, «e alle sue ragioni spesso
contingenti, essa, in quanto scienza, si considera custode di una ratio più profonda, da cui dipende
l’unità e la continuità del diritto».
[35] Solo lievemente più
cauto è S. Riccobono jr., ‘Humanitas’, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano e di storia del
diritto (Verona, 27-28-29, IX, 1948), a cura di G. Moschetti, II, Milano,
1951, 226.
[36] Cfr. infatti, per
tutti, C.A. Maschi, ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un esempio: nel
diritto dotale romano, cit., 277 ss.
[37] Cfr. J. Gaudemet, Des ‘droits de l’homme’ ont-ils été
reconnus dans l’Empire romain?, cit., 12; G.
Crifò, A proposito di ‘humanitas’,
in ‘Ars boni et aequi’. Festschrift für W.
Waldstein zum 65. Geburstag, herausgegeben von M.J.
Schermaier und Z. Végh, Stuttgart, 1993, 79.
[38] Essa, del resto, già
si trova in A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’
nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 23 ss.
[39] Stando a G. Crifò, A proposito di ‘humanitas’, cit., 87, «lo scrutinio delle
testimonianze giuridiche in cui ricorre humanitas,
humanus ecc. permette di rilevare la
costanza e, per quanto riguarda la giurisprudenza, il prevalere … del
collegamento con l’evenienza funebre».
[40] Seppure di poco,
posto che il primo, attivo tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., di
Giuliano fu il maestro: cfr. C.A. Cannata,
Lineamenti di storia della giurisprudenza
europea, cit., 58.
[41] Cfr. C.A. Maschi, ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un esempio: nel diritto dotale
romano, cit., 289 s., che della genuinità del passo non sembra però del
tutto persuaso.
[42] Ne situa l’opera tra
Adriano e i Divi Fratres C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, cit., 56.
[43] Cfr. A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da
Adriano ai Severi, cit., 32 s.
[45] Cfr. A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da
Adriano ai Severi, cit., 40.
[46] Cfr. C.A. Maschi, ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un esempio: nel diritto dotale
romano, cit., 279 s.
[47] Il quale, nel
frammento riportato in D. 50,1,24, menziona anche una costituzione degli
imperatori Antoninus et Verus che
poggia su considerazioni umanitarie, come ricorda A. Palma, ‘Humanior
interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano
ai Severi, cit., 45 e nt. 39.
[48] Come si apprende da C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, cit., 58 s., il
primo giurista è attivo a cavallo del I e II secolo d.C.; il secondo tra Marco
Aurelio e Settimio Severo; il terzo, che morirà nel 212 d.C., sotto Settimio
Severo e Caracalla.
[49] La produzione di
questi, di poco più vecchio di Marciano, si pone tra Settimio e Alessandro
Severo: cfr. C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza
europea, cit., 56 e 58.
[50] Morto dopo il 239
d.C.: cfr. ancora C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza
europea, cit., 58. Quanto a Ulpiano, è da rinviare alla precedente nt. 1.
[51] La sententia di Ulpiano, scrive C.A. Maschi, ‘Humanitas’ romana e ‘caritas’ cristiana come motivi giuridici, in Jus, I, 1950, 272, dando rilievo alla
veridicità della risposta dell’interrogato, pur non formalmente esatta, è
rispettosa di «uno dei diritti essenziali della persona»: perché «chi pronuncia
determinate parole in modo consapevole e veritiero ha il diritto che esse
vengano rettamente interpretate, non deve subire il danno che deriverebbe da
una capziosa, formalistica interpretazione; come chi interpreta ha il dovere di
seguire tale criterio. Sono due aspetti, soggettivo ed oggettivo, dell’humanitas. L’interpretazione è ‘umana’
nel senso che l’interprete è sensibile all’idea di humanitas, riconoscendo quella ‘umanità’ che il dichiarante ha
l’aspettativa che non venga disconosciuta. Così l’idea di ‘umanità’ si insinua
nei più dettagliati meandri della vita di relazione, nel regolamento e nella
tutela che ad essa fornisce il diritto, lo irrora come una linfa vitale». E
questo, conclude l’autore, «è un aspetto eminente del diritto romano classico
giunto alla perfetta maturità».
[52] Esaminato in L. Garofalo, Scienza giuridica, Europa, Stati: una dialettica incessante, in O. Troiano - G. Rizzelli - M.N. Miletti,
Harmonisation involves history? Il
diritto privato europeo al vaglio della comparazione e della storia (Foggia,
20-21 giugno 2003), Milano, 2004, 104 s.
[53] Giurista il cui
impegno scientifico si ha sotto Traiano e Adriano: cfr. C.A. Cannata, Lineamenti
di storia della giurisprudenza europea, cit., 58.
[54] Cioè la vendita con
patto aggiunto dalle parti in virtù del quale essa sarebbe venuta meno ove il
compratore non avesse pagato il prezzo entro il termine consensualmente
stabilito.
[55] La perdita
dell’anticipo da parte del compratore, peraltro, si sarebbe trasformata in
elemento naturale della vendita con lex
commissoria in età postclassica, secondo un’autorevole dottrina ricordata
da P. Ziliotto, Vendita con ‘lex commissoria’ o ‘in diem
addictio’: la portata dell’espressione ‘res inempta’, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza
giuridica storica e contemporanea, in Atti del Convegno internazionale di studi
in onore di A. Burdese (Padova - Venezia - Treviso, 14-15-16 giugno 2001),
a cura di L. Garofalo, IV, Padova, 2003, 503 s., nt. 50.
[56] Così A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella
normazione da Adriano ai Severi, cit., 160.
[57] Anch’essi riferiti e
analizzati da A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’
nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 160 ss.
[59] Non va peraltro
sottaciuto ciò che pur è facilmente immaginabile: ossia che anche dietro ai
magistrati giusdicenti vi erano i giuristi, i quali ne guidavano sapientemente
la costruzione e la modificazione degli editti, mediando così tra le spinte
provenienti dall’aequitas e lo
strumentario tecnico idoneo ad appagarle. Esattamente, quindi, Letizia Vacca,
in un contributo non ancora pubblicato – che grazie alla cortesia dell’autrice
ho avuto modo di leggere (esso comunque apparirà, sotto il titolo L’‘aequitas’ nell’‘interpretatio prudentium’
dai giuristi ‘qui fundaverunt ius civile’ a Labeone, in una raccolta di
studi in ricordo di P. Silli curata da G. Santucci) –, precisa: «in questo
quadro, l’aequitas che giustifica le
innovazioni è formalmente riconducile al pretore, ma la determinazione del suo
contenuto concreto in rapporto all’analisi della struttura delle situazioni da
tutelare in modo nuovo o differente è il prodotto dell’ars del giurista, che indica le soluzioni esplicitando l’aequitas, che permea di sé il diritto
della civitas».
[60] In D. 3,1,1,4, del
resto, Ulpiano, dopo aver ricordato la proposizione edittale ‘si non habebunt advocatum, ego dabo’,
aggiunge: nec solum his personis hanc
humanitatem praetor solet exhibere, verum et si quis alius sit, qui certis ex
causis vel ambitione adversarii vel metu patronum non invenit. E in
proposito nota C.A. Maschi, ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un
esempio: nel diritto dotale romano, cit., 282 s., che non al testo degli
editti dei magistrati giusdicenti «noi dobbiamo chiedere una dichiarazione di
umanità, naturalmente introvabile», ma essenzialmente alla giurisprudenza,
«che, riflettendo sul contenuto di humanitas,
ritiene talvolta opportuno richiamarla e qualche volta anche usare questo
vocabolo».
[61] Si legge in M. Talamanca, Idee vecchie e nuove su Cels.-Ulp. 26 ‘ad ed.’ D. 12,4,3,7, in BIDR, C, 1997 (ma pubblicato nel 2003),
611, che, nella produzione dei giuristi, «le predicazioni relative all’aequitas, e più spesso all’aequum (esse, videri), servono ad
introdurre soluzioni non immediatamente deducibili dalle sententiae nel ius
controversum, e soprattutto quelle che vanno ad urtare – sulla base
soltanto dell’auctoritas prudentium – contro
taluni principi rigidi e consolidati nel tempo».
[62] All’humanitas, secondo G. Crifò, A proposito di ‘humanitas’, cit., 79, «è possibile riconoscere lo
stesso valore e la stessa funzione espressi dall’aequitas».
[63] Resta troppo
indeterminata, a mio modo di vedere, la relazione tra aequitas e humanitas in J. Daza, ‘Aequitas et Humanitas’, in Estudios
en homenaje al Profesor J. Iglesias, III, Madrid, 1988, 1229 s.
[64] Nell’ambito del
contributo intitolato Tra Europa e
America Latina: principi giuridici, tradizione romanistica e ‘humanitas’ del
diritto – che riproduce una lectio
doctoralis tenuta dall’autore in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte della Facoltà
giuridica dell’Universidad de Buenos Aires –, pubblicato in Roma e America. Diritto romano comune,
XVII, 2004, 30 e 32.