Voti di guerra
e regime pontificale della condizione.
La riforma del
200
Sommario: Premessa.
– I. Casi
precedenti e procedure pontificali. – 1.1. I ludi votivi di
guerra. – 1.2. I
precedenti ex certa pecunia.
– 1.3. La procedura di
consultazione del collegium pontificum.
– II. La riforma del
200. – 2.1. Il contesto storico e politico-religioso.
– 2.2. Il voto ex incerta pecunia ed il dibattito in
senato. – 2.3. Le
contrapposizioni interne al collegio pontificale. – 2.4. Il rectius esse del responso collegiale ed il problema della ratio ispiratrice. – 2.5. L’esecuzione del
decreto. – III. Le applicazioni successive. – 3.1. L’adempimento del voto
del 200. – 3.2. Il
voto del 191. – 3.3. M.
Fulvio Nobiliore ed il voto di Ambracia. – 3.4. Ulteriori rilievi in
merito al rectius esse. La disciplina
pontificale della condizione. – 3.5. Il voto del 172.
Con la presente opera ci poniamo l’obiettivo di
verificare come, riguardo alla disciplina dei voti di guerra fra il III ed il
II secolo a.C.:
a)
l’esperienza pontificale desse
sostanzialmente luogo ad una situazione di ius
controversum: ciò, sia nella diacronia,
per il verificarsi di mutamenti anche repentini delle tendenze
giurisprudenziali precedenti; sia, per certi versi, nella sincronia, data la possibilità di controversie anche accese tra i pontifices in merito alle questioni loro
sottoposte, pur destinate ad essere chiuse tramite un pronunciamento ufficiale
del collegio (decretum);
b)
sulle opinioni espresse dai singoli e sulle
decisioni finali assunte dal collegio incidessero, piuttosto pesantemente,
calcoli ed interessi di tipo politico, dovuti, per lo più, alle appartenenze
dei pontefici a questa o a quella fazione della classe dirigente romana del
tempo;
c)
la ratio
che, sul piano giuridico-formale, ispirava l’interpretatio pontificale, in materia di diritto sacro, non fosse
estranea a quella su cui si era andata stutturando, lungo un arco di tempo
assai esteso, la disciplina di importanti istituti del ius civile.
Di tutto ciò, cercheremo di dar conto, nel corso di
un’indagine che ha, a suo fulcro, il tentativo di spiegare perché, nel
Alla vigilia di una guerra importante i Romani cercavano
di rendersi propizi gli dei offrendo loro, in cambio della vittoria sperata,
voti solenni: piuttosto frequenti risultano essere, a partire dal III secolo a.
C., quelli aventi per oggetto la celebrazione di ludi magni.
Si trattava di voti che potremmo fin d’ora fondatamente
definire pubblici e occasionali[2].
Pubblici, perché chi assumeva l’impegno nei confronti degli dei era, tramite il
console, la città intera[3]:
i magistrati cum imperio[4],
infatti, pronunciando le parole di rito, vincolavano la repubblica e non se stessi,
tanto che il voto in seguito veniva per lo più adempiuto da soggetti diversi
dai promittenti[5],
ossia dai magistrati eletti per gli anni successivi, i quali parimenti
disimpegnavano l’intera comunità nei confronti della divinità. Occasionali,
perché tali voti – distinti da quelli ordinari, che i consoli pronunciavano
annualmente, al momento di entrare in carica, per assicurarsi la prosperità
corrente e normale dello stato[6]
– avevano appunto carattere eccezionale, essendo offerti per impetrare il favore
degli dei per la buona riuscita di un’impresa che ci si accingeva a compiere. I
ludi magni votivi, promessi agli dei
in situazioni di imminente e grave pericolo, erano dunque abbastanza rari, in
ciò differenziandosi dai ludi magni
detti anche maximi o Romani, che invece si celebravano
annualmente nel mese di settembre[7].
Da Liv. 31,9,10[8]
apprendiamo che le offerte votive dei grandi ludi a Giove erano state fatte,
prima del
Ora, la possibilità di identificare con esattezza tali
otto precedenti casi sembra preclusa dalla perdita della seconda decade
dell’opera liviana, anche in considerazione del fatto che le testimonianze
relative all’ammontare della somma sono da riferirsi, quasi certamente, al III
secolo, piuttosto che ad epoche più risalenti (V secolo e prima metà del IV);
per queste, invero, non mancano attestazioni nelle fonti[10],
ma esse francamente appaiono – anche per il carattere forse leggendario di
alcuni dei ludi cui si riferiscono – poco pertinenti alla nostra indagine[11].
Sulla datazione dei voti regna dunque grande incertezza, ma due dati sembrano
inoppugnabili, oltre a quello, ampiamente documentato, del voto del 217: ossia
che ludi magni erano stati offerti
anche prima di quell’anno, e che altri lo sarebbero stati, nel 208, dal
dittatore T. Manlio Torquato[12].
Il rilievo che veniva attribuito, in quel periodo, alla
cautela formale della certa pecunia è
in particolare evincibile dall’episodio dei ludi
votati, come detto, nel 217[13],
insieme ad un ver sacrum[14],
durante il pontificato massimo di L. Cornelio Lentulo Caudino[15].
In quell’occasione i grandi ludi –
che comunque avevano un carattere anche espiatorio, non solo propiziatorio,
come sarà nel 200 – erano stati per la verità prescritti dal collegio dei decemviri sacris faciundis; e non è dato
sapere con certezza se i pontefici fossero stati effettivamente interpellati
per l’elaborazione della formula del rito, giacché Livio fa sì cenno di una sententia del collegio circa gli
accorgimenti formali da osservare, ma la riferisce genericamente a tutte le
cerimonie prescritte dai sacerdoti in quei drammatici frangenti (omnia ea)[16].
Di solito, come fra poco meglio diremo, si richiedeva ufficialmente il parere
dei pontefici, quando la questione da risolvere presentava elementi di novità o
di particolare incertezza: circostanza, questa, che, se specificamente riferita
ai ludi, qui non sembra ricorrere,
considerato anche il fatto che certamente, come si è detto, voti ex certa pecunia erano già stati
pronunciati in passato. Ma non si può pregiudizialmente escludere che del
decreto pontificale relativo alla formula del ver sacrum[17]
sia stata fatta qui, direttamente o indirettamente, applicazione anche per i
ludi, come sembra suggerire il fatto che la condizione apposta ai due voti era
molto probabilmente la stessa (eiusdem
rei causa), ovvero la sopravvivenza della repubblica nel successivo
quinquennio[18].
Quel che ci preme, comunque, rilevare è che la somma da
mettere da parte per la celebrazione dei giochi venne immediatamente fissata:
essa ammontava, quasi sicuramente, a 333.333 e 1/3 di asse, secondo quanto
attesta Livio; genera invece qualche perplessità la testimonianza di Plutarco
che, esprimendo la somma in sesterzi e denari e manifestando incertezza sul
motivo della fissazione di quell’ammontare, cui potrebbe essersi fatto ricorso
per ragioni simboliche, sembra non tenere conto delle svalutazioni intervenute
in quel periodo storico, oltretutto per lui assai lontano. Sappiamo infatti che
una riforma monetaria risalente a quello stesso anno, il 217, aveva svalutato
il vecchio asse, riducendone il peso fino a tre quinti[19],
così che l’importo indicato da Livio, pur di per sé assai singolare[20],
sarebbe tuttavia equivalso ad una cifra intera prima della svalutazione:
duecentomila assi[21],
che probabilmente era il budget dei
giochi votati in precedenza[22],
e che in questo caso, sebbene espresso nella nuova moneta, rimase
sostanzialmente inalterato. Esso fu ricompreso nella formula, alla quale il
magistrato si sarebbe poi dovuto attenere nella nuncupatio[23]
del voto.
Dalle fonti sopra trascritte è possibile trarre qualche
spunto interessante in merito ad un altro tema che rileva molto in questa sede:
ossia la procedura di consultazione che, nelle materie di diritto sacro
pubblico[24],
veniva osservata al fine di ottenere la pronuncia del collegio pontificale su
questioni ritenute dubbie implicanti problemi nuovi circa le regole da
applicare o i procedimenti da seguire. Tale procedura, di cui si ha conferma
anche in altre fonti, non veniva, invece, quasi certamente osservata allorché
si trattava di questioni di routine,
per le quali il senato poteva comodamente avvalersi – anche in ordine
all’elaborazione di formulari, relativi a voti solenni o altri riti –
dell’esperienza pregressa[25].
Inoltre, il meccanismo con cui i pontefici venivano interpellati al fine di
ottenere l’emanazione di un vero e proprio decreto del collegio, inteso come
tale, era senz’altro diverso da quello applicato in materia di ius civile, ove l’attività di consulenza
veniva per lo più esercitata dal singolo sacerdote annualmente incaricato[26].
Nel procedimento in esame[27],
assai più complesso e solenne, erano invece coinvolti alcuni dei più importanti
organi dello stato. Era infatti il senato, con un suo primo provvedimento, ad
incaricare il magistrato di consultare ufficialmente il collegio dei pontefici[28],
i quali si riunivano, prendevano la decisione, la formalizzavano in un decreto[29]
e la comunicavano, tramite il pontefice massimo[30],
alle autorità interpellanti. Ed erano ancora i patres che, mediante un senatoconsulto che non va confuso con il
primo, ordinavano al magistrato di provvedere anche all'esecuzione del responso
pro collegio[31].
La necessità di questo secondo senatoconsulto derivava dal fatto che
l'esecuzione del decreto, che imponeva la celebrazione di pubblici riti secondo
particolari solennità, avrebbe poi comportato, nella maggior parte dei casi,
l'assunzione di vincoli di natura religiosa – perfettamente rilevanti sotto il
profilo del ius divinum – a carico
dell'intera cittadinanza[32].
Un pontefice incaricato dal collegio poteva anche intervenire alla celebrazione
della cerimonia; in particolare, ove si trattasse di procedere alla nuncupatio di un voto, egli ne dettava
al magistrato la formula (è il cosiddetto praeire
verbis)[33],
secondo quanto attestano fonti numerose[34].
La lettura di queste consente anzi di documentare un ulteriore rilievo: ossia
che i verba del voto erano suggeriti
dal pontefice massimo piuttosto che da un altro membro del collegio a seconda
che il rito - la cui tipologia sembra dunque di per sé non influire - si
svolgesse a Roma piuttosto che sul campo di battaglia, o comunque in luogo
lontano dalla città. Tale osservazione trova indiretta conferma anche in altri
testi[35],
da cui si evince che fino a tutto il III secolo al pontefice massimo, che
doveva accudire ai sacra, era fatto
espresso divieto di allontanarsi da Roma, o almeno dall’Italia. Nel caso dei ludi magni, come avremo modo di
riscontrare anche nel prosieguo di questo studio, il luogo della pronuncia del
voto era sempre Roma.
Il procedimento sopra descritto, perfettamente scandito
nelle sue varie fasi, fu certo seguito durante tutta l'età arcaica, e risulta
ancora osservato fra il III e il II secolo a.C. Non è comunque da escludersi
che, come in particolare risulta dall’episodio concernente il ver sacrum, talora il collegio
pontificale venisse interpellato ufficialmente dai magistrati anche al fine di
determinare con esattezza tecnica il tenore di una rogatio da presentare ai comizi.
Infine, rammentiamo che nelle fonti[36]
resta traccia anche di responsi dati dai pontefici a seguito di consultazione
informale, attuata in via meramente politica (in senato, soprattutto, dato che,
come si vedrà, i pontefici ne erano tutti solitamente membri e ne costituivano
una sorta di commissione interna per affari tecnici) o addirittura nell’ambito
dei rapporti interpersonali normalmente coltivati dai membri dell'élite cittadina. I responsa emessi in questi casi, pur muniti di una certa
comprensibile autorevolezza, non erano ritenuti in alcun modo vincolanti né per
le autorità interpellanti né tanto meno per gli altri membri del collegio che,
se consultati formalmente, avrebbero potuto sovvertire il suggerimento che in
precedenza era stato espresso. Ciò che avvenne proprio nella vicenda del 200,
che ci accingiamo ora ad esaminare.
Nel
Il passo relativo all’offerta in voto dei ludi e del dono[39]
va infatti inserito in un contesto più ampio, che muove da 31,5,1 ss. e che,
attraverso la descrizione in sequenza dei preliminari di guerra, traccia una
cronaca puntuale[40]
delle vicende politico-religiose che animarono la vita metropolitana di quel
tempo, quale soltanto l’utilizzo di fonti annalistiche[41]
poteva consentire a Livio di fare[42].
Da 31,5,1-4 e 7[43]
risulta che nel giorno stesso del suo insediamento, le idi di marzo, il nuovo
console P. Sulpicio Galba – il quale apparteneva ad una fazione allora avversa
a Scipione l’Africano –[44],
subito mostrandosi particolarmente zelante nel perseguimento dei suoi
obiettivi, riferì al senato circa la guerra contro Filippo; che venne approvata
una delibera con la quale si ordinava ai magistrati supremi di compiere un
sacrificio di vittime adulte e di rivolgere agli dei una precatio, nel cui testo, riportato da Livio con particolare
tecnicismo, compare un riferimento esplicito al conflitto che si stava per
iniziare[45]; che
le formalità rituali furono quindi correttamente adempiute e dall’esame delle
viscere, compiuto dagli aruspici, si evinceva l’assenso degli dei all’impresa
transmarina (e si osservi con quanta efficacia venga, seppur succintamente,
descritto il contenuto del responso dato dai sacerdoti etruschi: laetaque exta fuisse et prolationem finium
victoriamque et triumphum portendi[46]).
Più oltre si dice che ai consoli furono assegnate le
province:
La richiesta del voto dei ludi magni e del dono da parte della civitas religiosa si colloca a questo punto, ossia al culmine di
quel vero e proprio “crescendo” nelle manifestazioni di culto, che si è appena
descritto[56] e
che secondo noi è difficile spiegare senza pensare ad un’accorta attività di
manipolazione degli umori popolari operata da esponenti della classe dirigente,
o di una parte di essa.
L’uso che Livio fa del termine iussit potrebbe avallare l’ipotesi che si sia addirittura fatto
ricorso allo strumento della legge, come da taluno si è sostenuto in dottrina[57].
Ma considerando il fatto che come soggetto non figura populus, bensì civitas
(espressione astratta, che chiaramente equivale al concreto cives), e che lo stesso verbo iubere può all’occorrenza assumere un
significato desiderativo-esortativo[58],
è a nostro avviso preferibile accogliere l’ipotesi che l'opinione pubblica nel
suo complesso, presa ancora da suggestioni e scrupoli religiosi (forse anche
fomentati da esponenti della fazione favorevole alla guerra, come già sopra
dicevamo, allo scopo di giustificare le iniziative poi intraprese dal console
come principalmente ottemperanti alle esigenze espresse dalla cittadinanza)[59],
abbia esercitato una forte sollecitazione politica sul console affinché fosse
adottata una misura analoga a quella rivelatasi, in precedenza, tanto efficace
contro Annibale; è facile supporre, anzi, che chi ne aveva l’interesse abbia,
in quei frangenti, espressamente richiamato i precedenti. Inoltre, si tenga
presente la circostanza che dalle fonti a nostra disposizione non risulta che
per la pronuncia di un voto di ludi magni,
come invece per quella di un ver sacrum[60]
o per la dedicazione di un tempio[61],
fosse preventivamente necessaria la formale approvazione da parte del popolo di
una apposita delibera[62].
L’interessamento del console all’istanza della civitas chiama poi del tutto
naturalmente in causa il senato, cui il magistrato doveva rendere conto e che
era investito di una generale competenza in materia religiosa[63],
ed anche finanziaria. Sebbene infatti Liv. 31,9,6 non faccia ancora riferimento
alla questione della spesa, il problema della somma da utilizzare per il voto dovette certo porsi fin dall’inizio, e
nessuno ovviamente ignorava che per essa si sarebbe potuto attingere soltanto
all’erario, la cui amministrazione era di competenza esclusiva del senato, dal
quale dipendevano i questori urbani. Era quindi affatto normale che della cosa
si discutesse in senato, che potrebbe essere stato presieduto, in
quell’occasione, dallo stesso Galba, il quale era il destinatario dell’istanza
dei cittadini e, tutto intento alle operazioni di leva[64],
si trovava certamente ancora a Roma.
La questione relativa alla inaccettabilità di un voto ex incerta pecunia, di cui prima non si
era fatto cenno, nasce ora, in seguito
all’intervento del pontefice massimo P. Licinio Crasso[65],
alleato di Scipione. E’ lecito pensare che su di essa si sia aperta un’accesa
discussione in senato, essendo Crasso – oltre che membro censorius di quel consesso, ove poteva prendere la parola fra i
primi – anche molto famoso per la sua facundia[66], della quale potrebbero conservare
un’eco espressioni come moram attulit o
movebat, che figurano nel passo
liviano relativo al voto. Il pontefice massimo espresse dunque le sue
perplessità, presumibilmente obiettando (negari)
contro un diverso orientamento dapprima manifestato da altri, si trattasse
dello stesso console, nella sua relatio,
o di un ex-magistrato che avesse la facoltà di parlare prima di Crasso[67].
L’autorevolezza del pontefice massimo costrinse i senatori ad una pausa di
riflessione (moram)[68]
su una questione della cui importanza si era certo consapevoli (si rilegga in
proposito l’espressione quamquam et res
et auctor movebat, che appare stilisticamente efficace, con il verbo movere usato intransitivamente). Si
trattava, però, di una valutazione informale[69],
oggetto di una sententia espressa in
senato, non certo di un responso pro
collegio, non tale perciò da far sì che i sostenitori della tesi
contrapposta, forse anch’essi autorevoli, desistessero dai loro propositi, come
meglio vedremo fra breve.
Nel frattempo occorre domandarsi quale esattamente fosse
il contenuto dell’obiezione mossa dal pontefice massimo. Come abbiamo detto,
essa riguardava la spesa, ossia il fatto che nella formula del voto,
contrariamente a ciò che la tradizione richiedeva, non si volesse indicare la
somma di danaro da spendere per allestire i giochi che in futuro avrebbero
dovuto essere celebrati, qualora gli dei avessero accordato a Roma il premio
della vittoria: tale somma non poteva, secondo P. Licinio Crasso, essere
confusa con gli altri fondi genericamente destinati al finanziamento della
guerra, ma subito determinata e messa da parte (seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri). Il voto, il
cui dettato non contenesse un'indicazione in proposito (con la conseguenza che
la pecunia non risultasse seposita), sarebbe stato, per
l’esattezza, insuscettibile di un corretto adempimento. La irritualità sembra
perciò riferita, dal pontefice massimo, al momento della solutio voti piuttosto che a quello dell’obligatio, non essendo sotto questo profilo pregiudicato il
formalismo dell’atto. Neppure per Crasso un voto ex incerta pecunia sarebbe stato di per sé invalido: ma proprio
questo, forse, avrebbe comportato un grave rischio, quello della perpetua obligatio, ossia dell’effettiva
assunzione di un impegno non satisfattivamente adempibile, da parte del populus, nei confronti degli dei, dei
quali si sarebbe potuta così compromettere la pax[70].
L'intervento di Licinio Crasso dimostra con quanta
serietà fosse concepito, fino ad allora, quel genere d'impegni[71],
e quanta attenzione si dovesse ancora pretendere, a che nulla fosse lasciato
nel vago[72]. La
contestazione del pontefice massimo appare ispirata, dal punto di vista giuridico,
ad una ratio coerente: se l'oggetto
della promessa votiva era, in qualche modo, indeterminato, tale poteva essere,
innanzi tutto, la "risposta" degli dei, ed anche nel caso in cui la
condizione si fosse pienamente avverata, vi sarebbe stato poi il rischio, come
si è visto, di un adempimento irrituale. Il voto si fondava pur sempre su una
sorta di do ut des[73],
e quello che si offriva doveva essere determinato tanto quanto quello che si
chiedeva[74]
(ciò, senza pregiudizio alcuno, peraltro, in merito alla questione della
struttura del votum, che a nostro
avviso resta quella di atto unilaterale, sospensivamente condizionato
all'esaudimento del favore richiesto agli dei: fonte dell'obbligazione, del
dovere giuridico-religioso all'esecuzione della prestazione promessa non è una
convenzione intervenuta con la divinità, ma una dichiarazione unilaterale resa
dal vovens, risultando decisivo, in
proposito, il rilievo che non si hanno tracce di una manifestazione
dell’assenso del dio, ai fini del rituale compimento del rito[75],
neppure laddove un sacerdote è presente alla cerimonia, e che anzi in questi
casi, come già detto in precedenza, le funzioni del pontefice chiamato a praeire verbis erano di mera assistenza
al dichiarante, non certo di rappresentanza del dio per l'accettazione[76]).
Non si deve però trascurare che, come già dicevamo prima,
sottesi alla vicenda possono aver giocato un ruolo non indifferente interessi
politici contrastanti: essi probabilmente influenzarono i diversi orientamenti.
La repubblica infatti, all'indomani della seconda guerra punica, versava in una
situazione di emergenza finanziaria[77],
e non poteva permettersi il lusso di non utilizzare (e accantonare) parte del
denaro stanziato per la nuova guerra macedonica. Tale denaro, se il voto fosse
stato ex incerta pecunia, sarebbe
interamente finito nelle mani del console P. Sulpicio Galba, incaricato delle
operazioni, che con quella impresa avrebbe potuto consolidare il prestigio del
partito dei Servilii, cui egli apparteneva[78],
il quale, in quegli anni potentissimo, dopo la battaglia di Zama aveva
definitivamente preso le distanze dalla fazione scipioniana[79].
Gli interessi dei Sulpicii Galba nell'anno 200 erano, dunque, contrapposti a
quelli dell'Africano[80].
Il pontefice massimo, alleato di quest'ultimo, se fosse riuscito a far mettere
da parte il denaro, avrebbe forse potuto rendere più difficoltose le operazioni
di guerra e far sì che fossero rinviate ad un momento successivo, in cui non P.
Sulpicio, ma un uomo politicamente più vicino agli Scipioni avrebbe potuto
gestirle. Livio non riferisce di un vero e proprio scontro tra Licinio Crasso e
il console: questi forse, per non creare motivi di attrito personale con un
personaggio, quale era il pontefice massimo, comunque stimato e rispettato da
tutti[81],
ostentò una certa acquiescenza, sperando di poter conseguire comunque i suoi
obiettivi.
Il parere di Crasso, espresso preventivamente in senato,
non era vincolante in alcun modo: non lo era, in particolare, per gli altri
pontefici, che ancora non si erano ufficialmente pronunciati sulla questione
discussa. Al console fu allora ordinato di interpellare il collegio
pontificale. L’espressione iussus[82], usata in proposito da Livio,
corrisponde più alla sostanza del provvedimento senatorio che non alla sua
forma, il senatoconsulto, dal momento che difficilmente esso avrebbe potuto
essere poi disatteso dal magistrato, che anche fosse un console. Con il
senatoconsulto di rinvio si apre, a nostro avviso, anche in questo caso, la
normale procedura per la consultazione del collegio pontificale, quale abbiamo
in precedenza illustrato[83]:
se infatti, come sopra anticipavamo, la questione dibattuta restava, in punto
di diritto, di dubbia soluzione, per il carattere innovativo dei problemi che
essa sollevava, allora solitamente si incaricava il magistrato di inoltrare la
richiesta di un parere al collegio dei pontefici. Di fatto, in questa
circostanza, si cercò anche di ottenere l’emissione di un decretum che smentisse P. Licinio Crasso: per questo si è sostenuto
in dottrina che fu proposta una vera e propria impugnazione al collegio avverso
il provvedimento del pontefice massimo[84].
Ma basti dire che qui di un provvedimento formalmente adottato dal pontefice
massimo non si può neppure parlare[85].
E’ pensabile, comunque, che il partito favorevole al votum ex incerta pecunia contasse di
ottenere la maggioranza dei voti dei pontefici. Il responso pontificale era
espresso infatti, in caso di dissenso[86],
a maggioranza dei presenti, e non è da escludersi che, avuto riguardo ai
rapporti di forza esistenti all’interno del collegio e all’afferenza dei
singoli sacerdoti alle partes che
caratterizzavano la vita politica del momento, almeno cinque pontefici
potessero davvero esprimersi contro Licinio Crasso. Ma su questo punto, che
essenzialmente attiene alla composizione del collegio nel 200, ci sia qui
consentito di approfondire l’indagine, anche avvalendoci di studi accredidati
sulla prosopografia e la politica di quel tempo.
Le fonti a nostra disposizione ci permettono di affermare
che, quell’anno[87], la
compagine pontificale era così formata:
Pontefice massimo (plebeo): P. Licinio Crasso
Membri patrizi: M. Cornelio Cetego; Cn. Servilio Cepione; Ser.
Sulpicio Galba; C. Sulpicio Galba
Membri plebei: Q. Cecilio Metello; C. Livio Salinatore; C. Servilio Gemino; C. Sempronio Tuditano (o
ancora Q. Fulvio Flacco?).
Di questi, in particolare:
P. Licinio Crasso: esponente di
un'antica gens tornata alla ribalta
verso la metà del III secolo, primo di quella famiglia ad essere insignito
dell'epiteto Dives, era nato intorno
al 235 (cfr. Cic. Brut. 19,77; Plut. Cic. 25,3); cooptato all’interno del
collegio certo prima del 216, forse nel 218 (cfr. Bardt, Die Priester der vier grossen Collegien aus römisch-republikanischer
Zeit, Berlin, 1871, p. 12),
Crasso fu pontefice fino al 183 (cfr. Liv. 39,46,1-2), ma anche censore nel
210, pretore nel 208 e console nel 205 (cfr. risp.te Liv. 27,6,17-18; 27,21,5;
28,38,6). Un vero problema è rappresentato dalla sua edilità: secondo alcuni
(v. per es. Broughton, op. cit., p.
268; Bauman, op. cit., p. 92 ss.),
conformemente alla testimonianza di Liv. 25,2,1-2, essa sarebbe da collocarsi
nello stesso anno
M. Cornelio Cetego: forse già
investito del flamonium Diale, era
stato costretto ad abdicarvi nel 223 (cfr. Val. Max. 1,1,4) per un errore
commesso nell'esercizio delle sue funzioni; ma a partire dal momento, in cui
viene cooptato all'interno del collegio pontificale, nel 213 (cfr. Liv.
25,2,2), egli inizia la sua brillante carriera politica: pretore nel 211,
censore nel 209, console nel 204 (v. Broughton, op. cit., risp.te p. 273, 285, 305). Per imporsi sulla scena
pubblica si avvalse anche della sua capacità di convinzione e della sua abilità
oratoria: Ennio, nei suoi Annales (v.
in Cic. Brut. 14,58), lo elogia come suaviloquenti ore. A L. Cornelio Lentulo
Caudino, nel 213, sarebbe potuto subentrare, nel collegio dei pontefici, anche
Scipione, futuro Africano, ma gli venne preferito Cetego (cfr. Liv. 25,2,2),
appartenente ad una famiglia meno influente della stessa gens: forse ciò dipese dalla circostanza che Q. Fabio Massimo, che
allora dominava il collegio ed era avversario degli Scipioni, si oppose in modo
decisivo; anche se non poté impedire la cooptazione di Cetego, che comunque era
loro alleato (così, per lo più, in dottrina: cfr. Scullard, Roman cit., p. 77, 82, 87, 97; Hahm, Roman Nobility and Three Major Priesthoods
218-167 B.C., in TAPhA 94 (1963), p. 80-81; Briscoe, Livy cit., p. 1082; qualche incertezza
sulla linea politica di Cetego esprimono invece Cassola, op. cit., p. 422; Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain cit., p. 206).
Cn. Servilio Cepione: cooptato nel 213
(cfr. Liv. 25,2,1-2), appartenente al ramo patrizio dei Servilii, fece parte
del collegio fino al 174 (cfr. Liv. 41,21,8-9); fu anche pretore nel 205 e
console nel 203 (cfr. Broughton, op. cit.,
risp.te p. 302 e 310). Il suo avvicendamento a C. Papirio Masone non turbò gli
equilibri interni del collegio: in quel momento i Servilii, come i Papirii,
erano legati al gruppo emiliano-scipioniano, anche se poi, come già detto,
cercarono di ritagliarsi uno spazio autonomo, costituendo, in collegamento coi
Claudii e forse coi Fulvii, una forte coalizione a sé stante. Secondo Cassola, op. cit., p. 415-416, 419, egli aderì
alla linea dell'imperialismo estremista già sostenuta da Lentulo Caudino,
differenziandosi forse in questo anche dai Servilii Gemini.
Ser. Sulpicio Galba: cooptato nel
collegio nel 203 (cfr. Liv. 30,26,7-10), fu anche edile nel 209; fece parte
della legazione inviata a raccogliere
C. Sulpicio Galba: cooptato nel
collegio nel 202 (Liv. 30,39,6), è un personaggio non facile da identificare:
forse pretore nel 211 (cfr. Scullard, Roman
cit., p. 88; Broughton, op. cit.,
p. 273), certamente parente di quel Ser. Sulpicio Galba divenuto pontefice
l'anno prima e del Publio console nel 200 (secondo Briscoe, A Commentary cit., 1973, p. 79-82,
potrebbe essere il figlio di Publio Sulpicio Galba ed il nipote del pontefice
Servio, fratello dello stesso Publio). Anche nella cooptazione di Caio giocò
sicuramente un ruolo determinante l'appoggio degli alleati Servilii, ormai
tanto forti da imporre nel collegio la compresenza di due membri di una stessa
famiglia amica.
Q. Cecilio Metello: divenuto membro
del collegio nel 216 (cfr. Liv. 23,21,7), era figlio del pontefice massimo
Lucio, in onore del quale pronunciò una commossa orazione funebre (cfr. Plin. nat. 7,43,139); fu anche edile nel 209,
console nel 206 senza aver rivestito la pretura, dittatore nel 205 (v.
Broughton, op. cit., risp.te p. 286,
298, 301). Di parte scipioniana, Metello divenne in seguito il vero braccio
destro dell'Africano, dopo la cui morte - avvenuta nel 183 - si avvicinò forse
agli Emilii (cfr. Scullard, Roman cit.,
p. 36, 69, 82, 122, 242; Cassola, op.
cit., p. 408-409; Briscoe, Livy cit.,
p. 1082).
C. Livio Salinatore: pontefice dal 211
al 170 (cfr. risp.te Liv. 26,23,7-8; 43,11,13), fu anche pretore nel 202 e nel
191, console nel 188 (cfr. risp.te Broughton, op. cit., p. 316, 353, 365). Figlio del vincitore del Metauro,
coetaneo di Catone (cfr. Cic. sen.
3,7), era ancora molto giovane quando
nel 211 fu cooptato all’interno del
collegio. Pur appartenendo al partito emiliano-scipioniano, come gli
altri Livii (Scullard, Roman cit., p.
123; Cassola, op. cit., p. 408-410;
ma v. anche Bonnefond-Coudry, Le sénat
républicain cit., p. 206, per la quale i legami familiari non sembrano
rilevare molto in questo caso), egli qui forse assunse orientamenti diversi,
come già in passato aveva fatto il padre: v. in proposito Scullard, Roman cit., p. 87 nt. 3.
C. Servilio Gemino: subentrato a T.
Otacilio Crasso nel 210 (cfr. Liv. 27,6,15-16), fece parte del collegio
pontificale fino al 180 (cfr. Liv. 40,42,11-12); negli ultimi tre anni di vita
ricoprì anche la carica di pontefice massimo, succedendo a P. Licinio Crasso
(cfr. Liv. 39,46,1-2). Fu inoltre pretore nel 206, console nel 203 e dittatore
nel 202 (v. Broughton, op. cit., risp.te
p. 298, 310, 316). C. Gemino apparteneva al ramo plebeo della gens Servilia, ed infatti nel collegio
sostituì un plebeo. Nel 210, anno della sua cooptazione, e nel 209, quando
rivestì l'edilità (v. ancora Broughton, op.
cit., p. 286), C. Gemino era ancora legato al gruppo scipioniano, come
tutti i Servilii (v. Scullard, Roman cit.,
p. 69 nt. 2; Cassola, op. cit., p.
413). Questi però negli anni successivi abbandoneranno i vecchi alleati.
Q. Fulvio Flacco: cooptato nel 216
(cfr. Liv. 23,21,7), fece parte del collegio fino a dopo il 205, ma non è
possibile conoscerne con esattezza la data di morte (questa tuttavia, secondo
Scullard, Roman cit., p. 82, sarebbe
da collocarsi intorno allo stesso anno
C. Sempronio Tuditano: Livio
stranamente non riferisce del suo avvicendamento a Q. Fulvio Flacco, ma esso
quasi certamente avvenne tra i due, dato che Flacco è l’unico pontefice di
quell’epoca di cui non si conosce la data di morte e, corrispondentemente,
Tuditano l’unico di cui non si conosce la data di cooptazione (cfr. per es.
Szemler, in RE Suppl. 15 (1978), col. 380-382). Il rilievo di Briscoe, Livy cit., p.
1082 nt. 28 e 1083 e nt. 58, critico verso Scullard, Roman cit., p. 87 nt. 3, che
non prende neppure in considerazione questa eventualità, appare quindi
senz’altro giustificato; discutibile, tuttavia, in mancanza di appigli nelle
fonti, ci sembra l’opinione di Schlag, op.
cit., p. 150, che considera l’avvicendamento come sicuramente già avvenuto.
C. Sempronio Tuditano era probabilmente fratello del Publio console nel 204 o
del Marco console nel 185 (Szemler, in RE
cit., col. 382). Nel 197 fu eletto pretore e venne inviato in Spagna;
l'anno successivo gli fu prorogato il comando (cfr. Broughton, op. cit., risp.te p. 333, 337), ma di lì
a poco morì (Liv. 33,42,5). Non è facile da collocare tra le varie fazioni che
caratterizzavano allora la vita politica. Non vi è accordo, infatti, in
dottrina circa gli orientamenti politici assunti dai Sempronii Tuditani in quel
periodo: vi è chi li ritiene senz’altro membri del gruppo claudiano-serviliano
(Scullard, Roman cit., p. 37, 94,
136, 150 ss.), chi addirittura del partito scipioniano (Schur, Scipio Africanus und die Begründung der
römischen Veltherrschaft, Leipzig, 1927, p. 48-49, 71). Convincenti, perché
basate su di un esame attento delle fonti, ci sembrano, in proposito, le
argomentazioni di Cassola, op. cit.,
p. 406 e 407 nt. 8, il quale - pur sostenendo le ascendenze conservatrici, non
certo scipioniane, dei Sempronii Tuditani (cfr. Münzer, s.v. Sempronius, in RE 2,A,2 (1923), col. 1443-1445) - rileva nella condotta dei
familiari del nostro pontefice, e in particolare in quella del più famoso di
essi, Publio, elementi di forte ambiguità.
Come si vede, al partito del console appartenevano,
quanto meno, i due Servilii (Cn. Cepione e C. Gemino), i due Sulpicii Galba
(Servio e Caio, che erano addirittura suoi parenti), e Q. Fulvio Flacco
(ammesso che fosse ancora vivo), tutti in qualche modo legati al gruppo
claudiano-serviliano. Il pontefice massimo invece poteva teoricamente contare,
forse, soltanto sull’appoggio di Q. Cecilio Metello e M. Cornelio Cetego.
E’ immaginabile che egli abbia continuato a sostenere la
propria tesi, battendosi perché le ragioni della tradizione prevalessero sulla
logica dei partiti contrapposti e, quindi, la necessità della dictio certi per i voti, sempre
implicitamente riconosciuta, venisse ora espressamente sancita in un decreto
del collegio, attraverso la enucleazione di una vera e propria regola, che
avrebbe dovuto essere tendenzialmente osservata in ogni occasione futura.
Così però non sarà: il collegio si pronuncia a favore della nuncupatio di un votum ex incerta pecunia, nel corso di una seduta alla quale, peraltro,
noi non sappiamo quanti e quali pontefici abbiano effettivamente preso parte
(né d’altronde sappiamo se si facesse poi menzione del voto nei commentarii pontificum, dove
verosimilmente i decreta erano
conservati[88]).
Cicerone[89]
c’informa che le decisioni del collegio erano regolarmente adottate anche con
tre soli voti favorevoli, il che fa pensare che, in conformità ad una prassi
evidentemente precedente alla lex Ogulnia,
fosse già sufficiente, per la validità delle sedute, la presenza di quattro
pontefici.
Comunque siano andate le cose sotto questo profilo,
quello fu il tenore della decisione assunta dal collegio, ed il dissenso del
pontefice massimo, o di qualche altro membro, erano destinati a rimanere, rispetto
all'efficacia del responso finale, un fatto meramente interno e ininfluente.
Si assiste, in questo caso, ad una significativa
evoluzione della giurisprudenza pontificale in ordine alla disciplina di un
negozio solenne[90]: il
voto di una somma indeterminata era consentito ed anzi preferibile. La modifica
apportata al precedente indirizzo giurisprudenziale viene qui giustificata,
infatti, sulla base di un rectius esse[91]:
l'orientamento tradizionale era rovesciato, ma il cambiamento, che non poteva
spiegarsi come tale, si diceva ispirato ad una applicazione più coerente,
rispetto a prima, del ius divinum al
singolo caso.
Vi è da chiedersi in che cosa potesse precisamente
consistere questa maggior congruenza, con la natura del voto, di una
formulazione, in cui il quantum fosse
indicato ex incerta pecunia.
Di primo acchito si potrebbe ipotizzare che solo una
formula siffatta avrebbe potuto poi salvaguare la corrispondenza della quantità
da spendere con l’entità del beneficio, conseguito col favore di Giove, della
vittoria e della pace per il quinquennio: l’adempimento sarebbe stato così, in
un certo senso, più rituale. Se quest’ipotesi fosse fondata, gli avversari di Crasso
avrebbero, per così dire, esattamente rovesciato la posizione del pontefice
massimo, quale sopra abbiamo cercato di illustrare. Tuttavia vedremo come,
sulla base di una lettura attenta di altre fonti, che saranno esaminate nel
prosieguo di questo studio, questo primo tentativo di far uscire dal vago il rectius esse sia destinato a fallire.
Da ultimo, si osservi che i pontefici approfittano qui
dell'occasione per affidare al senato il compito di fissare la spesa al momento
dell'esecuzione: incombenza, questa, che – essendo il senato organo competente
nell’amministrazione dell’aerarium –
non poteva che gravare sui patres, i
quali vi ottempereranno senz’altro, come avremo modo di verificare in seguito.
Il decreto pontificale sarà stato, come al solito[92],
trasmesso al senato, che con sua delibera lo avrà reso esecutivo.
All’attuazione del voto partecipa lo stesso P. Licinio
Crasso, il cui dissenso, rispetto al tenore del responsum pro collegio ed alla sua esecuzione, rimangono, come già
osservato, un fatto formalmente irrilevante[93].
Egli, pur costretto a dettare al console le parole di quella formula che aveva
avversato, conservò, comunque, pressoché intatto il suo prestigio[94],
che gli derivava soprattutto dalla profonda conoscenza del ius pontificium e della tradizione, di cui si era fatto ancora una
volta coerentemente garante.
Quando dunque si doveva procedere, a Roma[95],
alla pronuncia solenne di un voto pubblico, che coinvolgeva l’intera comunità, il
pontefice massimo era tenuto a praeire
verbis, ossia a suggerire – precedendolo – le parole della formula al
magistrato, il quale le doveva declamare con assoluta esattezza. La
cooperazione del pontifex maximus era,
tecnicamente ancor più che giuridicamente[96],
indispensabile: la nuncupatio del
voto, regolata dal ius sacrum,
richiedeva ancor più attenzione del suo adempimento, perché qui un errore di
forma, come saltare una parola o sbagliarla, poteva sì comportare l'invalidità
e la necessità della ripetizione[97],
ma magari anche la effettiva assunzione di un impegno non preventivato e
difficilmente soddisfacibile dallo stato. Il formalismo, in materia sacra, era
forse ancor più stringente di quello in materia civile (il quale, d’altronde,
non potrebbe neppure concepirsi se non alla luce del rigore del ius sacrum che certo, a nostro avviso,
lo ispirò[98]): il
pontefice massimo dettava ad alta voce le parole del voto, proprio perché il
magistrato le pronunciasse senza commettere il benché minimo errore, non interrompendosi
né balbettando[99]. Le
formule dettate dal pontefice, per la cui versione definitiva si era certamente
attinto all’archivio, e in particolare ai libri
pontificii[100],
erano redatte in latino arcaico, ed anche nella redazione di nuove formule[101]
– o di nuove clausole di esse, come in questo caso – si cercava di rispettarne
lo stile.
Si osservi, infine, che la formula del voto del 200 – che
pur, come quello di diciassette anni prima, è un voto quinquennale, nel senso
che condiziona l'adempimento dell'obbligo alla sopravvivenza della repubblica
nei successivi cinque anni – si differenzia da quella dei ludi magni pronunciati in precedenti occasioni anche per l'aggiunta
della promessa a Giove di un dono.
Nel 194 il senato, con il medesimo provvedimento con cui
dispose la instauratio del ver sacrum[102],
irregolarmente celebrato l’anno prima, ordinò la celebrazione dei ludi magni[103],
che erano stati offerti in voto a Giove nel 200. Per la verità Livio, nel far
uso del termine una, sembra alludere
ai ludi votati ex certa pecunia nel
217, contemporaneamente al ver sacrum,
e forse anch’essi non ancora celebrati per via delle continue sconfitte e per
l'incertezza della vittoria finale. Questa tesi è effettivamente sostenuta da
taluni studiosi[104]:
tuttavia non ci trova concordi. Diverse considerazioni ci inducono infatti a
ritenere che i ludi celebrati nel 194 siano quelli promessi in voto sei anni
prima[105], i
primi ex incerta pecunia, e che
quell'una altro non sia che un banale
errore, forse ascrivibile allo stesso Livio[106].
Anzitutto, come chiaramente risulta da un altro dato
testuale[107], al
voto dei ludi magni del 217 si era
già adempiuto nel 208, presumibilmente in modo corretto, senza cioè che se ne
dovesse disporre la instauratio[108]. Del resto, nell’ipotesi che i ludi cui
accenna Liv. 34,44,2 si volessero identificare con quelli del 217, non si
vedrebbe la ragione per cui il senato avrebbe dovuto decidere di procedere alla
celebrazione dei giochi non nel 195, congiuntamente a quella del ver sacrum votato contemporaneamente, ma
nel 194, insieme alla ripetizione dello stesso, prima allestito irritualmente.
Inoltre, da Liv. 34,44,6[109]
risulta che il voto era stato pronunciato da Publio (non Servio !: ecco
un'altra imperfezione del testo[110])
Sulpicio Galba, console appunto nel 200[111].
Si osservi, poi, che con la vittoriosa conclusione della
seconda guerra macedonica si era avverata la condizione apposta al voto del
200, ciò che ne rendeva doverosa, proprio ora, l'esecuzione.
Ma soprattutto si noti che l'espresso riferimento alla
spesa consueta in quei casi implica sì lo stanziamento di una somma di pari
valore a quella del 217, un terzo di un milione di assi[112]
(potendosi senz’altro presumere che per i voti pronunciati in seguito, fra il
217 e il 200[113],
non fossero state, sotto questo profilo, introdotte modifiche, ché altrimenti
risulterebbe poco comprensibile l’uso del verbo adsoleret), ma dimostra ovviamente che essa non era già stata
fissata nella formula, bensì fu determinata nell’atto stesso in cui il senato
decise di adempiere al votum[114].
Il che starebbe a significare che la vera novità inerente al ritenere
ammissibile un votum ex incerta pecunia consisteva,
più che nell’introdurre la facoltà di fissare successivamente una somma diversa
da quella consueta, nel non “immobilizzare” da subito la pecunia destinata all’esecuzione del rito, come invece era nelle
intenzioni di Crasso.
Da questa vicenda è insomma possibile trarre già qualche indicazione
circa la ratio che fu realmente alla
base del rectius esse. E’ ora nostro
intendimento verificare ulteriormente l'utilità della riforma del 200, che
senza dubbio, comunque, veniva a semplificare di molto i rapporti tra la
repubblica e le divinità.
All’inizio del 191, alla vigilia della guerra contro
Antioco III di Siria, il senato dispose per l'esecuzione dei riti ritenuti più
idonei ad assicurare alla città il favore degli dei: tra questi, l’offerta in
voto di ludi magni e doni[115].
Anche per questo episodio, come per quello del 200, è
opportuno procedere ad una lettura complessiva delle fonti a nostra
disposizione. Possiamo senz’altro anticipare che le analogie riscontrabili tra
le due vicende sono molto strette: con tutta probabilità, ciò dipende dal fatto
che Livio attinge alle medesime fonti annalistiche e che forse queste, nel
descrivere lo stesso genere di avvenimenti, seguivano schemi prefissati[116].
Da Liv. 36,1,1-3[117]
apprendiamo che le questioni di ordine religioso ebbero la precedenza su tutte
le altre (il che non deve stupire, perché rispondeva ad una prassi da lungo
tempo consolidata, che il magistrato doveva osservare quando faceva la sua relatio in senato[118],
e che Varrone avrebbe poi teorizzato nel suo Isagogicum ad Pompeium, scritto dal reatino per Pompeo Magno,
console eletto per il 70, che nulla sapeva dell’esercizio del ius agendi cum patribus[119])
e che, analogamente a quanto era avvenuto nove anni prima, alla vigilia della
guerra contro Filippo V di Macedonia, ai consoli fu rivolto l’invito a
procedere ad un sacrificio di vittime adulte e ad una solenne precatio agli dei[120].
Tali riti sortirono gli effetti sperati, e gli aruspici risposero che quella
guerra avrebbe fruttato l’allargamento dei confini, la vittoria e il trionfo (terminos populi Romani propagari, victoriam
ac triumphum ostendi):
espressione sostanzialmente equivalente a quella adottata in 31,5,7[121],
ma stilisticamente diversa, forse per una scelta retorica attribuibile allo
stesso Livio[122]).
Come in precedenza, si riferisce anche della
presentazione ai comizi centuriati della proposta di guerra[123]
e della sortitio delle province tra i
consoli[124]:
nella sequenza, però, l’ordine è invertito, ed anzi il console che si fa carico
delle formalità inerenti alla lex de
bello indicendo, P. Cornelio Scipione[125],
non risulterà poi l’incaricato a condurre l’impresa militare. Convincente ci
sembra l’ipotesi[126]
che la ragione per cui fu qui seguita un’altra procedura, e venne scelto il
magistrato competente a gestire le operazioni di guerra solo a rogatio già votata, fu che si voleva
evitare di incorrere in inconvenienti simili a quelli verificatisi nel 200, con
il conseguente rallentamento dei preliminari di guerra, quasi certamente
provocati dalla contrapposizione che venne a crearsi tra le fazioni in campo,
quella favorevole e quella avversa a P. Sulpicio Galba. Anche la circostanza,
che si siano assegnate alle province le truppe[127]
prima ancora che i consoli, è a nostro avviso indicativa della particolare
cautela che il senato volle usare in questa circostanza: cautela che ancor più
risalta, e che sembra addirittura eccessiva, se si considera il fatto che
entrambi i consoli appartenevano al medesimo partito scipioniano[128].
Allo stesso modo, e per ragioni di attrazione espositiva interna, possono
essere spiegate, a nostro avviso, le altre sfasature, rispetto al modello
rappresentato dai riti del 200, tra i vari passaggi corrispondenti[129];
pur nel rilievo, per noi assai significativo, che essi sono numerosi e che
fortissime sono le analogie[130].
Subito dopo aver riferito della sortitio delle province, Livio finalmente menziona il
senatoconsulto con cui si ordinava ad entrambi i consoli di indire la supplicatio e al solo M’. Acilio
Glabrione[131] di
offrire in voto ludi magni e doni. Si
osservi come, mentre nel 200 la pronuncia di un voto non era stata in un primo
tempo presa in considerazione, e rappresentò anzi l’estrema istanza della civitas religiosa, qui venga invece
immediatamente ricordata, una volta identificato il magistrato competente per
la guerra (certa deinde sorte), e
venga anzi ordinata dai patres insieme
alla supplicatio, che pur
descrittivamente continua a precederla (il successivo rilievo, relativo alla
effettiva celebrazione della supplicatio di
due giorni – che in fondo ricorda molto, salvo che per la durata, quello di
31,8,2 – può essere senz’altro considerato una mera ripresa, riferendosi ancora
al rito indetto dai consoli).
E’ pensabile che stavolta, per procedere alla nuncupatio del voto di ludi magni e doni a Giove – cui pur
assistette il pontefice massimo che ne dettò le parole al console Acilio –, non
vi sia stato bisogno di interpellare ufficialmente il collegio dei pontefici,
del quale non si fa menzione. Esso aveva già stabilito, infatti, che il voto ex incerta pecunia era lecito: la nuova
formula era entrata a far parte dei libri
pontificum[132],
e poteva essere all’occorrenza esumata per quegli aggiustamenti che la
situazione contingente richiedeva, e che per lo più concernevano l’occasione,
la durata dei giochi, eventualmente i doni. I pontefici si saranno perciò
limitati, in questi casi, a ricevere il testo elaborato dal senato, a
confrontarlo con quello da loro archiviato per suggerire eventuali ulteriori
aggiustamenti formali, a dettarne le parole al magistrato nuncupans: nessuna di queste attività richiedeva di per sé
l’emissione di un decreto collegiale. D’altronde, dal testo della formula
votiva – che qui Livio riporta in maniera integrale, e che è presumibilmente
attendibile, anche perché in essa sono presenti arcaismi (si notino in
particolare le espressioni duellum,
in luogo di bellum, e faxit, in luogo di fecerit[133]),
generalmente riscontrabili nel linguaggio sacerdotale[134]
–, risulta che avvenne probabilmente proprio questo: ossia che si tenne
ampiamente conto dell’innovazione introdotta nel 200, pur con ritocchi ispirati
alle esigenze del momento.
Sostanzialmente analogo, anzitutto, appare il contenuto
della richiesta fatta a Giove, ossia la conclusione vittoriosa della guerra: ma
mentre in precedenti occasioni[135]
si era fatto espresso riferimento alla sopravvivenza della repubblica nel
quinquennio successivo, qui più semplicemente si auspica un andamento della
guerra conforme ai divisamenti del senato e del popolo romano. Ciò forse
perché, come già detto, si cercava di far sì che i verba della nuncupatio riproducessero
la reale situazione fattuale, che variava a seconda del momento in cui il voto
veniva pronunciato, e che ora nel 191 era senz’altro più favorevole, rispetto
al passato, per la repubblica romana, sulla quale non gravava più né, sotto il
profilo militare, la minaccia incombente rappresentata da Annibale e, seppur in
minore misura, dal suo antico alleato Filippo V di Macedonia, né, sotto il
profilo economico, il rischio di rimanere senza mezzi, dato che la vittoria di
T. Quinzio Flaminino a Cinoscefale aveva apportato grandi vantaggi finanziari,
come in particolare risulta dalle fonti relative al suo trionfo, oltre che al
pagamento di un’indennità di guerra[136].
Riguardo poi all'oggetto della promessa votiva sono
riscontrabili talune differenze, consistenti nell'esatta indicazione della
durata dei giochi da celebrare, ben dieci giorni[137],
e nell’aggiunta, a quella dei giochi stessi, dell'offerta di doni ai templi di
tutti gli dei; mentre nel 200 era stato promesso, più modestamente, un solo
dono, forse anche a causa della crisi finanziaria in cui si dibatteva allora la
repubblica e che ora, come già detto, era stata certamente superata.
A proposito dei doni, è opportuno
ricordare qui l’ipotesi, sostenuta da taluni studiosi, che proprio in
adempimento del voto ad omnia pulvinaria,
Acilio abbia poi collocato nel tempio capitolino, di fronte alla cella dedicata
a Minerva, il gruppo di tre signa, di
nixi (cfr. Fest. 182 L: Nixi di appellantur tria signa in Capitolio
ante cellam Minervae genibus nixa, velut praesidentes parientium nixibus, quae
signa sunt qui memoriae prodiderint, Antiocho rege Syriae superato, M’. Acilium
subtracta a populo Romano adportasse, atque ubi sunt, posuisse: etiam qui capta
Corintho advecta huc, quae ibi subiecta fuerint mensae), da lui portati a
Roma: v. Pape, Griechische Kunstwerke aus
Kriegsbeute und ihre öffentliche Aufstellung in Rom, Diss. Hamburg, 1975,
p. 10; Pietilä-Castren, New Men cit.,
p. 138-143. Si tratta di ipotesi che tendenzialmente non condividiamo. Il voto
congiunto dei ludi e dei doni, cui dopo la vittoria con Antioco si doveva
adempiere, non era stato personalmente offerto da Acilio come generale, ma
dallo stesso nella sua qualità di console su disposizione del senato, e proprio
per questo avrebbe dovuto essere poi adempiuto secondo modalità procedurali del
tutto analoghe, e quindi non personalmente da lui. Ora, siccome Acilio non
rivestì più la carica di console né quella di pretore, siamo portati a ritenere
che l’episodio descritto nella fonte sopra riportata non sia riferibile
all’adempimento del voto, di cui peraltro nulla si sa; inoltre niente nel testo
sopra trascritto induce a pensare che a quel comportamento Acilio sia stato
indotto da una pronuncia del senato (si noti anzi l’espressione subtracta populo Romano), senza
considerare il fatto che non si fa menzione alcuna dei ludi. Si osservi infine
che dalle fonti a nostra disposizione (cfr. Liv. 40,34,5 e Val. Max. 2,5,1)
risulta che Acilio, durante la guerra con Antioco, offrì agli dei anche voti
personali; sebbene, per la verità, non si abbia alcun riscontro diretto di una
promessa di doni fatta a Minerva.
Inoltre si osservi che anche in questo frangente, proprio
come nel 200, è il nuovo console in carica, M'. Acilio, destinato al comando
della guerra, a pronunciare le parole del voto, che il pontefice massimo gli
detta.
Ma il dato più interessante, che concerne l'oggetto dell'offerta,
è rappresentato naturalmente dal fatto che, come quello di nove anni prima,
anche questo del 191 è un voto ex incerta
pecunia: inserita nella formula compare una clausola relativa alla somma da
spendere per i giochi e per i doni, che avrebbe dovuto essere stabilita in un
secondo momento dal senato. Risulta qui ribadito, pertanto, il principio
sancito con il decreto del 200, al quale il pontefice massimo P. Licinio Crasso
pur si era tanto opposto, ma che aveva segnato un mutamento evidentemente
irreversibile nella disciplina delle offerte votive.
Si noti infine che la clausola contenuta nell'ultima
parte della promessa – ossia che questa sarebbe stata correttamente adempiuta (ludi recte facti donaque data recte sunto)
qualunque fosse il magistrato che vi provvedesse, e parimenti il tempo e il
luogo –, pur rappresentando forse un’innovazione rispetto al 200[138],
richiama senz’altro alla memoria talune disposizioni contenute nella formula di
altri voti, come quello del ver sacrum del
217, con le quali ci si voleva appunto cautelare contro il rischio che l'atto
di esecuzione del voto fosse poi da ritenersi nullo per certe irregolarità in
cui si era incorsi[139].
Era infatti propria della natura dell’atto religioso una certa “minuziosità”
delle clausole, per ricomprendere tutti i possibili eventi futuri nel modo più
generico possibile, al fine di evitare cause di irritualità nell’adempimento ed
il conseguente obbligo di procedere alla instauratio
(la quale fra l’altro, per giochi di dieci giorni, avrebbe potuto rivelarsi
fin troppo dispendiosa)[140].
In particolare, però, la previsione relativa
all’eventualità che il voto venisse poi eseguito da un altro magistrato appare
affatto scontata, dal momento che ciò costituiva una caratteristica normale dei
voti pubblici (offerti per lo più in
quinquennium[141] e, soprattutto, in nome del populus, il solo che formalmente
assumesse l’impegno)[142].
Anche la previsione relativa al luogo dell’adempimento sembra per la verità
inutile, dal momento che non si vede quale norma avrebbe altrimenti imposto che
i giochi poi si tenessero nello stesso luogo in cui erano stati offerti, o
comunque in un luogo preciso. Si tratta perciò, a nostro avviso, di clausole di
stile.
La previsione concernente il tempo dell’adempimento, che
in qualche modo ricorda quella di chiusura del ver sacrum, non a caso celebrato con molto ritardo rispetto
all’avveramento della condizione, sembra poi tener conto del fatto che nessun
magistrato avrebbe potuto procedere all’esecuzione del rito, se non quando lo
avesse stabilito il senato, che oltretutto ora doveva anche indicare la somma
indispensabile per i giochi e i doni[143].
Altra significativa applicazione della riforma attuata
nel 200 si ebbe nel
Oltre ai voti ordinati dal senato nell’imminenza di
guerre o altri gravi pericoli, esistevano anche quelli promessi dai generali di
propria iniziativa, inconsulto senatu.
Era, questa, una prassi affermatasi da relativamente poco tempo[145],
ma destinata a diffondersi sempre di più, di pari passo con gli atteggiamenti
individualistici dei comandanti romani: essi pronunciavano tali voti lontano da
Roma, prima di ingaggiare battaglia con l’esercito avversario; oggetto della
richiesta fatta agli dei, solitamente in cambio della dedicazione di un tempio[146]
o della celebrazione di giochi, era naturalmente l’esito vittorioso dello scontro
in corso. La promessa votiva, in questi casi, poteva essere eseguita solo con
l'autorizzazione successiva del senato, in mancanza di quella preventiva alla
sua nuncupatio: ciò non solo perché
occorreva verificare la validità del voto e quindi la sua idoneità ad impegnare
lo stato, ma anche perché vi era sempre il rischio che i comandanti vittoriosi,
per rendere il più possibile sontuosa la celebrazione del rito[147],
intendessero impiegare somme eccessive, attingendo comodamente, oltretutto, al
bottino di guerra.
Il magistrato cum imperio esercitava il suo potere discrezionale in ordine alla
ripartizione della preda bellica, di cui una parte era solitamente versata
all’erario (v. per es. Liv. 39,5,7-10, riportato infra, nt. 149), una parte distribuita fra i soldati (v. per es.
Liv. 39,5,17), una parte ancora trattenuta dal magistrato stesso, anche per
diverso tempo (si trattava delle c.d. manubiae,
per cui v. infra); quest'ultima non
diveniva di sua proprietà, dato che egli doveva utilizzarla per scopi sacrali
o, in ogni caso, di pubblica utilità, ma col passar del tempo gli abusi si
sarebbero fatti sempre più frequenti. Tale potere discrezionale non poteva
essere comunque esercitato in maniera indiscriminata: circa il bottino e le sue
ripartizioni dovevano essere offerte spiegazioni al senato, che poteva anche
non concedere il trionfo. Riguardo poi al rapporto tra i voti offerti dai
singoli comandanti e i fondi da utilizzare per l’esecuzione delle promesse
fatte agli dei, occorre rammentare che non sempre, per ragioni appunto di
ordine finanziario, il senato procedeva alla ratifica del voto (v.
significativamente in proposito Liv. 36,36,1-2): ciò costringeva il magistrato
a ricorrere, anziché ad una parte del bottino già versato all’erario, ai suoi
fondi personali (cfr. sul punto Mommsen, Staatsrecht
cit., I, p. 245-246) oppure alle manubiae,
a meno che, naturalmente, queste non fossero state riservate fin dall’inizio
all’esecuzione del voto[148].
Ebbene, M. Fulvio Nobiliore[149],
il giorno stesso della conquista di Ambracia, aveva offerto in voto ludi magni[150]
a Giove Ottimo Massimo, costringendo poi gli Ambraciesi e gli abitanti delle
altre città vinte a contribuire al relativo finanziamento: aveva così raccolto
cento libbre d'oro (circa quattrocentomila assi[151]),
che erano confluite nel bottino di guerra e che ora, nel 187, egli pensava di
far appunto separare (secerni, che
richiama il seponi usato in 31,9,7)[152]
dalle altre somme, destinate ad esser portate in trionfo e versate all’erario[153],
ed interamente utilizzare per l’adempimento della sua promessa.
Non si fa questione, qui, quindi delle
manubiae, che il Nobiliore aveva riservato a sé e che furono invece
utilizzate per la costruzione del tempio di Ercole delle Muse, in esecuzione di
un’altra offerta votiva fatta dallo stesso M. Fulvio: in proposito v. Cic. Arch. 11,27[154].
Di ciò, almeno, cercava di convincere il senato, al quale
spettava la ratifica del voto. Ai patres,
tuttavia, quella somma pareva un po' eccessiva. Ma se da una parte si voleva
evitare che quote troppo consistenti del bottino andassero spese in giochi e
riti vari, dall'altra vi era il timore che, attenuando la magnificenza dei ludi
da celebrare, si potesse mancare di rispetto agli dei, non ottemperando a
quella stessa promessa votiva che pur il senato stava riconoscendo valida. La
questione appariva piuttosto delicata, come tutte quelle, del resto, afferenti
alla spesa di cerimonie religiose. Il voto, su questo non ci sono dubbi, era ex incerta pecunia, ché altrimenti non
avrebbero potuto sorgere discussioni sulla necessità di destinare
effettivamente le cento libbre d’oro alla celebrazione dei giochi, in
attuazione di un voto ritenuto valido. Si trattava però di stabilire se
l’impiego di quella somma, raccolta ad
opera del Nobiliore subito dopo la sua vittoria, dovesse considerarsi
sacralmente vincolante, come certo lo stesso Nobiliore sosteneva, non soltanto
per gli evidenti interessi politici ed elettorali connessi alla celebrazione di
pubblici giochi, ma anche per il tenore della formula del voto, la quale, pur
contenendo quasi certamente la solita clausola relativa alla fissazione
successiva della somma da parte del senato (tantam
pecuniam quantam senatus decreverit, o simile[155]),
tuttavia forse qui ne menzionava anche la fonte (ex auro coronario, per esempio[156]).
Ciò spiega allora la decisione del senato di far
interpellare il collegio pontificale: da chi, per la verità, non si sa bene,
dato l’uso che Livio fa dell’infinito passivo consuli, e dato che i consoli erano entrambi lontani da Roma[157];
ma si può senz’altro ipotizzare che a consultare i pontefici sia stato, qui, lo
stesso magistrato che aveva presieduto la seduta, in cui si era discusso della
concessione del trionfo, ossia S. Sulpicio Galba[158],
al quale, infatti, nella sua qualità di pretore urbano[159],
spettava di presiedere il senato, come di norma quando i consoli erano assenti[160].
Al collegio viene appunto posta la questione se per la celebrazione dei giochi
dovesse essere speso omne id aurum:
la domanda, come si evince dal ricorrere della particella num, postulava una risposta negativa, il che sta a significare che
i patres, nonostante il grande
scrupolo dimostrato, si aspettavano dal collegio una decisione favorevole,
contando probabilmente sul fatto che l’oro, proprio perché collatum a civitatibus in eam rem, era stato pur sempre raccolto
dopo il voto. L’impressione che ricaviamo dal tenore della richiesta è insomma
questa, ossia che il senato abbia voluto sollevare un problema di fatto, con la
speranza che i sacerdoti lo riconoscessero poi come tale, avulso dalla
circostanza dell’applicazione di norme di ius
sacrum.
Così avverrà: il responso pontificale, centrato sulla pertinenza
o meno alla religio della somma da
spendere in ludos, esclude un qualsiasi
rapporto tra la sfera dei valori religiosi, legati al carattere sacro dei
giochi votati, e la fissazione dell’ammontare della spesa. Stabilire quindi se
si doveva impiegare l’omne id aurum o
meno o, in teoria, ancor di più, era un problema di fatto[161],
che non avrebbe inciso sul rituale adempimento del voto ex incerta pecunia, della cui quantificazione era arbitro (come ci
pare, anche in questo caso) esclusivamente il senato.
Vi è chi, in dottrina[162],
pone in sostanza la questione se sulla decisione allora adottata dai pontefici
possano aver influito considerazioni di carattere politico, in ordine al
prevalere del partito favorevole al Nobiliore o di quello favorevole al suo
rivale Emilio Lepido[163],
e alla formazione delle relative maggioranze in seno al collegio, oltre che
all’assemblea senatoria. L’episodio in esame, tuttavia, non può essere, a
nostro avviso, sotto questo profilo, facilmente equiparato al precedente del
200, giacché qui non si trattava di sovvertire un precedente orientamento
giurisprudenziale, bensì di inserire la nuova pronuncia nel solco di un
orientamento consolidato, risultando ormai preminenti, rispetto alle ragioni di
politica tout court, quelle, per così
dire, di “politica del diritto”: ciò potrebbe essere confermato, forse, anche
dal carattere di per sé “neutro” del contenuto del responso pontificale, che
sul problema dell’ammontare della spesa, cui corrispondevano gli interessi
politici del Nobiliore, si limita a rinviare alla competenza del senato, senza
dare indicazione alcuna né in un senso né nell’altro. Non ci sembra perciò
indispensabile, in questa circostanza, studiare con attenzione la composizione
della compagine pontificale di quell’anno, in relazione alla rappresentanza che
all’interno di essa avevano i vari gruppi politici.
Per la verità i patres,
chiarito che nessuna obbligazione sacrale si opponeva al ridimensionamento
della somma proposta dal Nobiliore, preferirono rimettere a lui la
determinazione della spesa, purché questa non eccedesse gli ottantamila assi[164]
(che erano pur sempre una somma principesca, anche se di circa cinque volte
inferiore a quella che il Nobiliore avrebbe voluto, e di molto anche rispetto a
quella di 333.333,333, che veniva tradizionalmente impiegata per
l'organizzazione dei ludi magni in
onore di Giove). Il senato quindi, anziché fissare direttamente il quantum, come negli altri casi, qui si
limita ad imporre una sorta di taxatio[165].
Si osservi che anche otto anni dopo,
allorché il console Q. Fulvio Flacco chiese di celebrare i grandi ludi, in
adempimento di un suo precedente voto, analogo al nostro, il senato stabilì che
non fosse superata una certa somma, e che questa, attraverso un espresso rinvio
all’episodio da noi qui esaminato, venne identificata in quella effettivamente
spesa dal Nobiliore nel 187[166].
Nella vicenda appena trattata si constata, ancora una
volta, l’utilità della riforma introdotta nel 200: a distanza di tredici anni
dalla pronuncia del primo votum ex incerta pecunia e di quattro da
quella del secondo, si può senz’altro affermare che il collegio consolidi il
proprio orientamento giurisprudenziale[167].
Ora, però, il fatto che i pontefici risolvano qui una
questione in qualche modo diversa rispetto al passato ci consente di
approfondire il problema concernente la ratio
che sta alla base del rectius esse.
Si osservi infatti che, se quanta impensa
in ludos fieret non concerne la religio,
è allora difficile, come già sopra anticipavamo, pensare di trovare il
fondamento del rectius nella
corrispondenza, possibile solo se il voto è ex
incerta pecunia, col beneficio arrecato dalla vittoria e dalla successiva
pace, quantificabile con l’ammontare non soltanto della preda quanto anche
delle contribuzioni in denaro poste a carico della parte soccombente (le quali
avevano fra l’altro, come noto, carattere periodico[168],
e perciò avrebbero potuto essere, in teoria, esattamente imputate al
quinquennio, o decennio[169],
menzionato nei voti). Anche un rilievo di ordine esegetico, d’altronde, ci
dissuade dal seguire questa strada, ossia il fatto che appigli per la
valutazione dei vantaggi arrecati dalla guerra non possono trovarsi nella
formula dei voti, la quale anzi spesso contiene il riferimento all’isdem status rispetto al passato.
Il fondamento va invece indagato alla luce
dell’impostazione che al problema aveva dato Crasso, ossia se fosse più
congruo, o meno, col carattere del votum non
costringere l’erario a distogliere (seponere)
fin dall’inizio una parte delle somme stanziate per la guerra.
Ebbene, l’unica ipotesi formulabile al riguardo ci pare,
a questo punto, la seguente, ossia che la maggior conformità al diritto sia
stata affermata sulla base del rilievo che la rinuncia ad impiegare tutto il
denaro nella conduzione della guerra avrebbe potuto teoricamente provocare una
sconfitta, che era proprio ciò che si chiedeva alla divinità di scongiurare,
senza che poi ne conseguisse un effetto veramente liberatorio, data
l’impossibilità di attribuire totalmente a cause non umane la mancata vittoria.
Il ius sacrum, in altre parole, imponeva che la linea di condotta dello
stato nei confronti della divinità non fosse intrinsecamente contraddittoria:
non si poteva cioè promettere di fare qualcosa, a condizione che si verificasse
un determinato evento, e contemporaneamente adottare comportamenti che, seppur
finalizzati all’adempimento, potessero eventualmente impedire, o rendere meno
facile, l’avveramento della condizione. Se anche poi la guerra non fosse stata
fortunata, vi sarebbe stato il rischio che la repubblica restasse comunque
obbligata.
Nel responso dato dal collegio in questo caso è dato
forse scorgere un’applicazione di quel medesimo principio che, già accolto dal
legislatore decemvirale nella norma sullo statuliber
(XII Tab. 7,12)[170],
potrebbe essere enunciato in questi termini: il titolare di un diritto
sottoposto a condizione non dev’essere in alcun modo danneggiato da
comportamenti, tenuti dalla controparte, dai quali possa dipendere il mancato
avveramento della condizione; e ciò a prescindere dal rimedio di volta in volta
concretamente adottato, che qui, fra l’altro, non è ancora la finzione
d’adempimento[171].
Anche la questione se un siffatto regime fosse di origine giurisprudenziale o
legislativa, posta in generale dalla dottrina[172],
potrà trovare, a questo punto, una più agevole soluzione, senz’altro consona al
carattere generale dell’esperienza
giuridica arcaica: ché se il principio aveva, come si è visto, applicazione
anche in ambito sacrale, allora probabilmente esso era di origine pontificale,
e perciò giurisprudenziale, piuttosto che legislativa. Esso naturalmente,
nell’epoca più risalente, non sarà mai stato formulato expressis verbis, ma avrà ispirato singole decisioni, con le quali
vennero magari adottate, come già detto, soluzioni anche di volta in volta
diverse per tutelare le ragioni del titolare del diritto sottoposto a
condizione[173].
Quel principio sarebbe stato, come noto, alla base della
successiva elaborazione della disciplina sull’avveramento fittizio della
condizione[174] ad
opera della giurisprudenza tardo-repubblicana e classica[175].
E sebbene questa, ormai del tutto immemore del rilievo assunto dai precedenti
propri della tradizione sacrale, abbia poi coerentemente enucleato la regula a partire dal solo ambito delle
manomissioni testamentarie[176],
secondo il modello già laico rappresentato dal precetto di XII Tab. 7,12[177],
per poi estenderla alle altre disposizioni mortis
causa[178] e quindi agli atti inter vivos[179],
occorre tuttavia ricordare, con Wieacker[180],
che la condizione, come istituto giuridico munito di una sua autonoma
configurazione, trasse forse origine proprio dalla struttura del voto.
E’ insomma probabile che un’antica dottrina sacerdotale
rappresenti il fondamento di quella norma
di applicazione generale che, quale
soprattutto risulta enunciata in un testo come D. 50,17,161[181],
i legislatori moderni faranno propria: si pensi per esempio all’art. 1178 del
code civil[182] o
all’art. 1359 del codice italiano[183].
Tornando al rectius
esse, l’ipotesi da noi formulata
risulta ancor più plausibile se si considera il fatto che, nelle intenzioni del
pontefice massimo, la pecunia seposita
sarebbe dovuta probabilmente rimanere tale, e cioè immobilizzata, per tutto il
quinquennio: il che, specie in epoche di ristrettezza finanziaria come quella,
avrebbe potuto rappresentare davvero un ostacolo alle operazioni di guerra.
Il fatto poi che quell’antico principio, con cui si
cercava di salvaguardare il diritto di colui che aveva fatto di tutto per
adempiere ma ne era stato direttamente o indirettamente impedito dalla
controparte, non avesse trovato applicazione nelle otto precedenti occasioni in
cui si erano votati i grandi ludi a Giove, non deve a nostro avviso stupire: in
passato si era evidentemente preferito cautelarsi, secondo gli orientamenti
difesi ancora nel 200 dal pontefice massimo, contro il medesimo rischio della perpetuatio obligationis, che tuttavia
derivasse, dopo il pieno avveramento della condizione, da un’esecuzione del
voto ritenuta irrituale perché – data la mancata determinazione, in termini
pecuniari, dell’obbligazione pur assunta – da valutarsi sempre come
potenzialmente non satisfattiva nei confronti del dio. Il mutamento dell’indirizzo
giurisprudenziale fu dunque probabilmente determinato dal maggior rilievo (rectius) che, in seguito ad un
bilanciamento fra i due principi, venne per la prima volta attribuito all’uno
piuttosto che all’altro.
Ma sulla decisione, torniamo a ripetere, probabilmente
incisero considerazioni e calcoli di tutt’altro genere. E nonostante la
sottigliezza dell’interpretazione giurisprudenziale, oggetto dell’ipotesi da
noi formulata, vi era poi il dato di fatto che la somma sarebbe stata dopo,
molto comodamente e liberamente, determinata dal senato, senza particolari
vincoli per lo stato: il rigore proprio della tradizione risultava perciò
sostanzialmente attenuato, come forse era, del resto, negli intendimenti di
coloro cui non a caso P. Licinio Crasso, comprendendo il significato di quel
che stava accadendo, tanto si era contrapposto.
L’ultimo episodio da esaminare risale al 172, alla
vigilia della guerra contro Perseo, allorché il senato – analogamente a quanto era
avvenuto nel 200 e nel 191, prima che iniziassero le guerre contro Filippo V e
contro Antioco III – ordinò al console di pronunciare un solenne voto di ludi magni
e doni a Giove Ottimo Massimo[184].
Ora, però, se si ha riguardo al contesto in cui Livio colloca
il passo in questione, si possono rilevare alcune significative differenze
circa la progressione dei provvedimenti. Ciò dipende in gran parte dalla
cronologia degli eventi, che è sensibilmente diversa rispetto agli episodi
precedenti, ma forse anche dal fatto che l’autore patavino fa qui uso di più
fonti[185],
che formano sequenze miste, cosicché la narrazione relativa alle determinazioni
senatorie in materia di politica religiosa risulta frammentata.
Ma procediamo con ordine. La data in cui si tennero i
comizi consolari, ossia il 18 febbraio, fu quell’anno posticipata rispetto al
normale[186] a
causa del ritardo con il quale il console C. Popilio Lenate[187]
era tornato a Roma, nonostante la premura dei patres preoccupati per l’imminenza della guerra[188].
Subito il senato prescrisse ai consoli designati[189]
di procedere al solito sacrificio accompagnato dalla precatio (di cui si riporta la formula consueta, priva
dell’indicazione dell’avversario): ciò sarebbe dovuto avvenire in seguito,
comunque, nel giorno della loro entrata in carica[190].
Così infatti sarà: soltanto più avanti Livio ci riferisce del buon esito che
ebbe la celebrazione di questi riti e del solito responso degli aruspici circa
gli effetti della guerra[191].
Qui seguono invece il resoconto della presentazione al popolo della lex de bello indicendo[192],
e quello della sortitio delle
province[193],
che quindi, come nel 191, è preceduta dalla rogatio.
Nel frattempo, il voto dei ludi e dei doni era già stato
pronunciato: cosa che differenzia molto quest’episodio dagli altri in
precedenza esaminati, insieme al fatto che non si fa menzione di una supplicatio. Il provvedimento del senato
con cui si disponeva la pronuncia del voto era stato in effetti emanato il
giorno stesso in cui fu ingiunto ai consoli designati di procedere alle
formalità di cui sopra si è detto (eodem
die)[194]:
destinatario dell’ordine relativo al voto era, però, il console uscente,
Popilio, che perciò avrebbe dovuto compiere la nuncupatio prima che i suoi successori entrassero in carica[195],
ossia al più presto. Così avvenne, come si desume anche dalla circostanza che
la notizia relativa alla morte dei sacerdoti, con cui solitamente Livio chiude
il resoconto annalistico degli anni consolari, segue immediatamente quella del
voto[196].
E’ dunque molto significativo che la promessa votiva
venga in questo caso formalizzata da un magistrato diverso da quello che
avrebbe poi condotto le operazioni di guerra[197],
e per di più a guerra non ancora dichiarata. Evidentemente, tutto ciò non
ostava ad impegnare lo stato nei confronti del dio, purché – forse – alla
formula del voto fosse apportata qualche modifica tale da adattarne il tenore
alle peculiarità della situazione contingente[198],
le quali qui certamente sono assai rilevanti.
Ebbene, non fa meraviglia allora constatare che in questo
caso non si accenna in alcun modo alla guerra imminente (come invece nel 191),
richiedendosi soltanto, nella condizione apposta al voto, che la repubblica in eodem statu fuisset. L’unica
preoccupazione era evidentemente quella che i verba del voto corrispondessero a verità: tutto il resto non doveva
dare pensiero, ed era in particolare indifferente quale magistrato fosse a
pronunciare la solenne nuncupatio,
dal momento che comunque sarebbe stato idoneo ad impegnare lo stato.
Sempre in ordine alla richiesta fatta agli dei, si
osservi inoltre che questi voti del 172, contrariamente a quelli offerti nelle
precedenti occasioni da noi esaminate, sono decennali e non quinquennali:
oggetto della condizione inserita nella formula è la prosperità dello stato nei
successivi dieci anni, a sottolineare il timore dei Romani in quel momento che
il conflitto con il nuovo, aggressivo re di Macedonia sarebbe stato più lungo e
impegnativo di quanto poi effettivamente non si rivelò[199].
Riguardo poi alla promessa si noti anzitutto che, come
nel 191, oggetto sono, oltre ai ludi della durata di dieci giorni, anche i doni
a tutti i templi degli dei.
Ma ciò che più interessa rilevare, in conclusione di
questo nostro studio, è naturalmente il fatto che anche questo è un votum ex incerta pecunia, e che quindi,
a distanza di ben ventotto anni, la riforma attuata nel 200 continuava ad
essere senz’altro applicata: ciò probabilmente perché, come già detto, se ne
avvertiva tuttora la maggior comodità, riguardo al disbrigo delle incombenze
rituali, e forse anche la plausibilità della ratio ispiratrice[200].
Si osservi peraltro che qui, nella clausola in cui si dispone che la somma da
spendere per l’adempimento del voto fosse fissata in un secondo momento dal
senato, compare anche la precisazione che la delibera avrebbe dovuto essere
adottata con la presenza di almeno la metà dei senatori[201]:
ciò forse per evitare che, approfittando di una seduta poco frequentata[202],
il magistrato destinato alla celebrazione dei giochi, al fine di procacciarsi
una più grande popolarità, facesse votare dal senato l'impiego di una somma
eccessiva.
Livio, infine, riferisce della nuncupatio del voto da parte del console C. Popilio: le parole
della formula vengono, come nelle precedenti occasioni, dettate al magistrato
dal pontefice massimo, che ora nel 172 è M. Emilio Lepido[203].
[1] Per una ricostruzione del voto come atto sottoposto a condizione
sospensiva v. fin d’ora soprattutto Kaser,
Das römische Privatrecht, I, München
1971, 253; v. anche Mitteis, Römisches
Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, I, Leipzig 1908, 167; Wieacker,
Altrömische Priesterjurisprudenz, in Iuris professio. Festgab für Max Kaser, Wien-Köln-Graz
1986, 362 e nt. 45. Sulla natura unilaterale, e non bilaterale, del voto, v.
quanto si dirà infra.
[2] Accogliendo in ciò la risalente, ma ancora apprezzabile
classificazione di Toutain, s.v. Votum, in DS 5 (1919), 974-975; cfr., recentemente, Daza, El votum, in
Derecho romano de obligaciones, Hom.
Murga Gener, Madrid 1994, 505-506.
[3] Diversamente dai voti privati, da cui derivavano obblighi a
carico del solo pater familias: v.
per es. D. 50,12,2,1.
[4] Non gli altri, come con scrupolo precisa Mommsen, Römische
Staatsrecht³, I, Leipzig 1887, 244 nt. 3.
[5] Cfr. Karlowa,
Römische Rechtsgeschichte, II,
Leipzig 1901, 583-584; Daza, op. cit., 512. Sul punto in questione, e per un più generale approfondimento, v.
infra.
[6] Cfr. Liv. 21,63,7; Ov. Pont.
4,4,30. V. anche Bouché-Leclercq,
Manuel d’institutions de droit romain, Paris
1886, 59; Toutain, in DS cit., 975; Turlan, L’obligation
ex voto, in RHDFE 33 (1955), 506
e nt. 9; Daza, op. cit., 506.
[7] Cfr. Cic. rep. 2,20,36; div. 1,26,55;
Liv. 1,35,9; 6,42,12; 8,40,2; 38,35,6; Ps. Ascon.
[11] In proposito, condividiamo l’opinione di Piganiol, op. cit.,
78-81, al quale rinviamo per un approfondimento; v. anche Weissenborn, Müller, Titi Livi ab urbe condita libri, VII (5ª
ediz.), Berlin-Zürich 1965, 18 nt.
10; Versnel, Triumphus, Leiden 1970, 109; Briscoe,
A Commentary on Livy Books XXXI-XXXIII,
Oxford 1973, 81-82, il quale per la verità tende ad attribuire importanza ai
precedenti più antichi, ed inoltre critica l’opinione di Piganiol, 81-82 e nt.
4, secondo cui a partire dal 242 i voti sarebbero stati offerti con cadenze
quinquennali pressoché regolari, sulla base del giusto rilievo che questi erano
invece voti occasionali offerti in tempi di crisi.
[12] V. Liv. 27,33,8; cfr. 30,2,8;27,11. V. anche Ogilvie, op. cit., 149; Timpe, Fabius Pictor und die Anfänge der römischen
Historiographie, in ANRW I,2
(1972), 938; Briscoe, op. cit., 81; Scheid, Les
incertitudes de la voti sponsio. Observations en marge du ver sacrum de 217
av. J.C., in Mélanges Magdelain, Paris 1998, 425.
[13] Liv. 22,10,7: Eiusdem rei causa ludi magni voti aeris trecentis triginta tribus
milibus, trecentis triginta tribus, triente; praeterea bubus Iovi trecentis,
multis aliis divis bubus albis atque ceteris hostiis; cfr. Plut. Fab. 4,6-7: (…) qšaj d™ mousik¦j kaˆ
qumelik¦j ¥xein ¢pÕ shstert…wn triakos…wn tri£konta triîn kaˆ dhnar…wn triakos…wn triîn, œti trithmor…ou prosÒntoj. Toàto tÕ
kef£laiÒn ™stin Ñktë muri£dej dracmîn kaˆ dracmaˆ trisc…liai pentakÒsiai
Ñgdo»konta tre‹j kaˆ dÚo Ñbolo…. LÒgon d™ tÁj e„j toàto toà pl»qouj ¢kribe…aj
kaˆ dianomÁj calepÒn ™stin e„pe‹nÄ e„ m» tij ¥ra boÚloito tÁj tri£doj Ømne‹n
t¾n dÚnamin, Óti kaˆ fÚsei tšleioj kaˆ prîtoj tîn perissîn ¢rc» te pl»qouj ™n
aØtù t£j te prètaj diafor¦j kaˆ t¦ pantÕj ¢riqmoà stoice‹a me…xaj kaˆ
sunarmÒsaj e„j taÙtÕn ¢ne…lhfe.
[14] Cfr. Liv. 22,9,7-10,6: Q. Fabius Maximus dictator iterum quo die magistratum iniit vocato
senatu, ab dis orsus, cum edocuisset patres plus neglegentia caerimoniarum quam
temeritate atque inscitia peccatum a C. Flaminio consule esse quaeque piacula
irae deum essent ipsos deos consulendos esse, pervicit ut, quod non ferme
decernitur nisi cum taetra prodigia nuntiata sunt, decemviri libros Sibyllinos
adire iuberentur. Qui inspectis fatalibus libris rettulerunt patribus, quod
eius belli causa votum Marti foret, id non rite factum de integro atque amplius
faciundum esse, et Iovi ludos magnos et aedes Veneri Erycinae ac Menti vovendas
esse, et supplicationem lectisterniumque habendum, et ver sacrum vovendum si
bellatum prospere esset resque publica in eodem quo ante bellum fuisset statu
permansisset. Senatus, quoniam Fabium belli cura occupatura esset, M. Aemilium
praetorem, ex collegii pontificum sententia omnia ea ut mature fiant, curare
iubet.
His senatus consultis perfectis, L.
Cornelius Lentulus pontifex maximus consulente collegium praetore omnium primum
populum consulendum de vere sacro censet: iniussu populi voveri non posse.
Rogatus in haec verba populus: ‘Velitis iubeatisne haec sic fieri? Si res
publica populi Romani Quiritium ad quinquennium proximum, sicut velim
(vov)eamque, salva servata erit hisce duellis, quod duellum populo Romano cum
Carthaginiensi est quaeque duella cum Gallis sunt qui cis Alpes sunt, tum donum
duit populus Romanus Quiritium quod ver attulerit ex suillo ovillo caprino
bovillo grege quaeque profana erunt Iovi fieri, ex qua die senatus populusque
iusserit. Qui faciet, quando volet quaque lege volet facito; quo modo faxit
probe factum esto. Si id moritur quod fieri oportebit, profanum esto, neque
scelus esto. Si quis rumpet occidetve insciens, ne fraus
esto. Si quis clepsit, ne populo scelus esto neve cui cleptum erit. Si atro die
faxit insciens, probe factum esto. Si nocte sive luce, si servus sive liber
faxit, probe factum esto. Si antidea senatus populusque iusserit fieri ac
faxitur, eo populus solutus liber esto’. V. anche
Plut. Fab. 4,6.
[15] Pontefice patrizio, morto nel 213 (Liv. 25,1,2); non se ne
conosce la data di cooptazione nel collegio. Era stato eletto pontefice massimo
già piuttosto vecchio, nel
[16] Ivi compresa una supplicatio,
alla cui celebrazione parteciperanno intere famiglie: v. Liv. 22,10,8-9, da cui
si ricava che doveva trattarsi del medesimo rito ordinato poco prima dai
decemviri, anche perché accompagnato dall’esecuzione di un lettisternio (per la
supplicatio celebrata in concomitanza
con la dichiarazione di guerra a Cartagine v. Liv. 21,17,4. Sulle cerimonie
complessivamente prescritte dai decemviri nel 217 v. in particolare Sini, Populus et religio dans
[17] Per la verità, da Liv. 22,10,1-2, risulta che il collegio si
pronunciò soltanto sulla procedura da seguire, che implicava la presentazione
di una rogatio all’assemblea
popolare, e non sul contenuto di questa stessa rogatio, corrispondente alla formula del voto da pronunciare (cfr. Mommsen, Staatsrecht cit., 245-246). Ma sulla base dei più accreditati studi
in materia di ver sacrum (v. in
particolare Heurgon, Le ver sacrum romain de
[18] Di quest’avviso, espressamente, Weissenborn,
Müller, op. cit., IV, 28 nt.
7; Scheid, op. cit., 420. Il fatto poi che i ludi siano stati celebrati molto
prima del ver sacrum può a nostro
avviso spiegarsi sulla base di una scelta discrezionale del senato, il quale,
essendosi verificata la condizione ma perdurando ancora il tempo di guerra,
decise forse di dar seguito, intanto, ad uno soltanto dei voti,
comprensibilmente optando per i ludi, data la minor complessità ed onerosità di
questi rispetto al ver sacrum: cfr.,
sul punto, ultimamente Scheid, op. cit., 423-425, le cui considerazioni
ci sembrano pienamente convincenti, ed al quale anche rinviamo per l’esame e la
critica della dottrina pregressa.
[19] Riducendosi così il rapporto fra asse e denario da uno a dieci
ad uno a sedici: cfr. Plin. nat. 33,13,44-46.
Sull’argomento, che non può essere in questa sede diffusamente trattato, v. per
es. Mommsen, Geschichte des römischen Münzgewesens, Berlin 1860, 379 ss.; Piganiol, op. cit., 16-17; Mattingly,
The First Age of Roman Coinage, in JRS 35 (1945), 73 e nt. 35; Neatby-Heichelheim, The Early Roman Currency, in AASH
8 (1960), 68 e nt. 113; Weissenborn,
Müller, op. cit., IV, 28 nt.
7, e VII, 17 nt. 7, i quali tuttavia sostengono che, per i soli affari
religiosi, si continuò a far uso del vecchio asse; Crawford, War and
Finance, in JRS 54 (1964), 29 e
nt. 7, e The Roman Republican Coinage,
II, Cambridge 1974, 615-616; Nicolet,
Mutations monétaires et organisation
censitaire sous la république, in Les
Dévaluations à Rome, Roma 1978, 258 e nt. 16; Frier, Libri Annales
Pontificum Maximorum: the Origins of the Annalistic Tradition, Rome 1979,
242-243, ai quali si rinvia anche per un’esatta ricognizione delle altre fonti
rilevanti in materia (v. fin d’ora, comunque, soprattutto Fest.
[20] Tanto da suscitare, come detto, lo stupore di studiosi vissuti in
epoche successive: v. ancora Plut. Fab. 4,7.
[21] V. ancora Ps. Ascon.
[22] Si trattava, con tutta probabilità, dei ludi votati nel corso
del III secolo: cfr. Piganiol, op. cit., 81; v. anche supra.
[23] Sull’applicabilità di quest’espressione alla pronuncia del voto
v. Varr. ling. 6,7,60; Cic. Phil. 3,4,11; Liv. 21,63,7 e 9; 41,10,7;
Tac. ann. 12,68,1; Plin. epist. 10,45; paneg. 67,3; Svet. Aug. 97,2;
Fest.
[24] Per la legittimità di quest’espressione, che edifica sulla
distinzione fra sacra publica e sacra privata, si rinvia soprattutto a Fest.
[25] V. in particolare Liv. 31,12,3-5, circa i rimedi prescritti dal
senato in seguito all’episodio della seconda spoliazione del tempio di
Proserpina a Locri, del tutto analogo a quello verificatosi quattro anni prima,
nel 204.
[26] Cfr. Pomp. D. 1,2,2,6: Omnium
tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum
erant, ex quibus constituebatur quis quoquo anno praeesset privatis.
[27] Cfr., anche se con più specifico riferimento alla procedura di
espiazione dei prodigi, Willems, Le Sénat de la république romaine, II,
Louvain-Paris 1883, 301-305; Wülker,
Die geschichtliche Entwicklung des
Prodigienwesens bei den Römern, Diss. Leipzig 1903, 26-50; Luterbacher, Der Prodigienglaube und Prodigienstil der Römer, Burgdorf 1904,
33-43; R. Bloch, Les prodiges
dans l’antiquité classique, Paris 1963, 77 ss.; Latte, op. cit.,
203-204; Wolf, Comitia, quae pro conlegio pontificum
habentur, in Das Profil des Juristen
in der europäischen Tradition, Symposion
Wieacker, Ebelsbach 1980, 11 ss.
[28] V. in particolare Liv. 22,10,1; 26,34,12; 29,19,7-8; 29,20,10;
31,9,5-10; 38,44,3-6; 39,4,8-12; 39,5,7-10; 41,16,1-2; Cic. dom. 53,136.
[29] V. in particolare Liv. 24,44,7-9; 27,4,15; 27,25,7-10 (ove
soprattutto compare la motivazione della decisione adottata); 27,37,4;
27,37,5-15; 30,2,13; 32,1,9; 33,44,1-2; 34,45,7; 37,3,1; 39,5,7-10; 39,16,6-11;
39,22,4; 40,45,2; 41,16,6; Cic. har.
resp. 7,13; Att. 4,2,3-4; Hemerelogia, C.I.L. I². 212 ss.
[30] V. in particolare Liv. 22,10,1 (cfr. Weissenborn, Müller, op.
cit., IV, 26 e nt. 11); 34,44,1-3; Cic. dom.
53,136.
[31] V. in particolare Liv. 22,9,11 (Weissenborn,
Müller, op. cit., IV, 26 e nt.
11); 33,44,1-2; 34,44,1-3; 39,5,7-10; 41,16,6; Cic. har. resp. 7,13.
[32] E’ certamente il caso, questo, dei voti solenni di ludi a Giove.
Per la identificazione di una possibile categoria di decreta collegiali non
suscettibili, invece, di ratifica da parte del senato, v. per es. Franchini, La desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano 2005, 87
ss.
[33] Non è questa però, naturalmente, l’unica ipotesi: si pensi al postem tenere in occasione della
consacrazione di templi (v. per es. Cic. dom.
52,133; Liv. 2,8,7; Plut. Publ. 14,6).
[34] V. per es. Liv. 4,27,2: Ne
qua res qua eguissent in castris moraretur, dictator, praeeunte A. Cornelio
pontifice maximo, ludos magnos tumultus causa vovit, profectusque ab urbe,
diviso cum Quinctio consule exercitu, ad hostes pervenit; 5,41,1-3: Romae interim, satis iam omnibus, ut in tali
re, ad tuendam arcem compositis, turba seniorum, domos regressa, adventum
hostium obstinato ad mortem animo exspectabat: qui eorum curules gesserant
magistratus, ut in fortunae pristinae honorumque aut virtutis insignibus
morerentur, quae augustissima vestis est tensas ducentibus triumphantibusve, ea
vestiti medio aedium eburneis sellis sedere. Sunt qui M. Folio pontifice maximo
praefante carmen devovisse eos se pro patria Quiritibusque Romanis tradant;
8,9,4: ‘Deorum’ inquit ‘ope M. Valeri
opus est; agedum, pontifex publicus populi Romani, praei verba quibus me pro
legionibus devoveam’; 9,46,6: Aedem
Concordiae in area Volcani summa invidia nobilium dedicavit; coactusque
consensu populi Cornelius Barbatus pontifex maximus verba praeire, cum more maiorum
negaret nisi consulem aut imperatorem posse templum dedicare; 10,28,14-18: Haec locutus M. Livium pontificem, quem
descendens in aciem digredi vetuerat ab se praeire iussit verba quibus se
legionesque hostium pro exercitu populi Romani Quiritium devoveret. Devotus
inde eadem precatione eodemque habitu quo pater P. Decius ad Veserim bello
Latino se iusserat devoveri, cum secundum sollemnes precationes adiecisset prae
se agere sese formidinem ac fugam caedemque ac cruorem, caelestium inferorum
iras, contacturum funebribus diris signa tela arma hostium, locumque eundem
suae pestis ac Gallorum ac Samnitium fore, - haec exsecratus in se hostesque,
qua confertissimam cernebat Gallorum aciem, concitat equum inferensque se ipse
infestis telis est interfectus; 31,9,5-10 (riportato infra, nt. 37); 36,2,2-5 (riportato infra, nt. 115); 42,28,8-9 (riportato infra, nt. 184). Peraltro, dalle fonti a nostra disposizione, non
sempre chiaramente risulta che un pontefice assistesse alla nuncupatio di un pubblico voto: v. per
es. Liv. 5,19,6 e 7,11,4, che oltrettutto
si riferiscono all’offerta dei grandi ludi. Ciò comunque non esclude, a nostro avviso, che un pontefice potesse
esservi.
[36] V. per es. Liv. 31.9.5-10, ove si dà notizia di un’opinione
informalmente espressa in senato dal pontefice massimo P. Licinio Crasso (cfr.
in proposito infra); Cic. Att. 4.2.4, ove si riferisce di una
decisione adottata de omnium conlegarum
sententia, ossia dopo che un pontefice aveva vagliato il parere concorde
dei colleghi considerati uti singuli,
senza che fosse ufficialmente interpellato il collegio come tale.
[37] Liv. 31,9,5-10: Cum
dilectum consules haberent pararentque quae ad bellum opus essent, civitas
religiosa in principiis maxime novorum bellorum, supplicationibus habitis iam
et obsecratione circa omnia pulvinaria facta, ne quid praetermitteretur quod
aliquando factum esset, ludos Iovi donumque vovere consulem cui provincia
Macedonia evenisset iussit. Moram voto publico Licinius pontifex maximus
attulit, qui negavit ex incerta pecunia voveri debere, quia ea pecunia non
posset in bellum usui esse seponique statim deberet nec cum alia pecunia
misceri: quod si factum esset, votum rite solvi non posse. Quamquam et res et
auctor movebat, tamen ad collegium pontificum referre consul iussus si posset
recte votum incertae pecuniae suscipi. Posse rectiusque etiam esse pontifices
decreverunt. Vovit in eadem verba consul praeeunte maximo pontifice quibus
antea quinquennalia vota suscipi solita erant, praeterquam quod tanta pecunia
quantam tum cum solveretur senatus censuisset ludos donaque facturum vovit.
Octiens ante ludi magni de certa pecunia voti erant, hi primi de incerta.
[39] In merito ai doni – dei quali risulta l’impiego, in quest’epoca,
anche nelle supplicazioni e nei lettisterni, e che avevano assunto finalità,
all’occorrenza, espiatorie (le quali non saranno state, ovviamente, ad essi
connaturate) – v. ad es., per tutti, Wissowa,
op. cit., 427-429 (al quale anche si
rinvia per un’interessante rassegna di fonti); Gnoli,
‘Rem privatam de sacro surripere’
(Contributo allo studio della repressione del ‘sacrilegium’ in diritto romano),
in SDHI 40 (1974), 180, 188, 194; Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 1977, 486; Rosenberger, Gezähmte Götter. Das Prodigienwesen der römischen Republik,
Stuttgart 1998, 187.
[40] Sulla meticolosità nel riportare questo genere di notizie, che molti
studiosi considerano prerogativa soprattutto dell’annalista Valerio Anziate, v.
in particolare infra, nt. 185.
[41] Tutti gli studi più accreditati, concernenti le fonti utilizzate
da Livio per
Più difficile, in mancanza di riscontri diretti della
storiografia annalistica (riscontri che sono invece possibili, come noto, per Polibio),
risulta il tentativo di attribuire ad un determinato autore i singoli passaggi
dell’opera di Livio, che tende peraltro ad ampliare e a rivedere secondo
criteri di carattere retorico-narrativo (cfr., su quest’ultimo punto, Mac Donald,
The Style cit., 155 ss., secondo cui
l’annalistica influisce comunque sullo stile di Livio, fornendogli, oltre che
l’impalcatura del suo lavoro, le espressioni proprie del tradizionalismo
politico e religioso romano; v. anche per es. Walsh, Livy
cit., 236; Aili, Livy’s Language. A Critical Survey of
Research, in ANRW XXX,2 (1982),
1122 ss.; Viljamaa, Infinitive of Narration in Livy. A Study in Narrative Technique, Turku 1983, spec.te 55; Smith,
The Styles of Sallust and Livy: Defining
Terms, in The Classical Bulletin 61
(1985), 79, 83; Falco, Stile drammatico nella storiografia
annalistica di Livio, in Retorica e
storia nella cultura classica, Bologna 1985, 71 ss.; Burck, op. cit., 51-52). Ciò nonostante gli studiosi della Quellenforschung tradizionale (per lo
più di lingua tedesca) non esitavano a identificare, sulla base di criteri
ricostruttivi talora anche assai diversi, le fonti di volta in volta
utilizzate; oggi in dottrina sembra invece prevalere un atteggiamento più
scettico circa la possibilità di un’esatta identificazione dell’annalista cui
Livio ha attinto, pur convenendosi ancora in linea di principio sull’utilizzo
pressoché esclusivo, nella IV e V decade, degli annalisti di età sillana, ossia
Valerio Anziate e Claudio Quadrigario (per una sintesi sullo stato della
dottrina v. per es. Burck, op. cit., 25; v. anche, sebbene più
risalenti, Bredehorn, op. cit., 1 ss.; Briscoe, A Commentary cit.,
1-12). Appartengono alla prima corrente interpretativa Unger, Die römischen Quellen
des Livius in der vierten und fünften Dekade, Göttingen 1878, 1 ss.; Soltau, Die annalistische cit., 664 ss.,
e Livius cit., 27 ss., che distingue tra Pisone, Anziate e
Quadrigario, sulla base di assunzioni a priori sul loro modo di lavorare; Kahrstedt,
op. cit., 103-112, che dimostra
particolare attenzione per i dettagli, puntando su discrepanze e contraddizioni
nelle sezioni annalistiche; Klotz,
Zu den Quellen cit., 481 ss., il
quale critica l’impostazione degli autori succitati, che attribuiscono i
frammenti a determinati annalisti senza criterio, ed enuncia la sua
fondamentale tesi, secondo cui Livio avrebbe sempre utilizzato una fonte
annalistica principale, Anziate, ed eventualmente una secondaria, Quadrigario,
fino al libro 38, dopodiché, per gli errori riscontrati nella narrazione fatta
da Anziate sul processo degli Scipioni, avrebbe esattamente invertito l’ordine,
fino al libro 45 (per la dimostrazione
di quest’asserto v. anche, dello stesso autore, s.v. Livius, in RE cit., col.
841-846, oltre che Livius cit., 25,
42-43, ove peraltro il cambio di fonte viene prospettato come meno improvviso e
più graduale); Borneque, Tite-Live, Paris 1933, 81-82, che
aderisce alla tesi di Klotz, così come Bickermann,
Bellum cit., 138 nt. 1; Gelzer, Rec. a Klotz cit., 220 ss.; Bayet,
op. cit., XLVIII; Volkmann, s.v. Valerius (Antias), in RE 14,2
(1948), col. 2330; Walsh, Livy cit., 120-123, 133 ss.; Burck,
Aktuelle Probleme der
Livius-Interpretation, in Gymnasium
Beihefte 4 (1964), 35-36, il quale sembra, in effetti, propendere a sua
volta per quest’orientamento; Walbank,
Livy (a cura di Dorey),
London-Toronto 1971, 50, 62-63, che pur esprime qualche riserva; Meyer, Die römische Annalistik im Lichte der Urkunden, in ANRW I,2 (1972), 985; Perelli, op. cit., 33; Rüpke, Livius cit., 159, 165, ed Evans, op. cit., 182; non così Zimmerer,
The Annalist Qu. Claudius Quadrigarius,
München, 1937, 18-19, 22-26, 59, 65-68, la quale, tornando in parte ai metodi
di Kahrstedt, ritiene si debba individuare
di volta in volta l’annalista utilizzato, che comunque, per sequenze come
quelle da noi esaminate, è per lo più Valerio Anziate (v. la replica di Klotz
in Der Annalist Q. Claudius Quadrigarius,
in Rheinisches Museum 91 (1942), 268 ss.). Appartengono
invece alla seconda delle correnti interpretative sopra ricordate, poiché non
accolgono gli orientamenti tradizionali (e in specie quello di Klotz), per es. Laistner, The Greater Roman Historians, Berkeley-Los Angeles 1947, 83 ss., secondo cui non è vero che Livio segue
principalmente un autore e gli altri sussidiariamente; Briscoe, A Commentary cit.,
1-12, secondo cui non vi è, o non è comunque identificabile, una fonte
principale tenuta a riferimento da Livio e, contestando espressamente anche il
punto di vista di Kahrstedt, ipotizza una lettura di più autori da parte dello
storico patavino, che in questo modo si sarebbe forse fatto un’idea complessiva
della materia da trattare, più per scopi di carattere narrativo che non per
risolvere puntualmente problemi di ricostruzione storica; Luce, op. cit., 96 ss., il quale sostiene che Livio procedette ad una
lettura preventiva di più autori, a prescindere dal fatto che esistessero o
meno dubbi da sciogliere, e senza in ogni caso cambiare l’eventuale fonte principale
da un certo punto della narrazione in poi; Moreschini,
Livio e il mondo greco, in Studi classici e orientali 34 (1984),
55-57, il quale sembra in parte aderire alla tesi di Luce; Adam, op. cit., 91-94; Mensching,
op. cit., 580-581; Cornell, op. cit., 67 ss.; Ungern-Sternberg, op. cit., 86; Burck, Das Geschichtswerk cit., 25, 26, 31,
124.
[42] Fermo restando quanto si è detto alla nota precedente, i passi
da noi esaminati in questo paragrafo sono espressamente attribuiti ad un
determinato annalista – per lo più Valerio Anziate – da Soltau, Die
annalistische cit., 676, 692-693, e Livius
cit., 43; Kahrstedt, op. cit., 103-112; Volkmann, in RE cit., col. 2330; Klotz, Livius
cit., 25-26, che in particolare rileva, per quest’episodio, l’aderenza di Anziate
agli atti del senato; Ferro, op. cit., 132-133; Tränkle, op. cit., 67; Warrior, The Initiation cit., 15 e nt. 10.
[43] Anno quingentesimo
quinquagesimo primo ab urbe condita, P. Sulpicio Galba C. Aurelio consulibus,
bellum cum rege Philippo initum est, paucis mensibus post pacem
Carthaginiensibus datam. Omnium primum eam rem idibus Martiis, quo die tum
consulatus inibatur, P. Sulpicius consul rettulit senatusque decrevit uti
consules maioribus hostiis rem divinam facerent quibus diis ipsis videretur cum
precatione ea, ‘Quod senatus populusque Romanus de re publica deque ineundo
novo bello in animo haberet, ea res uti populo Romano sociisque ac nomini
Latino bene ac feliciter eveniret’; secundum rem divinam precationemque ut de
re publica deque provinciis senatum consulerent (…). Cum renuntiassent consules
rem divinam rite peractam esse et precationi adnuisse deos haruspices
respondere laetaque exta fuisse et prolationem finium victoriamque et triumphum
portendi, tum litterae Valeri Aurelique lectae et legati Atheniensium
auditi.
[44] Si trattava del cosiddetto partito intermedio,
claudiano-serviliano, del quale meglio diremo in seguito. Su P. Sulpicio Galba,
qui basti dire che era già stato console nel 211 (cfr. Broughton, op. cit.,
272), e che poi restò in Grecia, con imperium
prorogato, fino al 206 (v. ancora Broughton,
op. cit., 280, 287, 292, 296, 300).
Grazie dunque all’esperienza già acquisita in quella parte del mondo, egli poi
ottenne, come vedremo tra breve, il comando della nuova guerra macedonica:
questa, per lo meno, è l’opinione generalmente sostenuta in dottrina (v. per
es. Briscoe, Livy cit., 1078-1079; Warrior,
The Initiation cit., 58, 65; di
diverso avviso Gruen, The Ellenistic World and the Coming of Rome,
I, Berkeley-Los Angeles-London 1984, 203-207, specie 205 nt. 5, con ulteriori
indicazioni bibliografiche relative all’opinione prevalente, criticamente
recensito dallo stesso Briscoe, in CR 36 (1986), 91-96, spec.te 94). Ad
integrazione di quanto sopra, generalmente rinviamo, per es., a Weissbach, s.v. Sulpicius, n°
[45] Ma non, si noti fin d’ora, all’avversario. Cfr. Weissenborn,
Müller, op. cit., VII, 9 nt.
4; Bredehorn, op. cit., 55-56 nt. 65, 133-134.
[47] Liv. 31,6,1: P. Sulpicio
provincia Macedonia sorti evenit isque rogationem promulgavit, ‘Vellent
iuberent Philippo regi Macedonibusque qui sub regno eius essent, ob iniurias
armaque inlata sociis populi Romani bellum indici’. Alteri consulum Aurelio
Italia provincia obtigit.
[48] V. Liv. 31,6,3-4. Sull’episodio di Bebio, e sulla sua
attendibilità storica, basata su materiale annalistico, v. anche Olshausen, Untersuchungen zum Verhalten des Einfachen Mannes zwischen Krieg und
Frieden auf der Grundlage von Hom. Il. 2,211-277 (Thersites) und Liv. 31,6-8
(Q. Baebius, tr. pl.), in Livius.
Werk und Rezeption. Festschrift Burck, München 1983, 234 ss. Egli era certo
alleato di Scipione, come del resto gli altri Bebii: di quest’avviso Scullard, Roman cit., 42 nt. 4 e 47; Briscoe, Fulvii and Postumii, in Latomus
27 (1968), 150 e nt.
[51] Liv. 31,7,15: Huius vobis sententiae
non consul modo auctor est sed etiam di immortales, qui mihi sacrificanti
precantique ut hoc bellum mihi, senatui vobisque, sociis ac nomini Latino,
classibus exercitibusque nostris bene ac feliciter eveniret, laeta omnia
prosperaque portendere.
[53] Liv. 31,8,2: Supplicatio
inde a consulibus in triduum ex senatus consulto indicta est, obsecratique
circa omnia pulvinaria di ut quod bellum cum Philippo populus iussisset, id
bene ac feliciter eveniret.
[54] Cfr. Briscoe,
A Commentary on Livy Books XXXIV-XXXVII,
Oxford 1981, 218; Warrior, The Initiation cit., 61 e nt. 1, 67.
[55] La supplicatio, come
rito greco, si affermò nel III
secolo. Prescritta per lo più dal collegio dei decemviri sacris faciundis, essa si caratterizzava per le invocazioni
(obsecrationes, termine con cui per
sineddoche si poteva indicare l’intera cerimonia) rivolte agli dei dall’intera
popolazione che, riunita in processione, faceva il giro dei santuari, aperti
per l’occasione al pubblico; lì, adagiate su cuscini (pulvinaria), si trovavano le statue degli dei. Esistevano tre
specie di supplicatio: quella
espiatoria, prescritta per placare la collera degli dei (come nel 217: cfr. supra), la cui celebrazione
rappresentava l’adempimento di un’obbligazione piaculare; quella propiziatoria,
quale è questa del 200, che si differenziava dalla precedente solo per il fine,
non riparatorio ma preventivo; quella gratulatoria, con cui si ringraziavano
gli dei per la riuscita di un'impresa, e che era completamente diversa dalle altre
due, specie per quanto attiene al contenuto della preghiera (detta gratulatio, non obsecratio). V. per es. Wissowa, op. cit., 423 ss.;
[56] Per la verità, Livio fa precedere le notizie relative alla
consultazione dei feziali da parte del console Sulpicio (31,8,3-4), nonché
all’arruolamento delle legioni e all’attribuzione delle province ai pretori
(31,8,5-11). Tutti rilievi, questi, che certo non afferiscono alla civitas religiosa; propriamente, neppure
il primo.
[57] Così Bauman, Lawyers in Roman Republican Politics,
München 1983, 105; Daza, op. cit., 507, che parla invero di decisión popular. Caratteristica formale
della rogatio presentata al magistrato
era in effetti il velitis iubeatis (per
cui v. per es. Liv. 22,10,2; cfr. Weissenborn,
Müller, op. cit., IV, 27 nt.
2), cui corrisponde il vellent iuberent proprio
dei discorsi indiretti (per cui v. per es. Liv. 31,6,1; cfr. Weissenborn, Müller, op.
cit., VII, 10 nt. 1): v. in proposito Briscoe,
A Commentary cit., 1973, 70.
[58] Cfr. s.v. iubeo, in Oxford Latin
Dictionary 4 (1973), 977, n° 7: «(…in weakened sense) to ask, bid, invite».
[59] Tutto a quel punto, comunque, doveva aver contribuito ad agitare
gli animi: il fatto che, per es., fossero già iniziate le operazioni di leva, o
anche l’arrivo di ambascerie dall’Oriente (v. Liv. 31,9,1-5; cfr. 31,5,5-6; v.
inoltre Bickermann, Bellum cit., 138; Errington, Rome against Philip and
Antiochus, in Cambridge Ancient
History 8 (1989), 257; Warrior,
The Initiation cit., 61-62).
[61] Secondo quanto già stabilito da una legge del 304, concernente anche
le are (v. in proposito Liv. 9,46,7; cfr. Gai. 2,5), che oggi per lo più la
dottrina tende a non identificare con la ciceroniana lex Papiria (v. Cic. dom. 49,127-50,128;
50,130; 53,136; Att. 4,2,3; cfr. per es. Gai 2,5), di data
incerta. Sul punto v. ad es. Willems,
op. cit., 307-309; Mommsen, Staatsrecht cit., II, 619 e nt. 3; Wissowa,
op. cit., 406 e nt. 4, pur con
qualche dubbio sulla realtà storica della legge in questione; Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1962 (rist. ediz. 1912),
234-235; Paoli, Le ius
Papirianum et la loi Papiria, in RHD 24-25
(1946-1947), 180, 186-187 nt. 1, 188 nt. 3, 191 nt. 2, 192, 196-198; Bardon, La naissance d’un temple, in REL
33 (1955), 171; Saumagne, La lex de dedicatione aedium (450/304) et la
divinitas Christi, in Studi Volterra,
I, Milano 1971, 383 ss.; De Martino,
Storia della costituzione romana²,
II, Napoli 1973, 192-193; Gaudemet, Res sacrae, in Études de
droit romain, III, Napoli 1979, 503; Fiori,
Homo sacer, Napoli 1996, 26, 516 nt.
39; Orlin, Temples, Religion and Politics in the Roman Republic, Leiden-New
York-Köln 1997, 163-171.
[62] Di diverso avviso Bauman,
op. cit., 105, il quale cita a
sostegno della sua tesi Liv. 22,10,1, fonte da noi in precedenza esaminata,
nella quale per la verità non si fa riferimento alcuno ai ludi, ma solo al ver sacrum;
Daza, op. cit., 507, che non offre argomentazioni in proposito. Riguardo
poi alla tesi di Sini, op. cit., part.te 82-86, 87-88, 88-90,
secondo cui la tradizione romana avrebbe imposto in ogni caso, fin dai tempi
più risalenti, l’assenso popolare per la nuncupatio
di un pubblico voto, occorre rilevare come le fonti invocate a sostegno non
sembrino in verità molto pertinenti: né Liv. 4,20,4, che riguarda un dono non
votivo; né Liv. 9,9,3-4, ove la pur significativa affermazione “(…) sed
iniussu populi nego quicquam sanciri possit posse quod populum teneat” ha
un carattere generico, non propriamente riferibile, quindi, ai voti; né infine
Liv. 22,10,1, donde risulta espressamente che la necessità di convocare il
popolo deriva dal fatto che il voto ha ad oggetto un ver sacrum. Senza considerare poi i molti testi, nei quali
dell’assemblea popolare non si fa menzione, ed alcuni dei quali, assai meno
ambigui di quello qui commentato, sono approfondidamente esaminati nel corso di
questo stesso lavoro.
[65] Su questo importante personaggio, sulla sua carriera di sacerdote
e magistrato, sulle sue appartenenze politiche e di partito ci soffermeremo
approfonditamente fra breve.
[66] V. Liv. 30,1,3-6: P.
Sempronius – ei quoque enim pro consule imperium in annum prorogabatur – P.
Licinio succederet; is Romam reverteretur, bello quoque bonus habitus ad
cetera, quibus nemo ea tempestate instructior civis habebatur, congestis
omnibus humanis ab natura fortunaque bonis. Nobilis idem ac dives erat; forma
viribusque corporis excellebat; facundissimus habebatur, seu causa oranda, seu
in senatu et apud populum suadendi ac dissuadendi locus esset; iuris pontificii
peritissimus; super haec bellicae quoque laudis consulatus compotem fecerat;
cfr. Cic. de or. 3,33,134.
[67] In proposito, ci sia consentito di svolgere, pur con tutta la cautela
del caso, alcune congetture. Tenendo conto che P. Licinio Crasso possedeva, ora
nel 200, la qualifica di censorius –
la quale certo già prevaleva in senato su quella di consularis, essendole anzi anteposta, nella gerarchia degli ordini
curuli, solo quella di dictatorius
(cfr. Willems, op. cit., I, 1878, 257; Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain et les conflits de générations, in MEFRA 94 (1982), 175 ss., e Le sénat de la république cit., 598,
704) –, è immaginabile che abbiano potuto prendere la parola, nel nostro caso,
un ex censore patrizio od un ex dittatore che fossero esperti della materia
sacrale (il princeps senatus, Q.
Fabio Massimo, membro del collegio pontificale e capo della fazione
contrapposta agli Scipioni, era morto tre anni prima: cfr. Liv. 29,37,1;
30,26,7-10). Volendo allora, per il momento, restringere il campo d’indagine ai
senatori-pontefici, che presumibilmente fossero avversari politici di Crasso
(in conformità a quanto meglio diremo in seguito, trattando della composizione del
collegio, in quel periodo), le uniche due ipotesi da considerare, al riguardo,
sembrano essere le seguenti: ossia che si trattasse di Q. Fulvio Flacco,
personaggio autorevolissimo, dictatorius,
che tuttavia nel 200 sarebbe potuto
essere anche già morto (v. infra;
cfr. Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain cit., 224-225, e Le sénat de la république cit., 598, che
traccia un prospetto ricostruttivo, da cui si evince che Fulvio era allora uno
dei più assidui nel prendere la parola in senato), oppure di C. Servilio
Gemino, dictatorius, futuro pontefice
massimo (v. infra). Per il resto, la
sola ipotesi da formulare ci pare quella di M. Livio Salinatore, dittatore nel
207 (v. Broughton, op. cit., 295) e parente del pontefice Caio,
che forse ora nel 200 non era più legato al partito filoscipioniano (v. infra; cfr. Bonnefond-Coudry,
Le sénat républicain cit., 224-225, e
Le sénat de la république cit., 598,
da cui si evince che M. Livio, come Q. Fulvio Flacco, era tra i più assidui nel
prendere la parola in senato).
[68] Il ritardo, che poi ne derivò nella nuncupatio del voto, non è precisato nella sua durata (cfr. Warrior, The Initiation cit., 68); esso non dovette essere, comunque,
particolarmente grave (cfr. Ferro,
op. cit., 103).
[69] Sui pareri di questo tipo, emessi dai pontefici fuori dalle sedi
competenti, v. quel che si è detto nel capitolo di apertura.
[70] In proposito, v. anche comunque infra, circa il testo del voto e la funzione, attribuita al senato,
di determinare comunque la somma al momento della solutio. Cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 17 e nt. 7.
[72] Cfr. Serv. ad Aen. 7,120:
et in precibus nihil esse ambiguum debet.
V. anche Wissowa, op. cit., 398 e nt. 3, il quale fa
oltretutto specifico riferimento al caso da noi qui esaminato.
[73] Anche se in riferimento ai ludi sarebbe forse più corretto
parlare di un facere: cfr. Karlowa, op. cit., 580-581; v. anche, recentemente, Humbert, Droit et
religion dans
[74] Cfr. Draper,
The Role of the Pontifex Maximus and its
Influence in Roman Religion and Politics, Diss. Brigham Young University Provo, Utah, 1988, 234-235. Per un raffronto
col sistema vigente in materia di obligatio
civilistica v. Weissenborn, Müller,
op. cit., VII, 17 nt. 7; Bauman, op. cit., 104 e nt. 83, secondo cui,
essendo la struttura del votum publicum
equiparabile a quella di taluni contratti poi riconosciuti nell’ambito del ius civile, è dubbio se l'oggetto della
promessa potesse essere anche non determinato, ma determinabile in un secondo
momento da un terzo (analogamente, per es., al prezzo della emptio-venditio, per la quale
esisteranno, fin dal tempo dei veteres,
vivaci discussioni tra i giuristi: v. Gai. 3,140; C. 4,38,15; I. 3,23,1; cfr.
D. 19,2,25 pr.). Le osservazioni di Bauman non ci sembrano condivisibili, né
nel loro fondamento, dal momento che la struttura del votum è a nostro avviso quella di un negozio unilaterale, né per il
resto, poiché - si noti bene - qui s'intendeva affidare al senato, organo della
repubblica promittente e tutt'altro che terzo, il compito di determinare poi la
somma esatta (ed anzi ricordiamo che per la compravendita l'arbitraggio della
parte non sarà mai ammesso: cfr. D. 18,1,35,1).
[75] Questa è la tesi che a noi appare tuttora più convincente, e che
da lungo tempo per lo più si accoglie da parte degli studiosi: v. per es., tra
i più autorevoli, Pernice, Zum römischen Sakralrechte, in Sitzungsberichte der Akademie der
Wissenschaften zu Berlin 2 (1885), 1147; Kaser,
op. cit., 253; Wieacker, op. cit., 362. V. comunque anche D. 50,12,2, con particolare
riferimento alla sua collocazione nel titolo De pollicitationibus: tale testimonianza vale certamente soltanto
per l’epoca giustinianea, ma ha comunque carattere tecnico, al contrario di
quelle su cui fondano il loro asserto gli autori favorevoli alla bilateralità
(quali soprattutto Brini, La bilateralità delle pollicitationes ad una
res publica e dei vota nel diritto romano, in Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna,
Classe di scienze morali, Sez. di Scienze giuridiche, Ser. 1ª, 2 (1907-1908), 33 ss.; Magdelain, Essai sur les origines de la sponsio, Paris 1943, 118-120; Turlan, op. cit., 504 ss.; Bauman,
op. cit., 104 ss., pur senza
particolari argomenti o richiami; Scheid,
Les incertitudes cit., 417-418, 424;
v. anche Humbert, op. cit., 200-201, il quale paragona il
voto ai contratti innominati, ove l’obbligazione di Tizio sorge quando Caio
abbia senz’altro eseguito la sua prestazione: si consideri però che, se tale
prestazione forma oggetto di una condizione apposta ad un negozio solenne, dal
quale strutturalmente deriva l’impegno del vovens,
la situazione cambia di molto). Se infatti è vero che esistono testi letterari
nei quali, molto genericamente, il voto è avvicinato alla sponsio o la promessa descritta come suscettibile di accettazione
(v. principalmente Cic. leg. 2,16,41;
Aug. epist. 127,8; Tert. ieiun. 11,2), decisivo rimane tuttavia,
a nostro avviso, il rilievo che il modo con cui il dio manifesterebbe in
concreto il suo assenso nella fase genetica del rapporto resta del tutto
imprecisato ed ignoto. Per un approfondimento di questo ed altri connessi
problemi, che non possiamo affrontare in questa sede, si rinvia all’ampia
letteratura esistente in materia di voto, di cui si vuole qui in particolare
ricordare: Brisson, De formulis et sollemnibus populi Romani
verbis, Lipsiae 1731, 86 ss.; Bouché-Leclercq,
Les pontifes de l’ancienne Rome,
Paris 1871, 159 ss.; Karlowa, op. cit., 579 ss.; Wlassak, Der Gerichtsmagistrat im gesetzlichen Spruchverfahren, in ZSS 28 (1907), 34 ss.; Wissowa, op. cit., 381 ss.; Toutain,
in DS cit., 969 ss.; Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, 130-132; Kaser, Das altrömische Ius, Göttingen 1949, 125, 258, 302, 306, e Privatrecht cit., 253; Noaille, Du droit sacré au droit civil, Paris 1949, 302 ss.; Latte, op. cit., 46-47; Eisenhut,
s.v. Votum, in RE Suppl. 14 (1966), col. 964 ss.; Liebs,
Damnum, damnare und damnas. Zur
Bedeutungsgeschichte einiger lateinischer Rechtswörter, in ZSS 85 (1968), 203 ss.; Visky, Il votum in
diritto romano privato, in Index 2
(1971), 313 ss.; Tondo, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973,
93 ss.; Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune
fonti letterarie, in Studi in onore
di A. Biscardi, IV, Milano 1983, 297 ss., e s.v. Voveo, in Enciclopedia
Virgiliana 5 (1990), 629 ss.; Sitzia,
s.v. Promessa unilaterale, in ED 37 (1988), 29-31; Watson, The State, Law and Religion: Pagan Rome, Athens 1992, 39 ss.; Daza, op. cit., 505 ss.; Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur,
Torino 1995, 122 ss.; Versnel,
s.v. Votum, in The Oxford Classical Dictionary, 1996, 1613.
[76] Il pontefice non aderiva ad alcuna proposta
"contrattuale", anzi si adoperava perché fosse ritualmente posto in
essere quell'unico atto, la nuncupatio
della formula votiva, da cui derivava l'impegno. Due dichiarazioni consone
provenienti dalla stessa parte – ossia, nella fattispecie, il magistrato ed il
sacerdote in veste di suo consulente, entrambi in rappresentanza dello stato –
non generano dunque alcun consenso: il dio non può essere, sotto questo
profilo, considerato controparte.
[77] Significativa in proposito è anche la vicenda, risalente al 196,
descritta da Liv. 33,42,2-4 : Sed magnum
certamen cum omnibus sacerdotibus eo anno fuit quaestoribus urbanis Q. Fabio Labeoni et L. Aurelio. Pecunia opus erat,
quod ultimam pensionem pecuniae in bellum conlatae persolvi placuerat privatis.
Quaestores ab auguribus pontificibusque quod stipendium per bellum non
contulissent petebant. Ab sacerdotibus tribuni plebis nequiquam appellati,
omniumque annorum per quos non dederant exactum est. Circa le varie
iniziative intraprese dallo stato nel primo decennio del II secolo a.C. per
accrescere le proprie entrate, v. Bona,
Le societates publicanorum e le società
questuarie nella tarda repubblica, in Imprenditorialità
e diritto nell’esperienza storica, Palermo 1992, 21-24; v. anche Badian, Publicans and Sinners, New York 1972, 26 ss. Si tenga presente il
fatto che, nel giro di un breve lasso di tempo, grandi quantità di bottino
erano tuttavia destinate a confluire nelle casse dello stato: cfr. infra.
[80] Opinione largamente condivisa: v. per es. Scullard, Roman cit., 86-88; Schlag,
Regnum in senatu, Kiel 1965, 149-151;
Briscoe, A Commentary cit., 1973, 80, e Livy
cit., 1082.
[82] Per altri casi in cui si fa uso del verbo iubere per indicare il parere dato dal senato al magistrato circa
l’opportunità di consultare il collegio dei pontefici, v. ad es. Liv.
39,5,7-10; cfr. 41,16,6; Hemerelogia,
C.I.L. I², 212 ss.
[84] Cfr. Weissenborn, Müller,
op. cit., VII, 17 nt. 8; Bauman, op. cit., 108-109, secondo il quale, in
particolare, l’impugnativa qui sarebbe stata eccezionalmente presentata davanti
al collegio, anziché ai comizi tributi, come era normale avverso i provvedimenti
del pontefice massimo; Develin, The Practice of Politics at Rome 366-167
B.C., Bruxelles 1985, 256. V. ultimamente anche Rüpke, Kalender und
Öffentlichkeit, Berlin-New York 1995, 327, il quale sostiene che “das
Kollegium den Einspruch des Pontifex Maximus aufhob”; Warrior, The
Initiation cit., p. 68, secondo cui i pontefici “over-ruled the
pontifex-maximus”; Cannata, Per una storia della scienza giuridica
europea, I, Torino 1997, 26, il quale pare piuttosto limitarsi ad una
ricognizione meramente descrittiva della vicenda, parlando di una delibera del
collegio adottata “contro una precedente presa di posizione del pontefice
massimo”.
[85] Si consideri anche il fatto che la stessa provocatio ad populum veniva sì esercitata, in certi casi, ma solo dai
sacerdoti sottoposti al pontefice massimo, i quali fossero stati da questo
multati (v. per es. Liv. Per. 18 e
Val. Max. 1,1,2; Liv. 37,51,1-6; 40,42,8-11; Fest.
[86] Sul dissentire, all'interno del collegio, v. in particolare Bona, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, in
La certezza del diritto nell'esperienza
giuridica romana, Padova 1987, 121-122.
[87] Cfr. gli elenchi stilati da Schlag,
op. cit., 150-151, e Scullard, Roman cit., 87 nt. 3, ai quali
anche si rinvia per un’attenta disamina degli schieramenti politici
rappresentati all'interno del collegio pontificale nel
[88] Cfr. sul punto, con buoni ed ampi argomenti, Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari
[89] Cic. har. resp. 6,12: quod tres pontifices statuissent, id semper
populo Romano, semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum,
satis augustum, satis religiosum esse visum est; cfr. D. 50,16,85. V. anche
Bouché-Leclercq, Les pontifes
cit, 40; Lange, Römische Alterthümer³, I, Berlin 1876, 369-370; Szemler, Religio, Priesthoods and Magistracies in the Roman Republic, in Numen 18 (1971), 108, e The Priests cit., 24.
[90] Sull'evoluzione della giurisprudenza del collegio pontificale in
materia sacrale secondo il metodo casistico v. in particolare Latte, op. cit., 205-206.
[91] Cfr. Bona, La certezza cit., 123 nt. 44. Molto
recisa la posizione di Schlag, op. cit.,
p. 150, secondo cui si trattò di pronuncia contro il diritto, adottata per
ragioni politiche, qualunque fosse la giustificazione formale addotta in proposito
dal collegio.
[93] Cfr. recentemente Bianchi,
Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in
diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, 203 nt.
99.
[94] Ciò è dimostrato anche dal fatto che di lì a poco, per la
composizione di un carmen sacro, fu
scelto, probabilmente, un suo cliente, P. Licinio Tegola: v. Liv. 31,12,10;
cfr. per es. Gagé, op. cit., 354-356.
[95] Quando invece alla nuncupatio
del voto si doveva procedere altrove, non era il pontefice massimo, ma un
altro membro del collegio a dettare le parole della formula: cfr. supra.
[96] Non si vede infatti perché mai un voto ritualmente pronunciato
dal magistrato, anche senza l’ausilio del pontefice, debba considerarsi
invalido: cfr. supra. Di diverso
avviso Cancelli, La giurisprudenza unica dei pontefici e Gneo
Flavio, Roma 1996, 127, senza ulteriori argomentazioni.
[97] Significativa in proposito la testimonianza di Plin. nat. 28,3,11: Praeterea alia sunt verba inpetritis, alia depulsoriis, alia
commendationis, videmusque certis precationibus obsecrare suesse summos
magistratos et, ne quod verborum praetereatur aut praeposterum dicatur, de
scripto praeire aliquem rursusque alium custodem dari qui adtendat, alium vero
praeponi qui favere linguis iubeat, tibicinem canere ne quid aliud exaudiatur,
utraque memoria insigni, quotiens ipsae dirae obstrepentes nocuerint quotiensve
precatio erraverit; sic repente extis adimi capita vel corda aut geminari
victima stante. Cfr. Paoli, Verba praeire dans la legis actio, in RIDA 3 (1950), 281-324, spec.te 289-292;
Lévy-Bruhl, La congruentia dans la stipulation, in Archives de droit privé 16 (1953),
49 ss.; Humbert, op. cit., 196-200; Daza, op. cit., 509. Circa l’obbligo, sancito con decreto pontificale, di
procedere alla instauratio di atti
scorrettamente compiuti v., per l’epoca cui si fa qui riferimento, Liv. 32,1,9;
34,44,1-3; 40,45,2; 41,16,1-2.
[98] Sull’argomento - che è per noi di grande interesse, ma non
suscettibile di essere approfondito in questa sede -, basti qui ricordare che
studiosi autorevoli si sono decisamente pronunciati in questo senso: v. per es.
Kaser, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali del Sem. Giur. Univ. di Catania 3 (1949), 77 ss., e in Ars boni et aequi. Festschrift Waldstein,
Stuttgart 1993, 131 ss.; Humbert, op. cit., 196-200; v. recentemente anche
Cancelli, op. cit., 34 ss., il quale
tuttavia, in conformità ai suoi intendimenti di fondo, sottolinea (94) che
l’esistenza di un principio di oralità, e quindi di pubblicità, negoziale e
processuale, dominante anche la materia civile, rende implausibile ogni ipotesi
relativa al monopolio giurisprudenziale segreto dei pontefici. Cfr. infra.
[100] Cfr. infra. Sui
rapporti fra il praeire verbis e la
tradizione documentaria del collegio v. Sini,
Documenti cit., 151 ss., e A quibus cit., 126 nt. 23; North, op. cit., 52-53; cfr. Paoli,
op. cit., 308.
[101] Cfr. in proposito supra,
nt. 14 e infra, nt. 115, per gli
arcaismi rispettivamente rinvenibili
nella formula del voto del ver sacrum e
in quella dei ludi magni del 191.
[102] Si tratta del ver sacrum votato
nel 217 (per il quale v. supra).
Qualche perplessità sembra esprimere, in proposito, soltanto Aigner Foresti, op. cit., 141; ma ci pare francamente del tutto improbabile
l’ipotesi che questo fosse un altro ver
sacrum, della cui offerta in voto nelle fonti non vi sarebbe allora alcuna
traccia, nonostante il rilievo eccezionale che un simile evento certamente
avrebbe avuto.
[103] Liv. 34,44,1-3: Ver sacrum
factum erat priore anno, M. Porcio et L. Valerio consulibus. Id cum P. Licinius
pontifex non esse recte factum collegio primum, deinde ex auctoritate collegii
patribus renuntiasset, de integro faciendum arbitratu pontificum censuerunt
ludosque magnos qui una voti essent tanta pecunia quanta adsoleret faciendos:
ver sacrum videri pecus quod natum esset inter kal. Martias et pridie kal.
Maias P. Cornelio et Ti. Sempronio consulibus.
Liv. 34,44,6: Ver sacrum ludique
Romani votivi quos voverat Ser. Sulpicius Galba consul facti.
[105] Di quest’avviso anche Nissen,
op. cit., 161; Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 18 nt. 10, e VIII, 156
nt. 2, 157 nt. 8; Briscoe, A Commentary cit., 1973, 81.
[107] Liv. 27,33,8: Senatus quo
die primum est habitus, ludos magnos facere dictatorem iussit, quos M. Aemilius
praetor urbanus C. Flaminio Cn. Servilio consulibus fecerat et in quinquennium
voverat. Tum dictator et fecit ludos et in insequens lustrum vovit (l’espressione
fecerat et è insitizia per Briscoe, A Commentary cit., 1973, 81).
A sostegno della tesi da noi sopra esposta, nel testo, v. anche Nissen, op. cit., 161; Gardner Moore,
in Livy, books 36-37, VII, ed. Loeb, Cambridge 1970, 344; Frier, op. cit., 237; Scheid,
Les incertitudes cit., 421, 424.
[108] Come invece, senza più precise argomentazioni, sostiene Briscoe, A Commentary cit., 1981, 117.
[109] Dal contesto risulta del tutto improbabile che i ludi alla cui celebrazione si fa qui
riferimento siano diversi da quelli ai quali Livio ha accennato poco prima,
data anche la concomitanza costante col ver sacrum.
[110] La tradizione manoscritta (Bc) contempla, in ordine al prenome del console Sulpicio,
esclusivamente la versione Ser.,
corretta in P. da Pighius: cfr. Mac Donald, in Titi Livi ab urbe condita, V, ed. Oxoniensis, Oxford 1965, 225, significativamente richiamato, per
es., da Reeve, The Transmission of Livy 26-
[112] V. supra; cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 17 nt. 7 (i quali pur
sostengono che negli affari religiosi si utilizzava ancora il vecchio asse non
svalutato).
[114] V. supra, a proposito
della clausola tanta pecunia quantam tum
cum solveretur senatus censuisset.
[115] Liv. 36,2,2-5: Certa
deinde sorte senatusconsultum factum est, quod populus Romanus eo tempore
duellum iussisset esse cum rege Antiocho, quique sub imperio eius essent, ut
eius rei causa supplicationem imperarent consules: utique M.' Acilius consul
ludos magnos Iovi voveret, et dona ad omnia pulvinaria. Id votum in haec verba,
praeeunte P. Licinio pontifice maximo, consul nuncupavit: 'Si duellum, quod cum
Antiocho rege sumi populus iussit, id ex sententia senatus populique Romani
confectum erit; tum tibi, Iupiter, populus Romanus ludos magnos dies decem
continuos faciet, donaque ad omnia pulvinaria dabuntur de pecunia, quantam
senatus decreverit. Quisquis magistratus eos ludos quando ubique
faxit, hi ludi recte facti, donaque data recte sunto'.. Supplicatio inde ab duobus consulibus edicta per biduum
fuit. Giustamente a populus Weissenborn, Müller,
op. cit., VIII, 88, aggiungono Romanus, ché altrimenti si tratterebbe
di un unicum in citazioni dirette
(cfr. però Liv. 22,10,5-6, ove comunque
Romanus almeno figura all’inizio: il
rilievo è di Briscoe, A Commentary cit., 1973, 220).
[116] Nessun dubbio può sussistere, come già detto in precedenza,
circa la provenienza annalistica di testimonianze come la nostra, che
descrivono vicende della vita politica metropolitana, ed in particolare
riferiscono il contenuto di provvedimenti adottati dal senato, probabilmente
anche attingendo alla documentazione ufficiale. Si rammenti poi che per Klotz,
e per tutti coloro che ne accolgono la tesi, la fonte annalistica
principalmente utilizzata da Livio nel libro 36 è ancora la stessa di quella
utilizzata nel libro 31, ossia Valerio Anziate. Attribuiscono poi espressamente
ad Anziate i passi che ci accingiamo ad esaminare Soltau, Die
annalistische cit., 676-677, 694-695, e Livius
cit., 44; Kahrstedt, op. cit., 20-22, 85, 103-106; Volkmann,
in RE cit., col. 2324; Klotz, Livius cit., 39. Ma v. per es. anche Nissen, op. cit.,
340-341, che ritiene più probabile Quadrigario; Bredehorn,
op. cit., 171-172, il quale, pur
mostrando di conoscere le ipotesi generalmente formulate al riguardo, esprime
dubbi circa la possibilità di identificare con precisione, qui, l’annalista di
riferimento.
[117] P. Cornelium Cn. Filium
Scipionem et M’. Acilium Glabrionem consules inito magistratu patres, priusquam
de provinciis agerent, res divinas facere maioribus hostiis iusserunt in
omnibus fanis, in quibus lectisternium maiorem partem anni fieri solet,
precarique, quod senatus de novo bello in animo haberet, ut ea res senatui
populoque Romano bene atque feliciter eveniret. Ea omnia sacrificia laeta
fuerunt, primisque hostiis perlitatum est, et ita haruspices responderunt eo
bello terminos populi Romani propagari, victoriam ac triumphum ostendi.
[120] Le parole della precatio non
sono qui riportate direttamente da Livio, come invece in 31,5,4: questo
tuttavia non ci impedisce di rilevare, rispetto ad allora, tratti comuni e tratti distintivi. Sotto il
primo profilo, si osservi anzitutto che anche qui si fa menzione della guerra
che si stava per combattere, ma non dell’avversario contro il quale ci si
voleva cautelare con la precatio
(cfr. in proposito Liv. 21,17,4), il che testimonia del carattere
“fossilizzato” e non sempre di volta in volta adattabile, proprio dei formulari
religiosi, quale era stato recepito dagli annalisti che avevano attinto agli
archivi (cfr. Petzold, op. cit, 84); si noti poi il ricorrere
delle medesime espressioni, proprie del linguaggio sacerdotale formale, ed in
particolare del bene ac feliciter
eveniret (per il quale cfr. Liv. 21,17,4; 40,46,9; Cic. Mur. 1,1; v. anche Appel,
De Romanorum precationibus, Gissae
1909, 130-131, per una rassegna di altre fonti, in cui si fa uso di una formula
simile, e da cui si ricava che poteva farsi ricorso a questo tipo di preghiera
anche in circostanze diverse da una guerra imminente, ma sempre per il buon
esito di una qualche impresa). Sotto il secondo profilo, afferente ai tratti
distintivi, si osservi che il senato qui indica direttamente gli dei cui
rivolgere la preghiera (quelli del lettisternio), senza che i consoli possano
determinarli autonomamente, com’era invece avvenuto nel 200; sono anche riscontrabili talune differenze espressive,
dato che qui dopo il quod compare
soltanto la menzione del senatus, non
anche del populus, mentre come
beneficiario dell’invocazione figura il solo senatus populusque, non anche, oltre al populus, i socii ed il nomen Latinum (per analoghi rilievi v. Bredehorn, op. cit., 164-165). Sulla precatio,
che significativamente Cic. pro Mur.
1,1 descrive come un mos institumque
maiorum, v. infine Toynbee, Hannibal’s Legacy, II, London 1965, 409;
Briscoe, A Commentary cit., 1973, 68.
[121] V. supra, nt. 43; cfr.
infra, nt. 191 (v. anche Liv.
42,20,4; Tac. hist. 2,78). A conferma
di quanto dicevamo nella nota precedente, si osservi che anche il tenore del
responso degli aruspici, come in parte quello della precatio, sembra essere sempre uguale a se stesso, a prescindere
dalla situazione contingente: è appena il caso di ricordare, per es., che la
politica estera e militare romana dei primi decenni del II secolo non
perseguiva finalità di espansione territoriale diretta, ossia di istituzione di
nuove province. Cfr. Rich, op. cit., 12 e nt.5; di diverso avviso Briscoe, A Commentary cit., 1973, 69
il quale, dopo aver ipotizzato e poi negato che la formula fosse arcaica e
risalisse ai tempi delle conquiste in Italia, conclude che in realtà si tratta
di un’arbitraria inserzione di Livio,
[122] Sulla tecnica della variatio,
di cui Livio fa qui applicazione, v. per es. Walsh, Livy
cit., 174; Rüpke, Livius cit., 158; Warrior, The Initiation cit., 63, 93 e nt. 5; cfr. Weissenborn, Müller, op.
cit., VIII, 87 nt. 3.
[125] Egli, comunque, era il primo ad essere stato renuntiatus nelle elezioni dei consoli:
cfr. Liv. 30,24,5. Su questo personaggio, che già aveva rivestito la carica di
pretore (nell’anno 194: cfr. Broughton,
op. cit., 343), qui basti aggiungere
che naturalmente apparteneva al partito dell’Africano, al quale era anche
legato da vincoli di parentela (v. in particolare Scullard, Scipio
Africanus: Soldier and Politician, Bristol 1970, 201).
[126] Cfr.
Sumner, The Cronology of the Outbreak of the Second Punic War, in PACA 9 (1966), 17-18; Rich, op. cit., 21.
[129] Livio sembra aver premura di precisare che al console incaricato
della guerra (certa deinde sorte) fu immediatamente
assegnato il compito di votare i giochi e i doni: questa è probabilmente la
ragione per cui la notizia relativa ai pretori, con attribuzione delle relative
province e contingenti militari (36,2,6-15) è qui posticipata, rispetto alla
sequenza relativa ai fatti del 200, ma figura logicamente subito dopo. Più
difficile da spiegare risulta invece la collocazione, nella nostra sequenza,
dell’episodio concernente la consultazione dei feziali (36,3,7-12),
singolarmente inserito tra le due ambascerie (36,3,1 e 36,4): il fatto che,
nell’introdurlo, Livio usi la parola deinde
(il cui significato temporale è preminente: cfr. Oxford Latin Dictionary 2 (1969), 506) potrebbe far pensare che quella sia stata effettivamente la
successione cronologica degli eventi.
[130] Attribuiscono particolare rilievo al fatto che, tra i vari
contesti da noi esaminati in questo studio, vi sono delle corrispondenze, Soltau, Die annalistische cit., 666-667, e Livius cit., 27; Kahrstedt,
op. cit., 20-22, 85, 103-106; Petzold, op. cit., 84-85; Mac Donald, The Style cit., 157; Klotz,
Livius cit., 39; Rich, op. cit., 12 e nt. 4, 21 e nt. 7; Meadows,
op. cit., 40 ss.; Warrior, The Initiation cit., 59, 63, 93; cfr. Nissen, op. cit.,
88-92, 96; Volkmann, in RE cit., col.
2332; Smith, The Styles cit., 80; Bonnefond-Coudry, Le sénat de la république cit., 320-321, pur con qualche
inesattezza, come si evince dal fatto che l’autrice considera supplementari le
misure relative ai giochi e alla supplicatio,
disposte dal senato nel 191; Burck,
Das Geschichtswerk cit., 51-52.
[131] Tale personaggio merita qui qualche cenno ulteriore, anche
perché a lui è senz’altro attribuibile la legge con cui nel 191 si dettarono
disposizioni in materia di intercalazione, destinate ad incidere sull’attività
pontificale di aggiornamento del calendario (cfr. Macr. sat. 1,13,21). Homo novus,
ammesso a far parte del ceto nobiliare grazie all’aiuto di Scipione, M'. Acilio
Glabrione era stato tribuno della plebe nel 201, edile nel 197 e pretore nel
196 (cfr. Broughton, op. cit., risp.te 320, 333, 335);
candidatosi senza successo alle elezioni consolari del 193 (cfr. Liv. 35,10,3),
riuscì a farsi eleggere due anni dopo, insieme con un cugino dello stesso
Africano, distinguendosi anche per alcune importanti vittorie riportate contro
Antioco di Siria, che gli sarebbero valse il trionfo (Liv. 37,46,2).
Successivamente la carriera di Acilio ebbe una brusca battuta d’arresto, anche
per l’ostilità di Catone e del partito conservatore: nel 189 egli venne
addirittura sottoposto a processo (cfr. Liv. 37,57,9-15 e 58,1-2). Si noti tra
l'altro che Acilio nel 200 era stato nominato decemvir sacrorum (cfr. Liv. 31,50,5), e che pertanto era
certamente esperto di usanze e tradizioni religiose greche. A conferma ed
integrazione di quanto sopra v. Rohden, s.v. Acilius, in RE 1 (1894), col. 255; Scullard, Roman cit., 28 nt. 3; Inglieri, Luni. Elogium di Manio Acilio Glabrione vincitore di Antioco il Grande
alle Termopili, in NSA Ser. 8ª 6 (1952), 20 ss.; Münzer, op. cit.,
91; Cassola, op. cit., 381, 385, 399; Pietilä-Castren, Sulle origini degli Acilii Glabrioni, in Opusc.IRF 1 (1981), 63 ss., e New
Men and the Greek War Booty, in Arctos
16 (1982), 127-133; Sordi, Acilio Glabrione e l’Atena Itonia di Coronea,
in
[132] Probabilmente distinti dai commentarii
in quanto vi si conservavano i formulari, non i decreti: cfr. supra, nt. 00, con le indicazioni
bibliografiche.
[133] Cfr. s.v. bellum, in Oxford Latin Dictionary 1 (1968), 228;
s.v. facio, in Oxford Latin Dictionary 3 (1971), 668.
[134] Cfr. per es. Mac Donald,
The Style cit., 156-157; Bredehorn, op. cit., 55-56 nt. 65, 166-167; Briscoe,
A Commentary cit., 1981, 219; Laffi, op. cit., 25, 30, 33, il quale pur sostiene che il latino della
formula è, nel complesso, quello del I sec. a.C., adattato dall’annalistica; Burck, Das Geschichtswerk cit., 180; Sini,
A quibus cit., 127-128, e Ut iustum conciperetur bellum: guerra
“giusta” e sistema giuridico-religioso romano, in Seminari di storia e di diritto, III, “Guerra giusta”? La metamorfosi di un concetto antico, Milano 2003,
56; cfr. supra, a proposito della
formula del ver sacrum. V. anche Walsh, Livy cit., 123; Weissenborn, Müller, op. cit., VIII, 88 nt. 2, 89 nt. 5, i
quali rilevano anche la singolarità dell’uso dell’espressione quando ubicumque, in luogo di quandocumque et ubicumque; Versnel, Triumphus cit., 109.
[135] Certo nel 217 (cfr. supra,
nt. 14), e probabilmente anche nel 200, visto che, rispetto ai precedenti voti
quinquennali, si utilizzarono gli eadem
verba.
[136] V. per es. Plut. Flam. 14; Eutr. 4,2; cfr. Cic. Mur.
14,31; Pis. 25,61; Liv. 34,52;
Val. Max. 5,2,6. A sostegno delle argomentazioni formulate
sopra, nel testo, v. anche, per es., Ronconi,
Scardigli, in Storie di Tito Livio (libri XXXVI-XL), ed.
Utet,
Torino 1980, 76 e nt. 4, e Schlag,
op. cit., 155 ss. D’altra parte si
osservi che ancora nel 196 i questori urbani, per pagare ai privati l’ultima
rata delle somme prestate, avevano dovuto fare pressione sui pontefici e sugli
auguri, che non avevano versato lo stipendium
durante la guerra (cfr. supra; v.
anche quel che avvenne nel
[138] La formula del voto del 200, si ricordi, a parte la modifica
relativa alla pecunia incerta, venne
elaborata con gli eadem verba utilizzati
in occasioni precedenti.
[141] Ma v. infra nt. 184,
circa il voto del 172, anche in ordine, peraltro, all’identità del console nuncupans, che non è quello che avrebbe
condotto la guerra.
[142] Cfr. supra; v. anche Mommsen, Staatsrecht cit., I, 244 e nt. 4; Versnel,
Triumphus cit., 109; Pape, op. cit., 36; Daza, op. cit., 516, che impropriamente allude
alla necessità dell’inserzione di una clàusula
especial.
[143] Incombenza, questa, da cui il senato non era invece gravato per
l’adempimento del voto del 217.
[144] Console nel 189 (cfr. Liv. 37,47,7), con imperium prorogato all’anno successivo (Liv. 38,35,3), M. Fulvio
Nobiliore sconfisse gli Etoli e conquistò Ambracia (Pol. 21,27-28; 21,30,9-10;
Liv. 38,4-7; 38,9,13-14); impresa, questa, che gli valse il trionfo (Liv.
39,5,6). In precedenza egli aveva rivestito le cariche di edile curule, nel 196
(Liv. 33,42,8), e di pretore, nel 193 (Liv. 34,54,2); in seguito verrà eletto
censore, nel 179 (Liv. 40,45,7). A proposito dell’aspra inimicizia che per
lungo tempo oppose Fulvio al futuro pontefice massimo M. Emilio Lepido v.
soprattutto Liv. 38,44,3-6; 39,4,8-12; v. anche 38,43,1; 39,46,14. Circa la
riconciliazione tra i due, che vi addivennero per spartirsi il potere, nel 180,
v. in particolare Liv. 40,42,11-12 (cfr. Münzer,
op. cit., 201). Ad integrazione di
quanto detto sopra v. ancora, per es., Münzer,
s.v. Fulvius, in RE 7 (1912), col. 265-267; Warrior,
The Chronology of the Movements of M. Fulvius
Nobilior (cos. 189) in 189/188 B.C., in Chiron
18 (1988), 325 ss.; Rüpke, Kalender cit., 332.
[145] V. in particolare Liv. 27,25,7-
[147] La celebrazione di ludi
magni votivi, probabilmente, finì
per diventare una sorta di accessorio dei trionfi, pur restando da essi
formalmente distinta: cfr. Piganiol,
op.cit., 91.
[148] In generale, a conferma di quanto sopra, sulla sorte del bottino
e delle sue ripartizioni (con particolare riferimento alle manubiae), ed anche in ordine al controllo di carattere finanziario
esercitato dal senato, v. soprattutto Bona,
s.v. Preda bellica, in ED 34 (1985), 911 ss.; v. anche, dello
stesso autore, Sul concetto di manubiae e
sulla responsabilità del magistrato in ordine alla preda, in SDHI 26 (1960), 105 ss.; v. inoltre per
es. Shatzman, The Roman General’s Authority over Booty, in Historia 21 (1972), 177-205; Pape,
op. cit., 39-40, e Aberson, op. cit., spec.te 22-26, 62, 66 ss., 120-121, 133-136, 180 ss., 199
ss., con conclusioni in parte diverse da quelle di Bona e non particolarmente
condivisibili, specie in relazione alla imperfetta ricostruzione della
procedura adottata per la ratifica dei voti e ai non chiariti rapporti fra
senato e collegio pontificale.
[149] Liv.
39,5,7-10: Is cum gratias patribus
conscriptis egisset, adiecit ludos magnos se Iovi Optimo Maximo eo die, quo
Ambraciam cepisset, vovisse: in eam rem sibi centum pondo auri a civitatibus
collatum. Petere, ut ex ea pecunia, quam in triumpho latam in aerario positurus
esset, id aurum secerni iuberent. Senatus pontificum collegium consuli iussit,
num omne id aurum in ludos consumi necessum esset. Cum pontifices negassent, ad
religionem pertinere, quanta impensa in ludos fieret; senatus Fulvio, quantum
impenderet, permisit, dum ne summam octoginta milium excederet.
[150] Più precisamente si trattava di ludi atletici, secondo il
modello greco, ancora piuttosto inconsueti in quei primi anni del II secolo: v.
Liv. 39,22,1-2; cfr. per es. Richardson, Hercules
Musarum and the Porticus Philippi in Rome, in American Journal of Archaelogy 81 (1977), 355. Sebbene infatti del processo di ellenizzazione del costume e dei
riti certamente risentissero anche i giochi, occorre tuttavia ricordare che
Roma disponeva, già dal tempo degli Etruschi, di una propria autonoma, assai
significativa, tradizione ludica: v., in proposito, soprattutto Harmon, op. cit., 236 ss.; cfr., per es., Bouley,
Jeux et enjeux politiques internationaux
au IIe s. av. J.-C., in DHA
12 (1986), 360.
[153] Si ricordi che il trionfo, già decretato in favore del Nobiliore,
non era stato ancora celebrato (v. poi infatti Liv. 39,5,11 ss.).
[154] V. anche, per es., Pais,
Ricerche sulla storia e sul diritto
pubblico di Roma, I, Roma 1915,
207; Frazer, The Fasti of Ovid, London, 1929, 345; Skutsch, Enniana,
I, in CQ 38 (1944), 79; Tamm, Le temple des Muses à Rome, in Opuscula
Romana 3 (1961), 160-161; Bona,
Sul concetto cit., 126 e nt. 51; Coarelli, Architettura e arti figurative in Roma: 150-
[155] Questo si evince dal fatto che della questione della somma il
senato viene investito e su di essa poi si pronuncia.
[160] V. per es. Cic. fam. 10,12,3;
Luc. Phars. 3,105-107; v. anche Willems, op. cit., II, 130-131, 173; Mommsen,
Staatsrecht cit., II, 129-130,
232-233, 316.
[161] Un parallelo per questa impostazione si può forse cogliere
nell’episodio relativo alla casa di Cicerone, ove il pontefice M. Lucullo,
parlando in senato de omnium conlegarum
sententia, afferma che il collegio si era in precedenza pronunciato de religione, mentre stabilire se vi era
o non una legge applicabile al caso della domus
dell’Arpinate era una questione di fatto: cfr. Cic. Att. 4,2,4. V. anche Bona,
La certezza cit., 124-125.
[163] Sulla forte contrapposizione esistente tra M. Emilio Lepido e M.
Fulvio Nobiliore, e tra le relative fazioni, v. quanto già detto supra.
[164] E’ da presumersi che si trattasse di assi, benché nel testo di
Livio manchi l’indicazione della moneta: ciò risulta infatti anche dal
raffronto con una vicenda analoga (Liv. 40,52,1-3: Et alter ex censoribus M. Aemilius petiit ab senatu, ut sibi
dedicationis templorum Reginae Iunonis et Dianae, quae bello Ligustino ante
annis octo vovisset, pecunia ad ludos decerneretur. Viginti millia aeris
decreverunt), per cui v. ad es. Sage,
in Livy, books 40-42, XII, ed. Loeb,
London-Cambridge, 1957, 160 nt. 2; Weissenborn-Müller,
op. cit., IX, 223 nt. 1; più in
generale, v. ancora Weissenborn, Müller,
op. cit., IX, 10 nt. 10 (che
significativamente richiama Liv. 40,45,2); Briscoe,
A Commentary cit., 1973, 81; Gwin Morgan, op. cit., 29 e nt. 77; Aberson, op. cit., 211 nt. 48. Gli autori che nei loro commenti all’opera di
Livio (Ronconi, Scardigli, in Storie
cit., 516 nt. 14; Sage, in Livy, books 38-39, XI, London-Cambridge 1949, 230 e nt. 3; Gouillart, in Tite-Live, Histoire romaine, XXX, Paris 1986, 81 nt. 2) prendono in
considerazione unicamente l’ipotesi che la somma in questione fosse invece
espressa in sesterzi o in denarii – cui rispettivamente corrisponderebbe un
ammontare di venti od ottanta libbre d’oro – sembrano non tener conto, a nostro
avviso, dei precedenti riferibili allo stesso Livio, né del carattere
conservativo tipico, se qui non delle formule sacerdotali, certo della
tradizione ad esse in qualche modo afferente. Fra l’altro, non vi sono dubbi
che all’inizio del II secolo l’asse era ancora moneta in corso: v. per es. Mommsen, Geschichte cit., 379-384. Pertanto
la nostra presunzione è legittima, e bisognerebbe semmai dare prova del contrario.
Si rammenti comunque che esistevano allora equivalenze precise fra l’asse e le
altre monete da una parte, e l’oro dall’altra: v. ancora Weissenborn, Müller, op. cit., IX, p. 10 nt. 10 (cfr. supra, p. 0 nt. 00).
[165] Sulla taxatio che, in
particolare, il giudice poteva apporre al iusiurandum
in litem, si leggano comunque le illuminanti considerazioni di Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 438: «Questa
possibilità era, in sostanza, contraria alla logica dell’istituto, essendo
difficile che l’attore fissasse un valore inferiore alla somma massima indicata
dal giudice, di modo che sarebbe stato in definitiva quest’ultimo a procedere
alla litis aestimatio».
[166] V. Liv. 40,44,8-10: Q. Fulvius consul priusquam ullam rem publicam ageret, liberare et se
et rem publicam religione votis solvendis dixit velle. Vovisse, quo die
postremum cum Celtiberis pugnasset, ludos Iovi Optimo Maximo et aedem Equestri
Fortunae sese facturum: in eam rem sibi pecuniam collatam esse ab Hispanis.
Ludi decreti et ut duumviri ad aedem locandam crearentur. De pecunia finitur ne
maior ludorum causa consumeretur quam quanta Fulvio Nobiliori post Aetolicum
bellum ludos facienti decreta esset. Cfr. Weissenborn,
Müller, op. cit., IX, 1965, 10
nt. 6 e 7.
[167] Cfr. Daza,
op. cit., 507. Sull’episodio in questione v. anche Gwin Morgan, op. cit.,
29 e nt. 77, le cui considerazioni per lo più condividiamo. Cfr. Pape, op. cit., 12-14, 35, 42-43; Aberson,
op. cit., 210-211 e nt. 48.
[168] V. per es. Pol. 18,44,7; Liv. 33,30,7-8; Eutr. 4,2, circa
l’indennità di guerra fissata dai Romani alla sconfitta monarchia macedone.
[170] Tit. Ulp. 2,4: Sub hac
condicione liber esse iussus ‘si decem milia heredi dederit', etsi ab herede
abalienatus sit, emptori dando pecuniam ad libertatem perveniet: idque lex XII
tabularam iubet; cfr. D. 40,7,25 e 40,7,29,1. Per la dottrina, generalmente
esistente in materia di statuliber, e
che è comunque piuttosto scarsa, si
vedano soprattutto gli scritti di Donatuti,
Lo statulibero, Milano 1940, part.te
119 e 252-253; Bretone, s.v. Statuliber, in NNDI 18 (1971), 380-383; Kupiszewski,
Les remarques sur les statuliberi en
droit romain classique, in Actes du
colloque sur l’esclavage, Warszawa 1979, 227-238, e ora in Scritti minori, Napoli 2000, 355-365.
[171] Sul punto, cfr. Bianchi,
op. cit., 447-448, il quale
giustamente rileva come l’alienazione del servo di per sé non impedisca
l’adempimento, che potrà essere effettuato nei confronti dell’acquirente. Si
osservi peraltro che in tutte le fattispecie “originarie” sembra darsi il caso
di condizioni il cui verificarsi di per sé richiede la cooperazione della
controparte, per cui v. ad es. Donatuti,
Sull’adempimento fittizio delle
condizioni, in SDHI 3 (1937), 67; Bianchi,
op. cit., 462.
[172] Cfr. soprattutto infra;
v. fin d’ora, comunque, per es., Dekkers,
La fiction juridique. Etude de droit
romain et de droit comparé, Paris 1931, 204-205, favorevole ad una
soluzione nel primo senso; García Garrido,
Sobre los verdaderos limites de la
ficción en derecho romano, in AHDE
27-28 (1957-58), 336; Robbe, La fictio iuris e la finzione di adempimento
della condizione nel diritto romano, in Studi
in onore di Salvatore Pugliatti, IV, Milano 1978, p. 668; Bianchi, op. cit., 447-448, favorevoli ad una soluzione nel secondo senso.
[173] Cfr. García Garrido,
op. cit., 336-337; Bianchi, op. cit., 447, 459, il quale in particolare nega che per allora si
possa parlare di applicazione analogica.
[174] Ammesso che poi di vera e propria finzione in senso tecnico si
possa parlare, specie in riferimento all’età meno avanzata: cfr. Bianchi,
op. cit., 446 ss., al quale
senz’altro si rinvia per l’approfondimento del problema, su cui non è qui
possibile dilungarci; di diverso avviso per es. Robbe,
op. cit., 667 ss. Circa il rilievo,
peraltro, che la figura della finzione ebbe in generale nell’ambito del ius sacrum v. ancora, per es., Robbe, op. cit., 632 ss.; Bianchi,
op. cit., 33-159.
[175] Cfr. D. 40,7,3,pr.-2, con particolare riferimento alle pronunce
in materia di Servio Sulpicio Rufo. V. anche per es. Archi, s.v. Condizione,
in ED 8 (1961), 750; Robbe, op. cit., 670; Bianchi,
op. cit., 452-455, il quale –
basandosi, oltre che sulla fonte sopra citata, anche su Fest.
[176] V. Tit. Ulp. 2,5: Si per
heredem factum sit, quominus statu liber condicioni pareat, proinde fit liber,
atque si condicio expleta fuisset; Fest. 414,32 L: Statu liber est, qui testamento certa condicione proposita iubetur esse
liber: et si per heredem est, quominus statu liber praestare possit, quod
praestare debet, nihilominus liber esse videtur; v. ancora D. 40,7,3 pr.-2.
Cfr. Bianchi, op. cit., 449-450, secondo cui Tit. Ulp. 2,5 segna comunque «un
salto logico» rispetto alla norma decemvirale (in ciò accogliendo,
letteralmente, l’opinione di Grosso,
Contributo allo studio dell’adempimento
della condizione, Torino 1930, 16 nt. 13); v. anche Mitteis, op. cit.,
172; García Garrido, op. cit., 336; Masi, Studi sulla
condizione nel diritto romano, Milano 1966, 220-221; Robbe, op. cit., 670-672.
[177] Negano tuttavia qualunque connessione col precetto di Tab. 7,12
(Tit. Ulp. 2,4), per es., Perozzi,
Istituzioni di diritto romano², I,
Roma 1928, 166 nt. 1; Donatuti, Sull’adempimento cit., 65. Ora, è vero che in Tit. Ulp. 2,5 non si fa riferimento ad
alcun rapporto di derivazione della regola dalla legge decemvirale, ma non si
può negare che i due passaggi, proprio perché collocati in immediata
successione l’uno rispetto all’altro, risultino anche vicendevolmente
coordinati: v. Bianchi, op. cit., 458; cfr. Vassalli, Dies vel condicio, in BIDR 27
(1914), 193-196, e in Studi Giuridici, I,
Roma, 1939, 246-249.
[178] V. D. 35,1,24 e 50,17,161; v. anche D. 31,34,4; 33,1,13 pr.;
35,1,24;66;78 pr. Cfr. per es. Archi,
op. cit., 750; Masi, op. cit., 220-221; Robbe,
op. cit., 672-674; Bianchi, op. cit., 459-460.
[179] V. ancora D. 35,1,24 e 50,17,161, oltre a D. 18,1,8 pr. e 50 (in
tema di compravendita); D. 45,1,85,7. Cfr. Archi,
op. cit., 750; Masi, op. cit., 220 ss.; Robbe,
op. cit., 672-674; Bianchi, op. cit., 459-460. Circa i molti
problemi relativi ai tempi di questa piena generalizzazione, se in particolare
essa sia da collocarsi già in età classica o si sia invece affermata solo in
epoca successiva, non possiamo in questa sede soffermarci: ci limitiamo perciò
a rinviare, per es., a Grosso, Contributo cit., part.te. 44 ss.; Donatuti, Sull’adempimento cit., 74
ss.; Archi, op. cit., 750; Masi, op. cit., 220-221; Bianchi, op. cit., 459-460.
[181] In iure civili receptum est, quotiens per eum,
cuius interest condicionem non impleri, fiat, quo minus impleatur, perinde
haberi, ac si impleta condicio fuisset. Cfr. D. 35,1,24.
[182] La condition est réputée accomplie lorsque c’est
le débiteur, obligé sous cette condition, qui en a empêché l’accomplissement.
[183] La condizione si considera avverata qualora sia mancata per
causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di
essa.
[184] Liv. 42,28,8-9: Eodem die
decrevit senatus, C. Popillius consul ludos per dies decem Iovi Optimo Maximo
voveret, donaque circa omnia pulvinaria dari, si respublica decem annos in
eodem statu fuisset. Ita ut censuerat, in Capitolio vovit consul ludos fieri,
donariaque dari, quanta ex pecunia decresset senatus, cum centum et
quinquaginta non minus adessent. Praeeunte verba Lepido pontifice maximo, id
votum susceptum est.
[185] Opinione generalmente diffusa in dottrina. V. per es. Nissen, op. cit., 243, 246, 256, secondo cui il libro 42 è un agglomerato
di fonti diverse, greche e annalistiche, senza molto ordine (in particolare, i
capitoli 18-28 e 30-36 sarebbero annalistici, mentre il capitolo 29 di
ascendenza polibiana); Unger, op. cit., 186-188, secondo cui 42,25,14-27,8 è riferibile ad Anziate, 42,28,1-
[187] Già probabilmente pretore nel 175, di nuovo console nel 158
(cfr. Broughton, op. cit., risp.te 402 e 446), C. Popilio
Lenate apparteneva ad una famiglia plebea che nel terzo decennio del III secolo
era assurta ai vertici della scena politica: cfr. Scullard, Roman cit., 194-198; Münzer, RAAF, 216
ss.; Meloni, Perseo e la fine della monarchia macedone, Roma 1953, 194-195; Paltiel, Antiochos Epiphanes and Roman Politics, in Latomus 41 (1982), 229 ss.
[188] Cfr. Liv. 42,28, 1 e 4. Secondo Warrior, Notes cit., 3-4, 18, il ritardo potrebbe
essere attribuito all’intento del console di fare pressione sul senato
affinché, in cambio del suo ritorno a Roma, fosse usato al fratello Marco, che
era sotto processo (cfr. Liv. 42,22,2-7), un trattamento privilegiato; cfr. Meloni, op. cit., 195 e nt. 1.
[190] Liv. 42,28,7: Consulibus
designatis imperavit senatus, ut, qua die magistratum inissent, hostiis
maioribus rite mactatis precarentur, ut, quod bellum populus Romanus in animo
haberet gerere, ut id prosperum eveniret. Si osservi che, sebbene la guerra
non sia stata ancora dichiarata, nella premessa della precatio si continua a farne menzione, come già nel 200 e nel 191:
ciò a dimostrazione del carattere tendenzialmente rigido e non adattabile della
preghiera, il cui scopo meramente propiziatorio e non impegnativo, del resto,
la differenziava molto dal voto. Inoltre, si noti che l’espressione prosperum eveniret (per la quale v.
anche Liv. 5,51,5; 21,21,9; 37,47,4: cfr. Weissenborn,
Müller, op. cit., IX, 108 nt.
7) qui sostituisce il più consueto bene
ac feliciter, e che manca affatto l’indicazione del beneficiario
dell’invocazione. Per il resto si rinvia a quanto ampiamente detto supra.
[191] Liv. 42,30,8-9: Consules,
quo die magistratum inierunt, ex senatus consulto cum circa omnia fana, in
quibus lectisternium maiorem partem anni esse solet, maioribus hostiis
immolassent, inde preces suas acceptas ab diis immortalibus ominati, senatui
rite sacrificatum precationemque de bello factam renuntiarunt. Haruspices ita
responderunt: si quid rei novae inciperetur, id maturandum esse; victoriam,
triumphum, propagationem imperii portendi. V. anche Weissenborn, Müller, op.
cit., IX, 112-113 nt. 8 e 9, rispettivamente per preghiera e responso degli
aruspici. Riguardo alla precatio si
osservi, ancora, che come nel 191 è il senato ad indicare direttamente ai
consoli gli dei cui rivolgere l’invocazione (cfr. supra). Riguardo poi al responso degli aruspici, cfr. anche Liv.
42,20,4, ove compare l’espressione prolationem
finium (per il resto v. supra).
[194] Cfr., per una particolare sottolineatura di questo dato d’ordine
cronologico, Bredehorn, op. cit., 206-207.
[195] Alle idi di marzo: cfr. Liv. 31,5,2 (supra, nt. 00); v. anche, con particolare riferimento all’episodio
in esame, Warrior, Notes cit., 14. Più in generale, ricordiamo che solo a partire dal 153 i
consoli entreranno in carica alle calende di gennaio: v. per es. Mommsen, Staatsrecht cit., I, 564 e nt. 1, con le fonti ivi richiamate; Kübler, s.v. Consul, in RE 4 (1900),
col. 1116; Michels, The Calender
of the Roman Republic, Princeton 1967, 97-98; Briscoe, A Commentary cit., 1973, 68.
[197] C. Popilio Lenate partecipò alla terza guerra macedonica nel 170-169,
ma solo in qualità di legato: v. Liv. 43,22,2-3; cfr. Broughton, op. cit.,
422 e 426.
[199] Cfr. supra, circa il
tenore formale della richiesta fatta agli dei nel 191, alla vigilia della
guerra contro Antioco, della quale si avvertiva forse la minor pericolosità per
la sopravvivenza dello stato.
[200] Ciò a prescindere dal fatto che essa effettivamente fosse quella
da noi sopra ipotizzata, come pur riteniamo presumibile.
[201] Cfr. Liv. 39,18,9, ove analogamente si tratta di materia sacrale;
v. anche Weissenborn, Müller, op. cit., IX, 108 nt. 9.
[202] Cfr. Bonnefond-Coudry,
Le sénat de la république cit., 402,
che rileva come il nostro sia uno dei pochi casi, attestati nelle fonti (per
gli altri si rinvia alla stessa autrice, loc.
cit.), in cui si richieda un certo quorum
per l’adozione di una delibera senatoria, la quale peraltro qui non
consiste in una misura religiosa, ma nella decisione sul relativo
finanziamento. Sul problema della scarsa frequenza in senato cfr. Liv. 38,44,6,
concernente la già esaminata vicenda di M. Fulvio Nobiliore; v. anche, più in
generale, la stessa Bonnefond-Coudry,
Le sénat de la république cit., 357
ss.
[203] Si tratta di una delle più grandi personalità del II secolo:
patrizio, pontefice dal 199 (cfr. Liv. 32,7,15), pontefice massimo dal 180
(Liv. 40,42,11-12), fu anche pretore nel 191, console nel 187 e 175, censore
nel 179 (cfr. Broughton, op. cit., risp.te 352; 367, 401; 392), princeps senatus a partire dal 179 (cfr.
Liv. 40,45,6; Per. 48). La gens cui apparteneva era
tradizionalmente vicina alle posizioni politiche dei Cornelii (cfr. Scullard, Roman cit., 39 ss.): egli
fu sempre ostile al conservatorismo catoniano, oltre che avversario personale
di M. Fulvio Nobiliore, l'eroe di Ambracia, che Emilio nel 187, l’anno del suo
consolato, cercò di ostacolare in ogni modo (cfr. Liv. 38,44,3-6; 39,4,8-12; v.
anche Liv. 37,47,6-7 e 38,35,1, circa la grave opposizione in precedenza fatta
dal Nobiliore all’elezione a console di Lepido). Nel 180 dovette però scendere
a patti con i Fulvii e con lo stesso Nobiliore per conseguire i suoi obiettivi
politici, tra i quali il pontificato massimo (v. Liv. 40,42,11-12; cfr. Münzer, RAAF, 201). Negli ultimi decenni di vita, che furono i più luminosi
della sua carriera, M. Emilio Lepido esercitò ininterrottamente la carica di princeps senatus. Quando morì,
probabilmente nel 152, dispose che i figli gli celebrassero un funerale il più
semplice possibile, perché – diceva – i grandi uomini si riconoscono dalla fama
dei loro antenati e non dallo sfarzo (cfr. Liv. Per. 48). Gli succedette, come capo del collegio, P. Cornelio
Scipione Nasica Corculum (cfr. Cic. de or. 3,33,134; nat. deor. 3,2,5; sen. 14,50).