N. 4 – 2005 – Tradizione Romana

 

LORENZO  FRANCHINI

Università Cattolica di Milano e

Istituto della Enciclopedia Italiana

 

Voti di guerra e regime pontificale della condizione.

La riforma del 200

 

Sommario: Premessa. – I. Casi precedenti e procedure pontificali. – 1.1. I ludi votivi di guerra. – 1.2. I precedenti ex certa pecunia. – 1.3. La procedura di consultazione del collegium pontificum. – II. La riforma del 200. – 2.1. Il contesto storico e politico-religioso. – 2.2. Il voto ex incerta pecunia ed il dibattito in senato. – 2.3. Le contrapposizioni interne al collegio pontificale. – 2.4. Il rectius esse del responso collegiale ed il problema della ratio ispiratrice. – 2.5. L’esecuzione del decreto. – III. Le applicazioni successive. – 3.1. L’adempimento del voto del 200. – 3.2. Il voto del 191. – 3.3. M. Fulvio Nobiliore ed il voto di Ambracia. – 3.4. Ulteriori rilievi in merito al rectius esse. La disciplina pontificale della condizione. – 3.5. Il voto del 172.

 

 

Premessa

 

Con la presente opera ci poniamo l’obiettivo di verificare come, riguardo alla disciplina dei voti di guerra fra il III ed il II secolo a.C.:

a)                                                    l’esperienza pontificale desse sostanzialmente luogo ad una situazione di ius controversum: ciò, sia nella diacronia, per il verificarsi di mutamenti anche repentini delle tendenze giurisprudenziali precedenti; sia, per certi versi, nella sincronia, data la possibilità di controversie anche accese tra i pontifices in merito alle questioni loro sottoposte, pur destinate ad essere chiuse tramite un pronunciamento ufficiale del collegio (decretum);

b)                                                    sulle opinioni espresse dai singoli e sulle decisioni finali assunte dal collegio incidessero, piuttosto pesantemente, calcoli ed interessi di tipo politico, dovuti, per lo più, alle appartenenze dei pontefici a questa o a quella fazione della classe dirigente romana del tempo;

c)                                                    la ratio che, sul piano giuridico-formale, ispirava l’interpretatio pontificale, in materia di diritto sacro, non fosse estranea a quella su cui si era andata stutturando, lungo un arco di tempo assai esteso, la disciplina di importanti istituti del ius civile.

Di tutto ciò, cercheremo di dar conto, nel corso di un’indagine che ha, a suo fulcro, il tentativo di spiegare perché, nel 200 a.C., l’offerta di un votum – inteso come atto unilaterale strutturalmente condizionato[1] – venne ritenuta preferibile (rectius esse) se fatta ex incerta pecunia piuttosto che ex certa pecunia, com’era sempre avvenuto prima.

 

 

I

Casi precedenti e procedure pontificali

 

1.1. – I ludi votivi di guerra

 

Alla vigilia di una guerra importante i Romani cercavano di rendersi propizi gli dei offrendo loro, in cambio della vittoria sperata, voti solenni: piuttosto frequenti risultano essere, a partire dal III secolo a. C., quelli aventi per oggetto la celebrazione di ludi magni.

Si trattava di voti che potremmo fin d’ora fondatamente definire pubblici e occasionali[2]. Pubblici, perché chi assumeva l’impegno nei confronti degli dei era, tramite il console, la città intera[3]: i magistrati cum imperio[4], infatti, pronunciando le parole di rito, vincolavano la repubblica e non se stessi, tanto che il voto in seguito veniva per lo più adempiuto da soggetti diversi dai promittenti[5], ossia dai magistrati eletti per gli anni successivi, i quali parimenti disimpegnavano l’intera comunità nei confronti della divinità. Occasionali, perché tali voti – distinti da quelli ordinari, che i consoli pronunciavano annualmente, al momento di entrare in carica, per assicurarsi la prosperità corrente e normale dello stato[6] – avevano appunto carattere eccezionale, essendo offerti per impetrare il favore degli dei per la buona riuscita di un’impresa che ci si accingeva a compiere. I ludi magni votivi, promessi agli dei in situazioni di imminente e grave pericolo, erano dunque abbastanza rari, in ciò differenziandosi dai ludi magni detti anche maximi o Romani, che invece si celebravano annualmente nel mese di settembre[7].

 

1.2. – I precedenti ex certa pecunia

 

Da Liv. 31,9,10[8] apprendiamo che le offerte votive dei grandi ludi a Giove erano state fatte, prima del 200 a. C., in ben otto occasioni, de certa pecunia, ossia con l’inserimento nella formula da pronunciare, predisposta dal collegio pontificale[9], di una clausola contenente l’indicazione esatta della somma di denaro da accantonare e, eventualmente, da spendere per la celebrazione dei giochi, nel caso di esaudimento della richiesta da parte del dio.

Ora, la possibilità di identificare con esattezza tali otto precedenti casi sembra preclusa dalla perdita della seconda decade dell’opera liviana, anche in considerazione del fatto che le testimonianze relative all’ammontare della somma sono da riferirsi, quasi certamente, al III secolo, piuttosto che ad epoche più risalenti (V secolo e prima metà del IV); per queste, invero, non mancano attestazioni nelle fonti[10], ma esse francamente appaiono – anche per il carattere forse leggendario di alcuni dei ludi cui si riferiscono – poco pertinenti alla nostra indagine[11]. Sulla datazione dei voti regna dunque grande incertezza, ma due dati sembrano inoppugnabili, oltre a quello, ampiamente documentato, del voto del 217: ossia che ludi magni erano stati offerti anche prima di quell’anno, e che altri lo sarebbero stati, nel 208, dal dittatore T. Manlio Torquato[12].

Il rilievo che veniva attribuito, in quel periodo, alla cautela formale della certa pecunia è in particolare evincibile dall’episodio dei ludi votati, come detto, nel 217[13], insieme ad un ver sacrum[14], durante il pontificato massimo di L. Cornelio Lentulo Caudino[15]. In quell’occasione i grandi ludi che comunque avevano un carattere anche espiatorio, non solo propiziatorio, come sarà nel 200 – erano stati per la verità prescritti dal collegio dei decemviri sacris faciundis; e non è dato sapere con certezza se i pontefici fossero stati effettivamente interpellati per l’elaborazione della formula del rito, giacché Livio fa sì cenno di una sententia del collegio circa gli accorgimenti formali da osservare, ma la riferisce genericamente a tutte le cerimonie prescritte dai sacerdoti in quei drammatici frangenti (omnia ea)[16]. Di solito, come fra poco meglio diremo, si richiedeva ufficialmente il parere dei pontefici, quando la questione da risolvere presentava elementi di novità o di particolare incertezza: circostanza, questa, che, se specificamente riferita ai ludi, qui non sembra ricorrere, considerato anche il fatto che certamente, come si è detto, voti ex certa pecunia erano già stati pronunciati in passato. Ma non si può pregiudizialmente escludere che del decreto pontificale relativo alla formula del ver sacrum[17] sia stata fatta qui, direttamente o indirettamente, applicazione anche per i ludi, come sembra suggerire il fatto che la condizione apposta ai due voti era molto probabilmente la stessa (eiusdem rei causa), ovvero la sopravvivenza della repubblica nel successivo quinquennio[18].

Quel che ci preme, comunque, rilevare è che la somma da mettere da parte per la celebrazione dei giochi venne immediatamente fissata: essa ammontava, quasi sicuramente, a 333.333 e 1/3 di asse, secondo quanto attesta Livio; genera invece qualche perplessità la testimonianza di Plutarco che, esprimendo la somma in sesterzi e denari e manifestando incertezza sul motivo della fissazione di quell’ammontare, cui potrebbe essersi fatto ricorso per ragioni simboliche, sembra non tenere conto delle svalutazioni intervenute in quel periodo storico, oltretutto per lui assai lontano. Sappiamo infatti che una riforma monetaria risalente a quello stesso anno, il 217, aveva svalutato il vecchio asse, riducendone il peso fino a tre quinti[19], così che l’importo indicato da Livio, pur di per sé assai singolare[20], sarebbe tuttavia equivalso ad una cifra intera prima della svalutazione: duecentomila assi[21], che probabilmente era il budget dei giochi votati in precedenza[22], e che in questo caso, sebbene espresso nella nuova moneta, rimase sostanzialmente inalterato. Esso fu ricompreso nella formula, alla quale il magistrato si sarebbe poi dovuto attenere nella nuncupatio[23] del voto.

 

1.3. – La procedura di consultazione del collegium pontificum

 

Dalle fonti sopra trascritte è possibile trarre qualche spunto interessante in merito ad un altro tema che rileva molto in questa sede: ossia la procedura di consultazione che, nelle materie di diritto sacro pubblico[24], veniva osservata al fine di ottenere la pronuncia del collegio pontificale su questioni ritenute dubbie implicanti problemi nuovi circa le regole da applicare o i procedimenti da seguire. Tale procedura, di cui si ha conferma anche in altre fonti, non veniva, invece, quasi certamente osservata allorché si trattava di questioni di routine, per le quali il senato poteva comodamente avvalersi – anche in ordine all’elaborazione di formulari, relativi a voti solenni o altri riti – dell’esperienza pregressa[25]. Inoltre, il meccanismo con cui i pontefici venivano interpellati al fine di ottenere l’emanazione di un vero e proprio decreto del collegio, inteso come tale, era senz’altro diverso da quello applicato in materia di ius civile, ove l’attività di consulenza veniva per lo più esercitata dal singolo sacerdote annualmente incaricato[26].

Nel procedimento in esame[27], assai più complesso e solenne, erano invece coinvolti alcuni dei più importanti organi dello stato. Era infatti il senato, con un suo primo provvedimento, ad incaricare il magistrato di consultare ufficialmente il collegio dei pontefici[28], i quali si riunivano, prendevano la decisione, la formalizzavano in un decreto[29] e la comunicavano, tramite il pontefice massimo[30], alle autorità interpellanti. Ed erano ancora i patres che, mediante un senatoconsulto che non va confuso con il primo, ordinavano al magistrato di provvedere anche all'esecuzione del responso pro collegio[31]. La necessità di questo secondo senatoconsulto derivava dal fatto che l'esecuzione del decreto, che imponeva la celebrazione di pubblici riti secondo particolari solennità, avrebbe poi comportato, nella maggior parte dei casi, l'assunzione di vincoli di natura religiosa – perfettamente rilevanti sotto il profilo del ius divinum – a carico dell'intera cittadinanza[32]. Un pontefice incaricato dal collegio poteva anche intervenire alla celebrazione della cerimonia; in particolare, ove si trattasse di procedere alla nuncupatio di un voto, egli ne dettava al magistrato la formula (è il cosiddetto praeire verbis)[33], secondo quanto attestano fonti numerose[34]. La lettura di queste consente anzi di documentare un ulteriore rilievo: ossia che i verba del voto erano suggeriti dal pontefice massimo piuttosto che da un altro membro del collegio a seconda che il rito - la cui tipologia sembra dunque di per sé non influire - si svolgesse a Roma piuttosto che sul campo di battaglia, o comunque in luogo lontano dalla città. Tale osservazione trova indiretta conferma anche in altri testi[35], da cui si evince che fino a tutto il III secolo al pontefice massimo, che doveva accudire ai sacra, era fatto espresso divieto di allontanarsi da Roma, o almeno dall’Italia. Nel caso dei ludi magni, come avremo modo di riscontrare anche nel prosieguo di questo studio, il luogo della pronuncia del voto era sempre Roma.

Il procedimento sopra descritto, perfettamente scandito nelle sue varie fasi, fu certo seguito durante tutta l'età arcaica, e risulta ancora osservato fra il III e il II secolo a.C. Non è comunque da escludersi che, come in particolare risulta dall’episodio concernente il ver sacrum, talora il collegio pontificale venisse interpellato ufficialmente dai magistrati anche al fine di determinare con esattezza tecnica il tenore di una rogatio da presentare ai comizi.

Infine, rammentiamo che nelle fonti[36] resta traccia anche di responsi dati dai pontefici a seguito di consultazione informale, attuata in via meramente politica (in senato, soprattutto, dato che, come si vedrà, i pontefici ne erano tutti solitamente membri e ne costituivano una sorta di commissione interna per affari tecnici) o addirittura nell’ambito dei rapporti interpersonali normalmente coltivati dai membri dell'élite cittadina. I responsa emessi in questi casi, pur muniti di una certa comprensibile autorevolezza, non erano ritenuti in alcun modo vincolanti né per le autorità interpellanti né tanto meno per gli altri membri del collegio che, se consultati formalmente, avrebbero potuto sovvertire il suggerimento che in precedenza era stato espresso. Ciò che avvenne proprio nella vicenda del 200, che ci accingiamo ora ad esaminare.

 

 

II

La riforma del 200

 

2.1. – Il contesto storico e politico-religioso

 

Nel 200 a.C. la repubblica, pur estenuata dallo scontro che si era appena concluso contro Cartagine, si apprestava a combattere un'altra guerra, quella con Filippo V di Macedonia, che all'inizio appariva forse più impegnativa di quanto poi non si sarebbe rivelata. Si decise allora di non trascurare alcun tipo di accorgimento per procacciarsi il favore degli dei[37], analogamente a quanto era stato fatto in passato, nei frangenti più difficili, per esempio, della seconda guerra punica. L'offerta in voto di ludi magni a Giove richiama in particolare il precedente del 217, allorché la popolazione era addirittura sconvolta a causa della recente disfatta del lago Trasimeno[38]: ma mentre in quell’occasione le molte misure adottate ebbero una chiara finalità espiatoria, ora nel 200, all’inizio dell’anno consolare, prima ancora che la guerra cominciasse, tutte le precauzioni di ordine religioso, di cui Livio ci riferisce, non potevano che avere una finalità propiziatoria, non immune peraltro da implicazioni di carattere politico, come si potrà senz’altro rilevare da una lettura completa delle fonti a nostra disposizione.

Il passo relativo all’offerta in voto dei ludi e del dono[39] va infatti inserito in un contesto più ampio, che muove da 31,5,1 ss. e che, attraverso la descrizione in sequenza dei preliminari di guerra, traccia una cronaca puntuale[40] delle vicende politico-religiose che animarono la vita metropolitana di quel tempo, quale soltanto l’utilizzo di fonti annalistiche[41] poteva consentire a Livio di fare[42]. Da 31,5,1-4 e 7[43] risulta che nel giorno stesso del suo insediamento, le idi di marzo, il nuovo console P. Sulpicio Galba – il quale apparteneva ad una fazione allora avversa a Scipione l’Africano –[44], subito mostrandosi particolarmente zelante nel perseguimento dei suoi obiettivi, riferì al senato circa la guerra contro Filippo; che venne approvata una delibera con la quale si ordinava ai magistrati supremi di compiere un sacrificio di vittime adulte e di rivolgere agli dei una precatio, nel cui testo, riportato da Livio con particolare tecnicismo, compare un riferimento esplicito al conflitto che si stava per iniziare[45]; che le formalità rituali furono quindi correttamente adempiute e dall’esame delle viscere, compiuto dagli aruspici, si evinceva l’assenso degli dei all’impresa transmarina (e si osservi con quanta efficacia venga, seppur succintamente, descritto il contenuto del responso dato dai sacerdoti etruschi: laetaque exta fuisse et prolationem finium victoriamque et triumphum portendi[46]).

Più oltre si dice che ai consoli furono assegnate le province: la Macedonia toccò in sorte a Galba, il quale presentò ai comizi la rogatio per la dichiarazione di guerra[47]. Ma questa venne respinta dal popolo, che era evidentemente stanco delle continue battaglie, ed era stato sobillato in tal senso dal tribuno Bebio, che, forse alleato di Scipione, avversava allora il console[48]. Dai fatti che seguono – la discussione in senato[49], l’orazione suasoria dello stesso rogator legis davanti alla contio[50] con appello finale al rispetto della volontà degli dei quale si era manifestata in precedenza[51], la successiva approvazione delle centurie[52] – si evince che il partito favorevole alla guerra fece ricorso a tutti gli strumenti a sua disposizione per convincere il popolo; e quindi anche alla religione, cercando di diffondere direttamente nell’opinione pubblica la convinzione che sarebbe stato sacralmente inopportuno non approfittare subito del favore degli dei, ai quali bisognava anzi ora rivolgersi con più particolare devozione e zelo. Non è un caso, infatti, che immediatamente dopo[53] Livio riferisca della indizione ex senatusconsulto da parte dei consoli di una supplicatio di ben tre giorni e di implorazioni presso tutti i templi degli dei affinché la guerra che il popolo aveva intimato avesse esito favorevole (bene ac feliciter eveniret, espressione che richiama sia la precatio che le ultime parole dell’orazione dello stesso console Galba[54]). E si osservi anzi che la supplicatio era un rito greco, che si svolgeva al di fuori delle rigorose formalità proprie della tradizione pontificale, ed era perciò caratterizzato dalla partecipazione indifferenziata di tutto il popolo alla cerimonia, in un clima di forte coinvolgimento emotivo[55].

 

2.2. – Il voto ex incerta pecunia ed il dibattito in senato

 

La richiesta del voto dei ludi magni e del dono da parte della civitas religiosa si colloca a questo punto, ossia al culmine di quel vero e proprio “crescendo” nelle manifestazioni di culto, che si è appena descritto[56] e che secondo noi è difficile spiegare senza pensare ad un’accorta attività di manipolazione degli umori popolari operata da esponenti della classe dirigente, o di una parte di essa.

L’uso che Livio fa del termine iussit potrebbe avallare l’ipotesi che si sia addirittura fatto ricorso allo strumento della legge, come da taluno si è sostenuto in dottrina[57]. Ma considerando il fatto che come soggetto non figura populus, bensì civitas (espressione astratta, che chiaramente equivale al concreto cives), e che lo stesso verbo iubere può all’occorrenza assumere un significato desiderativo-esortativo[58], è a nostro avviso preferibile accogliere l’ipotesi che l'opinione pubblica nel suo complesso, presa ancora da suggestioni e scrupoli religiosi (forse anche fomentati da esponenti della fazione favorevole alla guerra, come già sopra dicevamo, allo scopo di giustificare le iniziative poi intraprese dal console come principalmente ottemperanti alle esigenze espresse dalla cittadinanza)[59], abbia esercitato una forte sollecitazione politica sul console affinché fosse adottata una misura analoga a quella rivelatasi, in precedenza, tanto efficace contro Annibale; è facile supporre, anzi, che chi ne aveva l’interesse abbia, in quei frangenti, espressamente richiamato i precedenti. Inoltre, si tenga presente la circostanza che dalle fonti a nostra disposizione non risulta che per la pronuncia di un voto di ludi magni, come invece per quella di un ver sacrum[60] o per la dedicazione di un tempio[61], fosse preventivamente necessaria la formale approvazione da parte del popolo di una apposita delibera[62].

L’interessamento del console all’istanza della civitas chiama poi del tutto naturalmente in causa il senato, cui il magistrato doveva rendere conto e che era investito di una generale competenza in materia religiosa[63], ed anche finanziaria. Sebbene infatti Liv. 31,9,6 non faccia ancora riferimento alla questione della spesa, il problema della somma da utilizzare per il voto dovette certo porsi fin dall’inizio, e nessuno ovviamente ignorava che per essa si sarebbe potuto attingere soltanto all’erario, la cui amministrazione era di competenza esclusiva del senato, dal quale dipendevano i questori urbani. Era quindi affatto normale che della cosa si discutesse in senato, che potrebbe essere stato presieduto, in quell’occasione, dallo stesso Galba, il quale era il destinatario dell’istanza dei cittadini e, tutto intento alle operazioni di leva[64], si trovava certamente ancora a Roma.

La questione relativa alla inaccettabilità di un voto ex incerta pecunia, di cui prima non si era fatto cenno, nasce ora, in seguito all’intervento del pontefice massimo P. Licinio Crasso[65], alleato di Scipione. E’ lecito pensare che su di essa si sia aperta un’accesa discussione in senato, essendo Crasso – oltre che membro censorius di quel consesso, ove poteva prendere la parola fra i primi – anche molto famoso per la sua facundia[66], della quale potrebbero conservare un’eco espressioni come moram attulit o movebat, che figurano nel passo liviano relativo al voto. Il pontefice massimo espresse dunque le sue perplessità, presumibilmente obiettando (negari) contro un diverso orientamento dapprima manifestato da altri, si trattasse dello stesso console, nella sua relatio, o di un ex-magistrato che avesse la facoltà di parlare prima di Crasso[67]. L’autorevolezza del pontefice massimo costrinse i senatori ad una pausa di riflessione (moram)[68] su una questione della cui importanza si era certo consapevoli (si rilegga in proposito l’espressione quamquam et res et auctor movebat, che appare stilisticamente efficace, con il verbo movere usato intransitivamente). Si trattava, però, di una valutazione informale[69], oggetto di una sententia espressa in senato, non certo di un responso pro collegio, non tale perciò da far sì che i sostenitori della tesi contrapposta, forse anch’essi autorevoli, desistessero dai loro propositi, come meglio vedremo fra breve.

Nel frattempo occorre domandarsi quale esattamente fosse il contenuto dell’obiezione mossa dal pontefice massimo. Come abbiamo detto, essa riguardava la spesa, ossia il fatto che nella formula del voto, contrariamente a ciò che la tradizione richiedeva, non si volesse indicare la somma di danaro da spendere per allestire i giochi che in futuro avrebbero dovuto essere celebrati, qualora gli dei avessero accordato a Roma il premio della vittoria: tale somma non poteva, secondo P. Licinio Crasso, essere confusa con gli altri fondi genericamente destinati al finanziamento della guerra, ma subito determinata e messa da parte (seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri). Il voto, il cui dettato non contenesse un'indicazione in proposito (con la conseguenza che la pecunia non risultasse seposita), sarebbe stato, per l’esattezza, insuscettibile di un corretto adempimento. La irritualità sembra perciò riferita, dal pontefice massimo, al momento della solutio voti piuttosto che a quello dell’obligatio, non essendo sotto questo profilo pregiudicato il formalismo dell’atto. Neppure per Crasso un voto ex incerta pecunia sarebbe stato di per sé invalido: ma proprio questo, forse, avrebbe comportato un grave rischio, quello della perpetua obligatio, ossia dell’effettiva assunzione di un impegno non satisfattivamente adempibile, da parte del populus, nei confronti degli dei, dei quali si sarebbe potuta così compromettere la pax[70].

L'intervento di Licinio Crasso dimostra con quanta serietà fosse concepito, fino ad allora, quel genere d'impegni[71], e quanta attenzione si dovesse ancora pretendere, a che nulla fosse lasciato nel vago[72]. La contestazione del pontefice massimo appare ispirata, dal punto di vista giuridico, ad una ratio coerente: se l'oggetto della promessa votiva era, in qualche modo, indeterminato, tale poteva essere, innanzi tutto, la "risposta" degli dei, ed anche nel caso in cui la condizione si fosse pienamente avverata, vi sarebbe stato poi il rischio, come si è visto, di un adempimento irrituale. Il voto si fondava pur sempre su una sorta di do ut des[73], e quello che si offriva doveva essere determinato tanto quanto quello che si chiedeva[74] (ciò, senza pregiudizio alcuno, peraltro, in merito alla questione della struttura del votum, che a nostro avviso resta quella di atto unilaterale, sospensivamente condizionato all'esaudimento del favore richiesto agli dei: fonte dell'obbligazione, del dovere giuridico-religioso all'esecuzione della prestazione promessa non è una convenzione intervenuta con la divinità, ma una dichiarazione unilaterale resa dal vovens, risultando decisivo, in proposito, il rilievo che non si hanno tracce di una manifestazione dell’assenso del dio, ai fini del rituale compimento del rito[75], neppure laddove un sacerdote è presente alla cerimonia, e che anzi in questi casi, come già detto in precedenza, le funzioni del pontefice chiamato a praeire verbis erano di mera assistenza al dichiarante, non certo di rappresentanza del dio per l'accettazione[76]).

Non si deve però trascurare che, come già dicevamo prima, sottesi alla vicenda possono aver giocato un ruolo non indifferente interessi politici contrastanti: essi probabilmente influenzarono i diversi orientamenti. La repubblica infatti, all'indomani della seconda guerra punica, versava in una situazione di emergenza finanziaria[77], e non poteva permettersi il lusso di non utilizzare (e accantonare) parte del denaro stanziato per la nuova guerra macedonica. Tale denaro, se il voto fosse stato ex incerta pecunia, sarebbe interamente finito nelle mani del console P. Sulpicio Galba, incaricato delle operazioni, che con quella impresa avrebbe potuto consolidare il prestigio del partito dei Servilii, cui egli apparteneva[78], il quale, in quegli anni potentissimo, dopo la battaglia di Zama aveva definitivamente preso le distanze dalla fazione scipioniana[79]. Gli interessi dei Sulpicii Galba nell'anno 200 erano, dunque, contrapposti a quelli dell'Africano[80]. Il pontefice massimo, alleato di quest'ultimo, se fosse riuscito a far mettere da parte il denaro, avrebbe forse potuto rendere più difficoltose le operazioni di guerra e far sì che fossero rinviate ad un momento successivo, in cui non P. Sulpicio, ma un uomo politicamente più vicino agli Scipioni avrebbe potuto gestirle. Livio non riferisce di un vero e proprio scontro tra Licinio Crasso e il console: questi forse, per non creare motivi di attrito personale con un personaggio, quale era il pontefice massimo, comunque stimato e rispettato da tutti[81], ostentò una certa acquiescenza, sperando di poter conseguire comunque i suoi obiettivi.

 

2.3. – Le contrapposizioni interne al collegio pontificale

 

Il parere di Crasso, espresso preventivamente in senato, non era vincolante in alcun modo: non lo era, in particolare, per gli altri pontefici, che ancora non si erano ufficialmente pronunciati sulla questione discussa. Al console fu allora ordinato di interpellare il collegio pontificale. L’espressione iussus[82], usata in proposito da Livio, corrisponde più alla sostanza del provvedimento senatorio che non alla sua forma, il senatoconsulto, dal momento che difficilmente esso avrebbe potuto essere poi disatteso dal magistrato, che anche fosse un console. Con il senatoconsulto di rinvio si apre, a nostro avviso, anche in questo caso, la normale procedura per la consultazione del collegio pontificale, quale abbiamo in precedenza illustrato[83]: se infatti, come sopra anticipavamo, la questione dibattuta restava, in punto di diritto, di dubbia soluzione, per il carattere innovativo dei problemi che essa sollevava, allora solitamente si incaricava il magistrato di inoltrare la richiesta di un parere al collegio dei pontefici. Di fatto, in questa circostanza, si cercò anche di ottenere l’emissione di un decretum che smentisse P. Licinio Crasso: per questo si è sostenuto in dottrina che fu proposta una vera e propria impugnazione al collegio avverso il provvedimento del pontefice massimo[84]. Ma basti dire che qui di un provvedimento formalmente adottato dal pontefice massimo non si può neppure parlare[85].

E’ pensabile, comunque, che il partito favorevole al votum ex incerta pecunia contasse di ottenere la maggioranza dei voti dei pontefici. Il responso pontificale era espresso infatti, in caso di dissenso[86], a maggioranza dei presenti, e non è da escludersi che, avuto riguardo ai rapporti di forza esistenti all’interno del collegio e all’afferenza dei singoli sacerdoti alle partes che caratterizzavano la vita politica del momento, almeno cinque pontefici potessero davvero esprimersi contro Licinio Crasso. Ma su questo punto, che essenzialmente attiene alla composizione del collegio nel 200, ci sia qui consentito di approfondire l’indagine, anche avvalendoci di studi accredidati sulla prosopografia e la politica di quel tempo.

Le fonti a nostra disposizione ci permettono di affermare che, quell’anno[87], la compagine pontificale era così formata:

 

Pontefice massimo (plebeo): P. Licinio Crasso

Membri patrizi: M. Cornelio Cetego; Cn. Servilio Cepione; Ser. Sulpicio Galba;  C. Sulpicio Galba

Membri plebei: Q. Cecilio Metello;  C. Livio Salinatore;  C. Servilio Gemino; C. Sempronio Tuditano (o ancora Q. Fulvio Flacco?).

 

Di questi, in particolare:

 

P. Licinio Crasso: esponente di un'antica gens tornata alla ribalta verso la metà del III secolo, primo di quella famiglia ad essere insignito dell'epiteto Dives, era nato intorno al 235 (cfr. Cic. Brut. 19,77; Plut. Cic. 25,3); cooptato all’interno del collegio certo prima del 216, forse nel 218 (cfr. Bardt, Die Priester der vier grossen Collegien aus römisch-republikanischer Zeit, Berlin, 1871, p. 12), Crasso fu pontefice fino al 183 (cfr. Liv. 39,46,1-2), ma anche censore nel 210, pretore nel 208 e console nel 205 (cfr. risp.te Liv. 27,6,17-18; 27,21,5; 28,38,6). Un vero problema è rappresentato dalla sua edilità: secondo alcuni (v. per es. Broughton, op. cit., p. 268; Bauman, op. cit., p. 92 ss.), conformemente alla testimonianza di Liv. 25,2,1-2, essa sarebbe da collocarsi nello stesso anno 212, in cui fu eletto pontefice massimo, così che egli fu il primo capo del collegio, dai tempi di P. Cornelio Calussa, ad essere investito della carica senza aver mai occupato magistrature curuli; secondo altri (v. per es. Münzer, op. cit., p. 187-188; Scullard, Roman cit., p. 67; i quali adducono entrambi argomentazioni molto pertinenti, benché contrastanti col citato passo liviano), invece, Licinio Crasso era già stato edile l'anno prima, ed aveva acquisito attraverso i ludi da lui organizzati - molto sontuosamente, grazie anche alla sua ricchezza personale (cfr. Plin. nat. 21,4,6) - quella popolarità che poi gli fruttò l'elezione. In realtà fu determinante, a nostro giudizio, la fama di esperto giurista (cfr. Liv. 30,1,4-6) che, già così giovane, egli si era guadagnato, oltre all'appoggio ricevuto dai suoi alleati politici. Crasso, infatti, fu sempre molto amico di Scipione (cfr. Scullard, Roman cit., p. 33,36,76,77,82,97,197, 276; Cassola op. cit., p. 408; Bauman, op. cit., p. 93 ss.) di cui era pressappoco coetaneo; le loro carriere politiche furono anzi parallele. Ma contrariamente ad altri scipioniani, egli non fu successivamente coinvolto in scandali e processi di alcun genere, tanta era la stima che si era meritato per la serietà con cui esercitò il suo ministero di pontefice massimo.

 

M. Cornelio Cetego: forse già investito del flamonium Diale, era stato costretto ad abdicarvi nel 223 (cfr. Val. Max. 1,1,4) per un errore commesso nell'esercizio delle sue funzioni; ma a partire dal momento, in cui viene cooptato all'interno del collegio pontificale, nel 213 (cfr. Liv. 25,2,2), egli inizia la sua brillante carriera politica: pretore nel 211, censore nel 209, console nel 204 (v. Broughton, op. cit., risp.te p. 273, 285, 305). Per imporsi sulla scena pubblica si avvalse anche della sua capacità di convinzione e della sua abilità oratoria: Ennio, nei suoi Annales (v. in Cic. Brut. 14,58), lo elogia come suaviloquenti ore. A L. Cornelio Lentulo Caudino, nel 213, sarebbe potuto subentrare, nel collegio dei pontefici, anche Scipione, futuro Africano, ma gli venne preferito Cetego (cfr. Liv. 25,2,2), appartenente ad una famiglia meno influente della stessa gens: forse ciò dipese dalla circostanza che Q. Fabio Massimo, che allora dominava il collegio ed era avversario degli Scipioni, si oppose in modo decisivo; anche se non poté impedire la cooptazione di Cetego, che comunque era loro alleato (così, per lo più, in dottrina: cfr. Scullard, Roman cit., p. 77, 82, 87, 97; Hahm, Roman Nobility and Three Major Priesthoods 218-167 B.C., in TAPhA 94 (1963), p. 80-81; Briscoe, Livy cit., p. 1082; qualche incertezza sulla linea politica di Cetego esprimono invece Cassola, op. cit., p. 422; Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain cit., p. 206).

 

Cn. Servilio Cepione: cooptato nel 213 (cfr. Liv. 25,2,1-2), appartenente al ramo patrizio dei Servilii, fece parte del collegio fino al 174 (cfr. Liv. 41,21,8-9); fu anche pretore nel 205 e console nel 203 (cfr. Broughton, op. cit., risp.te p. 302 e 310). Il suo avvicendamento a C. Papirio Masone non turbò gli equilibri interni del collegio: in quel momento i Servilii, come i Papirii, erano legati al gruppo emiliano-scipioniano, anche se poi, come già detto, cercarono di ritagliarsi uno spazio autonomo, costituendo, in collegamento coi Claudii e forse coi Fulvii, una forte coalizione a sé stante. Secondo Cassola, op. cit., p. 415-416, 419, egli aderì alla linea dell'imperialismo estremista già sostenuta da Lentulo Caudino, differenziandosi forse in questo anche dai Servilii Gemini.

 

Ser. Sulpicio Galba: cooptato nel collegio nel 203 (cfr. Liv. 30,26,7-10), fu anche edile nel 209; fece parte della legazione inviata a raccogliere la Magna Mater in Asia (cfr. Liv. 29,11,3). Era forse fratello di Publio, console del 200 (cfr. Scullard, Roman cit., p. 87-88 nt. 3; Briscoe, A Commentary cit., 1973, p. 181). La sua cooptazione all'interno del collegio fu probabilmente imposta dai Servilii (cfr. Scullard, Roman cit., p. 87-88; Szemler, The Priests of the Roman Republic, Bruxelles, 1972, p. 110), di cui i Sulpicii Galba erano alleati e che in quegli anni si erano molto rafforzati (ben due Servilii erano consoli nel 203, Cn. Cepione e C. Gemino, entrambi pontefici).

 

C. Sulpicio Galba: cooptato nel collegio nel 202 (Liv. 30,39,6), è un personaggio non facile da identificare: forse pretore nel 211 (cfr. Scullard, Roman cit., p. 88; Broughton, op. cit., p. 273), certamente parente di quel Ser. Sulpicio Galba divenuto pontefice l'anno prima e del Publio console nel 200 (secondo Briscoe, A Commentary cit., 1973, p. 79-82, potrebbe essere il figlio di Publio Sulpicio Galba ed il nipote del pontefice Servio, fratello dello stesso Publio). Anche nella cooptazione di Caio giocò sicuramente un ruolo determinante l'appoggio degli alleati Servilii, ormai tanto forti da imporre nel collegio la compresenza di due membri di una stessa famiglia amica.

 

Q. Cecilio Metello: divenuto membro del collegio nel 216 (cfr. Liv. 23,21,7), era figlio del pontefice massimo Lucio, in onore del quale pronunciò una commossa orazione funebre (cfr. Plin. nat. 7,43,139); fu anche edile nel 209, console nel 206 senza aver rivestito la pretura, dittatore nel 205 (v. Broughton, op. cit., risp.te p. 286, 298, 301). Di parte scipioniana, Metello divenne in seguito il vero braccio destro dell'Africano, dopo la cui morte - avvenuta nel 183 - si avvicinò forse agli Emilii (cfr. Scullard, Roman cit., p. 36, 69, 82, 122, 242; Cassola, op. cit., p. 408-409; Briscoe, Livy cit., p. 1082).

 

C. Livio Salinatore: pontefice dal 211 al 170 (cfr. risp.te Liv. 26,23,7-8; 43,11,13), fu anche pretore nel 202 e nel 191, console nel 188 (cfr. risp.te Broughton, op. cit., p. 316, 353, 365). Figlio del vincitore del Metauro, coetaneo di Catone (cfr. Cic. sen. 3,7),  era ancora molto giovane quando nel 211 fu cooptato all’interno del  collegio. Pur appartenendo al partito emiliano-scipioniano, come gli altri Livii (Scullard, Roman cit., p. 123; Cassola, op. cit., p. 408-410; ma v. anche Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain cit., p. 206, per la quale i legami familiari non sembrano rilevare molto in questo caso), egli qui forse assunse orientamenti diversi, come già in passato aveva fatto il padre: v. in proposito Scullard, Roman cit., p. 87 nt. 3.

 

C. Servilio Gemino: subentrato a T. Otacilio Crasso nel 210 (cfr. Liv. 27,6,15-16), fece parte del collegio pontificale fino al 180 (cfr. Liv. 40,42,11-12); negli ultimi tre anni di vita ricoprì anche la carica di pontefice massimo, succedendo a P. Licinio Crasso (cfr. Liv. 39,46,1-2). Fu inoltre pretore nel 206, console nel 203 e dittatore nel 202 (v. Broughton, op. cit., risp.te p. 298, 310, 316). C. Gemino apparteneva al ramo plebeo della gens Servilia, ed infatti nel collegio sostituì un plebeo. Nel 210, anno della sua cooptazione, e nel 209, quando rivestì l'edilità (v. ancora Broughton, op. cit., p. 286), C. Gemino era ancora legato al gruppo scipioniano, come tutti i Servilii (v. Scullard, Roman cit., p. 69 nt. 2; Cassola, op. cit., p. 413). Questi però negli anni successivi abbandoneranno i vecchi alleati.

 

Q. Fulvio Flacco: cooptato nel 216 (cfr. Liv. 23,21,7), fece parte del collegio fino a dopo il 205, ma non è possibile conoscerne con esattezza la data di morte (questa tuttavia, secondo Scullard, Roman cit., p. 82, sarebbe da collocarsi intorno allo stesso anno 205, l'ultimo relativamente al quale il nostro compaia menzionato nelle fonti - cfr. Liv. 28,45,2 -; si tratta però, com’è evidente, di una semplice supposizione). Q. Fulvio Flacco fu console nel 237, 224, 212 e 209, pretore nel 215 e 214, censore nel 231, dittatore nel 210 (v. Broughton, op. cit., risp.te p. 221,231,267,285; 254, 259; 278). Si tratta di una delle più grandi personalità di quell'epoca, noto per il suo valore militare, che manifestò soprattutto nella riconquista di Capua passata al nemico (cfr. Liv. 25,22,6; App. Hann. 43). Anche per questo non è facile da collocare nella dialettica politica del tempo: certo i Fulvii non sostenevano gli Scipioni, e forse in quel periodo, dopo tanti anni di alleanza con Fabio, si erano legati ai Claudii, tradizionalisti più moderati (così Scullard, Roman cit., p. 37-38; v. anche Cassola, op. cit., p. 330 ss., ed Hahm, op. cit., p. 78 e nt. 18, secondo i quali i Fulvii appartenevano ancora, addirittura, al partito conservatore, il più avverso a Scipione e ai suoi alleati).

 

C. Sempronio Tuditano: Livio stranamente non riferisce del suo avvicendamento a Q. Fulvio Flacco, ma esso quasi certamente avvenne tra i due, dato che Flacco è l’unico pontefice di quell’epoca di cui non si conosce la data di morte e, corrispondentemente, Tuditano l’unico di cui non si conosce la data di cooptazione (cfr. per es. Szemler, in RE Suppl. 15 (1978), col. 380-382). Il rilievo di Briscoe, Livy cit., p. 1082 nt. 28 e 1083 e nt. 58, critico verso Scullard, Roman cit., p. 87 nt. 3, che non prende neppure in considerazione questa eventualità, appare quindi senz’altro giustificato; discutibile, tuttavia, in mancanza di appigli nelle fonti, ci sembra l’opinione di Schlag, op. cit., p. 150, che considera l’avvicendamento come sicuramente già avvenuto. C. Sempronio Tuditano era probabilmente fratello del Publio console nel 204 o del Marco console nel 185 (Szemler, in RE cit., col. 382). Nel 197 fu eletto pretore e venne inviato in Spagna; l'anno successivo gli fu prorogato il comando (cfr. Broughton, op. cit., risp.te p. 333, 337), ma di lì a poco morì (Liv. 33,42,5). Non è facile da collocare tra le varie fazioni che caratterizzavano allora la vita politica. Non vi è accordo, infatti, in dottrina circa gli orientamenti politici assunti dai Sempronii Tuditani in quel periodo: vi è chi li ritiene senz’altro membri del gruppo claudiano-serviliano (Scullard, Roman cit., p. 37, 94, 136, 150 ss.), chi addirittura del partito scipioniano (Schur, Scipio Africanus und die Begründung der römischen Veltherrschaft, Leipzig, 1927, p. 48-49, 71). Convincenti, perché basate su di un esame attento delle fonti, ci sembrano, in proposito, le argomentazioni di Cassola, op. cit., p. 406 e 407 nt. 8, il quale - pur sostenendo le ascendenze conservatrici, non certo scipioniane, dei Sempronii Tuditani (cfr. Münzer, s.v. Sempronius, in RE 2,A,2 (1923), col. 1443-1445) - rileva nella condotta dei familiari del nostro pontefice, e in particolare in quella del più famoso di essi, Publio, elementi di forte ambiguità.

 

Come si vede, al partito del console appartenevano, quanto meno, i due Servilii (Cn. Cepione e C. Gemino), i due Sulpicii Galba (Servio e Caio, che erano addirittura suoi parenti), e Q. Fulvio Flacco (ammesso che fosse ancora vivo), tutti in qualche modo legati al gruppo claudiano-serviliano. Il pontefice massimo invece poteva teoricamente contare, forse, soltanto sull’appoggio di Q. Cecilio Metello e M. Cornelio Cetego.

E’ immaginabile che egli abbia continuato a sostenere la propria tesi, battendosi perché le ragioni della tradizione prevalessero sulla logica dei partiti contrapposti e, quindi, la necessità della dictio certi per i voti, sempre implicitamente riconosciuta, venisse ora espressamente sancita in un decreto del collegio, attraverso la enucleazione di una vera e propria regola, che avrebbe dovuto essere tendenzialmente osservata in ogni occasione futura.

Così però non sarà: il collegio si pronuncia a favore della nuncupatio di un votum ex incerta pecunia, nel corso di una seduta alla quale, peraltro, noi non sappiamo quanti e quali pontefici abbiano effettivamente preso parte (né d’altronde sappiamo se si facesse poi menzione del voto nei commentarii pontificum, dove verosimilmente i decreta erano conservati[88]). Cicerone[89] c’informa che le decisioni del collegio erano regolarmente adottate anche con tre soli voti favorevoli, il che fa pensare che, in conformità ad una prassi evidentemente precedente alla lex Ogulnia, fosse già sufficiente, per la validità delle sedute, la presenza di quattro pontefici.

Comunque siano andate le cose sotto questo profilo, quello fu il tenore della decisione assunta dal collegio, ed il dissenso del pontefice massimo, o di qualche altro membro, erano destinati a rimanere, rispetto all'efficacia del responso finale, un fatto meramente interno e ininfluente.

 

2.4. – Il rectius esse del responso collegiale ed il problema della ratio ispiratrice

 

Si assiste, in questo caso, ad una significativa evoluzione della giurisprudenza pontificale in ordine alla disciplina di un negozio solenne[90]: il voto di una somma indeterminata era consentito ed anzi preferibile. La modifica apportata al precedente indirizzo giurisprudenziale viene qui giustificata, infatti, sulla base di un rectius esse[91]: l'orientamento tradizionale era rovesciato, ma il cambiamento, che non poteva spiegarsi come tale, si diceva ispirato ad una applicazione più coerente, rispetto a prima, del ius divinum al singolo caso.

Vi è da chiedersi in che cosa potesse precisamente consistere questa maggior congruenza, con la natura del voto, di una formulazione, in cui il quantum fosse indicato ex incerta pecunia.

Di primo acchito si potrebbe ipotizzare che solo una formula siffatta avrebbe potuto poi salvaguare la corrispondenza della quantità da spendere con l’entità del beneficio, conseguito col favore di Giove, della vittoria e della pace per il quinquennio: l’adempimento sarebbe stato così, in un certo senso, più rituale. Se quest’ipotesi fosse fondata, gli avversari di Crasso avrebbero, per così dire, esattamente rovesciato la posizione del pontefice massimo, quale sopra abbiamo cercato di illustrare. Tuttavia vedremo come, sulla base di una lettura attenta di altre fonti, che saranno esaminate nel prosieguo di questo studio, questo primo tentativo di far uscire dal vago il rectius esse sia destinato a fallire.

Da ultimo, si osservi che i pontefici approfittano qui dell'occasione per affidare al senato il compito di fissare la spesa al momento dell'esecuzione: incombenza, questa, che – essendo il senato organo competente nell’amministrazione dell’aerarium – non poteva che gravare sui patres, i quali vi ottempereranno senz’altro, come avremo modo di verificare in seguito.

 

2.5. – L’esecuzione del decreto

 

Il decreto pontificale sarà stato, come al solito[92], trasmesso al senato, che con sua delibera lo avrà reso esecutivo.

All’attuazione del voto partecipa lo stesso P. Licinio Crasso, il cui dissenso, rispetto al tenore del responsum pro collegio ed alla sua esecuzione, rimangono, come già osservato, un fatto formalmente irrilevante[93]. Egli, pur costretto a dettare al console le parole di quella formula che aveva avversato, conservò, comunque, pressoché intatto il suo prestigio[94], che gli derivava soprattutto dalla profonda conoscenza del ius pontificium e della tradizione, di cui si era fatto ancora una volta coerentemente garante.

Quando dunque si doveva procedere, a Roma[95], alla pronuncia solenne di un voto pubblico, che coinvolgeva l’intera comunità, il pontefice massimo era tenuto a praeire verbis, ossia a suggerire – precedendolo – le parole della formula al magistrato, il quale le doveva declamare con assoluta esattezza. La cooperazione del pontifex maximus era, tecnicamente ancor più che giuridicamente[96], indispensabile: la nuncupatio del voto, regolata dal ius sacrum, richiedeva ancor più attenzione del suo adempimento, perché qui un errore di forma, come saltare una parola o sbagliarla, poteva sì comportare l'invalidità e la necessità della ripetizione[97], ma magari anche la effettiva assunzione di un impegno non preventivato e difficilmente soddisfacibile dallo stato. Il formalismo, in materia sacra, era forse ancor più stringente di quello in materia civile (il quale, d’altronde, non potrebbe neppure concepirsi se non alla luce del rigore del ius sacrum che certo, a nostro avviso, lo ispirò[98]): il pontefice massimo dettava ad alta voce le parole del voto, proprio perché il magistrato le pronunciasse senza commettere il benché minimo errore, non interrompendosi né balbettando[99]. Le formule dettate dal pontefice, per la cui versione definitiva si era certamente attinto all’archivio, e in particolare ai libri pontificii[100], erano redatte in latino arcaico, ed anche nella redazione di nuove formule[101] – o di nuove clausole di esse, come in questo caso – si cercava di rispettarne lo stile.

Si osservi, infine, che la formula del voto del 200 – che pur, come quello di diciassette anni prima, è un voto quinquennale, nel senso che condiziona l'adempimento dell'obbligo alla sopravvivenza della repubblica nei successivi cinque anni – si differenzia da quella dei ludi magni pronunciati in precedenti occasioni anche per l'aggiunta della promessa a Giove di un dono.

 

 

III

Le applicazioni successive

 

3.1. – L’adempimento del voto del 200

 

Nel 194 il senato, con il medesimo provvedimento con cui dispose la instauratio del ver sacrum[102], irregolarmente celebrato l’anno prima, ordinò la celebrazione dei ludi magni[103], che erano stati offerti in voto a Giove nel 200. Per la verità Livio, nel far uso del termine una, sembra alludere ai ludi votati ex certa pecunia nel 217, contemporaneamente al ver sacrum, e forse anch’essi non ancora celebrati per via delle continue sconfitte e per l'incertezza della vittoria finale. Questa tesi è effettivamente sostenuta da taluni studiosi[104]: tuttavia non ci trova concordi. Diverse considerazioni ci inducono infatti a ritenere che i ludi celebrati nel 194 siano quelli promessi in voto sei anni prima[105], i primi ex incerta pecunia, e che quell'una altro non sia che un banale errore, forse ascrivibile allo stesso Livio[106].

Anzitutto, come chiaramente risulta da un altro dato testuale[107], al voto dei ludi magni del 217 si era già adempiuto nel 208, presumibilmente in modo corretto, senza cioè che se ne dovesse disporre la instauratio[108]. Del resto, nell’ipotesi che i ludi cui accenna Liv. 34,44,2 si volessero identificare con quelli del 217, non si vedrebbe la ragione per cui il senato avrebbe dovuto decidere di procedere alla celebrazione dei giochi non nel 195, congiuntamente a quella del ver sacrum votato contemporaneamente, ma nel 194, insieme alla ripetizione dello stesso, prima allestito irritualmente.

Inoltre, da Liv. 34,44,6[109] risulta che il voto era stato pronunciato da Publio (non Servio !: ecco un'altra imperfezione del testo[110]) Sulpicio Galba, console appunto nel 200[111].

Si osservi, poi, che con la vittoriosa conclusione della seconda guerra macedonica si era avverata la condizione apposta al voto del 200, ciò che ne rendeva doverosa, proprio ora, l'esecuzione.

Ma soprattutto si noti che l'espresso riferimento alla spesa consueta in quei casi implica sì lo stanziamento di una somma di pari valore a quella del 217, un terzo di un milione di assi[112] (potendosi senz’altro presumere che per i voti pronunciati in seguito, fra il 217 e il 200[113], non fossero state, sotto questo profilo, introdotte modifiche, ché altrimenti risulterebbe poco comprensibile l’uso del verbo adsoleret), ma dimostra ovviamente che essa non era già stata fissata nella formula, bensì fu determinata nell’atto stesso in cui il senato decise di adempiere al votum[114]. Il che starebbe a significare che la vera novità inerente al ritenere ammissibile un votum ex incerta pecunia consisteva, più che nell’introdurre la facoltà di fissare successivamente una somma diversa da quella consueta, nel non “immobilizzare” da subito la pecunia destinata all’esecuzione del rito, come invece era nelle intenzioni di Crasso.

Da questa vicenda è insomma possibile trarre già qualche indicazione circa la ratio che fu realmente alla base del rectius esse. E’ ora nostro intendimento verificare ulteriormente l'utilità della riforma del 200, che senza dubbio, comunque, veniva a semplificare di molto i rapporti tra la repubblica e le divinità.

 

3.2. – Il voto del 191

 

All’inizio del 191, alla vigilia della guerra contro Antioco III di Siria, il senato dispose per l'esecuzione dei riti ritenuti più idonei ad assicurare alla città il favore degli dei: tra questi, l’offerta in voto di ludi magni e doni[115].

Anche per questo episodio, come per quello del 200, è opportuno procedere ad una lettura complessiva delle fonti a nostra disposizione. Possiamo senz’altro anticipare che le analogie riscontrabili tra le due vicende sono molto strette: con tutta probabilità, ciò dipende dal fatto che Livio attinge alle medesime fonti annalistiche e che forse queste, nel descrivere lo stesso genere di avvenimenti, seguivano schemi prefissati[116].

Da Liv. 36,1,1-3[117] apprendiamo che le questioni di ordine religioso ebbero la precedenza su tutte le altre (il che non deve stupire, perché rispondeva ad una prassi da lungo tempo consolidata, che il magistrato doveva osservare quando faceva la sua relatio in senato[118], e che Varrone avrebbe poi teorizzato nel suo Isagogicum ad Pompeium, scritto dal reatino per Pompeo Magno, console eletto per il 70, che nulla sapeva dell’esercizio del ius agendi cum patribus[119]) e che, analogamente a quanto era avvenuto nove anni prima, alla vigilia della guerra contro Filippo V di Macedonia, ai consoli fu rivolto l’invito a procedere ad un sacrificio di vittime adulte e ad una solenne precatio agli dei[120]. Tali riti sortirono gli effetti sperati, e gli aruspici risposero che quella guerra avrebbe fruttato l’allargamento dei confini, la vittoria e il trionfo (terminos populi Romani propagari, victoriam ac triumphum ostendi): espressione sostanzialmente equivalente a quella adottata in 31,5,7[121], ma stilisticamente diversa, forse per una scelta retorica attribuibile allo stesso Livio[122]).

Come in precedenza, si riferisce anche della presentazione ai comizi centuriati della proposta di guerra[123] e della sortitio delle province tra i consoli[124]: nella sequenza, però, l’ordine è invertito, ed anzi il console che si fa carico delle formalità inerenti alla lex de bello indicendo, P. Cornelio Scipione[125], non risulterà poi l’incaricato a condurre l’impresa militare. Convincente ci sembra l’ipotesi[126] che la ragione per cui fu qui seguita un’altra procedura, e venne scelto il magistrato competente a gestire le operazioni di guerra solo a rogatio già votata, fu che si voleva evitare di incorrere in inconvenienti simili a quelli verificatisi nel 200, con il conseguente rallentamento dei preliminari di guerra, quasi certamente provocati dalla contrapposizione che venne a crearsi tra le fazioni in campo, quella favorevole e quella avversa a P. Sulpicio Galba. Anche la circostanza, che si siano assegnate alle province le truppe[127] prima ancora che i consoli, è a nostro avviso indicativa della particolare cautela che il senato volle usare in questa circostanza: cautela che ancor più risalta, e che sembra addirittura eccessiva, se si considera il fatto che entrambi i consoli appartenevano al medesimo partito scipioniano[128]. Allo stesso modo, e per ragioni di attrazione espositiva interna, possono essere spiegate, a nostro avviso, le altre sfasature, rispetto al modello rappresentato dai riti del 200, tra i vari passaggi corrispondenti[129]; pur nel rilievo, per noi assai significativo, che essi sono numerosi e che fortissime sono le analogie[130].

Subito dopo aver riferito della sortitio delle province, Livio finalmente menziona il senatoconsulto con cui si ordinava ad entrambi i consoli di indire la supplicatio e al solo M’. Acilio Glabrione[131] di offrire in voto ludi magni e doni. Si osservi come, mentre nel 200 la pronuncia di un voto non era stata in un primo tempo presa in considerazione, e rappresentò anzi l’estrema istanza della civitas religiosa, qui venga invece immediatamente ricordata, una volta identificato il magistrato competente per la guerra (certa deinde sorte), e venga anzi ordinata dai patres insieme alla supplicatio, che pur descrittivamente continua a precederla (il successivo rilievo, relativo alla effettiva celebrazione della supplicatio di due giorni – che in fondo ricorda molto, salvo che per la durata, quello di 31,8,2 – può essere senz’altro considerato una mera ripresa, riferendosi ancora al rito indetto dai consoli).

E’ pensabile che stavolta, per procedere alla nuncupatio del voto di ludi magni e doni a Giove – cui pur assistette il pontefice massimo che ne dettò le parole al console Acilio –, non vi sia stato bisogno di interpellare ufficialmente il collegio dei pontefici, del quale non si fa menzione. Esso aveva già stabilito, infatti, che il voto ex incerta pecunia era lecito: la nuova formula era entrata a far parte dei libri pontificum[132], e poteva essere all’occorrenza esumata per quegli aggiustamenti che la situazione contingente richiedeva, e che per lo più concernevano l’occasione, la durata dei giochi, eventualmente i doni. I pontefici si saranno perciò limitati, in questi casi, a ricevere il testo elaborato dal senato, a confrontarlo con quello da loro archiviato per suggerire eventuali ulteriori aggiustamenti formali, a dettarne le parole al magistrato nuncupans: nessuna di queste attività richiedeva di per sé l’emissione di un decreto collegiale. D’altronde, dal testo della formula votiva – che qui Livio riporta in maniera integrale, e che è presumibilmente attendibile, anche perché in essa sono presenti arcaismi (si notino in particolare le espressioni duellum, in luogo di bellum, e faxit, in luogo di fecerit[133]), generalmente riscontrabili nel linguaggio sacerdotale[134] –, risulta che avvenne probabilmente proprio questo: ossia che si tenne ampiamente conto dell’innovazione introdotta nel 200, pur con ritocchi ispirati alle esigenze del momento.

Sostanzialmente analogo, anzitutto, appare il contenuto della richiesta fatta a Giove, ossia la conclusione vittoriosa della guerra: ma mentre in precedenti occasioni[135] si era fatto espresso riferimento alla sopravvivenza della repubblica nel quinquennio successivo, qui più semplicemente si auspica un andamento della guerra conforme ai divisamenti del senato e del popolo romano. Ciò forse perché, come già detto, si cercava di far sì che i verba della nuncupatio riproducessero la reale situazione fattuale, che variava a seconda del momento in cui il voto veniva pronunciato, e che ora nel 191 era senz’altro più favorevole, rispetto al passato, per la repubblica romana, sulla quale non gravava più né, sotto il profilo militare, la minaccia incombente rappresentata da Annibale e, seppur in minore misura, dal suo antico alleato Filippo V di Macedonia, né, sotto il profilo economico, il rischio di rimanere senza mezzi, dato che la vittoria di T. Quinzio Flaminino a Cinoscefale aveva apportato grandi vantaggi finanziari, come in particolare risulta dalle fonti relative al suo trionfo, oltre che al pagamento di un’indennità di guerra[136].

Riguardo poi all'oggetto della promessa votiva sono riscontrabili talune differenze, consistenti nell'esatta indicazione della durata dei giochi da celebrare, ben dieci giorni[137], e nell’aggiunta, a quella dei giochi stessi, dell'offerta di doni ai templi di tutti gli dei; mentre nel 200 era stato promesso, più modestamente, un solo dono, forse anche a causa della crisi finanziaria in cui si dibatteva allora la repubblica e che ora, come già detto, era stata certamente superata.

 

A proposito dei doni, è opportuno ricordare qui l’ipotesi, sostenuta da taluni studiosi, che proprio in adempimento del voto ad omnia pulvinaria, Acilio abbia poi collocato nel tempio capitolino, di fronte alla cella dedicata a Minerva, il gruppo di tre signa, di nixi (cfr. Fest. 182 L: Nixi di appellantur tria signa in Capitolio ante cellam Minervae genibus nixa, velut praesidentes parientium nixibus, quae signa sunt qui memoriae prodiderint, Antiocho rege Syriae superato, M’. Acilium subtracta a populo Romano adportasse, atque ubi sunt, posuisse: etiam qui capta Corintho advecta huc, quae ibi subiecta fuerint mensae), da lui portati a Roma: v. Pape, Griechische Kunstwerke aus Kriegsbeute und ihre öffentliche Aufstellung in Rom, Diss. Hamburg, 1975, p. 10; Pietilä-Castren, New Men cit., p. 138-143. Si tratta di ipotesi che tendenzialmente non condividiamo. Il voto congiunto dei ludi e dei doni, cui dopo la vittoria con Antioco si doveva adempiere, non era stato personalmente offerto da Acilio come generale, ma dallo stesso nella sua qualità di console su disposizione del senato, e proprio per questo avrebbe dovuto essere poi adempiuto secondo modalità procedurali del tutto analoghe, e quindi non personalmente da lui. Ora, siccome Acilio non rivestì più la carica di console né quella di pretore, siamo portati a ritenere che l’episodio descritto nella fonte sopra riportata non sia riferibile all’adempimento del voto, di cui peraltro nulla si sa; inoltre niente nel testo sopra trascritto induce a pensare che a quel comportamento Acilio sia stato indotto da una pronuncia del senato (si noti anzi l’espressione subtracta populo Romano), senza considerare il fatto che non si fa menzione alcuna dei ludi. Si osservi infine che dalle fonti a nostra disposizione (cfr. Liv. 40,34,5 e Val. Max. 2,5,1) risulta che Acilio, durante la guerra con Antioco, offrì agli dei anche voti personali; sebbene, per la verità, non si abbia alcun riscontro diretto di una promessa di doni fatta a Minerva.

 

Inoltre si osservi che anche in questo frangente, proprio come nel 200, è il nuovo console in carica, M'. Acilio, destinato al comando della guerra, a pronunciare le parole del voto, che il pontefice massimo gli detta.

Ma il dato più interessante, che concerne l'oggetto dell'offerta, è rappresentato naturalmente dal fatto che, come quello di nove anni prima, anche questo del 191 è un voto ex incerta pecunia: inserita nella formula compare una clausola relativa alla somma da spendere per i giochi e per i doni, che avrebbe dovuto essere stabilita in un secondo momento dal senato. Risulta qui ribadito, pertanto, il principio sancito con il decreto del 200, al quale il pontefice massimo P. Licinio Crasso pur si era tanto opposto, ma che aveva segnato un mutamento evidentemente irreversibile nella disciplina delle offerte votive.

Si noti infine che la clausola contenuta nell'ultima parte della promessa – ossia che questa sarebbe stata correttamente adempiuta (ludi recte facti donaque data recte sunto) qualunque fosse il magistrato che vi provvedesse, e parimenti il tempo e il luogo –, pur rappresentando forse un’innovazione rispetto al 200[138], richiama senz’altro alla memoria talune disposizioni contenute nella formula di altri voti, come quello del ver sacrum del 217, con le quali ci si voleva appunto cautelare contro il rischio che l'atto di esecuzione del voto fosse poi da ritenersi nullo per certe irregolarità in cui si era incorsi[139]. Era infatti propria della natura dell’atto religioso una certa “minuziosità” delle clausole, per ricomprendere tutti i possibili eventi futuri nel modo più generico possibile, al fine di evitare cause di irritualità nell’adempimento ed il conseguente obbligo di procedere alla instauratio (la quale fra l’altro, per giochi di dieci giorni, avrebbe potuto rivelarsi fin troppo dispendiosa)[140].

In particolare, però, la previsione relativa all’eventualità che il voto venisse poi eseguito da un altro magistrato appare affatto scontata, dal momento che ciò costituiva una caratteristica normale dei voti pubblici (offerti per lo più in quinquennium[141] e, soprattutto, in nome del populus, il solo che formalmente assumesse l’impegno)[142]. Anche la previsione relativa al luogo dell’adempimento sembra per la verità inutile, dal momento che non si vede quale norma avrebbe altrimenti imposto che i giochi poi si tenessero nello stesso luogo in cui erano stati offerti, o comunque in un luogo preciso. Si tratta perciò, a nostro avviso, di clausole di stile.

La previsione concernente il tempo dell’adempimento, che in qualche modo ricorda quella di chiusura del ver sacrum, non a caso celebrato con molto ritardo rispetto all’avveramento della condizione, sembra poi tener conto del fatto che nessun magistrato avrebbe potuto procedere all’esecuzione del rito, se non quando lo avesse stabilito il senato, che oltretutto ora doveva anche indicare la somma indispensabile per i giochi e i doni[143].

 

3.3. – M. Fulvio Nobiliore ed il voto di Ambracia

 

Altra significativa applicazione della riforma attuata nel 200 si ebbe nel 187, in occasione del voto di ludi magni offerto agli dei da M. Fulvio Nobiliore, una delle più grandi personalità di quel periodo[144].

Oltre ai voti ordinati dal senato nell’imminenza di guerre o altri gravi pericoli, esistevano anche quelli promessi dai generali di propria iniziativa, inconsulto senatu. Era, questa, una prassi affermatasi da relativamente poco tempo[145], ma destinata a diffondersi sempre di più, di pari passo con gli atteggiamenti individualistici dei comandanti romani: essi pronunciavano tali voti lontano da Roma, prima di ingaggiare battaglia con l’esercito avversario; oggetto della richiesta fatta agli dei, solitamente in cambio della dedicazione di un tempio[146] o della celebrazione di giochi, era naturalmente l’esito vittorioso dello scontro in corso. La promessa votiva, in questi casi, poteva essere eseguita solo con l'autorizzazione successiva del senato, in mancanza di quella preventiva alla sua nuncupatio: ciò non solo perché occorreva verificare la validità del voto e quindi la sua idoneità ad impegnare lo stato, ma anche perché vi era sempre il rischio che i comandanti vittoriosi, per rendere il più possibile sontuosa la celebrazione del rito[147], intendessero impiegare somme eccessive, attingendo comodamente, oltretutto, al bottino di guerra.

 

Il magistrato cum imperio esercitava il suo potere discrezionale in ordine alla ripartizione della preda bellica, di cui una parte era solitamente versata all’erario (v. per es. Liv. 39,5,7-10, riportato infra, nt. 149), una parte distribuita fra i soldati (v. per es. Liv. 39,5,17), una parte ancora trattenuta dal magistrato stesso, anche per diverso tempo (si trattava delle c.d. manubiae, per cui v. infra); quest'ultima non diveniva di sua proprietà, dato che egli doveva utilizzarla per scopi sacrali o, in ogni caso, di pubblica utilità, ma col passar del tempo gli abusi si sarebbero fatti sempre più frequenti. Tale potere discrezionale non poteva essere comunque esercitato in maniera indiscriminata: circa il bottino e le sue ripartizioni dovevano essere offerte spiegazioni al senato, che poteva anche non concedere il trionfo. Riguardo poi al rapporto tra i voti offerti dai singoli comandanti e i fondi da utilizzare per l’esecuzione delle promesse fatte agli dei, occorre rammentare che non sempre, per ragioni appunto di ordine finanziario, il senato procedeva alla ratifica del voto (v. significativamente in proposito Liv. 36,36,1-2): ciò costringeva il magistrato a ricorrere, anziché ad una parte del bottino già versato all’erario, ai suoi fondi personali (cfr. sul punto Mommsen, Staatsrecht cit., I, p. 245-246) oppure alle manubiae, a meno che, naturalmente, queste non fossero state riservate fin dall’inizio all’esecuzione del voto[148].

 

Ebbene, M. Fulvio Nobiliore[149], il giorno stesso della conquista di Ambracia, aveva offerto in voto ludi magni[150] a Giove Ottimo Massimo, costringendo poi gli Ambraciesi e gli abitanti delle altre città vinte a contribuire al relativo finanziamento: aveva così raccolto cento libbre d'oro (circa quattrocentomila assi[151]), che erano confluite nel bottino di guerra e che ora, nel 187, egli pensava di far appunto separare (secerni, che richiama il seponi usato in 31,9,7)[152] dalle altre somme, destinate ad esser portate in trionfo e versate all’erario[153], ed interamente utilizzare per l’adempimento della sua promessa.

 

Non si fa questione, qui, quindi delle manubiae, che il Nobiliore aveva riservato a sé e che furono invece utilizzate per la costruzione del tempio di Ercole delle Muse, in esecuzione di un’altra offerta votiva fatta dallo stesso M. Fulvio: in proposito v. Cic. Arch. 11,27[154].

 

Di ciò, almeno, cercava di convincere il senato, al quale spettava la ratifica del voto. Ai patres, tuttavia, quella somma pareva un po' eccessiva. Ma se da una parte si voleva evitare che quote troppo consistenti del bottino andassero spese in giochi e riti vari, dall'altra vi era il timore che, attenuando la magnificenza dei ludi da celebrare, si potesse mancare di rispetto agli dei, non ottemperando a quella stessa promessa votiva che pur il senato stava riconoscendo valida. La questione appariva piuttosto delicata, come tutte quelle, del resto, afferenti alla spesa di cerimonie religiose. Il voto, su questo non ci sono dubbi, era ex incerta pecunia, ché altrimenti non avrebbero potuto sorgere discussioni sulla necessità di destinare effettivamente le cento libbre d’oro alla celebrazione dei giochi, in attuazione di un voto ritenuto valido. Si trattava però di stabilire se l’impiego di quella somma, raccolta  ad opera del Nobiliore subito dopo la sua vittoria, dovesse considerarsi sacralmente vincolante, come certo lo stesso Nobiliore sosteneva, non soltanto per gli evidenti interessi politici ed elettorali connessi alla celebrazione di pubblici giochi, ma anche per il tenore della formula del voto, la quale, pur contenendo quasi certamente la solita clausola relativa alla fissazione successiva della somma da parte del senato (tantam pecuniam quantam senatus decreverit, o simile[155]), tuttavia forse qui ne menzionava anche la fonte (ex auro coronario, per esempio[156]).

Ciò spiega allora la decisione del senato di far interpellare il collegio pontificale: da chi, per la verità, non si sa bene, dato l’uso che Livio fa dell’infinito passivo consuli, e dato che i consoli erano entrambi lontani da Roma[157]; ma si può senz’altro ipotizzare che a consultare i pontefici sia stato, qui, lo stesso magistrato che aveva presieduto la seduta, in cui si era discusso della concessione del trionfo, ossia S. Sulpicio Galba[158], al quale, infatti, nella sua qualità di pretore urbano[159], spettava di presiedere il senato, come di norma quando i consoli erano assenti[160]. Al collegio viene appunto posta la questione se per la celebrazione dei giochi dovesse essere speso omne id aurum: la domanda, come si evince dal ricorrere della particella num, postulava una risposta negativa, il che sta a significare che i patres, nonostante il grande scrupolo dimostrato, si aspettavano dal collegio una decisione favorevole, contando probabilmente sul fatto che l’oro, proprio perché collatum a civitatibus in eam rem, era stato pur sempre raccolto dopo il voto. L’impressione che ricaviamo dal tenore della richiesta è insomma questa, ossia che il senato abbia voluto sollevare un problema di fatto, con la speranza che i sacerdoti lo riconoscessero poi come tale, avulso dalla circostanza dell’applicazione di norme di ius sacrum.

Così avverrà: il responso pontificale, centrato sulla pertinenza o meno alla religio della somma da spendere in ludos, esclude un qualsiasi rapporto tra la sfera dei valori religiosi, legati al carattere sacro dei giochi votati, e la fissazione dell’ammontare della spesa. Stabilire quindi se si doveva impiegare l’omne id aurum o meno o, in teoria, ancor di più, era un problema di fatto[161], che non avrebbe inciso sul rituale adempimento del voto ex incerta pecunia, della cui quantificazione era arbitro (come ci pare, anche in questo caso) esclusivamente il senato.

 

Vi è chi, in dottrina[162], pone in sostanza la questione se sulla decisione allora adottata dai pontefici possano aver influito considerazioni di carattere politico, in ordine al prevalere del partito favorevole al Nobiliore o di quello favorevole al suo rivale Emilio Lepido[163], e alla formazione delle relative maggioranze in seno al collegio, oltre che all’assemblea senatoria. L’episodio in esame, tuttavia, non può essere, a nostro avviso, sotto questo profilo, facilmente equiparato al precedente del 200, giacché qui non si trattava di sovvertire un precedente orientamento giurisprudenziale, bensì di inserire la nuova pronuncia nel solco di un orientamento consolidato, risultando ormai preminenti, rispetto alle ragioni di politica tout court, quelle, per così dire, di “politica del diritto”: ciò potrebbe essere confermato, forse, anche dal carattere di per sé “neutro” del contenuto del responso pontificale, che sul problema dell’ammontare della spesa, cui corrispondevano gli interessi politici del Nobiliore, si limita a rinviare alla competenza del senato, senza dare indicazione alcuna né in un senso né nell’altro. Non ci sembra perciò indispensabile, in questa circostanza, studiare con attenzione la composizione della compagine pontificale di quell’anno, in relazione alla rappresentanza che all’interno di essa avevano i vari gruppi politici.

 

Per la verità i patres, chiarito che nessuna obbligazione sacrale si opponeva al ridimensionamento della somma proposta dal Nobiliore, preferirono rimettere a lui la determinazione della spesa, purché questa non eccedesse gli ottantamila assi[164] (che erano pur sempre una somma principesca, anche se di circa cinque volte inferiore a quella che il Nobiliore avrebbe voluto, e di molto anche rispetto a quella di 333.333,333, che veniva tradizionalmente impiegata per l'organizzazione dei ludi magni in onore di Giove). Il senato quindi, anziché fissare direttamente il quantum, come negli altri casi, qui si limita ad imporre una sorta di taxatio[165].

 

Si osservi che anche otto anni dopo, allorché il console Q. Fulvio Flacco chiese di celebrare i grandi ludi, in adempimento di un suo precedente voto, analogo al nostro, il senato stabilì che non fosse superata una certa somma, e che questa, attraverso un espresso rinvio all’episodio da noi qui esaminato, venne identificata in quella effettivamente spesa dal Nobiliore nel 187[166].

 

3.4. – Ulteriori rilievi in merito al rectius esse. La disciplina pontificale della condizione

 

Nella vicenda appena trattata si constata, ancora una volta, l’utilità della riforma introdotta nel 200: a distanza di tredici anni dalla pronuncia del primo votum ex incerta pecunia e di quattro da quella del secondo, si può senz’altro affermare che il collegio consolidi il proprio orientamento giurisprudenziale[167].

Ora, però, il fatto che i pontefici risolvano qui una questione in qualche modo diversa rispetto al passato ci consente di approfondire il problema concernente la ratio che sta alla base del rectius esse. Si osservi infatti che, se quanta impensa in ludos fieret non concerne la religio, è allora difficile, come già sopra anticipavamo, pensare di trovare il fondamento del rectius nella corrispondenza, possibile solo se il voto è ex incerta pecunia, col beneficio arrecato dalla vittoria e dalla successiva pace, quantificabile con l’ammontare non soltanto della preda quanto anche delle contribuzioni in denaro poste a carico della parte soccombente (le quali avevano fra l’altro, come noto, carattere periodico[168], e perciò avrebbero potuto essere, in teoria, esattamente imputate al quinquennio, o decennio[169], menzionato nei voti). Anche un rilievo di ordine esegetico, d’altronde, ci dissuade dal seguire questa strada, ossia il fatto che appigli per la valutazione dei vantaggi arrecati dalla guerra non possono trovarsi nella formula dei voti, la quale anzi spesso contiene il riferimento all’isdem status rispetto al passato.

Il fondamento va invece indagato alla luce dell’impostazione che al problema aveva dato Crasso, ossia se fosse più congruo, o meno, col carattere del votum non costringere l’erario a distogliere (seponere) fin dall’inizio una parte delle somme stanziate per la guerra.

Ebbene, l’unica ipotesi formulabile al riguardo ci pare, a questo punto, la seguente, ossia che la maggior conformità al diritto sia stata affermata sulla base del rilievo che la rinuncia ad impiegare tutto il denaro nella conduzione della guerra avrebbe potuto teoricamente provocare una sconfitta, che era proprio ciò che si chiedeva alla divinità di scongiurare, senza che poi ne conseguisse un effetto veramente liberatorio, data l’impossibilità di attribuire totalmente a cause non umane la mancata vittoria. Il ius sacrum, in altre parole, imponeva che la linea di condotta dello stato nei confronti della divinità non fosse intrinsecamente contraddittoria: non si poteva cioè promettere di fare qualcosa, a condizione che si verificasse un determinato evento, e contemporaneamente adottare comportamenti che, seppur finalizzati all’adempimento, potessero eventualmente impedire, o rendere meno facile, l’avveramento della condizione. Se anche poi la guerra non fosse stata fortunata, vi sarebbe stato il rischio che la repubblica restasse comunque obbligata.

Nel responso dato dal collegio in questo caso è dato forse scorgere un’applicazione di quel medesimo principio che, già accolto dal legislatore decemvirale nella norma sullo statuliber (XII Tab. 7,12)[170], potrebbe essere enunciato in questi termini: il titolare di un diritto sottoposto a condizione non dev’essere in alcun modo danneggiato da comportamenti, tenuti dalla controparte, dai quali possa dipendere il mancato avveramento della condizione; e ciò a prescindere dal rimedio di volta in volta concretamente adottato, che qui, fra l’altro, non è ancora la finzione d’adempimento[171]. Anche la questione se un siffatto regime fosse di origine giurisprudenziale o legislativa, posta in generale dalla dottrina[172], potrà trovare, a questo punto, una più agevole soluzione, senz’altro consona al carattere generale   dell’esperienza giuridica arcaica: ché se il principio aveva, come si è visto, applicazione anche in ambito sacrale, allora probabilmente esso era di origine pontificale, e perciò giurisprudenziale, piuttosto che legislativa. Esso naturalmente, nell’epoca più risalente, non sarà mai stato formulato expressis verbis, ma avrà ispirato singole decisioni, con le quali vennero magari adottate, come già detto, soluzioni anche di volta in volta diverse per tutelare le ragioni del titolare del diritto sottoposto a condizione[173].

Quel principio sarebbe stato, come noto, alla base della successiva elaborazione della disciplina sull’avveramento fittizio della condizione[174] ad opera della giurisprudenza tardo-repubblicana e classica[175]. E sebbene questa, ormai del tutto immemore del rilievo assunto dai precedenti propri della tradizione sacrale, abbia poi coerentemente enucleato la regula a partire dal solo ambito delle manomissioni testamentarie[176], secondo il modello già laico rappresentato dal precetto di XII Tab. 7,12[177], per poi estenderla alle altre disposizioni mortis causa[178] e quindi agli atti inter vivos[179], occorre tuttavia ricordare, con Wieacker[180], che la condizione, come istituto giuridico munito di una sua autonoma configurazione, trasse forse origine proprio dalla struttura del voto.

E’ insomma probabile che un’antica dottrina sacerdotale rappresenti il fondamento di quella norma di applicazione generale che, quale soprattutto risulta enunciata in un testo come D. 50,17,161[181], i legislatori moderni faranno propria: si pensi per esempio all’art. 1178 del code civil[182] o all’art. 1359 del codice italiano[183].

Tornando al rectius esse, l’ipotesi da noi formulata risulta ancor più plausibile se si considera il fatto che, nelle intenzioni del pontefice massimo, la pecunia seposita sarebbe dovuta probabilmente rimanere tale, e cioè immobilizzata, per tutto il quinquennio: il che, specie in epoche di ristrettezza finanziaria come quella, avrebbe potuto rappresentare davvero un ostacolo alle operazioni di guerra.

Il fatto poi che quell’antico principio, con cui si cercava di salvaguardare il diritto di colui che aveva fatto di tutto per adempiere ma ne era stato direttamente o indirettamente impedito dalla controparte, non avesse trovato applicazione nelle otto precedenti occasioni in cui si erano votati i grandi ludi a Giove, non deve a nostro avviso stupire: in passato si era evidentemente preferito cautelarsi, secondo gli orientamenti difesi ancora nel 200 dal pontefice massimo, contro il medesimo rischio della perpetuatio obligationis, che tuttavia derivasse, dopo il pieno avveramento della condizione, da un’esecuzione del voto ritenuta irrituale perché – data la mancata determinazione, in termini pecuniari, dell’obbligazione pur assunta – da valutarsi sempre come potenzialmente non satisfattiva nei confronti del dio. Il mutamento dell’indirizzo giurisprudenziale fu dunque probabilmente determinato dal maggior rilievo (rectius) che, in seguito ad un bilanciamento fra i due principi, venne per la prima volta attribuito all’uno piuttosto che all’altro.

Ma sulla decisione, torniamo a ripetere, probabilmente incisero considerazioni e calcoli di tutt’altro genere. E nonostante la sottigliezza dell’interpretazione giurisprudenziale, oggetto dell’ipotesi da noi formulata, vi era poi il dato di fatto che la somma sarebbe stata dopo, molto comodamente e liberamente, determinata dal senato, senza particolari vincoli per lo stato: il rigore proprio della tradizione risultava perciò sostanzialmente attenuato, come forse era, del resto, negli intendimenti di coloro cui non a caso P. Licinio Crasso, comprendendo il significato di quel che stava accadendo, tanto si era contrapposto.

 

3.5. – Il voto del 172

 

L’ultimo episodio da esaminare risale al 172, alla vigilia della guerra contro Perseo, allorché il senato – analogamente a quanto era avvenuto nel 200 e nel 191, prima che iniziassero le guerre contro Filippo V e contro Antioco III – ordinò al console di pronunciare un solenne voto di ludi magni e doni a Giove Ottimo Massimo[184].

Ora, però, se si ha riguardo al contesto in cui Livio colloca il passo in questione, si possono rilevare alcune significative differenze circa la progressione dei provvedimenti. Ciò dipende in gran parte dalla cronologia degli eventi, che è sensibilmente diversa rispetto agli episodi precedenti, ma forse anche dal fatto che l’autore patavino fa qui uso di più fonti[185], che formano sequenze miste, cosicché la narrazione relativa alle determinazioni senatorie in materia di politica religiosa risulta frammentata.

Ma procediamo con ordine. La data in cui si tennero i comizi consolari, ossia il 18 febbraio, fu quell’anno posticipata rispetto al normale[186] a causa del ritardo con il quale il console C. Popilio Lenate[187] era tornato a Roma, nonostante la premura dei patres preoccupati per l’imminenza della guerra[188]. Subito il senato prescrisse ai consoli designati[189] di procedere al solito sacrificio accompagnato dalla precatio (di cui si riporta la formula consueta, priva dell’indicazione dell’avversario): ciò sarebbe dovuto avvenire in seguito, comunque, nel giorno della loro entrata in carica[190]. Così infatti sarà: soltanto più avanti Livio ci riferisce del buon esito che ebbe la celebrazione di questi riti e del solito responso degli aruspici circa gli effetti della guerra[191]. Qui seguono invece il resoconto della presentazione al popolo della lex de bello indicendo[192], e quello della sortitio delle province[193], che quindi, come nel 191, è preceduta dalla rogatio.

Nel frattempo, il voto dei ludi e dei doni era già stato pronunciato: cosa che differenzia molto quest’episodio dagli altri in precedenza esaminati, insieme al fatto che non si fa menzione di una supplicatio. Il provvedimento del senato con cui si disponeva la pronuncia del voto era stato in effetti emanato il giorno stesso in cui fu ingiunto ai consoli designati di procedere alle formalità di cui sopra si è detto (eodem die)[194]: destinatario dell’ordine relativo al voto era, però, il console uscente, Popilio, che perciò avrebbe dovuto compiere la nuncupatio prima che i suoi successori entrassero in carica[195], ossia al più presto. Così avvenne, come si desume anche dalla circostanza che la notizia relativa alla morte dei sacerdoti, con cui solitamente Livio chiude il resoconto annalistico degli anni consolari, segue immediatamente quella del voto[196].

E’ dunque molto significativo che la promessa votiva venga in questo caso formalizzata da un magistrato diverso da quello che avrebbe poi condotto le operazioni di guerra[197], e per di più a guerra non ancora dichiarata. Evidentemente, tutto ciò non ostava ad impegnare lo stato nei confronti del dio, purché – forse – alla formula del voto fosse apportata qualche modifica tale da adattarne il tenore alle peculiarità della situazione contingente[198], le quali qui certamente sono assai rilevanti.

Ebbene, non fa meraviglia allora constatare che in questo caso non si accenna in alcun modo alla guerra imminente (come invece nel 191), richiedendosi soltanto, nella condizione apposta al voto, che la repubblica in eodem statu fuisset. L’unica preoccupazione era evidentemente quella che i verba del voto corrispondessero a verità: tutto il resto non doveva dare pensiero, ed era in particolare indifferente quale magistrato fosse a pronunciare la solenne nuncupatio, dal momento che comunque sarebbe stato idoneo ad impegnare lo stato.

Sempre in ordine alla richiesta fatta agli dei, si osservi inoltre che questi voti del 172, contrariamente a quelli offerti nelle precedenti occasioni da noi esaminate, sono decennali e non quinquennali: oggetto della condizione inserita nella formula è la prosperità dello stato nei successivi dieci anni, a sottolineare il timore dei Romani in quel momento che il conflitto con il nuovo, aggressivo re di Macedonia sarebbe stato più lungo e impegnativo di quanto poi effettivamente non si rivelò[199].

Riguardo poi alla promessa si noti anzitutto che, come nel 191, oggetto sono, oltre ai ludi della durata di dieci giorni, anche i doni a tutti i templi degli dei.

Ma ciò che più interessa rilevare, in conclusione di questo nostro studio, è naturalmente il fatto che anche questo è un votum ex incerta pecunia, e che quindi, a distanza di ben ventotto anni, la riforma attuata nel 200 continuava ad essere senz’altro applicata: ciò probabilmente perché, come già detto, se ne avvertiva tuttora la maggior comodità, riguardo al disbrigo delle incombenze rituali, e forse anche la plausibilità della ratio ispiratrice[200]. Si osservi peraltro che qui, nella clausola in cui si dispone che la somma da spendere per l’adempimento del voto fosse fissata in un secondo momento dal senato, compare anche la precisazione che la delibera avrebbe dovuto essere adottata con la presenza di almeno la metà dei senatori[201]: ciò forse per evitare che, approfittando di una seduta poco frequentata[202], il magistrato destinato alla celebrazione dei giochi, al fine di procacciarsi una più grande popolarità, facesse votare dal senato l'impiego di una somma eccessiva.

Livio, infine, riferisce della nuncupatio del voto da parte del console C. Popilio: le parole della formula vengono, come nelle precedenti occasioni, dettate al magistrato dal pontefice massimo, che ora nel 172 è M. Emilio Lepido[203].

 

 

 



 

[1] Per una ricostruzione del voto come atto sottoposto a condizione sospensiva v. fin d’ora soprattutto Kaser, Das römische Privatrecht, I, München 1971, 253; v. anche Mitteis, Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, I, Leipzig 1908, 167; Wieacker, Altrömische Priesterjurisprudenz, in Iuris professio. Festgab für Max Kaser, Wien-Köln-Graz 1986, 362 e nt. 45. Sulla natura unilaterale, e non bilaterale, del voto, v. quanto si dirà infra.

 

[2] Accogliendo in ciò la risalente, ma ancora apprezzabile classificazione di Toutain, s.v. Votum, in DS 5 (1919), 974-975; cfr., recentemente, Daza, El votum, in Derecho romano de obligaciones, Hom. Murga Gener, Madrid 1994, 505-506.

 

[3] Diversamente dai voti privati, da cui derivavano obblighi a carico del solo pater familias: v. per es. D. 50,12,2,1.

 

[4] Non gli altri, come con scrupolo precisa Mommsen, Römische Staatsrecht³, I, Leipzig 1887, 244 nt. 3.

 

[5] Cfr. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, II, Leipzig 1901, 583-584; Daza, op. cit., 512. Sul punto in questione, e per un più generale approfondimento, v. infra.

 

[6] Cfr. Liv. 21,63,7; Ov. Pont. 4,4,30. V. anche Bouché-Leclercq, Manuel d’institutions de droit romain, Paris 1886, 59; Toutain, in DS cit., 975; Turlan, L’obligation ex voto, in RHDFE 33 (1955), 506 e nt. 9; Daza, op. cit., 506.

 

[7] Cfr. Cic. rep. 2,20,36; div. 1,26,55; Liv. 1,35,9; 6,42,12; 8,40,2; 38,35,6; Ps. Ascon. 217 St.; Dion. Alic. 5,57,5; 7,71-72; Fest. 109 L; C.I.L. I¹, 272, 299-300. V. anche Mommsen, Römische Forschungen, II, Berlin 1879, 42 ss.; Friedländer, Die Spiele, in Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, Leipzig 1885, 482 ss.; Navarre, s.v. Ludi publici, in DS 3 (1904), 1378; Wissowa, Religion und Kultus der Römer, München 1971 (rist ediz. 1912), 126, 451-453; Piganiol, Recherches sur les jeux romains, Strasbourg 1923 75 ss.; Habel, s.v. Ludi publici, in RE 5 Suppl. (1931), col. 617-620; Sabbatucci, L’edilità romana: magistratura e sacerdozio, in MAL 8,6 (1954), 264-275, recensito da Impallomeni, in Labeo 2 (1956), 245 ss.; Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 248; Ogilvie, A Commentary on Livy Books I-V, Oxford 1965, 149 ss.; Quinn Schofield, Ludi, Romani magnique varie appellati, in Latomus 26 (1967), 96 ss.; Marchetti, La marche du calendrier romain et la chronologie à l’époque de la bataille de Pydna, in BCH 100 (1976), 420-423; Scullard, Festivals and Ceremonies of the Roman Republic, London 1981, 183 ss.; Harmon, The Religious Significance of Games in the Roman Age, in The Archaeology of the Olympics, Madison 1988, 236 ss.; Gwin Morgan, Politics, Religion and the Games in Rome, 200-150 B.C., in Philologus 134 (1990), 14 ss.

 

[8] Liv. 31,9,10: Octiens ante ludi magni de certa pecunia voti erant, hi primi de incerta.

 

[9] Talora soltanto come “atto ricevuto”, come meglio diremo in seguito.

 

[10] Liv. 4,12,2; 4,27,1-2; 4,35,3; 5,19,6; 7,11,4.

 

[11] In proposito, condividiamo l’opinione di Piganiol, op. cit., 78-81, al quale rinviamo per un approfondimento; v. anche Weissenborn, Müller, Titi Livi ab urbe condita libri, VII (5ª ediz.), Berlin-Zürich 1965, 18 nt. 10; Versnel, Triumphus, Leiden 1970, 109; Briscoe, A Commentary on Livy Books XXXI-XXXIII, Oxford 1973, 81-82, il quale per la verità tende ad attribuire importanza ai precedenti più antichi, ed inoltre critica l’opinione di Piganiol, 81-82 e nt. 4, secondo cui a partire dal 242 i voti sarebbero stati offerti con cadenze quinquennali pressoché regolari, sulla base del giusto rilievo che questi erano invece voti occasionali offerti in tempi di crisi.

 

[12] V. Liv. 27,33,8; cfr. 30,2,8;27,11. V. anche Ogilvie, op. cit., 149; Timpe, Fabius Pictor und die Anfänge der römischen Historiographie, in ANRW I,2 (1972), 938; Briscoe, op. cit., 81; Scheid, Les incertitudes de la voti sponsio. Observations en marge du ver sacrum de 217 av. J.C., in Mélanges Magdelain, Paris 1998, 425.

 

[13] Liv. 22,10,7: Eiusdem rei causa ludi magni voti aeris trecentis triginta tribus milibus, trecentis triginta tribus, triente; praeterea bubus Iovi trecentis, multis aliis divis bubus albis atque ceteris hostiis; cfr. Plut. Fab. 4,6-7: (…) qšaj d™ mousik¦j kaˆ qumelik¦j ¥xein ¢pÕ shstert…wn triakos…wn tri£konta triîn kaˆ dhnar…wn triakos…wn  triîn, œti trithmor…ou prosÒntoj. Toàto tÕ kef£laiÒn ™stin Ñktë muri£dej dracmîn kaˆ dracmaˆ trisc…liai pentakÒsiai Ñgdo»konta tre‹j kaˆ dÚo Ñbolo…. LÒgon d™ tÁj e„j toàto toà pl»qouj ¢kribe…aj kaˆ dianomÁj calepÒn ™stin e„pe‹nÄ e„ m» tij ¥ra boÚloito tÁj tri£doj Ømne‹n t¾n dÚnamin, Óti kaˆ fÚsei tšleioj kaˆ prîtoj tîn perissîn ¢rc» te pl»qouj ™n aØtù t£j te prètaj diafor¦j kaˆ t¦ pantÕj ¢riqmoà stoice‹a me…xaj kaˆ sunarmÒsaj e„j taÙtÕn ¢ne…lhfe.       

 

[14] Cfr. Liv. 22,9,7-10,6: Q. Fabius Maximus dictator iterum quo die magistratum iniit vocato senatu, ab dis orsus, cum edocuisset patres plus neglegentia caerimoniarum quam temeritate atque inscitia peccatum a C. Flaminio consule esse quaeque piacula irae deum essent ipsos deos consulendos esse, pervicit ut, quod non ferme decernitur nisi cum taetra prodigia nuntiata sunt, decemviri libros Sibyllinos adire iuberentur. Qui inspectis fatalibus libris rettulerunt patribus, quod eius belli causa votum Marti foret, id non rite factum de integro atque amplius faciundum esse, et Iovi ludos magnos et aedes Veneri Erycinae ac Menti vovendas esse, et supplicationem lectisterniumque habendum, et ver sacrum vovendum si bellatum prospere esset resque publica in eodem quo ante bellum fuisset statu permansisset. Senatus, quoniam Fabium belli cura occupatura esset, M. Aemilium praetorem, ex collegii pontificum sententia omnia ea ut mature fiant, curare iubet.

His senatus consultis perfectis, L. Cornelius Lentulus pontifex maximus consulente collegium praetore omnium primum populum consulendum de vere sacro censet: iniussu populi voveri non posse. Rogatus in haec verba populus: ‘Velitis iubeatisne haec sic fieri? Si res publica populi Romani Quiritium ad quinquennium proximum, sicut velim (vov)eamque, salva servata erit hisce duellis, quod duellum populo Romano cum Carthaginiensi est quaeque duella cum Gallis sunt qui cis Alpes sunt, tum donum duit populus Romanus Quiritium quod ver attulerit ex suillo ovillo caprino bovillo grege quaeque profana erunt Iovi fieri, ex qua die senatus populusque iusserit. Qui faciet, quando volet quaque lege volet facito; quo modo faxit probe factum esto. Si id moritur quod fieri oportebit, profanum esto, neque scelus esto. Si quis rumpet occidetve insciens, ne fraus esto. Si quis clepsit, ne populo scelus esto neve cui cleptum erit. Si atro die faxit insciens, probe factum esto. Si nocte sive luce, si servus sive liber faxit, probe factum esto. Si antidea senatus populusque iusserit fieri ac faxitur, eo populus solutus liber esto’. V. anche Plut. Fab. 4,6.

 

[15] Pontefice patrizio, morto nel 213 (Liv. 25,1,2); non se ne conosce la data di cooptazione nel collegio. Era stato eletto pontefice massimo già piuttosto vecchio, nel 221, in sostituzione di L. Cecilio Metello (cfr. Cic. sen. 9,30; Val. Max. 8,13,2). Console nel 237, censore nel 236, nel 220 fu forse nominato anche princeps senatus, acquisendo così un'altissima reputazione (cfr. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, 221, 222; v. anche Münzer, Römische Adelsparteien und Adelsfamilien, Stuttgart 1920, 183; Scullard, Roman Politics 220-150 B.C., Oxford 1951, 39). Apparteneva alla stessa gens degli Scipioni, dei quali era alleato, in contrapposizione al partito fabiano (cfr. Scullard, Roman cit., 40-41). Nel 218 sostenne la necessità di un'immediata dichiarazione di guerra a Cartagine, contro Fabio Massimo che voleva prima mandare un'ambasceria (cfr. Sil. Ital. 1,676-678; Dio. frg. 55,5; Zon. 8,22). Per questo, secondo Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a. C., Trieste 1962, 275-276, 420, Lentulo Caudino sarebbe stato esponente di una fazione distinta da quella scipioniana, perché sostenitrice di una politica estera aggressiva ma non illuminata, bensì estremista e distruttrice: si collocherebbe perciò sulla linea che da Attilio Regolo va fino a Catone e all'Emiliano.

 

[16] Ivi compresa una supplicatio, alla cui celebrazione parteciperanno intere famiglie: v. Liv. 22,10,8-9, da cui si ricava che doveva trattarsi del medesimo rito ordinato poco prima dai decemviri, anche perché accompagnato dall’esecuzione di un lettisternio (per la supplicatio celebrata in concomitanza con la dichiarazione di guerra a Cartagine v. Liv. 21,17,4. Sulle cerimonie complessivamente prescritte dai decemviri nel 217 v. in particolare Sini, Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio storico e giuridico sardo di Sassari 2 n.s. (1995), 85-86 e nt. 67, con bibliografia.

 

[17] Per la verità, da Liv. 22,10,1-2, risulta che il collegio si pronunciò soltanto sulla procedura da seguire, che implicava la presentazione di una rogatio all’assemblea popolare, e non sul contenuto di questa stessa rogatio, corrispondente alla formula del voto da pronunciare (cfr. Mommsen, Staatsrecht cit., 245-246). Ma sulla base dei più accreditati studi in materia di ver sacrum (v. in particolare Heurgon, Le ver sacrum romain de 217, in Latomus 15 (1956), 138-158, e Trois études sur le ver sacrum, Bruxelles 1957; cfr. Eisenhut, s.v. ver sacrum, in RE 8,A,1 (1955), col. 911 ss., e Aigner Foresti, La tradizione antica sul ver sacrum, in Coercizione e mobilità umana nel mondo antico, Milano 1995, 141 ss., ai quali rinviamo anche a sostegno delle ulteriori considerazioni in nota; Sini, op. cit., 86, 89), possiamo senz’altro affermare che per l’età storica non esistono a Roma precedenti documentati relativi a quest’antichissimo rito, a cui ci si sarebbe potuti teoricamente ispirare per la predisposizione della formula, senza bisogno di interpellare in proposito il collegio dei pontefici. Del resto, se questa non fosse stata un’evenienza del tutto nuova (come sembra invece sostenere Scheid, op. cit., 421 e nt. 26, esclusivamente sulla base del fatto che le fonti a nostra disposizione non fanno, qui, alcun espresso riferimento a modifiche introdotte nel contenuto e nella procedura del voto), vi sarebbe da chiedersi perché mai Livio avrebbe dovuto riportare così analiticamente il formulario della rogatio; ed anche la circostanza che il ver sacrum del 217 sia stato prescritto dai decemviri insieme ad altri piacula, per rimediare alla precedente neglegentia caerimoniarum, non implica affatto, a nostro giudizio, che questo potesse verificarsi in maniera tutto sommato ricorrente: se così fosse, infatti, non si vede perché non dovrebbero residuarne altre testimonianze. Nessuna significativa connessione può a nostro avviso riscontrarsi neppure con la irrituale celebrazione del precedente voto a Marte (del cui contenuto, peraltro, nulla si sa: cfr. Liv. 21,62,10; v. anche Weissenborn, Müller, op. cit., IV, Berlin 1963, 26 nt. 9; Scheid, op. cit., 419 e nt. 16), dato che invece la primavera sacra del 217 fu insolitamente dedicata a Giove. Tutto ci persuade, pertanto, del carattere assolutamente straordinario del rimedio adottato in quell’occasione, che fu reso necessario dalla situazione di particolare gravità in cui versava la repubblica dopo la sconfitta del lago Trasimeno. Infine, è appena il caso di ricordare che il ver sacrum nel III secolo consisteva soltanto nell’offerta agli dei di tutti gli animali nati nella primavera di un certo anno, essendone ormai del tutto escluso l’elemento umano (cfr. Fest. 150,18-20 e 519 L, oltre che Liv. 22,10,3 e 34,44,3). Circa la prima irrituale celebrazione del ver sacrum del 217 v. Liv. 33,44,1-2; circa la sua ripetizione v. Liv. 34,44,1-3.

 

[18] Di quest’avviso, espressamente, Weissenborn, Müller, op. cit., IV, 28 nt. 7; Scheid, op. cit., 420. Il fatto poi che i ludi siano stati celebrati molto prima del ver sacrum può a nostro avviso spiegarsi sulla base di una scelta discrezionale del senato, il quale, essendosi verificata la condizione ma perdurando ancora il tempo di guerra, decise forse di dar seguito, intanto, ad uno soltanto dei voti, comprensibilmente optando per i ludi, data la minor complessità ed onerosità di questi rispetto al ver sacrum: cfr., sul punto, ultimamente Scheid, op. cit., 423-425, le cui considerazioni ci sembrano pienamente convincenti, ed al quale anche rinviamo per l’esame e la critica della dottrina pregressa.

 

[19] Riducendosi così il rapporto fra asse e denario da uno a dieci ad uno a sedici: cfr. Plin. nat. 33,13,44-46. Sull’argomento, che non può essere in questa sede diffusamente trattato, v. per es. Mommsen, Geschichte des römischen Münzgewesens, Berlin 1860, 379 ss.; Piganiol, op. cit., 16-17; Mattingly, The First Age of Roman Coinage, in JRS 35 (1945), 73 e nt. 35; Neatby-Heichelheim, The Early Roman Currency, in AASH 8 (1960), 68 e nt. 113; Weissenborn, Müller, op. cit., IV, 28 nt. 7, e VII, 17 nt. 7, i quali tuttavia sostengono che, per i soli affari religiosi, si continuò a far uso del vecchio asse; Crawford, War and Finance, in JRS 54 (1964), 29 e nt. 7, e The Roman Republican Coinage, II, Cambridge 1974, 615-616; Nicolet, Mutations monétaires et organisation censitaire sous la république, in Les Dévaluations à Rome, Roma 1978, 258 e nt. 16; Frier, Libri Annales Pontificum Maximorum: the Origins of the Annalistic Tradition, Rome 1979, 242-243, ai quali si rinvia anche per un’esatta ricognizione delle altre fonti rilevanti in materia (v. fin d’ora, comunque, soprattutto Fest. 468 L, e più in generale Ps. Ascon. 217 St.; Dion. Alic. 7,71,2; Zon. 8,26), oltre che per le ulteriori riflessioni che seguono nel testo.

 

[20] Tanto da suscitare, come detto, lo stupore di studiosi vissuti in epoche successive: v. ancora Plut. Fab. 4,7.

 

[21] V. ancora Ps. Ascon. 217 St.: Romani ludi sub regibus instituti sunt magnique appellati, quod magnis impensis dati: tunc primum ludis impensa sunt ducenta millia nummum, comprensibilmente riferibile anche ai ludi magni votivi; cfr. Dion. Alic. 7,71,2. V. anche Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 17 nt. 7.

 

[22] Si trattava, con tutta probabilità, dei ludi votati nel corso del III secolo: cfr. Piganiol, op. cit., 81; v. anche supra.

 

[23] Sull’applicabilità di quest’espressione alla pronuncia del voto v. Varr. ling. 6,7,60; Cic. Phil. 3,4,11; Liv. 21,63,7 e 9; 41,10,7; Tac. ann. 12,68,1; Plin. epist. 10,45; paneg. 67,3; Svet. Aug. 97,2; Fest. 176,8 L; C.I.L. I¹, 305.

 

[24] Per la legittimità di quest’espressione, che edifica sulla distinzione fra sacra publica e sacra privata, si rinvia soprattutto a Fest. 284 L, ove i primi sono definiti quae publico sumptu pro populo fiunt ed i secondi quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiunt; v. anche, per tutti, ad es., Mommsen, Staatsrecht cit., II, 47-48 nt. 3; Casavola, Studi sulle azioni popolari romane. Le actiones populares, Napoli 1958, 15. Per il resto, basti qui ricordare che le fonti citate nelle note successive hanno tutte ad oggetto questioni inerenti alla elaborazione di formulari, relativi a voti solenni o ad altri riti, celebrando i quali la res publica stessa (e non i privati) avrebbe contratto, verso le divinità, impegni ad adottare determinati comportamenti, o comunque rapporti giuridicamente significativi.

 

[25] V. in particolare Liv. 31,12,3-5, circa i rimedi prescritti dal senato in seguito all’episodio della seconda spoliazione del tempio di Proserpina a Locri, del tutto analogo a quello verificatosi quattro anni prima, nel 204.

 

[26] Cfr. Pomp. D. 1,2,2,6: Omnium tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant, ex quibus constituebatur quis quoquo anno praeesset privatis.

 

[27] Cfr., anche se con più specifico riferimento alla procedura di espiazione dei prodigi, Willems, Le Sénat de la république romaine, II, Louvain-Paris 1883, 301-305; Wülker, Die geschichtliche Entwicklung des Prodigienwesens bei den Römern, Diss. Leipzig 1903, 26-50; Luterbacher, Der Prodigienglaube und Prodigienstil der Römer, Burgdorf 1904, 33-43; R. Bloch, Les prodiges dans l’antiquité classique, Paris 1963, 77 ss.; Latte, op. cit., 203-204; Wolf, Comitia, quae pro conlegio pontificum habentur, in Das Profil des Juristen in der europäischen Tradition, Symposion Wieacker, Ebelsbach 1980, 11 ss.

 

[28] V. in particolare Liv. 22,10,1; 26,34,12; 29,19,7-8; 29,20,10; 31,9,5-10; 38,44,3-6; 39,4,8-12; 39,5,7-10; 41,16,1-2; Cic. dom. 53,136.

 

[29] V. in particolare Liv. 24,44,7-9; 27,4,15; 27,25,7-10 (ove soprattutto compare la motivazione della decisione adottata); 27,37,4; 27,37,5-15; 30,2,13; 32,1,9; 33,44,1-2; 34,45,7; 37,3,1; 39,5,7-10; 39,16,6-11; 39,22,4; 40,45,2; 41,16,6; Cic. har. resp. 7,13; Att. 4,2,3-4; Hemerelogia, C.I.L. I². 212 ss.

 

[30] V. in particolare Liv. 22,10,1 (cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., IV, 26 e nt. 11); 34,44,1-3; Cic. dom. 53,136.

 

[31] V. in particolare Liv. 22,9,11 (Weissenborn, Müller, op. cit., IV, 26 e nt. 11); 33,44,1-2; 34,44,1-3; 39,5,7-10; 41,16,6; Cic. har. resp. 7,13.

 

[32] E’ certamente il caso, questo, dei voti solenni di ludi a Giove. Per la identificazione di una possibile categoria di decreta collegiali non suscettibili, invece, di ratifica da parte del senato, v. per es. Franchini, La desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano 2005, 87 ss.

 

[33] Non è questa però, naturalmente, l’unica ipotesi: si pensi al postem tenere in occasione della consacrazione di templi (v. per es. Cic. dom. 52,133; Liv. 2,8,7; Plut. Publ. 14,6).

 

[34] V. per es. Liv. 4,27,2: Ne qua res qua eguissent in castris moraretur, dictator, praeeunte A. Cornelio pontifice maximo, ludos magnos tumultus causa vovit, profectusque ab urbe, diviso cum Quinctio consule exercitu, ad hostes pervenit; 5,41,1-3: Romae interim, satis iam omnibus, ut in tali re, ad tuendam arcem compositis, turba seniorum, domos regressa, adventum hostium obstinato ad mortem animo exspectabat: qui eorum curules gesserant magistratus, ut in fortunae pristinae honorumque aut virtutis insignibus morerentur, quae augustissima vestis est tensas ducentibus triumphantibusve, ea vestiti medio aedium eburneis sellis sedere. Sunt qui M. Folio pontifice maximo praefante carmen devovisse eos se pro patria Quiritibusque Romanis tradant; 8,9,4: ‘Deorum’ inquit ‘ope M. Valeri opus est; agedum, pontifex publicus populi Romani, praei verba quibus me pro legionibus devoveam’; 9,46,6: Aedem Concordiae in area Volcani summa invidia nobilium dedicavit; coactusque consensu populi Cornelius Barbatus pontifex maximus verba praeire, cum more maiorum negaret nisi consulem aut imperatorem posse templum dedicare; 10,28,14-18: Haec locutus M. Livium pontificem, quem descendens in aciem digredi vetuerat ab se praeire iussit verba quibus se legionesque hostium pro exercitu populi Romani Quiritium devoveret. Devotus inde eadem precatione eodemque habitu quo pater P. Decius ad Veserim bello Latino se iusserat devoveri, cum secundum sollemnes precationes adiecisset prae se agere sese formidinem ac fugam caedemque ac cruorem, caelestium inferorum iras, contacturum funebribus diris signa tela arma hostium, locumque eundem suae pestis ac Gallorum ac Samnitium fore, - haec exsecratus in se hostesque, qua confertissimam cernebat Gallorum aciem, concitat equum inferensque se ipse infestis telis est interfectus; 31,9,5-10 (riportato infra, nt. 37); 36,2,2-5 (riportato infra, nt. 115); 42,28,8-9 (riportato infra, nt. 184). Peraltro, dalle fonti a nostra disposizione, non sempre chiaramente risulta che un pontefice assistesse alla nuncupatio di un pubblico voto: v. per es. Liv. 5,19,6 e 7,11,4, che oltrettutto si riferiscono all’offerta dei grandi ludi. Ciò comunque non esclude, a nostro avviso, che un pontefice potesse esservi.

 

[35] Cfr. Liv. 28,38,12; Diod. 27,2,1; Plut. Fab. 25,3-4; Dio. frg. 57,52; Zon. 9,11.

 

[36] V. per es. Liv. 31.9.5-10, ove si dà notizia di un’opinione informalmente espressa in senato dal pontefice massimo P. Licinio Crasso (cfr. in proposito infra); Cic. Att. 4.2.4, ove si riferisce di una decisione adottata de omnium conlegarum sententia, ossia dopo che un pontefice aveva vagliato il parere concorde dei colleghi considerati uti singuli, senza che fosse ufficialmente interpellato il collegio come tale.

 

[37] Liv. 31,9,5-10: Cum dilectum consules haberent pararentque quae ad bellum opus essent, civitas religiosa in principiis maxime novorum bellorum, supplicationibus habitis iam et obsecratione circa omnia pulvinaria facta, ne quid praetermitteretur quod aliquando factum esset, ludos Iovi donumque vovere consulem cui provincia Macedonia evenisset iussit. Moram voto publico Licinius pontifex maximus attulit, qui negavit ex incerta pecunia voveri debere, quia ea pecunia non posset in bellum usui esse seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri: quod si factum esset, votum rite solvi non posse. Quamquam et res et auctor movebat, tamen ad collegium pontificum referre consul iussus si posset recte votum incertae pecuniae suscipi. Posse rectiusque etiam esse pontifices decreverunt. Vovit in eadem verba consul praeeunte maximo pontifice quibus antea quinquennalia vota suscipi solita erant, praeterquam quod tanta pecunia quantam tum cum solveretur senatus censuisset ludos donaque facturum vovit. Octiens ante ludi magni de certa pecunia voti erant, hi primi de incerta.

 

[38] V. soprattutto Liv. 22,7,6-13.

 

[39] In merito ai doni – dei quali risulta l’impiego, in quest’epoca, anche nelle supplicazioni e nei lettisterni, e che avevano assunto finalità, all’occorrenza, espiatorie (le quali non saranno state, ovviamente, ad essi connaturate) – v. ad es., per tutti, Wissowa, op. cit., 427-429 (al quale anche si rinvia per un’interessante rassegna di fonti); Gnoli, ‘Rem privatam de sacro surripere’ (Contributo allo studio della repressione del ‘sacrilegium’ in diritto romano), in SDHI 40 (1974), 180, 188, 194; Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 1977, 486; Rosenberger, Gezähmte Götter. Das Prodigienwesen der römischen Republik, Stuttgart 1998, 187.

 

[40] Sulla meticolosità nel riportare questo genere di notizie, che molti studiosi considerano prerogativa soprattutto dell’annalista Valerio Anziate, v. in particolare infra, nt. 185.

 

[41] Tutti gli studi più accreditati, concernenti le fonti utilizzate da Livio per la IV e V decade, concordano nel ritenere di ascendenza annalistica, piuttosto che polibiana, i passi relativi allo svolgimento della vita cittadina ed occidentale, piuttosto che alle guerre d’Oriente. Nessun dubbio può sussistere, in particolare, per passi come quelli da noi esaminati in questo studio, nei quali le elencazioni di fatti annuali (si pensi a tutte le incombenze cui i consoli, ordinariamente o straordinariamente, assolvevano non appena entrati in carica) direttamente rinviano alla stessa tradizione documentaria pontificale, culminata con gli annales maximi, oltre che a protocolli senatorii e a materiali d’archivio, cui gli annalisti – se non certo Livio – fondamentalmente attinsero. Lo stesso inveterato problema inerente alla attendibilità delle testimonianze annalistiche, a lungo sospettate di falsificazioni e ricostruzioni tendenziose, si pone più per l’età arcaica e per dati di carattere militare e gentilizio, che non per tempi più recenti e per questioni di rilievo cronachistico-religioso. V. in generale, per quanto detto sopra, ad es. Nissen, Kritische Untersuchungen über die Quellen der vierten und fünften Dekade des Livius, Berlin 1863, 36, 45, 47-48, 86 ss., 98, 120, 131, 176, 243-256, 340-341; Soltau, Die annalistische Quellen in Livius’ IV und V Dekade, in Philologus 52 (1893), 664, e Livius’ Geschichtswerk. Seine Komposition und seine Quellen, Leipzig 1897, 27-30, 35, 215; De Sanctis, Storia dei Romani, I, Firenze 1907, 18, 37-41; Witte, Über die Form der Darstellung in Livius Geschichtswerk, in Rheinisches Museum 65 (1910), 270 ss., 359 ss. (spec.te 417-418 nt. 2); Kahrstedt, Die Annalistik von Livius, B. XXXI-XLV, Berlin 1913; Klotz, Zu den Quellen der vierten und fünften Dekade des Livius, in Hermes 50 (1915), 481-536, s.v. Livius, in RE 25 (1926), col. 845, e Livius und seine Vorgänger, Leipzig 1940, 25-26, 44-47 (recensito da Gelzer, in Gnomon 18 (1942), 222); Gelzer, Der Anfang römischer Geschichtschreibung, in Hermes 69 (1934), 269, e Die Glaubwürdigkeit der bei Livius überlieferten Senatsbeschlüsse über römische Truppenaufgebote, in Kleine Schriften, III, Wiesbaden 1964, 220-255; Bickermann, Les préliminaires de la seconde guerre de Macédoine, in Rev. Phil. 61 (1935), 59 ss., e Bellum Philippicum: Some Roman and Greek Views concerning the Causes of the Second Macedonian War, in Classical Philology 40 (1945), 137 ss.; Mac Donald, Walbank, The Origins of the Second Macedonian War, in JRS 27 (1937), 190, 196-197; Crake, Archivial Material in Livy, 218-167, Diss. Baltimore, 1939, part.te 159-161, 227; Petzold, Die Eröffnung des zweiten römisch-makedonischen Krieges, Berlin 1940, 73, 84-85, il quale appare comunque assai scettico sulla possibilità di considerare attendibile il materiale annalistico; Bayet, in Tite-Live, Histoire romaine, I (ediz. Les Belles-Lettres), Paris 1944, XXVII-XXVIII, XXX; Baldson, Some Questions about Historical Writing in the Second Century B.C., in CQ 47 (1953), 158 ss., e Rome and Macedon, in JRS 44 (1954), 30 ss.; Bredehorn, Senatsakten in der republikanischen Annalistik, Diss. Marburg 1968, part.te 2, 17, 74-75, 132 ss., 166-167, 171, 206-207; Holleaux, Etudes d’épigraphie et d’histoire grecques, V, Rome et la conquête de l’orient, Paris 1957, 10 ss., 16, 296 e nt. 2, 340, 346, il quale, comunque, appare a sua volta scettico sulla attendibilità storica del materiale annalistico; Mac Donald, The Style of Livy, in JRS 47 (1957), 155-158; Ferro, Le origini della II guerra macedonica, in Atti della Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo 19 (1960), 103, 125 ss.; Walsh, Livy. His Historical Aims and Methods, Cambridge 1961, 31, 35, 110, 120-121, 282, 285-286; Ogilvie, op. cit., 5 ss.; Brunt, Italian Manpower, Oxford 1971, 645-660; Rawson, Prodigy Lists and the Use of the Annales Maximi, in CQ 21 (1971), 158-169, che esprime tuttavia dubbi circa la perfetta idoneità degli annalisti all’utilizzo di materiale d’archivio e degli annales maximi, sostenendo che essi attinsero dunque a più fonti; Briscoe, op. cit., 1-12 (part.te 12 e nt. 4, con replica a Rawson, op. cit. appena sopra), e Livy and the Senatorial Politics, 200-167 B.C.: The Evidence of the Fourth and Fifth Decades, in ANRW II,13 (1982), 1076; Rich, Declaring War in the Roman Republic in the Period of Transmarine Exspansion, Bruxelles 1976, 12 e nt. 4, 21-22, 24, 75, 79; Tränkle, Livius und Polybius, Basel-Stuttgart 1977, 21, 37, 44; Frier, op. cit., 93, 270-274; Adam, Valérius Antias et la fin de Scipion l’Africain, in REL 58 (1980), 90-91; Warrior, Notes on Livy Book 42, in American Journal of Ancient History 6 (1981), 1, 5, e The Initiation of the Second Macedonian War, Stuttgart 1996, 10, 15 e nt. 10, 16, 27, 39-54, 64, 72, 91; Perelli, in Storie di Tito Livio (libri I-V), Torino 1974, 30-33; Luce, Livy. The Composition of his History, Princeton 1977, 96-104, 131, 145-149, 158-159, 181 (recensito da Briscoe, in JRS 68 (1978), 227-228; Paul, in The American Historical Review 83 (1978), 1236-1237; Walsh, in Phoenix 32 (1978), 171-174); Harris, War and Imperialism in Republican Rome 327-70 B.C., Oxford 1985, 212-218; Cornell, The Formation of the Historical Tradition, in Past Perspectives, Cambridge 1986, 67 ss.; Ungern-Sternberg, The Formation of the Annalistic Tradition: the Exemple of the Decemvirate, in Social Struggles in Archaic Rome, Berkeley 1986, 86; Mensching, Zur Entstehung und Beurteilung von Ab urbe condita, in Latomus 45 (1986), 576, 580-581; Laroche, Valerius Antias: Livy’s Source for the Number of Military Standards captured in Battle in Books XX-XLV, in Latomus 47 (1988), 758 e nt. 2; Drews, Pontifs, Prodigies and the Disappearance of the Annales Maximi, in CP 83 (1988), 289-299; Burck, Das Geschichtswerk des Titus Livius, Heidelberg 1992, 16-17, 18 ss., 24 ss.; Laffi, L’uso di epigrafi e di documenti formulari in Livio, in Storici latini e storici greci di età imperiale, Lugano 1993, 30; Rüpke, Livius, Priesternamen und die Annales Maximi, in Klio 75 (1993), 159, 167, 178, e Quellen oder Produkte römischer Geschichtsschreibung ?, in Klio 77 (1995), 184; Evans, The Structure and Source of Livy, 38,44,9-39,44,9, in Klio 75 (1993), 180 ss.; Meadows, Greek and Roman Diplomacy on the Eve of the Second Macedonian War, in Historia 42 (1993), 45; Mantel, Der Bündnisvertrag Hannibals mit Philipp V. von Makedonien. Anmerkungen zur Verknüpfung des zweiten makedonischen Krieges mit dem zweiten punischen Krieg bei Livius, in Rom und der Griechische Osten, Stuttgart 1995, 175, 183-184.

Più difficile, in mancanza di riscontri diretti della storiografia annalistica (riscontri che sono invece possibili, come noto, per Polibio), risulta il tentativo di attribuire ad un determinato autore i singoli passaggi dell’opera di Livio, che tende peraltro ad ampliare e a rivedere secondo criteri di carattere retorico-narrativo (cfr., su quest’ultimo punto, Mac Donald, The Style cit., 155 ss., secondo cui l’annalistica influisce comunque sullo stile di Livio, fornendogli, oltre che l’impalcatura del suo lavoro, le espressioni proprie del tradizionalismo politico e religioso romano; v. anche per es. Walsh, Livy cit., 236; Aili, Livy’s Language. A Critical Survey of Research, in ANRW XXX,2 (1982), 1122 ss.; Viljamaa, Infinitive of Narration in Livy. A Study in Narrative Technique, Turku 1983, spec.te 55; Smith, The Styles of Sallust and Livy: Defining Terms, in The Classical Bulletin 61 (1985), 79, 83; Falco, Stile drammatico nella storiografia annalistica di Livio, in Retorica e storia nella cultura classica, Bologna 1985, 71 ss.; Burck, op. cit., 51-52). Ciò nonostante gli studiosi della Quellenforschung tradizionale (per lo più di lingua tedesca) non esitavano a identificare, sulla base di criteri ricostruttivi talora anche assai diversi, le fonti di volta in volta utilizzate; oggi in dottrina sembra invece prevalere un atteggiamento più scettico circa la possibilità di un’esatta identificazione dell’annalista cui Livio ha attinto, pur convenendosi ancora in linea di principio sull’utilizzo pressoché esclusivo, nella IV e V decade, degli annalisti di età sillana, ossia Valerio Anziate e Claudio Quadrigario (per una sintesi sullo stato della dottrina v. per es. Burck, op. cit., 25; v. anche, sebbene più risalenti, Bredehorn, op. cit., 1 ss.; Briscoe, A Commentary cit., 1-12). Appartengono alla prima corrente interpretativa Unger, Die römischen Quellen des Livius in der vierten und fünften Dekade, Göttingen 1878, 1 ss.; Soltau, Die annalistische cit., 664 ss., e Livius cit., 27 ss., che distingue tra Pisone, Anziate e Quadrigario, sulla base di assunzioni a priori sul loro modo di lavorare; Kahrstedt, op. cit., 103-112, che dimostra particolare attenzione per i dettagli, puntando su discrepanze e contraddizioni nelle sezioni annalistiche; Klotz, Zu den Quellen cit., 481 ss., il quale critica l’impostazione degli autori succitati, che attribuiscono i frammenti a determinati annalisti senza criterio, ed enuncia la sua fondamentale tesi, secondo cui Livio avrebbe sempre utilizzato una fonte annalistica principale, Anziate, ed eventualmente una secondaria, Quadrigario, fino al libro 38, dopodiché, per gli errori riscontrati nella narrazione fatta da Anziate sul processo degli Scipioni, avrebbe esattamente invertito l’ordine, fino al libro 45  (per la dimostrazione di quest’asserto v. anche, dello stesso autore, s.v. Livius, in RE cit., col. 841-846, oltre che Livius cit., 25, 42-43, ove peraltro il cambio di fonte viene prospettato come meno improvviso e più graduale); Borneque, Tite-Live, Paris 1933, 81-82, che aderisce alla tesi di Klotz, così come Bickermann, Bellum cit., 138 nt. 1; Gelzer, Rec. a Klotz cit., 220 ss.; Bayet, op. cit., XLVIII; Volkmann, s.v. Valerius (Antias), in RE 14,2 (1948), col. 2330; Walsh, Livy cit., 120-123, 133 ss.; Burck, Aktuelle Probleme der Livius-Interpretation, in Gymnasium Beihefte 4 (1964), 35-36, il quale sembra, in effetti, propendere a sua volta per quest’orientamento; Walbank, Livy (a cura di Dorey), London-Toronto 1971, 50, 62-63, che pur esprime qualche riserva; Meyer, Die römische Annalistik im Lichte der Urkunden, in ANRW I,2 (1972), 985; Perelli, op. cit., 33; Rüpke, Livius cit., 159, 165, ed Evans, op. cit., 182; non così Zimmerer, The Annalist Qu. Claudius Quadrigarius, München, 1937, 18-19, 22-26, 59, 65-68, la quale, tornando in parte ai metodi di Kahrstedt, ritiene si debba individuare di volta in volta l’annalista utilizzato, che comunque, per sequenze come quelle da noi esaminate, è per lo più Valerio Anziate (v. la replica di Klotz in Der Annalist Q. Claudius Quadrigarius, in Rheinisches Museum 91 (1942), 268 ss.). Appartengono invece alla seconda delle correnti interpretative sopra ricordate, poiché non accolgono gli orientamenti tradizionali (e in specie quello di Klotz), per es. Laistner, The Greater Roman Historians, Berkeley-Los Angeles 1947, 83 ss., secondo cui non è vero che Livio segue principalmente un autore e gli altri sussidiariamente; Briscoe, A Commentary cit., 1-12, secondo cui non vi è, o non è comunque identificabile, una fonte principale tenuta a riferimento da Livio e, contestando espressamente anche il punto di vista di Kahrstedt, ipotizza una lettura di più autori da parte dello storico patavino, che in questo modo si sarebbe forse fatto un’idea complessiva della materia da trattare, più per scopi di carattere narrativo che non per risolvere puntualmente problemi di ricostruzione storica; Luce, op. cit., 96 ss., il quale sostiene che Livio procedette ad una lettura preventiva di più autori, a prescindere dal fatto che esistessero o meno dubbi da sciogliere, e senza in ogni caso cambiare l’eventuale fonte principale da un certo punto della narrazione in poi; Moreschini, Livio e il mondo greco, in Studi classici e orientali 34 (1984), 55-57, il quale sembra in parte aderire alla tesi di Luce; Adam, op. cit., 91-94; Mensching, op. cit., 580-581; Cornell, op. cit., 67 ss.; Ungern-Sternberg, op. cit., 86; Burck, Das Geschichtswerk cit., 25, 26, 31, 124.

 

[42] Fermo restando quanto si è detto alla nota precedente, i passi da noi esaminati in questo paragrafo sono espressamente attribuiti ad un determinato annalista – per lo più Valerio Anziate – da Soltau, Die annalistische cit., 676, 692-693, e Livius cit., 43; Kahrstedt, op. cit., 103-112; Volkmann, in RE cit., col. 2330; Klotz, Livius cit., 25-26, che in particolare rileva, per quest’episodio, l’aderenza di Anziate agli atti del senato; Ferro, op. cit., 132-133; Tränkle, op. cit., 67; Warrior, The Initiation cit., 15 e nt. 10.

 

[43] Anno quingentesimo quinquagesimo primo ab urbe condita, P. Sulpicio Galba C. Aurelio consulibus, bellum cum rege Philippo initum est, paucis mensibus post pacem Carthaginiensibus datam. Omnium primum eam rem idibus Martiis, quo die tum consulatus inibatur, P. Sulpicius consul rettulit senatusque decrevit uti consules maioribus hostiis rem divinam facerent quibus diis ipsis videretur cum precatione ea, ‘Quod senatus populusque Romanus de re publica deque ineundo novo bello in animo haberet, ea res uti populo Romano sociisque ac nomini Latino bene ac feliciter eveniret’; secundum rem divinam precationemque ut de re publica deque provinciis senatum consulerent (…). Cum renuntiassent consules rem divinam rite peractam esse et precationi adnuisse deos haruspices respondere laetaque exta fuisse et prolationem finium victoriamque et triumphum portendi, tum litterae Valeri Aurelique lectae et legati Atheniensium auditi. 

 

[44] Si trattava del cosiddetto partito intermedio, claudiano-serviliano, del quale meglio diremo in seguito. Su P. Sulpicio Galba, qui basti dire che era già stato console nel 211 (cfr. Broughton, op. cit., 272), e che poi restò in Grecia, con imperium prorogato, fino al 206 (v. ancora Broughton, op. cit., 280, 287, 292, 296, 300). Grazie dunque all’esperienza già acquisita in quella parte del mondo, egli poi ottenne, come vedremo tra breve, il comando della nuova guerra macedonica: questa, per lo meno, è l’opinione generalmente sostenuta in dottrina (v. per es. Briscoe, Livy cit., 1078-1079; Warrior, The Initiation cit., 58, 65; di diverso avviso Gruen, The Ellenistic World and the Coming of Rome, I, Berkeley-Los Angeles-London 1984, 203-207, specie 205 nt. 5, con ulteriori indicazioni bibliografiche relative all’opinione prevalente, criticamente recensito dallo stesso Briscoe, in CR 36 (1986), 91-96, spec.te 94). Ad integrazione di quanto sopra, generalmente rinviamo, per es., a Weissbach, s.v. Sulpicius, n° 64, in RE 4,A,1 (1931), col. 801-808.

 

[45] Ma non, si noti fin d’ora, all’avversario. Cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 9 nt. 4; Bredehorn, op. cit., 55-56 nt. 65, 133-134.

 

[46] Cfr., con specifico riferimento ai passi in questione, Ogilvie, op. cit., 675-676.

 

[47] Liv. 31,6,1: P. Sulpicio provincia Macedonia sorti evenit isque rogationem promulgavit, ‘Vellent iuberent Philippo regi Macedonibusque qui sub regno eius essent, ob iniurias armaque inlata sociis populi Romani bellum indici’. Alteri consulum Aurelio Italia provincia obtigit.

 

[48] V. Liv. 31,6,3-4. Sull’episodio di Bebio, e sulla sua attendibilità storica, basata su materiale annalistico, v. anche Olshausen, Untersuchungen zum Verhalten des Einfachen Mannes zwischen Krieg und Frieden auf der Grundlage von Hom. Il. 2,211-277 (Thersites) und Liv. 31,6-8 (Q. Baebius, tr. pl.), in Livius. Werk und Rezeption. Festschrift Burck, München 1983, 234 ss. Egli era certo alleato di Scipione, come del resto gli altri Bebii: di quest’avviso Scullard, Roman cit., 42 nt. 4 e 47;  Briscoe, Fulvii and Postumii, in Latomus 27 (1968), 150 e nt. 1, A Commentary cit., 70, e Livy cit., 1081-1082; di diverso avviso Cassola, op. cit., 396-397. Sulla contrarietà dell’Africano e dei suoi alleati alla accelerazione dei tempi della guerra, e alla guerra stessa se gestita dai suoi oppositori, v. ancora Briscoe, Livy cit., 1082.

 

[49] Cfr. Liv. 31,6,5-6.

 

[50] Cfr. Liv. 31,7,1-15.

 

[51] Liv. 31,7,15: Huius vobis sententiae non consul modo auctor est sed etiam di immortales, qui mihi sacrificanti precantique ut hoc bellum mihi, senatui vobisque, sociis ac nomini Latino, classibus exercitibusque nostris bene ac feliciter eveniret, laeta omnia prosperaque portendere.

 

[52] Liv. 31,8,1.

 

[53] Liv. 31,8,2: Supplicatio inde a consulibus in triduum ex senatus consulto indicta est, obsecratique circa omnia pulvinaria di ut quod bellum cum Philippo populus iussisset, id bene ac feliciter eveniret.   

 

[54] Cfr. Briscoe, A Commentary on Livy Books XXXIV-XXXVII, Oxford 1981, 218; Warrior, The Initiation cit., 61 e nt. 1, 67.

 

[55] La supplicatio, come rito greco, si affermò nel III secolo. Prescritta per lo più dal collegio dei decemviri sacris faciundis, essa si caratterizzava per le invocazioni (obsecrationes, termine con cui per sineddoche si poteva indicare l’intera cerimonia) rivolte agli dei dall’intera popolazione che, riunita in processione, faceva il giro dei santuari, aperti per l’occasione al pubblico; lì, adagiate su cuscini (pulvinaria), si trovavano le statue degli dei. Esistevano tre specie di supplicatio: quella espiatoria, prescritta per placare la collera degli dei (come nel 217: cfr. supra), la cui celebrazione rappresentava l’adempimento di un’obbligazione piaculare; quella propiziatoria, quale è questa del 200, che si differenziava dalla precedente solo per il fine, non riparatorio ma preventivo; quella gratulatoria, con cui si ringraziavano gli dei per la riuscita di un'impresa, e che era completamente diversa dalle altre due, specie per quanto attiene al contenuto della preghiera (detta gratulatio, non obsecratio). V. per es. Wissowa, op. cit., 423 ss.; Kirsopp Lake, The Supplicatio and the Graecus ritus, in Quantulacumque. Studies presented to Kirsopp Lake, London 1937, 243-251; Abaecherli Boyce, The Development of the Decemviri sacris faciundis, in TAPH 69 (1938), 161 ss.; Halkin, La supplication d'action de grâces chez les Romains, Paris 1953, 9 ss.; Gagé, Apollon romain, Paris 1955, 113, 180; Bayet, Histoire politique et psycologique de la religion romaine, Paris 1957, 129; Latte, op. cit., 203-204, 245-246; Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 14 nt. 2, 17 nt. 6; Briscoe, A Commentary cit., 1973, 76; Dumézil, op. cit., 485-487; Freyburger, La supplication d'action de grâces dans la religion romaine archaïque, in Latomus 36 (1977), 283 ss., e Supplication grecque et supplication romaine, in Latomus 47 (1988), 501 ss.; Bonnefond-Coudry, Le sénat de la république romaine de la guerre d’Hannibal à Auguste: pratiques deliberatives et prise de décision, Rome 1989, 320 ss. (con schema elencativo); Scheid, Graeco ritu: A Tipically Roman Way of honoring the Gods, in Harvard Studies in Classical Philology 97 (1995), 17 ss.; Warrior, The Initiation cit., 67; Rosenberger, op. cit., 143-145; Guittard, Invocations et structures théologiques dans la prière à Rome, in REL 76 (1998), 73, 78; Champeaux, La prière du Romain, in Ktema 26 (2001), 269, 278, 280.

 

[56] Per la verità, Livio fa precedere le notizie relative alla consultazione dei feziali da parte del console Sulpicio (31,8,3-4), nonché all’arruolamento delle legioni e all’attribuzione delle province ai pretori (31,8,5-11). Tutti rilievi, questi, che certo non afferiscono alla civitas religiosa; propriamente, neppure il primo.

 

[57] Così Bauman, Lawyers in Roman Republican Politics, München 1983, 105; Daza, op. cit., 507, che parla invero di decisión popular. Caratteristica formale della rogatio presentata al magistrato era in effetti il velitis iubeatis (per cui v. per es. Liv. 22,10,2; cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., IV, 27 nt. 2), cui corrisponde il vellent iuberent proprio dei discorsi indiretti (per cui v. per es. Liv. 31,6,1; cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 10 nt. 1): v. in proposito Briscoe, A Commentary cit., 1973, 70.

 

[58] Cfr. s.v. iubeo, in Oxford Latin Dictionary 4 (1973), 977, n° 7: «(…in weakened sense) to ask, bid, invite».

 

[59] Tutto a quel punto, comunque, doveva aver contribuito ad agitare gli animi: il fatto che, per es., fossero già iniziate le operazioni di leva, o anche l’arrivo di ambascerie dall’Oriente (v. Liv. 31,9,1-5; cfr. 31,5,5-6; v. inoltre Bickermann, Bellum cit., 138; Errington, Rome against Philip and Antiochus, in Cambridge Ancient History 8 (1989), 257; Warrior, The Initiation cit., 61-62).

 

[60] Cfr. supra.

 

[61] Secondo quanto già stabilito da una legge del 304, concernente anche le are (v. in proposito Liv. 9,46,7; cfr. Gai. 2,5), che oggi per lo più la dottrina tende a non identificare con la ciceroniana lex Papiria (v. Cic. dom. 49,127-50,128; 50,130; 53,136; Att. 4,2,3; cfr. per es. Gai 2,5), di data incerta. Sul punto v. ad es. Willems, op. cit., 307-309; Mommsen, Staatsrecht cit., II, 619 e nt. 3; Wissowa, op. cit., 406 e nt. 4, pur con qualche dubbio sulla realtà storica della legge in questione; Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1962 (rist. ediz. 1912), 234-235; Paoli, Le ius Papirianum et la loi Papiria, in RHD 24-25 (1946-1947), 180, 186-187 nt. 1, 188 nt. 3, 191 nt. 2, 192, 196-198; Bardon, La naissance d’un temple, in REL 33 (1955), 171; Saumagne, La lex de dedicatione aedium (450/304) et la divinitas Christi, in Studi Volterra, I, Milano 1971, 383 ss.; De Martino, Storia della costituzione romana², II, Napoli 1973, 192-193; Gaudemet, Res sacrae, in Études de droit romain, III, Napoli 1979, 503; Fiori, Homo sacer, Napoli 1996, 26, 516 nt. 39; Orlin, Temples, Religion and Politics in the Roman Republic, Leiden-New York-Köln 1997, 163-171.

 

[62] Di diverso avviso Bauman, op. cit., 105, il quale cita a sostegno della sua tesi Liv. 22,10,1, fonte da noi in precedenza esaminata, nella quale per la verità non si fa riferimento alcuno ai ludi, ma solo al ver sacrum; Daza, op. cit., 507, che non offre argomentazioni in proposito. Riguardo poi alla tesi di Sini, op. cit., part.te 82-86, 87-88, 88-90, secondo cui la tradizione romana avrebbe imposto in ogni caso, fin dai tempi più risalenti, l’assenso popolare per la nuncupatio di un pubblico voto, occorre rilevare come le fonti invocate a sostegno non sembrino in verità molto pertinenti: né Liv. 4,20,4, che riguarda un dono non votivo; né Liv. 9,9,3-4, ove la pur significativa affermazione “(…) sed iniussu populi nego quicquam sanciri possit posse quod populum teneat” ha un carattere generico, non propriamente riferibile, quindi, ai voti; né infine Liv. 22,10,1, donde risulta espressamente che la necessità di convocare il popolo deriva dal fatto che il voto ha ad oggetto un ver sacrum. Senza considerare poi i molti testi, nei quali dell’assemblea popolare non si fa menzione, ed alcuni dei quali, assai meno ambigui di quello qui commentato, sono approfondidamente esaminati nel corso di questo stesso lavoro.

 

[63] Cfr. per es. Willems, op. cit., 299 ss.; Bonnefond-Coudry, op. cit., 320 ss.

 

[64] V. ancora Liv. 31,8,5-11.

 

[65] Su questo importante personaggio, sulla sua carriera di sacerdote e magistrato, sulle sue appartenenze politiche e di partito ci soffermeremo approfonditamente fra breve.

 

[66] V. Liv. 30,1,3-6: P. Sempronius – ei quoque enim pro consule imperium in annum prorogabatur – P. Licinio succederet; is Romam reverteretur, bello quoque bonus habitus ad cetera, quibus nemo ea tempestate instructior civis habebatur, congestis omnibus humanis ab natura fortunaque bonis. Nobilis idem ac dives erat; forma viribusque corporis excellebat; facundissimus habebatur, seu causa oranda, seu in senatu et apud populum suadendi ac dissuadendi locus esset; iuris pontificii peritissimus; super haec bellicae quoque laudis consulatus compotem fecerat; cfr. Cic. de or. 3,33,134.

 

[67] In proposito, ci sia consentito di svolgere, pur con tutta la cautela del caso, alcune congetture. Tenendo conto che P. Licinio Crasso possedeva, ora nel 200, la qualifica di censorius – la quale certo già prevaleva in senato su quella di consularis, essendole anzi anteposta, nella gerarchia degli ordini curuli, solo quella di dictatorius (cfr. Willems, op. cit., I, 1878, 257; Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain et les conflits de générations, in MEFRA 94 (1982), 175 ss., e Le sénat de la république cit., 598, 704) –, è immaginabile che abbiano potuto prendere la parola, nel nostro caso, un ex censore patrizio od un ex dittatore che fossero esperti della materia sacrale (il princeps senatus, Q. Fabio Massimo, membro del collegio pontificale e capo della fazione contrapposta agli Scipioni, era morto tre anni prima: cfr. Liv. 29,37,1; 30,26,7-10). Volendo allora, per il momento, restringere il campo d’indagine ai senatori-pontefici, che presumibilmente fossero avversari politici di Crasso (in conformità a quanto meglio diremo in seguito, trattando della composizione del collegio, in quel periodo), le uniche due ipotesi da considerare, al riguardo, sembrano essere le seguenti: ossia che si trattasse di Q. Fulvio Flacco, personaggio autorevolissimo, dictatorius, che tuttavia nel 200 sarebbe  potuto essere anche già morto (v. infra; cfr. Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain cit., 224-225, e Le sénat de la république cit., 598, che traccia un prospetto ricostruttivo, da cui si evince che Fulvio era allora uno dei più assidui nel prendere la parola in senato), oppure di C. Servilio Gemino, dictatorius, futuro pontefice massimo (v. infra). Per il resto, la sola ipotesi da formulare ci pare quella di M. Livio Salinatore, dittatore nel 207 (v. Broughton, op. cit., 295) e parente del pontefice Caio, che forse ora nel 200 non era più legato al partito filoscipioniano (v. infra; cfr. Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain cit., 224-225, e Le sénat de la république cit., 598, da cui si evince che M. Livio, come Q. Fulvio Flacco, era tra i più assidui nel prendere la parola in senato).

 

[68] Il ritardo, che poi ne derivò nella nuncupatio del voto, non è precisato nella sua durata (cfr. Warrior, The Initiation cit., 68); esso non dovette essere, comunque, particolarmente grave (cfr. Ferro, op. cit., 103).

 

[69] Sui pareri di questo tipo, emessi dai pontefici fuori dalle sedi competenti, v. quel che si è detto nel capitolo di apertura.

 

[70] In proposito, v. anche comunque infra, circa il testo del voto e la funzione, attribuita al senato, di determinare comunque la somma al momento della solutio. Cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 17 e nt. 7.

 

[71] Cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 17 nt. 7.

 

[72] Cfr. Serv. ad Aen. 7,120: et in precibus nihil esse ambiguum debet. V. anche Wissowa, op. cit., 398 e nt. 3, il quale fa oltretutto specifico riferimento al caso da noi qui esaminato.

 

[73] Anche se in riferimento ai ludi sarebbe forse più corretto parlare di un facere: cfr. Karlowa, op. cit., 580-581; v. anche, recentemente, Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Wubbe, Fribourg 1993, 200-201.

 

[74] Cfr. Draper, The Role of the Pontifex Maximus and its Influence in Roman Religion and Politics, Diss. Brigham Young University Provo, Utah, 1988, 234-235. Per un raffronto col sistema vigente in materia di obligatio civilistica v. Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 17 nt. 7; Bauman, op. cit., 104 e nt. 83, secondo cui, essendo la struttura del votum publicum equiparabile a quella di taluni contratti poi riconosciuti nell’ambito del ius civile, è dubbio se l'oggetto della promessa potesse essere anche non determinato, ma determinabile in un secondo momento da un terzo (analogamente, per es., al prezzo della emptio-venditio, per la quale esisteranno, fin dal tempo dei veteres, vivaci discussioni tra i giuristi: v. Gai. 3,140; C. 4,38,15; I. 3,23,1; cfr. D. 19,2,25 pr.). Le osservazioni di Bauman non ci sembrano condivisibili, né nel loro fondamento, dal momento che la struttura del votum è a nostro avviso quella di un negozio unilaterale, né per il resto, poiché - si noti bene - qui s'intendeva affidare al senato, organo della repubblica promittente e tutt'altro che terzo, il compito di determinare poi la somma esatta (ed anzi ricordiamo che per la compravendita l'arbitraggio della parte non sarà mai ammesso: cfr. D. 18,1,35,1).

 

[75] Questa è la tesi che a noi appare tuttora più convincente, e che da lungo tempo per lo più si accoglie da parte degli studiosi: v. per es., tra i più autorevoli, Pernice, Zum römischen Sakralrechte, in Sitzungsberichte der Akademie der Wissenschaften zu Berlin 2 (1885), 1147; Kaser, op. cit., 253; Wieacker, op. cit., 362. V. comunque anche D. 50,12,2, con particolare riferimento alla sua collocazione nel titolo De pollicitationibus: tale testimonianza vale certamente soltanto per l’epoca giustinianea, ma ha comunque carattere tecnico, al contrario di quelle su cui fondano il loro asserto gli autori favorevoli alla bilateralità (quali soprattutto Brini, La bilateralità delle pollicitationes ad una res publica e dei vota nel diritto romano, in Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, Classe di scienze morali, Sez. di Scienze giuridiche, Ser. 1ª,  2 (1907-1908), 33 ss.; Magdelain, Essai sur les origines de la sponsio, Paris 1943, 118-120; Turlan, op. cit., 504 ss.; Bauman, op. cit., 104 ss., pur senza particolari argomenti o richiami; Scheid, Les incertitudes cit., 417-418, 424; v. anche Humbert, op. cit., 200-201, il quale paragona il voto ai contratti innominati, ove l’obbligazione di Tizio sorge quando Caio abbia senz’altro eseguito la sua prestazione: si consideri però che, se tale prestazione forma oggetto di una condizione apposta ad un negozio solenne, dal quale strutturalmente deriva l’impegno del vovens, la situazione cambia di molto). Se infatti è vero che esistono testi letterari nei quali, molto genericamente, il voto è avvicinato alla sponsio o la promessa descritta come suscettibile di accettazione (v. principalmente Cic. leg. 2,16,41; Aug. epist. 127,8; Tert. ieiun. 11,2), decisivo rimane tuttavia, a nostro avviso, il rilievo che il modo con cui il dio manifesterebbe in concreto il suo assenso nella fase genetica del rapporto resta del tutto imprecisato ed ignoto. Per un approfondimento di questo ed altri connessi problemi, che non possiamo affrontare in questa sede, si rinvia all’ampia letteratura esistente in materia di voto, di cui si vuole qui in particolare ricordare: Brisson, De formulis et sollemnibus populi Romani verbis, Lipsiae 1731, 86 ss.; Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome, Paris 1871, 159 ss.; Karlowa, op. cit., 579 ss.; Wlassak, Der Gerichtsmagistrat im gesetzlichen Spruchverfahren, in ZSS 28 (1907), 34 ss.; Wissowa, op. cit., 381 ss.; Toutain, in DS cit., 969 ss.; Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, 130-132; Kaser, Das altrömische Ius, Göttingen 1949, 125, 258, 302, 306, e Privatrecht cit., 253; Noaille, Du droit sacré au droit civil, Paris 1949, 302 ss.; Latte, op. cit., 46-47; Eisenhut, s.v. Votum, in RE Suppl. 14 (1966), col. 964 ss.; Liebs, Damnum, damnare und damnas. Zur Bedeutungsgeschichte einiger lateinischer Rechtswörter, in ZSS  85 (1968), 203 ss.; Visky, Il votum in diritto romano privato, in Index 2 (1971), 313 ss.; Tondo, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, 93 ss.; Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune fonti letterarie, in Studi in onore di A. Biscardi, IV, Milano 1983, 297 ss., e s.v. Voveo, in Enciclopedia Virgiliana 5 (1990), 629 ss.; Sitzia, s.v. Promessa unilaterale, in ED 37 (1988), 29-31; Watson, The State, Law and Religion: Pagan Rome, Athens 1992, 39 ss.; Daza, op. cit., 505 ss.; Sini, A quibus iura civibus praescribebantur, Torino 1995, 122 ss.; Versnel, s.v. Votum, in The Oxford Classical Dictionary, 1996, 1613.

 

[76] Il pontefice non aderiva ad alcuna proposta "contrattuale", anzi si adoperava perché fosse ritualmente posto in essere quell'unico atto, la nuncupatio della formula votiva, da cui derivava l'impegno. Due dichiarazioni consone provenienti dalla stessa parte – ossia, nella fattispecie, il magistrato ed il sacerdote in veste di suo consulente, entrambi in rappresentanza dello stato – non generano dunque alcun consenso: il dio non può essere, sotto questo profilo, considerato controparte.

 

[77] Significativa in proposito è anche la vicenda, risalente al 196, descritta da Liv. 33,42,2-4 : Sed magnum certamen cum omnibus sacerdotibus eo anno fuit quaestoribus urbanis Q. Fabio Labeoni et L. Aurelio. Pecunia opus erat, quod ultimam pensionem pecuniae in bellum conlatae persolvi placuerat privatis. Quaestores ab auguribus pontificibusque quod stipendium per bellum non contulissent petebant. Ab sacerdotibus tribuni plebis nequiquam appellati, omniumque annorum per quos non dederant exactum est. Circa le varie iniziative intraprese dallo stato nel primo decennio del II secolo a.C. per accrescere le proprie entrate, v. Bona, Le societates publicanorum e le società questuarie nella tarda repubblica, in Imprenditorialità e diritto nell’esperienza storica, Palermo 1992, 21-24; v. anche Badian, Publicans and Sinners, New York 1972, 26 ss. Si tenga presente il fatto che, nel giro di un breve lasso di tempo, grandi quantità di bottino erano tuttavia destinate a confluire nelle casse dello stato: cfr. infra.

 

[78] Cfr. Scullard, Roman cit., 86-88.

 

[79] Cfr. Scullard, Roman cit., 78 ss.

 

[80] Opinione largamente condivisa: v. per es. Scullard, Roman cit., 86-88; Schlag, Regnum in senatu, Kiel 1965, 149-151; Briscoe, A Commentary cit., 1973, 80, e Livy cit., 1082.

 

[81] V. Liv. 30,1,3-6.

 

[82] Per altri casi in cui si fa uso del verbo iubere per indicare il parere dato dal senato al magistrato circa l’opportunità di consultare il collegio dei pontefici, v. ad es. Liv. 39,5,7-10; cfr. 41,16,6; Hemerelogia, C.I.L. I², 212 ss.

 

[83] Cfr. supra.

 

[84] Cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 17 nt. 8; Bauman, op. cit., 108-109, secondo il quale, in particolare, l’impugnativa qui sarebbe stata eccezionalmente presentata davanti al collegio, anziché ai comizi tributi, come era normale avverso i provvedimenti del pontefice massimo; Develin, The Practice of Politics at Rome 366-167 B.C., Bruxelles 1985, 256. V. ultimamente anche Rüpke, Kalender und Öffentlichkeit, Berlin-New York 1995, 327, il quale sostiene che “das Kollegium den Einspruch des Pontifex Maximus aufhob”; Warrior, The Initiation cit., p. 68, secondo cui i pontefici “over-ruled the pontifex-maximus”; Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, I, Torino 1997, 26, il quale pare piuttosto limitarsi ad una ricognizione meramente descrittiva della vicenda, parlando di una delibera del collegio adottata “contro una precedente presa di posizione del pontefice massimo”.

 

[85] Si consideri anche il fatto che la stessa provocatio ad populum veniva sì esercitata, in certi casi, ma solo dai sacerdoti sottoposti al pontefice massimo, i quali fossero stati da questo multati (v. per es. Liv. Per. 18 e Val. Max. 1,1,2; Liv. 37,51,1-6; 40,42,8-11; Fest. 343 L).

 

[86] Sul dissentire, all'interno del collegio, v. in particolare Bona, La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, in La certezza del diritto nell'esperienza giuridica romana, Padova 1987, 121-122.

 

[87] Cfr. gli elenchi stilati da Schlag, op. cit., 150-151, e Scullard, Roman cit., 87 nt. 3, ai quali anche si rinvia per un’attenta disamina degli schieramenti politici rappresentati all'interno del collegio pontificale nel 200 a. C.

 

[88] Cfr. sul punto, con buoni ed ampi argomenti, Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, in particolare 46 ss.; 62 ss.; 96 ss., 172, il quale, nel distinguere fra libri e commentarii, riprende la tesi già a suo tempo sostenuta da Ambrosch, Observationum de sacris Romanorum libris particula prima, in Index Lectionum Breslau, 1840, 1 ss., e Über die Religionsbücher der Römer, Bonn, 1843, 1-63, e poi contestata da Preibisch, Quaestiones de libris pontificiis, Diss. Breslau, Vratislaviae 1874, 1-47; Regell, De augurum publicorum libris, Vratislaviae 1878, 1-41, oltreché, più recentemente, da Rüpke, Livius cit., 171, e da North, The Books of the Pontifices, in La mémoire perdue, Rome 1998, 45 ss., spec.te 60 e nt. 61). 

 

[89] Cic. har. resp. 6,12: quod tres pontifices statuissent, id semper populo Romano, semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum esse visum est; cfr. D. 50,16,85. V. anche Bouché-Leclercq, Les pontifes cit, 40; Lange, Römische Alterthümer³, I, Berlin 1876, 369-370; Szemler, Religio, Priesthoods and Magistracies in the Roman Republic, in Numen 18 (1971), 108, e The Priests cit., 24.

 

[90] Sull'evoluzione della giurisprudenza del collegio pontificale in materia sacrale secondo il metodo casistico v. in particolare Latte, op. cit., 205-206.

 

[91] Cfr. Bona, La certezza cit., 123 nt. 44. Molto recisa la posizione di Schlag, op. cit., p. 150, secondo cui si trattò di pronuncia contro il diritto, adottata per ragioni politiche, qualunque fosse la giustificazione formale addotta in proposito dal collegio.

 

[92] Cfr. supra.

 

[93] Cfr. recentemente Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, 203 nt. 99.

 

[94] Ciò è dimostrato anche dal fatto che di lì a poco, per la composizione di un carmen sacro, fu scelto, probabilmente, un suo cliente, P. Licinio Tegola: v. Liv. 31,12,10; cfr. per es. Gagé, op. cit., 354-356.

 

[95] Quando invece alla nuncupatio del voto si doveva procedere altrove, non era il pontefice massimo, ma un altro membro del collegio a dettare le parole della formula: cfr. supra.

 

[96] Non si vede infatti perché mai un voto ritualmente pronunciato dal magistrato, anche senza l’ausilio del pontefice, debba considerarsi invalido: cfr. supra. Di diverso avviso Cancelli, La giurisprudenza unica dei pontefici e Gneo Flavio, Roma 1996, 127, senza ulteriori argomentazioni.

 

[97] Significativa in proposito la testimonianza di Plin. nat. 28,3,11: Praeterea alia sunt verba inpetritis, alia depulsoriis, alia commendationis, videmusque certis precationibus obsecrare suesse summos magistratos et, ne quod verborum praetereatur aut praeposterum dicatur, de scripto praeire aliquem rursusque alium custodem dari qui adtendat, alium vero praeponi qui favere linguis iubeat, tibicinem canere ne quid aliud exaudiatur, utraque memoria insigni, quotiens ipsae dirae obstrepentes nocuerint quotiensve precatio erraverit; sic repente extis adimi capita vel corda aut geminari victima stante. Cfr. Paoli, Verba praeire dans la legis actio, in RIDA 3 (1950), 281-324, spec.te 289-292; Lévy-Bruhl, La congruentia dans la stipulation, in Archives de droit privé 16 (1953), 49 ss.; Humbert, op. cit., 196-200; Daza, op. cit., 509. Circa l’obbligo, sancito con decreto pontificale, di procedere alla instauratio di atti scorrettamente compiuti v., per l’epoca cui si fa qui riferimento, Liv. 32,1,9; 34,44,1-3; 40,45,2; 41,16,1-2.

 

[98] Sull’argomento - che è per noi di grande interesse, ma non suscettibile di essere approfondito in questa sede -, basti qui ricordare che studiosi autorevoli si sono decisamente pronunciati in questo senso: v. per es. Kaser, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali del Sem. Giur. Univ. di Catania 3 (1949), 77 ss., e in Ars boni et aequi. Festschrift Waldstein, Stuttgart 1993, 131 ss.; Humbert, op. cit., 196-200; v. recentemente anche Cancelli, op. cit., 34 ss., il quale tuttavia, in conformità ai suoi intendimenti di fondo, sottolinea (94) che l’esistenza di un principio di oralità, e quindi di pubblicità, negoziale e processuale, dominante anche la materia civile, rende implausibile ogni ipotesi relativa al monopolio giurisprudenziale segreto dei pontefici. Cfr. infra.

 

[99] Cfr. Bianchi, op. cit., 36.

 

[100] Cfr. infra. Sui rapporti fra il praeire verbis e la tradizione documentaria del collegio v. Sini, Documenti cit., 151 ss., e A quibus cit., 126 nt. 23; North, op. cit., 52-53; cfr. Paoli, op. cit., 308.

 

[101] Cfr. in proposito supra, nt. 14 e infra, nt. 115, per gli arcaismi rispettivamente  rinvenibili nella formula del voto del ver sacrum e in quella dei ludi magni del 191.

 

[102] Si tratta del ver sacrum votato nel 217 (per il quale v. supra). Qualche perplessità sembra esprimere, in proposito, soltanto Aigner Foresti, op. cit., 141; ma ci pare francamente del tutto improbabile l’ipotesi che questo fosse un altro ver sacrum, della cui offerta in voto nelle fonti non vi sarebbe allora alcuna traccia, nonostante il rilievo eccezionale che un simile evento certamente avrebbe avuto.

 

[103] Liv. 34,44,1-3: Ver sacrum factum erat priore anno, M. Porcio et L. Valerio consulibus. Id cum P. Licinius pontifex non esse recte factum collegio primum, deinde ex auctoritate collegii patribus renuntiasset, de integro faciendum arbitratu pontificum censuerunt ludosque magnos qui una voti essent tanta pecunia quanta adsoleret faciendos: ver sacrum videri pecus quod natum esset inter kal. Martias et pridie kal. Maias P. Cornelio et Ti. Sempronio consulibus.  Liv. 34,44,6: Ver sacrum ludique Romani votivi quos voverat Ser. Sulpicius Galba consul facti.

 

[104] V. per es. Piganiol, op. cit., 79; Bauman, op. cit., 106-107.

 

[105] Di quest’avviso anche Nissen, op. cit., 161; Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 18 nt. 10, e VIII, 156 nt. 2, 157 nt. 8; Briscoe, A Commentary cit., 1973, 81.

 

[106] Così, espressamente, Nissen, op. cit., 161.

 

[107] Liv. 27,33,8: Senatus quo die primum est habitus, ludos magnos facere dictatorem iussit, quos M. Aemilius praetor urbanus C. Flaminio Cn. Servilio consulibus fecerat et in quinquennium voverat. Tum dictator et fecit ludos et in insequens lustrum vovit (l’espressione fecerat et è insitizia per Briscoe, A Commentary cit., 1973, 81). A sostegno della tesi da noi sopra esposta, nel testo, v. anche Nissen, op. cit., 161; Gardner Moore, in Livy, books 36-37, VII, ed. Loeb, Cambridge 1970, 344; Frier, op. cit., 237; Scheid, Les incertitudes cit., 421, 424.

 

[108] Come invece, senza più precise argomentazioni, sostiene Briscoe, A Commentary cit., 1981, 117.

 

[109] Dal contesto risulta del tutto improbabile che i ludi alla cui celebrazione si fa qui riferimento siano diversi da quelli ai quali Livio ha accennato poco prima, data anche la  concomitanza costante col ver sacrum. 

 

[110] La tradizione manoscritta (Bc) contempla, in ordine al prenome del console Sulpicio, esclusivamente la versione Ser., corretta in P. da Pighius: cfr. Mac Donald, in Titi Livi ab urbe condita, V, ed. Oxoniensis, Oxford 1965, 225, significativamente richiamato, per es., da Reeve, The Transmission of Livy 26-40, in Rivista di filologia e di istruzione classica 114 (1986), 129, il quale ritiene che ciò sia dipeso da un errore forse attribuibile allo stesso Livio; v. anche Weissenborn, Müller, op. cit., VIII (5ª ediz.), Berlin-Zürich 1965, 157 nt. 6; Briscoe, A Commentary cit., 1981, 118-119; Sage, in Livy, books 31-34, IX, ed. Loeb, London-Cambridge 1985, 532 nt. 2; Scheid, Les incertitudes cit., 422. Circa la frequenza con cui Livio commette errori nei prenomi v. Borneque, op. cit., 97.

 

[111] Cfr. supra. V. ancora Broughton, op. cit., 323.

 

[112] V. supra; cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VII, 17 nt. 7 (i quali pur sostengono che negli affari religiosi si utilizzava ancora il vecchio asse non svalutato).

 

[113] Cfr. supra.

 

[114] V. supra, a proposito della clausola tanta pecunia quantam tum cum solveretur senatus censuisset.

 

[115] Liv. 36,2,2-5: Certa deinde sorte senatusconsultum factum est, quod populus Romanus eo tempore duellum iussisset esse cum rege Antiocho, quique sub imperio eius essent, ut eius rei causa supplicationem imperarent consules: utique M.' Acilius consul ludos magnos Iovi voveret, et dona ad omnia pulvinaria. Id votum in haec verba, praeeunte P. Licinio pontifice maximo, consul nuncupavit: 'Si duellum, quod cum Antiocho rege sumi populus iussit, id ex sententia senatus populique Romani confectum erit; tum tibi, Iupiter, populus Romanus ludos magnos dies decem continuos faciet, donaque ad omnia pulvinaria dabuntur de pecunia, quantam senatus decreverit. Quisquis magistratus eos ludos quando ubique faxit, hi ludi recte facti, donaque data recte sunto'.. Supplicatio inde ab duobus consulibus edicta per biduum fuit. Giustamente a populus Weissenborn, Müller, op. cit., VIII, 88, aggiungono Romanus, ché altrimenti si tratterebbe di un unicum in citazioni dirette (cfr. però Liv. 22,10,5-6, ove comunque Romanus almeno figura all’inizio: il rilievo è di Briscoe, A Commentary cit., 1973, 220).

 

[116] Nessun dubbio può sussistere, come già detto in precedenza, circa la provenienza annalistica di testimonianze come la nostra, che descrivono vicende della vita politica metropolitana, ed in particolare riferiscono il contenuto di provvedimenti adottati dal senato, probabilmente anche attingendo alla documentazione ufficiale. Si rammenti poi che per Klotz, e per tutti coloro che ne accolgono la tesi, la fonte annalistica principalmente utilizzata da Livio nel libro 36 è ancora la stessa di quella utilizzata nel libro 31, ossia Valerio Anziate. Attribuiscono poi espressamente ad Anziate i passi che ci accingiamo ad esaminare Soltau, Die annalistische cit., 676-677, 694-695, e Livius cit., 44; Kahrstedt, op. cit., 20-22, 85, 103-106; Volkmann, in RE cit., col. 2324; Klotz, Livius cit., 39. Ma v. per es. anche Nissen, op. cit., 340-341, che ritiene più probabile Quadrigario; Bredehorn, op. cit., 171-172, il quale, pur mostrando di conoscere le ipotesi generalmente formulate al riguardo, esprime dubbi circa la possibilità di identificare con precisione, qui, l’annalista di riferimento.

 

[117] P. Cornelium Cn. Filium Scipionem et M’. Acilium Glabrionem consules inito magistratu patres, priusquam de provinciis agerent, res divinas facere maioribus hostiis iusserunt in omnibus fanis, in quibus lectisternium maiorem partem anni fieri solet, precarique, quod senatus de novo bello in animo haberet, ut ea res senatui populoque Romano bene atque feliciter eveniret. Ea omnia sacrificia laeta fuerunt, primisque hostiis perlitatum est, et ita haruspices responderunt eo bello terminos populi Romani propagari, victoriam ac triumphum ostendi.

 

[118] Cfr. Gell. 14,7,9: de rebusque divinis prius quam humanis ad senatum referendum esse. 

 

[119] Cfr. Varr. in Gell. 14,7,1-3. 

 

[120] Le parole della precatio non sono qui riportate direttamente da Livio, come invece in 31,5,4: questo tuttavia non ci impedisce di rilevare, rispetto ad allora,  tratti comuni e tratti distintivi. Sotto il primo profilo, si osservi anzitutto che anche qui si fa menzione della guerra che si stava per combattere, ma non dell’avversario contro il quale ci si voleva cautelare con la precatio (cfr. in proposito Liv. 21,17,4), il che testimonia del carattere “fossilizzato” e non sempre di volta in volta adattabile, proprio dei formulari religiosi, quale era stato recepito dagli annalisti che avevano attinto agli archivi (cfr. Petzold, op. cit, 84); si noti poi il ricorrere delle medesime espressioni, proprie del linguaggio sacerdotale formale, ed in particolare del bene ac feliciter eveniret (per il quale cfr. Liv. 21,17,4; 40,46,9; Cic. Mur. 1,1; v. anche Appel, De Romanorum precationibus, Gissae 1909, 130-131, per una rassegna di altre fonti, in cui si fa uso di una formula simile, e da cui si ricava che poteva farsi ricorso a questo tipo di preghiera anche in circostanze diverse da una guerra imminente, ma sempre per il buon esito di una qualche impresa). Sotto il secondo profilo, afferente ai tratti distintivi, si osservi che il senato qui indica direttamente gli dei cui rivolgere la preghiera (quelli del lettisternio), senza che i consoli possano determinarli autonomamente, com’era invece avvenuto nel 200; sono anche  riscontrabili talune differenze espressive, dato che qui dopo il quod compare soltanto la menzione del senatus, non anche del populus, mentre come beneficiario dell’invocazione figura il solo senatus populusque, non anche, oltre al populus, i socii ed il nomen Latinum (per analoghi rilievi v. Bredehorn, op. cit., 164-165). Sulla precatio, che significativamente Cic. pro Mur. 1,1 descrive come un mos institumque maiorum, v. infine Toynbee, Hannibal’s Legacy, II, London 1965, 409; Briscoe, A Commentary cit., 1973, 68.

 

[121] V. supra, nt. 43; cfr. infra, nt. 191 (v. anche Liv. 42,20,4; Tac. hist. 2,78). A conferma di quanto dicevamo nella nota precedente, si osservi che anche il tenore del responso degli aruspici, come in parte quello della precatio, sembra essere sempre uguale a se stesso, a prescindere dalla situazione contingente: è appena il caso di ricordare, per es., che la politica estera e militare romana dei primi decenni del II secolo non perseguiva finalità di espansione territoriale diretta, ossia di istituzione di nuove province. Cfr. Rich, op. cit., 12 e nt.5; di diverso avviso Briscoe, A Commentary cit., 1973, 69 il quale, dopo aver ipotizzato e poi negato che la formula fosse arcaica e risalisse ai tempi delle conquiste in Italia, conclude che in realtà si tratta di un’arbitraria inserzione di Livio,

 

[122] Sulla tecnica della variatio, di cui Livio fa qui applicazione, v. per es. Walsh, Livy cit., 174; Rüpke, Livius cit., 158; Warrior, The Initiation cit., 63, 93 e nt. 5; cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VIII, 87 nt. 3.

 

[123] Liv. 36,1,4-6.

 

[124] Liv. 36,2,1.

 

[125] Egli, comunque, era il primo ad essere stato renuntiatus nelle elezioni dei consoli: cfr. Liv. 30,24,5. Su questo personaggio, che già aveva rivestito la carica di pretore (nell’anno 194: cfr. Broughton, op. cit., 343), qui basti aggiungere che naturalmente apparteneva al partito dell’Africano, al quale era anche legato da vincoli di parentela (v. in particolare Scullard, Scipio Africanus: Soldier and Politician, Bristol 1970, 201).

 

[126] Cfr. Sumner, The Cronology of the Outbreak of the Second Punic War, in PACA 9 (1966), 17-18; Rich, op. cit., 21.

 

[127] V. Liv. 36,1,6-9; v. invece Liv. 31,8,7-11, in un contesto ben diverso.

 

[128] Cfr. supra, nt. 125; infra, nt. 131.

 

[129] Livio sembra aver premura di precisare che al console incaricato della guerra (certa deinde sorte) fu immediatamente assegnato il compito di votare i giochi e i doni: questa è probabilmente la ragione per cui la notizia relativa ai pretori, con attribuzione delle relative province e contingenti militari (36,2,6-15) è qui posticipata, rispetto alla sequenza relativa ai fatti del 200, ma figura logicamente subito dopo. Più difficile da spiegare risulta invece la collocazione, nella nostra sequenza, dell’episodio concernente la consultazione dei feziali (36,3,7-12), singolarmente inserito tra le due ambascerie (36,3,1 e 36,4): il fatto che, nell’introdurlo, Livio usi la parola deinde (il cui significato temporale è preminente: cfr. Oxford Latin Dictionary 2 (1969), 506) potrebbe far pensare che quella sia stata effettivamente la successione cronologica degli eventi.

 

[130] Attribuiscono particolare rilievo al fatto che, tra i vari contesti da noi esaminati in questo studio, vi sono delle corrispondenze, Soltau, Die annalistische cit., 666-667, e Livius cit., 27; Kahrstedt, op. cit., 20-22, 85, 103-106; Petzold, op. cit., 84-85; Mac Donald, The Style cit., 157; Klotz, Livius cit., 39; Rich, op. cit., 12 e nt. 4, 21 e nt. 7; Meadows, op. cit., 40 ss.; Warrior, The Initiation cit., 59, 63, 93; cfr. Nissen, op. cit., 88-92, 96; Volkmann, in RE cit., col. 2332; Smith, The Styles cit., 80; Bonnefond-Coudry, Le sénat de la république cit., 320-321, pur con qualche inesattezza, come si evince dal fatto che l’autrice considera supplementari le misure relative ai giochi e alla supplicatio, disposte dal senato nel 191; Burck, Das Geschichtswerk cit., 51-52.

 

[131] Tale personaggio merita qui qualche cenno ulteriore, anche perché a lui è senz’altro attribuibile la legge con cui nel 191 si dettarono disposizioni in materia di intercalazione, destinate ad incidere sull’attività pontificale di aggiornamento del calendario (cfr. Macr. sat. 1,13,21). Homo novus, ammesso a far parte del ceto nobiliare grazie all’aiuto di Scipione, M'. Acilio Glabrione era stato tribuno della plebe nel 201, edile nel 197 e pretore nel 196 (cfr. Broughton, op. cit., risp.te 320, 333, 335); candidatosi senza successo alle elezioni consolari del 193 (cfr. Liv. 35,10,3), riuscì a farsi eleggere due anni dopo, insieme con un cugino dello stesso Africano, distinguendosi anche per alcune importanti vittorie riportate contro Antioco di Siria, che gli sarebbero valse il trionfo (Liv. 37,46,2). Successivamente la carriera di Acilio ebbe una brusca battuta d’arresto, anche per l’ostilità di Catone e del partito conservatore: nel 189 egli venne addirittura sottoposto a processo (cfr. Liv. 37,57,9-15 e 58,1-2). Si noti tra l'altro che Acilio nel 200 era stato nominato decemvir sacrorum (cfr. Liv. 31,50,5), e che pertanto era certamente esperto di usanze e tradizioni religiose greche. A conferma ed integrazione di quanto sopra v. Rohden, s.v. Acilius, in RE 1 (1894), col. 255; Scullard, Roman cit., 28 nt. 3; Inglieri, Luni. Elogium di Manio Acilio Glabrione vincitore di Antioco il Grande alle Termopili, in NSA Ser. 8ª  6 (1952), 20 ss.; Münzer, op. cit., 91; Cassola, op. cit., 381, 385, 399; Pietilä-Castren, Sulle origini degli Acilii Glabrioni, in Opusc.IRF 1 (1981), 63 ss., e New Men and the Greek War Booty, in Arctos 16 (1982), 127-133; Sordi, Acilio Glabrione e l’Atena Itonia di Coronea, in La Béotie antique, Colloques internationaux du CNRS, Paris, 1985, 265 ss.; Dondin-Payre, Topographie et propagande gentilice: le Compitum Acilium et l’origine des Acilii Glabriones, in L’urbs. Espace urbain et histoire, Rome 1988, 87 ss., e Les Acilii Glabriones. Exercice du pouvoir et continuité gentilice du III s. av. J.-C. au V s. ap. J.-C., in IH 50 (1988), 121 ss.; Szemler, Kase, Angelos, The Donation of M’. Acilius Glabrio, cos. 191: A Re-interpretation, in The Ancient History Bulletin 3 (1989), 68 ss.; Angeli Bertinelli, Un titulus inedito di M’. Acilio Glabrione, da Luni, in MEFRA 105 (1993), 7 ss.; Aberson, Temples votifs et butin de guerre dans la Rome républicaine, Genève 1994., 155; Eckstein, Glabrio and the Aetolians: a Note on Deditio, in TAPhA 125 (1995), 271 ss.; Rüpke, Kalender cit., 322-323, 329, secondo il quale, in particolare, Acilio sarebbe stato propriamente un seguace del pontefice massimo P. Licinio Crasso, che avrebbe certo propiziato la sua cooptazione all’interno di quel collegio sacerdotale, se nel 200, all’epoca in cui la questione si pose, non vi avesse temporaneamente perso la maggioranza dei consensi, come abbiamo ampiamente avuto modo di verificare in questo scritto.; Barzanò, Catone il Vecchio e il processo contro Manio Acilio Glabrione candidato alla censura (189 a.C.), in Processi e politica nel mondo antico, Milano 1996, 129 ss.

 

[132] Probabilmente distinti dai commentarii in quanto vi si conservavano i formulari, non i decreti: cfr. supra, nt. 00, con le indicazioni bibliografiche.

 

[133] Cfr. s.v. bellum, in Oxford Latin Dictionary 1 (1968), 228; s.v. facio, in Oxford Latin Dictionary 3 (1971), 668.

[134]

[134] Cfr. per es. Mac Donald, The Style cit., 156-157; Bredehorn, op. cit., 55-56 nt. 65, 166-167; Briscoe, A Commentary cit., 1981, 219; Laffi, op. cit., 25, 30, 33, il quale pur sostiene che il latino della formula è, nel complesso, quello del I sec. a.C., adattato dall’annalistica; Burck, Das Geschichtswerk cit., 180; Sini, A quibus cit., 127-128, e Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, in Seminari di storia e di diritto, III, “Guerra giusta”? La metamorfosi di un concetto antico, Milano 2003, 56; cfr. supra, a proposito della formula del ver sacrum. V. anche Walsh, Livy cit., 123; Weissenborn, Müller, op. cit., VIII, 88 nt. 2, 89 nt. 5, i quali rilevano anche la singolarità dell’uso dell’espressione quando ubicumque, in luogo di quandocumque et ubicumque; Versnel, Triumphus cit., 109.

 

[135] Certo nel 217 (cfr. supra, nt. 14), e probabilmente anche nel 200, visto che, rispetto ai precedenti voti quinquennali, si utilizzarono gli eadem verba.

 

[136] V. per es. Plut. Flam. 14; Eutr. 4,2; cfr. Cic. Mur. 14,31; Pis. 25,61; Liv. 34,52; Val. Max. 5,2,6. A sostegno delle argomentazioni formulate sopra, nel testo, v. anche, per es., Ronconi, Scardigli, in Storie di Tito Livio (libri XXXVI-XL), ed. Utet, Torino 1980, 76 e nt. 4, e Schlag, op. cit., 155 ss. D’altra parte si osservi che ancora nel 196 i questori urbani, per pagare ai privati l’ultima rata delle somme prestate, avevano dovuto fare pressione sui pontefici e sugli auguri, che non avevano versato lo stipendium durante la guerra (cfr. supra; v. anche quel che avvenne nel 200, a proposito di altre rate del medesimo debito, in Liv. 31,13,1 ss.). 

 

[137] Cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., VIII, 89 nt. 4.

 

[138] La formula del voto del 200, si ricordi, a parte la modifica relativa alla pecunia incerta, venne elaborata con gli eadem verba utilizzati in occasioni precedenti.

 

[139] Di quest’avviso Sini, A quibus cit., 127.

 

[140] Cfr. Briscoe, A Commentary cit., 1981, 220.

 

[141] Ma v. infra nt. 184, circa il voto del 172, anche in ordine, peraltro, all’identità del console nuncupans, che non è quello che avrebbe condotto la guerra.

 

[142] Cfr. supra; v. anche Mommsen, Staatsrecht cit., I, 244 e nt. 4; Versnel, Triumphus cit., 109; Pape, op. cit., 36; Daza, op. cit., 516, che impropriamente allude alla necessità dell’inserzione di una clàusula especial.

 

[143] Incombenza, questa, da cui il senato non era invece gravato per l’adempimento del voto del 217.

 

[144] Console nel 189 (cfr. Liv. 37,47,7), con imperium prorogato all’anno successivo (Liv. 38,35,3), M. Fulvio Nobiliore sconfisse gli Etoli e conquistò Ambracia (Pol. 21,27-28; 21,30,9-10; Liv. 38,4-7; 38,9,13-14); impresa, questa, che gli valse il trionfo (Liv. 39,5,6). In precedenza egli aveva rivestito le cariche di edile curule, nel 196 (Liv. 33,42,8), e di pretore, nel 193 (Liv. 34,54,2); in seguito verrà eletto censore, nel 179 (Liv. 40,45,7). A proposito dell’aspra inimicizia che per lungo tempo oppose Fulvio al futuro pontefice massimo M. Emilio Lepido v. soprattutto Liv. 38,44,3-6; 39,4,8-12; v. anche 38,43,1; 39,46,14. Circa la riconciliazione tra i due, che vi addivennero per spartirsi il potere, nel 180, v. in particolare Liv. 40,42,11-12 (cfr. Münzer, op. cit., 201). Ad integrazione di quanto detto sopra v. ancora, per es., Münzer, s.v. Fulvius, in RE 7 (1912), col. 265-267; Warrior, The Chronology of the Movements of M. Fulvius Nobilior (cos. 189) in 189/188 B.C., in Chiron 18 (1988), 325 ss.; Rüpke, Kalender cit., 332.

 

[145] V. in particolare Liv. 27,25,7-10, a proposito del voto del tempio ad Honos e Virtus offerto da Marcello nel 208: Marcellum aliae atque aliae obiectae animo religiones tenebant, in quibus quod cum bello Gallico ad Clastidium aedem Honori et Virtuti vovisset dedicatio eius a pontificibus impediebatur, quod negabant unam cellam amplius quam uni deo recte dedicari, quia si de caelo tacta aut prodigii aliquid in ea factum esset difficilis procuratio foret, quod utri deo res divina fieret sciri non posset; neque enim duobus nisi certis deis rite una hostia fieri. Ita addita Virtutis aedes adproperato opere; neque tamen ab ipso aedes eae dedicatae sunt. Tum demum ad exercitum quem priore anno Venusiae reliquerat cum supplemento proficiscitur; cfr. Val. Max. 1,1,8. V. anche infra, circa il voto di Q. Fulvio.

 

[146] Cfr. la nota precedente.

 

[147] La celebrazione di ludi magni votivi, probabilmente, finì per diventare una sorta di accessorio dei trionfi, pur restando da essi formalmente distinta: cfr. Piganiol, op.cit., 91.

 

[148] In generale, a conferma di quanto sopra, sulla sorte del bottino e delle sue ripartizioni (con particolare riferimento alle manubiae), ed anche in ordine al controllo di carattere finanziario esercitato dal senato, v. soprattutto Bona, s.v. Preda bellica, in ED 34 (1985), 911 ss.; v. anche, dello stesso autore, Sul concetto di manubiae e sulla responsabilità del magistrato in ordine alla preda, in SDHI 26 (1960), 105 ss.; v. inoltre per es. Shatzman, The Roman General’s Authority over Booty, in Historia 21 (1972), 177-205; Pape, op. cit., 39-40, e Aberson, op. cit., spec.te 22-26, 62, 66 ss., 120-121, 133-136, 180 ss., 199 ss., con conclusioni in parte diverse da quelle di Bona e non particolarmente condivisibili, specie in relazione alla imperfetta ricostruzione della procedura adottata per la ratifica dei voti e ai non chiariti rapporti fra senato e  collegio pontificale.

 

[149] Liv. 39,5,7-10: Is cum gratias patribus conscriptis egisset, adiecit ludos magnos se Iovi Optimo Maximo eo die, quo Ambraciam cepisset, vovisse: in eam rem sibi centum pondo auri a civitatibus collatum. Petere, ut ex ea pecunia, quam in triumpho latam in aerario positurus esset, id aurum secerni iuberent. Senatus pontificum collegium consuli iussit, num omne id aurum in ludos consumi necessum esset. Cum pontifices negassent, ad religionem pertinere, quanta impensa in ludos fieret; senatus Fulvio, quantum impenderet, permisit, dum ne summam octoginta milium excederet.

 

[150] Più precisamente si trattava di ludi atletici, secondo il modello greco, ancora piuttosto inconsueti in quei primi anni del II secolo: v. Liv. 39,22,1-2; cfr. per es. Richardson, Hercules Musarum and the Porticus Philippi in Rome, in American Journal of Archaelogy 81 (1977), 355. Sebbene infatti del processo di ellenizzazione del costume e dei riti certamente risentissero anche i giochi, occorre tuttavia ricordare che Roma disponeva, già dal tempo degli Etruschi, di una propria autonoma, assai significativa, tradizione ludica: v., in proposito, soprattutto Harmon, op. cit., 236 ss.; cfr., per es., Bouley, Jeux et enjeux politiques internationaux au IIe s. av. J.-C., in DHA 12 (1986), 360.

 

[151] Cfr. Gwin Morgan, op. cit., 29 e nt. 77.

 

[152] Cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., IX (5ª ediz.), Berlin-Zürich, 1965, 10 nt. 8.

 

[153] Si ricordi che il trionfo, già decretato in favore del Nobiliore, non era stato ancora celebrato (v. poi infatti Liv. 39,5,11 ss.).

 

[154] V. anche, per es., Pais, Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, I, Roma 1915, 207; Frazer, The Fasti of Ovid, London, 1929, 345; Skutsch, Enniana, I, in CQ 38 (1944), 79; Tamm, Le temple des Muses à Rome, in Opuscula Romana 3 (1961), 160-161; Bona, Sul concetto cit., 126 e nt. 51; Coarelli, Architettura e arti figurative in Roma: 150-50 a.C., in Hellenismus in Mittelitalien, I, Göttingen 1976, 35; Richardson, op. cit., 355; Bonnefond-Coudry, Le sénat républicain cit., 177 nt. 6; Rosen, Die falschen Numabücher, in Chiron 15 (1985), 85 nt. 94, 87. Vi è anche peraltro chi, sulla base di Eum. Paneg. Lat. 9,7,3, preferisce ritenere che il tempio di Hercules Musarum sia stato costruito dal Nobiliore nel 179 con pecunia censoria: v. per es. Boyancé, Fulvius Nobilior et le dieu ineffable, in Rev. Phil. 29 (1955), 182; Shatzman, op. cit., 182 e nt. 21; Jocelyn, The Poems of Quinctus Ennius, in ANRW I,2 (1972), 1006 e nt. 182, pur con molti dubbi in proposito; Olinder, Porticus Octavia in Circo Flaminio. Topographical Studies in the Campus Region of Rome, Stockholm 1974, 59-61; Martina, Aedes Herculis Musarum, in Dialoghi di archeologia, Nuova serie 3,1 (1981), 49-68, al quale anche si rinvia per una ancor oggi significativa rassegna di opinioni (p. 49 e nt. 1,2,3); Aberson, op. cit., 199 ss. (spec.te 209 e nt. 7, 211-213); Rüpke, Fasti: Quellen oder Produkte römischer Geschichtsschreibung ?, in Klio 77 (1995), 200-201, ove addirittura propone come data un’epoca successiva alla censura, ossia il 173, e  Kalender cit., 333; Orlin, op. cit., 6 e nt. 67, 65, 132-133, 139. Per un esame più approfondito di quest’episodio si rimanda, comunque, al nostro scritto Osservazioni in merito alla lex Acilia de intercalando, in Annali Lumsa (2001), 323 ss.

 

[155] Questo si evince dal fatto che della questione della somma il senato viene investito e su di essa poi si pronuncia.

 

[156] Cfr. Liv. 38,9,13.

 

[157] V. Liv. 39,4,1 ss.

 

[158] V. Liv. 39,5,6.

 

[159] V. Liv. 38,42,6 e 54,4; v. anche Broughton, op. cit., 368.

 

[160] V. per es. Cic. fam. 10,12,3; Luc. Phars. 3,105-107; v. anche Willems, op. cit., II, 130-131, 173; Mommsen, Staatsrecht cit., II, 129-130, 232-233, 316.

 

[161] Un parallelo per questa impostazione si può forse cogliere nell’episodio relativo alla casa di Cicerone, ove il pontefice M. Lucullo, parlando in senato de omnium conlegarum sententia, afferma che il collegio si era in precedenza pronunciato de religione, mentre stabilire se vi era o non una legge applicabile al caso della domus dell’Arpinate era una questione di fatto: cfr. Cic. Att. 4,2,4. V. anche Bona, La certezza cit., 124-125.

 

[162] V. Briscoe, Livy cit., 1103.

 

[163] Sulla forte contrapposizione esistente tra M. Emilio Lepido e M. Fulvio Nobiliore, e tra le relative fazioni, v. quanto già detto supra.

 

[164] E’ da presumersi che si trattasse di assi, benché nel testo di Livio manchi l’indicazione della moneta: ciò risulta infatti anche dal raffronto con una vicenda analoga (Liv. 40,52,1-3: Et alter ex censoribus M. Aemilius petiit ab senatu, ut sibi dedicationis templorum Reginae Iunonis et Dianae, quae bello Ligustino ante annis octo vovisset, pecunia ad ludos decerneretur. Viginti millia aeris decreverunt), per cui v. ad es. Sage, in Livy, books 40-42, XII, ed. Loeb, London-Cambridge, 1957, 160 nt. 2; Weissenborn-Müller, op. cit., IX, 223 nt. 1; più in generale, v. ancora Weissenborn, Müller, op. cit., IX, 10 nt. 10 (che significativamente richiama Liv. 40,45,2); Briscoe, A Commentary cit., 1973, 81; Gwin Morgan, op. cit.,  29 e nt. 77; Aberson, op. cit., 211 nt. 48. Gli autori che nei loro commenti all’opera di Livio (Ronconi, Scardigli, in Storie cit., 516 nt. 14; Sage, in Livy, books 38-39, XI, London-Cambridge 1949, 230 e nt. 3; Gouillart, in Tite-Live, Histoire romaine, XXX, Paris 1986, 81 nt. 2) prendono in considerazione unicamente l’ipotesi che la somma in questione fosse invece espressa in sesterzi o in denarii – cui rispettivamente corrisponderebbe un ammontare di venti od ottanta libbre d’oro – sembrano non tener conto, a nostro avviso, dei precedenti riferibili allo stesso Livio, né del carattere conservativo tipico, se qui non delle formule sacerdotali, certo della tradizione ad esse in qualche modo afferente. Fra l’altro, non vi sono dubbi che all’inizio del II secolo l’asse era ancora moneta in corso: v. per es. Mommsen, Geschichte cit., 379-384. Pertanto la nostra presunzione è legittima, e bisognerebbe semmai dare prova del contrario. Si rammenti comunque che esistevano allora equivalenze precise fra l’asse e le altre monete da una parte, e l’oro dall’altra: v. ancora Weissenborn, Müller, op. cit., IX, p. 10 nt. 10 (cfr. supra, p. 0 nt. 00).

 

[165] Sulla taxatio che, in particolare, il giudice poteva apporre al iusiurandum in litem, si leggano comunque le illuminanti considerazioni di Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 438: «Questa possibilità era, in sostanza, contraria alla logica dell’istituto, essendo difficile che l’attore fissasse un valore inferiore alla somma massima indicata dal giudice, di modo che sarebbe stato in definitiva quest’ultimo a procedere alla litis aestimatio».

 

[166] V. Liv. 40,44,8-10: Q. Fulvius consul priusquam ullam rem publicam ageret, liberare et se et rem publicam religione votis solvendis dixit velle. Vovisse, quo die postremum cum Celtiberis pugnasset, ludos Iovi Optimo Maximo et aedem Equestri Fortunae sese facturum: in eam rem sibi pecuniam collatam esse ab Hispanis. Ludi decreti et ut duumviri ad aedem locandam crearentur. De pecunia finitur ne maior ludorum causa consumeretur quam quanta Fulvio Nobiliori post Aetolicum bellum ludos facienti decreta esset. Cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., IX, 1965, 10 nt. 6 e 7.

 

[167] Cfr. Daza, op. cit., 507. Sull’episodio in questione v. anche Gwin Morgan, op. cit., 29 e nt. 77, le cui considerazioni per lo più condividiamo. Cfr. Pape, op. cit., 12-14, 35, 42-43; Aberson, op. cit., 210-211 e nt. 48.

 

[168] V. per es. Pol. 18,44,7; Liv. 33,30,7-8; Eutr. 4,2, circa l’indennità di guerra fissata dai Romani alla sconfitta monarchia macedone.

 

[169] Per un esempio di voto decennale, v. infra.

 

[170] Tit. Ulp. 2,4: Sub hac condicione liber esse iussus ‘si decem milia heredi dederit', etsi ab herede abalienatus sit, emptori dando pecuniam ad libertatem perveniet: idque lex XII tabularam iubet; cfr. D. 40,7,25 e 40,7,29,1. Per la dottrina, generalmente esistente in materia di statuliber, e che è comunque piuttosto scarsa, si vedano soprattutto gli scritti di Donatuti, Lo statulibero, Milano 1940, part.te 119 e 252-253; Bretone, s.v. Statuliber, in NNDI 18 (1971), 380-383; Kupiszewski, Les remarques sur les statuliberi en droit romain classique, in Actes du colloque sur l’esclavage, Warszawa 1979, 227-238, e ora in Scritti minori, Napoli 2000, 355-365.

 

[171] Sul punto, cfr. Bianchi, op. cit., 447-448, il quale giustamente rileva come l’alienazione del servo di per sé non impedisca l’adempimento, che potrà essere effettuato nei confronti dell’acquirente. Si osservi peraltro che in tutte le fattispecie “originarie” sembra darsi il caso di condizioni il cui verificarsi di per sé richiede la cooperazione della controparte, per cui v. ad es. Donatuti, Sull’adempimento fittizio delle condizioni, in SDHI 3 (1937), 67; Bianchi, op. cit., 462.

 

[172] Cfr. soprattutto infra; v. fin d’ora, comunque, per es., Dekkers, La fiction juridique. Etude de droit romain et de droit comparé, Paris 1931, 204-205, favorevole ad una soluzione nel primo senso; García Garrido, Sobre los verdaderos limites de la ficción en derecho romano, in AHDE 27-28 (1957-58), 336; Robbe, La fictio iuris e la finzione di adempimento della condizione nel diritto romano, in Studi in onore di Salvatore Pugliatti, IV, Milano 1978, p. 668; Bianchi, op. cit., 447-448, favorevoli ad una soluzione nel secondo senso.

 

[173] Cfr. García Garrido, op. cit., 336-337; Bianchi, op. cit., 447, 459, il quale in particolare nega che per allora si possa parlare di applicazione analogica.

 

[174] Ammesso che poi di vera e propria finzione in senso tecnico si possa parlare, specie in riferimento all’età meno avanzata: cfr. Bianchi, op. cit., 446 ss., al quale senz’altro si rinvia per l’approfondimento del problema, su cui non è qui possibile dilungarci; di diverso avviso per es. Robbe, op. cit., 667 ss. Circa il rilievo, peraltro, che la figura della finzione ebbe in generale nell’ambito del ius sacrum v. ancora, per es., Robbe, op. cit., 632 ss.; Bianchi, op. cit., 33-159.

 

[175] Cfr. D. 40,7,3,pr.-2, con particolare riferimento alle pronunce in materia di Servio Sulpicio Rufo. V. anche per es. Archi, s.v. Condizione, in ED 8 (1961), 750; Robbe, op. cit., 670; Bianchi, op. cit., 452-455, il quale – basandosi, oltre che sulla fonte sopra citata, anche su Fest. 414,32 L e sui suoi possibili referenti – fa appunto risalire la generalizzazione all’epoca repubblicana o protoclassica.

 

[176] V. Tit. Ulp. 2,5: Si per heredem factum sit, quominus statu liber condicioni pareat, proinde fit liber, atque si condicio expleta fuisset; Fest. 414,32 L: Statu liber est, qui testamento certa condicione proposita iubetur esse liber: et si per heredem est, quominus statu liber praestare possit, quod praestare debet, nihilominus liber esse videtur; v. ancora D. 40,7,3 pr.-2. Cfr. Bianchi, op. cit., 449-450, secondo cui Tit. Ulp. 2,5 segna comunque «un salto logico» rispetto alla norma decemvirale (in ciò accogliendo, letteralmente, l’opinione di Grosso, Contributo allo studio dell’adempimento della condizione, Torino 1930, 16 nt. 13); v. anche Mitteis, op. cit., 172; García Garrido, op. cit., 336; Masi, Studi sulla condizione nel diritto romano, Milano 1966, 220-221; Robbe, op. cit., 670-672.

 

[177] Negano tuttavia qualunque connessione col precetto di Tab. 7,12 (Tit. Ulp. 2,4), per es., Perozzi, Istituzioni di diritto romano², I, Roma 1928, 166 nt. 1; Donatuti, Sull’adempimento cit., 65. Ora, è vero che in Tit. Ulp. 2,5 non si fa riferimento ad alcun rapporto di derivazione della regola dalla legge decemvirale, ma non si può negare che i due passaggi, proprio perché collocati in immediata successione l’uno rispetto all’altro, risultino anche vicendevolmente coordinati: v. Bianchi, op. cit., 458; cfr. Vassalli, Dies vel condicio, in BIDR 27 (1914), 193-196, e in Studi Giuridici, I, Roma, 1939, 246-249.

 

[178] V. D. 35,1,24 e 50,17,161; v. anche D. 31,34,4; 33,1,13 pr.; 35,1,24;66;78 pr. Cfr. per es. Archi, op. cit., 750; Masi, op. cit., 220-221; Robbe, op. cit., 672-674; Bianchi, op. cit., 459-460.

 

[179] V. ancora D. 35,1,24 e 50,17,161, oltre a D. 18,1,8 pr. e 50 (in tema di compravendita); D. 45,1,85,7. Cfr. Archi, op. cit., 750; Masi, op. cit., 220 ss.; Robbe, op. cit., 672-674; Bianchi, op. cit., 459-460. Circa i molti problemi relativi ai tempi di questa piena generalizzazione, se in particolare essa sia da collocarsi già in età classica o si sia invece affermata solo in epoca successiva, non possiamo in questa sede soffermarci: ci limitiamo perciò a rinviare, per es., a Grosso, Contributo cit., part.te. 44 ss.; Donatuti, Sull’adempimento cit., 74 ss.; Archi, op. cit., 750; Masi, op. cit., 220-221; Bianchi, op. cit., 459-460.

 

[180] Wieacker, Altrömische cit., 462.

 

[181] In iure civili receptum est, quotiens per eum, cuius interest condicionem non impleri, fiat, quo minus impleatur, perinde haberi, ac si impleta condicio fuisset. Cfr. D. 35,1,24.

 

[182] La condition est réputée accomplie lorsque c’est le débiteur, obligé sous cette condition, qui en a empêché l’accomplissement.

 

[183] La condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa.

 

[184] Liv. 42,28,8-9: Eodem die decrevit senatus, C. Popillius consul ludos per dies decem Iovi Optimo Maximo voveret, donaque circa omnia pulvinaria dari, si respublica decem annos in eodem statu fuisset. Ita ut censuerat, in Capitolio vovit consul ludos fieri, donariaque dari, quanta ex pecunia decresset senatus, cum centum et quinquaginta non minus adessent. Praeeunte verba Lepido pontifice maximo, id votum susceptum est.

 

[185] Opinione generalmente diffusa in dottrina. V. per es. Nissen, op. cit., 243, 246, 256, secondo cui il libro 42 è un agglomerato di fonti diverse, greche e annalistiche, senza molto ordine (in particolare, i capitoli 18-28 e 30-36 sarebbero annalistici, mentre il capitolo 29 di ascendenza polibiana); Unger, op. cit., 186-188, secondo cui 42,25,14-27,8 è riferibile ad Anziate, 42,28,1-13 a Quadrigario, 42,29,1-30,7 a Polibio, 42,30,8-32,5 ancora a Quadrigario; Soltau, Die annalistische cit., 672, 676-677, 700-701, e Livius cit., 44, secondo cui all’annalista Pisone andrebbe in particolare attribuito 42,28, a Polibio 42,29,1-30,7, ad Anziate 42,30,8-31,9, così come il precedente 42,25-27, a Quadrigario 42,32,1-35,2; Kahrstedt, op. cit., 109-110; Klotz, Livius cit., 68, secondo cui nel passo 42,28,10-13, relativo alla morte e all’avvicendamento dei sacerdoti, Livio si ispira ad Anziate, ossia ad un annalista diverso da quello seguito immediatamente prima, che invece è Quadrigario; Volkmann, in RE cit., col. 2330, il quale è sostanzialmente dello stesso avviso; Jal, in Tite-Live, Histoire romaine, XXXI (ediz. Le Belles-Lettres), Paris 1971, XXV-XXXVIII; Tränkle, op. cit., 28, secondo cui Polibio è fonte soltanto per 42,29,1-30,7; Luce, op. cit., 123, 128, 131, 145, secondo cui il racconto liviano relativo allo scoppio della terza guerra macedonica è un ammasso di dubbi ed incertezze, privo di qualsiasi ordine cronologico, con le fonti che cambiano molto spesso; Rich, op. cit., 12 e nt. 4, 88 ss. Sulla base della pluralità e, quindi, del cambio frequente delle fonti, che Livio qui utilizza, potrebbe spiegarsi la mancanza di ogni riferimento alla supplicatio e alla consultazione dei feziali, delle quali è difficile pensare che si sia voluto in quest’occasione fare a meno. Alla celebrazione della supplicatio, in particolare, si sarebbe teoricamente potuto fare riferimento, come nel 191, subito dopo la pronuncia del voto: è allora quanto meno ipotizzabile che la testimonianza ad essa relativa sia stata sacrificata dal presunto cambio d’annalista in 42,28,10, cui segue il forte iato rappresentato dalla sicura inserzione polibiana. Se inoltre si accetta l’orientamento proprio della Quellenforschung tradizionale che fa capo a Klotz (cfr. supra), la fonte annalistica, che Livio tiene qui principalmente presente, potrebbe essere differente da quella usata per i provvedimenti del 200 e del 191: ossia, forse, Q. Claudio Quadrigario, che viene solitamente indicato come autore meno scrupoloso e completo di Valerio Anziate nel riferire questo genere di vicende (sulla maggior precisione, e quasi pedanteria, di Anziate concordano per es. Soltau, Livius cit., 30 e nt. 1, 35, il quale considera Anziate più autorevole degli altri in materia di cronaca metropolitana, sebbene per la verità lo confronti soprattutto con Pisone, da lui ritenuto più conciso; Witte, op. cit., 271, 381; Klotz, in RE cit., col. 841, Der Annalist cit., 285, e Livius cit., 49; Zimmerer, op. cit., 18-19, 59, la quale ritiene che Anziate abbia un carattere più ufficiale e protocollare, più aderente al modello degli annali pontificali; Gelzer, Rec. a Klotz, Livius cit., 222; Bayet, in Tite-Live cit., XXIX, il quale considera Anziate più evoluto, in particolare, di Pisone riguardo alla documentazione urbana e pontificale; Volkmann, in RE cit., col. 2324, 2332, 2339; Bredehorn, op. cit., 245-246; Drews, op. cit., 294-295; Warrior, The Initiation cit., 15 e nt. 10.

 

[186] Cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., IX, 107-108 nt. 4.

 

[187] Già probabilmente pretore nel 175, di nuovo console nel 158 (cfr. Broughton, op. cit., risp.te 402 e 446), C. Popilio Lenate apparteneva ad una famiglia plebea che nel terzo decennio del III secolo era assurta ai vertici della scena politica: cfr. Scullard, Roman cit., 194-198; Münzer, RAAF, 216 ss.; Meloni, Perseo e la fine della monarchia macedone, Roma 1953, 194-195; Paltiel, Antiochos Epiphanes and Roman Politics, in Latomus 41 (1982), 229 ss.

 

[188] Cfr. Liv. 42,28, 1 e 4. Secondo Warrior, Notes cit., 3-4, 18, il ritardo potrebbe essere attribuito all’intento del console di fare pressione sul senato affinché, in cambio del suo ritorno a Roma, fosse usato al fratello Marco, che era sotto processo (cfr. Liv. 42,22,2-7), un trattamento privilegiato; cfr. Meloni, op. cit., 195 e nt. 1.

 

[189] Si trattava di P. Licinio Crasso e G. Cassio Longino: cfr. Liv. 42,28,5.

 

[190] Liv. 42,28,7: Consulibus designatis imperavit senatus, ut, qua die magistratum inissent, hostiis maioribus rite mactatis precarentur, ut, quod bellum populus Romanus in animo haberet gerere, ut id prosperum eveniret. Si osservi che, sebbene la guerra non sia stata ancora dichiarata, nella premessa della precatio si continua a farne menzione, come già nel 200 e nel 191: ciò a dimostrazione del carattere tendenzialmente rigido e non adattabile della preghiera, il cui scopo meramente propiziatorio e non impegnativo, del resto, la differenziava molto dal voto. Inoltre, si noti che l’espressione prosperum eveniret (per la quale v. anche Liv. 5,51,5; 21,21,9; 37,47,4: cfr. Weissenborn, Müller, op. cit., IX, 108 nt. 7) qui sostituisce il più consueto bene ac feliciter, e che manca affatto l’indicazione del beneficiario dell’invocazione. Per il resto si rinvia a quanto ampiamente detto supra.

 

[191] Liv. 42,30,8-9: Consules, quo die magistratum inierunt, ex senatus consulto cum circa omnia fana, in quibus lectisternium maiorem partem anni esse solet, maioribus hostiis immolassent, inde preces suas acceptas ab diis immortalibus ominati, senatui rite sacrificatum precationemque de bello factam renuntiarunt. Haruspices ita responderunt: si quid rei novae inciperetur, id maturandum esse; victoriam, triumphum, propagationem imperii portendi. V. anche Weissenborn, Müller, op. cit., IX, 112-113 nt. 8 e 9, rispettivamente per preghiera e responso degli aruspici. Riguardo alla precatio si osservi, ancora, che come nel 191 è il senato ad indicare direttamente ai consoli gli dei cui rivolgere l’invocazione (cfr. supra). Riguardo poi al responso degli aruspici, cfr. anche Liv. 42,20,4, ove compare l’espressione prolationem finium (per il resto v. supra).

 

[192] Liv. 42,30,10-11.

 

[193] Liv. 42,31,1-32,5, con riferimenti ulteriori alle operazioni di leva.

 

[194] Cfr., per una particolare sottolineatura di questo dato d’ordine cronologico, Bredehorn, op. cit., 206-207.

 

[195] Alle idi di marzo: cfr. Liv. 31,5,2 (supra, nt. 00); v. anche, con particolare riferimento all’episodio in esame, Warrior, Notes cit., 14. Più in generale, ricordiamo che solo a partire dal 153 i consoli entreranno in carica alle calende di gennaio: v. per es. Mommsen, Staatsrecht cit., I, 564 e nt. 1, con le fonti ivi richiamate; Kübler, s.v. Consul, in RE 4 (1900), col. 1116; Michels, The Calender of the Roman Republic, Princeton 1967, 97-98; Briscoe, A Commentary cit., 1973, 68.

 

[196] Liv. 42,28,10-13.

 

[197] C. Popilio Lenate partecipò alla terza guerra macedonica nel 170-169, ma solo in qualità di legato: v. Liv. 43,22,2-3; cfr. Broughton, op. cit., 422 e 426.

 

[198] Cfr. supra.

 

[199] Cfr. supra, circa il tenore formale della richiesta fatta agli dei nel 191, alla vigilia della guerra contro Antioco, della quale si avvertiva forse la minor pericolosità per la sopravvivenza dello stato.

 

[200] Ciò a prescindere dal fatto che essa effettivamente fosse quella da noi sopra ipotizzata, come pur riteniamo presumibile.

 

[201] Cfr. Liv. 39,18,9, ove analogamente si tratta di materia sacrale; v. anche Weissenborn, Müller, op. cit., IX, 108 nt. 9.

 

[202] Cfr. Bonnefond-Coudry, Le sénat de la république cit., 402, che rileva come il nostro sia uno dei pochi casi, attestati nelle fonti (per gli altri si rinvia alla stessa autrice, loc. cit.), in cui si richieda un certo quorum per l’adozione di una delibera senatoria, la quale peraltro qui non consiste in una misura religiosa, ma nella decisione sul relativo finanziamento. Sul problema della scarsa frequenza in senato cfr. Liv. 38,44,6, concernente la già esaminata vicenda di M. Fulvio Nobiliore; v. anche, più in generale, la stessa Bonnefond-Coudry, Le sénat de la république cit., 357 ss.

 

[203] Si tratta di una delle più grandi personalità del II secolo: patrizio, pontefice dal 199 (cfr. Liv. 32,7,15), pontefice massimo dal 180 (Liv. 40,42,11-12), fu anche pretore nel 191, console nel 187 e 175, censore nel 179 (cfr. Broughton, op. cit., risp.te 352; 367, 401; 392), princeps senatus a partire dal 179 (cfr. Liv. 40,45,6; Per. 48). La gens cui apparteneva era tradizionalmente vicina alle posizioni politiche dei Cornelii (cfr. Scullard, Roman cit., 39 ss.): egli fu sempre ostile al conservatorismo catoniano, oltre che avversario personale di M. Fulvio Nobiliore, l'eroe di Ambracia, che Emilio nel 187, l’anno del suo consolato, cercò di ostacolare in ogni modo (cfr. Liv. 38,44,3-6; 39,4,8-12; v. anche Liv. 37,47,6-7 e 38,35,1, circa la grave opposizione in precedenza fatta dal Nobiliore all’elezione a console di Lepido). Nel 180 dovette però scendere a patti con i Fulvii e con lo stesso Nobiliore per conseguire i suoi obiettivi politici, tra i quali il pontificato massimo (v. Liv. 40,42,11-12; cfr. Münzer, RAAF, 201). Negli ultimi decenni di vita, che furono i più luminosi della sua carriera, M. Emilio Lepido esercitò ininterrottamente la carica di princeps senatus. Quando morì, probabilmente nel 152, dispose che i figli gli celebrassero un funerale il più semplice possibile, perché – diceva – i grandi uomini si riconoscono dalla fama dei loro antenati e non dallo sfarzo (cfr. Liv. Per. 48). Gli succedette, come capo del collegio, P. Cornelio Scipione Nasica Corculum (cfr. Cic. de or. 3,33,134; nat. deor. 3,2,5; sen. 14,50).