Raffaello e il Simulacro di Roma.
Breve vita di un progetto ambizioso
«Tanti
grandi antichi e tanta lunga età occorsero alla costruzione di Roma; tanti nemici
e secoli occorsero a distruggerla.
Ora Raffaello cerca e ritrova Roma in Roma:
cercare è di uomo, ma ritrovare è di Dio».
Celio
Calcagnini, 1520 (Epigramma in occasione della morte di Raffaello)
Roma, 1508: la città è in fermento. Giulio II, impegnato su ogni
fronte per ristabilire con tutti i mezzi il primato della sua famiglia e del
papato rispetto alle sempre più forti signorie d’Italia, si pone nei confronti
dell’Urbe come un novello Augusto; interi quartieri vengono ammodernati,
ridisegnate le strade, ricostruiti palazzi. Sembra anzi che ogni notabile
legato alla curia voglia gareggiare con il papa nel progettare, rimodernare,
ciascuno coinvolto nell’ansia generale di contribuire al disegno del pontefice
guerriero. Ma nessun edificio potrà essere all’altezza della nuova fabbrica
papale, il grandioso progetto che ridisegna i palazzi apostolici e che osa
addirittura stravolgere la plurisecolare memoria di san Pietro: rinato
Costantino, nuovo fondatore della Roma Cristiana, nulla sopravvive del vecchio
nelle ambizioni di papa Giulio.
Quale luogo è più opportuno di Roma ad un giovane artista che
voglia farsi strada nel mondo? E venticinque anni non sono pochi, per un
artista dell’epoca. Tanti ne aveva Raffaello quando, forse per l’amicizia con
Donato Bramante – così riferisce il Vasari[1]
- , forse per i buoni uffici di Agostino Chigi[2],
riesce finalmente salire sul carro dei tanti progetti papali. Un anno di lavoro
e già nel 1509, scoperta la prima stanza del nuovo appartamento di Giulio II,
Raffaello è artista acclamato: riceve dal papa un incarico ufficiale – Scriptor Brevium Apostolicorum, ruolo
che era stato dell’Alberti e che richiedeva una buona cultura umanistica– e uno
stipendio.
Negli anni seguenti Raffaello accumula commissioni, amicizie e
sogni: tra tante conoscenze, il destino volle che a Roma incontrasse
Baldassarre Castiglione. Di cinque anni più grande di Raffaello, era già
avviato sulla strada della diplomazia: nel 1508 era al servizio del nuovo
signore di Urbino che, guardacaso, era il nipote di Papa Giulio. Mentre l’astro
di Raffaello saliva, Baldassarre frequentava le corti di Mantova, Urbino e
Roma, intessendo amicizie e relazioni intellettuali tanto per il proprio
piacere personale che per l’incarico che ricopriva. Concretezza ed entusiasmo,
pragmatismo e capacità di sognare: forse queste somiglianze furono gli
ingredienti dell’amicizia indissolubile che unì Raffaello e Baldassarre;
probabilmente si erano già conosciuti nel 1506 ad Urbino, forse Raffaello si
avvicinò al diplomatico per respirare un po’ di “aria di casa”, chissà…negli
anni tra il 1510 e il 1513 ebbero comunque modo di incontrarsi più volte, uno
stabile a Roma, impegnato com’era in commissioni sempre più copiose, l’altro in
moto perpetuo tra le corti. Ciascuno dei due maestro del comportamento, oltre
che del proprio mestiere.
Nel 1513, alla morte di Giulio II, una scelta prudente indusse il
conclave ad eleggere un fiorentino: Leone X de’ Medici era rappresentante di
una grande famiglia, ma estraneo alle dispute sorte tra i della Rovere e i
Gonzaga attorno a Mantova, Bologna, Urbino.
L’elezione del
nuovo papa introdusse un cambiamento anche nelle carriere di Raffaello e di
Baldassarre Castiglione. L’artista, stranamente, pur lavorando moltissimo per
conto delle corti italiane, non riceve nuove commissioni pontificie, tranne la
conferma del completamento delle “Stanze”; la sua attività romana sembra
piuttosto concentrarsi attorno agli incarichi pubblici ed agli studi eruditi.
Il suo amico Castiglione alla morte di papa Giulio aveva dovuto
curare gli interessi del suo signore presso
Ma già nel 1516 Francesco Maria cadde in disgrazia – fu
spodestato da Urbino – e Baldassarre fu costretto a seguire il suo signore:
l’esilio mantovano fu per lui l’occasione per sposarsi e per riallacciare i
rapporti con la famiglia Gonzaga, ai quali era imparentato alla lontana per
parte di madre, entrando al servizio del giovane marchese Federico. Un abile
funambolo che, nell’infelice congiuntura degli eventi, riesce a districarsi
rapidamente per non precipitare[4].
Anche Raffaello nel 1514 raggiungeva le vette più alte della sua
carriera: subentrò al Bramante come architetto della Fabbrica di san Pietro;
ebbe allora il modo di conoscere dall’interno i meccanismi delle nuove
costruzioni e, in particolare, lo scempio che si faceva dell’antico in nome di
una nuova architettura che all’antico voleva ispirarsi. Le necessità del
mestiere e le aspirazioni culturali avevano già portato l’Urbinate, come tanti altri
artisti prima di lui, tra le rovine di Roma, nelle “grotte” della Domus Aurea,
sulla via Appia, al Colosseo e nel Foro[5].
Disegnando e chiacchierando con amici e colleghi, in quelle scampagnate nella
luce limpida della primavera romana, gettava il seme di un’idea: e se queste
pietre tornassero a parlare? Quante di quelle pietre ignorate esprimevano in
parole i sentimenti umani; quante testimoniavano di eventi cardine della storia
antica…Una raccolta epigrafica poteva forse preservarne la memoria. Ma come
unire ogni pietra all’edificio da cui proviene? Come legare l’edificio alla
città? Come riportare la città alla storia?
Il 27 Agosto del 1515 Leone X firma un breve in cui Raffaello è
nominato “Commissario alle Antichità”: l’incarico ha lo scopo preciso di
impedire la distruzione dei marmi epigrafici. Difficile valutare quanta
pressione dello stesso artista e dei suoi dotti amici sia dietro alla decisione
del pontefice, e quanto invece sia derivata dalla sensibilità dello stesso
papa, discendente da una famiglia di famosi collezionisti di antichità.
Raffaello sostituiva nell’incarico il defunto Frà Giocondo, ma
l’artista era intenzionato a farne un uso concreto, a costo di abusare del
proprio potere: un episodio è sintomatico dell’atteggiamento dell’Urbinate. Il
notaio Pacifici, in un protocollo conservato all’Archivio di Stato di Roma[6],
presenta le proteste di un tale Gabriele Rossi e dei Conservatori di Roma: il
Rossi, abitante nel rione Pigna, possedeva delle statue antiche che aveva
destinato per legato testamentario, in caso di assenza di eredi, al Palazzo dei
Conservatori. Lo stesso notaio spiega nel documento come sia stato necessario
rivolgersi al Papa perché Raffaello pretendeva, in virtù della sua nomina, di
acquisire queste statue contro la volontà del defunto – nel frattempo - e delle
autorità cittadine, per portarle nelle collezioni di sua competenza: la
protezione papale si rendeva necessaria perché gli eredi temevano, tra l’altro,
la violenza dell’artista!
L’epilogo della vicenda, ricostruita dal Lanciani[7],
è la difesa papale delle pretese capitoline, ma il paradosso è evidente: da un
lato si chiede al papa di intervenire presso il suo rappresentante e contro i
suoi stessi interessi, dato che le collezioni di competenza di Raffaello erano
quelle papali; dall’altro si accusa Raffaello di una violenza che mal si addice
al dolce viso del gentiluomo e cortigiano che siamo abituati a conoscere.
Certo, Raffaello doveva essere esasperato: nei cinque anni in cui
ricoprì il suo incarico, alle buone intenzioni seguirono ben poche azioni, sia
per la confusione delle competenze in fatto di antichità e sia, soprattutto,
per l’arbitraria applicazione delle norme circa il possesso delle stesse.
Scorrere le pagine del Lanciani relative agli anni del Commissariato di
Raffaello è sconcertante e sconfortante[8]:
nel 1517 i Conservatori fanno trasportare in Campidoglio dal Quirinale due
statue di divinità fluviali; il 15 luglio del 1518 lo stesso Leone X dona al
minorenne Belisario Pini
Ancora lo stesso papa, mentre Raffaello preparava il suo più
ambizioso progetto di Commissario, il 4 settembre 1519 concedeva alle autorità
di Tivoli 50 rubbie di sale all’anno in cambio del permesso di asportare
D’altra parte nulla di strano, se già Sisto IV il 17 dicembre del
1471 autorizzava «gli architetti della Biblioteca Vaticana a eseguire scavi
ovunque sia necessario per trovare la pietra necessaria al loro lavoro»[10]:
tanto larga era questa concessione che lo stesso papa fu costretto, tre anni
dopo, a precisare che sarebbero stati scomunicati coloro che avessero asportato
marmi «dalle basiliche patriarcali e dalle altre chiese»[11].
Ripercorrere un istante quali fossero gli strumenti legali a
disposizione di Raffaello per la “tutela” delle antichità può essere
interessante ed istruttivo[12].
L’autorità a cui fare riferimento per le antichità di Roma è,
naturalmente, quella pontificia, a cui si affiancano le magistrature
capitoline; dato il lungo esilio avignonese dei pontefici, bisogna arrivare a
Martino V (1417-1431) per trovare qualcuno che cerchi di ristabilire un po’
d’ordine tra le diverse competenze: il suo primo atto[13]
riguardava le autorità capitoline e stabiliva
che i magistri viarum – i magistrati addetti al controllo delle strade
di Roma, esistenti già dalla metà del XIII secolo – dovevano anche impedire l’occupazione e lo
sfruttamento sistematico degli edifici da parte degli artigiani, con
particolare riferimento a quelli insediatisi nei ruderi della Cripta Balbi, del
Teatro di Marcello e del Portico di Ottavia.
Il successore, papa Eugenio IV (1431-1447), sembra più
determinato: oltre ad emettere un breve relativo all’asportazione dei marmi
dagli edifici antichi[14],
il pontefice cerca di salvaguardare il Colosseo, ponendolo sotto la tutela dei
frati del vicino convento di santa Maria Nova[15].
A questa azione fecero seguito la già citata bolla del 1474[18]
e la bolla “Etsi de cunctarum” del 1476, che costituivano i più
importanti strumenti legali a disposizione di Raffaello: gli atti – pubblicati
rispettivamente negli Statuti della città e nel Bullarium Vaticano - sono interessanti
perché individuano la doppia autorità del papa, ma rimane il fatto che le
pietre per la costruzione del Museo Capitolino continuavano ad essere raccolte
ovunque per Roma.
Questi pochi atti legislativi non possono essere definiti come
reali provvedimenti di tutela: oltre che dalla loro episodicità, sono
caratterizzati da una certa confusione nelle istituzioni preposte al controllo.
Inoltre è evidente che si fa distinzione tra statue e frammenti, tra edifici
vistosi come il Colosseo e ruderi: in sostanza, se le statue integre e i marmi in
situ devono essere rispettati, nulla vieta di “raccogliere” pietre da
destinare al riutilizzo o alle fornaci per la calce.
Il continuo ritrovamento di marmi antichi di pregio nelle “vigne”
dei privati cittadini poneva anche il problema della proprietà delle statue e
dei diritti dello scopritore: a proposito del Laocoonte del Vaticano, sappiamo
che fu ritrovato nei primi giorni del 1506 da un certo Felice de Fredis. La
statua fu subito riconosciuta come quella descritta da Plinio[19],
quindi papa Giulio II la volle per il suo nuovo Cortile del Belvedere, pensato
appositamente dal Bramante per contenere statue antiche: i collezionisti
offrirono al de Fredis cifre astronomiche ma, pur di aggiudicarsela, il
pontefice concesse allo scopritore una rendita perpetua sulla gabella
d’ingresso di Porta san Giovanni. In seguito Leone X cercò di ritrattare, ma il
de Fredis ovviamente non era disposto a rinunciare al vitalizio: finalmente nel
1515 i legali delle due parti si accordarono per un deposito di 2000 ducati da
versarsi in due anni, trasformabili in una carica pubblica perpetua nel caso in
cui la famiglia rinunciasse al denaro[20].
Era proprio per evitare simili dispute legali che normalmente le
parti in causa stilavano degli atti preventivi: come riporta il Lanciani[21],
il 24 febbraio 1493 «il dottore in legge Agostino di Martino concede licenza
a Lorenzo Berti chierico fiorentino, di scavare nel canneto della propria vigna
detta Schifanoia, a spese dello scavatore. I materiali da costruzione e le
pietre e scaglie per fare la calce saranno del medesimo: un terzo degli oggetti
d’arte e di valore sarà del proprietario»
In questa confusione di pretese e diritti, l’affidamento del
Commissariato alle Belle Arti a Raffaello da parte di Leone X era una vera
novità: per la prima volta si pensava ad una carica pubblica di carattere
tecnico, in cui le competenze del titolare in fatto di arte antica fossero una
condizione imprescindibile. Purtroppo, come abbiamo visto, nonostante il nostro
artista prendesse la sua carica molto sul serio, all’istituzione del
Commissariato non aveva fatto seguito alcun provvedimento legislativo,
lasciando quindi che la carica fosse mutila nella sua capacità esecutiva.
Ritornando dunque a Raffaello, l’unico progetto che sembrava
prendere forma nei primi anni del suo Commissariato era quello di una silloge
epigrafica: il 30 novembre 1517 un breve papale accorda a Jacopo Mazochi il
permesso di pubblicare entro sette anni la raccolta delle Epigrammata Antique Urbis. Compare così il nome di uno dei
collaboratori di Raffaello.
Nei tre anni successivi, Raffaello concretizzò il suo progetto:
la redazione di una grande pianta di Roma con la ricostruzione dei monumenti,
divisa in tre fasi sulla scorta degli storici latini. Una pianta della città
romulea, una della città serviana e una della città imperiale, divise in
regioni secondo la topografia antica, con tavole dei singoli edifici, nozioni
tecniche circa il rilevamento dei monumenti e commenti eruditi. Assieme al
Mazochi per la parte epigrafica, Raffaello chiamò a collaborare al suo progetto
Marco Fabio Calvo da Ravenna, filologo, per la compilazione delle piante, e
Andrea Fulvio, come collaboratore topografico e per la descrizione delle “Antiquitates”.
Nel 1519 devono essere pronte le prime tavole ed ecco che il
progetto ha una forma accettabile, tanto da sottoporlo all’attenzione
pontificia; in quel mentre Baldassarre Castiglione era tornato a Roma per
curare gli interessi di Federico Gonzaga e del duca di Urbino: vi sarebbe
rimasto fino ad assistere alla morte dell’amico, prima di allontanarsi per la
morte della moglie.
Educazione vuole che non ci si presenti dal papa a mani vuote, né
che si trascuri la bella forma nel proporre un qualsivoglia progetto: ecco
quindi una lunga lettera, ben 12 pagine, di parole eleganti ma ferme che
chiedono l’approvazione papale per la prosecuzione del lavoro[22].
La lettera è un capolavoro di stile: «Ma perché ci doleremo noi de’ gotti, de vandali e d’altri perfidi
nemici del nome latino, se quelli che, come padri e tutori, dovevano difendere
queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno atteso con ogni studio
lungamente a distrugerle e a spegnerle? Quanti pontefici, padre santo […]
quanti – dico - pontefici hanno permesso le ruine e disfacimenti delli templi
antichi delle statue, delli archi e altri edifici, gloria delli loro fondatori?
Quanti hanno comportato che, solamente per pigliare terra pozzolana, si siano
scavati i fondamenti, onde in poco tempo poi li edifici son venuti a terra?
Quanta calcina si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi?».
All’appello accorato segue il progetto: «non è adunque difficile cognoscere quelli del tempo delli imperatori,
li quali son li più excellenti e fatti con più bella maniera e magior spesa e
arte di tutti gli altri. E questi soli noi intendiamo di dimostrare, né bisogna
che nell’animo di alcuno nasca dubbio che, tra li edifici antiqui, li meno
antichi fossero men belli o meno bene intesi, o d’altra maniera. Perché tutti
erano di una ragione […]»[23].
E’ difficile
resistere alla tentazione di riportare il testo integrale della lettera, tanto
è coinvolgente e acuto nell’osservazione: dietro la storia dell’architettura
tracciata brevemente da Raffaello allo scopo di convincere il papa, si nasconde
un pensiero moderno, che osserva l’arco di Costantino considerandolo
altrettanto valido dei monumenti precedenti. Non meno acuto è il progetto: non
una, ma tre piante, corredate da disegni e commenti, che trasfigurino la
statica realtà dei ruderi in una città vivente e in perenne trasformazione.
Moderno dunque il progetto, elegante la forma, stupefacenti i
disegni: Celio Calcagnini narra che Leone X rimase tanto colpito da chiamare
Raffaello «un Dio antico tornato sulla terra»; e non fu l’unico a vederli ed apprezzarli.
Andrea Fulvio, già prima della morte dell’artista, scrive che Raffaello aveva
disegnato con il pennello la divisione della città in Regioni[24]:
«egli stendeva un libro siccome Tolomeo
ha isteso il mondo, su gli edifici antichi di Roma, mostrando chiaramente le
proporzioni, forme et ornamenti loro, che, averlo veduto, arìa scusato ad
ognuno aver veduto Roma antica, et già aveva fornito la prima regione».
Raffaello muore nel 1520: è acclamato da ciascuno quale vero
artefice del ritrovamento dell’antico, ma il progetto è interrotto, la lettera
che lo accompagnava perduta, i disegni smembrati tra mille collezioni.
O così sembra.
Possibile mai, ci si chiede, che tra coloro che gli sono
sopravvissuti, tra collaboratori, collezionisti, amici, nessuno abbia
conservato traccia di un’opera tanto mirabile?
Sia per cultura personale che per preparare il lavoro, Raffaello
eseguì dei disegni realmente conservati in quattro serie[25]:
sculture e rilievi, pitture murali e grottesche, vedute di monumenti e rovine,
profili e particolari architettonici; questi disegni costituiscono la traccia
più diretta del lavoro dalla mano stessa dell’artista.
Anche Andrea Fulvio
proseguì effettivamente il suo lavoro, muovendosi almeno in due direzioni: da
un lato pubblicò le Antiquitates nel
1527[26]
e la sua “Descrizione di Roma” nel 1545[27],
dall’altra rimase in contatto con Marco Fabio Calvo per la pubblicazione del
lavoro iniziato sotto la guida di Raffaello.
L’8 Giugno 1532 Fabrizio Peregrino, ambasciatore del Duca di
Mantova a Roma, manda al suo signore «un
disegno di Roma stampato hora di nuovo secondo che anticamente era edificata a
tempo de li antichi romani»; a tale lettera ne segue una del 29 Giugno
dello stesso anno in cui si annuncia che «fra
pochi giorni se ne stamperà un’altra, pure di Roma, che fu di disegno di
Raphael da Urbino, et bellissima cosa et molto copiosa»[28].
A questo annuncio
segue effettivamente una pubblicazione della Antiquae Urbis Romae cum regionibus simulachrum, avvenuta proprio
nel 1532[29].
Ma c’è qualcosa che non quadra.
Come noto, nel 1527
Roma fu devastata dal Sacco dei Lanzichenecchi; in quell’occasione la bottega
di Marco Fabio Calvo fu incendiata e lo stesso proprietario sequestrato dai
soldati che intendevano chiedere un riscatto ai familiari. Una volta verificato
che la famiglia non aveva beni per pagare, i Lanzi malmenarono il povero Marco
Fabio il quale, già anziano e di salute malferma, morì poco dopo in ospedale.
Come è dunque possibile che abbia stampato nel 1532?
In ogni caso da quell’anno, e per diversi secoli, si considerò l’opera del 1532 come la realizzazione parziale del progetto di Raffaello a cura di Marco Fabio Calvo.
Ma tralasciamo per
il momento questo episodio e passiamo ad un’altra questione, non meno
ingarbugliata; ambedue le vicende ci riporteranno comunque a tempi più vicini
ai nostri.
Nel 1733 gli editori fratelli Volpi pubblicarono una lettera
conservata nell’archivio della famiglia Maffei[30]:
si tratta appunto delle dodici pagine da cui ho estratto alcuni passi, che
sembrano quindi pertinenti al progetto di Raffaello, ma i Volpi attribuiscono
la lettera a Baldassar Castiglione. Ne nasce presto una disputa condotta tra
chi vede nello stile i riflessi dell’eloquio dell’umanista diplomatico – che
peraltro aveva più o meno velatamente citato il progetto di Raffaello nel Cortegiano[31] – e chi invece individua nel testo
riferimenti più adatti alla biografia di Raffaello, non ultimo l’accenno ad una
lunga permanenza a Roma, che effettivamente non si adatta al Castiglione. Il testo
è chiaramente attribuito a Raffaello sia da Pietro Odescalchi che da Pietro
Ercole Visconti[32].
Nel 1918 il grande storico dell’arte Adolfo Venturi cerca di
chiarire la vicenda: segnala una versione leggermente diversa della lettera,
legata all’interno di un piccolo codice della Biblioteca di Monaco, che
contiene una Volgarizzazione di Vitruvio curata da Marco Fabio Calvo[33].
In breve, Venturi si convince che il testo di Monaco sia la versione più simile
all’originale concepito da Raffaello e che il testo Maffei sia invece la
versione ingentilita della stessa lettera, sulla quale Castiglione avrebbe
lavorato per poterla presentare a Leone X[34].
Il giallo si risolse nel 1951, quando Vittore Cian ebbe modo di
pubblicare una bozza della lettera trovata nell’archivio della famiglia
Castiglione a Mantova[35]:
molto semplicemente Raffaello avrebbe abbozzato la lettera per poi passarla al
suo amico e maestro di stile, il quale le diede appunto la forma ufficiale che
conosciamo per farne l’introduzione al lavoro che Raffaello presentava al papa.
Ecco dunque svelato il “mistero della lettera scomparsa”: ma il
testo cosa accompagnava?
La stessa domanda se la pose il Lanciani, che per primo individuò
l’incongruità cronologica tra la vita di Marco Calvo e la pubblicazione della
sua opera. La lettera di Raffaello-Castiglione conteneva numerose allusioni
all’opera e, prima della morte dell’artista, il Michiel diceva che Raffaello ne
aveva già fornita la prima regione[36].
Stando alla descrizione del Michiel la pianta doveva essere concepita come un
libro, con almeno 14 tavole per le diverse regioni augustee più un’altra serie
di tavole per le altre piante di epoche diverse e per le ricostruzioni dei
monumenti. Il Lanciani congetturava, giustamente, che un’opera tanto celebre
non poteva essere passata come una meteora: infondo anche la pianta di Roma del
Bufalini[37]
è stata ricomposta mettendo insieme tavole ristampate in data differente; era
possibile compiere un’operazione del genere per la pianta di Raffaello?
Accingendosi alla
colossale opera di censimento delle carte della Biblioteca Nazionale di Roma
(allora Vittorio Emanuele) il Lanciani[38]
si imbatté finalmente in una edizione di Marco Fabio Calvo, contenente un testo
stampato nel febbraio 1527 e delle tavole di Roma, dette Simulachrum, stampate nel mese di aprile dello stesso anno[39].
Questo esemplare è appunto l’unico stampato da Marco Fabio Calvo prima della
sua morte: di questo era però rimasta la matrice di bosso, un po’ danneggiata
dall’incendio della bottega ma ancora utilizzabile, mentre erano saltati i
caratteri mobili che componevano titoli e didascalie.
Dalle ceneri – è il
caso di dirlo – della prima stampa esce una nuova serie, curata da Fabio Ravennate
e con dedica a papa Clemente VII, pubblicata nel 1532[40]:
è l’opera a cui si riferisce Peregrino nelle sue lettere al duca di Mantova.
Raffaello non ha quindi mai pubblicato nulla ma, appunto, solo disegnato per i
suoi collaboratori. Le congetture di Lanciani, sulla base dei documenti da lui
ritrovati, finiscono qui: si tratta comunque di molto, considerando che gli
mancava un passo fondamentale ricostruito solo 60 anni più tardi.
Nel 1964 è uscita
un’opera singolare: si tratta della riproduzione anastatica curata da R.
Peliti, editore e stampatore, dell’antica pianta di Roma di F. Calvo del 1532[41].
La pianta è quella contenuta in un
codice della Biblioteca Angelica, che l’editore ha avuto occasione di studiare
e che ha deciso di riprodurre fedelmente, con l’aggiunta di una breve
introduzione editoriale: con questa edizione si conclude finalmente il “giallo”
durato esattamente 432 anni. Nonostante il titolo del frontespizio, che
attribuisce l’opera a M. Fabio Calvo e a Tolomeo Egnazio di Foro Semproni xilografo,
il codice contiene una nota esplicativa: la stampa è dovuta a Valerio Dorico –
che ha ricomposto le matrici rovinate – su incarico affidatogli dall’erede e
nipote Timoteo Fabio Calvo, quasi omonimo dello zio. Il lavoro è stato eseguito
nel 1532. E’ stata questa quasi totale omonimia, assieme alle lettere e ai
documenti antichi, a creare confusione: chi osservava il codice, prevenuto dal
conoscerne la storia, non notava la dissonanza tra le date della vita di Marco
Fabio e quella di pubblicazione, non accorgendosi che in realtà il codice
stesso costituiva un tributo del nipote allo zio morto tanto sventuratamente.
Che si tratti di ciò che resta del progetto di Raffaello lo confermano diversi
dati: la somiglianza delle carte del codice dell’Angelica con quelle pubblicate
nel codice del 1527 ritrovato dal Lanciani; la differenza dei caratteri,
ricomposti invece interamente dopo il sacco del 1527; il nome di Marco Fabio
Calvo, che Raffaello stesso aveva scelto come suo collaboratore.
Così si conclude il nostro piccolo “mistero della lettera
scomparsa”, che nel suo epilogo costituisce un omaggio alle intuizioni di
Rodolfo Lanciani e di Adolfo Venturi i quali, come si addice ai veri studiosi,
cercarono la sostanza oltre la forma.
La forma a dire il vero può sembrare deludente: le piante, nella
loro rozza semplicità, costituiscono più un affascinante souvenir d’epoca che
un’opera d’arte.
Ma la vera opera d’arte sta nella concezione del progetto:
Raffaello era arrivato a pensare una pianta in fasi della città di Roma; di
più, aveva compreso la necessità di documentare lo stato dei monumenti dandone
al contempo la ricostruzione.
E’ vero che il progetto non includeva fasi di sviluppo urbano
successive ad Augusto, ma in questo Raffaello è figlio del suo tempo: cerca di
individuare i momenti salienti della città scegliendoli sulla base degli
storici antichi, un po’ come se si trattasse della scena di un teatro in cui si
cambiano d’improvviso le scenografie per inserirvi eventi diversi.
L’occhio di Raffaello è quello di un uomo del Rinascimento, che
ricuce tra le rovine di Roma le tre unità aristoteliche della Storia, ma la sua
intuizione è stata il primo seme di un lavoro attualissimo: quello di
ricomporre, tra studio delle testimonianze, salvaguardia dei beni artistici e
dialogo tra discipline, il quadro in continua evoluzione di una città vivente[42].
[1] G. Vasari, Le
vite de’ più eccellenti pittori scultori e architetti, a cura di R.
Bettarini e P. Barocchi, Firenze-Verona 1976, Testo, vol. IV, 165-176.
[2] A proposito dei rapporti con Agostino Chigi e della data della
Galatea della Farnesina, cfr. C. Strinati,
Raffaello, in Dossier Art n. 97, 27-28; I luoghi di Raffaello, catalogo
della mostra, Roma 1983.
[4] Per la cronologia di Baldassar Castiglione cfr. Baldassarre Castiglione, Il Libro del
Cortegiano. Introduzione di Amedeo Quondam, Milano 1981.
[5] Secondo il Vasari, lo stesso Raffaello nel 1510 era stato arbitro
nella gara per una copia in bronzo della statua del Laocoonte, ritrovata nella
Domus Aurea nel 1506; A. Venturi, Il
gruppo del Laocoonte e Raffaello, in Archivio storico dell’arte, II
(1889), 97-
[7] R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno
alle collezioni romane di antichità, Roma 1902, vol. I, 166, 176. Raffaello
dovrà accontentarsi di rappresentare le statue – una Diana Efesina e un “sacrificio
di un toro” – nelle Logge Vaticane, anche perché l’antico proprietario delle
medesime era imparentato con le più nobili famiglie romane e il papa era
chiamato a difendere le libertà cittadine.
[8] Per la storia degli scavi durante i cinque anni del
Commissariato di “Raffaele”, cfr. R.
Lanciani, op. cit. nota 7., vol. I, 166-195.
[9] Questo era il nome correntemente attribuito dal medioevo ad un
sepolcro romano di forma piramidale, simile alla superstite piramide di Porta
San Paolo: l’edificio fu poi distrutto nel corso delle sistemazioni dei borghi
durante il Rinascimento.
[10] Il breve di Sisto IV autorizza esplicitamente gli architetti e
muratori della biblioteca vaticana a scavare (effondere) ovunque per
procurarsi le pietre necessarie. Cfr. E. Muntz - P. Fabre, La
bibliotheque du Vatican au 15. siecle : contributions pour servir a l'historie
de l'humanisme d'apres des documents inedits, avec un inventaire de la
bibliotheque grecque de Nicolas 5., liste alphabetiques, et une table des
auteurs et des matieres, Parigi 1887 (ripr. anastatica Amsterdam 1970),
tomo III, 15.
[11] La bolla “Cum provida Sanctorum patrum
decrete” del 7 aprile 1474 contro i devastatori di chiese, dirute o meno,
recita testualmente: Ad nostrum pervenit auditum quod nonnulli iniquitatis
filii de patriarcalibus et aliis ecclesiis et basilicis porphyreticos marmoreos
et alios lapides abstulerunt hactenus, et in dies auferre, eosque ad diversa
loca per se vel alios asportare praesumunt. La pena è la scomunica
maggiore, ma il documento tace dei monumenti classici. Il testo è pubblicato
nella raccolta Statuta almae Urbis Romae auctoritate s.d.n.d. Gregorii papae
XIII pont. max. a Senatu, populoq. Rom. reformata, et edita, Roma 1580,
parte II, 34-35. Da ora in poi, dove reperibili sono segnalati i codici
identificativi dell’ICCU: in questo caso CNCE 33961.
[12] Una ricostruzione rigorosa della legislazione di tutela delle
antichità di Roma tra la fine del Medioevo e il Rinascimento risulta ancora
piuttosto disagevole: se infatti Roma, stante anche la sua vocazione
all’antico, è la prima città a dotarsi di strumenti legali per la salvaguardia
dei monumenti, è pur vero che la sovrapposizione degli interessi capitolini e
pontifici provoca la dispersione dei testi legislativi in raccolte diverse,
curate ora da una e ora dall’altra autorità. Gli stessi atti pontifici sono
resi pubblici di volta in volta come le bolle papali o come statuti cittadini,
a seconda dei destinatari delle leggi e soprattutto dell’identità di coloro che
devono farle rispettare. Per maggiori riferimenti a queste problematiche cfr. A. Lanconelli, Manoscritti statutari
romani. Contributo per una bibliografia delle fonti statutarie dell’età
medioevale, in M. Miglio (a
cura di), Scrittura biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento, Atti
del 2° seminario 6-8 maggio 1982, Città del Vaticano 1983, 305-321. L’articolo
contiene tra l’altro una preziosa appendice con un repertorio dei diversi
statuti, divisi per competenze e con le indicazioni delle biblioteche che li
posseggono attualmente. L’autrice fa riferimento anche agli atti dei notai
apostolici e della curia minore, poiché, nel corso del XV secolo, con la
riorganizzazione della Curia romana si assiste allo sviluppo di una complessità
burocratica sconosciuta in precedenza. V. anche C.
Chelazzi (a cura di), Catalogo della raccolta di Statuti,
consuetudini, leggi, decreti, ordini e privilegi dei comuni, delle associazioni
e degli enti locali italiani dal Medioevo alla fine del secolo XVIII, Roma 1963, VI, 143-206.
[13] Bolla “Et si in cunctarum”, 30 marzo
[14] 29 marzo
[15] Anno 1439. Ciò sembra confermato da un documento riportato nel Liber
brevium Martini V, Eugenii IV, et aliorum esistente nell’Archivio Vaticano,
armadio XXXIX, tomo VII c. 341, n. 319. D’altra parte questa stessa opera di
tutela è disconosciuta da Niccolò V, che il 5 settembre 1451 appalta l’incarico
di mandare alle fornaci da calce dei cantieri papali i travertini del Colosseo.
Cfr. Lanciani, op. cit.
nota 7, vol. I, p. 53; E. Muntz - P.
Fabre, op. cit. nota 10, vol. I, 107.
[16] Statuta Urbis Romae, op. cit. nota 11, appendice 33; A. Theiner, Codex diplomaticus dominii temporalis S.
Sedis: recueil de documents pour servir a l'histoire du Gouvernement temporeil
des Etats du Saint-Siege, Città del Vaticano 1861, Tomo III, 422; E.
Muntz, La Bibliotheque du
Vatican au 16. siecle. Notes et documents avec publication des inventaires de
la Vaticane et du Chateau Saint-Ange sous Paul 3., ed un appendice contenant
l'inventaire des manuscrits renvoyes d'Avignon a Rome en 1566, avec un index
des principaux personnages mentionnees, Parigi 1886, Tomo 1, 352.
[19] Per la storia del rinvenimento e gli studi attorno a questa
celebre statua, cfr. F. Haskell - N.
Penny, L’antico nella storia del gusto. La seduzione della scultura
classica 1500-1900, Torino 1984, 337-343.
[20] La storia è riportata interamente dal Lanciani, op. cit. nota 7, vol. I, 139-140: lo
studioso ha esaminato l’atto, redatto dal notaio Ambrogio Teodosio da Ferentino
e conservato nell’Archivio Storico Capitolino prot. XXII, c. 115.
[21] Lanciani, op.
cit. nota 7, vol. I, 89. L’atto è redatto davanti al notaio Egidio da
Fonte, Archivio Storico Capitolino, prot. 591 c. 8.
[22] Circa la data della lettera esistono delle discordanze tra gli
studiosi: personalmente preferisco adottare la data del 1519 sia perché è
quella più comunemente accettata, sia perché attorno a questa data si
concentrano le testimonianze degli umanisti attorno al progetto di Raffaello;
credo che la sua risonanza sia stata troppo forte per pensare ad un silenzio di
due o tre anni. Come vedremo oltre, è comunque necessario che la lettera sia
stata scritta in un periodo in cui Castiglione si trovava a Roma. Per le
diverse questioni cfr. F.P. Di Teodoro,
Raffaello, Baldassar Castiglione e la lettera a Leone X: con l’aggiunta di
due saggi raffaelleschi, San Giorgio di Piano, 2003.
[23] Si riporta il testo così come appare nell’articolo di A. Giuliano, Quanta Roma fuit. La
percezione visiva di Roma antica, in Roma Veduta. Disegni e stampe
panoramiche della città dal XV al XIX secolo, catalogo della mostra, Roma
2000, 23-24. Cfr. anche Baldassarre
Castiglione, Le lettere, (a cura di) G. la Rocca, Milano 1978, vol.
I, 531-542.
[24] Il testo della lettera di Fulvio è riportato nel diario di Marin
Sanudo, edito la prima volta da Jacopo Morelli: J.
Morelli, Notizie delle opere del
disegno nella prima metà del secolo XVI, Bassano 1800, 210. Il testo è
stato poi ripreso da P. Odescalchi,
Istoria del ritrovamento delle spoglie di
Raffaello, Roma 1836 (2a edizione), e da P.E.
Visconti, Lettera di Raffaello a
Papa Leone X, Roma 1840.
[25] J. Shearman, Raphael, Rome, and the
Codex Escurialensis, in Master Drawings. A quarterly journal, New York 1977
(XV), 107-146; C.L. Frommel - S. Ray - M.
Tafuri, Raffaello architetto, Milano 1984. Circa gli interessi
archeologici di Raffaello vedi anche A.
Bartoli, Raffaello archeologo e topografo di Roma antica.
Nel Quarto Centenario di Raffaello, Roma 1920; V. Mariani, Raffaello e il mondo classico,
in Studi Romani, VII, 2, 1959,
162-172.
[26] A. Fulvio, Antiquitates urbis per
Andream Fulvium antiquarium. Ro. Nuperimme
aeditae, Roma 1527 circa. (CNCE 19990).
[27] Il titolo completo della dotta raccolta è: A. Fulvio, Andrete Fulvii Sabinii
antiquarii. De urbis antiquitatibus libri quinque. Item. De urbis eiusdem
laudibus oratio In populi Ro. laudem elegia. De Romuli & Remi expositione
egloga quae cuncta, mendis omnibus quibus prior editio squalebat: nuper escussa
acrepurgata. Indice copiosissimo ordinatissimoque repposito. Roma 1545.
(CNCE 19994).
[28] Il testo della lettera è riportato dal Lanciani: R. Lanciani, La pianta di Roma antica
e i disegni archeologici di Raffaello Sanzio, in Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei – Classe di Scienze morali,
storiche e filologiche, Serie V,
vol. III, Roma 1894, 781-804.
[30] G. Antonio Volpi - G.
Volpi, Opere volgari e latine del conte Baldessar Castiglione.
Novellamente raccolte, ordinate, ricorrette ed illustrate, come nella seguente
lettera può vedersi, da Gio. Antonio e Gaetano Volpi, Padova 1733.
[33] L’opera di volgarizzazione di Vitruvio era necessaria a
Raffaello per poter procedere nel suo lavoro di ricostruzione delle piante di
Roma: il lavoro del Calvo iniziato «in
casa di Raffaello» precedeva infatti la prima edizione a stampa in volgare
del De Architectura vitruviano, uscita nel 1521, un anno dopo la morte
dell’artista. Dell’opera del Calvo si conservano due manoscritti alla
Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (ms. it. 37; ms. it. 37a) il primo dei
quali contiene, oltre alla versione della lettera a Leone X, alcune annotazioni
di mano di Raffaello.
[34] A. Venturi, La
lettera di Raffaello a Leone X sulla pianta di Roma antica, in L’Arte.
Rivista dell’Arte Medievale e Moderna e d’Arte Decorativa, XXI, 1918,
57-65.
[35] V. Cian, Un illustre
Nunzio Pontificio del Rinascimento: Baldassar Castiglione, in Studi e
Testi, 156, Città del Vaticano 1951.
[37] La pianta di Roma di Leonardo Bufalini: da un esemplare a
penna già conservato in Cuneo riprodotto per cura del Ministero della Pubblica
Istruzione, Roma 1879.
[40] Cfr. nota 29. La copia del codice, confrontato dal Lanciani con
quello indicato alla nota 39, è conservata presso la Biblioteca Angelica di
Roma. Approfitto di questa nota per ringraziare il personale della biblioteca,
che mi ha gentilmente aiutato nelle ricerche, fornendomi i chiarimenti
fondamentali per il completamento del lavoro e permettendomi di riprodurre
alcune tavole pubblicate ad illustrazione di questo articolo.
[41] Marco Fabio Calvo, Antiquae
Urbis Romae cum regionibus simulachrum, stampa anastatica curata da
R. Peliti sull’originale della Biblioteca Angelica, Roma 1964.
[42] A lavoro ormai completato è uscito un articolo che dà notizia del
ritrovamento di un codice della Biblioteca Ambrosiana di Milano (III St. F XI
10): si tratta della “seconda edizione” – ma in realtà terza – del Simulachrum,
dedicata da Giovanni Battista Cavalieri a papa Clemente VIII nel 1592. Ciò a
riprova dell’importanza che i contemporanei attribuirono all’iniziativa di
Raffaello. Cfr. G. Petrella, La
Roma di Raffaello e di Calvo, in Il Domenicale, 29 gennaio 2005.