Documenti sacerdotali in Veranio e Granio
Flacco:
problemi lessicografici
Sommario: 1. Premesse. – 2. Veranio e gli Auspiciorum
libri. – 3. Veranio
e le Pontificales Quaestiones. – 4. Il caso delle Arbores felices. –
5. Granio Flacco.
Dato ormai per assodato che le prescrizioni
riferibili ai libri sacerdotali, «come in genere quelle di diritto divino,
conservate negli archivi sacerdotali, sono certo ciò che di più serio gli
storici di Roma abbiano potuto conoscere per i primi secoli»[1], e
come sia più che legittima la convinzione che «i sacerdoti-giuristi e gli
antiquari degli ultimi secoli della repubblica, nel comporre le loro opere,
abbiano attinto a materiali d’archivio di prim’ordine, proprio perché ancora in
quel tempo si potevano leggere copie fedeli di documenti più antichi; i
frammenti di quelle opere sono dunque da ritenere non solo degni di fede, ma di
rilevante interesse per la soluzione dei problemi relativi a contenuti e termini
dei libri e dei commentarii sacerdotali»[2],
in questa sede sarà opportuno insistere sul rilevo da darsi al concetto di
inalterabilità delle espressioni linguistiche e del lessico religioso come
compito demandato innanzi tutto al collegio dei pontefici, ma anche di altre
comunità sacerdotali.
Proprio perché sia rispettata la pax deorum, cioè il patto che si vuole
stipulato alle origini tra i fondatori della Città e i loro dèi, quindi la
saldezza della compagine statale che su tale patto si fonda, occorre vigilare
non solo sulla rigorosa osservanza delle norme contenute nei testi sacri, ma
anche sulla corretta pronunzia dei nomi e delle formule. Ne deriva la funzione
precipua dei pontefici, gli unici che, secondo la tradizione, erano stati
autorizzati a custodire le copie autentiche delle scritture sacre attribuite a
re Numa e da questi consegnate al capostipite di tutti i pontefici, Numa
Marcio, per la loro custodia e salvaguardia. E di certo, nei primi secoli della
Città, essi furono anche gli attenti custodi ed esegeti del lessico attinente
alle cose divine, in primis dei nomi
autentici degli dèi, sia di quelli ereditati dai tempi antichi, sia di quelli
che col passare del tempo il senato e l’apposito collegio dei Duumviri (poi Decemviri e infine Quindecemviri)
Sacris Faciundis introducevano nello
spazio e nel tempo sacro dell’Urbe.
Sarà stato forse per contrasto, anche
indirettamente polemico, nei confronti dell’affievolito senso religioso del
tempo o, forse, più semplicemente per il naturale progredire degli studi di carattere
linguistico, fatto sta che ai tempi dell’antiquario Marco Terenzio Varrone e
del pontefice massimo Caio Giulio Cesare era tornato assai vivo l’interesse e
quindi attive le ricerche sul lessico pontificale[3].
Del resto, antiquari ed eruditi di primaria importanza per lo studio delle
discipline giuridico-religiose, come Servio Sulpicio, Trebazio Testa e lo
stesso Varrone (discepoli tutti di Elio Stilone), proprio in quanto
appartenenti al circolo di Cesare, pontefice massimo, avevano certamente accesso
agli archivi pontificali a scopo di studio e ricerca[4].
Alla stessa epoca, se non allo stesso
circolo, appartiene uno degli autori di cui ci occuperemo in questa occasione,
Veranio, mentre l’altro Granio Flacco, di poco lo precede o è di una
generazione precedente. Di Veranio (di cui è assolutamente incerto il prenome, Quintus, o il cognomen, Flaccus, che
alcuni studiosi moderni gli attribuiscono, senza molto fondamento)[5],
solo possiamo dire che nel I secolo a. C. scrisse due opere di rilevante
interesse giuridico-religioso, gli Auspiciorum
libri e le Pontificales Quaestiones,
ben note tutte e due a Festo e la seconda a Macrobio. Se di quest’ultimo lavoro
ci occuperemo con più ampiezza grazie ad un insieme relativamente abbondante di
riferimenti, assai scarsi, e tuttavia di un certo rilievo, sono i frammenti
pervenutici degli Auspiciorum libri.
Ecco il primo:
Referri
diem prodictam, id est anteferri, religiosum est, ut ait Veranius in eo, qui
est auspiciorum de comitiis: idque
exemplo conprobat L. Iuli et P. Licini censorum, qui id fecerint sine ullo
decreto augurum, et ob id lustrum parum felix fuerit[6].
Si fa qui riferimento alla 66a
lustrazione della storia romana, operata dai censori Lucio Giulio Cesare e Publio
Licinio Crasso nell’89 a. C. Tale brano non ci pare sia stato sinora
adeguatamente approfondito da chi si è occupato di diritto augurale e noi ci
limiteremo a segnalarne l’importanza sottolineandone, a nostro giudizio, non
tanto l’ipotesi di un caso di conflitto di competenze fra collegio degli auguri
e autorità censoria, quanto l’insistito rilievo posto su un esito “poco
propizio” (parum felix, secondo un’espressione che meglio analizzeremo più avanti)
di una cerimonia di lustrazione compiuta in anticipo sulla dies prodicta, cioè in antecedenza stabilita, e senza l’apposito decreto
degli auguri.
Fare questo, dice Veranio, religiosum est. È intanto da notare che
gli aggettivi religiosus e felix apparterrebbero ad un ambito
lessicale pontificale e non augurale, per quanto tendenti nell’uso ad una
connotazione meno specifica[7].
Una res, dice Elio Gallo, è
“religiosa” in quanto a violarla si offendono gli dèi[8].
Se «resta il fatto che i censori avevano l’auspicium
conferito dai comizi centuriati» e che l’esercitavano «per le loro attività»[9] –
e si trattava di auspicia maxima –
pare qui di capire che all’epoca (siamo nel pieno del bellum sociale e in un periodo di grandi turbolenze) in una certa
qual desuetudine dovevano essere «cadute consultazioni magistratuali e augurali
per certe attività», come giustamente rileva Catalano sulla scorta di alcune
affermazioni di Cicerone[10].
Paludati
in libris auguralibus significat, ut ait Veranius, armati, ornati. Omnia enim
militaria ornamenta paludamenta dici[11].
Questa espressione presumibilmente ricavata
da formule solenni di documenti dell’archivio del collegio degli auguri[12]
si riferisce senza dubbio alla cerimonia di presa degli auspici prima della
battaglia, di fronte all’esercito schierato, in cui i milites, come ha notato Catalano, «avevano una funzione intermedia
fra quella di pubblicità e quella di controllo»[13].
Non mi soffermo sul terzo frammento
riportatoci da Festo (silentio surgere)
per l’annotazione di scarso rilievo che comporta[14],
né su altre glosse di Festo che il solo Reitzenstein congettura essere derivate
dagli Auspiciorum libri di Veranio[15].
Di quest’opera ci sono noti i titoli di due
capitoli: de supplicationibus e de verbis
pontificalibus.
L’unico brano noto che si riferisca al de supplicationibus (contenente quindi
l’analisi di determinati tipi di cerimonie pubbliche) è riportato da Macrobio (Sat., III.6.14):
Sed
Veranius pontificalium eo libro quem
fecit de supplicationibus ita ait:
“Pinarius, qui novissimi comeso prandio venisset, cum iam manus pransores
lavarent, praecepisse Herculem ne quid postea ipsi aut progenies ipsorum ex
decima gustarent sacranda sibi sed ministrandi tantum modo causa, non ad epulas
convenirent; quasi ministros ergo sacri custodes vocari”.
In quanto vi si analizza la presenza e la
funzione della gens Pinaria al rito
erculeo dell’Ara Maxima, questo passo è interessante per i risvolti mitici che offre[16] e
per la considerazione che quel rito stesso, da gentilizio (cioè privato) che
era, divenuto pubblico ai tempi di Appio Claudio Cieco, fosse quindi
verosimilmente solo allora inserito nel formulario delle supplicationes pubbliche contenute nei libri pontificali.
Più ricco è l’apporto che Festo e Macrobio
ci forniscono alla conoscenza del capitolo de
verbis pontificalibus, contenente quindi una vera e propria esposizione
inerente al lessico dei pontefici, il cui materiale sarà stato verosimilmente
derivato studiando, nel loro archivio, quei libri
e commentarii includenti i sacra privata et publica, le comprecationes deorum e gl’indigitamenta[17].
Delle sette espressioni sicuramente derivate
dal de verbis pontificalibus, una si
riferisce ad un verbo, due a sostantivi e quattro ad aggettivi del lessico
sacro.
Sulla scorta di Quinto Fabio Pittore, non
l’annalista, ma l’antiquario, che intorno al
Nam
et ex disciplina haruspicum et ex praecepto pontificum verbum hoc sollemne
sacrificantibus est; sicut Veranius ex primo libro Pictoris ita dissertationem
huius verbi executus est: “Exta porriciunto, dis danto, in altaria aramve focumve
eove quo exta dari debebunt”. “Porricere” ergo, non “proicere” proprium
sacrificii verbum est, et quia dixit Veranius “in aram focumve eove quo exta
dari debebunt”, nunc pro ara et foco mare accipiendum est cum sacrificium dis
maris dicatur[20].
Considerata la solennità del reiterato
imperativo futuro, non c’è alcun dubbio che la formula derivi dai libri pontificali,
dal momento che si precisa trattarsi di un verbum
… sollemne sacrificantibus, derivato vuoi ex disciplina haruspicum, ma anche ex praecepto pontificum, “da precisa disposizione dei pontefici”.
Una indicazione preziosa, questa, perché ci fa intravedere un ambito semantico
sacrale comune all’ordo haruspicum e al collegium pontificum, cosa di cui non c’è da stupirsi, dal momento
che gli aruspici, pur non confondendosi coi collegia
e con le sodalitates, sono i
depositari di una tecnica divinatoria particolare che esercitano nei sacra eseguiti Romano ritu: quindi non sottoposti ai Sacris Faciundis, custodi dei sacra
peregrina, ma naturalmente soggetti alla sorveglianza dei pontefici. Ed è
stato notato che «tutto il lessico della Haruspicina
è latino e senza dubbio molto antico»[21].
In ogni caso, è questa una ulteriore e
preziosa testimonianza dell’interesse rivolto dal collegio pontificale alla
corretta interpretazione del significato di espressioni religiose tendenti col
tempo a entrare in un’area semantica più generalizzata.
I due sostantivi appartenenti ai verba pontificalia analizzati da Veranio
ci introducono, rispettivamente, nel mondo delle Vestali e in quello del
Flamine maggiore:
Muries
est, quemadmodum Veranius docet, ea quae fit ex sali sordido, in pila pisato,
et in ollam fictilem coniecto, ibique operto gypsatoque et in furno percocto;
cui virgines Vestales serra ferrea secto, et in seriam coniecto, quae est intus
in aede Vestae in penu exteriore, aquam iugem, vel quamlibet, praeterquam quae
per fistulas venit, addunt, atque ea demum in sacrificiis utuntur[22].
Offendices ait esse Titius nodos, quibus apex retineatur
et remittatur. At Veranius coriola existimat, quae sint in loris apicis, quibus
apex retineatur et remittatur, quae ab offendendo dicantur. Nam
cum ad mentum perventum sit, offendit mentum[23].
È
evidente, nel primo caso, che senza la preziosa indicazione di Veranio,
riportataci da Festo, noi ignoreremmo le esatte caratteristiche del complesso
procedimento di preparazione di un elemento essenziale per la celebrazione di
molte cerimonie pubbliche (la salamoia per i sacrifici) e la funzione
esercitatavi dalle vergini Vestali; mentre, nel secondo caso, apprendiamo
particolari magari secondari, ma utili a ricostruire più esattamente almeno
parte del pittoresco abbigliamento del Flamine Diale, vale a dire del suo
veramente speciale copricapo che, come è noto, poteva deporre solo quando si
sentiva in punto di morte.
È presumibile che anche qui Veranio abbia
attinto al De iure pontificio di
Fabio Pittore, dal momento che vi fa esplicito riferimento Aulo Gellio (X, 15)
nella sua lunga e dettagliata descrizione delle cerimoniae impositae Flamini Diali multae, item castus multiplices.
Tre dei quattro aggettivi del lessico sacro
discussi da Veranio concernono appellativi delle vittime da offrirsi nel corso
di cerimonie pubbliche e private e pertanto offrono uno speciale interesse:
“Eximii”
quoque in sacrificiis vocabulum non poeticum ™p…qeton, sed sacerdotale nomen est.
Veranius enim in Pontificalibus Quaestionibus
docet eximias dictas hostias quae ad sacrificium destinatae eximantur e grege,
vel quod eximia specie quasi offerendae numinibus eligantur[24].
Prodiguae
hostiae vocantur, ut ait Veranius, quae consumuntur; unde homines luxuriosi,
prodigi[25].
Praesen<tanea>
porca dicitur, ut ait Veranius, quae familiae purgandae causa Caereri
immolatur, quod pars quaedam eius sacrificii fit in conspectu mortui eius,
cuius funus instituitur[26].
Dunque, chiaro risulta l’esatto senso da
darsi all’aggettivo eximius, non un
semplice epiteto esornativo, bensì sacerdotale
nomen, in quanto riferito a quelle vittime quae ad sacrificium destinatae eximantur, vengono cioè scelte
dall’armento in virtù delle loro specifiche qualità come più adatte agli dèi.
E lo stesso può dirsi per la prodigalitas di certe vittime, che
assume un significato obiettivamente positivo.
Il carattere agricolo e nel contempo infero
della dea Cerere è dimostrato poi nel passo di Veranio sul sacrificio della porca praesentanea, da immolarsi da
parte dei famigliari in presenza del cadavere ancora caldo di un loro congiunto.
In tal caso è evidente come l’espressione sia ricavata dai libri dei pontefici
in quella parte che regolava il diritto funerario della religione privata, cioè
il necessario rito propiziatorio in onore di Cerere.
Cosa che, in un certo modo, è confermata da
Aulo Gellio, laddove, citando il quinto libro del de pontificio iure di Ateio Capitone, parla della porca praecidanea offerta a Cerere nei
tempi più antichi per tutte quelle trasgressioni e omissioni che qualcuno
avesse potuto commettere nei doveri di pietà verso i morti[27].
Data la sua specifica importanza nella
pratica religiosa, mi soffermerò particolarmente sull’ultimo aggettivo
pertinente al lessico pontificale di cui fa parola Veranio in riferimento alle
piante: felix.
Sciendum
quod ficus alba ex felicibus sit arboribus, contra nigra ex infelicibus. Docent
nos utrumque pontifices. Ait enim Veranius de
verbis pontificalibus: “Felices arbores putantur esse quercus, aesculus,
ilex, suberies, fagus, corylus, sorbus, ficus alba, pirus, malus, vitis,
prunus, cornus, lotus”[28].
Occorre innanzitutto chiarire il significato
del termine felix e del suo contrario
infelix. Spesso si vede tradotto felix con “fruttifero” e infelix con “sterile”, traduzione che di
per sé non sarebbe del tutto inesatta se non la si intendesse per lo più in
senso esclusivamente materiale. Se consideriamo come certi grandi personaggi e
condottieri della storia romana fossero definiti felices, ad esempio Silla (Sulla
felix), o come
E tuttavia non è questo il significato
definitivo che dovremo dare a felix.
In realtà questi personaggi si possono definire felices perché tutto ciò che è connesso alla loro persona, sin
dalla nascita, si potrebbe dire, deve necessariamente cadere “sotto buoni
auspici”.
La loro felicitas
è un dato di fatto auspicale che viene semplicemente riconosciuto: da Giove in
persona, come nel caso di Romolo, o dal senato, come nel caso di Ottaviano, che
da quello sarà definito Augustus.
Così, tornando alla dottrina pontificale
trattante la botanica sacra, Veranio chiarisce quali siano ritenuti gli arbores felices, gli “alberi di buon
augurio”. Non stupisce di trovare, fra le quattordici specie indicate, ben
quattro varietà di quercia (rovere e leccio, sacri anche a Virbio, la divinità
dimorante nel nemus Aricinum[29],
sughera e ischio – o eschio ed eschia, oggi chiamato più comunemente farnia) e
la vite: alberi strettamente legali al dio padre supremo, Giove. Inoltre il
loto (che è il loto italico, pianta terrestre e legnosa, da non confondersi col
loto indiano, caro all’iconografia delle religioni orientali) era pianta
gradita a Romolo ed un esemplare, ritenuto aequaeva
Urbi, “contemporaneo alla città” (Plinio, XVI.236), si innalzava nei pressi
del santuario romuleo del Volcanal.
Infine è da supporre che il cornus, il corniolo, fosse pianta sacra
a Marte, considerato che un giavellotto fatto con quel legno dalla punta
indurita dal fuoco era scagliato da uno dei Feziali in territorio nemico come
dichiarazione formale di guerra, equivalendo al furor Martis che vi penetrava devastatore. Anche per questo motivo,
per il fatto di essere utilizzato nella fustigazione preliminare dei parricidi,
il corniolo non doveva assolutamente essere ritenuto arbor infelix, come a torto hanno ritenuto alcuni autori moderni[30].
All’elenco di Veranio va certamente aggiunta
un’altra pianta, quella dell’olivo, dal momento che un suo frammento, la virga olaginea, sormontava l’apex del Flamine Diale, fissato
all’estremità con un filum di lana e tenuto
fermo dalle offendices che già
Veranio ci ha descritto in precedenza.
Sempre il Flamine Diale, come è noto,
presiedeva all’inaugurazione della vendemmia e tagliava, quindi, il primo
tralcio di vite nell’intervallo del sacrificio a Giove e sempre lui doveva far
seppellire i propri capelli e le unghie recise sotto la protezione di una arbor felix[31].
Tutti questi particolari, uniti a quello, essenziale, che il rinnovamento del
fuoco il 1° marzo, nel tempio di Vesta da parte delle vergini Vestali e in ogni
casa da parte dei privati, poteva avvenire per mezzo dello sfregamento di legni
esclusivamente provenienti da arbores
felices, ci fa comprendere come la condizione di felicitas di quelle essenze arboree, il loro essere “di buon
augurio”, derivava loro dal trovarsi sotto la tutela degli dèi celesti o superi
ed in particolare dal padre celeste Iuppiter.
La riprova a contrario ci è fornita dall’affermazione esplicita di un altro
autore di epoca cesariana e di probabile origine etrusca, Tarquizio Prisco, che
tradusse in latino dall’etrusco un’opera importante sull’interpretazione dei prodigi:
quel De ostentario[32],
che doveva avere avuto molto successo se ancora nel IV secolo d.C. inoltrato,
all’epoca dell’imperatore Giuliano, veniva pubblicamente consultata[33].
Nella parte dedicata ai “prodigi degli
alberi” (de ostentario arborario)
egli afferma:
Arbores
quae inferum deorum avertentiumque in tutela sunt, eas infelices nominant:
alaternum, sanguinem, filicem, ficum atrum, quaeque bacam nigram nigrosque fructus
ferunt; itemque acrifolium, pirum selvaticum, pruscum rubrum, sentesque, quibus
portenta prodigiaque mala comburi iubere oportet[34].
Dunque, gli arbores infelices o di “cattivo augurio” sono quelli sotto la
tutela degli dei inferi e di quelli “allontanatori dei mali”. Questa
espressione – deorum avertentium –
oltre a riportarci a quel misterioso deus
Averruncus (il verbo averrunco è termine tecnico pontificale)
di cui parla Varrone[35],
ci fa capire come la loro connotazione relativamente negativa, dovuta al legame
con la sfera infera, sia peraltro compensata dalla possibilità di stornare,
appunto, cose od oggetti funesti tramite il fuoco della loro legna. Il caso di
Veranio e di Tarquizio Prisco ci rimanda nuovamente (lo abbiamo visto col verbo
porricere) ad un’area semantica
comune al collegio pontificale e all’ordo
haruspicum.
Granio Flacco (da non confondersi con Granio
Liciniano, vissuto all’epoca degli Antonini) fu un giurista ed antiquario più o
meno contemporaneo a Veranio se, a quanto pare, dedicò il suo De indigitamentis a quel Lucio Giulio
Cesare che fu console nel
In genere, dagli antichi, come Macrobio (Sat., I.18.4), o dai pochi moderni che
ne hanno accennato, il nome di Granio Flacco è associato, per la sua
autorevolezza in materia giuridico-religiosa, a quello di Varrone[38],
il che ci rafforza nella convinzione che anch’egli, come Veranio, avesse forse
fatto parte dello stesso circolo che si richiamava ad Elio Stilone come
maestro, come proverebbe anche il riferimento che troveremo in una citazione di
Arnobio. Per A. Pastorino, addirittura, la restaurazione religiosa operata da
Augusto sarebbe in gran parte stata delineata «sulle tracce delle ricerche
erudite di Granio Flacco e di Terenzio Varrone»[39].
Al De
indigitamentis possiamo attribuire tre frammenti trasmessici da Macrobio,
Censorino e Arnobio.
Haec
quae de Apolline diximus possunt etiam de Libero dicta existimari. (…) Unde et
Apollini et Libero patri in eodem monte res divina celebratur. Quod cum et Varro et Granius Flaccus adfirment,
etiam Euripides…[40].
Eundem esse Genium et Larem multi veteres memoriae
prodiderunt, in quis etiam Granius Flaccus in libro quem ad Caesarem de indigitamentis scriptum reliquit[41].
Novensiles – Granius Musas putat consensum accomodans
Aelio[42].
In tutti questi casi si tratta di
identificazioni e confronti fra entità divine di differente natura, come nel
caso del Lar (familiaris) e del Genius
(qui Granio probabilmente confutava una interpretazione popolare priva di
fondamento teologico) o, come nel caso di Apollo|Dionisio|Padre Libero e dei
Novensiles|Musae, di interpretationes
di nomi divini e della specificazione di epiteti e funzioni diverse delle
divinità, che doveva essere chiarita negli indigitamenta
dei pontefici[43].
Nel V secolo a.C. Apollo, in qualità di Medicus (“Guaritore”) aveva fatto il suo
ingresso nei culti ufficiali. Nel 433 era stato votato il suo tempio in
occasione di un’epidemia e dedicato nel 431 dal console Gneo Giulio
Mentone in pratis Flaminiis[44]:
l’epoca stessa a cui dovrebbe risalire l’indigitazione apollinea delle vergini
Vestali riferita da Macrobio: ita
indigitant: “Apollo Medice, Apollo Pean”[45].
Dal momento che pare abusivo ritenere il
culto romano di Apollo risalente all’età monarchica[46],
se non altro perché si sa come non fosse compreso negli antichissimi indigitamenta attribuiti a Numa Pompilio[47],
ne deriva che quei formulari di nomi divini che erano gli indigitamenta dovevano essere continuamente aggiornati dai
pontefici, bene attenti alla trascrizione precisa dei nomi, da pronunciarsi con
estrema esattezza. In effetti, nel caso specifico, Aperta – e non Apollo – pare venisse chiamato il dio in epoca
arcaica, prima della sua omologazione ufficiale[48].
Più oscuro il confronto fra Musae e Novensiles, dal momento che di queste ultime entità collettive,
invocate dopo i Lares e prima degli Indigetes nella celebre formula della devotio riportata da Livio (VIII.9.6),
ben poco si sa allo stato attuale degli studi, tanto più che sin dai tempi di
Livio Andronico le Musae erano state
identificate alle Camenae, Casmenae o Carmenae della tradizione indigena (cfr. Ennio, Ann. 2 V; Varr., L.L., VII.3.26).
Si tratta in ogni modo di una specifica
categoria di indigitamenta: elenchi
di epiteti con cui una divinità poteva essere invocata per una determinata
funzione e/o in un momento particolare e il cui elenco era presente probabilmente
non solo negli archivi dei pontefici, ma anche di altre comunità sacerdotali.
All’abbigliamento delle sacerdotesse ci
riconduce questo frammento di Granio Flacco dal suo commento allo ius Papirianum:
Ricae
et riculae vocantur parva ricinia ut palliola ad usum capitis facta.
Gran<ius> quidem ait esse muliebre cingulum capitis, quo pro vitta
flaminica redimiatur[49].
La rica
era, cioè, una sorta di scialletto che ricopriva, con funzione di benda sacerdotale,
il capo della Flaminica, la moglie
del Flamine Diale, nel corso delle molteplici cerimonie a cui era addetta.
Di maggiore interesse un altro brano,
ricavato da Macrobio, se il nome dell’autore, incerto nella tradizione manoscritta[50],
è da riconoscersi in Granio, come vuole il Willis, curatore dell’edizione
Teubner dei Saturnalia:
“Prius
itaque et Tuscos aeneo vomere uti cum conderentur urbes solitos, in Tageticis
eorum sacris invenio et in Sabinis ex aere cultros quibus sacerdotes tonderentur”[51].
Passo importante perché
confermerebbe l’origine etrusca dei rituali di fondazione delle città – e
quindi di Roma, secondo la tradizione concorde (Catone, Varrone, Livio,
Dionigi, Plutarco, Servio, Giovanni Lido) – con un aratro dal vomere
rigorosamente di bronzo, il cui uso risale quindi ad un’epoca protostorica.
D’altronde, il divieto rituale dell’uso del
ferro, in piena epoca storica, è ben attestato in più di un documento
sacerdotale romano: ad esempio nel rituale dei Fratelli Arvali presso il
santuario di Dea Dia al quinto miglio della Via
Campana[52].
In definitiva, e non soffermandoci su pochi altri
brani di scarsa rilevanza[53]
o di incerta attribuzione[54],
anche quello di Granio Flacco, dopo Veranio, appare come un apporto rilevante
non solo ai fini dello studio del lessico sacro, ma per una migliore determinazione
di certi settori dei libri dei collegi sacerdotali, in ispecie di quelli dei
pontefici. Scarsi frammenti, per la verità, recuperati dal naufragio di una
imponente documentazione di natura giuridico-religiosa, ancora in buona parte
accessibile nella tarda antichità, ma andata irrimediabilmente perduta al
tramonto di quel mondo.
[1] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960,
108-109 (qui il riferimento è ai Libri
degli auguri).
[3] In riferimento al diritto augurale, P.
CATALANO (op. cit., 108) ne spiega
l’interesse nel primo secolo a. C. per «l’incidenza che aveva nella lotta
politica», non in contrasto «con il disinteresse che sempre più si faceva
strada, nonostante gli sforzi di alcuni, per l’aspetto più propriamente
tecnico-divinatorio».
[4] Cfr. F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, Firenze 1968, 79-80; F. SINI, op. cit., 97, 123 e n. 39.
[5] Cfr. F. SINI, op. cit., 130, n. 66, che cita R. REITZENSTEIN, Verrianische Forschungen, Breslau 1887,
47, n. 1; F.P. BREMER, Iurisprudentiae
Antehadrianae quae supersunt, II, 1, Leipzig 1896, 5 ss.; M. SCHANZ-C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, München 19354 (rist. an.
1959), 600.
[8] Cit. in Fest., p.
[15] Cfr. R. REITZENSTEIN, Verr. Forsch., cit., 47, n. 1. Il riferimento è alle glosse: manalis fons, manes di, minora templa, peremne, puls.
[16] Mi è capitato di sostenere che i «collegi
sacerdotali non furono tanto i depositari di tradizioni mitiche o dogmatiche,
quanto i fedeli conservatori di antichissime norme di culto» (Dèi e Miti italici, Genova 19983,
28), ma il caso del culto e del mito di Ercole presso l’Ara Maxima è del tutto speciale e probabilmente vi ha influito
precocemente un elemento non italico.
[17] Seguo la ripartizione, che mi pare
corretta, offerta da G.B. PIGHI, La
preghiera romana, in AA.VV., La
preghiera, Roma 1967, 575-576.
[20] Macr., Sat.
III.2.3-4 (cfr. FUNAIOLI 432, 9). È da precisare che in questo brano Macrobio
fa parlare Vettio Agorio Pretestato sul diritto pontificale in Virgilio, cioè
la massima autorità in materia nel IV secolo d. C.
[27] Gell., IV.6.8. Vedi anche Fest.,
[29] Cfr. R. DEL PONTE, Dei e Miti italici, Genova 19983, 190. Sull’importanza e
il significato della quercia nella tradizione romana, cfr. ID.,
[30] Cfr. M. BAISTROCCHI, Il Tevere sacro: acque risanatorie e purificatrici, in Ignis,
I, n.s., 2 (dicembre 1990), 170; A. CARANDINI, La nascita di Roma, Torino 1997, 401, n. 56.
[31] Se in latino le piante sono di genere
femminile vi è un valido motivo di fondo. Se infatti oggi il genere
grammaticale è immotivato, in origine fu determinato da una personificazione o
divinizzazione di cose che a noi paiono inanimate (come l’acqua e il fuoco) o
di fenomeni naturali (come il tuono, la pioggia, il giorno e la notte). Se
dunque all’acqua o al fuoco, intesi come esseri e creature viventi, si
attribuiva un sesso, si può ben intendere come la terra (Tellus), madre degli animali e delle piante, custode dei semi e del
segreto del loro sviluppo, non sia mai stata concepita di genere maschile in
nessuna delle lingue indoeuropee. Così in latino il nome degli alberi era
femminile in quanto creature che producono, mentre i frutti sono neutri (per lo
stesso motivo in tedesco e in greco antico i bambini molto piccoli sono
ritenuti di genere neutro). Malus, pirus, ad es., sono femminili, ma neutri
sono i loro frutti (malum, pirum). Il che ci permette forse di
giungere ad una considerazione di un certo peso: che nel mondo romano anche la
specificazione del sesso avesse, almeno in origine, un esplicito valore
giuridico-religioso (avvertibile nella nota formula rituale sive mas sive femina).
[33] Cfr. Amm. Marc. XXV.27, circa la
consultazione ex Tarquitianis libris in
titulo “de rebus divinis” da parte degli aruspici prima della battaglia
fatale che in Persia avrebbe causato la morte dello stesso Giuliano proprio per
non averne seguito le indicazioni.
[34] Macr., Sat.,
III.20.3 (Tarquitius autem Priscus in
“ostentario arborario” sic ait:…). Un’altra citazione di Tarquizio Prisco
in Macrobio (III.7.2) concerne il prodigio di un insolito mutamento di colore
del vello dei montoni, presagio della felicitas
di un imperator. Cfr. in merito J.
CARCOPINO, Virgile et le mystère de
[35] Cfr. VARR., L.L., VII.102: Apud Pacuvium:
“Di monerint meliora atque amentiam averruncassint <tuam”. Ab> avertendo averruncare, ut deus qui in eis rebus
praeest Averruncus. Itaque ab eo precari solent, ut pericula
avertat. Per il verbo cfr.
anche Cic., Att., 9.21.1 (Di averruncent ...) e Paul. (Fest.),
511.15, che si rifà certamente a Varrone. Forse Averruncus può annoverarsi fra gli dei funzionali elencati negli indigitamenta dei pontefici.
[36] È il parere di G.B. PIGHI, La preghiera, cit., 577 e ID., La religione romana, cit., 46. Cfr.
Macr., Sat., I.16.29 e Cens., die nat., III.2.
[38] Cfr. G.B. PIGHI, La preghiera, cit.: «Degli indigitamenta
si possiede una sola definizione, che io credo si debba accettare, perché
risale a Varrone; e Varrone disponeva non solo dei testi, ma anche di una
trattazione speciale, contenuta nel libro de
indigitamentis di Granio Flacco» e ID., La
religione romana, cit.: «La definizione di Servio viene per più mani da
Varrone, che s’era fondato, tra l’altro, sul libro de indigitamentis di Granio Flacco».
[42] Arnob., Adv.
Nat., 38.1. Si veda anche 31.1 (sulla identificazione operata da Aristotele
fra Luna e Minerva, sempre sulla scorta di Granio Flacco).
[43] Sull’argomento cfr. i miei lavori: Aspetti del lessico pontificale: gli
“indigitamenta”, in Ius Antiquum-Drevnee Pravo (Mosca) 5, 1999,
154-160;
[47] Vedi Arnob., Adv.
Nat., 2.73: doctorum in litteris continetur Apollinis nomen Pompiliana
indigitamenta nescire.
[48] Cfr. G. PERUZZI, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, 49, che
riporta in nota 88 un passo di Festo (21, 1-
[50] Altri commentatori (così N. Marinone per
l’edizione UTET) preferiscono leggervi il nome di Carminio, grammatico studioso di antichità ben noto a Servio.
[52] Ho ritenuto, in altra sede, che tale
rituale possa risalire, nelle sue linee essenziali, ai primi tempi della
monarchia. Cfr. R. DEL PONTE,