Università di Brescia
Sommario: 2.1. Clarigatio. – 2.1.1. I feziali. – 2.1.2. Rerum repetitio.
– 2.1.3. Testatio. – 2.2. Indictio belli.
– 2.2.1. Censere, consentire, consciscere bellum. – 2.2.2. Emittere hastam.
– 2.3. Conclusioni.
Livio[1], narrando il periodo della monarchia romana, individua in Anco
Marcio[2], successore — secondo la leggenda — di Tullo Ostilio, il re che,
ispirandosi ai costumi dei vicini Equicoli[3] e imitando le procedure di pace volute dal re Numa Pompilio,
introdusse i rituali giuridici per principiare l’attività bellica «a se (= Anco Marcio) bellicae caerimoniae proderentur, nec gererentur solum, sed etiam
indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente Aequicolis, quod nunc
fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur»[4].
Dal paragrafo 6 al paragrafo 14 del testo è descritto
minuziosamente il cerimoniale per dare inizio alla guerra, come indica
l’espressione «bellum indico facioque»[5]:
Liv. 1,32,6-14: 6. Legatus
ubi ad fines eorum venit unde res repetuntur, capite velato filo — lanae
velamen est — “Audi, Iuppiter”, inquit; “audite, fines” — cuiuscumque gentis
sunt, nominat —, “audiat fas: ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste
pieque legatus venio, verbisque meis fides sit”. 7. Peragit deinde postulata. Inde Iovem testem facit: “Si ego iniuste
impieque illos homines illasque res dedier <p.r.> mihi exposco, tum
patriae compotem me numquam siris esse”. 8. Haec cum fines suprascandit, haec quicumque ei primus vir obvius
fuerit, haec portam ingrediens, haec forum ingressus paucis verbis carminis
concipiendique iuris iurandi mutatis peragit. 9. Si non deduntur [quos] <quae>[6] exposcit, diebus tribus et triginta —
tot enim sollemnes sunt — peractis bellum ita indicit: 10. “Audi, Iuppiter, et tu,
Iane Quirine, diique omnes caelestes, vosque terrestres, vosque inferni,
audite: ego vos testor populum illum” — quicumque est, nominat — “iniustum esse
neque ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo
pacto ius nostrum adipiscamur”. Tum …[7] nuntius Romam ad consulendum redit. 11. Confestim rex his ferme
verbis patres consulebat: “Quarum rerum, litium, causarum condixit pater
patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque
Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec fecerunt nec solverunt, quas res
dari, fieri, solvi, oportuit, dic” inquit ei quem primum sententiam rogabat,
“quid censes?” 12. Tum ille: “Puro pioque duello quaerendas
censeo, itaque consentio consciscoque”. Inde ordine alii rogabantur; quandoque
pars maior eorum qui aderant in eandem sententiam ibat, bellum erat consensum.
Fieri solitum ut fetialis hastam ferratam aut sanguineam praeustam ad fines
eorum ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: 13. “Quod populi Priscorum Latinorum homines[ve]
<que>[8] Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt,
quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusve
populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit ut bellum cum Priscis
Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus <Quiritium>[9] populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico
facioque”. 14. Id ubi dixisset, hastam in fines eorum
emittebat. Hoc tum modo ab Latinis repetitae res ac bellum indictum, moremque
eum posteri acceperunt[10]
Alcuni studiosi hanno sollevato dubbi sulla rispondenza del
formulario liviano agli antichi verba
feziali per l’indizione della guerra[11].
Tuttavia, ad un’attenta lettura, il brano rivela una sicura
coerenza testuale; una indicativa precisione nell’uso di alcune espressioni
tecniche[12]; il ruolo rilevante della parola accompagnata dal gesto, tipico
di una cultura dominata dall’oralità quale fu quella della Roma arcaica[13]; la presenza del pater
patratus dell’antico collegio dei feziali[14]; l’affinità con altri schemi di rituali arcaici[15]. Sono tutti elementi che mi inducono a ritenere che lo storico
patavino abbia riprodotto, con qualche incertezza riconducibile alla lontananza
della materia trattata e ai suoi mutamenti nel tempo, l’antico rituale
giuridico-religioso mediante il quale i Romani davano inizio alla guerra[16]. La documentazione su cui si basò fu quella degli annalisti,
come ad esempio Gaio Licinio Macro e Valerio Anziate, entrambi della prima metà
del I sec. a.C.[17].
Sulla controversa questione sono quindi d’accordo con quella
parte della dottrina[18], che ritiene sostanzialmente autentica la testimonianza liviana.
Alcuni studiosi hanno riscontrato nella descrizione di Livio fasi
differenti nella procedura d’inizio del conflitto armato.
Una parte di essi individua tre momenti: la rerum repetitio, cioè la richiesta al popolo antagonista della
riparazione del danno da parte del pater
patratus romano; la testatio deorum,
cioè il ritorno dopo 30 giorni dei feziali presso la controparte inadempiente
per dichiarare, chiamando gli dèi a testimoni, l’esistenza di una causa
legittima di guerra; infine, la indictio
belli, cioè il lancio, dopo 33 giorni, dell’asta magica nel territorio
nemico, avendo il senato deciso e il popolo approvato il conflitto armato[19].
Altri, invece, colgono quattro momenti. Ad esempio,
Personalmente ritengo che nell’esposizione fatta da Livio si
possano cogliere atti autonomi della procedura, disposti in successione
temporale, riconducibili a due fasi, rispettivamente dal paragrafo 6 al 10 e
dal paragrafo 11 al 14.
La prima fase (§§ 6-10) è caratterizzata interamente dall’azione
dei feziali che portavano a conoscenza del popolo antagonista, per mezzo di
formule orali accompagnate da gesti circoscritti, le richieste romane.
Assumono particolare rilevanza i protagonisti e i contenuti
dell’atto. Mi soffermerò, per il primo aspetto, sul collegio sacerdotale
feziale; per il secondo sulla rerum
repetitio e sulla testatio.
Con riferimento al soggetto principale dell’azione, Livio nel
descrivere l’inizio della procedura (§ 6), rileva che un legatus, con il capo fasciato da una benda di lana, si recava sul
confine del territorio del popolo nemico a res
repetere.
Il portato magico-religioso del particolare abbigliamento[24] insieme agli atti formali e solenni, compiuti dal soggetto in
questione, fanno ritenere con certezza che doveva trattarsi di un membro
autorevole dell’antico collegio sacerdotale dei feziali[25], le cui origini sono avvolte nelle nebbie della genesi di Roma[26].
Il termine legatus,
quindi, non è riferibile al funzionario laico della media e tarda repubblica
romana delegato dal senato a trattare gli aspetti bellici con altri popoli[27], ma esprime il significato, che gli è proprio, di ambasciatore,
come poco più avanti si esplicita nell’espressione “publicus nuntius populi Romani”, messaggero delle volontà del
popolo romano[28].
Il riferimento al nuntius,
permette di stabilire un parallelo tra questo atto e la stipula dei ‘trattati
internazionali’ in epoca arcaica, dove il feziale verbenarius, ricevuta l’autorizzazione dal rex di manifestare la volontà del popolo romano, la trasmetteva con
gesto magico-religioso al pater patratus
preposto alla formalizzare del foedus[29].
Il soggetto, inviato dai Romani in territorio nemico, era quindi
il pater patratus[30], come conferma più avanti il contenuto del paragrafo 11.
L’indicazione di un membro autorevole del collegio sacerdotale, colui al quale
in concreto si demandava l’attuazione delle formalità della procedura bellica
(come di quelle di pace), spiega l’uso del termine legatus al singolare. E ciò ridimensiona la pur giusta osservazione
di Ogilvie[31] secondo cui doveva trattarsi di una delegazione di più persone[32].
Ne abbiamo una riprova in:
Varr., De vit. pop. rom.
2,75 R. (= 31 K.): […]
priusquam indicerent bellum is, a quibus iniurias factas sciebant, fetiales
legatos res repetitum mittebant quattuor, quos oratores vocabant[33].
Secondo Varrone, gli antichi Romani, quando ritenevano di aver
subito un’offesa da un altro popolo, affidavano ai feziali il compito di
esigere soddisfazione (res repetere)
dalla comunità antagonista, prima di procedere con un’azione di guerra.
La funzione dei feziali non era, quindi, di decidere l’azione
bellica quanto piuttosto di approntare le procedure rituali, preparatorie alla
guerra[34]. Un’attività più giuridica, o meglio giuridico-religiosa se
riferita alla storia arcaica di Roma, che politica[35]; volta a veicolare, secondo i corretti schemi formali delle
relazioni tra Roma e le altre città-stato[36], le decisioni politiche del senato prima, dei senatori e del
popolo poi[37].
In tale ottica deve essere interpretato il verbo disceptare, riferito all’attività dei
feziali in un passo del De legibus di
Cicerone:
Cic., leg. 2,9,21: Foederum pacis belli indotiarum ratorum
fetiales iudices, non<tii> sunto, bella disceptanto[38].
Non condivido la proposta di Ferrary di sostituire l’espressione
“bella disceptanto” con la più
verosimile ma ingiustificabile sul piano testuale “bella denuntianto”[39]. Il disceptare
implica, come ha colto a suo tempo Gandolfi[40], «esaminare e decidere una questione, come atto di giudice»[41]. I feziali erano quindi esperti di diritto, non soltanto quando
dovevano dirimere a livello internazionale questioni in materia di sacrosanctitas degli ambasciatori[42] ma anche quando dovevano predisporre le corrette procedure per
indire la guerra[43] o stipulare la pace[44].
Se ne ha conferma in un altro testo di Varrone:
Varr., l.l. 5,86: Fetiales, quod fidei publicae inter populos
praeerant; nam per hos fiebat, ut iustum conciperetur bellum et inde desitum ut
foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, antequam conciperetur,
qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus; quod fidus Ennius scribit
dictum[45].
Il tratto distintivo del collegio sacerdotale era dunque quello
di amministrare giuridicamente i rapporti tra i popoli, custodendo le procedure[46], come la rerum repetitio,
per promuovere bella iusta o gli
schemi formali, come il foedus, per
la stipula di trattati di pace.
I feziali, come esperti di diritto internazionale, ebbero un
ruolo determinante nel periodo del «innerer Formalismus»[47]; ruolo che andò ridimensionandosi fin quasi a scomparire con il
processo di laicizzazione del diritto, che investì anche la sfera pubblica[48].
Si può quindi seguire Walbank
quando rileva un processo di secolarizzazione del corpo feziale, ma non nel
senso di una trasformazione dei feziali in legati, come egli afferma, quanto
piuttosto nella direzione indicata dalla ricerca di Loreto di una perdita di
ruolo dei feziali, fin dalla fine del IV secolo a.C., con l’introduzione di una
“misura di discrezionalità” sulla pace e la guerra a favore dei legati
senatori, che determinò «una modificazione radicale e profonda del meccanismo
decisionale» negli affari internazionali romani[49].
Proviamo ora a capire in cosa consistesse l’incarico affidato al pater patratus, soffermandoci sui
contenuti della sua azione.
È mia convinzione che l’agire del pater patratus, descritto da Livio dal paragrafo 6 al paragrafo 10,
possa essere messo in relazione alla enigmatica figura della clarigatio[50]. Il termine risultava essere oscuro fin dai tempi di Quintiliano
(I sec. d.C.): Opus est aliquando
finitione obscurioribus et ignotioribus verbis, quid sit clarigatio…[51].
La stessa spiegazione di Servio, di qualche secolo più tarda
(IV-V sec. d.C.), lascia nell’incertezza. Nel commentare l’espressione dell’Eneide “res rapuisse licebit”, il grammatico fa riferimento alla clarigatio, rinviando ad una duplice
etimologia: aut a clara voce, qua
utebatur pater patratus, aut a klhroi, hoc est sorte: nam per bellicam sortem invadebant agros hostium[52]. Dell’origine greca non v’è traccia in un precedente commento,
dove invece si insiste essenzialmente sull’usanza del pater patratus di dichiarare con voce chiara il diritto leso dei
Romani: haec clarigatio dicebatur a
claritate vocis[53].
Risalendo ad una testimonianza di Varrone (II-I sec. a.C.), si
deduce che un elemento centrale della clarigatio
era il res repetere:
Varr., l.l. 5,86: […] Ex his (= feziali) mittebantur, ante quam conciperetur, qui res repeterent […]
Nel testo, già citato a proposito della funzione del feziale, si
dice con molta puntualità che il res
repetere veniva esercitato dai feziali prima della dichiarazione solenne di
guerra[54].
In un’altra testimonianza dell’erudito latino, anch’essa
riportata in precedenza, si legge che l’attività feziale, prima dell’indictio belli, consisteva nell’esigere
soddisfazione (res repetere):
Varr., De vit. pop. rom.
2,75 R. (= 31 K.): […]
priusquam indicerent bellum is, a quibus iniurias factas sciebant, fetiales
legatos res repetitum mittebant quattuor […]
L’intervento dei feziali, contemplato dopo l’offesa e prima della
guerra[55], consisteva nel res
repetere.
In questa prospettiva per comprendere la funzione della clarigatio, è significativo
riconsiderare nella sua interezza un testo di Servio, cui si è fatto cenno
all’inizio del paragrafo:
Serv., Aen. 9,52: principium
pugnae hoc de Romana sollemnitate tractum est. Cum enim volebant bellum
indicere, pater patratus, hoc est princeps fetialium, proficiscebatur ad
hostium fines, et praefatus quaedam sollemnia, clara voce dicebat se bellum
indicere propter certas causas, aut quia socios laeserant, aut quia nec abrepta
animalia nec obnoxios redderent. Et haec clarigatio dicebatur a claritate vocis[56].
L’inizio della guerra per i Romani coincideva con un’antica
usanza rituale. Il pater patratus del
collegio dei feziali si recava presso i confini del territorio nemico e, dopo
aver pronunziato alcune formule, dichiarava a voce alta le causae (l’offesa arrecata ai popoli alleati o la mancata
restituzione degli animali rubati e dei responsabili dell’offesa) che
spingevano il popolo romano a muovere guerra al popolo offensore, espletando
così la clarigatio.
Tralasciando per il momento il significato del termine causae, su cui torneremo, è rilevante
constatare che una parte di ciò che veniva detto a voce alta dal pater patratus (aut quia nec abrepta animalia nec obnoxios redderent) coincide con
il res repetere della formula
liviana: illos homines illasque res
dedier (Liv. 1,32,7).
Nella stessa direzione va il contenuto di un testo di Plinio il
Vecchio:
Plin., nat. 22,3,5: Certe utroque nomine idem significatur, hoc
est gramen ex arce cum sua terra evulsum, ac semper e legatis, cum ad hostes
clarigatumque mitterentur, id est res raptas clare repetitum, unus utique
verbenarius vocabatur[57];
Plinio, trattando delle erbe che accompagnavano i rituali della
Roma delle origini, conclude che i sagmina
si identificavano con le verbenae
ed erano utilizzati quando gli ambasciatori, tra cui il verbenario[58], si recavano presso i nemici a clarigare, cioè a richiedere a voce alta le cose trafugate.
Trova così conferma l’ipotesi che Livio descriva, dal paragrafo 6
al 10, la complessa procedura della clarigatio,
iniziando con la rerum repetitio che,
come abbiamo visto, costituiva il primo e decisivo passo dell’azione bellica.
Per approfondire la natura del res repetere cominciamo con la descrizione contenuta nel paragrafo
6.
Il pater patratus
designato a compiere la missione[59] recitava, appena giunto sul confine del territorio nemico, una
formula articolata: l’esortazione al dio Giove[60], ai confini (fines)
del popolo rivale[61], al fas[62] di prestare attenzione alle sue parole, cui seguiva la
precisazione del ruolo assegnatogli dalla civitas:
ego sum publicus nuntius populi Romani;
iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit.
Deve essere sottolineata, da una parte la solennità dell’atto
attestata dalle molteplici divinità chiamate a testimone, dall’altra la
qualificazione della missione per mezzo dei due termini “iuste pieque”. Essi esprimono la qualità che doveva avere l’agire
ufficiale del popolo romano attraverso l’operato dei feziali, in una fase della
storia di Roma in cui la valutazione giuridica dei comportamenti dei cives (= ius) e la valutazione
religiosa (= fas) erano così strettamente collegate tra loro da formare un’unità
complessa[63]. L’autonomia dei rispettivi criteri non era stata ancora
raggiunta[64]. L’azione del pater patratus era quindi condotta all’insegna della «rigorosa
osservanza dei riti prescritti»[65].
Nel paragrafo 7 del testo liviano, si dà conto di un’altra formalità
di non poco rilievo della procedura feziale.
Il pater patratus, “deinde peragit postulata”[66], rivolge una exsecratio
al cospetto di Giove: si ego iniuste
impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem
me numquam siris esse.
Sono molti gli spunti offerti dall’analisi del passo.
Incominciamo con i due avverbi iniuste e impie, che
caratterizzano la richiesta del pater
patratus. Livio li aveva già utilizzati, con segno positivo, nel paragrafo
precedente: “iuste pieque legatus venio”.
Possiamo, quindi, concordare con coloro che ritengono anche questa espressione
‘iniuste impieque exposcere’ tipica
del formulario dell’antico ius fetiale[67].
Si noti, poi, che la pretesa del pater patratus non si limitava alle res ma si estendeva anche agli homines.
Alcuni commentatori interpretano le lettere ‘p.r.’, di certi manoscritti, poste dopo il verbo “dedier” («essere consegnati
deliberatamente»), come abbreviazione di “populi
romani”[68]. Si potrebbe, pertanto, inferire che i Romani pretendessero la restituzione
di beni, ritenuti di loro proprietà. L’identificazione dei beni richiesti con i
vocaboli “homines” e “res” può dar adito ad una duplice
interpretazione: il bottino della razzia, in tal senso il genitivo ‘populi romani’ indicherebbe l’appartenenza
dei beni; oppure la consegna delle cose rubate e dei responsabili della rapina
come ricaviamo da altre testimonianze[69], in questo caso l’espressione ‘populi romani’ sarebbe inelegantemente da riferire alle sole res. Tuttavia la soluzione poco incide
ai fini del nostro ragionamento, potendo sussumere entrambi i casi nel concetto
generale di rerum repetitio.
È utile infine richiamare l’attenzione sulla sanzione che il
soggetto invocava contro di sé, in caso di richiesta non conforme
all’ordinamento feziale: il proprio allontanamento dalla comunità. Non possiamo
non cogliere una forte somiglianza con la situazione dell’homo sacer, al quale poteva capitare di essere ucciso da chiunque,
in conseguenza del suo stato di ‘escluso’[70]. L’orientamento della dottrina, al riguardo, si fonda
sull’interpretazione di un famoso testo di Festo (s.v. ‘Sacer mons’
La exsecratio del pater patratus consisteva, quindi, non
tanto nell’eliminazione fisica, che pure era l’eventualità più comune, quanto
nell’allontanamento dell’exsecratus
dalla comunità[73]. Era questa la sorte che colpiva lo spergiuro, come ricaviamo da
un’esemplare testimonianza di Festo:
Fest.. (Paul.), s.v. ‘Lapidem silicem’
Chi giurava per Iovem
lapidem doveva, tenendo in mano la pietra di selce (= lapis silex)[74], pronunziare una formula esecratoria[75], con la quale invocava Giove (Dispiter) di allontanare (= eicere)[76] lo spergiuro al pari del silex,
facendo salva la comunità[77]. Indi scagliava lontano da sé il silex.
Lo spergiuro, come l’homo
sacer, era isolato, separato dal gruppo[78].
Il fatto che l’automaledizione sia identica a quella descritta da
Livio nel testo relativo alla clarigatio,
mi induce a pensare che anche nell’atto della rerum repetitio avesse luogo un giuramento.
Lo afferma esplicitamente Dionigi nel testo in cui riporta la
dichiarazione di guerra dei Romani:
Dionys. 2,72,7: epeita
omosaj oti proj adikousan ercetai polin kai araj taj megistaj ei yeudoito
eparasamenoj eautù te kai tÆ RwmÆ, tot' entoj Æei twn orwn ... ekei de katastaj
toij en telei peri wn hkoi dielegeto pantacÆ touj te orkouj kai taj araj
prostiqeij[79].
Il soggetto è il pater
patratus che, investito della missione, si recava a res repetere presso il popolo offensore, facendo del giuramento un
elemento centrale della procedura[80].
La presenza del giuramento è confermata in un altro testo
liviano, dove si narra che i Romani, nel
Liv. 4,30,14: Cum
Veientibus nuper acie dimicatum ad Nomentum et Fidenas fuerat, indutiaeque
inde, non pax facta, quarum et dies exierat, et ante diem rebellaverant; missi
tamen fetiales; nec eorum, cum more patrum iurati repeterent res, verba sunt
audita[81].
L’uso del giuramento nella rerum
repetitio dell’antica procedura feziale è comunque attestato dal nostro
testo di riferimento al paragrafo 8:
Liv. 1,32,8: Haec cum fines
suprascandit, haec quicumque ei primus vir obvius fuerit, haec portam
ingrediens, haec forum ingressus paucis verbis carminis concipiendique iuris
iurandi mutatis peragit.
Il pater patratus reiterava
il rituale della rerum repetitio,
adattando lievemente[82] la formula del giuramento: all’attraversamento, suprascandere[83], del confine; all’incontro con il primo uomo in territorio
nemico; all’entrata nella città e nel foro del popolo antagonista.
L’esplicito riferimento allo iusiurandum
del paragrafo 8 avvalora la chiamata a testimone di Giove, dio dei giuramenti, vista
nel paragrafo 7, autorizzando l’accostamento tra il procedimento della rerum repetitio di Liv. 1,32 con quello
della stipula del foedus di Liv.
1,24. Tutte e due le procedure afferivano all’attività dei feziali nelle
relazioni con gli altri popoli: la prima per determinare le condizioni dello
stato di guerra; la seconda per stipulare accordi in situazioni di pace. In
entrambe il giuramento aveva un ruolo centrale[84]. Si direbbe che lo iusiurandum
fosse figura essenziale nei rapporti internazionali della Roma arcaica[85].
Si trattava di giuramenti solenni, celebrati alla presenza
invocata del dio Giove. Esisteva, comunque, una netta differenza nei contenuti.
Mentre il giuramento del foedus era
di tipo promissorio, in quanto il pater
patratus giurava di rispettare gli accordi, quello della clarigatio era assertorio, garantendo la
verità della richiesta avanzata dal feziale[86].
La figura della rerum
repetitio che emerge dai paragrafi del testo di Livio si presenta quindi
come elemento centrale della clarigatio,
la cui funzione consisteva nel richiedere al popolo nemico il risarcimento del
danno subìto secondo le regole dello ius
fetiale. Contribuiva a dare efficacia all’atto la prestazione del
giuramento da parte del pater patratus richiedente.
Nei paragrafi 9 e 10, pur cambiando la situazione, non
registriamo alcuna cesura con la fase precedente: il protagonista resta sempre
il pater patratus; l’azione è
conseguenza del res repetere; le
caratteristiche rituali dell’oralità e solennità permangono.
Nel paragrafo 9 Livio scrive che, trascorsi trentatré giorni
senza l’adempimento delle richieste avanzate dal pater patratus, lo stesso procedeva alla dichiarazione di guerra (“bellum
ita indicit”) mediante la pronunzia della formula solenne, riportata nel
successivo paragrafo 10.
Torneremo sull’espressione rituale, è ora necessario chiarire il
punto centrale del paragrafo 9.
Dopo aver registrato la volontà della controparte di non dare
soddisfazione e verificato l’inesistenza di spazi per una soluzione pacifica
del contenzioso, il pater patratus
romano abbandonava la condotta interlocutoria. Il cambiamento si riscontrava
allo scadere del termine che fungeva da demarcazione tra le due situazioni: i
giorni, rigorosamente prescritti (sollemnes)[87], concessi per accettare la rerum
repetitio romana. Sull’esatto numero dei giorni[88], è decisivo Dionigi che così spiega la procedura: alla
rivendicazione del feziale, l’altro popolo poteva chiedere una dilazione di
dieci giorni per decidere, che poteva essere concessa fino ad un massimo di tre
volte (10+10+10 = 30)[89]. Lo stesso Livio, in un altro passo relativo al conflitto tra i
Romani di Tullo Ostilio e gli Albani di Gaio Cluilio, indica l’inizio della
guerra al trentesimo giorno: bellum in
tricesimum diem indixerant[90]. Che la difformità si possa ritenere una inesattezza del testo
liviano in questione, si ricava anche dall’uso improprio dell’espressione “bellum ita indicit”, con la quale si
conclude il paragrafo[91]. Questa infatti sarebbe stata al momento fuori luogo non essendoci
ancora stata la deliberazione istituzionale della guerra[92]. Alla luce della testimonianza di Dionigi e della contraddizione
liviana, ritengo che l’indicazione di trentatré giorni del paragrafo 9 sia
inesatta e che il termine prescritto fosse di trenta giorni[93].
Scaduto il termine, se non si fossero ottemperate le richieste
dei Romani, il pater patratus, alla
presenza del popolo inadempiente, pronunziava la seguente formula:
Liv. 1,32,10: “Audi,
Iuppiter, et tu, Iane Quirine, diique omnes caelestes, vosque terrestres,
vosque inferni, audite: ego vos testor populum illum” — quicumque est, nominat
— “iniustum esse neque ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores
natu consulemus, quo pacto ius nostrum adipiscamur”.
Giove e Quirino[94], insieme agli dèi del cielo, della terra e degli inferi, erano
chiamati a prendere atto ([95]) che il popolo straniero era “iniustus”, non avendo
adempiuto all’obbligo di legge (= “ius
persolvere”), e che pertanto il consiglio degli anziani[96] avrebbe deciso il modo di soddisfare il diritto leso.
La prima fase della dichiarazione di guerra si chiudeva dunque
con una testatio deorum[97]. Alcuni studiosi, come Ziegler, identificano tale testatio con la denuntiatio[98], anche se propenderei per tenere distinte le due figure non
soltanto per la diversità nella forma, contenendo la prima l’invocazione divina
assente nella seconda, ma anche per la differente funzione. Al riguardo è
giusto il rilievo di Ferrary che, riprendendo uno spunto di Magdelain[99], interpreta la testatio
«une menace plus qu’une déclaration»[100], mettendo in evidenza con ciò anche la sfasatura temporale tra
le due procedure belliche.
L’omogeneità della forma e la continuità del contenuto inducono a
ritenere la testatio una parte della clarigatio[101].
Si può, a questo punto, provare a definire la clarigatio come la manifestazione,
palesemente espressa, della volontà del popolo romano offeso «di voler essere
reintegrato nel diritto violato»[102]. Essa si articolava in due atti distinti e consequenziali: il
primo, consistente nel res repetere,
aveva il suo momento conclusivo nel giuramento assertorio; il secondo, a cui si
addiveniva nel caso la richiesta venisse disattesa, trovava il suo compimento
nella solenne testatio. Ambedue le
figure avevano come tratto peculiare forme solenni e rituali[103], che per il periodo arcaico, similmente ad altre situazioni
della sfera del diritto, erano conosciute e gelosamente custodite da esperti
quali, nel caso di specie, il collegio dei feziali.
Dopo la testatio, con
la quale si concludeva la clarigatio,
aveva inizio la seconda parte della dichiarazione di guerra: l’indictio belli (dal paragrafo 11 al 13).
L’espressione, comunemente usata nei documenti testuali, è ‘indicere bellum’, soltanto in un passo
di Florio si riscontra il sostantivo indictio
accompagnato dal genitivo belli[104]. È stata la tradizione letteraria a proporne un uso equivalente
come nel caso della rerum repetitio.
Il sintagma indicere bellum nel suo
significato originario era riferito al rituale dello ius fetiale e indicava in particolare la fase successiva alla clarigatio[105].
Il passaggio dalla testatio
all’indictio belli nel testo di Livio
è purtroppo segnato da una frase incompleta, a chiusura del paragrafo 10: Tum … nuntius Romam ad consulendum redit.
I commentatori, anche grazie al testo parallelo di Dionigi[106], ritengono che la lacuna non sia molto estesa e che l’omissione
riguardi l’informazione relativa al ritorno del pater patratus con gli altri feziali, per riferire l’accaduto[107].
Anche questa seconda fase si articolava in due momenti: la
deliberazione dello stato di guerra ad opera delle istituzioni romane e la
cerimonia del giavellotto scagliato nel territorio nemico.
Secondo Livio, il re, dopo aver ascoltato il resoconto dei
feziali, consultava i patres sul da
farsi, ponendo in essere una rogatio[108].
È indicativo analizzare il tono della formula, riportata nel
paragrafo 11, con la quale il re chiedeva all’assemblea dei patres di decidere il comportamento da
tenere: Quarum rerum, litium, causarum
condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum
Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec fecerunt nec
solverunt, quas res dari, fieri solvi, oportuit, dic” inquit ei quem primum
sententiam rogabat, “quid censes?.
Sono molte le allitterazioni funzionali alla solennità della
formula[109].
Cominciamo con il modulo a tre termini: rerum, litium, causarum condixit. La presenza dei tre genitivi
retti dal verbo condicere, seguito di
norma dall’accusativo[110], ha sollevato perplessità in dottrina[111].
Gli storici del diritto propendono per l’autenticità della
testimonianza.
Il Donatuti risolve la difficoltà, individuando in rerum, litium, causarum tre genitivi di
relazione[112]: le res sarebbero le
cose razziate, le lites gli «oggetti
contestati”»[113]; le causae «gli
incrementi della cosa stessa»[114]. Il verbo “condixit”
indicherebbe l’azione del reclamare, che nella sostanza «consisteva nella
richiesta della restituzione delle cose rapinate»[115].
Bernardo Albanese[116], pur ipotizzando qualche guasto nella tradizione manoscritta,
giudica autentico il formulario. La soluzione più agevole sarebbe quella di
accettare la correzione di “causarum”
in causa, proposta da Madvig[117], per cui la pretesa del pater
patratus faceva riferimento alle res,
nel più ampio valore di “oggetti”, e alle lites,
nell’accezione di res in controversia
precisando “giuridicamente il significato generalissimo di res”. La frase quindi risulterebbe: rerum litium causa condixit, con il significato di intimare per res e lites.
Ritengo che, quale che sia il significato dei tre genitivi su cui
dovremo tornare, il contenuto della citazione rimandi indiscutibilmente al res repetere del pater patratus.
Analizziamo ora la frase immediatamente successiva “quas res nec dederunt nec fecerunt nec
solverunt”, rafforzata dalla ripetizione in forma passiva delle forme
verbali “quas res dari, fieri, solvi, oportuit”. Una parte della dottrina ([118]) ipotizza una successiva rielaborazione non soltanto per la
difficoltà di accordare il significato di ‘solvere’ con la coppia di verbi, appartenente al
linguaggio giuridico, ‘dare-facere’ ma anche per alcune anomalie del
testo nei diversi manoscritti. In alcuni infatti non è riportato il verbo “fieri”[119]; in altri è omessa l’intera locuzione nec dederunt nec fecerunt nec solverunt[120]; in altri ancora l’espressione è collocata dopo il verbo “oportuit”[121]. Pur non sottovalutando i rilievi critici, ritengo che si possa
accogliere l’ipotesi di «un errore nella tradizione manoscritta»[122] che nulla toglie all’originaria portata giuridica del
formulario, come si ricava dalla presenza dell’oportere dari in tutti i codici e dal richiamo al vincolo
obbligatorio tipico del linguaggio processuale[123].
In conclusione, la formula del paragrafo 11 sintetizza, in modo
preciso, la pretesa rituale avanzata dal pater
patratus romano al pater patratus
nemico.
La risposta all’interrogazione del re è contenuta nella prima
parte del paragrafo 12, dove è riportata la locuzione convenzionale con cui i
singoli membri del senato manifestavano la propria volontà. Anche qui la
presenza dell’allitterazione “censeo,
itaque consentio consciscoque” avvalora l’ipotesi dell’arcaicità del
modello[124].
A suscitare maggiore interesse è la frase Puro pioque duello quaerendas censeo, con la quale si decretava una
guerra, duellum[125], pura e pia per perseguire la riparazione del danno[126] non adempiuta. La formulazione ‘duellum purum’, come scrive Sordi, sarebbe “un frammento di remota
antichità rimasto nel formulario che i Romani usavano ancora in età storica”[127]. L’aggettivo purus,
usato per qualificare l’evento bellico, è eccezionale, non avendo riscontri in
altri documenti; al contrario del termine pius
utilizzato, secondo un modello preciso, in coppia con iustus[128]. L’espressione, al posto della tradizionale ‘bellum iustum’, rinvia in modo
inconfutabile alla applicazione dei rituali dello ius fetiale[129].
Il senato, in seguito all’azione puntuale dei feziali e dopo aver
appreso il comportamento inadempiente dell’altro popolo, deliberava in piena
autonomia[130] lo stato di guerra per la civitas.
Subito dopo la deliberazione dello stato di guerra, il pater patratus romano si recava nei
pressi del confine nemico, portando con sé un’asta di ferro o di legno di
corniolo rosso appuntita nel fuoco, e, alla presenza di almeno tre uomini
puberi[131], declamava una formula (riportata nel § 13), quindi scagliava il
giavellotto nel territorio nemico (§ 14). L’emittere
hastam può essere considerato l’ultimo atto della procedura. Al riguardo,
non convince l’osservazione di Ferrary, che esclude “le jet de la lance” dalla
dichiarazione di guerra perché eliminerebbe qualsiasi forma di dialogo con il
nemico[132]. I rapporti, infatti, debbono considerarsi già definitivamente
troncati con la testatio (§§ 9 e 10),
la quale innescava un procedimento unilaterale che andava a concludersi con le
operazioni militari vere e proprie. Il pater
patratus, scagliando la lancia, completava la dichiarazione di guerra dando
inizio al combattimento: bellum indicere
et facere.
Sono molti gli aspetti su cui è interessante soffermarsi.
Innanzitutto il ritorno sulla scena dei feziali, a conferma che
il cerimoniale dell’indizione della guerra, iniziato con la clarigatio, non era ancora concluso. Il
capo dei feziali, portavoce del popolo romano, compiva un atto gestuale e
verbale, per formalizzare la deliberazione presa dalla civitas.
Poi c’è il lancio dell’hasta
ferrata aut sanguinea[133], di cui abbiamo un preciso riscontro in Gellio[134]. Gli aspetti magico-religiosi del gesto, latore della
maledizione distruttiva degli dèi schierati con i Romani, sono stati
evidenziati da Frédéric Blaive rielaborando studi di Bayet e Dumézil[135]. Accanto ad essi non si possono tralasciare quelli giuridici
colti da Volterra[136] e paragonabili al ruolo della festuca nella legis actio
sacramento in rem. Nel processo arcaico le due parti, per rivendicare la
proprietà dell’oggetto, si servivano di una bacchetta con la quale toccavano
l’oggetto conteso imponendo il proprio diritto[137]. Gaio spiega così l’uso dell’asta: Festuca autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii; quod
maxime sua esse credebant quae ex hostibus cepissent; unde in centumviralibus
iudiciis hasta praeponitur (sottolineature mie)[138].
L’elemento magico-religioso è strettamente connesso con quello
giuridico; peculiarità questa, comune a tutta l’esperienza giuridica arcaica
romana. Il lancio del giavellotto nel territorio nemico da parte del feziale
rappresentava non solo la manifestazione della potenza divina schierata al
fianco dei Romani, conseguenza della natura “pura e pia” della guerra, ma anche
la pretesa del popolo romano di conseguire con la forza il risarcimento del
danno.
Resta, infine, da analizzare la frase rituale declamata dal pater patratus alla presenza di tre
cittadini puberi:
Liv. 1,32,13: Quod populi
Priscorum Latinorum homines[ve]<que> Prisci Latini adversus populum
Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum
cum Priscis Latinis iussit esse senatusve populi Romani Quiritium censuit,
consensit, conscivit ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque
Romanus <Quiritium> populis
Priscorum Latinorum hominbusque Priscis Latinis bellum indico facioque.
Dal tono solenne della formula[139] si trae che alla deliberazione dello stato di guerra aveva
partecipato anche il popolo (populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis
Latinis iussit esse). La qual cosa è in contraddizione con quanto Livio
aveva scritto nel paragrafo 11, dove l’organo deliberante risultava essere
unicamente il senato.
L’incoerenza è confermata anche dal testo di Dionigi. Lo storico
greco, dopo aver detto che i feziali si recavano in senato a riferire gli esiti
della rerum repetitio, permettendo
così di decidere la guerra col favore degli dèi, conclude:
Dionys. 2,72,9: e„ d ti m
genoito toutwn oute h boulh kuria hn epiyhfisasqai polemon oute o dhmoj[140]
L’indictio belli doveva
essere eseguita rigorosamente, secondo la procedura, altrimenti né il senato né
il popolo potevano votare a favore della guerra.
È difficile quindi sostenere che la contraddizione sarebbe frutto
di una “disattenzione” liviana. È più ragionevole l’ipotesi di una modifica del
formulario originario ad opera degli stessi feziali per adeguare il rituale
alla novità prodottasi alla fine del V secolo a.C. in seguito alla
partecipazione del comizio centuriato alla decisione sull’entrata in guerra
della città. Ho già avuto modo di rilevare che in età molto antica la
competenza a decidere sulla guerra era esclusivamente dell’assemblea dei patres. I documenti testuali ci
informano di una prima, controversa, partecipazione del comizio centuriato nel
L’incongruenza, rilevata nei testi di Livio e Dionigi, sarebbe
dunque spiegabile con il sovrapporsi di un regime più recente, successivo alla
riforma, a quello più antico[144].
Nemmeno la testimonianza di Gellio, che, pur riproducendo nella
sostanza il testo liviano, se ne discosta per quanto riguarda l’organo
deliberante, aiuta a risolvere il contrasto:
Gell., N.A. 16,4,1: Cincius in libro tertio de re militari fetialem populi Romani bellum
indicentem hostibus telumque in agrum eorum iacientem hisce verbis uti
scripsit: “Quod populus Hermundulus hominesque populi Hermunduli adversus
populum Romanum [bellum][145] fecere deliqueruntque quodque populus
Romanus cum populo Hermundulo hominibusque Hermundulis bellum iussit, ob eam rem
ego populusque Romanus populo Hermundulo hominibusque Hermundulis bellum
<in>dico facioque”[146].
Gellio, che riporta un brano dell’opera De re militari di L. Cincio antiquario vissuto tra la fine
repubblica e gli inizi del principato[147], scrive che la decisione di fare la guerra era presa
dall’assemblea popolare.
La mancanza di ogni riferimento al senato può essere spiegata,
come ipotizza Albanese, considerando la fonte di Gellio risalente a un’età in
cui «la funzione senatoria nella sfera della politica estera era in forte
declino»[148].
I problemi di ordine speculativo sull’organo decisionale non
ridimensionano comunque il dato essenziale ai fini della nostra indagine e su
cui concordano le due versioni di Livio e di Aulo Gellio: il lancio del
giavellotto, accompagnato dalla formula della dichiarazione di guerra,
concludeva, dopo trentatré giorni[149], la procedura feziale dell’indictio
belli, dando inizio al combattimento vero e proprio, bellum indico facioque.
L’analisi appena conclusa sulla procedura dell’indictio belli secondo lo ius fetiale rafforza la convinzione, già
espressa da altri studiosi, che la guerra per i Romani era avvertita come
«procedimento giuridico-religioso»[150].
Molti passaggi del rituale feziale hanno indotto la dottrina a
stabilire, con sfumature diverse, una stretta relazione tra la dichiarazione di
guerra e il più antico processo civile delle legis actiones. Tale parallelismo ha radici consolidate, come
dimostra la sua presenza già nella scienza giuridica dell’Ottocento.
Danz sosteneva una duplice identità, sia nella prima parte della
procedura feziale dove il rapporto è costruito tra la clarigatio e la vindicatio della
legis actio sacramento, sia nella
seconda parte tra l’indictio belli e
la manus iniectio, giungendo
addirittura a immaginare un formulario affine[151].
Voigt interpretava il termine ‘condicere’ (Liv. 1,32,11) come l’intimazione allo straniero di
presentarsi entro i giorni prestabiliti davanti al tribunale degli dèi (Liv.
1,32,9), definendo così una stretta relazione tra il procedimento
internazionale della clarigatio e il
processo ‘interno’ della legis actio per
condictionem[152].
Fusinato ritrovava nella procedura della dichiarazione di guerra
la stessa scansione del processo civile: la parte della rerum repetitio rispondente alla fase in iure; la parte dell’indictio
belli equivalente alla fase in
iudicio; tra le due, la testatio
deorum pari alla litis contestatio[153].
La linea interpretativa della correlazione tra la sfera giuridica
pubblica e quella privata ha prevalso fino ai nostri giorni[154].
Coli identifica la procedura pubblica con quella privata circa la
manifestazione di potere sui beni ritenuti di proprietà del popolo romano, per
cui il lancio dell’asta nel territorio nemico equivarrebbe all’apprensione del
corpo del debitore nella manus iniectio:
una sorta di procedura esecutiva dopo la sentenza popolare di giudicare “iniustus” il popolo nemico inadempiente[155].
Volterra segnala due rassomiglianze fra la clarigatio e la procedura antica: la prima con il conserere manum dell’actio sacramento in rem; la seconda,
legata ad una testimonianza alquanto enigmatica di Livio[156], si definirebbe tra l’obiettivo della clarigatio e le conseguenze della manus iniectio[157].
Donatuti stabilisce un punto di incontro tra la clarigatio e l’antica procedura civile
romana, giungendo, dopo l’analisi del testo liviano, alla convinzione che,
nonostante i diritti sui beni sottratti e sugli autori della rapina fossero da
annoverare tra i diritti assoluti, la pretesa del pater patratus era di carattere squisitamente personale e pertanto
la clarigatio aveva la sua
rispondenza con l’actio sacramento in
personam[158].
Per Biscardi «è innegabile che fra la clarigatio … e la legis actio
sacramento … esiste una grande affinità», come prova la formula del
giuramento della testatio
internazionale che «si adatta in pieno» alla legis actio sacramento in personam[159].
Watson costruisce un parallelo articolato tra la dichiarazione di
guerra e il processo per legis actionem[160]. Dopo aver suddiviso l’indictio
belli in tre parti, l’autore individua nella prima (il res repetere del feziale: Liv. 1,32,6-7) la fase in iure del processo, rilevando una
somiglianza sia con la struttura della legis
actio per condictionem sia con quella della legis actio sacramento in rem[161]; nella seconda (la testatio
deorum: Liv. 1,32,9), il paragone calzerebbe con la fase apud iudicem del processo, imperniata
sulla decisione del giudice che per Watson era il giudizio di Giove[162]; nella terza (il lancio dell’asta: Liv. 1,32,13), il raffronto è
con il processo di esecuzione per il mancato adempimento e dunque con la manus iniectio[163].
Albanese individua una duplice affinità tra la procedura feziale
e il diritto processuale civile romano. La prima è con la legis actio per condictionem e ruota intorno alla presenza del
verbo condicere e all’idea di
«doverosità dei comportamenti» del popolo straniero. La seconda è tra la
struttura sintattica del formulario feziale, Quod…, quod…, ob eam rem… bellum indico facioque, e quella della manus iniectio, Quod…, ob eam rem… manum inicio, con l’importante puntualizzazione
sul significato del verbo indicere[164].
È mia convinzione che se da una parte sia difficile dimostrare,
per carenza di informazioni sulle forme giuridiche arcaiche, la trasposizione
pura e semplice delle azioni dello ius
civile in quelle dello ius fetiale
e/o viceversa[165], dall’altra si possa ipotizzare un comune denominatore delle
categorie concettuali del diritto tanto nella sfera pubblica che privata.
L’idea del bellum iustum
di quel tempo rimanda a schemi giuridici che denotano una matrice comune.
Se torniamo ad alcuni passaggi del rituale feziale descritto da
Livio, l’analogia tra il processo civile e la procedura internazionale appare
evidente.
Il res repetere del pater patratus era costituito da
congegni verbali e gestuali di tipo giuridico-religiosi, i cui dati
caratteristici si riscontrano anche nella procedura del processo civile.
Ricordiamo a mo’ di esempio:
— la presenza di alcune espressioni tipiche del diritto arcaico,
come il verbo condicere nel
significato di denuntiare[166] oppure la struttura sintattica della formula pronunziata dal pater patratus al momento del lancio del
giavellotto identica a quella della manus
iniectio[167];
— l’uso del giuramento, finalizzato a sancire il res repetere del feziale, era ricorrente
in diversi campi del diritto romano arcaico: dalla sfera processuale[168] ai rapporti internazionali[169], dalla sponsio privata[170] alla regolamentazione del confronto politico-istituzionale[171], all’arruolamento nell’esercito[172];
— il termine di 30 giorni, concesso per l’adempimento della rerum repetitio, era comune a molte
azioni del più antico processo romano. Trenta erano i giorni iusti concessi ai confessi e ai iudicati in
iure per saldare il debito prima della manus
iniectio[173]; tanti erano anche i giorni prescritti dalla lex Pinaria (IV-III sec. a.C.) per la
designazione del giudice con la legis
actio per iudicis arbitrive postulationem[174]; e altrettanti giorni erano intimati dall’attore al convenuto “ad iudicem capiendum” nella legis actio per condictionem [175];
— la finalità della testatio,
che con la chiamata della divinità in funzione di testimone-garante collegava
la rerum repetitio all’indictio belli vera e propria, sembra
essere simile a quella della litis
contestatio della legis actio
sacramento che congiungeva la fase in
iure a quella apud iudicem [176].
La natura giuridica della dichiarazione di guerra trova un
ulteriore riscontro nel contenuto del res
repetere che non restò sempre uguale a se stesso ma si modificò per
adattarsi ai diversi tipi di guerra succedutisi nella storia di Roma. In
origine, come ricaviamo dall’antico formulario liviano, il repetere era limitato alle ‘cose’ razziate essendo i conflitti
circoscritti dal punto di vista spaziale e finalizzati al saccheggio, come
«l’accès à quelque source sacrée ou à quelque terrain de pacage, voire de
récupérere les troupeaux ou les récoltes raflés par un voisin indélicat»[177]. Le guerre erano nella sostanza delle scorrerie, “incursiones”, come narra Livio per il
periodo delle origini[178]. Con il passare del tempo il fenomeno bellico mutò,
trasformandosi da mezzo di competizione a strumento di espansione
politico-territoriale[179]. Il res repetere non si
limitò più alla semplice richiesta dei beni trafugati ma si estese al
risarcimento dei danni e/o alla consegna degli autori dell’offesa[180] per giungere ad identificarsi con la rivendicazione di obiettivi
politico-militari ritenuti vitali agli equilibri del nuovo dominio[181]. La situazione di svantaggio del popolo nemico nei confronti del
popolo romano è insita nel sintagma ‘ius
persolvere’ (Liv. 1,32,10), che nel linguaggio giuridico esprimeva il
comportamento «che un soggetto era giuridicamente tenuto a compiere»[182]. L’uso della forza nei confronti del popolo antagonista era
giustificato dal fatto che esso non aveva adempiuto all’obbligo prescritto dal
diritto (= non ius persolvere).
L’appurato significato giuridico del res repetere ci consente di tornare a riflettere sulla frase con la
quale il re sintetizzava l’attività del res
repetere compiuta dal pater patratus
presso il popolo straniero e che molti problemi ha posto agli interpreti per la
presenza dei tre genitivi retti dal verbo condicere[183]: Quarum rerum, litium,
causarum pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum
Latinorum hominibusque Priscis Latinis. I tre termini al genitivo partitivo
esprimono, come si è detto, l’istanza del popolo romano nei confronti del
popolo straniero. Tuttavia è sul vocabolo res
che ruotava l’argomentazione del re, come si evince dal prosieguo della formula
dove le res riassumono i tre concetti
espressi in precedenza: quas res nec
dederunt nec fecerunt nec solverunt, quas res dari, fieri solvi, oportuit
(Liv. 1,32,11). Ritengo, quindi, che gli altri due vocaboli, “litium” e “causarum”, concorrano
a precisare il significato di “rerum”[184].
È merito di Thomas[185] aver attirato l’attenzione su un’antica testimonianza in cui i
tre termini sono associati nello stesso contesto. Si tratta della tabula iniziale della Legge delle XII
Tav., il cui contenuto è relativo allo svolgimento del processo:
Tab. 1.6: REM UBI PACUNT, ORATO. 7: NI PACUNT, IN COMITIO
AUT IN FORO ANTE MERIDIEM CAUSSAM COICIUNTO. COM PERORANTO AMBO
PRAESENTES. 8: POST MERIDIEM PRAESENTI LITEM ADDICITO[186]
Il versetto 6, come accredita la dottrina più recente, farebbe
riferimento al luogo dove risolvere la controversia[187], per cui “rem” sarebbe
oggetto di “orato”, indicando
l’attività iniziata dall’attore. L’espressione ‘rem orare’ sarebbe l’equivalente di ‘rem agere’ («portare avanti la controversia nel luogo stabilito
d’accordo con l’avversario»)[188], con il termine res
che indicherebbe l’intento delle parti prima di essere oggetto della
controversia vera e propria.
Il versetto 7 atterrebbe al proseguimento della lite davanti al
giudice nel forum o nel comitium prima di mezzogiorno, nel caso
non ci fosse stato accordo tra le parti. L’espressione ‘caussam coicere’[189] indicherebbe «una succinta e non formale esposizione dei termini
della lite fatta dall’angolo di visuale e secondo l’assunto di ciascuna parte»[190], dove il termine causa,
come res, si riferisce sempre
all’oggetto della lite ma con in più lo sforzo dell’interessato di indicare il
fondamento del proprio contendere davanti all’organo giudicante.
Il versetto 8 dispone che, passato mezzogiorno, la vittoria della
disputa andava al contendente presente. L’espressione ‘litem addicere’ designerebbe l’approvazione della richiesta del
litigante presente[191] da parte dell’autorità giudicante[192], con la quale si chiudeva in modo definitivo la lite. Qui il
vocabolo lis, pur essendo
riconducibile al concetto di oggetto del processo, implica qualcosa in più
rispetto ai precedenti res e causa, identificandosi con l’interesse
della parte vincente così come era stato precisato nel corso dell’attività
processuale e poi definito con la pronunzia favorevole dell’autorità giudicante[193].
Lo schema dei tre termini, relati tra loro al fine di precisare
aspetti diversi della medesima realtà processuale delle XII Tavole, è lo
stesso, pur con le oggettive diversità che abbiamo riscontrato nella
controversia internazionale descritta da Livio. Dopo quanto detto, la frase
pronunziata dal re ai singoli patres
(Quarum rerum, litium, causarum pater
patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque
Priscis Latinis) può essere intesa come un sunto dell’attività del pater patratus romano nei rapporti
ufficiali con il popolo straniero, al quale si intimava ritualmente il danno (=
res) subíto dai Romani precisandone,
secondo le regole ‘internazionali’, gli oggetti controversi (= lites)[194] e i motivi giuridico-formali della pretesa (= causae)[195].
Si può dunque concludere che il res repetere del feziale era figura giuridica, avente molti punti
di contatto con gli schemi del processo civile.
Una convinzione questa che trova una esplicita conferma in un
documento di epoca assai più recente di quella a cui riconduciamo il formulario
di Livio. Si tratta di in un frammento del poeta Ennio, vissuto a cavallo tra
il III e il II secolo a.C., che già Aulo Gellio riferiva al libro VIII degli Annales[196]:
Pellitur e medio sapientia, vi geritur
res,
Spernitur orator bonus, horridus miles amatur;
Haud doctis dictis certantes, sed maledictis
Miscent inter sese inimicitias agitantes;
Non ex iure manum consertum, sed magis
ferro
Rem repetunt regnumque petunt, vadunt stolida vi.
Ennio descrive eventi bellici servendosi di un linguaggio
giuridico[197] molto antiquato, come si evince, sia dal termine res che qui indica l’insieme dei beni
consentendo il rimando al res repetere
dell’antica dichiarazione di guerra, sia dal sintagma ex iure manum consertum, che rinvia al versetto delle XII Tavole Si [qui] in iure manum conserunt[198] e all’elaborazione della giurisprudenza pontificale[199].
È decisiva la stretta relazione che, nella parte finale del
frammento, si instaura tra l’antico rito del manum conserere, posto in essere nella legis actio sacramento in rem dalle parti per rivendicare la
proprietà di un bene immobile[200], e il res repetere
della dichiarazione di guerra. Si ha l’impressione che il rituale dell’arcaico
sistema processuale privato trovi, nella rappresentazione antitetica tra il
vivere in pace e il vivere in guerra[201], un punto di incontro con l’atto dell’antica procedura bellica.
L’aspetto giuridico processuale del res repetere, emerso
dall’analisi fin qui condotta, si riscontra anche per un’epoca più tarda, come
quella di Cicerone:
Cic., Brut. 12,46: Itaque ait Aristoteles, cum sublatis in
Sicilia tyrannis res privatae longo intervallo iudiciis repeterentur, tum
primum, quod esset acuta illa gens et controversiis nata, artem et praecepta
Siculos Coracem et Tisiam conscripsisse…[202].
Cicerone, in questo passaggio del Brutus, usa l’espressione ‘res
privatae repetere’ per sottolineare la ripresa dell’amministrazione della
giustizia dopo la caduta, nel V secolo a.C., dei tiranni Trasideo ad Agrigento
e Trasibulo a Siracusa.
Dall’analisi fin qui condotta risulta provato che molti passaggi
della dichiarazione di guerra fossero simili, a volte con tratti di assoluta
identità, a schemi dell’antica procedura civile.
Tuttavia la constatazione non vuole pervenire, come per altri
studiosi, alla tesi che il procedimento internazionale dell’indicere bellum coincidesse con
una o più azioni del processo per legis
actiones; infatti, ai fini dell’ipotesi che si vuole avanzare, è
sufficiente aver dimostrato l’esistenza di un ordito comune, fatto di forme
solenni, schemi rituali, categorie concettuali, tra l’antica procedura pubblica
e quella privata. D’altra parte, quella fase dell’esperienza romana
caratterizzata dall’intreccio tra la dimensione magico-religiosa con quella
giuridica, dove la rigidità e la solennità delle azioni erano rigorosamente
fissate dal ritualismo consuetudinario, non avrebbe potuto ancora produrre la
separazione dei campi del diritto. Inoltre, l’analogia delle forme, come
avvertiva Bonfante, «non è appunto che un indice di funzioni un tempo identiche»[203].
L’intreccio magico-religioso-giuridico dei rapporti sociali,
tipico della città-stato romana in formazione[204], era elemento comune delle comunità di villaggio nel territorio
laziale, come dimostra il fenomeno dei «sinecismi cittadini» di quel periodo[205]. Esisteva un «carattere relativamente ‘aperto’ delle strutture
politiche e sociali arcaiche» che contribuì alla costruzione di un tessuto
unitario tra le comunità politiche del Lazio e del territorio italico
circostante.
Roma tese a consolidare la rete di relazioni ‘internazionali’
anche nella fase successiva alla “riforma serviana”, quando si affermò il nuovo
ordinamento cittadino che, tra le tante innovazioni, esaltò l’appartenenza dei cives alla propria città e la differenza
con lo straniero[206]. Si pensi al diritto reciproco tra romani e peregrini di utilizzare actus
legitimi per lo scambio di merci (lo ius
commercii) oppure di realizzare un legittimo rapporto matrimoniale (lo ius conubii)[207]; all’uso dei foedera
per la regolamentazione più generale dei rapporti con le altre popolazioni[208]; al conseguente rituale imperniato sul giuramento per la stipula
di tali trattati[209]; alla figura della reciperatio
internazionale che consentiva il recupero dei beni sottratti illegalmente a
comunità e a singoli cittadini[210].
Anche dopo il definitivo declino della Lega latina nel
Il fenomeno bellico fu parte di tale sistema di relazioni con le
altre città-stato latino-italiche. I rigorosi rituali, eseguiti dai feziali,
non erano formalità esclusive dell’ordinamento romano ma facevano parte del
“sistema giuridico-religioso” che accomunava il popolo romano al popolo nemico[213].
È questo il dato di fondo che emerge dall’analisi della dichiarazione
di guerra. La clarigatio si
presentava come un insieme di forme giuridiche solenni e rituali, conosciute e
messe in atto dagli esperti feziali: la rerum
repetitio, tesa a definire l’oggetto del contrasto con il supporto dello iusiurandum; la testatio, volta a chiamare la divinità come testimone del
comportamento iniustus (contro le
regole) del popolo nemico. L’indictio
belli consisteva in un procedimento orale e gestuale complesso: la
deliberazione ufficiale votata dagli organi competenti e il cerimoniale del
lancio dell’asta nei pressi del territorio nemico ad opera del pater patratus. Enunciati performativi,
gesti costituenti che ponevano in essere validamente situazioni giuridiche.
Assistiamo alla messa in pratica del formalismo giuridico-religioso
dell’esperienza arcaica, per cui l’agire ‘esterno’ della comunità era
riconosciuto lecito, ius est/fas est,
soltanto se modellato sul rituale definito dalla tradizione e custodito dal
collegio dei feziali[214].
Il congegno orale-gestuale dello ius fetiale serviva a inscrivere la pretesa del popolo romano in
uno schema preciso riconoscibile dal popolo nemico, su cui era possibile
portare il confronto individuando l’eventuale soluzione tecnico-politica del
contrasto senza ricorrere all’uso della forza armata: una ‘giuridicizzazione’
delle relazioni con gli stranieri.
L’idea del bellum iustum
è dunque molto antica nella storia romana, come attestano il formulario appena
esaminato e altre testimonianze presenti nell’opera di Livio. Tra queste un
valore particolare ha Liv. 39,36,12, perché l’espressione “bellum iustum piumque”, che vi si legge, sarebbe stata attinta da
Polibio, il che farebbe venir meno l’ipotesi di una creazione liviana[215].
Il bellum iustum era
conseguente ad una serie di atti idonei a creare una «situazione nuova»[216] in seguito alla pronunzia di formule e al compimento di gesti
resi efficaci dal rispetto del formalismo dell’epoca arcaica che solo degli
esperti, quali i feziali, potevano garantire[217]. Si concretizzava nella dichiarazione di guerra anche verso
comunità non legate a Roma da alcun tipo di trattato[218]. La sua funzione era composita[219], dall’aspetto religioso dello schierarsi degli dèi[220], all’aspetto rituale della purificazione dall’imminente
contaminazione del sangue[221], a quello altrettanto significativo di favorire la soluzione
pacifica del contrasto[222]. La complessità, la durata e la scrupolosità dell’esecuzione
della procedura feziale erano occasioni per le parti di riflettere sulle
conseguenze del gesto bellico ed eventualmente evitare lo scontro armato. Nel
testo di Dionigi, dove la dichiarazione di guerra è riportata in termini simili
a Livio, si dice che se i due feziali trovavano l’accordo si lasciavano da
amici (2,72,8).
L’aggettivo iustum che
connotava il sostantivo bellum, stava
dunque a significare la conformità della guerra al sistema giuridico[223], come la sua stessa radice ius
indica[224], risolvendosi in una formula di normalità. Per riprendere uno
schema teorico di Bobbio possiamo riassumere che la ‘legittimità’, come
titolarità di fare la guerra, si inverava nella ‘legalità’, intesa come agire
nel rispetto delle regole dello ius belli[225].
* Si pubblica il capitolo II della monografia di Antonello Calore: «Forme giuridiche
del ‘bellum iustum’ (Corso di diritto romano-Brescia-a.a. 2003-2004)»,
Milano, Casa Editrice Giuffrè,
2003, 43-106. Di seguito anche l’Indice del volume: Introduzione.
– Capitolo I: Il problema. – Capitolo II: ‘Bellum iustum’ e
ordinamento feziale. – Capitolo III: Cicerone teorico del ‘bellum
iustum’?. – Indice degli autori. – Indice delle fonti.
[1] Liv. 1,32,1-5: 1. Mortuo
Tullo res, ut institutum iam inde ab initio erat, ad patres redierat, hique
interregem nominaverant. Quo comitia habente Ancum Marcium regem populus creavit;
patres fuere auctores. Numae Pompili regis nepos, filia ortus, Ancus Marcius
erat. 2. Qui ut regnare coepit, et
avitae gloriae memor, et quia proximum regnum, cetera egregium, ab una parte
haud satis prosperum fuerat, aut neglectis religionibus aut prave cultis, longe
antiquissimum ratus sacra publica ut ab Numa instituta erant facere, omnia ea
ex commentariis regiis pontificem in album elata proponere in publico iubet. Inde et civibus otii cupidis et finitimis civitatibus facta spes in avi
mores atque instituta regem abiturum. 3. Igitur
Latini, cum quibus Tullo regnante ictum foedus erat, sustulerant animos, et cum
incursionem in agrum Romanum fecissent, repetentibus res Romanis superbe
responsum reddunt, desidem Romanum regem inter sacella et aras acturum esse
regnum rati. 4. Medium erat in Anco
ingenium, et Numae et Romuli memor; et praeterquam quod avi regno magis
necessariam fuisse pacem credebat cum in novo tum feroci populo, etiam quod
illi contigisset otium sine iniura, id se haud facile habiturum; temptari
patientiam et temptatam contemni, temporaque esse Tullo regi aptiora quam
Numae. 5. Ut tamen, quoniam Numa in
pace religiones instituisset, a se bellicae caerimoniae proderentur, nec
gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua
gente Aequicolis, quod nunc fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur. [trad. L. Perelli, ed. utet,
1997: 1. Alla morte di Tullo il potere tornò al senato, secondo la norma
introdotta fin dall’inizio della monarchia, e i senatori nominarono un interré.
Avendo questi convocato i comizi, il popolo elesse re Anco Marcio, e il senato
ratificò l’elezione. Anco Marcio era nipote del re Numa Pompilio, essendo nato
da una sua figlia. 2. Appena salì al trono, memore della fama dell’avo, e poiché
il regno precedente, glorioso per gli altri riguardi, per questo solo motivo
non era stato pienamente fortunato, che la religione era stata trascurata o
male applicata, stimando che fosse cosa della massima importanza il compiere i
sacri riti pubblici come erano stati istituiti da Numa, ordinò al pontefice di
esporre al pubblico affisse all’albo tutte le prescrizioni
tratte dai libri sacri del re. Da questo fatto sia i cittadini, desiderosi di
pace, e sia le città vicine trassero la speranza che il re sarebbe tornato ai
costumi e alle usanze dell’avo. 3. Pertanto i Latini, con i quali Tullo aveva
conchiuso un trattato, ripresero baldanza, e dopo aver fatto una scorreria in
territorio romano, diedero una risposta arrogante ai Romani venuti a chiedere
soddisfazione, convinti che il re di Roma imbelle avrebbe trascorso il suo
regno fra cappelle ed altari. 4. L’indole di Marcio era intermedia fra quella
di Numa e quella di Romolo, e partecipe di entrambi; pensava che al regno
dell’avo era stata più necessaria la pace, trattandosi di un popolo nuovo e
bellicoso, ed inoltre che se quello era stato lasciato tranquillo senza dover
subire aggressioni, egli non avrebbe facilmente ottenuto la stessa cosa;
stavano mettendo alla prova la sua remissività, e una volta che fosse provata
intendevano farsene gioco: i tempi erano più adatti a un Tullo che a un Numa.
5. Tuttavia, poiché Numa aveva istituiti i riti religiosi di pace, volendo per
parte sua istituire un sacro cerimoniale di guerra, perché non si facessero
guerre senza prima averle dichiarate secondo un certo rito, introdusse
dall’antica gente degli Equicoli il rituale per chiedere soddisfazione, che
ancor oggi i feziali osservano].
[2] Per Cic., rep. 2,17,31
la regolamentazione dell’attività bellica fu introdotta dal re precedente Tullo
Ostilio. Segue, invece, la versione di Livio, Serv., Aen. 10,14.
[3] Si dubita di tale affermazione liviana, frutto probabilmente
dell’errata etimologia aequum colere
(R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, Oxford, 1965, 130 h.l.; L. Perelli
in Tito Livio, Storie, I, utet, Torino, 1997, h.l.).
[6] È da accogliere la puntualizzazione di B. Albanese, “Res repetere” e “bellum indicere” nel rito feziale (Liv. 1,32,5-14),
in Annali Seminario Giuridico Università
Palermo, XLVI, 2000, 26: «la richiesta era stata per homines e res in 1,32,7
(in 1,33,11 si parlerà solo di res);
forse si dovrebbe emendare il quos in
quae».
[8] Correzione di R.M. Ogilvie,
A Commentary on Livy, cit., 136, per
analogia con il successivo hominibusque.
[9] B. Albanese, “Res repetere” e “bellum indicere” nel rito
feziale (Liv. 1,32,5-14), cit., 44 nt. 68: «Mi pare necessaria
l’integrazione della parola Quiritium,
imposta dalla triplice menzione precedente di populus Romanus Quiritium».
[10] [Traduzione modulata su quella di L. Perelli, ed. utet, 1997: 6. Quando l’ambasciatore giunge
al confine di quel popolo a cui si chiede soddisfazione, col capo cinto da una
benda di lana dice: “Ascolta, o Giove, ascoltate, o confini — e fa il nome del
popolo cui appartengono —, ascolti il fas:
io sono il nunzio ufficiale del popolo romano; vengo delegato giustamente e
santamente, e alle mie parole sia prestata fede”. 7. Dopo aver esposte le
richieste, invoca Giove a testimone: “Se ingiustamente ed empiamente chiedo che
mi siano consegnati quegli uomini e quelle cose, non lasciare che mai più io
sia partecipe della patria”. 8. Queste cose ripete quando varca il confine,
quando incontra il primo uomo in territorio nemico, quando entra nella città e
quando giunge nel foro, mutando solo poche parole della formula e del
giuramento. 9. Se non vengono consegnate le ‘cose’ richieste, passati trentatré
giorni — questo infatti è il numero prescritto — in questo modo dà inizio alla
guerra: 10. “Ascolta, o Giove, e tu, o Giano Quirino, e voi tutti, o dèi del
cielo, della terra e degli inferi, ascoltate; io vi invoco a testimoni che il
popolo — e qui fa il nome — è ingiusto e non concede la dovuta riparazione. Ma
su queste cose consulteremo gli anziani in patria, sul modo come possiamo far
valere il nostro buon diritto”. Poi … il messaggero ritorna a Roma a riferire…
11. Immediatamente il re consultava il senato all’incirca con queste parole:
“Intorno alle cose, controversie e accuse di cui il padre patrato del popolo
romano dei Quiriti trattò con il padre patrato dei prischi Latini e con gli
uomini Prischi Latini, le quali cose né restituirono, né fecero, né pagarono,
mentre era doveroso che fossero restituite, fatte, pagate, dimmi — diceva
rivolto a colui che per primo veniva richiesto del suo parere — che cosa
proponi?”. 12. Allora quello rispondeva: “Propongo che si richiedano con pia e
santa guerra: a questo mi associo e questo approvo”. Quindi venivano
interrogati gli altri per ordine; e se la maggior parte dei presenti era dello
stesso parere, la guerra era decisa. Era usanza che il feziale portasse al
confine nemico un’asta con la punta di ferro, oppure di corniolo rosso aguzzata
nel fuoco, e dicesse alla presenza di almeno tre uomini puberi: 13. “Poiché i
popoli dei Prischi Latini e gli uomini Prischi Latini agirono ingiustamente
contro il popolo romano dei Quiriti, poiché il popolo romano dei Quiriti ha
proposto, approvato, deliberato che si facesse la guerra coi Prischi Latini,
per questo io a nome del popolo romano dichiaro e muovo guerra ai popoli dei
Prischi Latini e agli uomini dei Prischi Latini”. 14. Detto ciò scagliava
l’asta nel loro territorio. In questo modo allora fu richiesta soddisfazione e
fu dichiarata guerra ai Latini, e i posteri conservarono quel rito].
[11] La formula liviana è giudicata un’invenzione tarda da K. Latte, Religiöse Begriffe im frührömischen Recht, in ZSS, 67, 1950, 56; E. Fraenkel,
Horace, Oxford, 1957, 289, nt. 1;
R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, cit., 127 ss., che, nonostante tutto, ritiene
la procedura dei feziali «obsolete»; E. Rawson,
Scipio, Laelius, Furius and the ancestral
religion, in JRS, 1973, 167 nt.
57.
[12] Ad esempio, l’uso del verbo audire
nel § 6, tipico delle antiche formule dei feziali (cfr. F.V. Hickson, Roman Prayer Language Livy and the Aneid of Virgil, Stuttgart,
1993, 115-117); il verbo “siris” del
§ 7 che è antica forma contratta del perfetto congiuntivo (= ‘siveris’) di sinere (cfr. R.M. Ogilvie,
A Commentary on Livy, cit., 131; per
un’altra testimonianza antica della forma del verbo vedi XII Tab. 8,22); il
verbo suprascandit che secondo R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, cit., 131: «so perhaps borrowed direct from
the fetial procedure» (cfr. da ultimo B. Albanese,
op. cit., 22 nt. 26); l’espressione cuiuscumque gentis sunt, nominat del § 7
induce a ritenere che Livio (o la sua fonte) avesse sotto gli occhi il modello
del formulario dell’indictio belli (ugualmente
per il § 10).
[13] Per A. Momigliano, Le origini di Roma, in Roma arcaica, Firenze, 1989, 22: «la
scrittura compare a Roma intorno al
[14] P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano,
cit., 21, riformulando e precisando uno spunto di G. Fusinato, Dei feziali e
del diritto feziale (Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di
Roma), in Reale Accademia dei Lincei,
Roma, 1884,
[15] Il riferimento è alle formule dei feziali per la stipula dei foedera (Liv. 1,24,1-9). Cfr. V. Pisani, Testi latini arcaici e volgari, Torino, 19602, 56-58.
[16] Anche lo storico greco del I sec. a.C., Dionigi di Alicarnasso,
descrive, in forma più discorsiva e con qualche importante divergenza su cui
tornerò, la procedura seguita dal popolo romano per iniziare la guerra. Vedi
Dionys. 2,72,4-9, che riproduco nella traduzione di F. Cantarelli, ed. Rusconi,
1984: «4. Apparirà infatti chiaro che essi (= i Romani) intrapresero sempre
guerre per motivi santi e onesti e per questo soprattutto gli dèi erano loro
propizi nei pericoli. Non è facile enumerare tutti i compiti che spettano ai
feziali per il loro gran numero, in ogni modo con un’espressione sommaria sono
i seguenti: essi devono badare che i Romani non muovano ingiustamente guerra a
una città alleata; se gli altri cominciano a violare i trattati, devono inviare
ambasciatori e chiedere giustizia; poi, se le richieste non vengono accolte,
dichiarare guerra. 5. Parimenti se degli alleati sostengono di aver subito
torti da parte dei Romani e chiedono giustizia, è compito di costoro stabilire
se c’è stata una violazione dei trattati a loro danno, e, se sembra loro che le
scuse siano fondate, arrestare i colpevoli e consegnarli alla parte lesa.
Devono giudicare sugli oltraggi fatti agli ambasciatori, aver cura che i
trattati siano pienamente osservati, fare la pace e annullarla nel caso che ne
sia stata stipulata una che a loro giudizio va contro le leggi sacre; indagare
ed espiare le illegalità commesse dai comandanti riguardo ai giuramenti e ai
trattati, questioni queste che tratterò in un luogo più adatto. 6. Quanto alle
funzioni che svolgevano come ambasciatori quando andavano a chiedere giustizia
a una città che sembrava recare ingiuria (non si possono ignorare queste cose
perché compiute con grande rispetto per la giustizia e la pietà religiosa) ho
appreso quanto segue: uno dei feziali scelto dai colleghi, con le vesti e le
insegne sacre, per poter essere distinto dagli altri, si recava alla città i
cui abitanti avevano commesso un’ingiustizia: si fermava ai confini e invocava
Giove e gli altri dèi come testimoni che egli veniva a chiedere giustizia per
Roma; 7. poi, dopo aver giurato di andare in una città colpevole ed aver
invocato su di sé e Roma le più grandi maledizioni nel caso mentisse, varcava i
confini; quindi chiamava come testimone il primo in cui si imbatteva, abitante
della campagna o della città che fosse, e, ripetute le stesse maledizioni, si
avviava verso la città; prima di entrarvi chiamava allo stesso modo come
testimone la sentinella o il primo che incontrava sulla porta della città,
quindi avanzava verso il foro; qui fermatosi discuteva con i magistrati le
questioni per cui era venuto, aggiungendo sempre i giuramenti e le maledizioni.
8. Se dunque quelli accettavano di consegnare i colpevoli, ritornava indietro
portando con sé i rei, lasciando ormai da amico degli amici; se invece
chiedevano tempo per prendere una decisione, concedeva dieci giorni, poi tornava
da loro e portava pazienza fino alla terza richiesta. Trascorsi così trenta
giorni, se la città non gli assicurava soddisfazione, invocati gli dèi celesti
e inferi se ne andava, dicendo soltanto questo, che Roma avrebbe preso dei
provvedimenti nei loro confronti a tempo debito. 9. E dopo di ciò si recava in
senato con tutti gli altri feziali e riferiva che tutto era stato fatto da loro
secondo le leggi sacre e se avessero voluto votare la guerra non ci sarebbe
stato alcun impedimento da parte degli dèi. Se non si rispettava fedelmente
questa procedura, né il senato né il popolo avevano il potere di votare la
guerra».
[17] Gli annalisti avrebbero apportato modernizzazioni alle formule
arcaiche ma non avrebbero tradito lo spirito dell’antico diritto (cfr. A. Magdelain, ‘Quirinus’ et le droit (1984), in ‘Ius, Imperium, Auctoritas’. ‘Etudes de droit romain, Rome, 1990,
229-269).
([18]) P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei
rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in SDHI, V, 1939, 179-181, che richiama G. Rubino, Untersuchungen
über röm. Verfassung und Geschichte, I, Cassel, 1839, 290 nt. 1 e Th. Mommsen, Römische Staatsrecht, III, Leipzig, 1887, 341-342 e nt. 2; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 37-38 nt. 76, il
quale giudica eccessivi gli argomenti di Latte; G. Dumézil, La religione
romana arcaica (19742), trad. it., Milano, 1977, 93-
[19] Cfr. R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, cit., 127 ss., il
quale identifica la denuntiatio con
la rerum repetitio; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., 102, il quale
identifica la rerum repetitio con la clarigatio e la testatio con la denuntiatio;
E. Bianchi, ‘Fictio iuris’. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo
arcaico all’epoca augustea, Padova, 1997, 113, per il quale la clarigatio consisteva nella rerum repetitio. Alla “struttura
triadica” del rito si rifà anche M. Bretone,
I fondamenti del diritto romano. Le cose
e la natura, cit., 54.
[23] J.-L. Ferrary,
‘Ius fetiale’ et diplomatie, in E. Frézouls - A. Jacquemin, Les
relations internationales. Actes du Colloque de Strasbourg 15-17 juin 1993, Paris, 1995, 424.
[24] Il potere magico della lana è rilevato da R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, cit., 130 h.l.
Nella testimonianza di Dionigi si sottolinea la tipicità dell’abbigliamento del
feziale: «uno dei feziali scelto dai colleghi, con le vesti e le insegne sacre,
per poter essere distinto dagli altri, si recava…» (Dionys. 2,72,6).
[25] La bibliografia sul collegio sacerdotale è copiosa. Per una
prima visione delle questioni maggiormente dibattute in dottrina vedi ora C. Auliard, Les Fétiaux, un collège religieux au service du droit sacré
international ou de la politique extérieure romaine?, in Mélanges P. Lévêque, VI, Paris, 1992, 1
ss.; E. Bianchi, ‘Fictio iuris’, cit. 111 nt. 214; sul
ruolo dei feziali, cfr. L. Loreto,
È scoppiata la guerra coi Romani. Le
decisioni di politica internazionale a Roma nella media Repubblica 327-
[26] La stessa etimologia del termine ‘fetiales’ non è chiara: alcuni fanno derivare la parola ‘fetiales’ da ‘fides’, altri da ‘ferire’,
altri ancora da ‘foedus’ (cfr. G. Ferrari,
s.v. feziali, in NNDI; per l’etimologia vedi pure G. Dumézil,
La religione romana arcaica, cit., 503).
Nei documenti testuali l’origine dei feziali è, all’unanimità, fatta risalire
all’età regia anche se non c’è accordo sul re: Dionys. 2,72,2; Plut., Num. 12,4-8 e Cam. 18,2 rinviano a Numa; Cic., rep. 2,17,31 attribuisce a Tullo Ostilio l’introduzione dei rituali
feziali sul bellum iustum; Livio
riferisce del più antico trattato romano (quello con gli Albani) eseguito dai
feziali al tempo di Tullo Ostilio (1,24,4) e del sacro cerimoniale di guerra
voluto dal re Anco Marzio (1,32,5); Serv., Aen.
10,14 segue la versione di Livio. Tenta una conciliazione tra le differenti
testimonianze C. Auliard, op. ult. cit., 1-8. Le ultime
testimonianze sull’impiego dei feziali sono quelle di Dio Cass. 50,4,4-5,
relative alla dichiarazione di guerra di Ottaviano a Cleopatra nel
[27] Per tutti, vedi i classici lavori di
F.W. Walbank, The Origins of the Second Macedonian War, in JRS, 27, 1937, 180-207; Id.,
A note on the embassy of Q. Marcius
Philippus, 172 B.C., in JRS, 31, 1941,
82-93; Id., Roman Declaration of War in the Third ad Second Centuries, in Class. Phil., 44, 1949, 15-19.
[28] In questo senso anche Plin., nat.
22,3,5, citato più avanti, e Varr., De
vit. pop. rom. 2,75 R. (= 31 K.).
È significativo che, per quanto riguarda l’inizio della guerra tra i Romani e
gli Equi nel
[29] Cfr. Liv. 1,24,5 ss. Il punto che, in particolare, interessa è
la domanda del verbenarius, riportata
nel § 5: Rex, facisne me tu regium nuntium populi Romani Quiritium, vasa
comitesque meos? (sottolineatura mia). L’espressione ‘nuntius’ è tecnica: «desunta dai formulari» (B. Albanese, op. cit., 17).
[30] Il princeps fetialium
secondo Serv., Aen. 9,53: pater patratus, hoc est princeps fetialium.
Cfr. in generale, E. Samter, s.v. ‘Fetiales’, in PWRE, VI, 1909, col. 2263. Per il significato del termine, vedi da
ultimo con discussione delle diverse ipotesi B. Albanese,
Varr., De l. lat. 6,12 ed il ‘Pater
patratus’, in Mélanges Magdelain, Paris, 1998, 1-7, il quale
giunge alla conclusione che «il senso specifico originario di patrare dovette essere quello di
'operare come pater' … Sicché ritengo
che probabilmente pater patratus in
origine significò il 'pater costituito
tale da chi agiva come pater'» (7).
[31] R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, cit., 130 h.l. B. Albanese,
“Res repetere” e “bellum indicere” nel
rito feziale (Liv. 1,32,5-14), cit., 17, dimostra l’esistenza di un nesso
tra il termine legatus e la figura
del pater patratus. Non condivido,
quindi, la tesi di V. Ilari, L’interpretazione storica del diritto di
guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, cit., 16-17, di
un riferimento al tempo augusteo da parte di Livio desunto dalla presenza di “nunc” e “legatus” (Liv. 1,32,5-6). Infatti, per il termine legatus vedi le precisazioni di
Albanese; per l’avverbio nunc,
ritengo che esso esprima il rapporto diacronico tra la procedura originaria
della rerum repetitio e quella di
epoca storica, come lo intendono la quasi totalità dei traduttori, tra cui vedi
L. Perelli (ed. utet) che rende
l’avverbio con l’espressione «ancor oggi».
[32] Quattro secondo O. Karlowa,
Römische Rechtsgeschichte, 1,
Leipzig, 1885, 282, che si fonda sulla testimonianza di Varr., De vit. pop. rom. 2,75 R. (= 31 K.).
[34] Cfr. S. Albert, ‘Bellum iustum’, cit., 15; L. Loreto, Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci, cit., 97, il quale deduce dai
due testi varroniani (Varr., l.l.
5,86 e De vit. pop. rom. 2,75 R.) “una
relazione biunivoca ed esclusiva tra carattere iustum del bellum e ius fetiale”. B. Albanese, op. cit.,
14, sottolinea come il verbo legare,
da cui legatus, richiami sempre “una
solenne pronunzia”, come confermerebbe la presenza del termine ‘oratores’ attribuito ai feziali da
Varrone (adde Cic., leg. 2,9,21; per l’importanza della
parola vedi Plut., Numa 12).
[35] Spunto in G. Fusinato,
Dei feziali e del diritto feziale,
cit., 78; ora E. Bianchi, Fest. s.v. ‘nuntius’ p.
[36] Il riferimento è qui allo ius
fetiale come “sistema sovrannazionale” (su cui vedi P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., infra, che respinge la tesi del Mommsen
della guerra come stato naturale delle relazioni tra i popoli). I feziali
appartenevano alla koinè italica, come
si deduce dalla loro presenza «presso gli Albani, i Laurenti, gli Equicoli, i
Falisci, gli Ardeati, i Sanniti» (P. Catalano,
op. ult. cit., 21; vedi già A. Weiss, s.v. ‘Fetiales’, ‘Jus Fetiale’, in Daremberg-Saglio, 1918, 1095-1101).
Per G. Luraschi, s.v. ‘foedus’, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, 546-550, le origini dello ius fetiale si perdono nella preistoria
italica.
[37] La svolta è da far risalire probabilmente alla guerra contro
Veio del
[38] [Trad. F. Cancelli, ed. Mondadori 1969:
«Siano arbitri e nunzi di rituali trattati, di pace di guerra e di tregua, i
feziali: ed interpretino il diritto di guerra»].
[41] Tale significato di dirimere casi controversi si riscontra anche
nel sostantivo disceptatio; vedi
Cic., off. 1,11,34: Nam cum sint duo genera decertandi, unum per
disceptationem, alterum per vim. Similmente Liv. 21,18,7 e 21,19,1. Da non
confondersi con il termine retorico sinonimo di controversia (vedi Cic., de
orat. 2,42; 2,78; 2,113).
[42] Vedi Dionys. 2,72,5; Varr., De
vit. pop. rom. 3,111; Liv. 38,42,7; Val. Max. 6,6,3 e 5 (sull’argomento
cfr. T.R.S. Broughton, Mistreatment of Foreign Legates and Fetial Priests:
three Roman Cases, in Phoenix,
41, 1987, 50-62; in particolare, sulla testimonianza di Varrone, v. A. Cenderelli, Varroniana, cit., 114 e 158).
[43] Un esempio dell’esclusivo tecnicismo giuridico dei feziali, da
non confondersi con il potere politico di decidere la guerra, è in Liv.
36,3,7-12, dove, in occasione della guerra contro Antioco III e gli Etoli nel
[44] Un esempio dell’impossibilità dei feziali di decidere la
conclusione di un foedus si ricava da
Liv. 30,43,4-9, dove l’azione feziale per la pace con i Cartaginesi nel
[45] [Trad. A. Traglia, ed. utet,
1996: «I feziali sono chiamati così perché sovrintendono alla leale osservanza
dei trattati internazionali. Infatti per loro mezzo avveniva che una guerra
dichiarata fosse una guerra legittima e che poi, una volta terminata la guerra,
si ristabilisse con un trattato la lealtà della pace. Prima della dichiarazione
di guerra venivano mandati alcuni di loro a reclamare la restituzione dei beni
usurpati, e per loro mezzo ancora oggi si stipula un foedus (trattato), parola che, secondo la grafia usata da Ennio, si
pronunciava fidus.»]
[46] Su tale funzione dei feziali condivido
l’affermazione di D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts,
cit., 117: «Fest steht, daß das Fetialenkollegium lange Zeit seiner Aufgabe
nachgekommen ist, das ‘Institut’ der Kriegserklärung gleichzeitig zu
konservieren und zu adaptieren».
[47] M. Kaser, ‘Ius gentium’, cit., 28. L’attività
pubblica dei feziali si esplicava per mezzo di decreta (Liv. 31,8,3) e responsa
(Liv. 36,3,9). Sulla distinzione tra “opinioni” sacerdotali “cautelari” e
“giudiziali” vedi F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana (19532),
trad. it., Firenze, 1968, 37.
[48] Cfr. M. Kaser,
op. cit., 28-29; S. Albert, ‘Bellum iustum’, cit., 16, parla di «eine Säkularisierung der
römischen Außenpolitik».
[49] Per Walbank, che colloca il mutamento alla fine del III secolo a.C.,
vedi i lavori citati nella precedente nt. 27. Walbank è comunque interessato
esclusivamente all’indictio belli;
chi invece parla di una vera e propria sostituzione dei feziali ad opera dei
legati, a partire dall’inizio della II Guerra Punica, è R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, cit., 128 h.l.
Per Loreto, oltre a Un’epoca di buon senso. Decisione, consenso
e stato a Roma tra il 326 e il
[50] Un’indicazione molto dettagliata degli studi sulla clarigatio fino alla metà del secolo
scorso è in E. Volterra, L’istituto della ‘clarigatio’ e l’antica
procedura delle ‘legis actiones’, cit., 249 nt. 2. Una parte della dottrina
ha identificato la rerum repetitio
con la clarigatio (vedi G. Fusinato, Dei feziali e del diritto feziale, cit., 497; M. Kaser, Das altrömische Ius. Studien zur Rechtsvorstellung und Rechtsgeschichte
der Römer, Göttingen, 1949, 20; G. Donatuti,
La ‘clarigatio’ o ‘rerum repetitio’ e
l’istituto parallelo dell’antica procedura civile romana, cit., 29; S. Albert, ‘Bellum iustum’, cit., 13-14; B. Albanese,
op. cit., 8).
[54] Il verbo concipere,
come sostiene B. Albanese, op. cit., 7 nt.
[55] L’espressione “indicere bellum”
del testo è usata nell’accezione generale di “muovere guerra”, di cui abbiamo
esempi anche in Livio (vedi più alla nt. 91).
[56] [Trad.: «inizio della
guerra. Ciò è stato tratto da una solenne usanza romana. Quando infatti
volevano dichiarare guerra, il pater
patratus, cioè il capo dei feziali, si spingeva fino ai confini dei nemici
e, dopo aver detto alcune formule solenni, a chiara voce diceva che egli stesso
dichiarava guerra per determinati motivi, o perché essi avevano leso gli
alleati o perché non rendevano gli animali rubati o i colpevoli. Ciò si diceva clarigatio anche per la chiarezza della
voce»].
[57] [Trad. ed. Giardini: «Entrambi i termini, comunque, indicano lo
stesso oggetto, cioè dell’erba strappata con la sua zolla dall’arce; e sempre,
quando si mandavano dei legati ai nemici per clarigare, cioè per chiedere, a voce chiara e alta, la restituzione
di beni ingiustamente sottratti, uno di essi era detto verbenario»].
[58] Il verbenarius era il
feziale che aveva il compito di procurare il ciuffo d’erba sacro,
indispensabile per le cerimonie di pace (Liv. 1,24) e, a quanto appena letto,
di guerra.
[59] B. Albanese, op. cit., 14, avanza un’interessante
ipotesi circa l’investitura del pater
patratus nell’indictio belli
analoga a quella della stipula del foedus,
descritta da Livio in 1,24,6.
[60] Iuppiter era anche il
protettore della parola data, del giuramento. Su Giove precapitolino, tutore
dei patti giurati, cfr. G. Wissowa,
Religion und Kultus der Römer,
München, 1912, 19-20.
[61] Nel testo liviano non si nomina il popolo nemico ma si riporta
la frase burocratica “cuiuscumque gentis
sunt, nominat”, come se lo storico avesse
sotto mano un modello di formulario. Il riferimento ai fines è ovviamente alle “divinità protettrici dei confini” (cfr. B.
Albanese, op. cit., 14 nt. 12).
[62] La sostantivizzazione del termine fas, risalente ad un’età anteriore a quella di Cicerone, è ora
sostenuta da F. Sini, ‘Bellum nefandum’, cit., 83-95, contro
la tesi di R. Orestano, Dal ‘ius’ al ‘fas’. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva all’età
classica, in BIDR, 46, 1939, 238.
Un’ipotesi alternativa, che eviterebbe la contrapposizione eliminando la
sostantivizzazione del termine, è l’interpretazione della formula avanzata da
V. Pisani, Lat. ‘fas’ e ‘ius’, in Archivio
Glottologico Italiano, 33, 1941, 127 nt. 4, che, condividendo la
ricostruzione generale di Orestano, ritiene, sul punto specifico, che la
formula andrebbe letta nel seguente modo: Audi
Juppiter, audite fines: audiant fas.
[63] Sull’endiadi ius-fas
la bibliografia è copiosa, mi limito ad indicare solo alcune delle numerose
ricerche interne alla scienza romanistica, rinviando alle stesse per ulteriore
letteratura: F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di
‘fas’ ed ‘ius’, in RISG, 1935,
209 ss.; R. Orestano, Dal ‘ius’ al ‘fas’, cit., 194-273; P. De Francisci, ‘Arcana imperii’, 3, I, Roma, 1948 (rist. 1970); P. Noailles, Du droit sacré au droit civil. Cours de droit romain approfondi
1941-1942, Paris, 1949; H. Lévy-Bruhl,
Nouvelles Etudes sur le très ancien droit
romain, Paris, 1947; M. Kaser,
Das altrömische Ius, cit.; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in SDHI, 19, 1953, 38-103; C. Gioffredi,
Religione e diritto nella più antica
esperienza romana, in sdhi, 20,
1954, 259 ss.; Id., Diritto e processo nelle antiche forme
giuridiche romane, Roma, 1955; P. De
Francisci, ‘Primordia civitatis’,
Roma, 1959; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale,
Torino, 1960; R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza
giuridica romana arcaica, cit.; R. Santoro,
Potere ed azione nell’antico diritto
romano, in Annali Seminario Giuridico
Palermo, 30, 1967, 103 ss.; H. Van
Den Brink, ‘Ius fasque’,
Amsterdam, 1968, sp. 24-33; O. Behrends,
‘Ius’ und ‘ius civile’. Untersuchungen zur Herkunft des ‘ius’-Begriffs in römischen Zivilrecht, in Symp. Wieacker, 1970, 11 ss.; F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, München, 1988, 68-71.
[64] Fu solo a partire dal VI secolo a.C. che, in seguito a profonde
trasformazioni interne alla civitas,
si avviò la progressiva e inarrestabile formazione di un diritto autonomo dalla
religione. Sull’uso del termine ius
nelle fonti di cognizione si rinvia a A. Guarino,
L’ordinamento giuridico romano,
Napoli, 19905, 97-128, dove, a p. 122, si trovano i riferimenti alle
decisive rassegne di Albanese e Kaser.
[65] Così B. Albanese,
“Res repetere” e “bellum indicere” nel
rito feziale (Liv. 1,32,5-14), cit., 20 interpreta il riferimento del
feziale ai concetti di iustitia e pietas. Pius nel suo significato originario indica l’adempimento degli
obblighi (cfr. Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique, cit., s.v. ‘pius’, 510).
[66] Per H.A.A. Danz, Der sakrale Schutz im römischen
Rechtsverkehr, Jena, 1857, 181, la clarigatio
si esaurirebbe in tale «pronunzia delle richieste». Più opportunamente G. Fusinato, Dei feziali e del diritto feziale, cit., 53, amplia la portata
della clarigatio.
[68] Cfr. Les Belles Lettres, h.l.: si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier populi romani mihi exposco, tum patriae
compotem me numquam siris esse (sottolineature mie). Per R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, cit., 131 h.l.,
le lettere “p.r.” sarebbero un
errore.
[69] Vedi in generale Dionys. 2,72,8 e Serv., Aen. 9,52 e 10,14. Un esempio di richiesta del responsabile dell’iniuria, come oggetto della rerum repetitio, fu l’intimazione fatta
ai Cartaginesi nel
[70] Il reo “non gode più di alcuna tutela, né divina né umana, e
chiunque può ucciderlo senza timore di incorrere nella sanzione dell’omicidio”
(interpreta così il passo di Fest., s.v. ‘sacer
mons’ 424,6-
[71] Cfr. Fest., s.v. ‘sacer
mons’ 424,5-
[72] J. Bayet, La religione romana. Storia politica e
psicologica (1957), Torino, 1959, 142. Cambia punto di vista, ma non la
sostanza, D. Sabbatucci, Lo Stato come conquista culturale, cit.,
170, il quale giunge alla conclusione che la comunità «aliena un suo membro
dichiarandolo sacer». Suggestivamente
G. Agamben, ‘Homo sacer’. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, 1995,
77-127, immagina: «una zona originaria di indistinzione in cui sacer significava una vita uccidibile e
insacrificabile».
[73] La dottrina ha inteso la exsecratio,
invocata in caso di periurium, in
forme concettuali differenti (per un sguardo generale vedi R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 214 ss.). Alcuni studiosi, come H.A.A. Danz, Der sakrale Schutz im römischen Rechtsverkehr, cit., 62 ss.,
richiamando la figura della detestatio
sacrorum, hanno interpretato la punizione dello spergiuro come
allontanamento dalla pubblica comunione sacrale (una critica molto puntuale a
tale posizione è stata avanzata da S. Tondo,
Il ‘sacramentum militiae’ nell’ambiente culturale romano-italico,
in SDHI, 29, 1963, 60-66); altri,
come lo stesso S. Tondo, op. ult. cit., 26 ss., 68-69,
utilizzando per le situazioni più antiche la figura del tabù, hanno visto nella
exsecratio una punizione
magico-religiosa proveniente dallo stesso giuramento; altri invece l’hanno
equiparata alla consecratio, che, per
lo spergiuro di epoca più antica, significava la morte, consecratio capitis, (cfr. P. Voci,
Diritto sacro romano in età arcaica,
in SDHI, 19, 1953, 59-65 e ntt. 65 e
74); altri ancora, come H. Fugier,
Recherches sur l’expression du sacré dans
la langue latine, Paris, 1963, sp. 234-235, hanno ritenuto la exsecratio una specificazione della sacratio. Ai fini del nostro
ragionamento è sufficiente ammettere una «indiscutibile connessione tra sacratio e exsecratio» (G. Crifò,
Problemi dell’‘aqua et igni interdictio’
(1984), in L’esclusione dalla città.
Altri studi sull’‘exilium’ romano, Perugia, 1985, 57) senza però giungere
ad una identificazione tra i due concetti, che infatti non si evince da tutti i
documenti testuali a nostra disposizione. In tal senso si condivide l’ipotesi
di R. Santoro, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in Annali
Seminario Giuridico Palermo, 30, 1967, 492, di considerare la sacratio iuris iurandi una situazione
complessa, portatrice di una realtà in trasformazione non riducibile ad «una
mera exsecratio». Anche se
quest’ultima resta una componente importante ma parziale del giuramento. Contra J. Paoli, ‘Verba praeire’ dans la ‘legis actio’, in RIDA, 5, 1950, 321 nt. 82: «le serment par Iuppiter Lapis, n’etait en soi qu’une exsecratio».
[74] Sulla funzione del lapis
silex nell’antico giuramento romano mi permetto di rinviare al mio saggio
A. Calore, “Per Iovem lapidem” alle origini del giuramento. Sulla presenza del
‘sacro’ nell’esperienza giuridica romana, Milano, 2000, infra.
[75] «Le nom de l’ancien dieu du jour Iuppiter (vocatif à géminée expressive de Diêspiter)”» (Ernout-Meillet,
Dictionnaire étymologique, cit., s.v.
‘dies’, 174).
[76] Il termine ‘bonis’ ha un’accezione molto ampia,
corrispondente al valore giuridico del termine res nel significato di domus e familia [sull’argomento cfr. M. Bretone, I fondamenti del diritto romano, cit., 57, il quale stabilisce un
collegamento con un altro passo di Livio (22,53,10-11), dove si narra del
giuramento di P. Cornelio Scipione con conseguente exsecratio che viene così concepita: si sciens fallo, tum me Iuppiter optime maxime, domum familiam remque meam pessimo leto adficiat (sottolineature
mie)]. La frase ‘eicere bonis’ indica, quindi, un totale sradicamento
dello spergiuro dalla comunità (per l’uso dell’ablativo bonis dopo il verbo eicere,
vedi Vitruv. 10 praef. 2: “e bonis eicerentur»). Istruttiva è al
riguardo la ricostruzione storico-giuridica della consecratio bonorum così come è stata effettuata da F. Salerno, Dalla ‘consacratio’ alla ‘publicatio bonorum’, Napoli, 1990, per
cui l’istituto, nel periodo arcaico, si presentò come punizione «carica di una
valenza ad un tempo magico-religiosa e giuridica» (12) che, con il passar del
tempo, si arricchì di contenuti laici fino ad assumere «la funzione di ordine e
prevenzione, tesa ad assicurare la stabilità cittadina e la pace: prima,
intergentilizia, in seguito fra patriziato e plebe» (28), fino a trasformarsi,
nel periodo della repubblica, in «mezzo di realizzazione di un’esigenza sociale
di giustizia» (39).
[77] L’espressione “si sciens
fallo” è tipica delle formule di giuramento, come provano Cic., fam. 7,1,2; Cic., Ac. 2,47,146; Liv. 22,53,11; CIL
II, 172; Plin., Paneg. 64,3.
Il suo scopo era quello di responsabilizzare il giurante dell’atto che stava
per compiere, impedendogli qualsiasi sotterfugio e rendendolo attendibile. Per
un riscontro vedi il contenuto della frase di Liv. 1,24,8 “si prior defexit publico consilio dolo malo”.
[78] Sulla natura di tale punizione dello spergiuro e sul rapporto
con la concorrente uccisione dello spergiuro rinvio a quanto già scritto nel
mio saggio A. Calore, “Per Iovem
lapidem” alle origini del giuramento, cit., 158 nt. 37.
[79] [Trad. F. Cantarelli, ed. Rusconi: «7. Poi (= il feziale), dopo
aver giurato di andare in una città colpevole ed aver invocato su di sé e Roma
le più grandi maledizioni nel caso mentisse, varcava i confini … qui (= nel
foro nemico) fermatosi discuteva con i magistrati le questioni per cui era
venuto, aggiungendo sempre i giuramenti e le maledizioni»].
[80] B. Albanese, op. cit., 26, rileva opportunamente che
la maledizione invocata in caso di spergiuro nel passo di Dionigi, diversamente
da quello di Livio, era indirizzata anche contro il popolo di Roma, ipotizzando
come spiegazione una «incompletezza dell’informazione liviana», anche in
relazione alla exsecratio del
giuramento per la costituzione del foedus.
La divergenza, per essere risolta, andrebbe approfondita, come avverte Albanese.
Personalmente mi limito a rilevare, in aggiunta all’ipotesi dello studioso
palermitano, che i due giuramenti erano di natura diversa, come si chiarirà più
avanti. Motivo questo sufficiente a che le conseguenze negative, in caso di
spergiuro nella dichiarazione di guerra, si palesassero al popolo romano come
effetto del bellum iniustum.
[81] [trad. L. Perelli, ed. utet,
1997: «Coi Veienti si era combattuto di recente in battaglia campale a Nomento
e a Fidene, e in seguito era stata conchiusa non una pace, ma una tregua, di
cui già era scaduto il termine, e quelli avevano ripreso le ostilità prima
ancora che il termine fosse trascorso; tuttavia furono mandati i feziali: ma
quando dopo aver fatto giuramento rituale chiesero soddisfazione, le loro
parole non furono ascoltate»].
[82] Cfr. G. Fusinato, Dei feziali e del diritto feziale, cit.,
54, che parla di cambiamenti «irrilevanti».
[83] Il verbo, come puntualizza R.M. Ogilvie,
A Commentary on Livy, cit., 131,
rappresenta «un prestito diretto della procedura feziale». Ad una forma
rituale, forse una «stilizzata danza di guerra», pensa B. Albanese, op. cit., 22 nt. 26.
[84] La presenza del termine carmen,
che nel linguaggio arcaico poteva anche indicare la formula giurata (cfr. A. Magdelain, Le ‘ius’ archaïque (1986), in ‘Ius,
Imperium, Auctoritas’. ‘Etudes de droit romain, Rome, 1990, 47: «entre ius iurandum et carmen il y a une parenté qui ne s’efface pas»; concetto ribadito
in Id., De la royauté et du droit de Romulus à Sabinus, Roma, 1995, 70),
consentirebbe di avanzare l’ipotesi che, in epoca arcaica, la rerum repetitio si identificasse con il
giuramento, coincidendo così la forma con il contenuto. Per un altro esempio
vedi il giuramento nei foedera (Liv. 1,24,6-9;
su cui in questa direzione A. Calore,
“Per Iovem lapidem” alle origini del
giuramento, cit., 45 ss.). Tale ipotesi non è stata accolta da B. Albanese, op. cit., 23-25 e Id.,
‘Foedus’ e ‘ius iurandum’, in Annali Seminario Giuridico Università Palermo,
XLVI, 2000, 54-58, il quale propugna invece una netta distinzione tra carmen e iusiurandum. Sul punto mi limito in questa sede a due annotazioni:
per la dichiarazione di guerra il riferimento a due atti separati è all’interno
della descrizione tecnica della procedura (§ 8) mentre per il foedus l’accenno è esterno, riferito
com’è al comportamento del feziale albano (§ 9); in ogni caso al tempo di Livio
— come ho cercato di dimostrare — il giuramento era ormai da secoli percepito
come figura autonoma di consolidamento dell’atto giuridico. Il dato comunque
importante da sottolineare è che, sia nell’ipotesi di una coincidenza del
giuramento con il foedus, sia nella
tesi della “distinzione”, le modalità richieste per l’efficacia dell’atto erano
le stesse: oralità e gestualità.
[85] Vedi per tutti, F. De
Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 49. Lascia quindi
perplessi il dubbio, avanzato da A. Watson,
International Law in Archaic Rome,
cit., 21, sulla presenza del giuramento nell’antica dichiarazione di guerra.
[86] Il pater patratus nella
clarigatio giura di dire la verità,
invocando la punizione divina in caso di menzogna, vedi Dionys. 2,72,7 (appena
riportato nel testo). Sulla contrapposizione tra i due tipi di giuramento,
scrive E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee
(1969), II, Torino, 1976, 407: «il giuramento può assumere due ‘forme’: sarà
giuramento di verità o assertivo quando riguarda dei fatti in una disputa, o
sarà giuramento di impegno o promissivo quando serve ad appoggiare una
promessa».
[87] Sulla singolarità dell’uso del termine ‘sollemnis’ in relazione a termini giuridici, vedi B. Albanese, op. cit., 27 nt. 31.
[92] Come si vedrà, al ritorno del pater patratus dovevano seguire gli atti, riassunti nelle
espressioni ‘senatus censet’ e ‘populus iubet’, con i quali la civitas deliberava lo stato di guerra
(cfr. Liv. 1,32,13). È preciso Livio quando descrive la ripresa del conflitto
dei Romani contro Veio: tornati i fetiales
dopo il rifiuto dei Veienti di acconsentire a qualsiasi tipo di res repetere, il senato e il comizio si
espressero a favore dell’indictio belli (Liv.
4,30,12-15; v. quanto si dirà più avanti alla nt. 141). Di diverso avviso A. Magdelain, ‘Quirinus’ et le droit (1984), cit., 247, il quale, ritenendo l’indictio belli iniziata con la testatio, giudica la frase di Livio
corretta. L’obiezione di fondo che si deve muovere a tale ipotesi è che la
decisione di intraprendere la guerra spettava al senato e al popolo romano,
come più avanti lo stesso Livio attesta, e non al pater patratus, come invece si avrebbe ove si seguisse lo studioso
francese.
[93] Sono quindi da accogliere le perplessità sollevate da Voigt e
fatte proprie da G. Fusinato, Dei feziali e del diritto feziale, cit.,
55. Contra B. Albanese, op. cit.,
27, per il quale la diversità potrebbe essere imputata alla distanza che
incorrerebbe tra la procedura descritta da Livio in 1,22,5, risalente a Tullo
Ostilio, e quella in 1,32,5, introdotta da Anco Marzio.
[94] Gli dèi chiamati a testimone sono due e non tre, come rileva la
presenza del pronome “tu”: Giove, dio
del giuramento, e Giano-Quirino, figura più recente di Quirino, dio della “pace
armata” che, come dimostra A. Magdelain,
‘Quirinus’ et le droit (1984), cit.,
245-252, sarebbe stato un “dio di passaggio” presenziando all’inizio della
guerra, che poneva fine allo stato di pace, e non pure alle guerre: «Quirinus
n’est pas le dieu des batailles, mais il déclanche les guerres»( 250).
[95] Condivido la critica di B. Albanese,
op. cit., 28 alla tesi di A. Watson, International Law in Archaic Rome, cit., 11, secondo cui qui testor debba interpretarsi “chiamo a
testimone” e non “chiamo come giudici”.
[96] Sulle implicazioni contenute nell’espressione ‘maiores natu’ in riferimento all’antico
senato romano, cfr. B. Albanese, op. cit., 30.
[97] Per l’uso dell’espressione sostantivizzata in Livio, nella sua
accezione di invocazione degli dèi a testimone, vedi Liv. 8,6,3.
[101] Per R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, cit., 131, la testatio rappresenterebbe una fase
autonoma della procedura feziale.
[103] Verba certa e sollemnia, rigidamente canonizzati
dagli usi della civitas con la
facoltà di porre in essere validi rapporti. Sul tema resta decisiva la
riflessione di R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza
giuridica romana arcaica, Torino, 1967, 190 ss., risalente alla fine degli
anni sessanta e sollecitata dalle ricerche che il De Francisci (‘Primordia civitatis’ è del 1959) andava
conducendo sulle origini dell’esperienza giuridica romana alla luce degli studi
di Wagenvoort sulla presenza del ‘mana’ nella primitiva religione romana e di
Hägeström sul magismo nel diritto arcaico romano. Anche A. Magdelain, De la royauté et du droit de Romulus à Sabinus, Roma, 1995, 70,
nei suoi studi sull’origine del ius,
riconosce alla parola “operatoire”, che richiama il concetto orestaniano di
parola con “valore operativo”, un’importante funzione nell’indagine
sull’esperienza giuridica arcaica di Roma. Il modello qui richiamato è quello
di “atto performativo” che John L. Austin distingue da quello “constatativo” [Quando dire è fare (1962), trad. it.,
Torino, 1964, 158 ss.]. Con il primo sintagma si indica un enunciato (come per
esempio ‘prometto’, ‘giuro’, ‘battezzo’) che esegue un’azione (ibid. 50-54). La frase pronunziata,
anziché descrivere qualcosa, la costituisce (55 ss.): è quello che si dice
anche «atto perlocutorio» (138-141). Condizione necessaria perché ciò si
verifichi è l’esistenza di una «procedura convenzionale», la pronunzia cioè di
certe parole, da parte di determinate persone, in particolari circostanze (57
ss.). L’enunciato performativo pertanto non sarà «vero o falso» bensì «felice o
infelice» (158).
[104] Unica testimonianza in Flor. 2,20 (4,10,2), a proposito della
guerra di Antonio contro i Parti: “…
neque causa neque consilio ac ne imaginaria quidem belli indictione …” (sottolineature mie).
[105] Sono indicative al riguardo le
testimonianze di Liv. 1,32,9; 1,32,14 e Gell., N.A. 16,4,1. Coglie l’aspetto orale e solenne dell’espressione “indicit belli” Varrone in De lingua latina 6,61, cui ricollegare De vit. pop. rom. 2,75 R. (= 31 K.) (A. Cenderelli,
Varroniana, cit., 114, rinviando ai
due testi, scrive che “l’espressione tecnica è bellum indicere” per lo stato di guerra dichiarata).
Sull’identificazione inesatta del bellum
indicere con la sola clarigatio
opportunamente B. Albanese, op. cit., 7-8. Per il significato
generico dell’espressione ‘fare, muovere una guerra’, vedi gli esempi in Enn., Ann.
[108] È importante la domanda con la quale si chiude il paragrafo “quid censes?”, perché il verbo censere è tecnolemma dei senatoconsulti
(cfr. VIR, s.v. ‘censeo’, I.a, col.
711; per il segnificato “tipizzante” che il verbo venne ad assumere
nell’espressione ‘senatus censuit’ durante
il principato cfr. F. Arcaria, ‘Senatus censuit’, Milano, 1992,
138-240). Sul valore tecnico della rogatio
vedi B. Albanese, op. cit., 30-31.
[109] Cfr. V. Pisani,
Testi latini arcaici e volgari, cit.,
58 comm. 6. Allitterazioni e omoteleuti, anziché
sminuire, esaltano la natura rituale del diritto arcaico (in tal senso A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani, cit., 54-56).
[110] Tanto nella sua accezione più antica di ‘intimare’ (Gai. 4,18)
che in quella più tarda di ‘agire per avere’ (D. 25,2,17,2). Cfr. B. Albanese, op. cit., 32 nt. 42 e più avanti la nt. 166. Per condicere con il genitivo, il Thesaurus Linguae Latinae, s.v. ‘condico’, col. 138,63-72, riporta tutti e
soltanto esempi di area giuridica, dove però il genitivo è collegato quasi
sempre ai termini sottintesi actio e
condictio all’ablativo. Annota, però,
A. Gandiglio, Sintassi latina, III, Bologna, 1969, 151: «Arcaico è in Livio
(1,32,11)… condicere col genitivo
partitivo in funzione di oggetto (= le cose su cui espresse la sua definizione;
di solito dicere de aliqua re)».
[112] G. Donatuti, La ‘clarigatio’ o ‘rerum repetitio’ e
l’istituto parallelo dell’antica procedura civile romana, cit., 35.
[124] Cfr. A. Carcaterra,
op. ult. cit., 57-58, per il quale i
tre termini alludono «ai vari momenti dell’atto complesso del Senato: censuit, l’atto del considerare,
valutare e ritener opportuno; consensuit,
l’atto della votazione e concorso di volontà; conscivit, la consapevolezza delle conseguenze e delle
responsabilità della decisione presa: non solo, dunque, semantemi diversi, ma
atti giuridici diversi» (seguito ora da C. Cascione,
‘Consensus’. Problemi di origine, tutela
processuale, prospettive sistematiche, Napoli, 2003, 58). Per B. Albanese, op. cit., 40-42, i tre verbi attesterebbero «una antica competenza
esclusiva del senato nella dichiarazione di guerra» (42). Diversamente A. Biscardi, ‘Auctoritas patrum’. Problemi di storia del diritto pubblico romano,
Napoli, 1987, 22-26, il quale interpreta la formula liviana come un chiaro
riferimento all’auctoritas patrum
finalizzata alla ratifica della deliberazione comiziale (segue la tesi dello
studioso italiano senza aggiungere innovazioni originali A. Graeber, ‘Auctoritas patrum’. Formen und Wege der Senatsherrschaft
zwischen Politik und Tradition, Berlin-Heidelberg-New York, 2001, 54-55. Tale
interpretazione non è condivisibile perché il rimando liviano alla lex de bello indicendo, perno del
ragionamento dello studioso, è successivo (1,32,13) alla descrizione della
decisione del senato (1,32,11-12) e rappresenta la parte più contraddittoria
della ricostruzione liviana, verosimilmente la meno fedele all’originaria.
Resto quindi convinto, per il periodo regio,
del ‘primato’ del senato nella
decisione di entrare in guerra, perché più confacente alla funzione generale
dell’antica istituzione romana, riassunta efficacemente da Frezza con la frase:
«la direzione delle relazioni internazionali dei romani è sempre saldamente
rimasta nelle mani del senato» (P. Frezza,
In tema di relazioni internazionali nel
mondo greco-romano, in SDHI,
1967, 338).
[126] Nell’espressione “quaerendas
censeo” il primo termine si riferisce alle res del paragrafo precedente; il secondo, iterazione del verbo
della domanda, segnala la congruenza della risposta.
[128] Cfr. Cic., inv. 2,23,70; Liv. 3,25,3; 9,8,6; 33,29,8; 39,36,12; 42,23,6;
42,47,8; Curt. 5,8,15; Suet., Galb.
10,4; Flor. 1,34 (2,19,5).
[129] Si pensi alla funzione della herba
pura nel rito feziale per la conclusione del foedus (Liv. 1,24,4-6, su cui rinvio al mio “Per Iovem lapidem” alle origini del giuramento, cit., 35-91, sp.
ntt. 18 e 46). Coglie nella risposta del senato una «autodichiarazione di uno
stato di purezza rituale che serva a mantenere intatto il rapporto tra la
comunità stessa e le divinità» C. Cascione,
op. cit., 57.
[130] La conclusione, cui si è pervenuti, rappresenta un’ulteriore
prova a favore della tesi sull’esclusione dei feziali dalla fase decisionale
relativa all’entrata in guerra contro un altro popolo (vedi 52 ss.).
[131] B. Albanese, op. cit., 43: «Forse si trattava di
soggetti puberi appartenenti al popolo straniero».
[133] La distinzione tra la lancia con la punta di ferro e quella
interamente di legno di corniolo rosso è da ricondurre, come ipotizza J. Bayet, Le rite du fétial et le cornouiller magique, in Mélanges d’Archeologie et d’Histoire de
l’Ècole de Rome, 52, 1935, 29 ss. (= Croyances
et rites dans
[134] Cfr. Gell., N.A.
16,4,1. Tale rituale dell’emittere hastam
restò in vigore fino alla metà del III secolo a.C., se si presta fede alla
testimonianza di Serv. (auct.), Aen. 9,52:
denique cum Pyrrhi temporibus adversum
transmarinum hostem bellum Romani gesturi essent nec invenirent locum, ubi hanc
sollemnitatem per fetiales indicendi belli celebrarent, dederunt operam, ut
unus de Pyrrhi militibus caperetur, quem fecerunt in circo Flaminio locum
emere, ut quasi in hostili loco ius belli indicendi implerent. Fu, quindi,
all’inizio della guerra contro Pirro (
[135] F. Blaive, ‘Indictio belli’. Recherches sur l’origine
du droit fécial romain, in RIDA,
XL, 1993, 185-207. Per il punto di vista antropologico vedi gli
autori citati da D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts,
cit., 117 nt. 18.
[136] Cfr. E. Volterra,
L’istituto della ‘clarigatio’ e l’antica procedura
delle ‘legis actiones’, in Scritti in
onore di Carnelutti, IV, Padova, 1950, 253.
[138] Gai. 4,16 (trad. E. Nardi: «Della bacchetta si servivano come in
luogo dell’asta quasi in segno di giusto dominio, poiché reputavano esser loro
soprattutto le cose tolte ai nemici; onde nei giudizi centumvirali si espone
l’asta»).
[139] Vedi l’uso del trinomio “censere,
consentire, consciscere” che ripete lo stesso modulo usato in precedenza
(Liv. 1,32,12).
[140] [Trad. F. Cantarelli, ed. Rusconi: «9. … Se non si rispettava
fedelmente questa procedura, né il senato né il popolo avevano il potere di
votare la guerra»].
[141] Liv. 4,30,15, dove è decisiva l’espressione omnes centuriae iussere. Il senato aveva decretato la guerra, ma i
tribuni si opposero, minacciando di impedire la leva. Il console Quinzio fu
così costretto a convocare il popolo in comizio, che votò all’unanimità per la
guerra. Secondo L. Lange, Römische Alterthümer (18793),
II, rist. Hildesheim-New York, 1974, 599 ss., il coinvolgimento dell’assemblea
centuriata si avrebbe anche negli episodi precedenti a quello del
[142] La lex de bello indicendo,
oltre ad autorizzare la guerra, comportava come logica conseguenza l’indizione
della leva militare per la formazione dell’esercito (vedi sul punto L. Fascione, ‘Bellum indicere’ e tribù (509-367), in Legge e società nella repubblica romana, Napoli, 1981, 243-244). Non
bisogna dimenticare, poi, che in questo periodo della storia di Roma l’esercito
era ‘stagionale’, costituito cioè alla bisogna.
[143] La dottrina discute sulle forme istituzionali di tale
partecipazione popolare nel periodo della repubblica. Alcuni pensano ad una
competenza esclusiva del comizio centuriato (Th. Mommsen, Römische
Staatsrecht, III, cit., 314 e 343 nt. 1; G. Rotondi,
‘Leges publicae populi romani’
(1912), rist. Hildesheim-Zürich-New York, 1990); altri (R. Develin, ‘Comitia tributa plebis’, in Athenaeum,
53, 1975, 323-324) suppongono il concilium
plebis; altri ancora ipotizzano i comitia
tributa (L. Fascione, op. cit., 225-
[144] Già P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei
rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in SDHI, V, 1939, 179-
[145] B. Albanese, op. cit., 46 nt. 73, ritiene, seguendo
altri studiosi, di espungere il termine perché «non sembra certo possibile come
oggetto di deliquerunt».
[146] [trad. L. Rusca, ed. bur,
1992: «Cincio scrive nel terzo libro Sull’arte
militare che il feziale del popolo romano quando dichiarava la guerra ai
nemici e gettava un giavellotto nel campo nemico, pronunciava queste parole:
“Poiché il popolo ermundolo e gli uomini del popolo ermundolo hanno fatto
guerra al popolo romano e hanno mancato contro di lui, e poiché il popolo
romano ha decretato la guerra contro il popolo ermundolo e gli uomini ermundoli,
per tale ragione io unitamente al popolo romano dichiaro e faccio guerra al
popolo ermundolo e agli uomini ermundoli”»].
[147] Cfr. L. Cincio, fr. 12 Huschke
86-87 (per altra bibl. cfr. G. Donatuti,
La ‘clarigatio’ o ‘rerum repetitio’ e
l’istituto parallelo dell’antica procedura civile romana, cit., 41 nt. 86);
da non confondersi con l’annalista del II sec. a.C. L. Cincio Alimento.
[149] Si viene in questo modo a risolvere l’incoerenza liviana,
rilevata al § 9 (v. sopra). Ai trenta giorni della clarigatio si sommavano i tre giorni occorsi per la deliberazione
dello stato di guerra e la dichiarazione formale del pater patratus. Può essere letta in tale direzione la testimonianza
di Serv., Aen. 9,52: Post tertium autem et tricesimum diem quam
res repetissent ab hostibus, fetiales hastam mittebant. In tal senso già G.
Fusinato, Dei feziali e del diritto feziale, cit., 54-56.
[150] Così F. De Martino,
Storia della costituzione romana, II,
cit., 49 e 50; vedi pure K.-H. Ziegler,
Das Völkerrecht der römischen Republik,
cit., 101, che parla di «Rechtsvorgang»; W.V. Harris,
War and Imperialism in Republican Rome
(327-70 b.C.), cit., 170; A. Watson,
International Law in Archaic Rome,
cit., 20. Scrive D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts,
cit., 116, che sia Cicerone sia Livio assimilano la guerra ad un
«Gerichtsverfahren».
[151] H.A.A. Danz,
Der sakrale Schutz im römischen
Rechtsverkehr, cit., 181 ss., in particolare per la ricostruzione delle
formule 186-188. (cfr. però le critiche di G. Fusinato,
Dei feziali e del diritto feziale,
cit., 70 ss. e quelle più recenti di E. Volterra,
L’istituto della ‘clarigatio’ e l’antica
procedura delle ‘legis actiones’, cit., 251 nt. 1). Sulla linea di Danz,
riguardo al rapporto tra “das internationale res repetere” e “das älteste sacramento
agere inter cives”, vedi anche E. Huschke,
Das römische Jahr, Breslau, 1869,
322.
[152] M. Voigt, ‘Ius naturale, aequum et bonum’ und ‘ius
gentium’der Römer, 2, Leipzig, 1858 (= rist. Aalen, 1966), 183-189. (cfr. le
critiche di G. Fusinato, Dei feziali e del diritto feziale, cit.,
75 s., e quelle, ancor più convincenti, di G. Donatuti,
La ‘clarigatio’ o ‘rerum repetitio’ e
l’istituto parallelo dell’antica procedura civile romana, cit., 36-37 e
42-43).
[154] Oltre agli studiosi citati nel testo, vedi pure M. Kaser, Das altrömische Ius, cit., sp. 20-22; Id., ‘Ius gentium’,
Köln-Weimar-Wien, 1993, 28-29.
[155] U. Coli, Sul parallelismo del diritto pubblico e del
diritto privato nel periodo arcaico di Roma, cit., 83.
[156] Si tratta della clarigatio
imposta dai Romani agli abitanti di Velletri dopo la vittoria definitiva del
[157] E. Volterra, L’istituto della ‘clarigatio’ e l’antica
procedura delle ‘legis actiones’, cit., 243-254.
[158] G. Donatuti, La ‘clarigatio’ o ‘rerum repetitio’ e
l’istituto parallelo dell’antica procedura civile romana, cit., 46.
L’analisi è condotta in particolare sul § 11 del testo di Livio.
[161] Id., op. cit., 21. Gli indizi che riconducono
alla condictio sarebbero oltre alla
precisione della pretesa (21), il lasso di tempo di 30 giorni per l’adempimento
e la presenza del verbo condicere
(24-25). Gli elementi similari alla legis
actio sacramento in rem sarebbero, invece, la figura simile (“akin”) al
giuramento (21) e i 30 giorni identici a quelli previsti dalla lex Pinaria
per la datio iudicis nella legis actio sacramento (24).
[162] Id., op. cit., 27, ma già diffusamente 10-19.
È questo il passaggio della tesi di W., che a mio avviso solleva più dubbi
perché — come ha rilevato B. Albanese,
op. cit., 28 — le divinità erano
invocate come testimoni e non come giudici.
[166] I significati di condicere
sono più d’uno, tutti impiegati per tradurre il verbo di Livio: “convenire”
“accordarsi” “concludere un accordo”, in tal senso vedi la traduzione di L.
Perelli, ed. utet, 1997, h.l. e gli autori indicati da G. Donatuti, op. cit., 35 nt. 43; “reclamare” (= repetere), vedi G. Donatuti,
op. cit., 38 e nt. 62; “intimare
ritualmente” (= denuntiare), che
sarebbe il significato più antico nell’accezione particolare di “intimare alla
controparte di essere presente nel trentesimo giorno per prendere il giudice”,
come scrive Gaio (4,18) a proposito della legis
actio per condictionem: Condicere
autem denuntiare est prisca lingua, oppure come afferma in modo più
generale Fest. (Paul.), s.v. ‘condicere’
[167] Quod…, quod…, ob eam rem…
bellum indico facioque (Liv. 1,32,13), su cui vedi da ultimo B. Albanese, op. cit., 44.
[168] Per il processo privato vedi, per tutti, G. Pugliese, Il processo civile romano, I, Le
‘legis actiones’, Roma, 1961-1962, 50 ss. Per il processo
criminale W. Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des römischen
Kriminalverfahrens in vorsullanischer Zeit, München, 1962, 97 ss.
[169] Per il foedus, vedi
Liv. 1,24 e per la letteratura sull’argomento vedi A. Calore, op. cit.,
35-91 infra.
[170] Sia che si intenda il giuramento promissorio elemento fondante
della sponsio, come ha sostenuto
parte della dottrina (S. Perozzi, Le obbligazioni romane, Bologna, 1903,
82 ss.; P. Huvelin, ‘Stipulatio’, ‘stips’ et ‘sacramentum’,
in Studi Fadda, VI, Napoli, 1906,
79-107; in particolare A. Magdelain,
Essai sur les origines de la ‘sponsio’,
cit., 209 ss.), sia che lo si intenda quale modello della sponsio, come sostengono altri (F. Pastori,
Appunti in tema di ‘sponsio’ e
‘stipulatio’, Milano, 1961, 46 ss.).
[171] Il riferimento è alla inviolabilità dei tribuni della plebe,
raggiunta con il giuramento sul Monte Sacro del
[172] Il sacramentum militiae,
dove il giuramento vincolava i soldati al comandante (S. Tondo, Il ‘sacramentum militiae nell’ambiente
culturale romano-italico, in SDHI,
29, 1963, 1-131 e F. Hinard, ‘Sacramentum’, in Athenaeum, 81, 1993, 251-263).
[176] L’affinità è riscontrata nella funzione di cerniera e non nella
natura sacrale della testimonianza, come invece sostiene A. Biscardi, La ‘litis contestatio’ nella procedura ‘per legis actiones’, in Studi in onore di Arangio-Ruiz, III,
Napoli, 467, il quale ricostruisce, «sia pure approssimativamente, la
fisionomia della litis contestatio primitiva,
richiamandosi al cerimoniale della clarigatio,
di cui Livio ci conserva il ricordo» (critici sul punto C. Gioffredi, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane, Roma,
1955, 155 nt. 38 e G. Pugliese, Il processo civile romano, I, cit., 392
nt. 295). La litis contestatio del
processo per legis actiones
consisteva «nell’invito rivolto ai testimoni di constatare l’esistenza e i
termini della controversia (lis) tra
le parti, in modo da potere in futuro darne eventuale testimonianza» (così G. Pugliese, op. ult. cit., 391, basandosi su Fest. (Paul.), s.v. ‘contestari’
[177] Sarebbe il primo tipo di guerra praticato dai Romani in epoca
regia, cui fa riferimento J.-P. Brisson
(a cura di), Problèmes de la guerre à
Rome, Paris, 1969, 6-7. Guerre come scorrerie “a scopo di saccheggio”, pure
per F. Càssola-L. Labruna, Linee di una storia delle istituzioni
repubblicane, Napoli, 45. «Plunder raid» per J.W. Rich, Declaring War in
the Roman Republic in the Period of Transmarine Expansion, cit., 58.
[178] Gli episodi bellici, di cui ci viene serbata memoria, dai primi
contrasti con i Latini fino alla metà del IV secolo a.C., sono tutti segnati da
episodi di saccheggio, rapina, ruberia: Liv. 1,15,2; 1,32,3; Dionys. 5,37,2-3;
8,91,2-4 e Liv. 2,43,1-2; Dionys.2,69,1-2 e Liv. 3,8,5-6; Liv. 3,30,4. Può
ritenersi un caso esemplare il susseguirsi di combattimenti, nel periodo regio,
per il dominio delle saline vicino la foce del Tevere (Dionys. 2,55,5 e Plut., Rom. 25,5, per l’epoca di Romolo; Liv.
1,33,9; Plin., nat. 31,42,89 e il De vir. ill. 5,2, per il tempo di Anco
Marcio).
[180] Per gli auctores iniuriae,
come contenuto del res repetere, vedi
Serv., Aen. 9,52 (vedi 61) e 10,14
(vedi 60 e nt. 52). Esempio classico la richiesta romana della dediti di Annibale nel
[181] In Liv. 8,39,13 e 10,12,1-2 il res repetere consisteva nel chiedere ai Sanniti di ritirare
l’esercito dal territorio degli alleati Lucani; in Liv. 10,45,7 il res repetere consisteva nel chiedere al
popolo dei Falisci di non allearsi con gli Etruschi.
[182] B. Albanese, Premesse allo studio del diritto privato
romano, Palermo, 1978, 199. Conforta l’etimologia, per cui “le preverbe [per-solvere] ne fait que
préciser le sens du simple” (Ernout-Meillet,
Dictionnaire étymologique, cit., s.v.
‘solvo’, 634).
[183] Sul significato che attribuisco al verbo in tale contesto rinvio
alla nt. 166, dove si accenna anche ai problemi sollevati dai tre genitivi.
[184] Ipotesi già battuta da altri studiosi che hanno inteso lites, come le cose dedotte nella
controversia, e causae, come i «frutti…
della cosa stessa» (Donatuti) o lo «stato… in cui la res si trova o dovrebbe trovarsi» (Bretone). Il mio punto di vista,
pur muovendosi nella stessa direzione, modifica il quadro di riferimento.
[185] Y. Thomas,
‘Causa’: sens et fonction d’un concept dans
le langage du droit romain, th. doct., Paris, 1976, 262-266.
[186] Sottolineature mie. Il testo riportato è quello accolto dalle
edizioni palingenetiche tradizionali (es. FIRA,
I, 28); sul contesto normativo e le possibili modifiche testuali, vedi per tutti
G. Nicosia, Il processo privato romano, II, 1986, Torino, 67-116.
[187] Secondo un’altra interpretazione, generalmente accolta in
passato, l’accordo tra le parti verteva invece sull’oggetto della lite, per cui
l’accusativo ‘rem’ retto dal verbo ‘pacunt’ avrebbe il significato di
“controversia” [cfr. G. Nicosia, op. cit., 72-79; A.D. Manfredini, “Rem ubi pacunt, orato”, in Atti
del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano (1987), I,
Milano, 1988, 74-76; di recente, con altra bibliografia, R. Fiori, ‘Ea res agatur’. I due modelli del processo formulare repubblicano,
Milano, 2003, 74-81].
[189] Le due ‘ss’ attestano
la forma più antica del termine ‘causa’
(Ernout-Meillet, Dictionnaire
étymologique, cit., s.v. ‘causa’,
108; P.-J. Miniconi, Causa et ses dérivés. Contribution à l’étude
historique du vocabulaire latin, Paris, 1951, 25, con riferimento al testo
di Quint., inst. 1,7,20).
[190] G. Pugliese, Il processo civile romano, I, cit., 404,
richiamando la figura della causae
coniectio citata in Gai. 4,15.
[191] Seguo la puntuale analisi di G. Nicosia,
op. cit., 104-116, secondo cui il
significato di ‘addicere’ in questo
contesto sarebbe ancora quello originario di ‘approvare’, «confermare
approvando mediante pronuncia» (104), e solo dopo il
[192] Sull’organo giudicante, da identificarsi con lo iudex, vedi G. Pugliese, op. cit.,
89 ss. e 402 ss.
[193] Sfumature diverse sono state date dagli interpreti al termine lis del passo: da «cosa» oggetto del
processo a «interesse oggetto della controversia», da «attività processuale del
contendente presente» a «controversia» (vedi R. Fiori,
op. cit., 67 nt. 18). Il significato
antico di lis come oggetto della
controversia si ritrova nell’espressione praedes
litis et vindiciarum (Gai. 4,16 e Prob. 5,22); lo scambio di lis con res è attestato in Varr., l.l.
7,5,93 e Cic., Mur. 12,27. Livio
mostra di conoscere tale significato tecnico di lis quando, a proposito dell’arbitrato svolto dal comizio tributo
romano nel
[194] Per M. Kaser, Das altrömische Ius, cit., 21, il
termine ‘lis’ nel testo di Livio
sarebbe “die Bezeichnung der Streitsache”. Che il res repetere fosse costituito da un’indicazione molto puntuale del
contenuto della pretesa del popolo offeso si può ricavare dall’episodio narrato
da Livio in 8,39,15, quando i Sabini per espiare la colpa di aver causato un bellum impium, di cui cominciavano a
percepirne i frutti nefasti, decisero di ottemperare (uno dei pochissimi
esempi) al res repetere dei feziali
romani, consegnando “secundum ius fasque”
le res richieste (conferma in Liv.
9,1,4-5).
[195] Causa
è quindi intesa non in senso etico-sostanziale (come invece troviamo nelle tarde
testimonianze del IV-V sec. d.C. di Serv., Aen.
9,52 e 10,14), bensì come valore giuridico-formale. La richiesta del pater patratus romano era quindi
giuridicamente giustificata dal rispetto rigoroso degli schemi rituali
convenzionali. Un simile significato di causa
si ritrova nella formula pronunziata dalle parti nel processo per legis actionem sacramento in rem
(Gai. 4,16): “Hunc ego hominem ex iure
Quiritium meum esse aio secundum suam causam sicut dixi ecce tibi vindictam
imposui”, condividendo l’interpretazione di P. Noailles, Du droit
sacré au droit civil, Paris, 1949, 88-108.
[196] Enn., Ann.
[197] Si deve alla scrupolosa analisi di F. D’Ippolito, op. cit., 86 e 90, l’ipotesi, condivisa da
Bretone (I fondamenti del diritto romano.
Le cose e la natura, cit., 50), che la fonte di Ennio dovettero essere i Tripertita del giurista Sesto Elio.
[198] M. Bretone, op. ult. cit., 47 ss., si occupa del
passo per dimostrare come il termine res
possa essere usato, fin da epoche remote, anche “come nome collettivo”. Questa
la sua traduzione del frammento di Ennio: «La saggezza è messa da parte, la
violenza guida l’azione/ l’accorto oratore è disprezzato, amato il ruvido
soldato;/ non misurandosi con dotte parole, né con ingiurie/ azzuffandosi,
danno sfogo al rancore;/ non dal tribunale per incrociare le mani, ma piuttosto
col ferro/ reclamano la cosa, pretendono il dominio, avanzano a ranghi
serrati».
[200] F. D’Ippolito, op. cit., 87-88, dimostra, attraverso
l’analisi di Gell., N.A. 20,10,5-10,
che “il manum conserere può essere
identificato con il rem adprehendere
ricordato da Gaio (4,16) nella sua esposizione del rituale della vindicatio”.
[202] [Trad. di G. Norcio, ed. utet:
«Apprendiamo da Aristotele che quando in Sicilia fu abbattuta la tirannide, i
cittadini ripresero dopo un lungo intervallo, a far valere i loro diritti
davanti ai tribunali; e siccome quella gente era per natura ingenerosa e
portata ai litigi, i siculi Corace e Tisia scrissero dei manuali sull’arte del
dire…»]
[204] Il riferimento è dunque al primo periodo della storia di Roma,
caratterizzato dalla fusione della comunità latina sul Palatino con quella
sabina sul Quirinale (sul punto vedi A. Carandini,
La nascita di Roma, Torino, 1997, 341
ss.; per i problemi istituzionali P. De
Francisci, ‘Primordia civitatis’,
cit., 478 s. e 561 s.).
[205] L. Capogrossi Colognesi,
Cittadini e territorio. Consolidamento e
trasformazione della ‘civitas Romana’, Roma, 2000, 26-31, dove il termine
‘sinecismo’ «indica la fusione, anche materiale, oltre che politica, di due
comunità minori in una più vasta entità» (nt. 5).
[208] Si pensi alla serie di foedera
che costellano la storia romana tra la fine del VI e la fine del IV secolo a.C.:
il I° trattato tra Roma e Cartagine (509-
[209] Per F. De Martino, Storia della costituzione romana, II,
cit., 38, 45 e 49, il giuramento «fu l’inizio del diritto internazionale».
[210] Fest., s.v. ‘reciperatio’
[211] Sulla figura della deditio,
vedi F. De Martino, Storia della costituzione romana, II,
cit., 54-63.
[213] Giudico pertanto ultronea la visione unilaterale che emerge
dalla pur giusta risposta di G. Lombardi,
Sul concetto di ‘ius gentium’, Roma,
1947, 357 nt. 2, alle tesi di Paolo Frezza, secondo cui la dichiarazione di
guerra serviva a soddisfare esclusivamente le esigenze dell’ordinamento interno
romano. Alcuni esempi muovono nella direzione opposta, lasciando intravedere un
quadro normativo di riferimento più ampio: la richiesta dei Galli ai Romani di
consegnare Quinto Fabio per aver violato lo ius
gentium (Liv. 5,36,8); l’adempimento da parte dei Sanniti del res repetere tramite i loro feziali,
prima della II Guerra Sannitica (Liv. 9,1,10); il rifarsi al concetto di bellum iustum di altre collettività come
i Sanniti (Liv. 9,1,10), gli Achei (Liv. 39,36,12) e i Cartaginesi (Liv.
43,23,6); l’esistenza dei feziali presso altre comunità (cfr. nt. 36). Sull’argomento
in generale P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano,
cit., 37-39.
[214] Un esempio del rigoroso rispetto delle regole feziali si trova
in Liv. 1,23,7: Ibi infit Albanus:
“Iniurias et non redditas res ex foedere quae repetitae sint et ego regem
nostrum Cluilium causam huiusce esse belli audisse videor, nec te dubito,
Tulle, eadem prae te ferre; sed si vera potius quam dictu speciosa dicenda
sunt, cupido imperii duos cognatos vicinosque populos ad arma stimulat”. Vi
si narra l’inizio dell’antichissimo (all’incirca seconda metà del VII secolo a.C.) conflitto tra Roma e Alba
Longa (sulla città laziale vedi ora A. Carandini,
Nascita di Roma, cit., 533-538). Il
dittatore albano Mezio Fufezio, prima della battaglia, palesa al re romano Tullo
Ostilio che la motivazione del conflitto non era da rintracciarsi nella mancata
restituzione delle res repetitae ex
foedere, promossa con la ritualità della rerum repetitio da entrambi i popoli (Liv. 1,22,4), quanto
piuttosto nella “cupido imperii”. Il
dato per noi illuminante è che, nonostante la rivelazione colga nel segno —
non c’è contestazione da parte del re romano —, la procedura dell’indictio belli era stata ugualmente
eseguita e anzi, prendendo alla lettera il discorso del comandante albano, la causa belli era stata proprio la mancata
ottemperanza alla procedura.
[215] Liv. 39,36,12: Pro vobis
igitur iustum piumque bellum suscepimus. Licorta, padre di Polibio, replica
alle accuse di Appio Claudio, sostenendo di aver intrapreso per conto del popolo
romano un bellum iustum. La
testimonianza sarebbe tratta dalle Storie
di Polibio (cfr. E. Gabba, Studi su Filarco. Le biografie plutarchee di
Agide e di Cleomene, in Athenaeum,
n.s. 35, 1957, 27 e nt. 3). B. Albanese,
op. cit., 20, parla di «terminologia
tecnica». L. Loreto, Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci,
cit., 53 nt. 1, non ritiene l’episodio una «retroiezione liviana».
[217] P. Koschaker, L’Europa e il diritto romano (1958),
trad. it., Firenze, 1962, 288: «Ogni diritto primitivo è formalistico,
compenetrato di elementi magici; l’uso delle forme giuridiche esige speciali
condizioni; eventuali errori a questo riguardo possono provocare la perdita del
diritto o altre spiacevoli conseguenze che ricadono a danno di colui che compie
l’atto giuridico. Questi ha perciò bisogno del consiglio di un esperto di
diritto».
[218] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II,
cit., 53 e P. Catalano, op. cit., 18-19; i quali criticano la
tesi del Th. Mommsen, Römische Staatsrecht, III, cit., 341
ss., secondo cui la regolamentazione giuridica della guerra si aveva soltanto
con quelle città-stato legate a Roma da foedera.
[219] La dimensione del diritto strettamente correlata con la sfera magico-religiosa
nella fase arcaica dell’esperienza romana, di cui il formulario feziale
analizzato è espressione, induce a ritenere i due aggettivi dell’espressione “bellum iustum ac pium” un’endiadi.
L’affermazione di M. Sordi, ‘Bellum iustum ac pium’, cit., 3: «La giustizia di una guerra non può
essere sancita solo dal diritto umano, e non può prescindere dalla conformità
alla legge divina», può essere condivisa a patto che per il periodo arcaico
della storia romana non si tenga distinto lo ius dal fas.
[222] Coglie tale aspetto M. Sordi,
op. cit., 6: «… eliminare quei rallentamenti
che la pratica rituale imponeva e che rientravano invece nella sostanza
dell’atto religioso, destinato a rendere possibile fino all’ultimo un
ripensamento che impedisse la guerra e a far sì che si giungesse alle armi solo
quando si erano espletate tutte le vie della pace», riferendolo però come
peculiarità esclusiva della dimensione religiosa della dichiarazione di guerra,
tant’è che la funzione, a detta della studiosa, andò persa con il processo di
laicizzazione del rituale feziale tra il III e il II secolo a.C. Un’opinione
antitetica è sostenuta da D. Nörr,
Aspekte des römischen Völkerrechts,
cit., 120: «Nicht zu vergessen ist schließlich, daß jede Theorie des bellum iustum geeignet ist, Hemmungen
abzubauen und damit Kriege zu begünstigen», che ritengo non condivisibile per
l’esperienza romana arcaica.
[223] «Tutto quello che all’ordinamento giuridico di epoca
antichissima si conforma, è detto justus»
(U. Coli, Sul parallelismo del diritto pubblico e del diritto privato nel
periodo arcaico di Roma, cit., 91).
[224] Cfr. G. Devoto, Storia della lingua di Roma (1944), I,
Bologna, 1983, 18, ma dello stesso a. vedi già Parole giuridiche (1933), in Scritti
minori, I, Firenze, 1958, 100. Il significato originario del termine ius rinvia ad una struttura mentale
unitaria, per cui risulta impossibile scindere il fas dal ius. Sul
significato di ius un primo
chiarimento viene dalla linguistica che, facendo cadere altre ipotesi [come quella che voleva ius imparentato con iugum,
iungere derivante dall’indoeuropeo *yeug- (vedi P. De Francisci, ‘Arcana imperii’, III, 1, Roma, 1948
(rist. 1970), 138 nt. 4) o l’altra che collegava ius con iouestod e quindi
con Iovis (vedi ora A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, cit., 138 ss.)], ha privilegiato il collegamento con
l’indoeuropeo *yous (= «lo stato di
regolarità, di normalità che è richiesto dalle regole rituali», cfr. per tutti
E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee,
367 ss.) così da individuare nel significato originario di ius un’attività orale entro limiti rigorosamente fissati: “formula
di conformità” (E. Benveniste, op. cit., 367).