Università di Sassari
Bellum, fas,
nefas: aspetti religiosi e giuridici della guerra (e della pace) in roma
antica
Sommario:
1. Varrone, De ling. Lat.
5,86 e linee dell’esposizione. – 2. Quod fidei publicae inter populos praeerant: su alcuni pregiudizi moderni intorno al
“diritto internazionale” romano. – 3. Bellum e nefas:
concezioni romane della guerra (e della pace). – 4. Nefas e fas.
– 5. Emersione della
categoria bellum iustum. – 6. Modelli di “guerra giusta”. – 7. Iustus et legitimus hostis: i diritti del “nemico”. –
8. Ut foedere fides pacis
constitueretur: nozione
romana di pace. – 9. Pax deorum:
ispirazione religiosa dell’Imperium populi
Romani.
Il punto di
partenza della riflessioni che qui propongo è costituito dal noto testo di Varrone, De lingua Latina
5,86:
Fetiales,
quod fidei publicae inter populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum
conciperetur bellum, et inde[1] desitum, ut foedere
fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, ante quam conciperetur, qui res
repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus Ennius scribit dictum[2].
In questo passo,
il grande antiquario illustra l’etimologia della parola fetiales[3]
con un riferimento funzionale alla prerogativa davvero significativa di questi
sacerdoti: quod fidei publicae inter populos praeerant. Collegando
strettamente l’etimologia alla funzioni dei sacerdoti feziali, Varrone[4] e
gli altri grammatici antichi[5]
stabilivano, dunque, un rapporto molto stretto tra fides, foedus
e fetialis.
Dalla funzione
«di presiedere alla fides publica»[6],
Varrone fa derivare la competenza esclusiva dei feziali nella dichiarazione
della guerra (ut iustum conciperetur bellum) e nella conclusione dei
trattati di pace (ut foedere fides pacis constitueretur).
Per la verità nel
passo appena citato, c’è un riferimento anche alla rerum repetitio:
sottolineando cioè il ruolo, anch’esso esclusivo, dei feziali nella solenne procedura
della richiesta di restituzione (qui res repeterent); questa procedura,
da esperire obbligatoriamente prima della formale dichiarazione di guerra (ante
quam conciperetur), anteponendo il tentativo di comporre una controversia inter
populos all’immediato ricorso alla guerra, lascia intravedere, una volta di
più, la profonda connotazione religiosa ed il carattere essenzialmente pacifico
del “diritto internazionale” romano[7].
La
mia esposizione sarà articolata come segue: affronterò in primo luogo alcuni
pregiudizi moderni intorno al “diritto internazionale” romano; saranno poi
discusse le concezioni romane della guerra e della pace, dedicando particolare
attenzione ai concetti di fas e nefas, ai modelli di “guerra
giusta”, ai “diritti del nemico” ed infine alla nozione di pace.
Come si è detto,
legando l’etimologia di fetiales alla fides publica,
Varrone interpreta la più autentica concezione romana (religiosa e giuridica)
dei “rapporti internazionali”, che ha sempre collocato il rispetto della fides
publica alla base delle relazioni inter populos[8];
concezione dominante tanto nella “teologia” sacerdotale, quanto nella riflessione
dei giuristi romani.
In questa sede,
al riguardo, sarà sufficiente citare un passo della famosa «disceptatio Sex.
Caecilii iureconsulti et Favorini philosophi de legibus duodecim tabularum»[9],
discussione quasi “stenografata” da Aulo Gellio nel ventesimo libro delle
«Notti Attiche»:
Noct. Att. 20,1,39-40:
Omnibus quidem virtutum generibus exercendis colendisque populus Romanus e
parva origine ad tantae amplitudinis instar emicuit, sed omnium maxime atque praecipue
fidem coluit sanctamque habuit tam privatim quam publice. Sic consules,
clarissimos viros, hostibus confirmandae fidei publicae causa dedidit.
Nel suo discorso
in difesa dell’attualità della tradizione giuridica più antica – tale era
appunto il caso delle XII Tavole –, il giurista Sesto Cecilio sembra instaurare
uno stretto rapporto di causalità tra la «miracolosa ascesa» del Popolo romano
nella sua storia secolare (e parva origine ad tantae amplitudinis instar
emicuit) e la religiosa osservanza della fides (maxime atque
praecipue fidem coluit sanctamque habuit tam privatim quam publice)[10];
che i Romani avevano sempre applicato con rigorosa determinazione, soprattutto
nei “rapporti internazionali”, fino al punto estremo di consegnare ai nemici
gli stessi consoli «confirmandae fidei publicae causa»[11].
Questa
prospettiva, autenticamente romana, offre solidi argomenti per criticare
convinzioni inveterate della dottrina romanistica contemporanea[12]:
intendo riferirmi alle posizioni di quanti hanno teorizzato
l’ostilità permanente fra i popoli e l’assenza di diritti per gli stranieri
quali condizioni primordiali dei rapporti fra gli uomini[13];
da cui consegue la convinzione che, normalmente, gli antichi considerassero la
guerra (e non la pace) come stato naturale delle relazioni “internazionali”,
ogni qualvolta non esistesse comunità di etnia, ovvero non fosse intervenuta la
stipulazione di un trattato[14].
Non
è certo possibile procedere, qui di seguito, ad un esame dettagliato della
dottrina favorevole a tali tesi, che per lungo tempo sono state accolte quasi
unanimemente nel campo degli studi romanistici, soprattutto in ragione della
determinante influenza di Theodor Mommsen[15].
Sarebbe troppo lungo perfino il semplice elenco degli studiosi che hanno
aderito a questa impostazione storiografica[16];
anche se non tutti consentirono con le estremizzazioni di Eugen Täubler, il
quale non si limitò a propugnare la tesi dell’ostilità naturale nei rapporti
“internazionali” dell’antichità[17],
ma si spinse fino a teorizzare che la stessa origine dei trattati
internazionali fosse da ricercare nel superamento della primitiva usanza di
uccidere i nemici sconfitti[18].
Basterà ricordare come ancora oggi, pur
tra precisazioni e cautele, una parte autorevole della dottrina romanistica continui a
ritenere elementi caratteristici della più antica esperienza giuridica del
Popolo romano proprio l’ostilità naturale e la carenza di protezione giuridica
per lo straniero[19].
Le tesi del Mommsen e dei suoi numerosi
seguaci, contestate sporadicamente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni
del Novecento[20],
furono sottoposte a serrate critiche da parte di Alfred Heuss[21]. La critica alla
tesi dell’ostilità naturale fu riproposta in Italia da Francesco De Martino nel
1954, con la pubblicazione della prima edizione del secondo volume della sua Storia
della costituzione romana[22].
L’insigne studioso ha contestato in maniera radicale «l’opinione comunemente
accettata sul carattere originario delle relazioni internazionali di Roma»[23];
posizioni ribadite ancora nel 1988, con coerenza e mirabile rigore
argomentativo, nella relazione dedicata a L’idea della pace a Roma dall’età
arcaica all’impero[24].
Infine, le conclusive ricerche sul sistema sovrannazionale romano di Pierangelo
Catalano[25]
(lo studioso che – per esplicito riconoscimento del De Martino – «ha dato i
maggiori e più originali contributi al tema dei rapporti con gli stranieri»[26])
hanno dimostrato la virtuale universalità del sistema giuridico-religioso
romano[27]
e quanto questa «concezione universalistica del diritto» contrasti «con le teorie moderne e contemporanee
secondo cui lo stato naturale (o ‘primitivo’) delle relazioni tra i popoli
sarebbe la guerra»[28].
Come ha ben documentato Karl-Heinz Ziegler
nella rassegna sul Völkerrecht der römischen Republik[29],
le posizioni contrarie all’esclusivismo giuridico e all’ostilità naturale hanno
guadagnato sempre nuovi consensi tra gli studiosi che si sono occupati di
“diritto internazionale” dell’antichità. Per alcuni si è assistito perfino alla
revisione di opinioni espresse in precedenza: è il caso di Paolo Frezza, il
quale, introducendo forti limitazioni alle tesi mommseniane[30],
ha ammesso l’esistenza di rapporti intertribali, seppure in un processo
dialettico che vede il «momento “volontaristico” profondamente compenetrato col
momento “naturalistico”»[31].
Nel filone delle
tesi propugnate dal Heuss, si colloca la monografia che Werner Dahlheim ha
dedicato allo studio della struttura e dell’evoluzione del diritto
internazionale romano, in cui appare ben fermo il rifiuto della tesi
dell’ostilità naturale[32];
anche se, invero, lo studioso tedesco non sembra cogliere a pieno il valore
dello ius fetiale[33].
Nello stesso senso si è orientato anche Virgilio Ilari, analizzando la
condizione giuridica dei socii nominisve Latini e degli Italici; lo
studioso ritiene, inoltre, che superata «l’idea dell’inesistenza di rapporti
internazionali in mancanza di una comunanza giuridica costituita da legami
storici o da trattati perpetui», si siano poste le premesse «per una concezione
c.d. “volontarista” dei rapporti tra Roma e l’Italia e della natura giuridica
dell’alleanza italica»[34].
Infine, pur non trattando
espressamente la questione nel suo lavoro dedicato all’analisi giuridica della tavola bronzea di
Alcántara, anche Dieter Nörr mostra di seguire lo stesso orientamento laddove, a proposito del diritto internazionale di
Roma, postula «die
Existenz einer gemeinschaftlichen Normenordnung»[35].
Analizzando le
opere degli scrittori antichi,
l’enorme distanza che separa le concezioni romane della guerra e della pace
dalle moderne tesi dell’ostilità naturale emerge con grande chiarezza. Al
riguardo, sarà sufficiente riproporre la testimonianza di Virgilio[36].
Dai versi del sommo poeta romano traspare
la convinzione che la guerra, lungi dall’essere la condizione naturale delle
relazioni umane, costituisca una violazione della religione e del diritto. Nell’epica
virgiliana risulta evidente – ed insistentemente conclamata – la connotazione
negativa della guerra[37].
Sul piano
religioso la guerra per Virgilio appartiene alla sfera del nefas:
Tu, genitor, cape sacra manu
patriosque penatis;
me, bello e tanto digressum et
caede recenti,
attrectare nefas, donec me flumine
vivo
abluero[38];
il che giustifica
in riferimento a bellum l’uso degli
aggettivi nefandum e infandum[39]
e spiega la ripugnanza del poeta ad utilizzare in riferimento a bellum aggettivi tipici del lessico
religioso e giuridico, quali iustum, pium, felix; che, infatti, non compaiono mai negli impieghi virgiliani di
bellum. Infine, quando Virgilio ci
presenta la personificazione della guerra, abbiamo allora il Bellum mortiferum di Aen. 6,279, annoverato significativamente tra i più terribili mali che
affliggono il genere umano[40].
La guerra è, dunque, una triste necessità
cui si deve talora ricorrere, ma solo dopo aver fatto constatare agli Dèi,
mediante rituali che si ripetevano immutati nel tempo, l’esistenza
dell’ingiustizia e il rifiuto degli uomini a riparare.
In merito alle concezioni virgiliane della
pace e della guerra, bisogna evidenziare la perfetta coincidenza di esse con
l’elaborazione teologica e giuridica dei sacerdoti romani[41],
come risulta dalle occorrenze dei termini relativi ad arcaici istituti della guerra
e della pace, quali amicitia, hospitium, foedus.
Proprio nell’uso del termine foedus,
«allorché, narrando la stipulazione di alleanze fra gruppi etnici differenti,
non esita ad evocare per tutte il tipico rituale dei feziali e a indicare in
Giove colui che foedera fulmine sancit»[42],
Virgilio manifesta, una volta di più, la sua piena adesione alla terminologia
ufficiale, ai concetti teologici ed alla giurisprudenza dei sacerdoti romani.
Ed è proprio nei documenti sacerdotali – come ha mostrato autorevolmente
Francesco De Martino – che si è conservato nella sostanziale integrità
originaria «il pensiero antichissimo, la vocazione politico-religiosa di un
popolo, il cui fine supremo è la pace e l’amicizia con lo straniero»[43].
Per quanto
riguarda il significato di nefas, è
opinione prevalente fra gli studiosi che con tale termine gli antichi sacerdoti
romani indicassero tutto quello «che non fosse possibile fare senza incorrere nella
reazione della natura stessa e nell'ira degli dèi»[44];
da ciò consegue che il concetto di nefas
rimanda a valori che l'odierna dommatica giuridica definisce imperativi – il nefas è inteso sempre in senso
obbligatorio – connessi con le sfere del "vietato" e del
"dovere"[45].
In merito alla
derivazione della parola, i linguisti concordano nel ritenere nefas «sorti de l'expression ne fas est où il faut entendre ne- comme une négation de phrase et non
comme préfixe»[46].
Oltre che nella lingua dei sacerdoti, l'uso di nefas nell'arcaica forma ne
fas (est) si ritrova ancora negli antiquari di età tardo-repubblicana e
imperiale, soprattutto in testi che fanno riferimento a realtà religiose e
giuridiche antichissime[47].
Differenti
opinioni coesistono nella dottrina romanistica riguardo al valore normativo del
fas: vi è chi ne sostiene la
connotazione puramente permissiva («sphère des activités permises aux hommes
par les dieux»)[48];
chi invece individua nel fas un
valenza, per così dire, obbligatoria[49];
altri, infine, ritengono che l'espressione fas
est stia ad indicare «la liceità di determinati atti o comportamenti»
connessi soprattutto con la sfera religiosa. Questa tesi è sostenuta con
particolare convinzione dall'Orestano[50]
(ma anche dal Noailles[51]
e dal Latte[52]),
secondo il quale, alla nozione di "liceità" non sarebbe estranea la
nozione di "necessità", poiché determinati atti o comportamenti
appaiono considerati non soltanto leciti (= conformi alla volontà degli dèi),
ma addirittura necessari (= espressamente voluti dagli dèi): da ciò il valore
incerto di fas, che oscilla – a suo
avviso – tra «il permesso e il dovere».
Le diverse
accezioni di fas evidenziano,
comunque, l'insufficienza di concetti deontici quali "obbligatorio",
"permesso", "vietato"[53]
per la piena comprensione dello ius
divinum: i concetti della moderna logica giuridica si presentano inadeguati
e parziali a fronte dei molteplici contenuti che facevano capo al fas nel sistema giuridico-religioso
romano[54].
Questa preoccupazione, peraltro, era stata già avvertita da P. Catalano nello
studio del fas in rapporto ad atti e
procedure dello ius augurium[55].
Nel latino del I
secolo a.C., con la parola bellum si
può intendere sia un conflitto armato tra hostes
(definito da precise regole religiose e giuridiche)[56],
sia il periodo di tempo necessario alla conclusione delle ostilità, in antitesi
quindi al tempo di pace[57].
Mentre riguardo all’etimologia della parola[58],
grammatici e antiquari agitavano opinioni contraddittorie e (dal nostro punto
di vista) poco convincenti Questa osservazione può valere tanto per
l’interpretazione bellum a beluis di Festo (e Verrio Flacco), attestata
da Paolo Diacono[59];
quanto per il procedimento kata ¢nt…frasin, bellum a
nulla re bella, del grammatico Servio[60].
Sul piano
religioso, le formule solenni del più conservativo linguaggio sacerdotale[61]
avevano continuato ad utilizzare l’originaria forma duellum[62], anche quando ormai da tempo era avvenuto
il passaggio del du- iniziale
a b-[63];
così, ad esempio, negli acta relativi
ai Ludi saeculares di Augusto e a
quelli celebrati da Settimio Severo[64]
i termini guerra e pace risultano ancora espressi dai sacerdoti alla maniera
arcaica con duellum e domus[65].
Peraltro, della forma linguistica duellum restava memoria anche in opere
di eruditi e antiquari, ricercatori curiosi delle superstiti forme arcaiche
della lingua latina[66].
La guerra fu
sempre concepita dai Romani come rottura traumatica delle naturali relazioni
pacifiche tra i popoli: «essa quindi – ha scritto Francesco De Martino –
abbisognava di una giustificazione, doveva essere bellum iustum piumque,
avere cioè una giusta causa»[67].
La consapevolezza che l’esercizio della guerra poneva il miles a
contatto con qualcosa di “sacrilego” e che, in ogni caso, l’uso immoderato
della violenza rischiava di provocare l’ira degli Dèi[68],
spinse il Popolo romano, il quale significativamente considerava sé stesso il
più religioso del genere umano (religione,
id est cultu deorum, multo superiores)[69],
a preoccuparsi fin da epoca risalente di attrarre anche la guerra nella sfera
della fides e del fas[70].
Avvalendosi degli
strumenti concettuali offerti dalla riflessione teologica e giuridica dei suoi sacerdotes,
Roma aveva elaborato, certo già nella fase più antica della storia cittadina,
una sorta di “codice diplomatico”, cioè un sistema di regole rese inviolabili
dalla religione, da utilizzare nelle “relazioni internazionali” per preservare
o ristabilire la fides publica inter populos; regole e procedure
indispensabili ut iustum conciperetur bellum[71].
Formule e riti
dello ius fetiale e dello ius pontificium furono
perciò elaborati con la funzione precipua di liberare i cittadini-soldati dalla
paura del sangue versato, di aiutarli con la religione a vincere l’antico terrore
davanti al furor, segno di un possesso che priva l’uomo della sua
libertà, di esimerli infine dal timore di impegnarsi in azioni sgradite agli
Dèi[72].
Anche la
scansione del tempo fu impostata seguendo quello che J. Bayet ha chiamato «le
rythme sacral de la guerre»[73].
Sono da intendere in tal senso, infatti, le feste e le cerimonie religiose dei
mesi di marzo e ottobre del calendario romano arcaico, legate all’inizio e alla
fine delle attività guerriere, veri e propri «rites saisonniers de sacralisation
et désacralisation militaires»[74].
Si spiegano, in tal modo, le ragioni dell’estrema cautela, religiosa e
giuridica, che circondava l’esercizio della guerra da parte dei singoli
cittadini, ai quali – ammoniva Catone – era consentito combattere solo in
quanto milites[75].
L’esercizio della
guerra in ragione dei suoi effetti devastanti di morte e contaminazione si
collocava nella sfera del nefas. Per
quanto nessun biasimo potesse addebitarsi al soldato che ha ucciso in battaglia
(al contrario, il fatto era considerato dai Romani non solo utile alla
comunità, ma addirittura onorevole); tuttavia, per la religione il miles veniva a trovarsi nella condizione
di impiatus[76],
con la conseguente necessità di purificazione.
Sulla base di queste
motivazioni religiose, i soldati, reduci dalla battaglia, dovevano entrare in
città portando rami d’alloro[77];
uguali motivazioni religiose stavano alla base della cerimonia dell’armilustrium[78],
che si celebrava il 19 ottobre, come generale purificazione dell’esercito alla
fine della stagione della guerra[79].
Le considerazioni
fin qui esposte giustificano la casistica rigorosa con cui i sacerdotes Fetiales[80],
e i teorici del diritto e della politica, determinavano quali generi di guerre
si potessero intraprendere legittimamente: quali, cioè, avessero le
caratteristiche del bellum iustum[81].
Le testimonianze
antiche, per quanto riguarda la definizione di bellum iustum, non
sembrano uniformate a principi di astratta morale, attengono piuttosto, come
nel testo già citato di Varrone[82],
a valutazioni di conformità con la sfera religiosa e rituale dello ius fetiale.
Ancora alla rerum repetitio si richiamava la definizione proposta
da Isidoro di Siviglia[83],
mentre il concetto di bellum iustum enunciato da Tito Livio[84],
per quanto in riferimento ad ambiente non romano, appare significativamente
fondato sulla necessitas, fonte di ius per i giuristi romani[85].
Del resto, una
parte consistente della cultura greca e romana nel II e I secolo a.C. aveva
contestato proprio il concetto di bellum iustum, teorizzando
l’inconciliabilità di bellum e iustitia. Questa problematica si
presentava connessa profondamente con la riflessione storico-giuridica sulla
legittimità dell’egemonia “mondiale” dei Romani[86];
ma si inquadrava, al tempo stesso, nel dibattito sulle idee giusnaturalistiche
della tradizione filosofica greca e romana[87].
Cicerone, nel famoso discorso di Furio Filo[88],
improntato per sua stessa ammissione all’insegnamento di Carneade[89],
ricorre all’esempio della guerra per dimostrare quantum ab iustitia recedat utilitas:
De
re publ. 3,20: Cur enim per omnes populos diversa et varia iura sunt
condita, nisi quod una quaeque gens id sibi sanxit, quod putavit rebus suis utile?
Quantum autem ab iustitia recedat utilitas, populus ipse Romanus docet, qui per
fetiales bella indicendo et legitime iniurias faciendo semperque aliena
cupiendo atque rapiendo possessionem sibi totius orbis comparavit[90].
Tra
gli autori antichi, quello che ha manifestato maggiore interesse per la
definizione della “guerra giusta” è stato senza dubbio Cicerone.
Nell’impossibilità di procedere ad un puntuale esame dei riferimenti testuali[91],
sarà sufficiente discutere due importanti passi, tratti dal De re publica,
che descrivono alcune tipologie di bellum iustum, per quanto
modellate in negativo, mediante la qualificazione della guerra ingiusta ed
empia:
De
re publ. 2,31: [Tullo Ostilio] cuius excellens in re militari gloria
magnae que extiterunt res bellicae, fecitque idem et saepsit de manubis
comitium et curiam, constituitque ius quo bella indicerentur, quod per se
iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum quod denuntiatum
indictumque non esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur[92].
De
re publ. 3,35: Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta. Nam
extra <quam> ulciscendi aut propulsandorum hostium causa bellum geri
iustum nullum potest[93].
Secondo
Cicerone il bellum per poter essere considerato iustum
abbisognava, dunque, di requisiti formali e sostanziali. I primi derivavano
dalla esatta osservanza dei riti e delle procedure dello ius fetiale;
il precetto attribuito al re Tullo Ostilio può volgersi in positivo: ut omne
bellum denuntiatum indictum esset. I requisiti sostanziali dovevano
consistere in motivazioni validamente determinabili: riconoscibili, quindi,
come tali in maniera oggettiva sia di fronte agli Dèi, sia di fronte agli
uomini. In ultima analisi, il principio illa iniusta bella sunt quae sunt
sine causa suscepta, mentre frena l’arbitrio e la cupidigia del Popolo
romano, ne assicura al tempo stesso la legittimazione religiosa dell’imperium
universale[94].
Dal bellum iustum discendeva la
condizione giuridica di iusti et legitimi hostes,
De off. 3,108: Regulus vero non debuit
condiciones pactionesque bellicas et hostiles perturbare periurio; cum iusto
enim et legitimo hoste res gerebatur, adversus quem et totum ius fetiale et multa
sunt iura communia. Quod ni ita esset, numquam claros viros senatus vinctos
hostibus dedidisset[95];
nei confronti dei quali – utilizzo la terminologia di Cicerone – i Romani consideravano vigente totum
ius fetiale, nella consapevolezza che anche con i nemici multa sunt iura
communia.
Da questa comunanza di diritto, consegue
per Cicerone il dovere di «osservare la fides» nei confronti degli hostes,
attenendosi cioè sempre ed in ogni circostanza al rispetto della parola data al
nemico, come aveva mostrato l’irreprensibile comportamento del console Attilio
Regolo, il quale durante la prima guerra punica, prigioniero dei Cartaginesi, ad
supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere[96].
Nel
latino della tarda età
repubblicana la parola hostis aveva acquisito ormai «le sens d’ennemi en
général, de même que inimicus s’emploie pour hostilis»[97];
tuttavia, la cultura giuridica e la scienza antiquaria conservavano memoria del
significato più antico. Il testo delle XII Tavole, anche nella forma linguistica in
cui si leggeva nel I secolo a.C., con il termine hostis indicava
genericamente lo “straniero”, come attesta un noto passo del De officiis ciceroniano[98]. Al più antico significato di hostis
rimandano sia la formula del giuramento dei milites[99],
sia la formula con cui il
littore allontanava da alcune cerimonie religiose determinate categorie di
persone (hostis, vinctus, mulier, virgo)[100]. Anche il grande Varrone, nel De lingua
Latina, per esporre il caso delle molte parole che aliud nunc ostendunt,
aliud ante significabant, citava come esempio proprio il termine hostis[101].
Nella sua
accezione originaria, presente ancora nelle commedie di Plauto[102]
e quindi desunta senza dubbio dall’uso linguistico corrente, hostis
stava ad indicare lo straniero; più precisamente quello straniero qui suis
legibus uteretur ed al quale si riconosceva parità di ius col Popolo
romano[103].
Il significato di
hostis si è modificato definitivamente nell’ultimo secolo della Repubblica[104],
in relazione con l’estendersi della valenza semantica di peregrinus, che
nei primi secoli dell’Impero finì per designare una particolare condizione
giuridica[105].
Di
grande interesse, nella prospettiva qui perseguita, appaiono alcuni versi in
cui Virgilio utilizza il termine hostis nel suo significato più
squisitamente giuridico: per indicare, cioè, un “nemico” col quale esiste un legittimo stato di guerra.
Rimanda a tale significato Aen. 1,378-380:
Sum
pius Aeneas, raptos qui ex hoste penatis
classe
veho mecum, fama super aethera notus.
Italiam
quaero patriam et genus ab Iove magno[106].
Enea riconosce implicitamente la
legittimità del “nemico”, quando presenta sé stesso come salvatore ex hoste dei
Penati di Troia. Con la salvezza degli Dèi Penati[107],
l’eroe troiano ha scongiurato l’estinzione religiosa e giuridica del suo
popolo, minacciata proprio dalla condizione di iusti et legitimi hostes
degli avversari.
Per il diritto
pubblico romano, in caso di vittoria militare, solo la condizione di iustus
hostis dava al vincitore la facoltà di sottomettere con pieno diritto
una città, o un popolo, e di porre fine (eventualmente) all’esistenza giuridica
e religiosa di quella comunità. In questo senso, mi pare che abbia valore
pregnante l’antica formula solenne della deditio urbis, ricalcata sugli
stessi documenti dei sacerdoti Fetiales[108].
L’annalista Tito Livio ha conservato l’esempio paradigmatico della resa ai
Romani dell’antichissima Collazia: una città priva di qualsiasi importanza già
nella prima età repubblicana, che poi scomparve senza neppure lasciare traccia[109].
Tito
Livio 1,38,2: Deditosque Collatinos ita accipio eamque deditionis formulam
esse; rex interrogavit: “Estisne vos legati oratoresque missi a populo
Collatino ut vos populumque Collantinum dederetis?” – “Sumus.” – “Estne populus
Collatinus in sua potestate?” – “Est.” – “Deditisne vos populumque Collatinum,
urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina humanaque omnia, in
meam populique Romani dicionem?” – “Dedimus.” – “At ego recipio”[110].
Riguardo agli hostes, non resta che
riferirsi al pensiero giuridico romano:
D.
50,16,118 (Pomponius libro secundo ad Quintum Mucium): ‘Hostes’ hi sunt,
qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri latrones aut
praedones sunt[111];
D. 50,16,234
pr. (Gaius
libro secundo ad legem duodecim tabularum): Quos nos hostes appellamus,
eos veteres ‘perduelles’ appellabant, per eam adiectionem indicantes, cum
quibus bellum esset[112].
I giuristi insegnavano, dunque, che la
condizione giuridica di hostes non poteva prescindere dalla persistente
attualità di un bellum iustum, cioè di un bellum publice
decretum; in assenza di questa condizione, la rigorosa disciplina dello ius
belli esigeva che gli avversari di Roma fossero considerati dei semplici
latrones[113]
o praedones. Le conseguenze della distinzione non erano di poco conto
dal punto di vista del diritto, come attesta il giurista Ulpiano presentando il
caso dell’uomo qui a latronibus captus est:
D.
49,15,24 (Ulpianus libro primo institutionum): Hostes sunt, quibus
bellum publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano: ceteri
latrunculi vel praedones appellantur. Et ideo qui a latronibus captus est,
servus latronum non est, nec postliminium illi necessarium est: ab hostibus
autem captus, ut puta a Germanis et Parthis, et servus est hostium et
postliminio statum pristinum recuperat[114].
Proprio sulla
base della condizione di latrones, il giurista argomenta che la servitù legittima (cioè prevista dallo ius
gentium) non si deve applicare nei confronti del prigioniero (servus latronum non est),
né in caso di liberazione sarà necessario ricorrere all’istituto del postliminium[115].
Per la tradizione giuridica e religiosa romana, la guerra
rappresentava una rottura della pacifica naturalità delle relazioni inter
populos; sempre finalizzata, quindi, alla restaurazione della pace.
Questo legame tra guerra e pace, o per meglio dire la subordinazione
della prima alla seconda, si trova ben configurato, anche dal punto di vista
della dottrina dei sacerdoti romani, nella stessa etimologia che gli scrittori
antichi davano della parola fetiales[116].
Collegandone l’etimo a fides e a foedus, si sottolineava nelle
competenze di questi sacerdoti la funzione di ristabilire la fides pacis
con il foedus, piuttosto che la funzione di concipere un bellum
iustum. Da notare, inoltre, che anche nel II libro del De legibus di
Cicerone, l’ordine delle funzioni dei sacerdoti feziali vede la pace anteposta
alla guerra:
De leg. 2,21: Feoderum pacis, belli,
indotiarum ratorum fetiales iudices, nontii sunto, bella disceptanto.
Infine, la “teologia” ufficiale dei sacerdoti romani manifestava in
tutta la sua evidenza la subordinazione della guerra alla pace anche
nell’antichissima gerarchia dei sacerdozi: nell’ordo sacerdotum,
infatti, il flamine di Iuppiter, cioè della divinità che tra le altre
cose tutelava i foedera pacis e la fides, si presenta sovraordinato
al flamine di Marte[117].
Tuttavia, per questa breve e conclusiva riflessione sulla pace,
vorrei muovere da alcuni versi virgiliani (Aen. 6,851-853), che a mio
avviso illuminano, forse meglio di ogni altro testo antico, la nozione “romana”
della pace, intesa nei suoi aspetti essenziali giuridici e religiosi.
Tu
regere imperio populos, Romane, memento
(hae
tibi erunt artes) pacique imponere morem,
parcere
subiectis et debellare superbos[118].
è innegabile, che la poetica virgiliana sottenda una concezione della
storia rappresentata religiosamente come prodotto «eines Wirkens der Gotter»,
da cui consegue il governo mondiale dei Romani, da intendere come missione
religiosa, fondata ‑ ha scritto Antonie Wlosok ‑ sulla convinzione
che esista «eine theologische Deutung der römischen Geschichte und Herrschaft»[119].
Tuttavia dai versi appena citati emerge, in primo luogo, il carattere
bilaterale e imperativo della pax. Rimandano al carattere imperativo sia
il termine mos, connesso con lex nel
commento del grammatico Servio: Pacis
morem leges pacis[120];
sia il verbo imponere[121].
L’osservanza della pax sembra
essere condizione necessaria per distinguere subiecti e superbi, assicurando la legittimità del parcere nei confronti dei primi[122]
e dello «sterminio con la guerra» nei confronti degli altri[123].
Nella pace, e nella sua conservazione, risiedevano dunque le motivazioni
religiose e giuridiche della dimensione universale dell’imperium populi
Romani[124].
Il carattere bilaterale
della pace risulta evidente anche nelle definizioni che ne davano giuristi e
antiquari, i quali sottolineavano la connessione etimologica del termine pax
con le parole pactio e pactum. Tale è il caso della definizione
attribuita da Verrio Flacco all’antiquario augusteo Sinnio Capitone[125]:
Festo,
De verb. sign., p.
o di quella che i compilatori
giustinianei trassero dal quarto libro ad
edictum di Ulpiano:
D. 2,14,1,1-2: Pactum autem a pactione dicitur (inde etiam
pacis nomen appellatum est) et est pactio duorum pluriumve in idem placitum et
consensus[127].
Questa etimologia, ammessa anche da molti
linguisti moderni[128],
ricollega pax alla radice indoeuropea
pak-, alternante con pag-, da cui anche l’arcaico pacere delle XII Tavole[129],
pacisci, pacio, pactio. Pax, nome d’azione
femminile, designa l’atto di stipulare una convenzione, quindi gli atti
relativi alla situazione di pace[130];
in ciò sta anche la differenza tra pax e il termine greco e„r»nh: mentre questo designa «il contenuto e i
frutti del tempo di pace, la pax latina
indica più semplicemente il
presupposto e la premessa di un contenuto, piuttosto che il contenuto stesso»[131].
Dato il significato
concreto della radice pak- «rendere
saldo, fermo», si può perfino supporre che in origine pax abbia indicato qualcosa di materialmente determinato: in questo
senso appare stimolante la tesi proposta da Marta Sordi[132],
per la quale l’arcaica pax sarebbe
connessa, mediante la pax deorum, alla vetusta cerimonia clavum pangere: il conficcamento
rituale del chiodo dextro lateri aedis
Iovis optimi maxii attestato da Tito Livio[133].
La sapientia (teologica e giuridica) dei
sacerdoti romani, mediante la definizione del ne-fas – che è bene ricordare riguardava tempo e spazio, (sia tempora
sia loca) – rivolgeva le sue prime e maggiori cautele ai rapporti tra
uomini e Dèi; con lo scopo precipuo di preservare la pax deorum, che riposava sulla perfetta conoscenza di tutto ciò che
potesse turbarla; cioè, degli atti che mai dovevano essere compiuti e delle
parole che mai dovevano essere pronunciate[134].
Nell'antitesi fas/nefas[135],
fondata in particolar modo sulla concezione teologica che spazio e tempo
appartenessero agli Dèi, si manifestava compiutamente la peculiarità dei
rapporti tra uomini e divinità nel sistema giuridico-religioso romano.
Come si è già accennato, la teologia e lo ius divinum dei sacerdoti romani rappresentavano la vita e la storia del Popolo romano in
rapporto di imprescindibile causalità con la
religio: la volontà degli Dèi aveva concorso a determinare il luogo (e il
tempo) della fondazione dell’Urbs Roma[136];
ne aveva sostenuto la prodigiosa “crescita” del numero dei cittadini (civitas augescens)[137];
infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la sua estensione sine fine[138].
I sacerdoti romani avevano postulato, dunque, fin dalle prime attestazioni
della loro memoria storica e documentaria, il legame indissolubile della Urbs
Roma con il culto degli Dèi e della vita
del Popolo romano con la sua religio
(«religione, id est cultu deorum»)[139];
al fine di conseguire e conservare, mediante i riti e i culti della religione
politeista, la pax deorum[140]
(«pace degli Dèi», ma da intendere nel senso di «pace con gli Dèi»)[141].
Per la vita del Popolo romano si riteneva indispensabile il
permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e Dèi[142],
considerati anch’essi una delle parti del sistema giuridico-religioso; certo la
più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che si riconosceva alle
divinità[143].
Dal punto di vista umano (cioè dello ius sacrum e dello ius publicum), il «legalismo religioso»
(l’espressione è di Pasquale Voci)[144]
dei sacerdoti romani configurava la pax
deorum come un insieme di atti e comportamenti, ai quali collettività e
individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore
degli Dèi. In questa prospettiva, può ben comprendersi la ragione per cui la
conservazione della pax deorum
costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale romano[145]
e fosse considerato, al tempo stesso, l'elemento basilare del sistema
giuridico-religioso. Oggetto, quindi, dello ius
del Popolo romano (ius publicum), non
a caso tripartito in sacra, sacerdotes,
magistratus[146].
[1] Legge invece «et
ubi desitum» L. Spengel: M.
Terenti Varronis De Lingua Latina libri, emendavit apparatu critico instruxit
praefatus est Leonardus Spengel. Edidit et recognovit
Andreas Spengel, Berolini, 1885, 35; sulla questione vedi J. Collart, Varron, De lingua Latina,
Livre V, Texte établi, traduit et annoté par J.C., Paris, 1954, 56.
[2] Varrone, De
ling. Lat. 5,86. A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia
giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, Milano, 1983, 33, fr. 44. J. Collart, Varron, De lingua Latina,
Livre V, cit., 199. Più in generale, vedi F.
Cavazza, Saggio su Varrone etimologo e grammatico. La lingua latina
come modello di struttura linguistica, Firenze, 1981; si occupa
marginalmente del passo, ma per ribadire il rapporto foedus / fides
(49, n. 61).
[3] Sui sacerdoti
feziali e sullo ius fetiale, fra la letteratura più recente: P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma, 1959, 472 ss.; P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in Revue Historique de Droit Français et étranger 38, 1960, 94 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino, 1965; Chr. Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application du “ius fetiale” à Rome, in
Revue Historique de Droit Français et étranger
58, 1980, 171 ss.; T. Wiedemann,
The Fetiales: a reconsideration, in Classical Quarterly 36, 1986,
479 ss.; Cl. Auliard, Les
Fétiaux, un collège religieux au service du droit sacré international ou de la
politique romaine?, in Mélanges Pierre Lévêque, VI, Paris, 1992, 1
ss.; J.-L. Ferrary, Ius fetiale
et diplomatie, in Ed. Frézouls
et A. Jacquemin eds., Les
relations internationales. Actes du Colloque de Strasbourg 15-17 juin 1993,
Paris, 1995, 411 ss.; L. Cappelletti, Il ruolo dei fetiales
e il concetto di civitas in Liv. IX 45, 5-
Sull’etimologia
della parola, da ultimo, R. Sgarbi,
A proposito del lessema latino «FētiālÂs», in Aevum
66, 1992, 71 ss.
[4] Per la
bibliografia più recente, rinvio a Y.
Lehmann, Varron théologien et philosophe romain, [Collection
Latomus, 237] Bruxelles, 1997.
[5] Fonti sulle
prerogative politiche e rituali di tali sacerdoti: Cicerone, De off.
1,36; De leg. 2,21; Tito Livio 1,32,5-11; 8,39,14; 9,5,3-4; 9,10,2;
9,10,8; 21,45,8; 30,43,9; 31,8,3; 36,3,7; Dionigi di Alicarnasso 2,73; Valerio
Massimo, Facta et dicta 6,6,3; Plinio, Nat. hist. 22,5; Arnobio
2,67.
[6] A. Cenderelli, Varroniana.
Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, cit., 105.
Della sterminata
bibliografia dedicata alla fides, cito solo alcuni titoli: L. Lombardi, Dalla «fides» alla «bona
fides», Milano, 1961; M.-L.
Deißmann-Merten, Fides Romana bei Livius,
Diss. 1964, Frankfurt a. M., 1965; S.
Calderone, P…stij-fides. Ricerche di storia e diritto internazionale
nell’antichità, [Helikon. Biblioteca. Testi e studi, 1] Messina Università degli
Studi, 1965; C.
Becker, v. Fides, in Reallexikon für Antike und
Christentum, VII, Stuttgart, 1969, 801 ss.; P.
Boyancé, études sur la
religion romaine, Rome, 1972, 105 ss. [Fides romana et la vie internationale], 135 ss. [Les Romains,
peuple de
[7] F. Sini, Bellum
nefandum. Virgilio e il problema del
“diritto internazionale antico”, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto
Romano dell’Università di Sassari, 7] Sassari, 1991. Recensioni di
V. Giuffrè, in Iura 42, 1991 [ma
1994], 213 ss.; N. Scivoletto, in Giornale
Italiano di Filologia 49.1,
1997, 138 s.
[8] Della fides
«als Grundlage des römischen Völkerrechts» scrive, da ultimo, K.-J. Hölkeskamp, Fides - deditio in fidem - dextra
data et accepta: Recht, Religion und Ritual in Rom, in The Roman
middle republic. Politics, religion, and historiography c. 400 - 133 B.C.,
cit., 235; vedi anche P. Boyancé, Les
Romains, peuple de la fides (1964), ora in Id.,
études sur la religion romaine,
cit., 144 s.; K.-H. Ziegler, Das
Völkerrecht der römischen Republic, in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt, I.2, Berlin-New York, 1972, 68 ss., in part. 90 ss.; F. De Martino, Storia della
costituzione romana, II, 2a ed., Napoli, 1973, 35 ss., 42 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen
Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, München, 1989, 102 ss.
[9] F. Casavola, Cultura e scienza
giuridica nel II secolo d.C.: il senso del passato, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York, 1976, 131 ss.; Id., Giuristi adrianei, Napoli, 1980,
1 ss.
[10] In parte diversa
l’intepretazione proposta da F. Casavola,
Cultura e scienza giuridica nel II secolo d.C.: il senso del passato,
cit., 143; Id., Giuristi
adrianei, cit., 21-22.
[11] G. Pugliese, Appunti sulla ‘deditio’ dell’accusato di illeciti internazionali, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 18, 3ª
serie, 1974, 8 s. [= Id., Scritti
giuridici scelti, I. Diritto romano, Napoli, 1985, 567 s.]; J.-H. Michel, L’extradition
du général en droit romain, in Latomus 39, 1980, 675 ss.; G. Crifò, Sul caso di Ostilio Mancino, in Studi A. A. Schiller, Leiden,
1976, 19 ss. [=Id., L’esclusione dalla città. Altri studi sull’exilium romano, Perugia, 1985, 121 ss.]; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die
Bronzetafel von Alcántara, cit., 76 s.; A.
Maffi, Ricerche sul postliminium,
Milano, 1992, 61 ss.; M.F. Cursi, La struttura del “postliminium” nella
repubblica e nel principato, Napoli, 1996, 57 ss.; A. Calore, “Per Iovem Lapidem”. Alle origini del
giuramento. Sulla presenza del ‘sacro’ nell’esperienza giuridica romana,
Milano, 2000, 79.
[12] Cfr. F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei baccanali: alcune
riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
60, 1994 [= Studi in memoria di Gabrio
Lombardi, I, Roma, 1996], 49 ss.; Id.,
Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica,
[Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 13]
Torino, 2001, 24 ss.
[13] A.G. Heffter, De antiquo iure gentium prolusio, Bonnae, 1823, 7; E. Osenbrüggen, De iure belli et pacis Romanorum, Lipsiae, 1836, 8, 16, 36; M. Voigt, Die Lehre von ius naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer,
II, Leipzig, 1858 [rist. an. Aalen, 1966], 102
ss.; Id., Die XII Tafeln, I, Leipzig 1883 [rist. an. Aalen, 1966], 269 ss.; R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner
Entwicklung, I (1852), Leipzig, 1878, 225 ss. [= Id., L’esprit du droit romain, trad. franc., I, Paris, 1886 (rist. an.
Bologna, 1969), 226 ss.]; J. Madvig,
Die Verfassung und Verwaltung des
römischen Staates, I, Leipzig, 1881, 58 ss.; O. Karlowa, Römische
Rechtsgeschichte, Leipzig, 1881, 279 ss.; G.
Fusinato, Dei Feziali e del
diritto feziale. Contributo alla
storia del diritto pubblico esterno di Roma, cit., 455 ss.; G. Padelletti-P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2ª ed., Firenze,
1886, 67; P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano,
trad. it. di C. Longo, Roma-Milano-Napoli, 1909, 112 ss., 116; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines, Paris, 1909 [rist. fot. 1931],
343; E. Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romains, 2ª ed., Paris,
1928, 92; P. Huvelin, Études d’histoire du droit commercial romain,
opera postuma a cura di H. Lévy-Bruhl, Paris, 1929, 7 s.; H. Horn, Foederati. Untersuchungen zur Geschichte ihrer
Rechtsstellung im Zeitalter der römischen Republik und des frühen Prinzipates, Diss. Frankfurt a. M.,
1930, 6 s.; H. Lévy-Bruhl, Esquisse d’un théorie sociologique de
l’esclavage, in Id., Quelques problèmes du trés ancien droit
romain. Essai de
solutions sociologiques, Paris, 1934, 15 ss.; P. Frezza,
Le forme federative e la struttura dei
rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 4, 1938, 363 ss. [= Id., Scritti, I, Roma, 2000, 367
ss.]; P. de Francisci, Storia del diritto romano, I, Milano, 1943, 335; P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, rist. 4ª ed.
[14] Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die
römische Clientel, in Id., Römische Forschungen, I, Berlin, 1864,
326 ss.; E. Täubler, Imperium
Romanum. Studien zur
Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I. Die Staatsverträge
und Vertragsverhältnisse, Leipzig, 1913 [rist. an. Roma, 1964], 14 ss., 29
ss., 44 ss.
[15] Th. Mommsen, Römische Geschichte, I (1854), qui citata in trad. it.: Storia di Roma antica, nuova ed. con introduzione di G. Pugliese
Carratelli, I, Firenze, 1984, 192; Id., Das römische Gastrecht und die römische
Clientel, cit., 319 ss.; Id., Römisches Staatsrecht, III.1, 3ª ed.,
Leipzig, 1887, 590 ss. [= Droit public romain,
trad. franc. di P.F. Girard, VI.2, Paris, 1889, 206 ss.]; ma è nell’Abriss che la posizione del grande
giusromanista tedesco, forse proprio per esigenze di semplificazione, si
presenta più netta: Disegno del diritto
pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante, rist. an. dell’ed. 1943, Milano,
1973, 91.
[16] Da ricondurre
per larga parte «alla componente soggettiva della storiografia dell’Ottocento e
del primo Novecento»: così p.
Catalano, Linee del sistema
sovrannazionale romano, cit., 8
ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., IX ss., 10 ss.
Per l’aspetto più propriamente filosofico di
tale impostazione storiografica, cfr. P.
Bierzanek, Sur les origines du
droit de la guerre et de la paix, in Revue
Historique de Droit Français et
Étranger 38, ser. IV, 1960, 105 ss.
[17] E. Täubler, Imperium Romanum.
Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I, cit., 1.
[18] E. Täubler, Imperium Romanum.
Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I, cit., 402 ss.,
in part. 406 s.
[19] Di «situation permanente d’interhostilité qui
règne entre les peuples ou les cités» scrive, ad esempio, é. Benveniste, Le
vocabulaire des institutions indo-européennes, 1. Économie,
parenté, société, Paris, 1969, 355 ss., in part. 361; nello stesso senso, anche A. Piganiol, Le conquiste dei Romani, trad. it. di F. Coarelli, Milano, 1971,
147 s.; A.
Guarino, Storia del
diritto romano, 7ª ed.,
Napoli, 1987, 82. Altri sottolineano, piuttosto, la mancanza di diritti per lo
straniero: P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3ª
ed., Roma, 1974, 210; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari,
1987, 129; M. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita
del diritto, 2ª ed., Milano, 1988, 175; M. Talamanca, in Lineamenti di storia del diritto romano,
sotto la direzione di M. T., 2ª ed., Milano, 1989, 154; Id., Istituzioni di
diritto romano, Milano, 1990, 103.
[20] Cfr. G. Baviera, Il diritto internazionale dei Romani (estr. dall’Archivio Giuridico “Filippo
Serafini”, nuova serie, voll. I e II), Modena, 1898, 25 ss.; E. Seckel, über Krieg und
Recht in Rom,
Kaisergeburtstagrede, Berlin, 1915, 9 s., 25 ss.; critico soprattutto nei
confronti del Täubler si mostra anche B. Kübler, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig-Erlangen, 1925, 109 ss.
[21] A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen der römischen Aussenpolitik in
republikanischer Zeit, Leipzig,
1933, 4 ss., 12 ss., 18 ss.; il quale, sulla base di un attento riesame delle fonti,
pervenne alla conclusione che i Romani considerassero esistenti con gli altri
popoli un certo numero di rapporti giuridici, indipendentemente dalla
stipulazione di trattati; dimostrando in particolare: che non
esistevano trattati di amicizia per porre fine all’ostilità naturale; che il bellum
iustum era considerato necessario anche in caso di guerra contro popoli con
i quali non preesisteva alcun trattato; infine, che nella formula e nel rituale
dell’indictio belli non si trovava alcun riferimento ad una precedente
violazione di trattati.
[22] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II [1ª ed., Napoli, 1954], 2ª ed. Napoli, 1973, 13 ss., in
part. 39 ss., 46 ss., con ampia rassegna di bibliografia.
[24] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, in VIII Seminario
Internazionale di Studi Storici «Da Roma alla Terza Roma», 21 aprile 1988, poi
pubblicata in Roma Comune, a. XII, n.
45, aprile-maggio 1988, 86 ss.
Sull’opera
storiografica e giuridica dell’illustre studioso, del quale merita di essere segnalata
anche la raccolta degli scritti “minori” curata da A. Dell’Agli, T. Spagnuolo
Vigorita e F. d’Ippolito (Scritti di diritto romano: I. Diritto
e società in Roma antica, Roma, 1979; II. Diritto privato e società
romana, Roma 1982; III. Nuovi studi di economia e diritto romano,
Roma, 1988), vedi F. Casavola, L’opera storica di Francesco De Martino,
in Labeo 24, 1978, 7 ss.; Id., Francesco
De Martino storico, in Index 18,
1990, XV ss.; T. Spagnuolo Vigorita,
Francesco De Martino. Il fascino della
storia, in Au-delà des frontières. Mélanges de
droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz, Varsovie, 2000, 967 ss. (ora anche in Diritto
@ Storia. Quaderni di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 2, marzo 2003
< http://www.dirittoestoria.it/demartino/Spagnuolo-Vigorita-De-Martino.htm
>.
[25] p.
Catalano, Linee del sistema
sovrannazionale romano, cit., 8
ss., 51 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, cit., IX s., 10 ss.
[26] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, cit., 86;
anche in altre parti di questo scritto è espressa convinta adesione alle tesi
del Catalano: 88; 91.
[27] Per una rapida
visione delle tesi sostenute dallo studioso, si legga la «riflessione
conclusiva» di Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 288.
[29] K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen
Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New
York, 1972, 68 ss.
[30] P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei
rapporti internazionali nell’antico diritto romano, cit., 373 ss., 397 ss. [= Id., Scritti, I, cit., 377 ss.,
401 ss.]; una prima revisione,
con l’abbandono della tesi dell’ostilità naturale, si riscontrava già nel
saggio L’età classica della costituzione repubblicana, in Labeo 1,
1955, 320 ss. [= Id., Scritti,
II, Roma, 2000, 133 ss.], dove
peraltro è ancora sostenuta la mancanza di diritti per lo straniero, riaffermando
anche, in polemica col De Martino, l’appartenenza originaria ed esclusiva delle
forme giuridiche dei rapporti internazionali alle relazioni fra popoli della
lega latina (327 ss. = 140 ss.).
[31] P. Frezza, Il momento “volontaristico” e il
momento “naturalistico” nello sviluppo storico dei rapporti “internazionali”
nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 32, 1966,
299 ss., in part. 301 [= Id., Scritti,
II, cit., 551 ss., 553]. Nello stesso senso, cfr. Id., In tema di relazioni internazionali nel mondo greco-romano, Ibidem 33,
1967, 337 ss., in part. 348 s. [= Id., Scritti, II, cit., 577 ss.,
588 s.].
[32] W. Dahlheim,
Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert
v. Chr., München, 1968, 136 s.
[33] W. Dahlheim,
Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert
v. Chr., cit., 171 ss.; critici anche K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der
römischen Republik, cit., 78 s.:; e P.
Catalano, Diritto e persone. Studi su origine
e attualità del sistema romano, cit., XI nt.
[34] V. Ilari, Gli
Italici nelle strutture militari romane, Milano, 1974, 10-11; cfr. Id., L’interpretazione storica del diritto di
guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano, 1981, V.
[36] Cfr. F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico”, cit.
supra in nt. 1; Id., Interpretazioni
giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia (A proposito di Liv. 3,
55, 6-12), in Ius Antiquum - Drevnee Pravo 1, 1996, 92 ss.; Id., Sua cuique civitati religio.
Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 313 ss.; ma anche O. Diliberto, La struttura del votum alla
luce di alcune fonti letterarie, in Studi
in onore di Arnaldo Biscardi, IV, Milano, 1983, 297 ss.; G. Luraschi, Foedus nell’ideologia virgiliana, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano.
Promosso dall’Istituto Milanese di
Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi. 22-25 Ottobre 1985, Milano,
1988, 279 ss.
[37] Nulla salus bello esclama un personaggio
in Aen. 11,362, (espressione che va ben oltre il contingente discorso di Drance), altrove
si parla di crimina belli (Aen. 7,339: dissice compositam pacem, sere crimina belli) mentre è severamente
condannata dal poeta la scelerata insania
belli (Aen. 7,461: saevit amor ferri et scelerata insania belli;
cfr. Servio, in Verg. Aen. 7,461: nihil enim tam insanum, quam desiderare id
per quod possis perire); se poi osserviamo la qualificazione della guerra,
il bellum può essere horridum (Aen. 6,86-87: Bella, horrida bella / et Thybrim multo spumantem sanguine cerno;
cfr. 7,41; 11,96), asperum (Aen.
1,14), crudele (Aen. 8,146; 11,535), cruentum (Aen. 11,474: bello dat signum rauca cruentum / bucina),
dirum (Aen. 11,217), triste (Ecl.
6,7; Aen. 7,325; 7,545; 8,29).
[38] Aen. 2,217-220; cfr. Aen.
10,900-902. Sulle implicazioni religiose e giuridiche di questi versi si
vedano, fra gli altri, F. Beduschi,
Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 10
(n. s.), 1935, 228; R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall’età
primitiva all’età classica, cit., 225
e nt. 70; P. Voci, Diritto sacro
romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19,
1953, 54 nt. 37 [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova,
1985, 230 nt. 37]. In diversa prospettiva, vedi anche G. Dumézil, Mythe et épopée, I. L’ideologie des trois fonctions dans les
épopées des peuples indo-européens, Paris, 1968, 401.
[40] Aen. 6,273-281: Vestibulum ante ipsum
primisque in faucibus Orci / Luctus et ultrices posuere cubilia Curae; /
pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus / et Metus et malesuada Fames
ac turpis Egestas, / terribiles visu formae, Letunique Labosque; / tum
consanguineus Leti Sopor et mala mentis / Gaudia mortiferumque adverso in
limine Bellum / ferreique Eumenidum thalami et Discordia demens, / vipereum
crinem vittis innexa cruentis. Cfr. H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, Lipsiae, 1912 [rist. an. Hildesheim-New York, 1969], 88 ss.
[41] Mentre la
storiografia contemporanea è pervenuta con difficoltà e ritardo alla
consapevolezza che «L’énéide est
avant tout un poème religieux» (G.
Boissier, La religion romaine
d’Auguste aux Antonins, I, 3ª ed., Paris, 1884, 231); la cultura romana
tardoantica aveva individuato nella divini et humani iuris scientia di
Virgilio (Macrobio, Sat. 3,9,16: Videturne vobis probatum sine divini
et humani iuris scientia non posse profunditatem Maronis intellegi?) la chiave
interpretativa della poesia virgiliana e considerava il poeta – per usare le
parole del Servio Danielino – gnarus totius sacrorum ritus (Servio Dan.,
in Verg. Georg. 1,269), colui il quale in ogni occasione disciplinam
caerimoniarum secutus est (Servio Dan., in Verg. Aen. 12,172). Per
maggiori approfondimenti, vedi il lavoro di H. Lehr, Religion und
Kultus in Vergils Aeneis, Diss. Giessen, 1934, 9 ss.; brevemente F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico”, cit., 17 ss. Di grande interesse anche le
osservazione dell’archeologo Fausto
Zevi, Note sulla leggenda di
Enea in Italia, in AA.VV., Gli Etruschi e Roma (Incontro di studio in
onore di M. Pallottino, Roma 11-13 dicembre 1979), Roma, 1981, 147 s., sui
riferimenti virgiliani all’Atena Tritonia di Lavinio.
[42] G. Luraschi, v. Foedus,
in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., 546 ss.; Id., Foedus nell’ideologia
virgiliana, cit., 281 ss.
[45] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, Torino 1960, 326 e n.
10; seguito da F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari
1981, 272.
[46] Le parole sono di
É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2, Paris 1969, 136; cfr. anche A. Walde-J. B. Hofmann, Lateinisches
etymologisches Wörterbuch, I, dritte Aufl., Heidelberg 1938, 217; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue
latine, 4ª ed., Paris 1967, 217.
[47] Festo, De verb.
sign., v. Sacer mons, p.
[48] J. Paoli, Le monde juridique du paganisme romain,
cit., 5; Id., Les définitions varroniennes de jours fastes et néfastes, in Revue Historique de Droit Français et
Étranger 29, 1952, 308, 314 n. 1; A. Guarino,
L'ordinamento giuridico romano, cit.,
93.
[49] É. Benveniste,
Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2, cit., 139; R. Schilling,
L'originalité du vocabulaire religieux
latin, in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, Roma 1979,
45.
[50] R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto divino e umano in
Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939, 238, 259; Id., Elemento
divino ed elemento umano nel diritto di Roma, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto 21, 1941, 15 estr.;
Id., I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967,
106 s.
[53] Su tali concetti
vedi, per tutti, N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Torino
1958, 154 ss.; G. Kalinowski, Introduzione alla logica giuridica,
trad. it. a cura di M. Corsale, Milano 1971, 157 ss.; G. Di Bernardo,
Introduzione alla logica dei sistemi
normativi, Bologna 1972, 69 ss.
[54] Cfr. F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il
problema del "diritto internazionale antico", cit., 102 ss. Sugli
aspetti più generali del problema vedi, invece, R. Orestano, Introduzione
allo studio del diritto romano, cit., 406 ss. («“Dommatica odierna” e
studio di un diritto del passato»).
[56] Isidoro, Diff. 1,563: Bellum est contra hostes
exortum, tumultus vero domestica appellatione concitatus. Hic et seditio
nuncupatur.
[57] Servio, in Verg. Aen. 8,547: Qui sese in
bella sequantur in expeditionem et bellicam praeparationem: nam, ut supra diximus,
‘bellum’ est tempus omne quo vel praeparatur aliquid pugnae necessarium, vel
quo pugna geritur, ‘proelium’ autem dicitur conflictus ipse bellorum: unde modo
bene dixit ‘qui sese in bella sequantur’, non ‘in proelium’; nam ad auxilia
petenda vadit, non ad pugnam (cfr. anche
Servio Dan., in Verg. Aen. 1,456;
2,397; Nonio, p.
[58] Sulle «veterum
de origine verbi sententiae», cfr. B.A.
Müller, v. Bellum, in Thesaurus Lingua Latinae, II, 1906, col.
1822.
[60] Servio, in Verg. Aen. 1,22: Et dictae sunt
parcae kata ¢nt…frasin, quod nulli
parcant, sicut lucus a non lucendo, bellum a nulla re bella.
[62] B.A. Müller, v.
Bellum, in Thesaurus Linguae
Latinae, II, cit, col. 1822; V. Rosenberger,
Bella et expeditiones: die antike Terminologie der Kriege Roms,
Stuttgart, 1992, 128 ss.
[63] Su tale «fatto
fonetico» vedi G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna,
1940 (rist. an. 1969), 107; M. Leumann,
Lateinische Laut- und Formenlehre = Leumann-Hoffman-Szantir, Lateinische Grammatik, 1 [Handbuch der
Altertumswissenschaft, II.2.1], nuova ed., München, 1977, 131 s.
[64] Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L.
VI,32323,94 (G.B. Pighi, De ludis saecularibus populi Romani
Quiritium, Milano 1941, 114);
Act. lud. saec. Sept. Sev. 4,11 =
C.I.L. VI,32329,11 (G.B. Pighi, Op. cit., 157): imperi>um maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique
semper Latinu>s obtemperassit.
[65] Cfr. anche
Plauto, Asin. 558-559: Edepol qui virtutes tuas non possis conlaudare,
/ sicut ego possim, quae domi duellique male fecisti; Capt. 67-68: Abeo. Valete
iudices iustissimi / domi, duellique duellatores optumi.
[66] In questo caso
la nostra fonte più autorevole è costituita da M. Terenzio Varrone, De ling.
Lat. 7,49: Perduelles
dicuntur hostes; ut perfecit, sic perduellis, <a per> et duellum; id
postea bellum. Ab eadem causa facta Duell[i]ona Bellona; cfr. Cicerone, Orat. 153; Quintiliano, Inst. orat. 1,4,15. Sull’antica forma del
nome della dea vedi anche C.I.L. X,104,2; più in generale E. Aust, v. Bellona, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft,
III.1, Stuttgart, 1897, coll. 254 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer,
2ª ed., München, 1912 [rist. 1971], 151 ss.; G. Dumézil, La
religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris, 1974, 394 ss. [= Id., La
religione romana arcaica, trad. it. di F. Jesi, Milano, 1977, 341 s.]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico,
Milano, 1988, 192 ss.
[68] Cfr. nello
stesso senso J.-P. Brisson, Introduction,
in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, Paris-La Haye, 1969, 17.
[69] Cicerone, De nat. deor. 2,8: C. Flaminium Coelius
religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae
vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam
amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum
externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione,
id est cultu deorum, multo superiores. Acute osservazioni in C. Bailey,
Phases in the Religion of Ancient Rome,
Berkeley, 1932 [rist. Westport, Conn., 1972], 274 s.; più di recente, vedi R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden-New
York-København-Köln, 1988, 5 s.; ma anche M.
Humbert, Droit et religion dans
[70] Da condividere
il pensiero di M. Meslin, L’uomo romano, cit., 39.
[71] Cfr. in tal senso, J.
Hergon, La guerre romaine aux 4e-3e siècles et la fides romana,
in J.-P. Brisson (direct.), Problèmes
de la guerre à Rome, cit., 28.
[72] Tale è il caso,
ad esempio, delle formule e procedure elaborate dai Fetiales per l’indictio belli (Tito Livio 1,32,6-14).
[73] J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et
psychologique, (1957), 2a ed., Paris, 1969 [rist. 1976], 86 s. [=
Id., La religione romana. Storia politica
e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino, 1959 (rist. 1992), 93 s.].
[74] H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA.VV., Problèmes
de la guerre à Rome, cit., 101. Sulle feste di carattere militare di
questi due mesi, vedi per tutti W.W. Fowler,
The Roman Festivals of the Period of the
Republic, rist. London, 1925, 33 ss., 236 ss.; ed il più recente lavoro di D. Sabbatucci,
La religione di Roma antica, cit., 87
ss., 317 ss.
[75] Cicerone, De
off. 1,36-37: [Popilius imperator tenebat provinciam in cuius exercitu Catonis
filius tiro militabat cum autem Popilio videretur unam dimittere legionem
Catonis quoque filium qui in eadem legione militabat dimisit. Sed cum amore
pugnandi in exercitu remansisset Cato ad Popilium scripsit ut si eum patitur in
exercitu remanere secundo eum obliget militiae sacramento quia priore amisso
iure cum hostibus pugnare non poterat. Adeo summa erat observatio in bello
movendo]. Marci quidem Catonis senis est epistula ad Marcum filium in qua
scribit se audisse eum missum factum esse a consule cum in Macedonia bello
Persico miles esset. Monet igitur ut caveat ne proelium ineat; negat enim ius
esse, qui miles non sit, cum hoste pugnare.
[76] Cfr. F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, cit., 227 s.;
per l’analisi linguistica del verbo impiare, e per le sue valenze religiose,
vedi H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la
langue latine, Paris, 1963,
334 ss.
[77] Paolo, Fest. ep., p.
[78] Per la
definizione vedi Varrone, De ling. Lat. 6,22: Armilustrium ab eo quod in Armilustrio armati sacra faciunt, nisi
locus potius dictus ab his; sed quod de his prius, id ab lu<d>endo aut lustro,
id est quod circumibant ludentes ancilibus armati. Cfr. Paolo, Fest. ep., p.
[79] Cfr. per tutti G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 19, 144, 557; W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic, cit., 250 s.; N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna, 1939, 100; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München, 1960, 120; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 216 [= Id., La religione
romana arcaica, cit., 190]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., 331 s.
[80] L’attività
teologica e giuridica della sodalità si esplicitava, oltre che nelle formule
solenni, soprattutto in decreta e responsa, che i feziali davano su richiesta del senato o dei magistrati.
Importanti testimonianze, con riferimenti testuali, in Tito Livio (31,8,3: Consultique fetiales ab consule Sulpicio,
bellum, quod indiceretur regi Philippo, utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an
satis esset, in finibus regni quod proximum praesidium esset, eo nuntiari.
Fetiales decreverunt, utrum eorum fecisset, recte facturum. 36,3,9: Fetiales responderunt iam ante sese, cum de
Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre, ipsi coram an ad praesidium
nuntiaretur).
[81] Rassegna delle
fonti in cui ricorre questa espressione in B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II,
cit., 1847 s. Sul tema,
ampiamente studiato dalla dottrina romanistica, basterà ricordare alcuni: M. Kaser, Das altrömische ius, Göttingen, 1949, 22 ss.; H. Drexler,
Iustum bellum, in Rheinisches Museum für Philologie 102,
1959, 97 ss.; H. Hausmaninger, ‘Bellum iustum’ und ‘Iusta causa belli’ in
älteren römischen Recht, in österreichsche Zeitschrift für öffentliches
Recht, N. F. 11, 1961, 335 ss.; E. Pólay, Differenzierung der Gesellschaftsnormen in antiken Rom, Budapest,
1964, 115 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 14 ss.; K.-H. Ziegler,
Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., 102 ss.; W.V. Harris,
War and imperialism in Republican Rome,
327-70 BC., Oxford, 1979,
161 ss. (del tutto inaccettabile la posizione fortemente negativa); S. Albert,
Bellum iustum. Die Theorie des
«gerechten Krieges» und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen
Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit, Kallmünz, 1980, 12 ss.; S. Clavadtscher-Thürlemann,
‘Polemos dikaios’ und ‘bellum iustum’,
Zürich, 1985, 139 ss.; F. d’Ippolito,
Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, cit.,
22 ss.; D. Nörr, Aspekte des
römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, cit., 118 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die
religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, Stuttgart, 1990, 117 ss.; A. Watson, International law in
archaic Rome: war and religion, cit., 48 ss.
[83] Isidoro, Orig. 18,1,2: Iustum bellum est, quod
ex edicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa.
[84] Tito Livio 9,1,10: Iustum est bellum, Samnites,
quibus necessarium, et pia arma quibus nulla nisi in armis reliquitur spes.
[85] D. 1,3,40 (Modestinus libro primo regularum): Ergo
autem omne ius aut consensus fecit aut necessitas constituit aut firmavit
consuetudo. Cfr. Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, IV,
coll. 74 ss.
[86] Sul tema, ancora
fondamentale il lavoro di W. Capelle,
Griechische Etik und römischer
Imperialismus, in Klio
25, 1932, 86 ss. [ristampato in AA.VV., Ideologie und
Herrschaft in der Antike, hrsg.
von H. Kroft, Darmstadt, 1979, 238 ss.]; da ultimo, J.-L. Ferrary, Philhellénisme
et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde
hellénistique, Rome, 1988.
[87] M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer
geistiger Bewegung, Göttingen,
1959, qui citato nella trad. it., La
stoa. Storia di un
movimento spirituale, I, Firenze, 1967, 535 ss.; J.-L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’età repubblicana, in AA.VV., Storia delle idee politiche, economiche e sociali (dir. da L.
Firpo), I. L’antichità classica, Torino, 1982, 731 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et
la tradition romaine à la fin de
[88] Su L. Furio
Filo, uomo politico e giurista amico di Scipione Emiliano, console nel
[89] De re publ. 3,8; J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re
publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, in Revue des études Latines 55, 1977, 128. Fra gli
studi dedicati a Carneade e alla Nuova Accademia vedi, in particolare: J. Croissant, La morale de Carnéade, in
Revue internationale de philosopie 3,
1939, 545 ss.; O. Gigon, Zur Geschichte der sogenannten Neuen
Akademie (1944), ora in Id., Studien
zur antiken Philosophie, Berlin,
1972, 412 ss.; A. Weische, Cicero und die neue Akademie, Münster West.,
[90] Il passo tratto
da Lattanzio (Inst. div. 6,9,3-4) è stato considerato non
ciceroniano nelle edizioni curate da K.
Büchner (M. T. Cicero, Von
Gemeinwesen, 3ª ed.,
Zürich, 1973) e da P. Krarup (M.
T. Ciceronis De re publica librorum sex
quae supersunt, Firenze, 1967); anche E. Heck, Die Bezeugung von Ciceros Schrift De
re publica, Hildesheim,
1966, 90 s., ritiene il passo non riconducibile al
discorso di Furio Filo. Per una
analisi più ampia di questa parte del De re publica, vedi ora J.-L. Ferrary, Le discours de Philus
(Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, cit.,
128 ss. (dello stesso autore cfr. anche: Le
discours de Laelius dans le troisième livre du De re publica de Cicéron, in
Mélanges de école Française de
Rome 86, 1974, 745 ss.); A. Michel,
A propos du De republica III: la politique et le désir, in Mélanges
de littérature et épigraphie latines, d’histoire ancienne et archéologie.
Hommage à la mémoire de Pierre Wuilleumier, Paris, 1980, 229 ss.
[91] Cicerone, Div. in
Caec. 62; De prov. cons. 4; Ad Att. 7,14,3; 9,19,1; Pro rege Deiot. 13; De off. 1,36; Phil. 11,37; 13,35. S. Albert, Bellum iustum, cit., 20 ss.; W.C.
Korfmacher, Cicero and the bellum iustum, in The Classical Bulletin 48, 1972, 49 ss. Riesame dei testi
ciceroniani, con molte critiche alla quasi totalità degli studi contemporanei,
nel recentissimo lavoro di L. Loreto,
Il bellum iustum e i suoi equivoci. Cicerone ed una componente della
rappresentazione romana del Völkerrecht antico, Napoli, 2001.
[92]. Per maggiori
ragguagli sul passo cfr. K. Büchner,
M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, cit., 200. Nel complesso dello ius fetiale, con
l’esempio anche del testo ciceroniano, D.
Nörr, Rechtskritik in der
römischen Antike, cit., 59, vede una delle manifestazioni della «römische
Gerechtigkeitsideologie».
[93] Isidoro, Orig.
18,1,2-3: Quattuor autem sunt genera bellorum: id est iustum, iniustum,
civile et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex praedicto geritur de
rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa. Iniustum bellum est quod de
furore, non de legitima ratione initur. De quo in Republica Cicero dicit: illa
– suscepta; commento in K. Büchner,
M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, cit., 325. Sulle cause del
bellum iustum esemplificate nel testo
di Cicerone vedi, fra gli altri, M.
Gelzer, Römische Politik bei
Fabius Pictor, in Hermes 68,
1933, 165 s.; H. Haffter, Geistige Grundlagen der römischen
Kriegsführung und Aussenpolitik (1942), ora in Id., Römische Politik
und römische Politiker, Heidelberg, 1967, 24; U. von Lübtow, Das
römische Volk. Sein Staat und sein Recht, cit., 483; W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrecht im 3. und 2.
Jahrhundert v.Chr., cit., 179; E.
Badian, Roman imperialism in the
late Republic, cit., 11 [= Id.,
Römischer Imperialismus in der späten
Republik, cit., 28]; J. Rüpke, Domi militiae. Die
religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., 121.
[94] Cfr. anche De re
publ. 3,34 (= Agostino,
De civ. dei 22,6): Nullum bellum suscipi a civitate optima nisi
aut pro fide aut pro salute; su cui vedi
la riflessione di A. Michel, Les lois de la guerre et les problèmes de
l’impérialisme romain dans la philosophie de Ciceron, in AA.VV., Problèmes de
la guerre à Rome, cit.,
174.
Quanto poi al rapporto esistente per i Romani tra imperium e religione, vedi H.
Haffter, Geistige Grundlagen der
römischen Kriegsführung und Aussenpolitik, cit., 11 ss.; A. Zwaenepoel, L’inspiration religieuse de l’impérialisme romain, in L’Antiquité Classique 18, 1949, 5 ss.; P. Catalano, Linee del
sistema sovrannazionale romano, cit.,
22 ss.; approfondiscono il tema specificatamente in rapporto a Cicerone: J. Vogt, Ciceros Glaube an Rom, rist.
an. dell’edizione 1935, Darmstatd,
1963; K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur
philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift De legibus,
Wiesbaden, 1983, 156 ss.; F. Sini,
Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma
antica, cit., 19 ss.
[95] Su questo importante testo ciceroniano,
vedi P. Catalano, Cic. De off.
3, 108 e il così detto diritto internazionale antico, in Synteleia
Arangio-Ruiz, I, Napoli, 1964, 373 ss.; Id.,
Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 4 ss.; più di recente, L. Loreto, Il bellum iustum e i suoi
equivoci, cit., 69 ss.
[96] Cicerone, De
off. 1,39: Atque etiam si quid singuli temporibus adducti hosti
promiserunt, est in eo ipso fides conservanda, ut primo Punico bello Regulus
captus a Poenis, cum de captivis commutandis, primum, ut venit, captivos
reddendos in senatu non censuit, deinde, cum retineretur a propinquis et ab
amicis, ad supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere. Cfr., inoltre, De
fin. 2,65; Cato maior 75; De leg. 2,34; De off. 3,107:
Est autem ius etiam bellicum fidesque iuris iurandi saepe cum hoste servanda.
[97] Così A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 301. Cfr. H.
Ehlers, v. Hostis, in Thesaurus Linguae
Latinae, VI.2, 1934, coll. 3061 ss.; A.
Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, cit., 662 s.; E Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, l. économie, parenté, société, cit., 95.
[98] Cicerone, De off. 1,37: Hostis enim
apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus. Indicant
duodecim tabulae: aut status dies cum hoste itemque adversus hostem aeterna
auctoritas.
[99] Trascritta da Aulo Gellio, Noct. Att.
16,4,3-4: Militibus autem scriptis dies praefinibatur, quo die adessent et citanti
consuli responderent; deinde ita concipiebatur iusiurandum, ut adessent, his
additis exceptionibus: “nisi harunce quae causa erit: funus familiare feriaeve
denicales, quae non eius rei causa in eum diem conlatae sunt, quo is eo die
minus ibi esset, morbus sonticus auspiciumve, quod sine piaculo praeterire non
liceat, sacrificiumve anniversarium, quod recte fieri non possit, nisi ipsus eo
die ibi sit, vis hostesve, status condictusve dies cum hoste; si cui eorum
harunce quae causa erit, tum se postridie, quam per eas causas licebit, eo die
venturum aditurumque eum, qui eum pagum, vicum, oppidumve delegerit”.
S. Tondo, Il “sacramentum militiae” nell’ambiente
culturale romano-italico,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris 29, 1963, 1 ss.; Id., “Sacramentum militiae”, Ibidem 34, 1968, 376 ss.; H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA.VV., Problèmes de la guerre à
Rome, a cura di J.-P. Brisson, Paris, 1969, 105 s.; C. Nicolet, Il
mestiere di cittadino nell’antica Roma, trad. it., Roma, 1980, 131 ss.; V. Giuffrè, Il “diritto militare” dei Romani, Bologna, 1980, 33 s.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., 76 ss.
[100] Paolo, Fest. ep., p.
[101] Varrone, De ling. Lat. 5,3: Quae
ideo sunt obscuriora, quod neque omnis impositio verborum extat, quod vetustas
quasdam delevit, nec quae extat sine mendo omnis imposita, nec quae recte est
imposita, cuncta manet (multa enim verba li<t>teris commutatis sunt
interpolata), neque omnis origo est nostrae linguae e vernaculis verbis, et
multa verba aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, ut hostis: nam tum
eo verbo dicebant peregrinum qui suis legibus uteretur, nunc dicunt eum quem
tum dicebant perduellem. Nello stesso senso anche Servio Dan., in Verg.
Aen. 4,424: Inde nostri ‘hostes’ pro hospitibus dixerunt: nam inimici
perduelles dicebantur; e Paolo, Fest. ep., p.
[102] Plauto, Curc.
1,1,4-6: si media nox est sive est prima vespera, / si status condictus
cum hoste intercedit dies, / tamen est eundum quo imperant ingratiis.
[103] Festo, De
verb. sign., v. Status dies <cum hoste>, 414-
[104] Sulla probabile epoca in cui si produsse il
mutamento di significato del termine hostis si legga F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 20: «Più tardi, dopo l’età
delle XII tavole e probabilmente nell’età delle guerre d’espansione in Italia,
si dovette determinare il mutamento di valore del termine; come ciò accadde e
per quali cause non siamo in grado di stabilire, ma è chiaro che la nuova
concezione espansionistica delle classi dirigenti romane nel corso del IV-III
secolo indusse a considerare l’hostis nemico e non più il peregrinus,
qui suis legibus utitur»; cfr. anche F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella
storia di Roma, cit., 344.
[105] E. Cuq, v. Hostis, in Dictionnaire
des antiquités grecques et romaines, III.1, Paris, 1900, 303. Cfr. Gaio, Inst. 1,128; ma anche Gai
epit. 1,6,1; Tituli ex corp. Ulp. 10,3.
[106] G. Boissier, La religion romaine d’Auguste aux Antonins,
I, cit., 242; P. Boyancé, La
religion de Virgile,
Paris, 1963, 70 s. Sulla pietas di Enea e sull’origine della sua
leggenda, vedi G.K. Galinsky, Aeneas,
Sicily and Rome, Princeton,
1969, 3 ss.; J.-P. Brisson, Le
pieux énée!, in Latomus 31, 1972, 379 ss.
[107] Servio Dan., in Verg. Aen. 1,378: nam
alii, ut Nigidius et Labeo, deos penates Aeneae Neptunum et Apollinem tradunt,
quorum mentio fit taurum Neptuno, taurum tibi, pulcher Apollo. Cfr., fra
gli autori più recenti: G. Dury-Moyaers, énée et Lavinium. A propos des
découvertes archéologiques récentes (avec une préface de F. Castagnoli),
Bruxelles, 1981, 181 ss.; G. Radke, v. Penati,
in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma, 1987, 12 ss.; A. Dubourdieu, Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome, Roma, 1989,
140 ss. (su Nigidio Figulo),
161 ss. (Enea e i Penati).
[108] Cfr., in tal
senso, G.B. Pighi, La poesia
religiosa romana, cit., 46 ss.; F. De
Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 55; F. Sini, Documenti sacerdotali di
Roma antica, cit., 170.
[109] Cfr. Cicerone, De leg. agr. 2,96. Collazia compare,
infatti, nel lungo elenco dei populi del Lazio arcaico di cui scrive
Plinio, Nat. hist. 3,96: Ita ex antiquo Latio LIII populi interiere
sine vestigiis. Per maggiori informazioni, rinvio a Chr. Hülsen, v. Collatia, in Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, IV.1, Stuttgart, 1900, col. 364; ma
soprattutto a L. Quilici, Collatia,
[Forma Italiae I, 10] Roma, 1974, 27 ss.; brevemente vedi anche M.P. Muzzioli, v. Collatinae arces,
in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., 840 s.
[110] G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 428 [= Id., La religione
romana arcaica, cit., 371 s.], ritiene il testo liviano di buona qualità e
abbastanza risalente; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrecht. Die Bronzetafel von Alcántara, cit., 16 ss.
Sull’istituto della deditio (la letteratura giuridica è peraltro
vastissima) vedi: W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrecht, cit., 5 ss.; F. De Martino, Storia della
costituzione romana, II, cit., 54 ss.;
K.-H. Ziegler, Kriegsverträge im antiken römischen Recht, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 102 (Rom. Abt.), 1985, 51 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die
religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., 209 s.; A. Watson, International law in
archaic Rome: war and religion, Baltimore and London, 1993, 48 ss.
[111] O. Lenel, Palingenesia
iuris civilis, II, Lipsiae, 1889, col. 59 fr. 222. Secondo la ricostruzione
proposta dallo studioso tedesco, il passo di Pomponio sarebbe da attribuire,
nella divisione per materia dei libri ad Quintum Mucium, alla rubrica
dedicata all’incapacità di testare del cittadino captus ab hostibus. Che
il testo verosimilmente sia da ricollegare alla trattazione del postliminium
sostiene invece F. Bona, “Postliminium in pace”, in Studia et Documenta Historiae et
Iuris 21, 1955, 262 nt. 58; seguito da R.
Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano, 1966,
200 s. Da ultima, vedi F. Cursi, La
struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato, Napoli,
1996, 136 s.
[112] Per O. Lenel, Palingenesia iuris civilis,
I, Lipsiae, 1889, col. 243 fr. 428, si tratterebbe del commento a XII tab. II.2
(status dies cum hoste); cfr. anche F.
Bona, Preda di guerra e occupazione privata di
“res hostium”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 25, 1959, 342; R. Martini, Le definizioni
dei giuristi romani, cit., 245.
[113] Un utile apporto
all’individuazione della vicenda semantica del termine (da miles conductus
in Plauto a homo perditus in Cicerone) si trova nei lavori di A. Milian, Ricerche sul “latrocinium”
in Livio. I. “Latro” nelle fonti preaugustee, in Atti
dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti 138, 1979-1980, 171 ss.; Id., Ricerche sul “latrocinium” in
Livio. II. Il “latrocinium” di Perseo, in Sodalitas. Scritti in
onore di Antonio Guarino, III, Napoli, 1984, 103 ss.; V. Giuffrè, “Latrones desertoresque”,
in Labeo 27, 1981, 214 ss.; S.
Morgese, Taglio di alberi e “latrocinium”: D. 47.7.2, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 49, 1983, 147 ss. Più in generale, vedi J. Burian,
Latrones. Ein Begriff in römischen literarischen und juristischen Quellen,
in Eirene 21, 1984, 17 ss.
[114] Cfr. Paolo, Libr.
XVI ad Sabinum = D. 49,15,19,2: A piratis aut latronis capti liberi
permanent. Il Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col.
927 fr. 1911, colloca il testo ulpianeo sotto la rubrica de iure gentium;
nello stesso senso, R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, cit., 341; così
anche E. Nardi, Istituzioni di diritto romano, A. Testi. 1, Milano,
1973, 175 s. I due testi di Ulpiano e Paolo sono stati riesaminati, più di
recente, anche da K.-H. Ziegler, Pirata communis hostis omnium, cit., 98; da
ultime vedi M.F. Cursi, La
struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato, cit., 137,
143; M.V. Sanna, Nuove ricerche
in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, Cagliari, 2001, 42 nt. 53.
[115] Per la definizione vedi Gaio, Inst. 1,129:
Quodsi ab hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen pendet
ius liberorum propter ius postliminii, quo hi qui ab hostibus capti sunt, si
reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt; itaque reversus habebit liberos
in potestate. Si vero illic mortuus sit, erunt quidem liberi sui iuris; sed
utrum ex hoc tempore quo mortuus est apud hostes parens, an ex illo quo ab
hostibus captus est, dubitari potest. Ipse quoque filius neposve si ab hostibus
captus fuerit, similiter dicimus propter ius postliminii potestatem quoque
parentis in suspenso esse. Cfr. anche Pomponio, Libr. XXXVII ad Q.
Mucium = D. 49,15,5; Trifonino, Libr. IV disput. = D. 49,15,12 pr.;
Paolo, Libr. XVI ad Sabinum = D. 49,15,19 pr. A. Maffi, Ricerche sul ‘postliminium’, Milano, 1992;
M.F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel
principato, cit. in nt. 63; M.V.
Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio
ab hostibus, cit. in nt. precedente.
[116] Varrone, De
ling. Lat. 5,86; Servio, in Verg. Aen. 1,62: Foedere modo lege, alias
pace, quae fit inter dimicantes. Foedus autem dictus vel a fetialibus, id est
sacerdotibus per quos fiunt foedera, vel a porca foede, hoc est lapidibus
occisa, ut ipse et caesa iungebant foedera porca; cfr. Servio Dan., in
Verg. Aen. 4,242.
[117] Festo, De
verb. sign., 198-200: Ordo sacerdotum
aestimatur deorum <ordine ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex,
dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex
maximus. Itaque in soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra
Martialem, et Quirinalem; Martialis supra proximum; omnes item supra
pontificem. Rex, quia potentissimus: Dialis, qui universi mundi sacerdos, qui
appallatur Dium; Martialis, quod Mars conditoris urbis parens; Quirinalis,
socio imperii Romani Curibus ascito Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque
arbiter habetur rerum divinarum humanarumque. Per la risalenza dell’ordo
sacerdotum attestato da Festo, vedi soprattutto G. Dumézil, La
religion romaine archaïque, cit., 155 [= Id.,
La religione romana arcaica, cit.,
138 s.]; sul testo cfr. anche F. D’Ippolito,
Giuristi e sapienti in Roma arcaica,
cit., 91 s.; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari,
1987, 108.
[118] Commenti in E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Buch VI, 8. unveränd. Aufl. (rist. 4ª ed. 1957), Stuttgart, 1984, 334 ss.; R.G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber sextus, Oxford, 1977, 260 ss.; E.
Paratore, Virgilio, Eneide, III
(Libri V‑VI), Milano, 1979,
358 s.; cfr. anche K. Büchner, Virgilio, 2ª ed., Brescia, 1986, 482. Per un
inquadramento più generale, vedi, fra gli altri: F.
Christ, Die römische
Weltherrschaft in der antiken Dichtung, Stuttgart, 1938, 145 ss.; E.
Beckemann, Der Friede des Augustus, 2ª ed., Münster im Westf., 1954, 37 s.; W.P. Basson, Virgil, Roman history
and the Romans’ destiny. Notes on Aen. VI 836-
[119] A. Wlosok, Römischer Religions- und Gottesbegriff in
heidnischer und christlicher Zeit, in Antike
und Abendland 16, 1970, 44. Nello stesso senso, M.A. Levi, Augusto e il suo tempo, Milano, 1986, 327.
[121] Cfr., in tal senso, F.
Klingner, Virgil und die römische
Idee des Friedens, in Id., Römische Geisteswelt, 4ª ed., München, 1961, 601. Più in generale,
sull’uso del verbo imponere vedi J.B. H(offmann), v. Impono, in Thesaurus Linguae Latinae, VII.1, Lipsiae, 1934-1964 [ma 1938], coll. 650 ss.; sul verbo vedi anche A.
Ernout-A. Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine,
cit., 521.
[122] Sulle
implicazioni del testo virgiliano, vedi F.
Eggerding, Parcere subiectis. Ein Beitrag zur Vergilinterpretation, in Gymnasium 59, 1952, 31 s. Parcere i nemici sottomessi, motivo
ricorrente nella riflessione politica e giuridica dell’età repubblicana (Cicerone,
De off. 1,35; Tito Livio 30,42,16-17), diventa nell’ideologia augustea uno dei
cardini dell’azione del princeps (Res Gestae 1,3,15-16).
[123] Penetranti
considerazioni di I. Lana, La concezione della pace a Roma. Lezioni, Torino, 1987, 84. Da vedere anche H.
Haffter, Politischen Denken im
alten Rom, in Id., Römische Politik und römische Politiker, cit., 52 ss., in particolare 53; A. Traina, v. Superbia, in Enciclopedia
Virgiliana, IV, Roma, 1988,
1072 ss., in partic. 1074. Più in generale, sulla superbia come categoria della lotta politica, J. Helleguarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous
[124] Cfr., da ultimo,
F. Sini,
Impero Romano e religioni straniere: riflessioni su universalismo e
tolleranza nella religione politeista romana, in Sandalion 21-22, 1998-1999 [ma 2001], 57 ss.; Id., Sua cuique civitati religio.
Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 1 ss.
[125] W.S. Teuffel, Geschichte der römischen Literatur, II, 7ª Auffl., Leipzig, 1920 [rist. an. Aalen, 1965], 137 s.; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, cit., 380; i frammenti sono
stati raccolti da H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, Lipsiae, 1907 [rist. Roma, 1964], 457 ss.
[126] H. Funaioli, Grammaticae Romanae, cit.,
461 fragm. 10; F. Bona, Contributo allo studio della composizione
del “de verborum significatu” di Verrio Flacco, cit., 66 s. Cfr., sempre di Festo, De verb. sign., p.
[127] Cfr. anche
Isidoro, Orig. 5,24,18: Pactum dicitur inter partes ex pace
conveniens scriptura, legibus ac moribus comprovata; et dictum pactum quasi ex
pace factum, ab eo quod est paco, unde et pepegit. Sul frammento ulpianeo vedi L.
Ceci, Le etimologie dei
giureconsulti romani, Torino,
1892, 165; F. De Visscher, Pactes et religio, ora in Id., études de droit romain public et privé, trois. ser., Milano, 1966, 410; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi, mezzi, fini, Napoli, 1966, 199.
[128] Per tutti A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, II, Heidelberg, 1954, 231 s.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue
latine, cit., 473.
[129] Il verbo pacere
compare in due frammenti del codice decemvirale. Il primo è Tab. I,6-7: Rem ubi pacunt, orato. Ni
pacunt in comitio aut in foro ante meridiem caussam coiciunto (Fontes Iuris Romani
Anteiustiniani, I, cit., 28); il secondo
frammento è Tab. VIII,2: Si
membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto (Fontes, cit., 53).
[130] Ernout-Meillet, Dictionnaire étimologique de la langue latine, cit., 473; nello stesso senso, vedi C. Milani, Note sulla terminologia della pace nel mondo antico, in La pace nel mondo antico, Contributi
dell’Istituto di storia antica XI, a cura di M. Sordi, Milano, 1985, 25.
[131] I. Lana, La pace nel mondo antico,
in Studia et Documenta Historiae
et Iuris 33, 1967, 9; nello
stesso senso, vedi ora Id., Studi sull’idea della pace nel mondo antico, cit., 21 (estratto).
[132] M. Sordi, ‘Pax deorum’ e libertà religiosa nella
storia di Roma, in La pace nel mondo antico, cit., 146 ss., in part. 147.
[133] Tito Livio 7,3,3-6; cfr. 8,18,11-12.
Sulla lex: J. Heurgon, L. Cincius
et la loi du “clavus annalis”, in Athenaeum 42, 1964, 432 ss.; Id., Magistratures
romaines et magistratures étrusques,
in Les origines de
[135] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il
problema "diritto internazionale antico", cit., 83 ss.
[136] Già il poeta
Ennio aveva cantato, in questo modo, l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclita condita
Roma est (Svetonius, August. 7); cfr. anche Livius 1,4,1. A. Grandazzi, La fondation
de Rome. Réflexion sur l’histoire, Paris 1991.
[137] D. 1,2,2,7
(Pomponius libro singulari enchiridii.
P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano,
Torino 1990, xiv s.; M.P. Baccari, Il concetto giuridico di civitas
augescens: origine e continuità,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio
Lombardi, II, Roma 1996], 759 ss.; Ead.,
Cittadini popoli e comunione nella
legislazione dei secoli IV-VI, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto
Romano dell'Università di Sassari, 9] Torino 1996, 47 ss.
[138] Virgilio, Aen. 1,275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine
dicet. / His ego nec
metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi. P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris
1963,
[139] Questo
significato di religio è attestato da
Cicerone, De nat. deor. 2,8. Altri testi ciceroniani: De nat. deor. 1,117; De leg.
1,60; 2,30; De har. resp. 18.
[140] H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen
zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, 186 ss.; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, 49 ss. [= Id., Scritti
di diritto romano, I, Padova 1985, 226 ss.]; J. Bayet, La religion
romaine. Histoire politique et psychologique, (1957), 2a ed., Paris 1969 [rist. 1976], 57 ss. [= Id., La
religione romana. Storia politica e
psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959 (rist. 1992), 59 ss.];
M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa
nella storia di Roma, in Aa.Vv.,
La pace nel mondo antico, Milano
1985, 146 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico",
cit., 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente); Id., Populus et religio dans
[141] M. Humbert,
Droit et religion dans
[142] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., 49 [= Id., Scritti
di diritto romano, I, cit., 224].
[143] J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur
les sacerdoces et le droit public à la fin de
[144] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., 50 [= Id., Scritti di diritto romano, cit., 225].
[145] C. Bailey,
Phases in the religion of Ancient
[146] D. 1,1,1,2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum
et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod
ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in
sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit.