Università di Sassari
Mediazione e arbitrati
fra medioevo ed età moderna
Sommario: 1. Cenni introduttivi. – Parte I: Problematiche del diritto internazionale classico.
2. Mediazione e intervento.
– 3. Mediazione e buoni
uffici. – 4. Mediazione
e arbitrato. – Parte II: Le radici storiche.
5. Mediazione, arbitrato,
intervento e struttura della Comunità “internazionale”. – 6. La mediazione dell’Imperatore.
– 7. La conciliazione dei
conflitti e l’Impero. – 8. Mediazione e faida. – 9. Arbiter, arbitrator, amicalis
compositor. – 10. Riflessioni conclusive.
Nel quadro complesso dei mezzi volti a conseguire, direttamente o
indirettamente, la soluzione di una controversia internazionale, può avere
rilievo l’attività posta in essere, fra le parti, da un terzo soggetto ad essa
estraneo. Ciò si può verificare vuoi perché tale soggetto avvicina le posizioni
contrapposte e facilita l’accordo dei litiganti, vuoi perché, dietro incarico
di questi, formula una decisione munita di valore vincolante, vuoi perché, con
la minaccia o con l’uso della forza, provoca autoritativamente una soluzione
imponendosi alla loro volontà. In ciascuno di questi casi, sebbene con
intensità diversa, l’attività del terzo soggetto acquista rilevanza giuridica,
configurandosi nell’ultimo caso come intervento, nel caso intermedio come
arbitrato, rivestendo infine nel primo una di quelle figure che si trovano
talvolta separatamente indicate nella prassi internazionale come
<mediazione> o <buoni uffici>, senza che peraltro si ravvisi
sempre, fra di esse, una reale differenza qualitativa[1].
Nel diritto internazionale
generale, le parti di una controversia internazionale possono, infatti,
pervenire alla soluzione della stessa anzitutto mediante un accordo di
accertamento del diritto obiettivo preesistente, o, se del caso, mediante un
accordo costitutivo di una nuova situazione giuridica, atta a comporre il
conflitto di interessi da cui la controversia è scaturita. Se, però, tale via è
inaccessibile o improduttiva, quelle parti possono valersi dell’opera di un
terzo. Questa, a sua volta, può concretarsi in una attività arbitrale,
nell’ipotesi in cui esse attribuiscano al terzo il potere di risolvere la
controversia mediante una sua manifestazione di volontà (e questa può avere ad
oggetto così l’accertamento del diritto preesistente come, se del caso, la
creazione di diritto nuovo); oppure la stessa può restare al di qua
dell’esercizio della funzione giurisdizionale e concretarsi in una attività
volta a facilitare il raggiungimento di un accordo. Questo, in ipotesi,
potrebbe essere tanto un accordo risolutivo della controversia, quanto un
accordo diretto a porre in essere un procedimento risolutivo della medesima.
D’altro canto, è possibile che le condizioni alle quali una determinata
controversia può trovare soluzione, ovvero il mero fatto della sua sussistenza,
interessi un terzo soggetto, il quale può autonomamente farsi avanti cercando
di portare le parti ad un avvicinamento, vuoi proponendo, vuoi addirittura
imponendo una soluzione determinata, configurandosi la sua attività, in
quest’ultimo caso, come un intervento.
A distinguere dunque la mediazione dall’arbitrato, accomunati, come
si è accennato, dalla presenza di un soggetto terzo rispetto alla controversia,
sta la natura della funzione corrispettiva[2]
dell’arbitro e del mediatore. Il primo è infatti chiamato a rendere una
decisione obbligatoria, mentre il secondo si incarica soltanto di portare le
parti ad un accordo[3],
e anche quando, in vista di tale scopo, renda un parere sul merito della
controversia, o proponga un piano di soluzione, si intende che esso non è
vincolante per le parti.
Caratteristica precipua della mediazione, infatti, è la sua
facoltatività, sia perché i soggetti della Comunità internazionale non sono
obbligati a ricorrervi – dato, questo, che in assenza di accordi specifici
accomuna peraltro la mediazione agli altri mezzi di soluzione delle
controversie internazionali – sia perché gli stessi soggetti non sono obbligati
a conformarvisi. D’altro canto, i limiti che tale facoltatività incontra in via
di fatto segnano il confine rispettivo fra la mediazione e l’intervento, cioè
fra l’attività conciliativa rivolta alle parti in controversia per facilitarne
l’accordo, e l’ingerenza autoritativa consistente nell’intimazione ad accettare
la soluzione indicata, dietro implicita o esplicita minaccia dell’uso della
forza[4].
Ma la discriminante fra mediazione e intervento è, a volte, di non
immediata evidenza, e non è difficile osservare come spesso l’intervento si
attui sotto le spoglie di una mediazione. La riluttanza, soprattutto da parte
degli Stati meno potenti, a ricorrervi, è derivata spesso proprio dal fatto che
tale istituto, con lo scopo apparente di fornire soccorso diplomatico in
situazioni controverse o di aperto conflitto, può prestarsi in realtà ad abusi
da parte delle potenze maggiori, come dimostra l’esperienza del XIX secolo,
quando il suo ruolo non è stato certo insignificante. Pur prescindendo dal
ruolo della Chiesa di Roma, cui si riconosceva un notevole prestigio come
potenza pacificatrice[5],
diversi trattati internazionali prevedevano il ricorso alla mediazione, che si
trattasse dell’impegno ad offrirla[6],
o a non ricorrere alle armi se non dopo avervi fatto ricorso. Il diritto di
mediazione poteva derivare da un trattato di garanzia[7]
oppure dal modo stesso in cui
«S’il
survenait, entre
Quale che fosse l’intenzione dei promotori, una previsione di
questo tipo servì in realtà ad affermare il diritto degli Stati europei di
ingerirsi negli affari riguardanti
Dalla mediazione delle Grandi Potenze fra Francia e Prussia a
proposito del Lussemburgo (1867); a quella della Francia fra Stati Uniti e Gran
Bretagna (1861)[16],
e fra Austria e Italia (1866), o ancora a quella degli USA fra Giappone e
Russia nel 1905[17],
il ricorso alla mediazione anche nella prassi fu molto frequente. Ciò finì,
tuttavia, per mostrarne le ambiguità: spesso essa non era che uno schermo il
quale serviva in realtà per imporre agli Stati in conflitto una politica voluta
da terzi[18]. Le forme della mediazione
nascondevano talora l’intimazione ad accettare la soluzione indicata dal
mediatore e la minaccia di ricorrere alla forza per farla eventualmente
prevalere[19].
Proprio la reazione a tale prassi doveva portare alla precisazione del
principio di non intervento[20].
Tale principio, però (che viene fatto derivare in definitiva dalla protezione
accordata dal diritto internazionale all’indipendenza interna ed esterna degli
Stati), si presenta anch’esso come un Giano bifronte perché, in quanto rinvia
ad un generale interesse della comunità internazionale alla salvaguardia e al
mantenimento di un dato assetto di pace, oltrechè porsi per i singoli soggetti
del diritto internazionale, non per
E’ in questo contesto che il von Liszt faceva notare come si
dovesse ritenere contraria al diritto internazionale l’ingerenza di uno o più
Stati negli affari interni o esterni di un altro Stato, quando dietro di essa
vi fosse la minaccia o il vero e proprio impiego della forza armata, volta allo
scopo di indurre quello Stato a compiere un atto determinato o astenersene.
Proprio nell’assenza di tale minaccia, per tale studioso era da ravvisare la
differenza fra intervento e mediazione, benché egli stesso avvertisse quanto,
nei fatti, fosse spesso difficile stabilire una linea di confine[23].
La storia del XIX secolo rivela quanto, pur restando al di qua dell’intervento,
anche quando, cioè, caratterizzata da un’apparente debolezza, nelle mani di una
potenza abile la mediazione abbia potuto diventare un prezioso strumento
politico: fu per aver rivestito i panni di potenze mediatrici ai preliminari di
Shimonoseki (17 aprile 1895) che
Nella reazione all’uso
strumentale della mediazione, e nel tentativo di salvare uno strumento prezioso
per
In genere, per la dottrina più risalente (Vattel[25],
De Rayneval[26],
De Martens), le due espressioni sembravano indicare uno stesso istituto. E’
proprio la dottrina ottocentesca che – da Klüber[27]
a Fiore[28],
Rivier[29],
Pradier Fodéré[30]
– accentua la diversificazione. Se il protocollo del 5 dicembre 1852 della
conferenza di Vienna impiega i termini di buoni uffici e mediazione come
sinonimi di ingerenza amichevole, per il Phillimore:
«Between the two positions there is a marked difference, inasmuch as the
former implies the consent of both Belligerents; the latter may be without the
consent of either or with the consent of only one. The good offices of a
Neutral State may be accepted and its mediation refused»[31].
A sostegno della propria
tesi il Phillimore faceva l’esempio della guerra fra Svezia e Russia, quando
quest’ultima aveva accettato i buoni uffici, ma rifiutato la mediazione della
Francia. E mentre per alcuni la linea di demarcazione fra buoni uffici e
mediazione veniva connessa al fatto che:
«… whereas good offices consists in various kind of action tending to
call negotiations between the conflicting States into existence, mediation
consists in direct conduct of negotiations between the parties at issue on the
basis of proposals made by the mediator»[32],
per altri, come il Fourchault, agli inizi del 1900:
«Les bons offices ne sont pas, comme la médiation, l’apanage exclusif des
états. On concevrait fort bien qu’un ministre public interposait ses bons offices,
non pas au nom de son gouvernement, mais de sa propre initiative et au son nom
personnel»[33].
Tale modo di vedere era molto utile perché, anche quando si negava
alla Chiesa la personalità di diritto internazionale alla pari degli altri
Stati, si poteva non disconoscere al Papa il diritto di offrire i suoi buoni
uffici per impedire una guerra o favorire la pace[34];
ma soprattutto perché permetteva di uscire dalla logica della politica delle
grandi potenze, consentendo l’entrata in scena di personalità eminenti o delle
nascenti organizzazioni internazionali.
In realtà, la distinzione mantenne una portata teorica, e la
diplomazia non vi ha insistito. Non sorprende quindi la formulazione del Wörterbuch des Völkerrecht und der
Diplomatie, pubblicato a Berlino nel 1925, ove le due attività vengono
accomunate, e alla voce Vermittlung,
si legge:
«Die Bemühungen eines oder mehrere Staaten in einer gespannten Situation in
der sich andere befinden, das friedliche Verhältniss zwischen diesen aufrecht
zu erhalten und dadurch einem Kriege vorzubeuchen, nennt man Gute Dienste (bons
Offices). Bestehen diese Bemühungen darin, auf Ersuchen der Streitteile oder
doch mit deren Zustimmung Vorschlage zur Beilegung des Konfliktes zu machen, so
spricht man von Mediation oder Vermittlung».
Seguì infatti una relativa tendenza alla svalutazione delle
peculiarità dei diversi procedimenti[35],
sino ad apparire:
«... indicative of the primitive nature
of international arrangements for dispute settlement that so high a value
should be placed even into modern times upon the good offices of third states»[36].
Già dal diritto romano, a caratterizzare l’arbitrato – astrazion
fatta per le norme materiali e formali su cui se ne fonda la procedura – è la
sua natura obbligatoria[37].
Ciononpertanto, se la distinzione fra mediazione e intervento si colloca, per
il diritto internazionale generale, nella zona spesso indefinibile dei rapporti
di forza e dell’opportunità politica, quella fra la mediazione e l’arbitrato,
che si pone nell’ottica degli effetti giuridici della decisione resa
dall’arbitro, rispetto al piano proposto dal mediatore, non manca per questo di
zone d’ombra. Non per nulla Grozio guardava con qualche scetticismo
all’arbitrato, che, a suo avviso,
inter reges et populos locum habere non
potest. Nulla enim hic est potestas superior quae promissi vinculum aut
impediat aut solvat[38].
Nella prima metà del XIX secolo, l’arbitrato può essere affidato
tanto a un sovrano quanto a una commissione mista[39].
Nell’uno e nell’altro caso, benché concettualmente esso si differenzi
chiaramente dalla mediazione, il fatto che entrambi si propongano di porre
termine ad una controversia ha finito spesso col connettere, più che separare,
i due istituti[40],
tanto che, agli inizi del ‘900, la critica all’incapacità degli arbitri di
produrre diritto certo adagiandosi nel ruolo di mediatori e pacificatori,
diventa un topos della scienza
giuridica[41].
In tale tendenza, per la verità, riaffiorava – come vedremo – una prassi antica
di interrelazione profonda fra i due procedimenti, prassi dovuta non solo al
fatto che la frequenza dell’uno influenza l’altro, ma anche alla circostanza
che è stato ed è frequente che l’attività di mediazione o di conciliazione si
presenti come una procedura preliminare rispetto all’arbitrato, vuoi che,
rispetto a questo, sia semplicemente strumentale, e cioè sia volta a portare le
parti al compromesso; vuoi che si configuri come un obbligo o una facoltà
dell’arbitro di tentare anzitutto una conciliazione e, solo ove questa
fallisca, pronunciare una sentenza obbligatoria sulla base dello stretto
diritto.
Una volta stabilita la sua competenza, infatti, il tribunale
arbitrale deve decidere sulla base del compromesso. A questo riguardo, si possono
verificare più ipotesi: o il compromesso stringe l’arbitro a decidere in via di
diritto; o gli permette di statuire in via di equità[42];
o fa di lui un amiable compositeur[43].
Le due ultime ipotesi non vanno evidentemente confuse, giacché non hanno né lo stesso
ambito d’azione né lo stesso contenuto. La clausola ex aequo et bono,
presuppone una situazione che sta a cavallo fra le carenze e le lacune del
diritto: una situazione che coincide con l’impossibilità, per l’arbitro, di
rendere una decisione fondata sullo stretto diritto[44],
in quanto manca una norma convenzionale o consuetudinaria applicabile alla
fattispecie nell’insieme delle norme giuridiche in vigore. Ma spesso tale
impossibilità è prefigurata dalle parti, le quali desiderano che a regolare la
controversia sia un diritto nuovo, e di conseguenza domandano all’arbitro, in
sede di decisione arbitrale, non solo il superamento della normativa esistente,
ma la sua modificazione, intesa come aggiunta alle antiche di norme nuove, o
come sostituzione di quelle con queste cioè, in ogni caso, nella produzione di
diritto nuovo. L’introduzione della clausola ex equo et bono permette così di estendere il regolamento
giudiziario alle controversie ritenute non giuridiche[45].
L’attività di amiable compositeur si realizza, invece, al di qua del
regolamento giudiziario col cercare il punto d’accordo fra le parti[46].
D’altra parte, una attività di tal genere può infiltrarsi nell’arbitrato anche
al di là del compromesso: nell’affare dell’isola della Baia di Fundy, ad esempio,
i membri della commissione mista scelsero le vie della transazione, per la
quale non erano competenti[47];
così, nell’affare della frontiera Nord-Est degli stati Uniti, Guglielmo I dei
Paesi Bassi scarta deliberatamente, nel 1831, il trattato che come arbitro
avrebbe dovuto applicare per sostituire all’interpretazione di tale trattato la
sua concezione razionale della frontiera[48].
E’ in ogni caso significativo che ancora agli inizi del ‘900 si ritenesse
opportuno precisare che il fatto che gli arbitri fossero autorizzati ad agire
anche come mediatori, lungi dal contrastare il carattere giurisdizionale
dell’arbitrato, indicava proprio che il potere transattivo non spetta
ordinariamente all’arbitro[49].
Così come è significativo che in qualche caso i tribunali arbitrali, pur
rendendo una decisione sulla base del diritto internazionale, abbiano poi
raccomandato – sulla base dell’equità – che una delle parti compisse
determinati atti come un gesto di grazia. In tale eventualità – che si
configura in modo ben diverso da quella in cui l’arbitro è stato espressamente
autorizzato alla transazione – una mediazione viene evidentemente combinata con
l’arbitrato. Le raccomandazioni così rese non sono dotate di effetti
vincolanti, dal punto di vista del compromesso, ma ovviamente possiedono
considerevole forza morale[50].
Lungi dall’essere un’evoluzione della nostra storia recente, la connessione
dell’arbitrato con la mediazione recuperava una prassi molto risalente. Una
prassi che, tuttavia, ha generalmente ricevuto poca attenzione da parte della
scienza storica[51],
sebbene le fonti – stampate o no – offrano centinaia di casi di arbitrato o
mediazione. Anzi, soprattutto nell’età medievale, ne facciano mostra con una
frequenza e con una chiarezza quasi mai più raggiunta nella documentazione
successiva[52].
Solo di recente sono comparsi una serie di studi cui si è debitori di
interessanti risultati e che sono stimolo per ulteriori indagini[53].
Naturalmente, alla sporadicità delle ricerche sull’argomento non
era estranea la complessità del problema storiografico della Comunità
internazionale e del suo diritto[54],
che per l’età medievale rifletteva – e riflette – una doppia impasse. Quella del divenire storico del
diritto proprio di una comunità diversa da quella interindividuale che è alla
base dello Stato (diritto che non poteva essere concepito negli stessi termini
in cui veniva pensato e proposto l’ordinamento giuridico dello Stato); e quella
del divenire storico dei soggetti di quella comunità. Dal momento che quei soggetti si riteneva fossero gli Stati, ciò voleva
dire essere rinviati al problema dello Stato del Medioevo: problema tuttora
oggetto di un non sopito dibattito[55].
Notevole, di conseguenza (come abbiamo accennato in altra sede)[56],
ci pare debba essere considerato, rispetto alla chiarificazione del problema,
il contributo derivante dalla precisazione del concetto di “soggetto di
diritto internazionale” che è venuta maturando nella dottrina
internazionalistica, in quanto tale precisazione è servita a chiarire che quel
concetto non coincide affatto con quello di Stato in senso moderno[57],
bensì con quella organizzazione governativa la quale sia capace effettivamente
ed efficacemente di costituire un centro autonomo di volontà e di azione di un
intero gruppo umano, ponendosi sul piano internazionale come un nucleo autonomo
di potere ovverosia come una “potenza”.
Concepita come storia delle relazioni fra enti di tal genere, la
storia del diritto internazionale acquista una diversa ampiezza e profondità.
Essa si rivela, cioè, storia di lungo periodo, nella quale istituti
consuetudinari propri dell’attuale prassi delle relazioni internazionali, si lasciano
comprendere solo nella loro sedimentazione secolare. In particolare, i mezzi
tesi alla soluzione pacifica delle controversie, fanno più di altri trasparire
quanto profonde siano le radici degli istituti di diritto internazionale.
Specialmente la mediazione, proprio nei suoi legami con l’arbitrato da un lato,
e con l’intervento dall’altro, ci appare funzione diretta della struttura della
comunità internazionale[58], come suggeriscono le indagini di quegli studiosi che hanno rivolto
la loro attenzione alla prassi “internazionalistica” dell’età classica.
Sia il De Taube, sia il Tod[59]
ritenevano si potesse stabilire una connessione fra accettazione della
intromissione di un terzo soggetto – o il deferimento volontario, allo stesso,
della soluzione della controversia – ed esistenza, assieme a comuni interessi,
di un comune patrimonio etico, dal momento che i casi più risalenti di cui si
ha notizia si riferiscono in effetti ad intromissioni realizzate fra parenti[60],
ovvero a soluzioni suggerite da una divinità venerata da ambedue i contendenti[61].
Certo, si tratta di condizioni che non difettano alla comunità dei potentati
che vanno formandosi in Europa a partire dalla cosiddetta “età di transizione”:
una comunità relativamente ristretta, composta da soggetti appartenenti alla
medesima area di civilizzazione, ove è molto frequente la consuetudine di
ammettere che un terzo neutrale possa interporsi con proprie proposte per
assistere altri potentati nel raggiungimento di una soluzione pacifica di
eventuali controversie. Tali proposte possono mantenere la forma di un’offerta
di buoni uffici, nel senso che il terzo neutrale funge semplicemente quale
mezzo teso a favorire lo scambio di condizioni fra i soggetti in disaccordo,
ovvero possono configurarsi come una offerta di mediazione, la quale, se
accettata da ambo le parti, abilita la potenza neutrale a partecipare ai
negoziati tesi al raggiungimento della soluzione pacifica della controversia.
Ci proponiamo di approfondire in altra sede quanto importante sia
anche a questo riguardo l’eredità romano-ellenistica[62]; e come questa venga raccolta e trasmessa anzitutto dalla Chiesa,
il cui ruolo, anche in questo campo, cresce già a partire dal tardo Impero.
Poiché Cristo era stato mediatore fra Dio e gli uomini[63],
il Suo Vicario, il Capo della Cristianità, riteneva fosse sua funzione
specifica anche quella di operare come mediatore nelle controversie temporali[64].
E’ in questo senso, peraltro, che Ennodio parla di papa Leone come di un consiliorum principis et moderator et
arbiter[65],
e Gregorio VII afferma:
«Si officii nostri est
omnibus sua jura defendere ac inter eos componere pacem, ac stabilire
concordiam multo magis ratio exigit atque usus utilitatis exponit, ut sancimus
charitatem inter maiores, quorum pax aut odium redundat in plurimos»[66].
Insieme alle mediazioni papali e a quelle comunque assunte da
personalità religiose[67],
si lascia rilevare una parallela prassi che si venne a stabilire fra i
potentati laici.
Se, in materia, straordinarie evidenze ci vengono offerte dalle
fonti del basso impero e dell’alto Medio Evo (pensiamo anzitutto alla politica
teodoriciana, ma anche alle molte testimonianze longobarde e franche)[68],
ancor più numerose sono le evidenze più tarde, cioè quelle successive al 1000.
Fra X e XII secolo le vie della mediazione erano usate più che sovente, assai
prima che venisse definita una terminologia specifica per indicarne il
procedimento. Il fondamento del fenomeno può essere visto in quella che Bellini
ha additato quale logica del sistema: inammissibilità del ricorso alla violenza
bellica come bellum offensivum, conseguente esigenza di un
principio di regolamentazione pacifica nelle contese fra i principi cristiani[69].
Tale regolamentazione – che si incardinava evidentemente in una comunità di
tipo gerarchico – poteva richiamare l’intervento del superior[70].
Ma poteva anche attivare procedure tese alla pacificazione dei dissenzienti,
come mediazione e arbitrato.
Lo stesso Grozio riferisce delle funzioni arbitrali espletate dal
re di Svezia Magnus (1285) fra i due Enrichi, l’uno re di Danimarca, l’altro re
di Norvegia e, di nuovo, fra il re di Norvegia e alcune città anseatiche[71].
La procedura usata in tale occasione ha giustamente attirato l’attenzione del
De Taube[72],
in quanto esemplare della tendenza a legare mediazione e arbitrato: il
compromesso iniziale fra Enrico di Norvegia e le città anseatiche di Lubecca,
Rostok, Wismar, Stralsund, Greifswald, Wisby e Riga sottopone la controversia a
una commissione arbitrale di quattro membri, con la mediazione del re di
Svezia. Poiché la commissione non perviene ad alcuna soluzione, le parti fanno
ricorso al re di Svezia in qualità di superarbitro (summus iudex),
impegnandosi a tal fine con una clausola penale di 20.000 marchi d’argento.
Magnus assume l’incarico di superarbitro impegnandosi secundum Deum et
conscientiam con espresso riferimento alla necessità di evitare il rischio
che la controversia degeneri in un conflitto armato[73].
Può sorprendere quanto spesso si dava che fosse l’Imperatore ad
incaricarsi di pacificare due principi in discordia. Ma l’eventualità doveva
essere così frequente e naturale che la mediazione veniva talvolta usata come
copertura di manovre politiche cui non si voleva dare immediata pubblicità[74].
Naturalmente, chiamare in causa l’Imperatore voleva dire chiederne
il giudizio e/o l’intervento. Poteva accadere che in quest’ultimo caso la crisi
politica sfociasse in un rapporto feudale. Enrico III esercitò più di una volta
funzioni di mediatore nelle aggrovigliate vicende orientali[75].
Pietro, re d’Ungheria, detronizzato dal rivale Ovone (Samuele Aba), si recò da
Enrico III, invocandone il giudizio. Enrico, dopo una guerra contro l’usurpatore,
rese l’Ungheria a Pietro, il quale avrebbe dovuto da allora in poi essere
cliente e tributario dell’Impero. Il suo giuramento feudale fu rinnovato da
Andrea nel 1050. Il successore, Salomone, nuovamente chiese l’intervento
arbitrale dell’Imperatore in turbe intestine.
L’utilizzazione dello strumento della mediazione richiedeva
conoscenza dei fatti e capacità diplomatiche. Enrico, come attesta Wipone[76]
su impulso della madre, Gisella, in lege
studebat e Wipone stesso esalta il fatto che il re sapesse vincere i nemici
non solo con le armi, ma anche consiliis.
Lo studio delle lettere e delle leges
viene da Wipone considerato costitutivo dell’arte di governo: la sapienza
viene intesa come un’arte quae per vim
verbi flectit moderamina regni[77].
L’azione del mediatore consiste appunto in discorsi, argomentazioni. Le
fonti ce ne danno la misura quando ci parlano della mediazione di Ottone I nel
conflitto che oppone Luigi IV e Ugo il Grosso:
«Otto vero Hugonem in regis
gratiam reducere satagebat. Quem multis verborum stimulis familiariter ac levi
furore redarguens, eo quod regi suo contrairet, dominumque insectari non
formidaret, ad regem redire effecit. Et tempore oportuno, prudentium
legationibus praemissis, regi ducem reducit, sibique conciliat»[78].
Proprio
questo caso mostra, però, come la capacità di persuasione delle parole si possa
avvalere di forme di pressione: contro le riserve di Ugo il Grosso, alle mosse
di Ottone I si aggiungono quelle del Papa[79].
La mediazione entra anzi – come mediazione politica – anche nella
prassi interna dell’Impero. Quando Federico I, riappacificatosi con il duca di
Baviera, gli restituisce l’omonimo ducato, ne stacca tuttavia l’Austria, rendendola
ducato autonomo e attribuendola ad Enrico Babenberg, che sappiamo incaricato
dal Barbarossa di una missione presso il Basileus
d’Oriente, volta a riconciliare i due Imperatori e ottenere una tregua in
favore degli Ungheresi[80].
Orbene, nella Constitutio Ducatus
Austriae (17 sett. 1156) si
precisa che il provvedimento, evidentemente destinato ad avere notevoli
ripercussioni sull’equilibrio politico dell’Impero, viene preso non già dal
solo Imperatore, bensì «de consilio et
iudicio principum, Wladizlao illustri duci Boemiae sentenciam promulgante»[81].
E’ un passaggio che lascia trasparire come lo Hoftag,
Non si tratta di casi eccezionali. Dopo che, il 1 ottobre 1273,
venne eletto imperatore, Rodolfo d’Asburgo tese con decisione a fronteggiare la
potenza di Ottocaro di Boemia che si era impadronito dei feudi orientali
dell’Impero, grazie al matrimonio con Margherita Babenberg. L’Imperatore
ottiene che la dieta, convocata a Norimberga il 19 novembre dell’anno
successivo, decida che tutti quei feudi che facevano parte dell’Impero al tempo
della deposizione di Federico II (1245), debbono tornare all’Impero quando il
loro dominus non se ne sia fatta
rinnovare l’investitura dal nuovo Imperatore entro un anno e un giorno[84].
E’ in grazia di questa disposizione che contro Ottocaro può, nel ’76, essere
dichiarato il bando dell’Impero. Orbene, anche in una controversia di tale
rilievo, si vede affacciarsi una mediazione. In un primo tempo, infatti, è
attraverso la mediazione del vescovo Bruno di Olmutz che si addivenne alla pace
di Vienna, per la quale si stabilì che Ottocaro avrebbe restituito all’Impero
Austria, Stiria, Carinzia, Carniola, Gorizia e Pordenone, rinnovandogli
l’Impero i feudi boemi. Quando più tardi Enrico di Carinzia, divenuto re di
Boemia per aver sposato Anna di Boemia, ultima discendente della stirpe regale
dei Premyslidi, si trovò in conflitto con la volubile nobiltà del regno, tale
conflitto venne portato dinanzi all’Imperatore[85].
Ove, coerentemente con la struttura dello Stato patrimoniale-feudale[86],
la questione viene discussa in termini privatistici: il regnum boemo viene trattato alla stregua di un dominium cui era tanto più legittimo aspirare quanto più
sostenibili – in termini successori – erano i titoli dei pretendenti. Ma è
ricorrendo ancora una volta all’istituto della mediazione che la crisi politica
può trovare soluzione. In un primo tempo con la mediazione di Amedeo di Savoia[87],
quindi accordandosi per deferire la controversia a dei boni viri incaricati di cercare una composizione amichevole[88].
L’Imperatore nominò a tale fine il duca di Brabante e ancora una volta il conte
di Savoia. Le cui trattative portarono a effettiva soluzione la controversia
ottenendo, grazie a un doppio accordo matrimoniale, la rinuncia alla Boemia da
parte Enrico [89].
E ancora: il Goldast ricorda che nel 1318 Lodovico, allora re dei
Romani, avrebbe invitato presso di sé il re di Boemia Giovanni e la regina
Elisabetta di Boemia, assieme ai magnati boemi in discordia e, nel giorno di
Pasqua, avrebbe ordinato alle parti di trovare un accordo. I baroni del regno,
che avevano fatto causa comune contro il loro re, “riformati dalla grazia
regale”, si vincolavano con nuovo giuramento di fedeltà, mentre il re, dal
canto suo, prometteva con giuramento che tutti i renani e gli hospites pugnantes che gli avevano
prestato aiuto sarebbero stati licenziati e mandati fuori dal regno; che non
sarebbe stato concesso alcun beneficio a stranieri, e che tutti gli affari del
regno sarebbero stati trattati utilizzando solo consiglieri Boemi[90].
Qui la mediazione si confonde evidentemente, da un lato, con
l’azione politica e con quel consilium
che costituiva parte integrante della obbligazione feudale, dall’altro con la
funzione stessa del rex di assicurare
la pace e con la valenza religiosa che essa aveva. Non è un caso che il
concetto di pace sia centrale in tutte le fonti medievali e che lo stesso
ordinamento territoriale prenda il nome di Constitutio
de pace tenenda, Landfried. Pace e giustizia, pax et iustitia sono una formula biverbale ricorrente già nella
tradizione carolingia e tendente a
legarsi all’altra formula: pax et treuga
Dei. E’ stato anzi colto qui il profilarsi di una distinzione fra Landfrieden e Gottesfrieden. Le Landfrieden
sarebbero anzitutto tese a stabilire il divieto – variamente definito – del
ricorso all’uso della forza, benché una limitazione assoluta non fosse
evidentemente possibile[91].
Non si tratterebbe, quindi, come suggeriva la storiografia più risalente, di
una manifestazione del potere dello Stato di imporre la propria giurisdizione,
ma al contrario dell’espressione della stessa necessità che presiederà via via
alla formazione delle signorie territoriali, alla costituzione dei comuni, al
rafforzamento del potere regio[92].
Il Reuter ha raccolto una casistica rilevante di faide e inimicitiae riferite dagli annalisti e coinvolgenti l’alta nobiltà
imperiale. Esse dimostrano la sussistenza di un tipo di ordine giuridico nel
quale i mezzi istituzionali di cui dispone lo stesso sovrano sono limitati. Ecco
pertanto che il campo della mediazione è molto ampio, sicché è frequente vedere
imperatori che tentano di imporre la pace ai loro magnati, impegnandoli con
giuramento a rispettarla[93].
A tale necessità si ascrivono anzitutto i “giuramenti di pace” (Friedenseid) come quello
dettagliatissimo che il De Manteyer attribuisce a Umberto Biancamano[94]
o quello reso dal vescovo Guarino di Beauvais nella sua qualità di signore
feudale alla dieta di Compiègne, che nel maggio 1023 vide riuniti il re Roberto
II e molti grandi del regno[95].
Se grandi signori feudali, come il Biancamano, e vescovi influenti, come
Guarino di Beauvais, si vincolano con giuramento a non compiere azioni che
possiamo generalmente indicare come faidose, ciò vuol dire che tali azioni
erano sin qui normali, e che il giuramento tendeva proprio a questo: a rendere
illegale ciò che era sin qui legale. Non solo: non essendosi affermata ancora
una giurisdizione accentrata, capace di accertare il diritto e portare ad
esecuzione la sentenza, a un tale ordine di cose era più adatta una mediazione,
dietro la quale restava sullo sfondo la possibilità di un intervento. Un
esempio significativo è la faida fra il Conte Balderico e Wichmann in cui si
interpone il vescovo Aldaboldo di Utrecht il quale avverte che:
«si vero pertinatia desistere
nollent, imperatoris potestate et suis copiis vi coacturos ut ab incepto
tumultu absistant, demonstrat»[96].
Precedentemente,
il sovrano aveva invitato le parti in
causa presso di sé:
«Set cum diu
inimicitiae inter eos exercerentur, et homicidia fierent, et insidiae ab
utrisque ponerentur, et invicem alter ab altero fugaretur, tandem utrique a
rege in castra sunt vocati. Et cum diu causae eorum discuterentur, et rex sine
offensione multorum neutrum familiariorem in reconciliando habere posset, inter
se regia potestate pacem habere iussit»[97].
Il pur autorevole invito regio, però,
non era stato da sé solo sufficiente alla estinzione della controversia, al cui
fine fu molto più efficace la mediazione vescovile e l’aperta minaccia di uso
della forza.
Più complesso si presentava il caso di un conflitto fra nobiltà
laica e autorità religiose. Nella lunga serie di conflitti che oppone la
nobiltà sassone e i vescovi della Sassonia, alla fine della seconda decade del
XI secolo, l’Imperatore sta sempre dalla parte del potere vescovile. Così nella
lite di Arnolfo di Alberstadt con il marchese Gero, dopo le minacce fatte dal
seguito di quest’ultimo al vescovo [98].
Il caso è significativo. Poiché il vescovo aveva protetto un chierico entro il
territorio di Gero, il capo dei milites del
marchese protesta chiedendogli cur
seniorem suum sic inhonorare voluisset. Il vescovo replica: ubi culpabilis a communis amicis digna
emendatione restituo. All’inacerbirsi
della controversia, l’imperatore, molto irritato, nonostante il marchese Gero
avesse tentato di portarlo dalla sua parte tramite degli intermediari, lo
condannò a pagare una grossa somma e a purgarsi con un giuramento, mentre i
suoi milites venivano assoggettati
alle sanzioni canoniche. Nonostante l’intervento dell’imperatore, però, la
controversia ebbe termine solo mediante un accordo fra il vescovo e Gero[99].
Il potere di imperio, dunque, assumeva le vesti di un potere di intervento. La
stessa decisione se immischiarsi o no in una controversia che coinvolgesse due
o più grandi del regno implicava una scelta strategica da parte del sovrano,
una scelta alla quale poteva o no far seguito l’uso della forza. Proprio per
questa ragione, probabilmente, l’intervento sovrano veniva evitato grazie
all’attività concorrente degli stessi magnati.
Talvolta l’interposizione di un grande signore si attuava in
condizioni di reciprocità. Significativi sono da questo punto di vista i
rapporti fra Alberto d’Austria e la famiglia tirolese. Incorsi in scomunica per
via di un matrimonio sovrappostosi ad un divorzio della sposa pronunziato dal
futuro suocero, l’imperatore Lodovico il Bavaro; coinvolti nella guerra
guerreggiata che a quest’ultimo opponeva buona parte della nobiltà dell’Impero,
sostenuta dal Papa, Margherita del Tirolo e Lodovico del Brandenburgo vengono
molto aiutati dalla mediazione di Alberto d’Austria, tesa anzitutto a ottenere
il riavvicinamento della coppia alla Chiesa. Ma se, contro tutti, Alberto
d’Austria riconobbe sempre il Bavaro come legittimo Imperatore, se prestò
all'occorrenza il proprio aiuto finanziario, se, grazie a lui, il Papa annullò
il primo matrimonio di Margherita e ritirò il bando da cui era stata colpita la
coppia[100],
Lodovico del Brandenburgo, interpose a sua volta i suoi buoni uffici e il suo
intervento armato a favore dell’Austria e contro gli Svizzeri. L’amicizia fu
suggellata con il fidanzamento della figlia di Alberto d’Austria, Margherita,
col giovane Mainardo del Tirolo.
In molti casi sono le regine a farsi carico della funzione
mediatrice, con ciò lasciando affiorare probabilmente una delle motivazioni più
importanti della prassi di combinare i matrimoni dinastici. La regina Gisella
compare ad esempio molte volte quale mediatrice di pace fra il proprio figlio
Ernesto e Corrado II. Wipone ricorda molto chiaramente che la resistenza del
primo viene a cessare grazie alla mediazione della madre, del fratello minore e
di altri principi:
«Sed dux Ernestus humiliter iter eius prosecutus
usque Augustam Vindelicam interventu matris suae reginae et fratris sui Henrici
adhuc parvuli aliorumque principum multum renuente rege vix in gratiam eius
receptus est»[101].
Nello stesso tempo si ammette che possa trovarsi lo stesso
imperatore in condizione tale da chiedere o accettare l’intervento di un
mediatore. Così il duca Eberardo di Nellenburg fu con successo mediatore di una
controversia fra Enrico IV e il duca Otto di Northeim[102].
Quando nel 1075, il re Enrico IV rinnovò la guerra contro i Sassoni ribelli, questi
gli inviarono una delegazione con il compito di intavolare delle trattative. A
sua volta, il re nominò gli arcivescovi di Magonza e Salisburgo, i vescovi di
Augusta e Würzburg, insieme al duca Gottfried von Niederlothringen. Lamberto di
Hersfeld, cui si deve la notizia, ci dice che questi fecero capire ai Sassoni
essere stata, la loro, una grave ribellione dalla quale non potevano uscire se
non con una completa deditio al re[103].
Si potrebbe pensare che così facendo essi si comportassero semplicemente da
messaggeri del sovrano. Ma una tale conclusione sarebbe fuorviante perché in
realtà la loro è una vera mediazione, vale a dire l’attività di un terzo che
opera per il ristabilimento della pace e della concordia. Non solo infatti essi
si fanno carico delle repliche dei Sassoni, ma poiché questi non si contentano
della parola del re, il duca Gottfried offre loro garanzia giurata che
«... non salutis, non libertatis, non prediorum,
non beneficiorum, non caeterae suppellectilis suae ullam eos iacturam sensuros,
sed postquam faciem regis et regni maiestatem momentanea satisfactione
magnificassent, statim deditione absolvendos et patriae libertatique, in nullis
imminuto sibi condicionis suae statu, restituendos esse»[104].
Si tratta, come giustamente nota il Kamp[105],
cui dobbiamo l’aver attirato l’attenzione sull’episodio, di un giuramento fatto
in prima persona, non come mandatari del sovrano. Ciò pone il mediatore in
rapporto diretto con l’accordo raggiunto, e fa si che egli ne sorvegli e curi
il rispetto da ambo le parti, come nel caso di Federico di Magonza, il quale
avendo trattato l’accordo fra Ottone I e suo figlio Liudolf, cercò di fare
rispettare l’accordo anche dopo che Ottone lo aveva chiaramente infranto[106].
Questi soggetti, cui si ascrive il raggiungimento dell’accordo, anche per i
contemporanei andavano considerati mediatori in senso proprio. Tanto più in
quanto se, normalmente, non avevano competenza per chiudere l’accordo, ma si
limitavano a suggerirne il tenore, in qualche caso aprivano la strada ad un arbitrato,
o al contrario veniva loro conferita competenza arbitrale.
Così nel caso citato, della controversia fra i Sassoni e
l’Imperatore, questi proprio ai suindicati personaggi:
«... permisit, ut pro suo arbitratu tantos motus
componerent, promittens se indubitata fide omnibus annuere, quae ipsi
conficiendis tantis rebus competere iudicassent»[107].
Se la cronaca di Lamberto
di Hersfeld resta indeterminata in merito alla forma del compromesso, altre
fonti invece ne forniscono preziose indicazioni.
Esemplare, da questo punto di vista, è il trattato di Montebello
del 15 aprile 1175, concluso tra l’Imperatore Federico I e
«… bona fide et sine fraude …
concordiam facient inter Imperatorem et eius partem et Lombardos et eorum
partes, neque amore neque timore neque odio vel ullo alio modo permittent, quin
ex utriusque litteris extrahentur ea, quae eis videantur superflua et
incongrua; adjugent ea, quae eis videantur necessaria et magis utilia et
congrua ad pacem et concordiam inter Dominum Imperatorem et Lombardos et
Civitates et omnem suam Societatem confirmandam et tenendam».
L’accordo conteneva l’obbligazione, espressa dai contraenti, di
sottomettersi alla decisione della commissione o, qualora questa non avesse
raggiunto l’accordo, all'arbitrato del magistrato di Cremona. A tal fine, le
parti fornivano adeguata garanzia circa l’esecuzione della sentenza[108].
La formula adottata nel compromesso, teso alla soluzione di una
controversia per mezzo della interposizione conciliativa di un terzo soggetto,
tende a cristallizzarsi presto in una espressione caratteristica: il soggetto
viene designato quale arbiter arbitrator
seu amicabilis compositor. Questa è divenuta ad un certo punto una formula
di stile, affermandosi come tale per lungo tempo. In un compromesso del 23 febbraio
1251, su cui si soffermò lo Sclopis, i signori di Lucerna e altri si rimettono
alla decisione di Tommaso II di Savoia tamquam in arbitratorem et amicabilem
compositorem[109].
Nella sua versione completa la formula compare nel
«observare et tenere dictum et laudum dictorum
arbitrorum aut arbitratorum aut amicabilium compositorum et non contra venire
super hiis, que pronunciaverint vel pronunciari fecerint, prout eis iure vel
amicabili compositione aut voluntate, de plano et sine iuris solemnitate
videbitur expedire»[110].
Le ricerche del Bader hanno dimostrato quanto frequentemente la
formula fosse usata nella prassi[111],
ove come arbitri, arbitratores seu
amicabiles compositores venivano nominati sovrani, personaggi di rilievo e
sempre più spesso giuristi esperti sia di diritto canonico sia di diritto civile.
«Nous … arbitres et amiables appasierres de haut et
de bas esleuz des parties sur les descordes et guerre»
qualifica se stesso Jehan di Chalon-Arlay chiamato a pronunciarsi su una
controversia territoriale che vedeva da una parte il vescovo di Losanna
Guglielmo, Umberto di Toire-Villars e Hans di Cossonay, e dall’altra Luigi di
Savoia, riguardo a vari territori fra cui Morges, Mont-le vieux, Marchissy,
Vufflens-la-Ville e Préverenges[112].
Per via arbitrale fu risolta nel 1335 una grande controversia internazionale
fra
L’uso di questi strumenti di soluzione delle controversie rimane
costante nella prassi dell’Impero ove, anche quando vi furono istituiti Reichskammergericht e Reichshofrat, alla regola che gli immediati fossero soggetti in prima istanza
ai grandi tribunali dell’Impero, facevano eccezione i casi di quei soggetti cui
competeva das Recht der Austräge,
cioè il diritto che venisse sottoposta ad arbitri, prima che ai tribunali, la
controversia che li riguardava: una consuetudine che venne mantenuta da
Massimiliano I, pur nel riordino della materia giudiziaria[115].
Si trattava di un diritto connesso con una competenza di guerra ancora non
monopolizzata dallo Stato, propria di un ordine giuridico su cui forse siamo
nuovamente chiamati a riflettere.
Il fatto è che il solo mezzo giuridico di regolamento delle
controversie, dal punto di vista del diritto internazionale, finisce con
l’essere, direttamente o indirettamente, lo stesso accordo con il quale i
soggetti di diritto internazionale compongono i loro conflitti, vuoi
direttamente, ponendo norme di diritto materiale, vuoi indirettamente, creando
strumenti e strutture atte a comporre una determinata controversia, ovvero, in
ipotesi, ogni possibile controversia[116],
per cui la relazione fra i diversi strumenti utilizzabili dipende dalla
struttura – storicamente mutevole – della Comunità internazionale ed è in
rapporto a questa che la loro configurazione è variata di tempo in tempo[117].
Gli aspetti particolarmente impegnativi mostrati dalla mediazione ottocentesca
ispirarono il capitolo consacrato ai buoni uffici e alla mediazione nella
Convenzione per il regolamento pacifico dei conflitti internazionali, elaborata
nel 1899 alla prima conferenza di pace dell’Aja, e rivista nel 1907 dalla
seconda conferenza di pace[118].
E’ in questa occasione che si manifestano chiaramente le prevenzioni per cui la
mediazione, pur annoverata fra i mezzi tendenti a facilitare la soluzione
pacifica dei conflitti fra Stati, avrebbe sofferto di fatto dei timori di cui
si è detto[119].
Gli sforzi tesi ad affermare il ricorso obbligatorio a buoni uffici e
mediazione – non fosse altro per certi conflitti – si dimostrarono vani, e le
due conferenze si accontentarono di prevedere tali procedure conciliative, e di
facilitarne l’impiego.
Il torto della mediazione parve quello di essere troppo legata alla
politica dello Stato mediatore. Il progresso fu cercato per due vie: da un
lato, organizzare la mediazione in modo da farne uno strumento in grado di
entrare immediatamente in funzione; dall’altro, sostituire all’intervento dei
governi il concorso di uomini spogliati d’ogni potere politico, ma il cui
titolo ad occuparsi della controversia derivasse dal loro prestigio personale,
dalle loro conoscenze giuridiche, dalla loro personale esperienza di
internazionalisti. Nella convenzione dell’Aja del 1899 sei articoli (9-14)
provvedevano a regolare l’ipotesi che, in caso di controversia, venisse
nominata una commissione d’inchiesta. Nel 1907, alla luce della prassi, la
creazione fu riveduta e ampliata (artt. 18-36). Si trattava della previsione di
una commissione internazionale il cui unico compito consisteva originariamente
nell’accertamento dei fatti. Essa non doveva formulare giudizi relativamente ai
fatti accertati, e nemmeno interessarsi delle possibili conseguenze derivanti
da un tale accertamento, o applicarvi principi giuridici, perché non era intesa
come una corte (art. 35)[120].
Ma tali limiti erano destinati a essere presto superati, anche perché l’oggetto
dell’investigazione poteva avere la natura più varia: poteva, cioè, trattarsi
di questioni di fatto come di questioni di diritto. Già prima che scoppiasse la
prima guerra mondiale, tale procedura si affaccia in campi e con compiti che si
vanno via via ampliando dall’inchiesta tesa a stabilire i fatti, al rapporto
contenente degli apprezzamenti circa i fatti dall’inchiesta indagati, fino
all’indicazione delle responsabilità e al suggerimento di proposte di soluzione[121].
Una procedura, questa, che trova nell’incidente del Dogger Bank una delle sue applicazioni di maggior successo[122].
La commissione ebbe così talvolta l’autorizzazione a offrire spontaneamente i
propri servigi[123],
ovvero a fissare la condotta degli Stati interessati durante il periodo di
studio, fissando delle norme provvisionali[124].
Ne sarebbe germogliata la procedura denominata come conciliazione. Il Patto
della Società delle Nazioni, agli artt. 12-15, non solo rendeva obbligatorio
l’esperimento dell’arbitrato per le controversie eventualmente sorgenti fra le
potenze firmatarie, ma stabiliva anche che, ove l’arbitrato non fosse stato
accettato, allora diveniva obbligatoria la mediazione, intesa come mediazione
del Consiglio, e riguardata come il mezzo elettivo per la soluzione delle
controversie politiche. Va notato che, mentre la prima Convenzione dell’Aja
stabiliva che si dovesse ricorrere alla mediazione «en tant que le circonstance le permettront», i termini dell’art. 12
del Patto della Società delle Nazioni erano assai più vincolanti: «les membres de la societè conviennent»
ovvero «ils se soumettront»[125].
Inoltre, gli Stati membri erano impegnati a sottoporre al Consiglio ogni
controversia suscettibile di degenerare in conflitto, che non fosse stata
sottoposta ad arbitrato o procedimento giudiziario e ad accogliere le
raccomandazioni che avessero trovato concordi tutti gli Stati membri (a
prescinder da quelli coinvolti nella controversia). Dopo la prima guerra
mondiale, nella generale ascesa del regolamento giudiziario, le convenzioni che
lo prevedono (Protocollo di Ginevra, accordi di Locarno del 1925[126],
Atto generale di arbitrato) si orientano verso quello che fu chiamato il
neo-arbitrato, vale a dire verso un arbitrato in cui l’arbitro possedesse anche
poteri di amiable compositeur, riconoscendo l’efficacia di una soluzione
mediatrice congiunta con l’autorità di una decisione giudiziaria. Quello della
soluzione pacifica delle controversie divenne un tema di moda. Per citarne solo
alcuni – ma se ne troverà menzione nel corredo di note di questo stesso saggio
– a quegli anni risalgono sia pregevoli studi di natura giuridica, come la
monografia dello Schücking – che è del 1923[127]
– sia diversi Corsi tenuti all’Académie
de L’Aja come quelli di De la Barra[128]
o Efremoff[129];
sia anche ricerche squisitamente storiche come quelle che portarono alla pubblicazione
– nel 1946 – degli Acta pontificia juris
gentium, a cura di
Balladore Pallieri e Vismara – pubblicazione che documenta la frequenza tanto
della mediazione quanto dell’arbitrato nella attività diplomatica dei
Pontefici.
Successivamente, è parso che così la mediazione tradizionale, come
i buoni uffici, dovessero venire assorbiti nel quadro del sistema di sicurezza
collettiva previsto dalla Carta dell'ONU. E’ ben vero che questa, dichiarando
che scopo dell’Organizzazione è quello di mantenere la pace e la sicurezza
internazionale[130],
obbliga gli Stati firmatari ad esperire anzitutto mezzi di soluzione pacifica
per i loro conflitti, e addita la mediazione fra essi, soprattutto per le
controversie non giuridiche; ma l’ONU stessa, come organizzazione, è abilitata
a svolgere il ruolo di mediatore, tramite i suoi organi principali, Consiglio
di Sicurezza e Assemblea generale[131].
Per questi, promuovere la soluzione di quelle controversie «la cui
continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della
pace e della sicurezza internazionale»[132]
rappresenta un compito istituzionale[133].
Si è parlato addirittura di un “dovere” dell’ONU di svolgere opera mediatrice.
Anzi, l’art. 2, par. 4 della Carta non si rivolgerebbe, a questo fine, solo
agli Stati membri, ma anche ai non-membri. A tale “dovere” corrisponderebbe un
correlativo diritto al mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale:
Non si può dire che questa previsione normativa sia stata
accompagnata da una reale efficacia[134]
e, come apparve subito evidente dal ruolo dell’India nei negoziati fra gli
Stati Uniti e le autorità comuniste nella Corea del Nord, nel 1952-53, o – meno
lontana nel tempo – la cosiddetta shuttle
diplomacy di Henry Kissinger fra Israele ed Egitto, le procedure
tradizionali della mediazione hanno continuato di tempo in tempo a offrire un
ricorso alternativo, insieme a commissioni d’inchiesta, e commissioni di
conciliazione, soprattutto per quegli Stati che, di nuova indipendenza, son
parsi rifuggire dalle forme giudiziarie e preferire piuttosto il supporto di
strumenti meno rigidi[135].
D’altro canto, se la flessibilità e la mancanza di formalità costituiscono
indubbi atout dell’istituto, è sempre
più chiaro che il suo utilizzo ha speranza di successo solo se le parti sono –
al di là dei punti morti che ne impediscono l’accordo – effettivamente
intenzionate a raggiungerlo, e il mediatore ha alle spalle un considerevole
potere politico o morale, come è stato il caso della mediazione del Papa nel
conflitto fra Cile e Argentina circa il Canale Beagle (1979)[136],
o, più di recente, della mediazione dell’Unione Europea nel conflitto fra
Slovacchia e Croazia, da una parte, e Serbia e Unione Iugoslava dall’altra
(1991).
La fioritura che i mezzi di soluzione pacifica delle controversie
internazionali mostrano durante il XIX secolo, fino alla I guerra mondiale, ha
avuto quindi un seguito diseguale. Mentre l’arbitrato internazionale è sfociato
nell’organizzazione di una – sia pur volontaria – giurisdizione internazionale[137],
mediazione e buoni uffici sono parsi sbiadire di fronte all’attività delle
organizzazioni internazionali. Gli studiosi di diritto internazionale,
preoccupati di stringere la disciplina alla più pura scienza giuridica, hanno
generalmente provato poca simpatia per un istituto difficilmente inseribile
nelle categorie che si venivano costruendo per inquadrare i dati della vita
internazionale[138].
Di conseguenza, nei trattati di diritto internazionale ci si è generalmente
limitati ad enunciarne gli aspetti e gli effetti politici, ogni indagine
ulteriore parendo impedita dalla natura stessa dell’istituto, quando posta in
relazione con gli altri dati dell’ordinamento internazionale[139].
Tuttavia, nella crisi che caratterizza i nostri tempi (crisi che
coinvolge sia il piano internazionale sia quello interno, a fronte della
crescente complessità e disomogeneità della società)[140],
e nel conseguente rapido trasformarsi della struttura stessa della sovranità,
gli strumenti che possono mostrarsi effettivamente funzionali a fronte del
coesistere dialettico di modelli sociali irriducibili, ancora alla ricerca di
un nuovo equilibrio[141],
sono diversi da quelli validi per una comunità il cui indice di trasformazione
sia meno alto. Non è un caso che intorno alla mediazione, intesa come strumento
di soluzione pacifica delle controversie intersoggettive, e all’interno di
diverse discipline, sembra si sia coagulato un rinnovato interesse scientifico,
di cui sono il segnale emergente gli studi apparsi negli ultimi anni[142].
La mediazione, nelle sue diverse possibili applicazioni, appare insomma
suscettibile di fornire risposte utili nei momenti in cui più tumultuosa è la
trasformazione della società e quindi dell’esperienza giuridica che essa
esprime.
[1] Cfr., sul punto, V.
ARANGIO-RUIZ, voce Controversie
internazionali, in Enciclopedia del
diritto, X, 1962, 384; G. MORELLI, Nozioni
di diritto internazionale7, Padova 1967, 376; da ultimo cfr. B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli 1987, 396
e 407.
[2] Una netta chiarificazione di
tale differenza fu offerta da G. MORELLI, La
sentenza internazionale, Padova 1931, 14 ss.
[3] Cfr. E. BOREL, L’acte général de
Genève, in Recueil des Cours de
l’Académie de droit international, 1929, II, 504 ss.; F. SCHUMAN, International Politics, NewYork 1958,
149; U. VILLANI, La conciliazione nelle
controversie internazionali, Napoli 1979, 15 ss.
[4] E’ stato notato (L. DELBEZ, Les principes généraux du
droit international public, droit de la paix, droit préventif de la guerre,
droit de guerre, Paris 1964, 485, 16) come proprio buoni uffici e
mediazione lascino affiorare con particolare evidenza quanto la pretesa
eguaglianza degli Stati – sancita dall’art. 2 della carta dell’ONU – sia
contraddetta dall’ineguaglianza dei mezzi e delle risorse.
[5] J. MULLER, Oeuvre de toutes les confessions
chrétiennes (églises) pour la paix internationale, in Recueil des Cours de l’Académie de droit
international, 1930, vol.31, 334. Dopo che, nel
1863, Pio IX si pronuncia per una diminuzione degli armamenti, e nel 1870 tenta
una mediazione fra Guglielmo I e Napoleone III, Bismark propone al papa Leone
XIII di mettere fine al conflitto fra Germania e Spagna in qualità di arbitro e
Von Bülow propone egualmente un arbitrato del Papa nell’affare di Cuba fra
Spagna e Stati Uniti.
[7] Vedi il Protocollo 19 della Conferenza di Londra del 19
febbraio 1831 relativo alla neutralità del Belgio, in J. DE CLERCQ, Recueil
des Traités de
[8] Come, ad esempio, il sistema della Santa Alleanza
(su cui vedi H. NICHOLSON, The Congress of Vienna, London 1966,
244 ss.) o
[9] Il trattato – che pose termine alla guerra di Crimea,
affrontando la questione orientale – vincolava Francia, Austria, Gran Bretagna,
Prussia, Russia, Sardegna e Turchia. Vedilo in DE CLERCQ, Recueil, VII
(1856-1859), 63.
[10] L’Atto generale di Berlino prevedeva il ricorso ad una –
mai costituita – commissione internazionale del Congo per le difficoltà
relative alla navigazione e al commercio. L’art. 12 (Annexe n.4, chapitre III) obbligava le potenze firmatarie – o che avessero
successivamente aderito all’accordo – a ricorrere alla mediazione d’una o più
potenze amiche, prima di aprire le ostilità in caso di conflitto relativo ai
loro possedimenti nel bacino del Congo: «Dans le cas où un dissentiment
sérieux, ayant pris naissance au sujet ou dans le limites des territoires
mentionnés à l’art.1 ... viendrait à s’élever entre des puissances signataires
du présent Acte, ces Puissances s’engagent, avant d’en appeler aux armes, à
recourir à la médiation d’une ou de plusieurs Puissances amies». Vedilo in
G.F. DE MARTENS - J. HOPF, Nouveau Recueil général des Traités,
continuations du grand Recueil de G.F. De Martens, Gottingue 1885,
(II) X, 407. Cfr. sul punto F. DESPAGNET Cours de droit international public, Paris 1910, 761; N. POLITIS, L’avenir
de la médiation, in Revue générale de droit international public,
1910, 146.
[11] In estensione di tale articolo, Lord Clarendon –
rappresentante inglese al Congresso di Parigi del 1856 – su proposta della
Peace Society di Londra, avrebbe fatto successivamente accettare un protocollo
– sottoscritto il 16 aprile 1856 – che impegnava gli Stati firmatari – prima di
ricorrere alle armi – a far ricorso ai buoni uffici di una potenza amica. A
questa clausola avrebbero aderito di quaranta Stati. Vedi F. SCHÜCKING, Das völkerrechtliche Institut der Vermittlung
(publication de l’Institut Nobel
norvegien), Kristiania-La Haye 1923, 25. Di fatto,
il protocollo fu invocato per arrestare alla Conferenza di Londra del 1867 il
conflitto fra Francia e Prussia relativo al Lussemburgo, e alla Conferenza di Parigi
del 9 gennaio 1869, il conflitto fra Grecia e Turchia (vedi F. von
HOLTZENDORFF, Élements de droit international public,
Paris 1891, 158-159). Ma i buoni uffici proposti da Napoleone III, in
conformità del medesimo protocollo, per la guerra di secessione americana non
andarono a buon fine (1862), e
[14] In particolare T. TWISS, The Law
of Nations, Oxford 1861,
187. Sul punto DESPAGNET (Cours,
cit., 762) avvertiva essere, questa, manifestazione
del diritto e del dovere morale di solidarietà fra gli Stati: manifestazione
suscettibile di dar luogo ad una guerra legittima, ma non di configurarsi come
mediazione.
[15] C. CALVO, Le droit
international théorique et pratique, précédé d’un exposé historique des progrès
de la science du droit des gens, Paris 1896, III, 41.
[16] Nell’incidente della Trent (1861), che rischiava di rompere
i buoni rapporti esistenti fra Stati Uniti e Gran Bretagna, l’allora ministro
degli esteri del governo francese, De Thouvenel, incaricò il rappresentante
della Francia a Washington di comunicare al governo americano una nota nella
quale lo metteva a parte delle sue osservazioni e dei suoi consigli. Vedi G.
CARNAZZA AMARI, Traité de droit international public, Paris 1882,
556.
[17] Nel giugno 1905, il presidente Roosvelt offrì i suoi buoni
uffici fra Russia e Giappone, allora in guerra. L’offerta fu accettata da ambo
le parti. Gli Stati Uniti organizzarono una conferenza di pace a Portsmouth
(N.H.) e formularono proposte che furono strumentali per la successiva pace di
Portsmouth del 5 settembre 1905. Vedi L. OPPENHEIM, International Law, London 1952, II, 11; SCHUMAN, op.
cit., 149.
[18] Questo fu in particolare il caso delle clausole di
mediazione inserite nei trattati che si riferiscono al periodo di espansione
delle potenze occidentali in estremo Oriente, come il Trattato degli Stati
Uniti con
[19] Così nella mediazione delle grandi potenze, tesa a condurre
Grecia e Turchia alla pace alle condizioni volute: l’accordo di Berlino del 13 luglio
1878, seguito da una identica nota dell’11 giugno 1880, voleva che nel caso le
due potenze non si accordassero sulla rettificazione della frontiera precisata
nel XIII protocollo del congresso di Berlino: «… l’Allemagne, l’Autriche-Hongrie,
[20] Vedi P. FISCHER- H.F. KÖCK, Allgemeines Völkerrecht5,
Wien 2000, 32-33; per gli antecedenti storici vedi G. CARNAZZA AMARI, Nuova
esposizione del principio del non intervento: discorso inaugurale per
l’apertura degli studi della Regia Università di Catania,
Catania 1873.
[21] Che, nel caso ritenga
quell’assetto minacciato, può esercitare con un intervento quella forma di
garanzia primaria tipica del diritto internazionale (R. QUADRI, Diritto internazionale pubblico, Napoli
1968, 278) che è stata riconnessa a sua volta con la teoria del bellum justum (in tal senso H. KELSEN, Teoria
generale del diritto e dello Stato, tr. it., Milano 1959, 338).
[22] «... Une guerre cause aux neutre eux même du dommage» J. MULLER,
Oeuvre des toutes les confessions chrétiennes, cit., 324; «If war,
then, has the effect of imposing duties upon the neutrals ... it must likewise
be the neutral’s interest to bring about a cessation of hostilities irksome to
neutral activity». J.B. SCOTT, The Hague peace conferences of 1899 and
1907, New York 1921, vol. I, 258.
[23] Vedi F. von LISZT (G.C. GIDEL
- J.BROWN SCOTT), Le droit international:
exposé systématique, Paris 1927, 69-70.
[25] E. VATTEL (Le droit
des gens ou principes de la loi naturelle appliqués à la conduite et aux
affaires des nations et des souverains, Paris 1856, II, 304), parla di «médiation dans la quelle un ami commun
interpose ses bons offices».
[26] G. DE RAYNEVAL, Institutions du droit de la nature et des
gens, Paris 1803, III,
XXIII, 1, 286: «souvent un médiateur
offre lui-même ses bons offices».
[28] P.
FIORE, Le droit international codifié et sa sanction juridique, Paris 1911, t. II, 387.
[30] P. PRADIER FODÉRÉ, Traité de droit international public européen et américain suivant les
progrès de la science et de la pratique contemporaines, Paris 1906,
IV, 213.
[31] R. PHILLIMORE, Commentaries upon International Law3,
London 1879-1888, III, 643. Col trattato di pace di Tilsit del 7 luglio
1807 fra Russia e Francia, Napoleone accettava (art. 13) «... la médiation de
S.M. l’Empereur de toutes les Russies, à l’effet de négocier et conclure un
traité de paix définitive entre
[34] Ciò che continua ad accadere di frequente per tutto il XIX
secolo: ad esempio fra Inghilterra e Portogallo per l’Africa orientale (1890) o
fra Equador e Perù per i rispettivi confini (1893). Da taluno se ne
deduceva «... la souveraineté du Pape, car seul un souverain peut être
médiateur entre des souverains». Vedi J. MULLER, op. cit., 335.
[35] Così G.M. UBERTAZZI, Contributo
alla teoria della conciliazione delle controversie internazionali davanti al
CdS, Milano 1958, 4. Tale osservazione, e la deduzione che mediazione e
buoni uffici siano equipollenti, non è condivisa dal R. QUADRI, op. cit., 241.
[38] H. GROTIUS, De jure belli ac pacis libri tres,
III, XX, § XLVI (ed. a cura di B.J.A. De Kanter – van Hettinga Tromp, con note
di Feenstra e C.E. Persenaire), Aalen 1993 = Lugduni Batavorum 1939, 843.
[39] Un sistema di commissioni miste fu istituito con il
trattato di Jay, del 19 novembre 1794, per dirimere i molti problemi che
restavano aperti nelle relazioni fra Gran Bretagna e Stati Uniti. In tali
commissioni, alla rappresentanza degli Stati in controversia, veniva aggiunto
un “superarbitro”. Cinque furono i membri del tribunale arbitrale di Ginevra
che il 14 settembre 1872 rese la celebre sentenza fra Inghilterra e Stati Uniti
nell’Affare Alabama. Vedi A. de
[40] Vedi R.Y. HEDGES, The
juridical bases of arbitration, in British Year Book of International Law (B.Y.B.I.L.), 1926, 111: «The
distinction thus drawn has been challenged by the view that a conciliatory
adjustment of conflicting interests is the true ratio decidendi of arbitral
awards, compromise being the dominant and prevailing characteristic and the
doubt is expressed that it is improbable that a politico-diplomatic process of
this kind can form an effective instrument for developing international law,
however useful it may be in determination of international controversies in
particular cases».
[41] S. MANNONI, Potenza e
ragione. La scienza del diritto internazionale nella crisi dell’equilibrio
europeo, Milano 1999, 93.
[42] Come, ad esempio nel caso della controversia fra Gran Bretagna
e Portogallo relativa alla Delagoa Bay (1875). Secondo il compromesso,
l’arbitro aveva competenza – qualora non potesse decidere nè per l’una nè per
l’altra parte – di rendere «such a decision as, in his view, would afford an
equitable solution of the difficulty». Il caso fu deciso a favore
del Portogallo, sicchè l’ipotesi non si realizzò. In tema vedi C.L.
CAEN-L. RENAULT, Tribunal arbitral du Delagoa siégeant à Berne. Affaire du
chemin de fer Lourenço-Marquès (Baie de Delagoa). Consultation délibérée à la requête des
demandeurs, Paris 1895.
[43] Come ad esempio nella controversia fra Nicaragua e
Costarica del 1898. Per il trattato di pace di quell’anno, alcune pretese
sorgenti da vari incidenti durante le attività rivoluzionarie del Nicaragua
erano sottoposte alla decisione di un tribunale arbitrale che si prevedeva
dovesse agire «nello spirito non solo dell’arbitro, ma anche del pacificatore,
favorendo quello spirito di carità che dovrebbe regnare ove vessatori incidenti
sono sorti fra fratelli». Vedi British
And Foreign State Papers, XC, 561.
[44] Cfr. C. DE VISSCHER, Justice et
médiation, in Rev. de droit int. et
de lég. comp., 1933, 414-420.
[45] M. HABICHT, Le pouvoir du juge international de statuer
«ex aequo et bono», in Recueil des cours, 1934, III, (49),
360.
[46] L. Siorat,
Le problème des lacunes en droit international: contribution à l’étude des
sources du droit et de la fonction judiciaire, Paris 1958, 99
ss.; DELBEZ, Les principes, 485.
[51]
Poche le eccezioni, fra le quali, a parte lo studio del Bader citato qui
appresso vedi K.H. ZIEGLER, Arbiter, arbitrator amicabilis compositor,
in Zeitschrift der Savigny Stiftung, Rom. Abt., LXXXIV, 1967; L. Martone, Arbiter - Arbitrator, forme di giustizia privata nell’età del diritto
comune, Napoli 1984, rivolto all’esame della dottrina.
[52] L’osservazione è di
K. BADER, Arbiter, arbitrator seu
amicabilis compositor, in Zeitschrift der Savigny Stiftung fuer
Rechtsgeschichte, Kanonistische Abt.,
XLVI, 1960, 239 ss.
[53] W. DAviEs - P. FouRAcHE (Ed.), The Settlements
of Disputes in Early Medieval Europe,
Cambridge 1986; G. ALTHOFF, Compositio. Wiederherstellung verletzter Ehre in Rahmen
gütlicher Konflikf- beendigung, in Verletzte Ehre. Ehrkonflikte in Gesellachaften des Mittelalters und
der frühen Neuzeit, hrg. K. SCHREINER - G. SCHWERHOFF, Köln
- Weimar - Wien 1995, 63-76, 68 s.; P. GEARY, Extra-Judicial Means of Conflict-Resolution, in La giustizia
nell’alto medioevo (secoli V-VIII), vol. 1, Spoleto 1995 (Settimane di
studio del centro italiano di studi sull’alto medioevo XLII), 569-601; B.M. NovAcovitch, Les compromis et les
arbitrages internationaux de XIIe siècle, 1905.
[54] Nota W. PREISER, History of the Law
of Nations, in Enciclopedia of Public
international Law, 7, 1984, 126, che una riflessione storica sul divenire
del diritto internazionale non comincia prima della fine del XVIII secolo, con
l’opera di R. WARD, An Enquiry into the
Foundations and History of the Law of Nation in Europe, composto nello
spirito enciclopedico del tempo. Sarebbero seguite molte opere
onnicomprensive, che però, come questa, sarebbero rimaste largamente acritiche,
tratte da fonti secondarie e scarsamente distinguibili dalla storia delle
relazioni internazionali, restando largamente inutilizzato il contemporaneo
sforzo di raccolta di trattati e documenti interessanti quelle stesse
relazioni, di cui l’opera di J. Dumont (Corps Universel Diplomatique du droit des
gens, Amsterdam 1726) rappresenta un esempio mirabile. Non è dunque sorprendente
che a questo primo inizio sarebbe seguita una stasi, e che lo studio della
storia del diritto internazionale non sarebbe avanzata di nuovo finchè dalle
discipline più prossime non sarebbe venuto lo stimolo per una nuova partenza.
Per un riesame della storiografia del diritto internazionale, vedi W. PREISER, Anzeige und Besprechung einiger neu
erschiener völkerrechtlicher Wercke in deutscher Sprache, in Neue politische Literatur, Berichte über das
internationale schrifttum 6/1960, 499 ss.; M. PANEBIANCO, Ugo Grozio e la tradizione storica del
diritto internazionale, Napoli 1974, 119 ss. Elementi di una storia della
storiografia di diritto internazionale anche in A. NUSSBAUM, A Concise History of the Law of Nations, New York 1954, 2ª, 291-295. Ampi
riferimenti anche in V. ILARI, L’interpretazione
storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e
giusnaturalismo, Milano 1981, nonché in M.T. GUERRA MEDICI, Diritto internazionale nel diritto
medioevale e moderno, in Digesto, IV ed., V vol.
[55] Vedi in particolare E. BUSSI, Evoluzione storica dei
tipi di Stato, Cagliari 1970, rist. Milano 2002 (con prefazione di
P.G. GRASSO, L’insegnamento di Emilio Bussi sull’«Evoluzione storica dei
tipi di Stato e gli studi di diritto pubblico contemporaneo»); M. CARAVALE,
Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994; P.
GROSSI, L’ordine giuridico medievale,
Bari 1995; C. GHISALBERTI, Recensione
a Paolo Grossi, L’ordine giuridico medievale, in Clio, 1997, n. 1, 181 ss.; E. CORTESE, Il
diritto nella storia medievale, Roma 1995; ID., Un personaggio in cerca d’autore, in Diritto @ Storia, n. 3 - Maggio 2004 = < http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Cortese-Compilazione-giustinianea-medioevo.htm
>; A. LECA, La république européenne, 1: l’unité perdue (476-1806),
Aix en Provence 2000.
[56] L. BUSSI, Fra unione personale
e Stato sopranazionale, contributo alla storia della formazione dell’Impero
d’Austria, Milano 2003, 19.
[57] A mettere in dubbio l’idea
dominante relativa alla natura dei soggetti del diritto internazionale fu
Pasquale Stanislao Mancini, il quale – verso la metà del XIX secolo – asserì
che non gli Stati andavano considerati tali, ma le nazioni intese come
comunanze storiche, etniche e culturali. Al momento tale dottrina suscitò molte
perplessità e anche successivamente venne criticata dal punto di vista
politico. Vedi T. PERASSI, Lezioni di diritto internazionale, Roma
1939, 76. Successivamente, lo studioso che a questo ordine di problemi
si è ripetutamente dedicato è stato specialmente V. Arangio-Ruiz: vedine, in particolare Gli enti soggetti dell’ordinamento internazionale, Milano 1951; Sulla dinamica della base sociale nel
diritto internazionale, in Annali della facoltà giuridica di Camerino,
1954, 1-76; Diritto internazionale e
personalità giuridica, Torino 1971, estr. dal Novissimo Digesto Italiano, vol. XVIII, voce Stati e altri enti, 23, 46 ss.; cfr. G. KOJANEC, voce Stato
(dir. Internaz.), in Enciclopedia
del diritto, XLIII, 1990, 788. Sulla rilevanza di tale dottrina nell’ottica della storia del
diritto internazionale vedi L. BUSSI, The
Growth of International Law and the Mediation of the Republic of Venice in the
Peace of Westphalia, in Parliaments,
Estates and Representation, 1999.
[58] La vediamo –
congiunta con l’arbitrato – in uso già nelle relazioni fra le poleis dell’antica Grecia, ove veniva
presentata come un mezzo usato per la soluzione delle controversie fra Dei o
fra Eroi Talvolta la potenza mediatrice garantiva il rispetto del trattato con
una forza di pace. Vedi V. BÉRARD, De
arbitris inter liberas Graecorum Civitates, Lutetiae Parisiorum 1894; C.
PHILLIPSON, The international Law and
Custom of Ancient Geece and Rome, London 1911; A. RAEDER, L’arbitrage international chez les Hellènes,
Christiania 1912; M.N. TOD, International
Arbitration among the Greeks, Oxford 1913; M. DE TAUBE, Les Origines de l’arbitrage international.
Antiquité et Moyen Age, in Recueil des Cours, 1932, IV, 18; L.
PICCIRILLI, Gli arbitrati interstatali
greci, I, Dalle origini al
[59] L’ipotesi fu a suo tempo
avanzata da M. DE TAUBE, Les Origines de
l’arbitrage international. Antiquité et Moyen Age in Recueil des Cours de l’Académie
de droit international, 1932, IV, (42), 18, sulla scorta del M.N. TOD, International Arbitration among the Greeks,
Oxford 1913, 171.
[60] Come il conflitto fra Serse e
Ariamene, figli di Dario, appianato, secondo la narrazione di ERODOTO, VII,
10-11, dallo zio Artaferne. Sul punto
cfr. C. PHILLIPSON, The international Law
and Custom of Ancient Geece and Rome, London 1911, vol. II, 168.
[61] Così, per esempio, nel caso
riferito dalla Genesi, spesso citato in proposito. Giacobbe, in controversia
con Labano, propone: Pone hoc coram
fratribus meis et fratribus tuis et judicent inter nos (Genesi, XXXI, 37). Non è certo che
Labano e Giacobbe seguissero la stessa religione, mentre sembrano intendersi su
alcune norme minimali di convivenza; sul punto cfr. C. PHILLIPSON, op. cit., 128. Sul rapporto fra etica e istituzioni altotestamentarie vedi W. PREISER, Vergeltung und Sühne im altisraelitischen
Strafrecht, in Festschrift für Eberhard
Schmidt zum 70. Geburstag, Göttingen
1961.
[62] Si rinvia ad una monografia in stato di avanzata preparazione
l’indagine di questi aspetti della tematica in oggetto. Interessanti esempi in
M.R. CIMMA, Reges socii et amici populi
romani, Milano 1976, 336. Vedi pure E. TAÜBLER, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des Römischen
Reichs. I: Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Lipsia 1913; A.
HEUSS, Die völkerrechtliche
Grundlagen der römischen Aussenpolitik in Republikanischer Zeit,
(Leipzig 1933), 2nd ed., Aalen 1968.
[63] A partire da S. Paolo (Ebrei,
9,15; I Timoteo II, 5) al
concetto di mediazione soprannaturale si richiama sempre più spesso il pensiero
cristiano. Così ad esempio l’Ambrosiaster,
Commentaria in Epistolam ad Timotheum
Primam, in MIGNE, P.L., vol. 17, col. 466: Unus enim Deus, et unus mediator Dei et hominum homo Christus Jesus.
Dei et Christi unam significat esse voluntatem in salvandis hominibus, unde
Deum Patrem, quia ab ipso est omnis auctoritas, unum esse fatetur, et unum
mediatorem Dei et hominum Christum Jesum. Missus enim
[64] Questa funzione di supremo
garante della pace viene sempre rivendicata dal Pontefice come intrinseca allo
stesso mandato di Vicario di Cristo, grazie al quale pacificantur caelestia cum terrestribus et terrestria cum caelestibus. Cfr. c. 13, X, 2, 1: «Numquid non poterimus de juramenti religione
cognoscere quod ad judicium ecclesiae non est dubium pertinere ut rupta pacis
foedera reformentur?». L’idea viene avanzata al Concilio di
Parigi del 825, vedi M.G.H., Concilia,
II, 2, 549, e richiamata successivamente a più riprese. Vedi la dichiarazione
di Callisto II al Concilio di Reims nel
[67] Per il Bellini, il recupero del mundus hic rispetto alle primitive posizioni rigoristiche (un
recupero risalente al mondo neolatino e alle posizioni di Gelasio e Giona
d’Orleans), presentando l’intera Cristianità come una organica compagine
sociale, tenuta insieme dall’unità della fede non poteva che guardare con
occhio di sfavore a tutti i fenomeni capaci di creare degli stati di tensione.
Vedi P. BELLINI, Respublica sub Deo. Il
primato del Sacro nella esperienza giuridica dell’Europa preumanistica,
Firenze 1985, 123.
[68] Teodorico utilizza ripetutamente
lo strumento della mediazione, come nella lettera al re visigoto al quale
chiede di astenersi da azioni belliche sintanto che non venga inviata da
Teodorico stesso una ambasceria al re franco ed espletato così un tentativo di
stabilire la pace. Assai interessante, da questo punto di vista, è quanto
possiamo desumere da Idazio. Il quale ci dice come: «Per augustum Avitum Fronto comes legatus mittitur ad suevos. Similiter
et a rege Gothorum Theoderico, quia fidus Romano esset imperio, legati ad eosdem
mittuntur ut tam secum quam cum Romano imperio, quia uno essent paris foedere
copulati, iurati foederis promissa servarent» (IDATII LEMICENSIS, Continuatio
ad Cronica sancti Hieronimi, Romae 1615, 170). Nella epistola Uniformis inviata ai re degli Eruli, dei
Turingi e dei Guarni la proposta di una mediazione per la soluzione dei
conflitti in atto prefigura, addirittura, l’ipotesi di un intervento collettivo
contro il renitente: «Et ideo vos ...
legatos vestros una cum meis et fratris
nostri Gundibadi regis ad Francorum regem Luduin destinate, ut aut se de
Wisigotorum conflicto considerata aequitate suspendat et leges gentium quaerat
aut omnium patiatur incursum qui tantorum arbitrium iudicat esse timendum» (Ep. Uniformis, in M.G.H., Cassiodori
Variae, III, 3, 79).
Nell’arbitrato del settimo secolo fra Clotario II re di Neustria e suo figlio
Dagoberto sono i domestici, gli amici, i proceres, ad esercitare la funzione conciliativa. Nel 625,
Dagoberto, che aveva già ricevuto dal padre il governo del regno di Austrasia,
chiede anche le città e le provincie che ne erano state staccate, avendo
Clotario trattenuto la foresta delle Ardenne, le montagne dei Vosgi,
l’Auvergne, il Poitou e
[69] P. BELLINI, Il gladio
bellico. Il tema della guerra nella riflessione canonistica dell’età classica,
Torino 1989, 53.
[70] P. BELLINI, Il gladio, cit., 57, 78, 95. Il Bellini
utilizza schemi logici derivati dalla teoria generale dello Stato di stampo
marcatamente Kelseniano, e parla di due pubblici apparati, disposti in forme
gerarchiche piramidali, di un regime binario edificato su due distinte norme-base,
le quali tuttavia avrebbero soggiaciuto ad un rapporto di comune dipendenza da
una fonte soprastante, da un vertice comune, dato dalla presupposizione di un
Essere Supremo all'apice formale del sistema. Donde la costruzione della respublica Christiana come realmente
governata dalla legge di Dio verus,
summus imperator, fons universalis auctoritatis, secondo un sistema nel
quale i momenti giuridici sarebbero stati nettamente secondari, o strumentali,
rispetto ai momenti etici, pur dando luogo questa connessione funzionale tra
etica e diritto non solo ad una eticizzazione del diritto, ma anche ad una
giuridicizzazione dell’etica. L’operatività delle componenti intersoggettive
dell’ordinamento trascendente non restringeva il proprio valore vincolante nei
confronti dei semplici subiecti legum,
ma valeva nei confronti degli stessi detentori del potere politico.
L’ordinamento giuridico divino, quindi, non solo si atteggiava ad ordinamento
giuridico a sè stante, ma pretendeva una superiorità assoluta nei confronti di
qualunque autorità terrena in una autoqualificazione dogmatica non contraddetta
dagli ordinamenti giuridici terreni. Vedi P. BELLINI, Respublica sub Deo, cit., 18, 84.
[72] M. DE TAUBE, op.
cit., 80; l’a. pubblica in appendice la dichiarazione con la quale il re
Magnus (3 luglio 1285) accetta l’incarico (ivi, 109).
[73] Liv-, est- und
kurländisches Urkundenbuch, ed. F.G. von Bunge,
Aalen (Scientia-Verlag) 1967, I, n° 499.
[74] «Simulat se a Salomone, viro
sororis suae, rege Ungariorum, in
Ungariam evocatum, ut lites, quae inter ipsum erant et Ioiadam qui eum regno
expulerat, abito utrisque familiari colloquio componeret». Lamperti Monachi Hersfeldensis, Annales Weissenburgenses, (ed. O.
Holder-Egger) Hannoverae et Lipsiae
[75] Si sa di una mediazione operata da Enrico III fra Vratislao
di Boemia e Casimiro I di Polonia. Vedi R. MORGHEN, v. Enrico III imperatore
detto il Nero, in Enciclopedia italiana, XIV (1932), 16.
[76] Wipo Sacellanus Tetralogus, ed. H. Bresslau, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum ex Monumentis Germaniae Historicis separatim editi [41], Hannover 1915, 70.
[77] Wipo Sacellanus Tetralogus,
cit., 81; in tema cfr. H.
DICKERHOF, Wandlungen im Rechtsdenken der
Salierzeit am Beispiel der lex naturalis
und des jus gentium, in Die Salier
und das Reich. Gesellschaftlicher und ideengeschichtlicher Wandel im Reich der
Salier, hrg. S. Weinfurter-H. Seibert., III, 447 ss.
[78] RICHERI, Historiarum libri quatuor, II,
29, ed. G.H. Pertz, in M.G.H., SS, III, 593; cfr. Flodoardi Annales,
in M.G.H., SS.,
III, 390: Flodoardo chiama mediatores
il duca Ottone di Lorena, e Adalberone vescovo di Metz, che insieme a Ugo
V, duca dei Franchi si interpongono per riconciliare Luigi IV e i Robertini.
[79] RICHERI, Historiarum libri quatuor,
cit., II, 97, 609: «Ubi cum in
rege conaretur, intervenientibus episcopis Widone Autisidorense, et Ansegiso
Trecasino, iureiurando utrimque accepto sub pace sequestra usque in pascha
ratio eorum dilata est. Quae omnia Iulio
mense gesta sunt.Quo etiam tempore, sinodus Romae habita est in Basilica sancti
petri apostoli, presidente domno Agapito papa. in qua etiam ipse domnum papa,
concilium anteriore anno apud Angleheim habitum, coram episcopis italiae
roboravit, et ab eis roborari constitutit. Hugonem quoque, galliarum ducem, in
supradicta sinodo dampnatum, ipse etiam condempnat, donec regi suo satisfaciat,
aut Romam veniat inde ratiocinaturus. Moxque anathema descriptum est et a
sinodo roboratum, episcopis Galliarum destinatur. Episcopi itaque galliarum
anathemate moti, apud ducem colliguntur, etinde gravissime conqueruntur. Ex
decretis patrum, sacrisque canonibus duci demonstrantes, neminem stare
pertinaciter adversus dominum suum debere, nec temere in eum quicquam moliri.
Illud etiam promptissime monstrant, secundum apostolum regem honorificandum, et
non solum regem verum omnem potestatem maiorem subiectis dominari debere
asserunt. Preter haec quoque perniciosissimum esse, apostolicum anathema
pertinaciter vilipendere, cum id sit gladius quipenetrat corpus usque ad animam,
et sic mortificatos a regno beatorum spirituum repellat. Sibi etiam periculo
esse memorant, id quos animabus periculum ingerit, neglegentes non innotescant.
Talibus dux persuasus, regi humiliter reconciliari deposcit, eique
satisfacturum sese pollicetur. Huius concordiae et pacis ordinatores fuere
Chonradus dux, et Hugo cognomento Niger, Adalbero quoque atque Fulberto
episcopi. Et die constituta rex et dux conveniunt. Ac secus fluvium Matronam
conlocuti, principibus praedictis internuntiis, in summam concordiam
benignissime redierunt. Et quanto vehementius ante in sese grassati fuere,
tanto amplius exinde amicitia se coluere. Hugo itaque dux per manus et
sacramentum regis efficitur, ac turrim Laudunicam suis evacuatam, regi reddit,
multam abinde fidem se servaturum pollicens».
[80] Vedi F. CHALANDON, Jean II Comnène
et Manuel Comnène, Paris 1912, 459; T. MAYER, K. HEILIG, C. ERDMANN, Kaisertum und Herzogsgewalt im Zeitalter
Friedrichs I. Studien zur Politischen- und Verfassungsgeschichte des hohen
Mittelalters, in M.G.H., Schriften, 9, Stuttgart 1944, 99.
[83] Thietmari Chronicon, VII,
[84] M.G.H., Const., III, n.72, 59; HUBER, Oesterreichische Reichsgeschichte, cit.,
20 e ss. In proposito, i Libri feudorum
ritennero – e la dottrina ribadì – che alcuni feudi (marchiae, ducatus vel comitatus: vel ulterius regalis dignitatis)
non fossero ereditabili nisi iterum ab
imperatore investiatur ... licet hoc hodie sit usurpatum; vedi LL. FF., II, LI, glossa succedit; cfr. HOSTIENSIS, Summa, III, De feudis, n. 8.
[85] FERRETO VICENTINO, Historia,
cit., 1057: «Nam apud illum manens
Hainricum Tirolis Comes et Carinthiae
dux cum nobilibus Bohemiae, eo quod ab illis e Regno suo se violenter expulsum
querebatur, controversiam studiosus agebat, poscebatque ab Augusto, quatenus se
debitam restauraret ad sedem. Ex adverso autem reponebatur, Hainricum Regis
titulum posuisse cum Regno; nam licet idem Othocari Primogenitam legitime
duxerit, defunctum quippe marito Regni decus abstulisse, idque deberi germanae
superstiti jure professi sunt. Haec causa Peritorum facundia saepe et multum
coram Augusto ventilata - nequaquam enim de regno paupere certabatur - dubiis
legum pendebat iudiciis. Nam rite primogenitam fuisse reginam, et ab ea
coniugem regem, vix dubium emergebat. Unde caesar rem tantam sobrie
discutiendam protrahere ratus est, donec eadem limpide juris modo relapsa apud
viros graves patebit, aut Procerum interventu bonorum lege pactionis
terminabitur».
[87] Il quale propone di maritare
la più giovane sorella di Venceslao con il figlio dell’Imperatore, Giovanni.
Vedi BÖHMER, Acta Imperii, cit., n.
622, 434.
[88] FERRETO VICENTINO, Historia, cit., 1057: «At non ideo confestim Caesar fato prolapsus
annuit; sed sobrie peragenda quaeque discutiens, Tirolis comitem accersiti
jussit, utque ille rem arduam modeste ferat, hortatur velitque super ea bonorum
arbitrio virorum amice decidi».
[89] FERRETO VICENTINO, Historia, cit., 1057. Nel 1321, infatti,
Giovanni di Boemia dà al re romano Luigi di Baviera pieni poteri per trattare
il matrimonio di sua sorella Maria con il duca Enrico di Carinzia e di suo
figlio Venceslao con la figlia di Enrico, aggiungendo l’impegno a versare una
sostanziosa somma di denaro. Presto, però, essendosi profilata per Maria la
possibilità assai più ambiziosa di andare sposa al re di Francia, mutano i
termini della trattativa. Nel 1324 vengono nominati il cavaliere Arnaldo di
Pittingen e Bernardo von Chinburg quali ambasciatori e plenipotenziari per
concludere un accordo matrimoniale fra il duca Enrico di Carinzia con Beatrice
del Lussenburgo, e fra uno dei figli maschi di Giovanni e una figlia femmina di
Enrico, quale lui voglia. Cenni della vicenda in L. BUSSI, La successione
femminile nei feudi imperiali. Il caso di Margherita Maultasch,
in Orientamenti civilistici e
canonistici sulla condizione della donna, Napoli 1996, 83.
[90] Vedi M. GOLDAST, Commentarii de regni Bohemiae,
incorporatumque provinciarum Juribus ac privilegiis, Francoforte 1719, 667-670.
[91] Quale reale efficacia giuridica vada riconosciuta alle Landfrieden
è problema che ha interessato la storiografia recente che ne ha rilevato
l’evidente connessione con il fenomeno della faida: il Kaufmann ritiene che
esse volessero frenare la tendenza a ritenere responsabili - delle azioni
criminose di un individuo - le famiglie o i loro signori. Vedi E. Kaufmann, Landfrieden I
(Landfriedensgesetzgebung), in HRG, 2, 1451 ss. Cfr. W. SELLERT, Friedensprogramme und Friedenswahrung im
Mittelalter, in Wege
europäischer Rechtsgeschichte, ed. G. Köbler, Frankfurt
1987, 464.
[92] Sul processo attraverso il quale il re verrebbe costretto a
giurare si rector iustus futurus esset,
e a considerare di tutti l’offesa fatta a uno solo, talchè si passerebbe
dal diritto di resistenza individuale al diritto di resistenza del ceto vedi T. Reuter, op. cit., 316.
[93] Si pensi
alla costituzione di Federico I relativa alla pace dell’Impero, recepita nei
Libri Feudorum e di qui nel Volumen: «Haec edictali lege in perpetuo
valitura iubemus, ut omnes nostro subiecti imperio veram et perpetuam pacem
inter se observent: et ut inviolatam inter omnes in perpetuo observent duces
marchiones, comites, capitanei valvasores et omnium locorum rectores cum
onmibus locorum primatibus et plebeis». LL.FF, II, 53, ed Lugduni 1558,
102.
[94] Il giuramento – pubblicato dal De Manteyer - contiene fra
l’altro l’impegno a non punire mercanti e villani propter werram suis
seniores nisi eorum culpa propria fuit, a non procedere a incendi e
distruzioni di mansi e coltivazioni, né dare asilo a latrones publicos:
«Et illum hominem qui istam pacem fregerit ad meum conductum venerit vel
fuerit: per quantas vices istam pacem infregerit per tantas vices ei emendare
faciam». Vedi G. De
Manteyer, Les origines de
[95] L’osservazione è di H.
Vollrath, op. cit., 610, cui si rinvia anche per la letteratura sul testo del
giuramento, conservato in Bibl. Vat., Reg. lat., 566, fol. 38.
[96] Alpertus Mettensis, De
diversitate temporum, II, 7 s, ed. D.G. Waitz, in M.G.H., SS., IV, 712. Alle
azioni ostili di Balderico, Wicmann non risponde subito con le armi «Nam publice armis rem incidere metus
imperatoris prohibebat; unde ab animi virtute consilium et rationem querendam
esse statuit». Egli
decide pertanto di avvalersi dell’interposizione del Vescovo: «Episcopus videns adcrescere dissensiones et
in dies lites augeri, metuens ne demeritate eorum plebs laberetur et sperans
controversias sua auctoritate minui posse, diem colloquio constituit eosque ad
hanc venire fecit». In tale
circostanza il Vescovo si serve della minaccia di intervento dell’Imperatore
come di un argomento suscettibile di indurre all’accordo i dissenzienti.
[99] «Facta tunc inter
eosdem mutua pace, post pascha ponuntur induciae. Huc nostri eorumdemque amici
conveniunt et ego cum illis affui». Thietmari, Chronicon, loc. cit.
[100] Le
trattative furono condotte, in nome del duca d’Austria, dal vescovo Paolo di
Gurk e dal conte Federico di Cilli. Incaricati del Papa furono l’arcivescovo
Ortolf di Salisburgo, vescovo Paolo di Gurk e l’abate Giovanni di St.
Lambrecht. Cfr. G. HÖDEL, Habsburg und Österreich 1273-1493. Gestalten und Gestalt des
österreichischen Spätmittelalters, Wien-Köln-Graz 1990, 92.
[101] Wipo Sacellanus, Gesta Chuonradi II imperatoris, ed. H. Bresslau, in M.G.H., Scriptores, cit., 10.
[102] Lamperti Monachi Hersfeldensis, Annales,
cit., ad a. 1071, 119-120:
«Plurimum eo tempore rex consiliis
utebatur Eberhardi comitis, sapientis admodum viri. Is ... abiit ad ducem
Ottonem eumque per Deum obtestari cepit, ne se suosque in tantum discrimen
precipitaret; necdum ei omnem spem veniae, omnem respirandi facultatem ereptam
esse. Si de monte, quem occupaverat, exercitum abduceret seque regi iustis
conditionibus dederet, sub iuramento se ei promittere, quod et veniam culpae,
cuius insimulatus fuerat, et omnium quae iure belli amiserat restitutionem ei a
rege impetraret. Annuente eo rem ad regem detulit, et eum haud difficulter in
sententiam abduxit».
[104] H.
Kamp, Vermittler in den Konflikten des hohen Mittelalters, in La giustizia nell’Alto Medioevo (secoli
IX-XI), Spoleto (Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo) 1997, 237.
[106] WidukindUS CORBEIENSIS, Res
gestae saxonicae, ed. C.
Waitz, III, 13-
[108] L. A. Muratori, Antiquitates
talicae Medii Aevi, Mediolani 1738-1742, IV, col. 275 ss. Quando l’Imperatore fu
costretto a ritirarsi dall’assedio di Alessandria, si sperò in una soluzione
pacifica della controversia e fu fatta la proposta di rimetterla a sei arbitri.
Negoziarono, per l’Imperatore, l’arcivescovo di Magonza, l’elettore di Colonia,
Corrado, fratello dell’imperatore ed Enrico il Guercio marchese di Savona;
mentre rappresentavano i Lombardi Ezzelino il Balbo e Anselmo di Doara.
[109] F. Sclopis, Storia della legislazione del
Piemonte, Torino, 1863-1864, 270. Le parti si impegnano ad osservare: «Quod
vel quae predictus dominus comes eis et super praedictis quaestionibus fecerit,
dixerit, statuerit et pronunziaverit per se vel per alium in scriptis vel sine
scriptis, semel vel pluries, iure vel concordia». Il compromesso,
conservato nell’Archivio del Comune di Rorata, è pubblicato anche da Rivalta,
op. cit., 414.
[114] Molti esempi di arbitrato offrono anche i
rapporti fra l’Ordine Teutonico e
[115] E.
Bussi, Il diritto pubblico, II, 188. Pütter, Literatur, III, 445 ss., Id. Elemente,
§ 449, 501; Schmauss, Academische Reden, 413.
[117] Su tale
concetto la scienza internazionalistica è tornata ripetutamente. Vedi A.
MIGLIAZZA, Il fenomeno della
organizzazione e
[119] DESPAGNET,
Cours, 765. Fu significativo
che nella Convenzione dell’Aja
per il regolamento pacifico delle controversie del 18 ottobre 1907 si stabilisse (art. 3) che gli Stati
estranei ad una controversia avevano il diritto di offrire i propri buoni
uffici o la loro mediazione che tale diritto sussisteva anche nel corso delle
ostilità e che l’esercizio di questo diritto non doveva essere riguardato come
un atto ostile. La convenzione stabiliva anche che prima di far ricorso alle
armi si dovesse attivare una mediazione (art. 2); che il ruolo del mediatore
dovesse esser volto «... à concilier les
prétensions opposèes et à appaiser les ressentements qui peuvent s'être produit
entre les Etats en conflit»(art.
4); che buoni uffici e mediazione hanno esclusivamente il carattere di un
consiglio, senza valore vincolante; che l’accettazione di una mediazione non
comportava di per sè l’interruzione delle operazioni militari, quando la guerra
fosse esplosa prima della accettazione della mediazione stessa, a meno di un apposito
accordo in tal senso (art. 7); che la mediazione era raccomandata «en tant que le circonstance le permettront» (art. 8). Vedi G. H.
HACKWORTH, Digest of Internazional Law,
Washington 1940-1944, VI, 3. Alcune
delle precisazioni, ritenute necessarie al momento, si legavano al non definito
ruolo dei neutrali, il cui problema era emerso con ogni evidenza nel caso “Alabama”. Su tale
problema, diffusamente, MANNONI, op. cit., 204.
[120] DELBEZ, L’evolution des idée en matière de règlement
pacifique des conflits, in RGDIP, LV (1951), 6.
[121] K.VON SCHUSCHNIGG, International Law: an introduction
to the Law of Peace, Milwakee 1959, 286.
[122] Il caso viene
citato come un’occasione nella quale una probabile guerra fu evitata grazie alla
mediazione della Francia, che convinse Gran Bretagna e Russia circa la nomina,
in conformità agli articoli 9-14 della Convenzione dell’Aja del 1899, di una
Commissione internazionale d’inchiesta, con il compito «… of elucidating by means of an impartial and conscientious
investigation the question of fact connected with the incident which occurred
during the night of 21st-22nd(8th-9th) October
[123] Art. 6 della Convenzione di conciliazione
fra Cile e Svezia del 26 marzo 1920. Vedi League
of Nations Treaty Series, n. 111.
[124] Vedi art. III del Trattato per lo
stabilimento di una commissione di conciliazione fra Gran Bretagna e Cile del
28 marzo
[126] Vedi C. DE VISCHER, La
paix de Locarno au point de vue du droit international, Bruxelles
1925.
[129] EFREMOFF, La conciliation internationale, in Recueil, 1927
(III) e 1937 (I). Efremoff fu anche autore di diversi studi in tema di
mediazione fra cui: La mediation et la
conciliation internationales, in Conciliation
internazionale, 1925, n. 4, e L’organisation de la mediation,
in Revue de droit international et de
legislation comparée, 1925.
[130] L’art. 1
della Carta delle Nazioni Unite
stabilisce che «I fini delle Nazioni
Unite sono mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Come è comprensibile,
sull’argomento si sviluppò subito una nutrita letteratura. Per tutti: A. SALOMON, Le Conseil de Sécurité et le règlement pacifique des différends: (le
chapitre VI de la charte des Nations Unies), Paris 1948; MEITANI,
Le règlement pacifique des conflits
internationaux selon la charte, in Revue
française de droit des gens, 1947; C. Chaumont, La sécurité des états et la sécurité du monde, Paris 1948; R.M. Price, The United Nations and global security, New York 2004; F.O. Hampson, Can the UN still mediate?, in The United Nations and global security,
2004; J. Bercovitch, The United Nations and the mediation of
international disputes, in Past
imperfect, future Uncertain, 1998.
[134] Sul punto vedi OPPENHEIM, International Law, cit., 11; sulla
tendenza ad attribuire alle organizzazioni internazionali non solo il compito
di promuovere la stipulazione di convenzioni collettive, ma anche quella della
sorveglianza della loro esecuzione vedi R. AGO, Considerazioni su alcuni sviluppi dell’organizzazione internazionale,
in
[135] Alla conciliazione venne in effetti data
la preferenza nella carta dell’OUA. Vedi J.P. DE YTURRIAGA, L’OUA et les
Nations Unies, in RGDIP, 2 (1965), 376-377.
[138] Si veda, in
tal senso, W.E. HALL, A Treatise on
International Law, Oxford 1924, 419, per il quale la mediazione sarebbe un
istituto «ovviamente al di fuori del diritto». Cfr. anche P. HEILBORN, Das System
des Völkerrecht entwickelt aus den völkerrechtlichen Begriffen, Berlin
1896, 404.
[139] Uno sguardo di insieme viene fornito da J.MEYNAUD - B.SCHROEDER, La médiation, tendances de la recherche et
bibliographie (1945 - 1959), Amsterdam, 1961; SUCHARITKUL, Good Offices as a Peaceful Means of Settling
Regional Differences in International Arbitration, in Liber Amicorum for Martin Domke, The Hague 1967.
[140] Così FERRAIOLI, La crisi della sovranità e il ruolo della filosofia politica, in Nuove frontiere del diritto, 153.
[142] Per citarne solo alcuni: G. PISAPIA – G.
ANTONUCCI, La sfida della mediazione,
Padova 1997; J.F. SIX, Le temps des
médiateurs, Paris 1990; J. MORINEAU, Lo
spirito della mediazione, Milano 2000; R.A. BARUCH BUSH - J.P. FOLGER, The promise of mediation, San Francisco
1994; G. COSI – M.A. FODDAI, Lo spazio
della mediazione, in Diritto @ Storia, n. 2 - marzo 2003 = < http://www.dirittoestoria.it/lavori2/Contributi/Foddai-Mediazione.htm
>.