Bobbio interprete di Locke e del
giusnaturalismo moderno*
Università di Sassari
Sommario: 1. Gli studi su Locke e il
giusnaturalismo. – 2. Uno
o più giusnaturalismi? – 3. La critica del diritto naturale (e la difesa della sua
funzione storica). – 4. Il
modello del giusnaturalismo contrattualistico. – 5. Gli scritti giovanili lockiani sul
potere politico e il diritto naturale. – 6. Il modello giusnaturalistico lockiano.
In uno dei rari momenti
d’abbandono antecedenti al 1997, anno della pubblicazione dell’Autobiografia[1],
in cui supera il naturale riserbo di svelare qualcosa di se stesso in pubblico,
Bobbio dichiara le proprie affinità elettive e fornisce, in occasione
dell’uscita della prima bibliografia dei suoi scritti nel 1984, l’elenco dei
dieci autori che hanno lasciato un segno indelebile nella sua vita di studioso[2]. Di
questi, cinque sono contemporanei: Benedetto Croce, dal quale riconosce di aver
appreso il valore della distinzione fra l’impegno dell’uomo di cultura e
quello, immediato, dell’uomo politico; Carlo Cattaneo, che lo ha immunizzato,
una volta per tutte, dalle sterili astrazioni della filosofia speculativa,
slegata dall’esperienza; Vilfredo Pareto, cui deve, in particolare,
l’acquisizione della consapevolezza dei limiti della ragione; Hans Kelsen, la
cui teoria pura del diritto gli ha fornito le chiavi per accedere, senza filtri
ideologici, alla comprensione del fenomeno giuridico; e, infine, Max Weber, le
cui concettualizzazioni hanno costituito la base di partenza per la
riformulazione e il ripensamento delle principali categorie della politica.
Gli altri cinque appartengono alla galleria dei classici, anzi sono
«i maggiori filosofi politici dell’età moderna», le cui opere Bobbio dichiara
di aver «letto riletto e commentato infinite volte»[3].
Fra questi, dopo Hobbes – l’autore preferito e comunque di gran lunga il più
studiato – e accanto a Rousseau, Kant ed Hegel, Bobbio indica John Locke, che
considera uno degli esponenti più rappresentativi del giusnaturalismo,
all’interno del quale occupa una posizione talmente centrale da costituire un
punto di riferimento ineludibile. Bobbio sostiene, infatti, che la filosofia
politica lockiana è così radicata nella tradizione giusnaturalistica, di cui
costituisce un’espressione «esemplare»[4],
una delle «forme più tipiche e radicali»[5],
che non si spiegherebbe senza questa; così come non si spiegherebbe la
«gloriosa fortuna del giusnaturalismo sino alle Dichiarazioni dei diritti degli
Stati Uniti e della rivoluzione francese» se si prescindesse dall’influenza
determinante esercitata dall’autore dei Due
Trattati[6].
Alla filosofia politica di Locke, Bobbio dedica espressamente due
lavori, elaborati nello stesso periodo, ma pubblicati in anni diversi. Il primo
è Locke e il diritto naturale, un
volume edito sotto forma di dispense, che raccoglie le lezioni svolte durante
il corso di Filosofia del diritto, tenuto nell’Università di Torino nell’anno
accademico 1962-63. Il volume si articola in tre parti: nella prima, prendendo
spunto dalla rinascita del diritto naturale e riprendendo considerazioni e
conclusioni cui era già pervenuto in studi precedenti, Bobbio ricostruisce gli
elementi fondamentali della dottrina giusnaturalistica, ne individua le tre
principali versioni teoriche o forme storiche (l’aristotelica, la tomistica,
l’hobbesiana), che si distinguono a seconda del diverso modo di impostare il
rapporto con il diritto positivo, ne segnala, quindi, la debolezza intrinseca,
criticandone la validità, e, infine, ne sottolinea la rilevante (e
insostituibile) funzione storica; nella seconda parte, dopo aver indicato le
fonti bibliografiche dirette e quelle indirette, fra cui, in particolare, i
lavori di Laslett, Viano, Polin, Cox e Macpherson, che costituiranno l’oggetto
specifico del suo secondo scritto su Locke, Bobbio espone, per sommi capi, i
tratti essenziali della biografia lockiana - dall’avviamento agli studi nel
celebre collegio del Christ Church di Oxford al lungo e proficuo sodalizio con
Shaftesbury fino all’esilio volontario in Olanda e al rimpatrio al seguito
degli Orange - per poi passare a ricostruire il processo della formazione
intellettuale del pensatore inglese attraverso l’esame dei primi scritti
giovanili, noti come i due trattati (o
opuscoli) sul magistrato civile, composti, il primo più del secondo, sotto
la diretta e palpabile influenza di Hobbes, e, soprattutto, attraverso
l’analisi delle tre questioni capitali che Locke tratta negli otto saggi sulla lex naturae, scritti fra il 1660 e il
1664, vale a dire la questione dall’esistenza, della conoscibilità e
dell’obbligatorietà del diritto naturale; nella terza parte, Bobbio affronta il
tema della definizione analitica del modello del giusnaturalismo lockiano, che
ricostruisce punto per punto, seguendo una sequenza logica degli argomenti che
parte dalla concezione dello stato di natura, passa attraverso l’innovativa
soluzione data al problema dell’acquisizione della proprietà e l’originale
confutazione del fondamento del potere paterno e dispotico, per arrivare,
infine, alla delineazione dell’organizzazione complessiva della società
politica, incardinata sul principio dei limiti del potere sovrano, la cui
violazione legittima l’esercizio del diritto di resistenza attiva.
Il secondo scritto sul
pensiero politico di Locke, intitolato Studi
lockiani e pubblicato a distanza di pochi mesi sia nella “Rivista di
filosofia” (marzo 1965) sia nel volume Da
Hobbes a Marx (giugno
1965), è una sorta di appendice del primo, tanto che lo stesso Bobbio lo
considera alla stregua di un lavoro preparatorio[7].
Esso contiene una rassegna critica delle principali questioni intorno all’interpretazione
del pensiero di Locke sollevate dalle opere, tutte uscite fra il 1960 e il
1962, di Laslett, Polin, Cox, Macpherson e Viano, cui si è accennato in
precedenza, riguardanti, rispettivamente, l’individuazione del vero bersaglio
polemico del Secondo trattato (Filmer o Hobbes?), il rapporto (di
continuità o di rottura) tra gli scritti giovanili e quelli della maturità, il
presunto (latente e persistente) hobbismo di Locke, il suo ruolo di teorico del
capitalismo nascente, il significato del suo giusnaturalismo[8].
Bobbio torna a
occuparsi di Locke nel 1972-73, ancora in occasione di un corso universitario,
nel quale espone i temi della società naturale come società dei rapporti
familiari ed economici, delle origini e i fondamenti della società civile o
politica, dei limiti del potere sovrano, utilizzando, e in parte rimaneggiando,
materiali in precedenza elaborati per chiarire e precisare, ma in definitiva
per ribadire, i punti fermi della propria lettura del giusnaturalismo lockiano,
remoto precursore dello Stato liberale[9].
L’interesse di Bobbio per Locke matura, dunque, nei primi anni
Sessanta del secolo scorso, quasi al termine di una lunga stagione di studi
dedicati al giusnaturalismo, iniziata nel lontano 1943, nel periodo
dell’insegnamento nell’Ateneo patavino, con l’introduzione e la cura dei Principi
di diritto naturale di Samuel Pufendorf[10].
Dal 1943 al 1963 (l’anno del corso monografico su Locke), Bobbio pubblica una
lunga serie di lavori sul diritto naturale, che analizza in tutti i suoi
risvolti, positivi e negativi[11].
Nel corso di questo ventennio di intensa produzione, l’attenzione per il tema
rimane viva e costante, anche perché gli studi sul diritto naturale si
sviluppano in parallelo, se pure, talora, intercalati, con gli studi sul
giuspositivismo o, meglio, con la ricerca volta ad individuare, sulle orme di
Kelsen, una serie di categorie atte a sostenere l’impalcatura di una vera e
propria teoria generale del diritto. L’attenzione comincia a scemare negli anni
che seguono. Nel 1966 Bobbio licenzia il saggio Hegel e il giusnaturalismo[12]
ed è, forse, un segno premonitore della chiusura di un ciclo: nel sistema
filosofico hegeliano individua, infatti, il momento culminante ma, allo stesso
tempo, anche il punto di rottura, il momento del dissolvimento definitivo del
giusnaturalismo. Negli anni successivi, se si eccettua uno scritto su Pareto
e il diritto naturale[13]
(composto nel 1973, ma pubblicato nel 1975), Bobbio dedica al tema soltanto due
scritti, rivolti precipuamente a cogliere e tenere coerentemente insieme gli
elementi che caratterizzano, in modo tipico, la dottrina del diritto naturale
riguardo all’origine e al fondamento dello Stato. Questi ultimi lavori,
elaborati e rielaborati fra il 1973 e il 1979, con i quali si esaurisce la
stagione cominciata nel lontano 1943, hanno, appunto, per oggetto il «modello
giusnaturalistico», vale a dire la definizione della struttura concettuale che
sorregge l’impianto teorico costruito nel corso del XVII e XVIII secolo, pur
con numerose varianti interne, per giustificare l’obbligo politico e, dunque,
per porre su una base nuova - e per il tempo inedita e rivoluzionaria, ma,
paradossalmente, convenzionale e non naturale – il principio di legittimità del
potere[14].
Bobbio, dunque, si accosta allo studio del pensiero politico
lockiano dopo aver analizzato, a lungo e nel profondo, il tema del diritto
naturale. L’interesse specifico per Locke risulta così essere parte del più
generale interesse coltivato per le problematiche del giusnaturalismo, che
rappresenta, a sua volta, un aspetto dell’ancor più ampio interesse per il tema
del diritto in senso oggettivo. Da questa premessa deriva che per cogliere il
significato del giudizio di Bobbio sulla filosofia politica lockiana –
considerata una delle manifestazioni più rappresentative e conseguenti della
scuola del diritto naturale – è proprio dalla complessiva interpretazione
bobbiana del giusnaturalismo che occorre partire.
“Giusnaturalismo” è un
termine moderno adoperato per indicare anche una cosa (molto) antica: la
credenza nell’esistenza di un diritto “trovato” e “scoperto” piuttosto che
“posto” o “costruito” dall’uomo: il diritto naturale, per l’appunto, ritenuto,
per definizione, superiore al diritto positivo. L’accettazione dei due
postulati (circa l’esistenza, comunque si manifesti, e riguardo alla
superiorità, comunque si realizzi), è il tratto distintivo che accomuna,
secondo Bobbio, i giusnaturalisti di tutti i tempi, qualunque sia la scuola
filosofica o la corrente specifica di appartenenza. Benché la maggior parte
degli studiosi, distingua fra un giusnaturalismo classico, uno medievale e uno
moderno, Bobbio è propenso, piuttosto, a ritenere che la storia del
giusnaturalismo sia più continua e lineare, più unitaria di quel che
comunemente si creda[15].
Infatti, gli argomenti a favore della tesi della discontinuità storica o della
radicale differenza fra diverse forme di giusnaturalismo reggono, a parere di
Bobbio, a condizione di ridurre, con un’operazione che è manifestamente
arbitraria, il giusnaturalismo moderno al solo paradigma hobbesiano[16].
Non che Bobbio non colga le differenze, spesso anche rilevanti, delle diverse
posizioni in merito a specifici aspetti della problematica del diritto
naturale, ma le considera alla stregua di variazioni su un unico tema. Riguardo
al diverso modo di porre il rapporto tra diritto naturale e diritto positivo
distingue, ad esempio, tre soluzioni tipiche, che, guarda caso, corrispondono
ai tre periodi storici (classico, medievale, moderno) in cui la vulgata
canonica suole suddividere la storia del giusnaturalismo, a seconda che
l’accento cada sul contenuto delle norme, come in Aristotele, o sul loro
autore, come in Tommaso d’Aquino, oppure sulla loro funzione come in Hobbes[17].
Ma questa è solo una delle tante distinzioni che si possono fare sul piano
analitico, non l’unica. Lo stesso Bobbio, variando il punto di vista e
assumendo altri criteri discretivi, ne propone almeno altre due, che solo
parzialmente coincidono con la precedente. In base al diverso significato
attribuito al termine “natura” nelle diverse epoche storiche, può variare il
principio di individuazione o di ricognizione della legge naturale e, quindi,
il discorso sulle fonti. Sotto questo profilo, Bobbio ricorda che il diritto
naturale può essere un’entità identificata con la tradizione o la consuetudine,
come in Aristotele, rivelata da Dio o dai testi sacri, come in Tommaso
d’Aquino, svelata o scoperta tramite l’esercizio della retta ragione, come nell’età moderna[18].
Se si prendono in considerazione, invece, i destinatari e la funzione che il
diritto naturale esercita (o dovrebbe esercitare) sul diritto positivo, il
quadro cambia nuovamente. In proposito, Bobbio individua tre “forme” diverse di
giusnaturalismo, una medievale e due tipicamente moderne: il giusnaturalismo scolastico che,
seguendo l’insegnamento della dottrina tomista, ritiene che le massime del
diritto naturale si rivolgano principalmente ai legislatori e,
conseguentemente, concepisce il diritto positivo come una derivazione (per conclusionem o per determinationem) del diritto naturale;
il giusnaturalismo razionalistico
(moderno), i cui maggiori esponenti, Locke e Kant, postulano che il
diritto naturale si rivolga tanto al legislatore quanto ai singoli individui
(siano essi cittadini o sudditi) e fornisca la materia o il contenuto delle
norme di condotta (o norme primarie), mentre le norme di diritto positivo (o
norme secondarie) si limitano a garantirne l’efficacia (l’effettività); il giusnaturalismo hobbesiano, che
concepisce il diritto naturale, i cui destinatari sono esclusivamente i
sudditi, come un principio di legittimazione del diritto positivo, ossia come
il fondamento giustificativo dell’intero ordinamento giuridico posto dal
sovrano[19].
Il fatto che Bobbio
sposi la tesi della «sostanziale unità in tutte le correnti giusnaturalistiche
del passato e del trapassato (e anche del presente)»[20],
non significa, però, che non tenga in debito conto, in relazione
all’interpretazione del fenomeno, le implicazioni che discendono dal
riferimento, in un certo senso obbligato, alla tradizionale periodizzazione
storica. Ma fra l’età classica, l’età di mezzo e l’età moderna, riguardo al
tema del giusnaturalismo, secondo Bobbio c’è più continuità che discontinuità.
Il che non toglie che è proprio nell’età moderna che l’idea del diritto
naturale raggiunge l’apice dello sviluppo teorico e il punto della massima
diffusione nel circuito culturale.
Questa idea, antica e
ricorrente, rinasce e si rafforza fra l’inizio del XVII e la fine del XVIII
secolo ad opera di “grandi filosofi” come Hobbes, Leibnitz, Locke, Rousseau,
Kant e di “giuristi-filosofi” come Grozio, Pufendorf, Thomasius, Wolff. E,
irradiandosi dalle università (la prima cattedra di diritto naturale e delle
genti viene istituita ad Heidelberg nel 1661 ed affidata a Pufendorf), conosce
una diffusione fino ad allora inedita anche grazie all’insegnamento di un folto
stuolo di professori, «autori di trattati scolastici che dopo dei loro discepoli
nessuno forse ha più letto»[21].
Non tutti i
giusnaturalisti appartengono allo stesso indirizzo di pensiero o corrente
filosofica – Bobbio cita come emblematici i casi di Locke e Leibnitz, da un
lato, e di Hobbes e Kant, dall’altro – né condividono i medesimi presupposti
“metafisici”, i fondamenti ontologici, i valori politici – si pensi, tanto per
fare un celebre esempio, alla contrapposizione fra Pufendorf e Wolff -, ma
tutti fanno parte della medesima “scuola”, il cui principio unificante non è un
particolare contenuto, ma un metodo specifico. Ciò che caratterizza il
giusnaturalismo moderno, e che consente di definirlo come un fenomeno unitario,
è precisamente la ricerca di un metodo che consenta di ridurre la filosofia
pratica (tradizionalmente intesa: cioè la morale, il diritto e la politica) a
scienza dimostrativa[22].
L’obiettivo comune, se pur perseguito percorrendo strade diverse e talora
opposte, è quello di individuare, partendo dalla natura delle cose e
attraverso l’uso della retta ragione, i principi universali della condotta
umana. Regole di comportamento valide per tutti gli uomini, tutti i luoghi,
tutti i tempi: regole universali e metastoriche, appunto, sottratte, per
definizione, alle condizioni contingenti e mutevoli della storia. Si tratta, in
altre parole, dell’ambizioso intento di pervenire alla costruzione di un’etica
razionale e, quindi, date le premesse, oggettiva, fondata sulla natura delle cose e, perciò,
dimostrabile alla stessa stregua di un teorema di geometria. Non a caso, il
principale bersaglio polemico dei giusnaturalisti è il pirronismo, il
relativismo etico, la tesi, di matrice aristotelica, che nella conoscenza dei
valori non si possa raggiungere il grado di certezza che è possibile nella
matematica[23].
Sotto questo profilo, osserva Bobbio, «storicamente, il diritto naturale è un
tentativo di dare una risposta rassicurante alle conseguenze corrosive che i
libertini avevano tratto dalla crisi dell’universalismo religioso»[24].
Se una differenza può
farsi nel giusnaturalismo moderno, questa riguarda i diversi campi di indagine.
Per Pufendorf, Thomasius e , in genere, per i “giuristi-filosofi” il problema
non è quello di interpretare il diritto positivo, le norme già date, poste da
una qualche autorità o dalla consuetudine, bensì quello di “scoprire” le regole
del diritto naturale e di dimostrarne la validità. Non più commentatori di
testi, come i teologi, i filosofi-giuristi coltivano, proprio come gli
scienziati, l’ambizioso disegno di disvelare il misterioso libro della natura,
essendo la ragione, non più il Corpus
juris, la fonte (e lo strumento) di ogni conoscenza[25].
Per i filosofi politici, soprattutto se si prende in considerazione la triade
dei “grandi classici”, composta da Hobbes, Locke e Rousseau, «sull’opera dei
quali – osserva Bobbio - oggi si misura l’importanza storica del
giusnaturalismo»[26],
l’obiettivo perseguito è alquanto diverso: non si tratta di costruire un
ordinamento giuridico traendolo dalla interpretazione della natura attraverso
l’uso della ragione, ma di elaborare un modello
teorico in base al quale affrontare con metodo razionale e risolvere more geometrico il problema della legittimità del potere, ossia il problema
della natura, dell’origine e del fondamento dello Stato[27].
Ma, prima di
soffermarsi sulla definizione del modello
giusnaturalistico, occorre chiarire in che senso Bobbio interpreti il
giusnaturalismo moderno come un movimento di pensiero orientato essenzialmente
a determinare i presupposti di un’etica oggettiva. Per giungere a questo è,
però, necessario riassumere brevemente il contenuto della critica che egli
rivolge alla nozione di diritto naturale.
Il giudizio di Bobbio
è, in proposito, una sentenza senza appello: «il diritto naturale non è diritto
nel senso proprio della parola, e non è naturale nel senso che non deriva dalla
natura»[28].
Nel negare che il diritto naturale possa essere considerato, a pieno titolo o a
tutti gli effetti, diritto, Bobbio assume il punto di vista del positivismo
giuridico e ne accoglie la tesi fondamentale, secondo cui non esiste altro
diritto che il diritto positivo[29].
La tesi dell’esclusività del diritto positivo è un corollario della definizione
del diritto come un’insieme di norme (un ordinamento) dotato di capacità
coercitiva. Ciò che per i giuspositivisti distingue la norma giuridica dalle
altre norme di condotta (della morale, del costume, dell’etichetta ecc.) è la
sua cogenza, il fatto cioè che, in ultima istanza, possa essere fatta valere, in
caso di violazione o di inosservanza, attraverso l’uso della forza. E’ dunque
evidente che per il positivismo giuridico non esiste altro diritto se non
quello posto e garantito, sotto
il profilo dell’efficacia, dallo Stato. Il diritto non deriva dal diritto (il
processo andrebbe a ritroso all’infinito), né tampoco dalla ragione, ma dal
potere, da un atto di volontà imperativa. E’ l’affermazione del principio di effettività[30],
in base al quale il diritto nasce ratione
imperii e non, come nella concezione giusnaturalistica, imperio rationis[31].
Il diritto naturale, invece, non è cogente, obbliga solo in coscienza: ergo, non é diritto in senso proprio –
o, se si preferisce, «è diritto in senso equivoco o addirittura scorretto»[32]
- rappresenta, tutt’al più, un’istanza di politica del diritto, un’aspirazione de iure condendo, una pretesa in attesa
di riconoscimento.
Quanto all’ipotesi
della derivazione del diritto dalla natura, Bobbio è altrettanto netto. Cita,
in proposito, un passo di Fontenelle, a sua volta ricordato da Pufendorf, che
può essere assunto come epigrafe del manifesto programmatico del
giusnaturalismo: «Su tutto ciò che riguarda la condotta degli uomini, la
ragione ha decisioni molto sicure: il guaio è che non la si consulta»[33].
Per Bobbio è vero esattamente il contrario. Ritiene infatti che “natura” sia
«uno dei termini più ambigui in cui sia dato imbattersi nella storia della
filosofia» e rammenta che Erik Wolf, in un libro del
La nozione di diritto
naturale contiene, dunque, un sostantivo, “diritto”, usato in modo improprio, e
un aggettivo, “naturale”, il cui significato appare così onnicapiente da
risultare privo di confini, e, dunque, perfettamente inutile. Questo spiega la
debolezza intrinseca della concezione razionalistica del diritto, se contrapposta a
quella volontaristica, tipica del
giuspositivismo. Per la verità, le due teorie non andrebbero neppure
confrontate, giacché appartengono a piani diversi. Il positivismo giuridico,
che si avvale di un criterio certo per individuare il diritto (la volontà del
legislatore), ambisce a spiegare e descrivere il fenomeno giuridico con metodo
scientifico, a fornire chiavi per l’interpretazione delle leggi in funzione
della loro sistemazione teorica e applicazione pratica[38].
Il giusnaturalismo, invece, muove da un diverso presupposto (la ragione
legislatrice) e dall’esigenza di pervenire ad una «definizione valutativa» del
diritto, tale cioè da consentire di distinguere il diritto dal non-diritto
sulla base non di criteri meramente formali, ma del contenuto delle singole
norme, a seconda che queste siano o non siano conformi ai valori di giustizia
che la natura dell’uomo impone e prescrive di rispettare. In altre parole, e
più sinteticamente, mentre il giuspositivismo opera sul piano dell’essere, il giusnaturalismo si muove
nella dimensione del dover essere;
l’uno elabora una teoria descrittiva, l’altro una teoria normativa; al primo
interessa prevalentemente conoscere il fenomeno giuridico, all’altro,
soprattutto, valutarlo.
Per queste
caratteristiche, al giusnaturalismo, più che la qualifica di teoria giuridica,
spetta quella di dottrina etica. Ma quale dottrina? Osserva Bobbio: «se si
guarda spregiudicatamente alla storia del giusnaturalismo, ci si accorge che le
dottrine giusnaturalistiche non coincidono sempre, come si vuol far credere dai
moderni avvocati difensori, con un’etica della resistenza all’oppressione,
della difesa della persona contro le pretese dello stato, della libertà
individuale contro l’asservimento alla legge, dell’autonomia contro
l’eteronomia. Tra le braccia protettrici del diritto naturale hanno trovato
rifugio di volta in volta, secondo i tempi e le occasioni, le morali più
diverse, tanto una morale dell’autorità quanto una morale della libertà; sono
state proclamate tanto l’eguaglianza di tutti gli uomini quanto la necessità
del regime di schiavitù; tanto l’eccellenza della proprietà individuale quanto
l’eccellenza della comunità dei beni; tanto il diritto di resistenza quanto il
dovere di obbedienza»[39].
Di fronte a una tale varietà di posizioni e di interpretazioni circa ciò che è
conforme alla natura dell’uomo e, dunque, da prescrivere come obbligatorio,
come si spiega, si chiede Bobbio, che tutte appartengano al medesimo filone
dottrinale? L’unica spiegazione possibile, dato che le morali sorte all’ombra
della legge di natura sono molte e diverse, è che sotto l’etichetta
“giusnaturalismo” si comprenda non una morale, ma una teoria della morale, ossia una precisa procedura di fondazione
delle norme della condotta umana, che serva a giustificarle a prescindere dal
loro specifico contenuto[40].
In altre parole, il quid proprium del
giusnaturalismo, il suo carattere peculiare consiste nell’aver indicato la
natura, cioè un concetto vuoto o riempibile di contenuti diversi, come fonte e/o fondamento delle regole universali e oggettive, da dedurre mediante
l’uso della retta ragione, che devono
guidare il comportamento degli uomini sia sul piano dei rapporti privati sia
sul piano del diritto pubblico. Come teoria della morale, il giusnaturalismo è,
dunque, semplicemente un metodo per
conseguire la “conoscenza” dell’origine e della validità dei valori etici da
raccomandare, ossia un modo che consente di impostare e realizzare la
costruzione di sistemi morali che, benché diversi per i contenuti specifici,
ubbidiscono tuttavia al medesimo principio fondativo.
Ebbene, secondo Bobbio,
il giusnaturalismo come teoria della morale è insostenibile perché il principio
fondativo è inficiato alla base (è, in pratica, privo di fondamento). La
pretesa di dedurre una prescrizione da un’asserzione, una norma di condotta da
una constatazione di fatto, configura, infatti, un preciso vizio del
ragionamento, un errore logico, noto, e non é certo un caso, come “fallacia
naturalistica” o violazione della legge di Hume, dal nome del filosofo che per
primo avvertì e denunciò il “salto logico” praticato abitualmente dai
giusnaturalisti nel tentativo di inferire un valore da un fatto. Una
conclusione normativa o valutativa può essere dedotta, unicamente, da premesse
di carattere normativo o valutativo, per la semplice ragione – ed è una regola
elementare della logica - che nessuna conclusione può contenere qualcosa che
non sia già contenuta nelle premesse, per cui se le premesse non contengono una
proposizione di carattere normativo, neppure la conclusione può contenerla.
Affinché possa essere considerato corretto o valido, un ragionamento che
conduca a raccomandare un determinato atteggiamento, partendo da una
considerazione di tipo fattuale, deve necessariamente
includere una valutazione positiva o negativa della situazione o
condizione di fatto da cui ha preso le mosse. Bobbio ricorre, in proposito, a
due esempi familiari. Il primo riguarda Hobbes, il quale, dalla constatazione
che lo stato di natura è uno stato di guerra, ricava la prescrizione che
occorre ricercare la pace. Apparentemente il ragionamento fila, Hobbes sembra
aver dedotto una prescrizione (pax est
quaerenda) dall’accertamento di una situazione fattuale (lo stato di
guerra), in realtà il ragionamento è viziato da un “salto logico”, da una
premessa valutativa nascosta (o sottaciuta). Il precetto che si debba ricercare
la pace non discende logicamente dalla constatazione che esiste una condizione
di guerra, ma dalla valutazione negativa di questo stato di cose, dalla
considerazione che la guerra è un male. Il secondo esempio Bobbio lo trae dalla
dottrina di Spinoza, secondo la quale è conforme alla legge di natura che
ognuno abbia diritti corrispondenti al suo grado di potenza, da cui discende
che è giusto, perché perfettamente naturale, che il pesce grande mangi il pesce
piccolo. Anche qui c’è una premessa (valutativa) sottaciuta: è bene tutto ciò
che è naturale[41].
La fallacia
naturalistica in cui incorre Spinoza e che lo induce a fondere (e confondere)
nel concetto di natura significato valutativo e significato descrittivo, è un
errore ricorrente presso i giusnaturalisti che seguono il mito o coltivano il
culto della natura benefica[42].
Ed è un errore perché l’accordo sull’esistenza di un fatto non implica
necessariamente anche l’accordo sul valore (negativo o positivo) da attribuirgli.
E la prova che si tratti di un errore, Bobbio la trae da esempi interni alla
storia del giusnaturalismo, dalla considerazione che mentre Hobbes e Pufendorf
concordano sul fatto che l’eguaglianza sia un fatto naturale, il primo la
giudica un male, il secondo un bene; analogamente, Hobbes e Mandeville
riconoscono che gli istinti egoistici sono naturali, ma la valutazione che ne
danno è opposta (negativa in Hobbes, positiva in Mandeville)[43].
In questi casi non è in discussione quel che è naturale, ma la valutazione da
dargli, a dimostrazione ulteriore, se ce ne fosse bisogno, che il postulato che
è bene tutto ciò che è naturale, per il solo fatto che è naturale, non sta in
piedi, salvo assumere dogmaticamente che la natura è benefica per definizione.
(In proposito, Bobbio suggerisce di chiedere conferma al pesce piccolo)[44].
Ma, allora, se il
concetto di natura è ambiguo (equivoco), se l’espressione “diritto naturale” è
vacua, la teoria della morale infondata, cosa salva Bobbio del giusnaturalismo?
Salva la filosofia politica, la teoria razionale dello Stato, la parte
culminante di un progetto «alla quale gli stessi giusnaturalisti hanno dato
maggior rilievo e che ha lasciato dietro di sé le maggiori tracce»[45].
E’ la filosofia politica o, meglio, il modello esplicativo da questa elaborato,
lo schema interpretativo per giustificare – ancor più che per spiegare – la
natura e il sorgere dello Stato, che chiarisce il senso della funzione
storica che il giusnaturalismo ha esplicato[46].
Per teoria razionale dello Stato Bobbio intende una teoria politica costruita
prescindendo «da ogni argomento e, quindi, da ogni sussidio di carattere
teologico»[47].
Il modello giusnaturalistico, imperniato sull’ipotesi del contratto sociale
come momento intermedio fra la fuoriuscita dalla stato di natura e la
costituzione della società civile, si contrappone, infatti, alla concezione,
fino allora dominante, dell’origine divina della sovranità. Per la prima volta,
dalla fine dell’età classica, è possibile dar conto dell’origine dello Stato e
giustificare la legittimità del potere sulla base di un processo attivato dal
basso ad opera di singoli e liberi individui. Col giusnaturalismo non nasce la
democrazia moderna, caso mai se ne pongono, soprattutto con Rousseau, i
presupposti teorici, ma tramonta l’autorevolezza della formula paolina «nulla
potestas nisi a Deo» e si rafforza, conseguentemente, la spinta verso la
secolarizzazione della politica e, in genere, della vita associata. Non a caso,
osserva Bobbio, la costruzione di una teoria razionale dello Stato «non può
essere dissociata, anche se è difficile dire se ne sia uno stimolo o un
riflesso (probabilmente è una cosa e l’altra), da quella profonda
trasformazione dei rapporti tra Stato e chiesa per cui lo Stato diventa sempre
più indipendente dalla chiesa e la chiesa (dal momento che crolla
l’universalismo religioso e nascono le chiese nazionali) diventa sempre più
dipendente dallo Stato»[48].
Insomma, la filosofia politica del giusnaturalismo costituisce un punto di
rottura con le concezioni tradizionali del potere e, in specie con quelle
paternalistiche, segnando così l’inizio della modernità. Per questa ragione
Bobbio - con un collegamento che a prima vista può apparire ardito - sostiene
che essa anticipa, se pure in forma embrionale, la concezione weberiana del
potere legal-razionale, in quanto ne contiene i principali elementi basilari,
vale a dire la laicizzazione dello Stato e il primato della legge, da cui
derivano il principio dell’impersonalità dei rapporti fra governanti e
governati e il germe dello Stato di diritto [49].
Nel costruire il modello giusnaturalistico, Bobbio fa costantemente
riferimento a due specifiche posizioni teoriche. L’una la usa in positivo,
l’altra, per così dire, in negativo. Mentre, infatti, trae gli elementi
principali del modello dalla teoria hobbesiana, tiene sullo sfondo la
concezione di Aristotele, che utilizza, in funzione contrastiva, per saggiare
la specificità della filosofia politica giusnaturalistica, la cui originalità e
innovatività sono misurate, per l’appunto, sulla base delle differenze, circa
l’origine e la natura dello Stato, riscontrabili rispetto alla concezione
classica che, grazie anche all’opera di innesto nella tradizione cristiana
compiuta da Tommaso d’Aquino, giunge, indenne, fino all’età moderna.
Bobbio parla esplicitamente di modello, non per servirsi di «una
parola di facile consumo»[50],
ma per sottolineare in modo inequivoco che il processo di formazione dello
Stato descritto dalla filosofia politica giusnaturalistica non corrisponde
affatto alla realtà storica, scandita, sotto il profilo dell’evoluzione
istituzionale, dal passaggio dallo Stato dei ceti alla monarchia assoluta e da
questa allo Stato rappresentativo[51].
Lo Stato come prodotto della ragione, incarnato nel modello, è invece «una pura
idea dell’intelletto»[52],
una mera ipotesi di tipo normativo (deontologico): non la raffigurazione di
quel che è stato ma l’ipotizzazione che di quel che sarebbe dovuto essere (o
dovrebbe essere).
Nella sua scheletrica essenzialità, il modello si incardina su una
grande dicotomia e su alcuni elementi caratterizzanti. La dicotomia riguarda la
contrapposizione fra stato di natura e società civile (o politica o Stato). Si
tratta, secondo Bobbio, di una contrapposizione assoluta, nel senso che non é
data una terza possibilità: l’uomo vive o
nello stato di natura o nella società
civile, non, contemporaneamente, e in
questa e in quello. Le due condizioni
possibili dell’umanità – la prepolitica e la politica – sono, cioè,
antitetiche, nel senso che l’una esclude l’altra: «lo stato naturale è lo stato
non politico e lo stato politico è lo stato non naturale»[53].
Gli elementi caratterizzanti servono a spiegare le ragioni e le
modalità del passaggio dallo stato di natura alla società civile. Il modello
concepisce il passaggio come una sorta di catena logica consequenziale,
articolata in quattro momenti: a) lo stato di natura, composto principalmente
di individui singoli non associati - se non, in taluni autori, in quegli
aggregati elementari costituiti dalle famiglie - presenta difetti ed
inconvenienti di tipo strutturale, b) onde la ragione impone di abbandonarlo
per istituire in sua vece, mediante una o più convenzioni (il contratto
sociale), la società civile, c) che si configura, pertanto, come un ente
artificiale (un prodotto della cultura e non della natura), al quale si
appartiene per scelta volontaria e che, perciò, d) risulta fondato sul consenso
degli associati.
Questo schema interpretativo, che parte dallo stato di natura per
arrivare a costituire lo Stato attraverso lo strumento del contratto, è comune
a tutti i giusnaturalisti, sebbene non tutti concordino sui caratteri specifici
da attribuire ai tre pilastri concettuali sui quali si regge il modello. Lo
stato di natura, infatti, può essere inteso come uno stato storico,
effettivamente realizzatosi, oppure come una mera ipotesi della ragione; come
fondamentalmente pacifico oppure bellicoso; come una condizione d’isolamento
integrale oppure parziale. Analogamente, la forma e il contenuto del contratto
variano a seconda che i singoli autori concepiscano l’atto costitutivo della
società politica come un accordo a beneficio della collettività oppure a favore
di un terzo; come un semplice pactum
societatis oppure anche come un pactum
subiectionis; come una concessione revocabile oppure un trasferimento
irrevocabile di poteri; come rinunzia totale oppure parziale dei diritti
naturali. Così come si riscontrano differenze sulla configurazione del potere
politico, che può essere assoluto o limitato, incondizionato o condizionato,
indivisibile o divisibile[54].
Ma, avverte Bobbio, «nessuna di queste variazioni investe e modifica gli
elementi essenziali del modello»[55],
la cui specificità innovativa è esaltata dalla comparazione con la concezione
aristotelica, che può configurarsi come un vero e proprio modello alternativo,
sorprendente per «la durata, la continuità, la stabilità, la vitalità, di cui
ha dato prova attraverso i secoli»[56],
al punto da costituire punto di riferimento ineludibile delle due più complesse
opere politiche dell’età moderna, i Sei
libri sulla Repubblica di Jean Bodin e la Politica metodicae digesta di Johannes Althusius, che precedono la
stesura del De Cive di Hobbes, con il quale Bobbio
fa coincidere l’inizio della stagione giusnaturalistica.
Il modello aristotelico è, appunto, perfettamente speculare,
riguardo ai temi dell’origine, della natura, della struttura, del fondamento e
della legittimità del potere politico[57].
Imperniato non su una ricostruzione di tipo razionale, ma sulla ricostruzione storica, «se pure di una
storia immaginaria»[58],
del processo di formazione dello Stato, il modello aristotelico parte, non già
dall’ipotesi di un astratto stato di natura, che precede logicamente e non
cronologicamente l’istituzione della società civile, ma dalla famiglia, la
primigenia società naturale, e giunge a concepire lo Stato come il prodotto di
una lenta evoluzione che conduce, dapprima, le famiglie a riunirsi in aggregati
più ampi, i villaggi, e poi i villaggi a dar vita alle città e queste, infine,
a quella forma superiore di convivenza organizzata che è lo Stato[59].
Il passaggio dal primo all’ultimo stadio avviene, dunque, non attraverso la
stipula di una convenzione (il contratto), uno specifico atto di volontà e di
ragione di individui liberi ed uguali fino ad allora isolati (“atomizzati”,
secondo la versione hegeliana), ma, attraverso una trasformazione, più
quantitativa che qualitativa[60],
dovuta a “cause naturali”, alla spinta inerziale della forza delle cose, che
coinvolge aggregati umani fin dall’origine differenziati gerarchicamente al
loro interno. Lo Stato non è, quindi, meno naturale della famiglia[61],
anzi, non è altro che la famiglia in grande[62],
secondo i più puri dettami della concezione paternalistica del potere[63].
In questo quadro, il principio di legittimazione della società politica non è
il consenso, ma lo stato di necessità, la forza della tradizione, la stessa
natura sociale dell’uomo[64].
Le differenze teoriche – molte e notevoli - fra i due modelli
spiegano il significato di autentica rottura
che il giusnaturalismo introduce rispetto alla concezione classica o
tradizionale. Di tutte le differenze, quella più rilevante, secondo Bobbio,
riguarda il dato originario, il punto di partenza dei due diversi schemi
interpretativi[65].
Nel modello aristotelico, in principio c’è la famiglia, che è, allo stesso
tempo, società domestica e società padronale, il luogo naturale dei rapporti di
disuguaglianza, quali, appunto, i rapporti fra padre e figli e fra padrone e
servi; nel modello giusnaturalistico al principio ci sono individui liberi ed
uguali, anche se (relativamente) isolati e disorganizzati, senza dei quali
l’ipotesi contrattualistica, che è alla base della istituzione dello Stato, non
sarebbe neppure concepibile[66].
E’ questa basilare diversità iniziale che, da un lato, determina l’impostazione
differente dei due schemi interpretativi e il loro sviluppo divergente o
polarizzato e, dall’altro, costituisce, secondo Bobbio, il presupposto su cui
si fonda «l’interpretazione corrente che fa del modello giusnaturalistico il
rispecchiamento teorico e insieme il progetto politico della società borghese
in formazione»[67]
e che, pertanto, fornisce al modello teorico un significato anche ideologico[68].
Letto in un’ottica che ne privilegia la valenza ideologica, il
giusnaturalismo rivela una serie di aspetti o di caratteri sottointesi che, pur
con tutte le cautele del caso, incidono sull’interpretazione complessiva del
modello. Se nella descrizione dello stato di natura, retto da proprie leggi, è
possibile scorgere l’embrione del sistema di mercato, allora lo stato di natura
rappresenta «la scoperta della sfera economica distinta dalla sfera politica,
della sfera privata distinta dalla sfera pubblica»[69],
segna, cioè, la fine della confusione fra pubblico e privato, fra politica e
economia, che aveva invece contraddistinto l’esperienza medioevale dello Stato
patrimoniale. Non solo. In quest’ottica anche la visione individualistica della
società, gli ideali di libertà e uguaglianza (strettamente connessi con il
diritto di proprietà), l’ipotesi contrattualistica e il criterio del consenso,
sul quale fondare in modo nuovo il principio di legittimità del potere sovrano,
assumono il significato di rivendicazioni emancipatorie di una classe sociale
in ascesa, la borghesia, che si appresta a diventare economicamente dominante e
che, perciò, reclama porzioni corrispondenti di potere politico e aspira ad affermare
la propria concezione del mondo e dell’etica[70].
L’aspetto ideologico del modello è particolarmente evidente nella
filosofia politica di Locke, ed è, forse, anche in ragione di questo carattere
che Bobbio la considera una delle espressioni più compiute e coerenti del
giusnaturalismo moderno.
Il ruolo di assoluto rilievo che Bobbio riconosce a Locke nella
storia del giusnaturalismo moderno è legato quasi esclusivamente al valore
innovativo attribuito al secondo dei Due Trattati sul governo, l’opera,
fra quelle della maturità, che determina una profonda cesura rispetto agli
scritti del periodo giovanile riguardo al tema della natura e delle funzioni
dello Stato.
I lavori giovanili, che
Bobbio esamina con particolare cura per ricostruire il pensiero politico di
Locke, precedono il celebre Saggio sulla
tolleranza del 1667, che, invece, non prende in considerazione, così come
non prende in considerazione, fra le opere maggiori, né L’epistola sulla tolleranza né il Saggio sull’intelligenza umana. Dei lavori esaminati, i primi due
sono noti come i trattati (o gli opuscoli) sul magistrato civile[71],
gli altri sono otto saggi, scritti in latino fra il 1660 e il 1664, che hanno
per oggetto il diritto naturale.
Il primo dei trattati sul
magistrato civile, un libello d’occasione redatto in inglese, è
considerato da Bobbio di schietto impianto hobbesiano[72].
In esso Locke, nell’affrontare una questione a quei tempi molto acuta e
dibattuta, risponde affermativamente al quesito circa la legittimità
dell’intervento del potere politico nelle «cose indifferenti», ossia nella
sfera delle azione lecite, quelle né comandate né proibite dalla legge
naturale, per regolare comportamenti relativi al culto religioso. La soluzione
lockiana è ascritta da Bobbio fra le posizioni etichettabili come non-liberali,
vale a dire quelle posizioni che all’epoca, nella secolare controversia fra la
chiesa e lo Stato, giustificavano l’ ingerenza di quest’ultimo in materia
religiosa in difesa della concezione anglicana della chiesa di Stato[73].
Nello schierarsi contro le pretese delle sette non conformiste che, reclamando
il riconoscimento della libertà religiosa, invocavano un regime di tolleranza,
Locke sostiene che il potere sovrano, una volta costituito, è “assoluto”,
“arbitrario”, “pieno” e “illimitato”[74]
e che questo è il prezzo da pagare per evitare di piombare nell’anarchia. Anche
in questa impostazione dilemmatica della questione (o lo Stato assoluto o
l’anarchia), oltre che negli argomenti principali cui Locke affida la
sostenibilità delle proprie tesi, Bobbio scorge le tracce evidenti
dell’influsso del pensiero di Hobbes (presente, anche, negli atteggiamenti
emotivi, quali il disprezzo per il volgo e l’odio per i fanatici)[75].
L’influenza hobbesiana, sebbene lievemente “annacquata”[76],
è evidente anche nel secondo scritto sul magistrato
civile, che ha lo stesso oggetto e perviene alle medesime conclusioni
del primo, ma presenta, secondo Bobbio, un maggior interesse, in quanto
contiene elaborazioni concettuali meno scontate, più sottili[77].
Locke, infatti, distingue fra quattro forme di potere e quattro forme di
obbedienza, introducendo, in particolare, la differenza fra obbedienza attiva e
obbedienza passiva e quella fra obbligazione materiale e formale. Ma queste
sottili distinzioni analitiche non intaccano minimamente il potere del sovrano
di intervenire nella sfera delle cose indifferenti, né esentano il suddito dal
dovere (pressoché assoluto) di conformarsi alle direttive ricevute. L’obbligo
di ubbidire non viene meno neppure quando il sovrano viola la legge naturale,
regola le cose indifferenti spinto da motivazioni non commendevoli (con
“intenzione cattiva”) o con la pretesa di vincolare la coscienza[78].
In questi casi il sovrano commette peccato, e ne risponde di fronte a Dio, ma
ciò non annulla l’obbligo del suddito né l’esime dall’osservanza. Tutt’al più,
nel caso di violazione della legge naturale, il suddito può negare l’obbedienza
attiva, ma non anche quella passiva, nel senso che può rifiutarsi di seguire il
precetto contrario ai dettami della propria coscienza, ma non può sottrarsi
alla punizione conseguente alla violazione. In questo modo Locke preserva, in
parte, la coscienza del suddito, ma salva, soprattutto e in toto, l’autorità dello Stato[79].
A rigore, l’istituto dell’obbedienza passiva dovrebbe costituire un chiaro
elemento di differenza sostanziale rispetto alla posizione di Hobbes. Ma Bobbio
osserva che si tratta di «un omaggio all’ipocrisia assai più che un riconoscimento
della libertà dei sudditi», giacché riguardo «al sovrano prevaricatore, Locke
ripete la formula tradizionale di ogni teoria assolutistica, affermando che
questi non viola alcun diritto dei sudditi, ma semplicemente commette peccato»[80].
Se si fa riferimento al tema dei limiti dell’obbligazione politica, uno dei
problemi più dibattuti e ricorrenti nella storia della filosofia politica
occidentale, è difficile immaginare una posizione più simile a quella di Hobbes
e niente di più lontano rispetto alle posizioni da Locke sostenute nelle opere
della maturità.
Negli otto saggi sul diritto naturale, che, secondo Bobbio, hanno
un «andamento scolastico»[81],
se si eccettua la critica all’innatismo delle idee e l’abbozzo di una teoria
empiristica della conoscenza, Locke affronta la questioni relative
all’esistenza, alla conoscenza e all’obbligatorietà della legge di natura.
Circa l’esistenza, si limita a riprodurre argomenti alquanto tradizionali, per
sostenere, contro la tesi razionalistica di Grozio, una concezione
volontaristica à la Hobbes: la legge
naturale non è un dettame della retta ragione, come invece sosterrà nei Due
Trattati sul governo, ma un comando emanato dalla volontà divina, che la
ragione si limita a scoprire ed interpretare[82].
Riguardo alla conoscenza della legge di natura, che è, per Bobbio, il punto più
interessante dell’intera trattazione, Locke scarta sia la teoria
dell’innatismo, fondata su un presupposto indimostrabile, dato che la mente
umana al momento della nascita è una tabula
rasa; sia la teoria che fa perno sulla tradizione, che non è un modo per
produrre ma, caso mai, per trasmettere conoscenza; sia, infine, la teoria del consensus gentium, che è imperniata su
una formula che è poco più di un proverbio (vox
populi, vox dei) e si affida eccessivamente a fattori contingenti, alla
disordinata osservazione dei fatti storici[83].
Ma una volta contestate le teorie più accreditate, Locke propone una soluzione
che non brilla per originalità, una soluzione da manuale, che, come dice
Bobbio, sa «d’imparaticcio scolastico»[84].
La conoscenza della legge naturale non è diversa dalla conoscenza di tutte le
altre cose del mondo: anch’essa procede attraverso i sensi e la ragione. Se si
presuppone che l’ordine dell’universo e il fine verso cui tende sono opera di
un Dio creatore e legislatore, il problema della conoscenza della legge
naturale è di fatto risolto: è naturale la legge che prescrive di fare ciò che
è necessario per realizzare o assecondare i fini dell’universo[85].
Il riferimento alla fonte (ex
iure creationis) serve a Locke anche per sciogliere il nodo
dell’obbligatorietà della legge naturale. Se è posta da Dio, non esiste
problema. Tutt’al più si può discettare sulla natura dell’obbligo che ne
deriva. In proposito Locke distingue fra ciò che obbliga in coscienza e ciò che
si impone per timore della pena e fa rientrare la legge naturale nella prima
categoria. L’obbligatorietà inoltre è perpetua,
ma solo per quanto riguarda i divieti, non anche per i precetti positivi (i
comandi), che dipendono dalle circostanze, e, in linea di massima, universale, sebbene questo carattere sia
condizionato dallo status delle
persone, di modo che sono diversi gli obblighi che discendono per il governante
da quelli che incombono sul governato[86].
In conclusione, riguardo al rapporto tra gli scritti giovanili e
quelli della maturità, Bobbio riscontra una netta frattura tra i “trattatelli”
sul magistrato civile, di chiara e inconfutabile ispirazione hobbesiana, e il Secondo
trattato sul governo, una
frattura che riguarda non solo i fondamenti, ma anche, e soprattutto, le
soluzioni[87],
tanta è la distanza che separa un manuale dell’obbedienza da un trattato sulla
resistenza. Osserva, infatti, Bobbio che mentre, «nei due trattatelli giovanili
il diritto di resistenza non è riconosciuto, neppure nei casi più odiosi di
abuso del potere da parte del sovrano», al contrario Locke «nel secondo
trattato difenderà con abilità e con argomenti che qualsiasi scrittore
autoritario non esiterebbe a considerare demagogici, il diritto di resistenza»[88].
Rispetto alla concezione del diritto naturale, che peraltro considera di
«un’acrisia e di un’ingenuità stupefacente»[89],
Bobbio invece ravvisa una «sostanziale identità» fra i due periodi considerati,
anche perché i problemi circa l’esistenza, la conoscenza e il fondamento del
diritto naturale sono da Locke dati ormai per risolti e, dunque, non bisognosi
di alcun particolare riesame[90].
Nell’affrontare l’analisi dell’opera politica maggiore di Locke, il
secondo dei Due Trattati sul governo,
Bobbio prende in esame le tesi innovatrici di Peter Laslett, raccolte
nell’introduzione all’edizione critica dei Two Treatises del 1960[91].
La novità dell’interpretazione lockiana di Laslett riguarda principalmente tre
punti: a) la retrodatazione della stesura dei Due Trattati ad un decennio prima dell’anno della loro
pubblicazione, che avviene nel 1690, al culmine della Gloriosa Rivoluzione; b) la confutazione dell’opinione, largamente
dominante fra i commentatori, secondo la quale il bersaglio del Primo
trattato sarebbe il Patriarca di
Filmer, mentre il bersaglio del secondo sarebbe la dottrina politica di Hobbes;
c) il “dogma” della derivazione della dottrina politica di Locke dalle sue idee
filosofiche.
Bobbio accoglie integralmente la prima tesi, con riserve e solo
parzialmente la seconda, sorvola sulla terza. Non dubita della fondatezza della
prima tesi di Laslett, peraltro assai documentata, in base alla quale i Two Treatises, lungi dall’essere
un’opera scritta a giustificazione postuma della Gloriosa Rivoluzione, ne rappresenterebbero invece una sorta di
anticipazione. Ritiene parimenti fondata la tesi secondo cui anche il Secondo trattato sarebbe rivolto contro
Filmer, giacché riconosce che la dottrina politica che Locke avversa è non
tanto l’assolutismo, quanto, e soprattutto, il patriarcalismo[92].
Ma ritiene che Laslett finisca con l’espungere Hobbes dall’orizzonte polemico
di Locke. Il che gli sembra eccessivo[93].
La chiave di volta dell’intero pensiero politico lockiano è, infatti, racchiusa
nel XV capitolo del Secondo trattato,
nel quale Locke, dopo aver dettagliatamente e separatamente esaminato, nei
capitoli precedenti, i caratteri del potere paterno, del potere politico e del
potere dispotico, mette a confronto le tre forme di potere evidenziandone le
differenze. E’ in questo capitolo che Bobbio individua il “nerbo” della teoria
lockiana, vale a dire la dimostrazione che i tre poteri hanno un diverso
fondamento e che quello politico è l’unico
ad avere come base il consenso[94].
Non che Locke sia il primo a sostenere che il potere si distingue in ragione
della sua origine - in precedenza già Grozio, per rimanere nell’ambito del
giusnaturalismo, aveva indicato una tripartizione delle forme di potere,
ripresa anche da Hobbes, a seconda che derivi ex natura (il potere paterno), ex
delicto (il potere
dispotico) o ex contractu (il potere
politico) - ma è il primo a trarre dalla distinzione conseguenze rigorose.
Infatti, mentre Filmer confonde potere politico e potere paterno, Hobbes
ammette che anche il potere dispotico possa essere fondato sul consenso e, in
questo modo, rischia di confonderlo col potere politico. Locke, dunque, critica
due errori distinti, ma discendenti dalla medesima lacuna, cioè dalla mancanza
del riconoscimento delle differenze irriducibili delle tre forme di potere in
relazione al loro fondamento. Da ciò deriva, secondo Bobbio, che la critica di
Locke è rivolta contemporaneamente contro due fronti: da un lato, la dottrina
paternalistica di Filmer e, dall’altro, «il cattivo uso della teoria
contrattualistica»[95]
fatto da Hobbes, il quale, appunto, sostiene nel De Cive (VIII,1) che sia il potere politico sia il potere padronale
(dispotico) nascono entrambi da una promessa, un concetto che ripete, ancor più
chiaramente, nel Leviatano affermando
che «non la vittoria dà diritto di dominio sopra il vinto, ma il patto fatto da
lui»[96].
Ma vi è anche un’altra ragione per la quale Bobbio non accetta la
tesi di Laslett circa la completa cassazione del pensiero di Hobbes dal
panorama teorico di Locke. Bobbio elabora il modello giusnaturalistico
esemplandolo sul paradigma hobbesiano, a sua volta definito per contrapposizione
con il paradigma aristotelico. Questo significa che le peculiarità del pensiero
politico lockiano, all’interno dei singoli elementi che compongono il modello,
possono essere colte ad apprezzate soprattutto in relazione alle differenze che
presentano con le corrispondenti posizioni hobbesiane.
A cominciare, appunto, dalla distinzione netta, al riparo da ogni
possibile equivoco, delle tre forme di potere che è, per Bobbio, la
caratteristica principale e, quindi, l’elemento di maggiore novità del secondo
dei Due Trattati, un’opera di tipo
normativo, volta non a spiegare le dinamiche politiche di un determinato
sistema reale, ma ad indicare in base a quali norme e principi è possibile
modificarlo. Non opera di precettistica politica, genere letterario assai
praticato all’inizio dell’età moderna, cioè un breviario per il principe o il
cortigiano, né tanto meno un’opera utopistica, l’astratta delineazione dell’optima respublica, ma un’opera
“immediatamente politica”[97],
sebbene incorniciata entro un coerente quadro teorico, saldamente ancorata al
programma del partito Whig,
nella quale, osserva Bobbio, «l’accento cade più sui problemi di riforma che su
quelli dell’interpretazione di una costituzione data»[98]. Come, peraltro conferma lo stesso
Locke, il quale, nel ricordare che il problema dei problemi è quello relativo
alla determinazione di chi abbia il diritto di governare (e perché), indica
questo compito come tipico del “riformatore della politica”[99].
Del resto è difficile dubitare che non fosse il fondamento della legittimità
del potere il problema politico cruciale di un Paese che, nell’arco di qualche
decennio, aveva assistito alla guerra civile fra gli eserciti del re e del
parlamento, alla decapitazione di Carlo I , all’instaurazione della repubblica,
alla restaurazione della monarchia Stuart e all’avvento della dinastia Orange.
Come tutti i giusnaturalisti, anche Locke parte dall’ipotesi dello
stato di natura. E anche per Locke, come per tutti i giusnaturalisti, la
delineazione delle caratteristiche dello stato di natura ha un’importanza
capitale, una funzione fondativa, tale da condizionare la scelta degli elementi
(il diritto di proprietà, le forme del potere, i principi organizzativi della
società civile) che costituiscono l’intera catena discorsiva lungo la quale
prende forma, procedendo per tappe successive, la teoria politica che culmina
con la concezione dei limiti del potere dello Stato e col riconoscimento del
diritto di resistenza. Apparentemente – e Bobbio non manca di rilevarlo - Locke
coltiva un’idea ambigua dello stato di natura, in un duplice senso: da un lato,
la considera come una pura idea regolativa e insieme come una realtà storica
effettivamente esistita; dall’altro, la dipinge positivamente, sulle orme di
Pufendorf, come una condizione di pace, ma anche negativamente, sulla scia di
Hobbes, come una condizione di guerra. La prima ambiguità è di scarso rilievo e
si scioglie, comunque, considerando che le due concezioni non si escludono
necessariamente, nel senso che assumere la nozione di stato di natura come
un’ipotesi razionale non impedisce di vederne anche le possibili
“applicazioni”, ad esempio, secondo i diffusi pregiudizi dell’epoca, negli
stili di vita dei popoli considerati primitivi e barbari, oppure, anche nella
sfera dei rapporti internazionali[100].
La seconda ambiguità è invece più pregnante, ma costituisce anche uno degli
aspetti di maggiore novità della filosofia politica lockiana. Bobbio non può
non riconoscere che Richard Cox ha ragione, quando testi alla mano, dimostra
che Locke descrive inizialmente lo stato di natura come una condizione di pace,
ma poi, via via che prosegue nella trattazione, lo definisce come stato di
guerra o di anarchia o di pericolo. Ma da ciò non ne fa discendere la
conclusione che Cox trae, secondo cui Locke sarebbe «un Hobbes mascherato (e
per giunta mascherato male)»[101].
Secondo Bobbio, non si capisce la concezione lockiana se non si tiene presente
la dicotomia tradizionale fra una natura ideale e una natura reale, ossia fra
come lo stato di natura dovrebbe essere e come può diventare[102],
fra ciò che gli uomini dovrebbero fare secondo ragione – osservare le leggi
naturali – e ciò che effettivamente fanno quando si lasciano dominare dalle
passioni, per cui lo «stato di natura perfetto in teoria è meno perfetto in
pratica»[103].
Lo stato di natura è uno stato di pace, ma, una volta che comincia, la guerra
non ha più fine. Non importa definirlo come una condizione di guerra potenziale
oppure come una condizione di pace precaria, quel che conta rilevare è che si
trasforma ineluttabilmente in uno stato di guerra. E questo avviene per la
mancanza di un giudice imparziale, in grado di sostituirsi al sistema delle
faide o delle vendette private e, dunque, fornito di poteri sufficienti per
ripristinare il diritto leso o per punire la violazione della legge naturale.
Benché gravido di conseguenze negative, questo è l’unico inconveniente dello
stato di natura. Ma è un difetto costitutivo, tale, cioè, da suggerire ad
esseri dotati del bene della ragione di abbandonarlo.
La concezione dello stato di natura, in Locke come negli altri
giusnaturalisti, è dunque determinante per formulare l’ipotesi sui caratteri,
la funzione e i fini della società politica. E per cogliere il senso della
posizione lockiana Bobbio ricorre, ovviamente, al confronto con Hobbes. Poiché
la guerra è la caratteristica essenziale e permanente dello stato di natura, in
cui le leggi naturali esistono ma non sono efficaci, il rimedio per Hobbes deve
essere radicale, come radicale è il male, onde la società civile (o politica)
si configura come l’antitesi o la negazione speculare dello stato di natura, di
cui deve cancellare «anche l’ultima traccia»[104].
E ciò, secondo Bobbio, servirebbe a spiegare - ma il nesso non è così evidente
né la consecutio così necessaria -
perché Hobbes elabori la teoria di uno stato assoluto [105],
a differenza di Locke che considera la guerra un mero accidente dovuto alla
mancanza di un giudice imparziale, onde l’inconveniente si supera non abrogando
lo stato di natura, ma semplicemente correggendolo, attraverso l’istituzione di
uno Stato dai poteri limitati, la cui unica (o principale) funzione è, appunto,
quella di garantire il rispetto dei diritti naturali[106].
Per sintetizzare le differenze Bobbio ricorre ad una formula, tanto semplice quanto
efficace: nel passaggio dallo stato di natura alla società civile nella
concezione hobbesiana gli uomini rinunciano a tutti i diritti naturali, tranne
uno (il diritto alla vita); nella concezione lockiana conservano tutti i
diritti, tranne uno, quello di farsi giustizia da soli[107].
La prima conseguenza di questa diversa visione è che Locke, a
differenza di Hobbes, considera la proprietà un diritto naturale, prepolitico,
antecededente e condizionante l’istituzione dello Stato. Anello di congiunzione
fra lo stato di natura e la società civile, la proprietà è per Locke il diritto
naturale per eccellenza, quello che, in un certo senso, assomma e racchiude in
sé tutti gli altri[108],
al punto da apparire, in alcun passi del secondo dei Due Trattati la ragione (il fine) che giustifica l’esistenza del
potere politico[109].
Bobbio non si sofferma sul significato storico della teoria lockiana della
proprietà, sul background ideologico
e culturale rappresentato dalle idee di Shaftesbury e alimentato dalle
discussioni dei circoli Whig; rinvia, in proposito, alle accurate analisi di
Carlo Augusto Viano[110].
Quel che gli interessa è enucleare gli elementi di originalità della teoria,
individuandone il presupposto basilare, che Locke non trova negli immediati
precedenti dottrinali, le posizioni convenzionalistiche di Grozio e
Pufendorf[111],
inadeguate a fondare e sorreggere una concezione naturalistica della proprietà,
cioè l’idea di un diritto sottratto, per principio e per definizione, da un
lato, all’aleatorietà del riconoscimento da parte degli attori sociali, e,
dall’altro, all’interferenza del potere politico. Per Locke, insomma, il
problema è quello di individuare un principio costitutivo, che funga da titolo
originario d‘acquisto e in relazione al quale la volontà del sovrano o dei
consociati abbia unicamente un valore dichiarativo[112].
Questo principio Locke lo rinviene nel lavoro, che l’uomo impiega per
impadronirsi di un bene o per trasformare e valorizzare un oggetto[113].
E’ il lavoro che conferisce valore alla cose e ne giustifica l’acquisizione[114],
di fatto illimitata, giacché i limiti che Locke pone all’accumulazione valgono
in teoria, non in pratica[115].
E non c’è nulla di più «inconfondibilmente individuale»[116]
del lavoro, dell’energia spesa per procacciarsi, produrre o trasformare un
oggetto. Nel far derivare «la proprietà sulle cose dalla proprietà che ogni
uomo ha sulla propria persona»[117],
Locke insinua che ogni violazione della proprietà si configura ipso facto come un attentato alla libertà
personale. Ed è in base a questa considerazione che Bobbio concorda con
Macpherson nell’etichettare Locke come un individualista possessivo[118].
Ma non è tanto l’assunzione della categoria del lavoro come
fondamento della proprietà a costituire l’elemento innovatore della filosofia
politica lockiana. Bobbio non lo dice espressamente, ma lascia chiaramente
intendere che tale categoria può essere considerata come una variante moderna
del tradizionale principio dell’acquisizione mediante specificazione[119].
Quel che rende la posizione lockiana unica e inconfondibile nel panorama del
giusnaturalismo moderno è l’aver collocato l’origine della proprietà sulle cose
all’interno del quadro delle facoltà che appartengono all’uomo come essere
naturale, ossia nell’aver fatto della proprietà un istituto tipico dello stato
di natura e non della società civile[120].
E poiché la proprietà è il perno intorno a cui ruota la dinamica del sistema
economico, Bobbio ne trae la conclusione che l’astratto stato di natura dei
teologi e dei giusnaturalisti si riempie in Locke di un contenuto concreto e
specifico, diventando il luogo dei rapporti economici (della produzione e dello
scambio), regolato dalle leggi (anch’esse naturali) del mercato[121].
In altre parole, si tratta della “scoperta” dell’economia come dimensione della
vita associata che precede (e condiziona) la dimensione politica, del primato
della dimensione naturale su quella artificiale. In proposito, mutuando uno
schema analitico di chiara derivazione marxiana, Bobbio osserva che nella
«risoluzione della società di natura nella società dei rapporti economici
l’economia funge da struttura e la politica da sovrastruttura»[122].
Non poteva trovare modo più efficace per sottolineare che in Locke la politica
è al servizio dell’economia. Nel che consiste però, si affretta a precisare, la
caratteristica saliente e la modernità del giusnaturalismo lockiano[123].
Prima di delineare i tratti fondamentali della società civile,
eretta a protezione della proprietà, il diritto naturale per eccellenza, Locke
affronta il tema della definizione del potere paterno e del potere dispotico.
Sul potere paterno - in parte lo si è già visto – attacca frontalmente la
concezione patriarcalistica di Filmer, che fa del padre un re e del re un
padre, cui, appunto, imputa l’errore teorico di confondere, riguardo ai
fondamenti, il criterio della natura con quello del consenso, e, dunque, di non
distinguere ciò che invece va tenuto distinto. Locke si attiene fedelmente alla
tradizione, nel senso che considera il potere paterno derivato ex natura, ma rivoluziona il modo di
concepirlo. Innanzitutto lo ritiene un potere temporaneo, che cessa nel momento
in cui i figli raggiungono l’età della ragione e, dunque, la capacità di
governarsi da soli. Già in questa innovazione, secondo Bobbio, Locke coglie il
vizio di fondo del paternalismo, che è quello di considerare i sudditi degli
eterni minorenni bisognosi di continua tutela[124].
In secondo luogo, rovescia completamente la prospettiva tradizionale: il potere
dei genitori sui figli nasce non da un diritto naturale, ma da un preciso
dovere, che, a sua volta, è il corrispettivo del diritto dei figli alla vita,
all’educazione e al sostentamento finché non sono in grado di provvedere da
soli. In altre parole, i genitori hanno un potere in quanto hanno un dovere di
educare ed hanno un dovere in quanto i figli hanno il diritto (naturale) ad
essere educati[125].
Sul potere dispotico, Locke accoglie la tesi tradizionale, che
Grozio espone per primo, ma, secondo Bobbio, la argomenta in modo originale[126].
Il potere dispotico deriva ex delicto,
cioè da un atto criminoso compiuto in violazione della legge naturale. Questo
atto è, più precisamente, un atto ostile, un atto di guerra, che espone chi
l’intraprende alla rappresaglia del vincitore e che, comunque, autorizza il
vincitore a “confiscare” la vita e i beni del vinto[127].
Anche se Locke ammette che talora può essere giustificato, esattamente come la
guerra provocata da un giusta causa, giammai, però, il potere dispotico,
neppure se giustificato, può essere confuso, come fa Hobbes, col potere
politico fondato sul consenso[128].
Non a caso Locke - Bobbio non manca di rilevarlo - assimila il potere dispotico
alla monarchia assoluta, che non può essere considerata una forma di “governo
civile” ma, proprio come quello dispotico, un regime che non ha completato
«l’uscita dallo stato di natura», in quanto il sovrano, sciolto dall’osservanza
delle leggi che dà ai sudditi, si sottrae alla giurisdizione di quel giudice
imparziale la cui istituzione è la ragione prima del governo civile[129].
Ma vi è anche un altro motivo alla base della critica lockiana: il potere
dispotico non garantisce la proprietà. Anche se Bobbio riconosce che sul tema
l’atteggiamento di Locke non è “univoco”, cita comunque un passo, tratto dalla
chiusa del XV capitolo del secondo dei Due
Trattati, quello dedicato alla dimostrazione delle differenze tra le tre
forme di potere, il cui significato non presta adito a dubbi, circa la
relazione fra i diversi regimi e l’istituto della proprietà: «il potere paterno
non sussiste che quando la minorità rende il figlio incapace di amministrare la
sua proprietà, il politico quando gli uomini possono disporre della loro
proprietà e il dispotico su coloro che non hanno proprietà alcuna»[130].
Quel che caratterizza il potere politico è, dunque, il fondamento
di legittimità costituito dal consenso. È la teoria classica del contratto
sociale, ma nessun giusnaturalista, secondo Bobbio, è chiaro e preciso come
Locke nel sostenere e sviluppare questo principio[131]
(il quale è anche l’unico a credere non trattarsi di una mera ipotesi della
ragione, ma di un fatto storico, realmente esistito)[132].
Strettamente connessa al criterio del consenso è la regola di maggioranza, che
Locke giustifica ricorrendo ad un argomento «poco consueto»[133],
ma non irresistibile, tratto per analogia dalla fisica meccanicistica, secondo
cui un corpo, per la natura della cose, si muove nella direzione che gli
imprime la sua «forza maggiore»[134].
Secondo la logica contrattualistica, gli uomini che decidono di fuoriuscire
dallo stato di natura stringono un accordo (il pactum societatis)
in base al quale rinunciano, al fine di istituire un potere comune, ad una
parte più o meno ampia dei loro diritti naturali. Paragonato ai modelli di
Hobbes e di Rousseau, il modello di Locke, secondo Bobbio, è quello che prevede
la rinuncia minore[135].
Nell’entrare in società gli uomini si spogliano unicamente del diritto di farsi
giustizia da soli, ma conservano, e, anzi, rafforzano gli altri e, in
particolare, il diritto di proprietà che, in un certo senso, tutti li
ricomprende. Il contenuto del contratto, ovviamente, condiziona la forma e il
carattere dell’istituenda società politica, che nell’ottica di Locke non può
eccedere i poteri che le vengono trasmessi o delegati. Oltre che indisponibili
da parte dei titolari, i diritti non ceduti sono, anche, inviolabili da parte
dello Stato, che nel modello di Locke incontra, pertanto, sin dall’origine,
limiti invalicabili. Secondo Bobbio, questa impostazione, nella misura in cui
prevede che la funzione del potere politico (del diritto positivo) sia quella
di rafforzare e garantire, accrescendone l’efficacia, i diritti naturali,
consente, da un lato, di «collocare la filosofia politica di Locke fra le forme
più tipiche e radicali di giusnaturalismo»[136]
e costituisce, dall’altro, l’embrione su cui in seguito si svilupperà l’idea
dello Stato liberale.
Bobbio nota che Locke non fa esplicita menzione di un secondo
patto, il patto di soggezione,
che gli altri giusnaturalisti normalmente richiamano - compreso Hobbes che
unifica i due nel patto d’unione – in relazione al problema della
determinazione dei limiti del potere dello Stato, anche se alcuni riferimenti
indiretti lasciano presupporre che il concetto non è gli estraneo[137].
Del resto, il discorso sui limiti del potere politico non sarebbe possibile se
prescindesse dalla distinzione, all’interno del processo di formazione dello
Stato, fra il momento costitutivo della società e il momento costitutivo del
governo. Una distinzione che Locke ha, quindi, certamente presente, se pure in
maniera implicita, quando, nel cap. XI del secondo dei Due Trattati, che riguarda l’estensione del potere legislativo,
indica, quali limiti al potere sovrano: a) il principio di legalità, in base al
quale si deve governare unicamente attraverso leggi generali e astratte, che
prescindono da circostanze e da persone particolari, e non mediante atti
estemporanei o arbitrari come i decreti; b) la libertà economica, in base alla
quale è fatto divieto ai governanti di deliberare in materia di proprietà senza
il consenso dei governati, cioè dei proprietari; c) il divieto posto al
legislativo di delegare all’esecutivo il potere di fare le leggi[138].
Riguardo all’articolazione costituzionale dello Stato, Locke
distingue fra il potere legislativo e il potere esecutivo. Tace invece sul
potere giudiziario, nonostante che la ragione, più volte richiamata, che induce
gli uomini ad abbandonare la condizione naturale per associarsi in un consorzio
politico sia proprio la mancanza di un giudice imparziale. Contrariamente
all’ipotesi comunemente accettata, che risolve il potere giudiziario nel potere
esecutivo, Bobbio lo ingloba nel potere legislativo, facendone, anzi, una
funzione di questo. E, in effetti, i precisi riferimenti testuali portati a conforto
di questa tesi dimostrano che in Locke fra legislativo e giudiziario non vi
sono differenze sostanziali, trattandosi di due aspetti diversi dello stesso
potere[139].
Potere legislativo e potere esecutivo, distinti e separati, non
stanno in Locke sullo stesso piano. Non sono, cioè, legati da un rapporto di
coordinazione, su cui si fonderà, come ricorda Bobbio, la celebre teoria
dell’equilibrio dei poteri elaborata da Montesquieu e accolta nella
Costituzione americana, ma da un rapporto di subordinazione, che sancisce la
supremazia del potere legislativo su quello esecutivo[140].
In altre parole, la teoria lockiana celebra il principio del primato del
parlamento, nel quale risiede il potere supremo e verso il quale l’esecutivo è
responsabile. Ma, potere superiore nella gerarchia dell’ordine costituzionale
non significa potere onnipotente o irresponsabile. Il legislativo, che è un
potere fiduciario, istituito per perseguire il fine della tutela e
dell’accrescimento dell’efficacia dei diritti naturali (e in primo luogo del
diritto di proprietà, il diritto naturale per eccellenza), non può eccedere il
mandato ricevuto ed è quindi, in un certo senso, un potere di deliberazione ad
indirizzo vincolato, che risponde del proprio operato di fronte al “popolo”,
nel quale risiede, precisa Locke, «il potere supremo» di rimuoverlo o di
modificarlo[141].
Al principio, liberale, dei limiti del potere statale, Locke abbina il
principio del potere originario del popolo, anche se per “popolo” intende,
secondo la communis opinio dell’epoca,
l’upper class, il ceto dei
possidenti. Ma il postulare il potere legislativo come un potere derivato è
sufficiente, secondo Bobbio, per sostenere che nella filosofia politica
lockiana si trovano «le radici della concezione democratica dello stato»[142].
Lo schema teorico che Locke adopera per impostare e risolvere il
problema della legittimità e, quello, connesso e interfacciato,
dell’obbligazione politica, è, dunque, semplice e lineare: a) è legittimo il
potere fondato sul consenso; b) «il potere supremo», oggi si direbbe la
sovranità, è il potere legittimante e risiede nel popolo, che ne è il titolare;
c) potere legislativo e potere esecutivo sono poteri delegati sulla base di un
rapporto fiduciario in funzione dei fini (la protezione dei loro beni primari)
che i titolari ritengono degni di essere perseguiti; d) il perseguimento di
fini predeterminati costituisce allo stesso tempo la giustificazione
dell’obbligo politico e il limite invalicabile dell’esercizio del potere
delegato; e) il potere supremo ritorna nelle mani dei titolari e cessa il
dovere di obbedienza quando si interrompe il rapporto fiduciario.
Infine, Bobbio si sofferma sulle diverse ‘cause’ che possono
provocare il tracollo del sistema politico. Locke distingue, in proposito fra
dissoluzione della società, che comporta lo scioglimento del contratto sociale
(il pactum societatis) e dissoluzione
del governo, le cui conseguenze sono invece limitate alla rottura del pactum subiectionis. La conquista e
l’usurpazione, che è un caso di conquista interna, producono la dissoluzione
della società e, perciò stesso, anche del governo; costituiscono, viceversa,
fattispecie di dissoluzione del governo, ma non anche della società, l’alterazione del legislativo, un caso
che si verifica allorché il potere esecutivo si sostituisce al legislativo o
gli impedisce di funzionare, e l’infrazione
del mandato, che si verifica quando i legislatori oltrepassano
i limiti del potere ricevuto, violando i diritti naturali e in primis il diritto di proprietà; alla
dissoluzione del governo, infine, può essere assimilata la tirannide, che Locke
definisce come «l’esercizio del potere oltre il diritto»[143],
vale a dire, in termini aristotelici, come esercizio del potere nell’interesse
personale del governante e non nell’interesse generale dei governati.
Questi casi, i cui rapporti, secondo Bobbio, Locke non
approfondisce adeguatamente[144],
rendendo difficoltosa la loro sistemazione in un quadro unitario[145],
configurano situazioni nelle quali il «potere supremo» ritorna al popolo, che risulta
così svincolato da ogni obbligo di obbedienza. Ma, in fondo, è relativamente
poco importante che Locke trascuri di soffermarsi sulla distinzione fra
conquista giusta e conquista ingiusta o non sottolinei le differenze, colte dai
giuristi medioevali, fra la tirannide per difetto di titolo, che dovrebbe
coincidere a rigore con l’usurpazione, e la tirannide in relazione
all’esercizio del potere. Quel che conta rilevare è che Locke, accanto alle
cause tradizionali di crisi o di trauma del sistema politico, quali la
conquista, l’usurpazione e la degenerazione tirannica, introduce la categoria,
relativamente nuova, del dissolvimento del governo per alterazione del
legislativo ad opera dell’esecutivo o per infrazione della fiducia riposta nel
legislativo. In entrambi i casi, i fattori della crisi vanno ricercati non in
una vaga propensione alla rivolta del popolo, ma nel comportamento deviato dei
governanti. In entrambi i casi, osserva Bobbio, «il ribelle non è il popolo, ma
i governanti che abusano del loro potere», cosicché «la resistenza ad essi non
è ribellione ma risposta di una forza giusta ad una forza ingiusta e, quindi,
un’opera di giustizia»[146].
In questo modo, nell’imputare la responsabilità del disordine all’oppressione
dei governanti e non alla disobbedienza dei governati, Locke contesta la tesi
reazionaria di Filmer e, allo stesso tempo, confuta la radicale alternativa
posta da Hobbes: o anarchia, cioè libertà senza ordine, o lo Stato assoluto,
l’ordine senza la libertà. Secondo Bobbio,
nell’opera politica della maturità, a differenza degli scritti giovanili,
Locke cerca (e trova) una formula di governo in cui l’ordine non è l’antitesi,
ma la garanzia della libertà, non un fine ultimo, ma uno strumento, appunto,
per salvaguardare il bene primario della libertà naturale[147].
Per questa ragione, Bobbio, pur giudicando, forse con eccessiva
severità, i Due Trattati un’opera
“deludente” sotto il profilo dei “fondamenti”, una «raccolta di luoghi
tradizionali» rispetto ai “presupposti filosofici”, tanto più se paragonata col
più o meno coevo Saggio sull’intelligenza
umana, ritiene tuttavia che meriti la celebrità acquisita in quanto
costituisce un’autentica novità, una svolta nella storia della filosofia
politica occidentale, proprio perché «segna la fine irrevocabile della
concezione paternalistica del governo e l’inizio trionfale di quella liberale e
democratica»[148].
* Testo della relazione presentata a Perugia, il 3-4 giugno
[1] N. Bobbio, Autobiografia,
a cura di A. Papuzzi, Roma-Bari 1997.
[2] N. Bobbio, Prefazione,
in C. Violi (a cura di), Norberto
Bobbio: 50 anni di studi. Bibliografia degli scritti 1934-1983, Milano
1984, 14-15 (ristampata in C. Violi,
Bibliografia degli scritti di Norberto Bobbio, Roma-Bari 1995,
XXI-XXXI).
[8] Le opere degli autori citati cui Bobbio fa riferimento sono: P. Laslett, Introduction, in J. Locke, Two Treatises of Government,
Cambridge 1960, 3-145; R. Polin, La
politique morale de John Locke, Paris 1960; R.H.
Cox, Locke on War and Peace, Oxford 1960; C.B. Macpherson, The Political Theory of Possessive
Individualism: Hobbes to Locke, Oxford 1962, 194-262 (tr.it., ISEDI, Milano
1973); C.A. Viano, John Locke.
Dal razionalismo all’illuminismo, Torino 1960.
[10] S. von Pufendorf, Principi
di diritto naturale, a cura di N. Bobbio, Torino 1943 (Prefazione di
Bobbio V-XIX). Sempre nello stesso anno viene attribuita a Bobbio l’Avvertenza editoriale
preposta a O. von Gierke, Giovanni
Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche.
Contributo alla storia sistematica del diritto, a cura di A. Giolitti, Einaudi,
Torino, 1943 (VII-XI).
[11] Oltre agli scritti citati nella nota precedente, nel periodo
considerato Bobbio licenzia i seguenti lavori: Le origini del
giusnaturalismo moderno e il suo sviluppo nel secolo XVII, Padova 1946; Il
diritto naturale nel secolo XVIII,
Torino, 1947; Leibnitz e Pufendorf , in “Rivista di filosofia”,
n.1-2, 1947, 118-29 (ora anche in Da
Hobbes a Marx, cit., 129-45); Introduzione
a T. Hobbes, Elementi filosofici sul
cittadino, Torino 1948, 9-40; Legge naturale e legge civile nella
filosofia politica di Hobbes, in
AA.VV., Studi in memoria di Gioele Solari, Torino 1954, 61-101 (ora
anche in Da Hobbes a Marx,
cit., 11-49); Sul diritto naturale, in “Rivista di Filosofia”, 4, 1954,
429-38; Ancora sul diritto naturale,
in “Rivista di Filosofia”, 1, 1956, 72-82 (ora anche in N. Bobbio, Giusnaturalismo
e positivismo giuridico, Milano 1965, 213-23); Giusnaturalismo, in Dizionario di filosofia, a cura di A. Biraghi, Comunità, Milano
1957, 599-601; Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant,
Torino 1957; Alcuni argomenti contro il diritto naturale, in “Rivista di diritto civile”, 3, 1958,
235-63 (ora anche in Giusnaturalismo
e positivismo giuridico, cit., 163-78); Introduzione a T.
Hobbes, Opere politiche, Torino 1959, 7-43; Giusnaturalismo ed
etica moderna in un libro di P. Piovani, in “Cultura moderna”, 2, 1961,
5-8; Giusnaturalismo e positivismo giuridico, in “Rivista di diritto civile”, 6, 1962, 503-15 (ora anche in Giusnaturalismo e positivismo giuridico,
cit., 127-46); Hobbes e il giusnaturalismo,
in “Rivista critica di storia della filosofia”, 4, 1962, 470-85 (ora anche in Da Hobbes a Marx, cit., 51-74 e in N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino 1989, 147-68); Sulla rinascita del
giusnaturalismo, in “Rivista di
filosofia”, 4, 1963, 403-18 (ora anche in Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., 179-95).
[12] “Rivista di Filosofia”, 4, 1966, 379-407 (ora anche in N. Bobbio, Studi hegeliani. Diritto,
società civile e Stato, Torino 1981, 3-33).
[14] N. Bobbio, Il
modello giusnaturalistico, in “Rivista internazionale di filosofia del
diritto”, 4, 1973, 603-22 (ora anche in Thomas
Hobbes, cit., 3-26); N. Bobbio-M. Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Milano 1979, parte prima, Il modello giusnaturalistico, 17-109, ristampato, con alcune modifiche e
integrazioni ai primi due paragrafi, col titolo Il giusnaturalismo in Storia delle idee politiche, economiche e
sociali, diretta da L. Firpo,
Torino 1980, vol. 4, t. 1, 491-558.
[23] Società e Stato nella filosofia politica moderna, cit., 21, 23; Il giusnaturalismo, cit., 500, 501.
[29] Ivi, 127. Benché Bobbio sostenga di riconoscersi nel positivismo
giuridico riguardo al metodo, non anche alla teoria generale del diritto (ivi,
146).
[34] Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., 168. Il
libro di Wolf, al quale Bobbio si riferisce, è Das Problem der
Naturrechtslehre, Karlsruhe 1955.
[36] Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., 168. Il
passo di Rousseau è in Discorso sull’origine e i fondamenti della
disuguaglianza, in Scritti politici, a cura di M. Garin, Laterza,
Bari 1971,vol. 1, 132.
[41] Locke e il diritto naturale, cit., 69-73;
Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., 172-75, 187-90.
[46] Bobbio affronta
espressamente il problema della funzione storica del giusnaturalismo sia in Locke
e il diritto naturale (cit, 73 ss.) sia in Giusnaturalismo e positivismo
giuridico (cit., 190 ss.), ma lo fa, introducendo alcuni distinguo e alcune
riserve, più per rendere un doveroso omaggio alla posizione di Alessandro Passérin d’Éntreves, La
dottrina del diritto naturale, Milano 1954, 9, che aveva appunto invitato a
tenere distinta la funzione del diritto naturale dalla dottrina in sé stessa,
che per intima convinzione. In realtà, anche se evita di adoperare
l’espressione, riconosce pienamente il valore della funzione storica del
giusnaturalismo solo in Società e stato nella filosofia politica moderna
(cit., 84 ss) e in Il giusnaturalismo (cit., 342 ss).
[53] Società e Stato nella filosofia politica moderna, cit., 38. Cfr. anche Il modello
giusnaturalistico, cit., 3.
[70] Il modello giusnaturalistico, cit., 11-13; Società e
Stato nella filosofia politica moderna, cit., 44-46.
[71] Ora, col titolo Primo
scritto sulla tolleranza e Secondo scritto sulla tolleranza, in J. Locke, Scritti editi e inediti
sulla tolleranza, a cura di C.A. Viano, Torino 1961, 14-61 (152-198), 62-80
(199-218).
[130] Ivi, 254. Il passo è tratto da J.
Locke, Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, UTET,
Torino 1960, XV (174), 383.