Dal
manoscritto alla stampa: il libro universitario italiano nel XV secolo
Università di
Sassari
Sommario: 1.
Libro manoscritto o libro a stampa? Continuità e rotture. – 2. Il libro universitario nella produzione editoriale del
secondo Quattrocento. – 3. I centri dell’editoria
universitaria italiana. – 4. Padova e Venezia, due
casi emblematici. – 5. Verso l’umanesimo giuridico.
Fra i primi libri stampati da Gutenberg a
Magonza, intorno al 1460-62, figura la grammatica latina di Elio Donato (circa
310-380 d.C.),
Già dagli esordi, quindi, l’arte tipografica
aveva individuato nel mondo della scuola un favorevole mercato in cui piazzare
quella nuova produzione. Basti soltanto pensare che nella seconda metà del
Quattrocento l’Ars minor avrebbe
avuto più di trecento edizioni[4]. In principio,
però, il mercato era assai ristretto e si potevano prevedere vendite regolari
solo per pochi testi: la Bibbia, le grammatiche, i libri di preghiera. Le
tirature erano basse: Sweynheym e Pannaratz avevano stampato solo trecento
copie del Donato e 275 copie del loro primo volume, il De divinis institutionibus adversus gentes di Lattanzio (1465);
Andrea Belfiore nel
La pubblicazione di un libro costituiva nel XV
secolo un’operazione economica e commerciale assai delicata: si trattava di
valutare il mercato, considerando le edizioni eventualmente già in
circolazione, stimando il numero di acquirenti, ad esempio, in una sede
universitaria per un testo giuridico, teologico o medico, adottato nei corsi,
stabilendo la tiratura, preventivando il costo per copia, assicurandosi la
materia prima, soprattutto la carta, organizzando il lavoro nell’officina,
avvalendosi di collaborazioni esterne per la revisione del manoscritto e per la
correzione delle bozze, promuovendo la diffusione dei volumi.
L’invenzione della stampa è stata una delle più
radicali trasformazioni nella vita intellettuale della società occidentale,
perché ha rappresentato un fattore rivoluzionario non soltanto nel mutamento
delle «comunicazioni scritte nella repubblica delle lettere», ma anche nella
circolazione delle idee e dei processi di alfabetizzazione[7]. Non a torto i
contemporanei avvertirono la funzione rivoluzionaria di quelle «nobili
scoperte», che dovevano essere annoverate tra le più eminenti «tra le imprese
umane». Secondo Tomaso Garzoni, il canonico romagnolo che nel 1585 pubblicò una
vera e propria enciclopedia delle arti e mestieri, la stampa era un’«arte
veramente rara, stupenda e miracolosa, la quale ha aperto gli occhi a’ ciechi e
dato il lume agli ignoranti»[8]. Francesco Bacone
considerava la «forza, la virtù e gli effetti» di quelle «tre invenzioni che
erano ignote agli antichi […]: l’arte della stampa, la polvere da sparo,
Le ragioni per cui le università furono toccate
solo marginalmente dalla nuova produzione tipografica sono dovute in primo luogo
alla ben efficiente e collaudata organizzazione del libro peciato ed alla capacità degli artigiani della scrittura e della
pergamena di rispondere ancora alle esigenze del mercato. Per impiantare una
tipografia erano necessari non soltanto ingenti capitali – il prezzo di vendita
del libro stampato, per gli alti costi di produzione da ammortizzare e per le
esigue tirature (200-300 copie), risultava spesso superiore a quello del libro
manoscritto –, ma anche un’organizzazione del tutto nuova sul piano della
distribuzione e del commercio, «a causa – secondo Balsamo – del ribaltamento
del mercato librario nel quale l’offerta venne a superare la domanda, proprio
l’opposto di quanto era avvenuto fino ad allora in un mercato artigianale che
operava per lo più su commissione»[12].
Molti bibliofili erano inoltre convinti che in
seguito alla diffusione dei libri a stampa il valore di quelli manoscritti
sarebbe stato ben presto svalutato. La sensazione di aver perso con l’avvento
della produzione tipografica buona parte del proprio patrimonio è chiaramente
espressa da un famoso maestro dello Studio senese, il giurista Bartolomeo
Sozzini (morto nel 1507), che nel 1491 considerava i propri libri «di poca
valuta oggi dì per la copia grande di libri in forma» (cioè a stampa), che in
quegli anni erano ormai «abondanti»[13].
Dalla documentazione del tempo risulta che il
prezzo di un volume a stampa era, alla fine degli anni sessanta del
Quattrocento, di 4/5 inferiore a quello dello stesso libro manoscritto,
pressappoco uguale, quindi, al costo delle sole pergamene su cui era copiato[14]. In quegli anni un
volume di 35 quinterni costava al libraio veneziano Paolo Bondulmier, che ne
aveva acquistato 60 copie, un ducato e tre quarti[15]. Per avere un’idea
del costo dei primi libri a stampa basti pensare che la Bibbia di 42 righe,
stampata da Gutenberg, rilegata e miniata a mano, costava ben 100 ducati. Il De civitate Dei di Sant’Agostino,
stampato a Subiaco nel 1467, costava 8 ducati e mezzo. Konrad Haebler ha
calcolato che il prezzo dei volumi in folio, non rilegati e non miniati,
oscillassero negli anni settanta del Quattrocento intorno ai 7 ducati. I libri
stampati con caratteri greci da Aldo Manuzio erano particolarmente cari, e
costavano un ducato ogni 15 o 16 quinterni. Nel 1480 una grammatica di Donato,
stampata da Moretus, era posta in vendita a 16 soldi (più 10 per le eventuali
miniature) e il Decretum Gratiani
a un ducato e mezzo (2 ducati con miniature)[16]. La carta gravava in
misura considerevole sui costi e costituiva sovente i ¾ delle spese totali. Di
solito incideva sul 50% dell’intero costo di stampa[17].
Il sistema della pecia continuava a godere dell’appoggio ufficiale delle università
(Bologna e Parigi, soprattutto, ma anche quelle minori), degli stazionari, dei
bidelli, dei professori: a Siena, sede di un famoso Studio, ad esempio, gli
artigiani del libro manoscritto, cioè gli amanuensi e i miniatori di codici,
inoltrarono una supplica al Comune contro l’introduzione della stampa in città,
riuscendo a far ritardare di almeno un decennio l’affermazione dell’arte
tipografica[18]. La gran massa
degli scrivani, di solito ex-studenti, proveniva dalle aule degli Studi, erano
cioè «intellettuali» che conoscevano il mondo dei maestri e degli allievi,
mentre i tipografi erano in genere ex-orafi o artigiani del metallo: del tutto
estranei all’ambiente delle lezioni, delle dispute, degli esami, avevano
estremo bisogno di autorevoli interlocutori all’interno delle università per le
scelte e le cure editoriali e per l’individuazione dei libri di testo più
richiesti. A questo proposito alcuni episodi assumono un valore emblematico:
quando nel 1455 Johannes Fust, l’imprenditore finanziatore della tipografia
Gutenberg a Magonza, ebbe a disposizione
Un ex-dipendente di Fust, Peter Schöffer, attivo
a Magonza dal 1457 al 1503, era un ex-studente del Collegio della Sorbona
(1449-52) di Parigi, città dove aveva ottenuto il baccellierato e dove aveva
lavorato come copista nell’artigianato dell’editoria manoscritta: egli,
pertanto, come era abituato nell’attività precedente, riproduceva l’exemplar
che aveva a disposizione il più fedelmente possibile, correggendone gli errori
e le sviste. Tuttavia, mentre il copista poteva riprodurre un’unica copia, il
tipografo poteva riprodurre centinaia di copie o più di quel testo
accuratamente revisionato: nel lavoro di Schöffer si verificava quindi una
strana combinazione di «continuità apparente» e di «cambiamento radicale»[19].
Nella produzione editoriale del secondo
Quattrocento il libro universitario non occupa una posizione preminente
rispetto, ad esempio, alle edizioni di classici, ai testi devozionali o di
edificazione religiosa, alle grammatiche, alla pubblicazione delle leggi e
degli statuti locali o di opere utili alle pratiche liturgiche. Secondo il
severo giudizio di Armando Petrucci quello dei testi stampati in Europa nella
seconda metà del XV secolo resta «un repertorio di opere non moderne»,
caratterizzato da «prodotti senza alcun programma culturale e senza alcun
progetto complessivo: un repertorio, in generale, più povero di quello offerto
dalla produzione manoscritta dello stesso periodo»[20]. Ciò è
indubbiamente dovuto all’occasionalità di tante pubblicazioni, stampate in
genere dietro richiesta di un committente, e – ad eccezione degli editori
umanisti come Aldo Manuzio o Johannes Froben – alla quasi generale assenza di
precise strategie editoriali. Dai dati elaborati da Rudolph Hirsch su un
significativo campione di incunaboli (cioè, come è noto, i libri editi
dall’invenzione della stampa sino al 1° gennaio 1501) risulta che circa la
metà, il 44, 49%, dell’intera produzione editoriale era di opere riguardanti le
pratiche religiose e l’attività liturgica; seguivano i classici, i libri di
filosofia e di letteratura con il 36,07%, i testi di diritto con il 10,93%,
quelli scientifici con l’8,51%, la poesia col 4,30, il teatro, le orazioni, le
lettere col 4,12%, i romanzi e le novelle col 3,81%, la storia, le biografie,
le vite dei santi col 3,36%, la magia e l’occultismo con lo 0,88%. La
prevalenza del latino rispetto alle lingue volgari era ovviamente assoluta con
il 77,42: seguivano l’italiano con il 7,39%, il tedesco con il 5,82%, il
francese con il 4,56%, l’olandese e il fiammingo con il 2%, il castigliano con
l’1,27% e infine l’inglese con lo 0,66%[21].
Si capisce quindi la posizione per certi versi
defilata dell’incunabolo universitario. La didattica negli Studi europei
prescindeva da un manuale così come noi oggi lo concepiamo: il professore
dettava le lezioni che costituivano l’oggetto del corso e che avevano lo scopo
di illustrare, spiegare e commentare le auctoritates,
i padri e i dottori della Chiesa in teologia, le istituzioni, il Digesto e i
Canoni in diritto, Galeno e Ippocrate in medicina. Gli studenti trascrivevano
le lezioni, che costituivano la base su cui sostenere l’esame. L’oralità e la
scrittura resteranno a lungo la quintessenza dell’insegnamento universitario.
Il libro a stampa era – e lo sarà a lungo – un’integrazione, uno strumento
ausiliario, insomma un optional. È impensabile che uno studente della Sorbona
potesse acquistare le opere di Tommaso d’Aquino, o uno studente bolognese
svenarsi per comprare i vari tomi del Corpus iuris
giustinianeo. Eppure, nonostante tutto, il libro circolava dentro le
università: fra le mani dei professori più colti e curiosi che avevano
desiderio di aggiornarsi o di confrontare le proprie teorie; fra quelle degli
studenti più ricchi che spesso acquistavano i volumi in vista di una futura,
redditizia attività professionale; fra quelle degli studenti più poveri che copiavano
i testi o si facevano dare in prestito le opere cui erano interessati. I dati
sull’editoria del secondo Quattrocento vanno però presi con beneficio
d’inventario, considerando anche e soprattutto la fruibilità e l’utenza
extrauniversitaria del libro filosofico, teologico, giuridico e medico[22].
Jules Michelet osservava con una punta di ironia
che la stampa aveva contribuito a far sopravvivere in forma rinnovata molte opere
già condannate all’oblio[23]. In effetti molti
testi della tradizione medievale vengono pubblicati in numerose edizioni nella
seconda metà del XV secolo: segno, da un lato, della non sempre facile
affermazione della cultura umanistica, e dall’altro del radicato
conservatorismo delle scuole e delle università. Fra questi, oltre le
grammatiche (Ars minor e Ars maior) e i commenti letterari di
Elio Donato, stampati in ben 364 edizioni, spiccano i Disticha Catonis, cioè la collezione di sentenze morali a coppie di
esametri di paternità e origine assai incerta, forse del II secolo d.C.,
attribuite a Catone (una delle auctoritates
dei corsi di retorica medievali), pubblicate in 262 edizioni[24]. Anche le Auctoritates Aristotelis et aliorum
philosophorum, un’antologia di scritti filosofici adottata nelle facoltà di
arti, ebbe 32 edizioni, in corsi di taglio dichiaratamente aristotelico – le
opere dello Stagirita contano 169 edizioni – e non platonico (solo 7 edizioni)[25]. In questa
prospettiva il Canone di
Avicenna, utilizzato pure nei corsi di medicina, conobbe 14 edizioni[26].
Accanto alle eredità del passato vi sono però
anche le novità, come le grammatiche latine di derivazione umanistica, i Rudimenta grammatices di Niccolò Perotti
edite a Roma nel 1475 e nel 1476, fortunatissima grammatica in cui per la prima
volta sono presentate insieme morfologia e sintassi del verbo, con una
sessantina di edizioni incunabole, le Cornucopiae
(postuma del 1489), un vastissimo repertorio filologico e grammaticale del
latino, con almeno ventritrè edizioni sino al 1536, gli Elegantiarum linguae latinae libri sex (1435-44), di Lorenzo Valla,
con 26 edizioni, un lavoro monumentale che tende a ripristinare la «vera»
lingua latina di Cicerone e di Quintiliano, al di là delle degenerazioni medievali
e delle impurità dei primi umanisti, il Dialogus
parvulis scholaribus ad idioma latinum perutilissimum di Paul Schneevogel
(Paulus Niavis), pubblicato nel 1489 che ebbe 17 edizioni, il Modus latinitatis di Ulrich Ebrard
(Ebrardus), 25 edizioni, le Elegantiolae
dell’umanista senese Agostino Dati, che con le 107 edizioni ebbero un successo
superiore a quello di qualsiasi altro manuale scolastico italiano del
Quattrocento e, infine, le Introductiones Latinae
dello spagnolo Elio Antonio de Nebrija (Nebrissenses) con 10 edizioni[27]. Nebrija è inoltre
autore della Gramática de la lengua
castellana (1492), la prima di una lingua moderna europea ad essere
pubblicata. «A che serve?», chiese
I condizionamenti del passato sono più evidenti
nella riedizione dei testi adoperati nei corsi della facoltà di teologia. Fra
questi si distinguono le opere dei padri della Chiesa in latino: innanzitutto
Sant’Agostino, con 186 edizioni, San Gerolamo, con 81 edizioni, Gregorio Magno,
con 68 edizioni, San Giovanni Crisostomo, con 31, Sant’Ambrogio con 14, e via
dicendo[31]. Le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, uno
dei classici dell’enciclopedismo medievale, con le loro 36 edizioni
continuarono ad essere apprezzate anche nel mondo rinascimentale. Fortuna
editoriale simile a quella del De
consolatione philosophiae di Severino Boezio che ebbe 72 edizioni[32]. Tra i dottori della
Scolastica, le opere di Tommaso d’Aquino ebbero 195 edizioni, quelle di Alberto
Magno ben 202, fra cui 19 del Compendium
theologicae veritatis, quelle di Giovanni Duns Scoto 27, quelle di
Guglielmo di Ockham 15, quelle di Pietro Ispano (futuro papa Giovanni XXI), fra
cui le Summolae logicales, 39
edizioni[33]. I Quatuor libri sententiarum di Pier
Lombardo (dopo la Bibbia il testo più utilizzato nei corsi teologici) ebbero
solo 17 edizioni, segno della notevole, persistente vitalità del libro
manoscritto[34]. Fra gli altri
teologi, gli scritti di Anselmo di Canterbury (Anselmus Cantuarensis) ebbero 13
edizioni, quelli di Bernardo di Chiaravalle 43 (oltre le 129 edizioni dello
Pseudo Bernardo), il De miseria
conditionis humanae di Lotario di Segni (papa Innocenzo III) 13 edizioni,
le opere di Bonaventura da Bagnoregio 64 edizioni. Dei teologi del XV secolo i
tipografi pubblicarono soprattutto gli scritti di Jean Gerson (1363-1429), in
particolare il suo De consolatione
theologiae (1418), con 110 edizioni, di Tommaso da Kempis (1379/80 – 1471)
con le 55 edizioni del De imitatione
Christi, e di Gabriel Biel (1410 circa - 1495), l’«ultimo scolastico», con
11 edizioni[35].
Diverso è il caso dei libri di diritto, i cui
acquirenti universitari, docenti e studenti, erano in genere più ricchi dei
loro colleghi di teologia e medicina, ma il cui mercato non si limitava alle
aule degli Studi ma guardava soprattutto alle istituzioni di governo, alle
curie ecclesiastiche, alle rote e ai tribunali e a un pubblico di magistrati,
burocrati, avvocati, notai. Troneggia nel panorama editoriale quattrocentesco
il Corpus iuris civilis giustinianeo
con le sue ripartizioni, Institutiones,
Digestum (Digestum vetus, Infortiatum,
Digestum novum), Codex e Novellae, con ben 193 edizioni[36]. È uno dei primi
libri ad essere pubblicati: il 24 maggio 1468 Peter Schöffer terminava di
stampare a Magonza le Institutiones
Justiniani; si trattava di una perfetta imitazione del manoscritto
giuridico: il testo romanistico era riprodotto con un tipo di carattere maggiore
rispetto al commento che, come nelle glosse medievali, era composto invece in
un corpo più piccolo. Le Institutiones
vennero ristampate da Schöffer nel 1472 e nel 1476, cui seguirono il Codex nel 1475 e le Novellae nel 1477. Le Institutiones
vennero inoltre stampate da Heinrich Eggestein a Strasburgo nel
Fra i libri più stampati nella seconda metà del
Quattrocento figurano le opere dei commentatori civilisti e in particolare
quelle di Bartolo da Sassoferrato – le Lecturae
sul Codice, sul Digesto vecchio e su quello Nuovo, sull’Infortiato (della cui
attribuzione oggi si discute), le Questiones
disputatae, i trattati, i Consilia
e gli opuscoli vari – con 191 edizioni, soprattutto di area italiana (di cui ben
109 stampate a Venezia)[38]. A grande distanza
seguono gli altri giuristi, Baldo degli Ubaldi con 72 edizioni, Angelo degli
Ubaldi con 28 edizioni, Alberico da Rosciate con 8 edizioni[39]. Un certo rilievo
hanno le fonti di diritto canonico e, in particolare, le Decretales di Gregorio IX con 52 edizioni, il Sextus liber Decretalium di
Bonifacio VIII con 57 edizioni, le Clementine
di Clemente V con 40 edizioni, le Decisiones
della Rota Romana con 13 edizioni e il Decretum
Gratiani con 41[40].
Tra i canonisti si segnalano Giovanni d’Andrea
con 82 edizioni – tra cui ben 49 del trattato Super arboribus consanguinitatis et affinitatis e 15 della Summa de sponsalibus et matrimoniis –,
Guglielmo Durante con 55 edizioni, Paolo di Castro con 48, Giovanni Nicoletti
da Imola con 20, Antonio da Butrio con 14, Francesco Zabarella con 9, Enrico da
Susa (cardinale Ostiense) con 7[41].
Tra i giuristi della prima metà del XV secolo
figurano il canonista Niccolò Tedeschi (Panormitanus,
1386-1445), col suo Apparatus in
Clementinas, con ben 63 edizioni, il professore padovano Bartolomeo Cipolla
(1420-1475) con 29, il senese Mariano Sozzini senior (1397-1467) con 15,
l’aretino Angelo Gambiglioni (morto nel 1461), professore a Bologna e a
Ferrara, autore di uno dei più celebri trattati di diritto criminale, De maleficiis, con ben 44 edizioni. Il
nascente artigianato tipografico dedicava un’attenzione del tutto nuova alla
produzione dei giuristi viventi come Alessandro Tartagni (1423/24-1477), i cui
commentari al Digesto e i Consilia
ebbero 79 edizioni, Giason del Maino (1435-1519), la cui opera esegetica ebbe
33 edizioni, Felino Sandei (1444-1503), professore di diritto canonico a
Ferrara e a Pisa, giudice rotale e poi vescovo di Lucca, con 45 edizioni,
Francesco de Accolti (1418-1485), aretino, professore a Bologna, Ferrara e
Siena con 25 edizioni, Bartolomeo Sozzini (1436-1507), professore a Siena,
Ferrara, Padova, Pavia, Torino e Pisa, i cui commentari civilistici ebbero 19
edizioni e il giurista milanese Filippo Decio (1454-1535/36) con 2 edizioni[42].
Nell’ambito della medicina il numero delle
edizioni a stampa appare nettamente inferiore a quello dei testi teologici o
giuridici, segno di un mercato relativamente ristretto. Tra i “manuali”
utilizzati nelle università, le opere di Ippocrate godono di una scarsa
considerazione tra i tipografi quattrocenteschi, con 2 edizioni degli Aphorismi e 2 del De natura hominis, oltre ad alcuni scritti pseudo-ippocratici[43]. Anche gli scritti
di Galeno, a parte l’Opera pubblicata
a Venezia nel 1490 da Filippo Pinzi, sono inseriti nella collezione detta Articella (5 edizioni), che raccoglieva
i testi di medici greci e arabi. Il Fasciculus medicinae
di Giovanni di Ketham, assai apprezzato per le xilografie, fu stampato 4 volte
in latino, una in italiano a Venezia nel 1493 e una in castigliano a Saragozza[44]. Il De materia medica di Dioscoride (I sec.
d.C.) ebbe soltanto 2 edizioni: la prima in latino nel 1478, la seconda in
greco da Manuzio nel 1499[45]. Anche degli otto
libri del De medicina di Aulo
Cornelio Celso (I sec. d.C.), un’opera di riferimento per la trattazione della
dietetica, della patologia, della terapia e della chirurgia, si segnalano
soltanto 4 edizioni dal 1478 al 1497[46]. Assai scarse le
edizioni dei medici arabi Aliabate, Rhazes, Mesue, Averroè (un’edizione del De venenis), Isræli (Ishāq
al-Isrāili ben Salomon, con un’edizione del Tractatus de particularibus diaetis), mentre il Regimen sanitatis Salernitanum, l’opera
più nota della Scuola medica di Salerno, venne stampata, soprattutto fuori
dell’Italia, 16 volte[47]. Ovviamente del
patrimonio medico-scientifico rinascimentale faceva parte anche la Historia naturalis di Caio Plinio
Secondo, una sorta di enciclopedia delle scienze dell’antichità, stampata la
prima volta a Venezia nel 1469 da Giovanni da Spira e in altre 15 edizioni
successive in latino e
Il grande trattato in cinque libri Cyrurgia del piacentino Guglielmo da
Saliceto (1210-1276/80), che affrontava tutte le infermità del corpo e i loro
trattamenti, dall’idrocefalia infantile ai tumori, dai calcoli all’ernia, dalle
ferite alle contusioni, dalle fratture alle lussazioni, dopo la prima del 1476
ebbe 9 edizioni, anche in traduzione tedesca[49]. Un altro classico
della chirurgia medievale la Chirurgia
magna di Guy de Chauliac (1298 circa - 1367 circa), un’opera di natura
onnicomprensiva articolata in sette libri che procedono dalla teoria alla
pratica e dal generale al particolare e si concludono con un antidotario di 750
medicamenti, stampato la prima volta a Lione nel 1477 con illustrazioni
xilografiche, ebbe altre 8 edizioni in latino, italiano e spagnolo. I
“classici” della medicina medievale, come il Conciliator differentiarum ac praecipue medicorum o la Physiognomica, del professore e
astrologo padovano Pietro d’Abano (1250 circa - 1315) con 17 edizioni, le
opere, fra cui la Practica medicine
di Arnaldo da Villanova (1240-1311 circa), con 28 edizioni, furono pubblicate
nel corso del XV secolo insieme alla produzione scientifica dei contemporanei,
come Bartolomeo da Montagnana docente nello Studio padovano (3 edizioni),
Pietro di Argellata, professore di medicina a Bologna (morto nel 1423), con
Henry-Jean Martin ha forse sopravvalutato
l’impatto della stampa sul mondo universitario, ritenendo che la presenza o la
creazione di un’università provocasse «quasi subito l’apparizione di un centro
tipografico». In realtà il rapporto è molto più complesso: se l’affermazione
dello storico francese si adatta assai bene per Parigi, dove i laboratori
tipografici nacquero e si svilupparono «per la clientela di clercs che frequentavano l’università»,
diventando ben presto un centro editoriale a livello europeo, o per altre
«grandi città universitarie», come ad esempio Colonia, risulta indubbiamente
più problematica per la realtà italiana[51].
Il primo libro stampato in Francia (1470) è un
manuale per l’insegnamento, le Epistolae
di Gasparino Barsizza, un testo che aveva lo scopo di offrire agli studenti un
modello di buona latinità. L’opera, edita a Parigi con la modesta tiratura di
un centinaio di copie, era rivolta soprattutto alla ristretta cerchia del mondo
universitario. Il testo era stato stampato per impulso di una società
editoriale di tipografi tedeschi, di cui facevano parte Guillaume Fichet e Jean
Heynlin, docenti del Collegio della Sorbona, nel quale avevano ricoperto le
cariche di priore e di bibliotecario[52]. L’iniziativa era
nata per contrastare il monopolio dei testi classici tenuto saldamente in mano
da Fust e da Schöffer, tramite il loro rappresentante francese Hermann da
Staboen. Tra il 1470 e il 1473 la società pubblicò una trentina di opere, soprattutto classici latini e le
grammatiche di Valla e di Dati. Non a caso a Parigi le prime tipografie e le
botteghe dei librai si stabilirono in rue Saint-Jacques, nel Quartiere latino,
nei pressi della Sorbona, quasi a dimostrare il forte legame tra l’editoria e
il mondo degli studi.
Se le tipografie parigine erano prevalentemente
impegnate nella stampa di opere di teologia, retorica e humanitates, le botteghe artigiane di Lione, città priva di
università, si specializzarono nella pubblicazione di testi giuridici e medici,
destinati al commercio internazionale e al mercato universitario europeo. Nel
1475 Guillaume Le Roy, il primo tipografo lionese, pubblicava le Cautelae di Bartolomeo Cipolla, mentre
era ancora vivo l’autore, docente di diritto nello Studio padovano. Tra il 1478
e il 1482 Barthélemy Buyer realizzò la titanica impresa di stampare, per la
prima volta insieme, in otto volumi in folio, i commentari di Bartolo da
Sassoferrato al Corpus iuris civilis:
impresa che costituisce il vero punto di avvio delle edizioni giuridiche
lionesi. In questo ambito lo stampatore-libraio Johannes Syber svolse, tra il
1481 e il 1498, un ruolo di primo piano nella pubblicazione e nella
commercializzazione delle grandi opere giuridiche, dal Corpus iuris civilis al Corpus iuris
canonici ed ai testi dei glossatori e ai trattati dei commentatori. Anche
nell’editoria medica le tipografie lionesi svolsero un ruolo importante con la
pubblicazione di testi classici in latino – come l’Opera medicinalia
dell’arabo Mesue, le Pandectae medicinae
di Matteo Silvatico da Salerno, il Canone
di Avicenna con i commenti del medico francese Jacques Despars – o di
traduzioni in francese come Le Guidon
(1478), versione in volgare della Chirurgia
di Guy de Chauliac, o la Pratique ou
Fleur de lye en médicine (1495) di Bernard de Gordon, professore di
Montpellier[53].
A differenza dell’editoria universitaria francese
quella spagnola non si cimentò, nel XV secolo, nella stampa a fini didattici
delle grandi opere di diritto e di medicina. Predominano, soprattutto nella
fase iniziale di diffusione delle tipografie, gli incunaboli (in tutto 856) di
argomento religioso o linguistico, come le Introductiones latinae
o
A Valencia, sede di un’antica e importante
università, tra i libri pubblicati fra il 1473 e il 1506 prevalgono nettamente
quelli di argomento religioso, con ben il 50,46% dell’intera produzione, di
tema letterario, con l’11,65%, e filologico, con il 10,67%, su quelli di
filosofia, 5,79%, di diritto, 4,85%, e di medicina, 1,94%[55]. Fra le edizioni
valenzane di ambito universitario si distinguono alcune opere di Aristotele
stampate nel 1473 dal tedesco Jakob Vizlant e la Tertia pars summae di Tommaso d’Aquino edita nel 1477 da Lambert Palmart.
Tra il 1477 e il 1478 una società costituita da Vizlant, Palmart e dal
tipografo spagnolo Alonso Fernández de Cordoba pubblicò
A Barcellona, città mercantile e marittima, la
produzione editoriale si concentra soprattutto su grammatiche, dizionari,
messali, libri liturgici, ma anche su opere legate in qualche modo agli studi,
come la Metaphisica (1473) di
Bonetus o la bella edizione in folio di
246 carte, con la traduzione latina di Leonardo Aretino, della Ethica ad Nicomachum. Politica. Oeconomica
(1473) di Aristotele, stampata da una società formata da Enrique Botel con due
tipografi tedeschi[57]. Il libro giuridico
è destinato a una clientela di avvocati, magistrati, ufficiali regi e notai
come ad esempio le due opere di Andrea Barbazza, Super titulos de testamentis e Repetitio super titulo de testamentis,
edite rispettivamente nel 1492 e nel 1493, il Consolat de Mar (1494), curato da Pere Posa, e le Constitucions de Catalunya (1495)[58]. Tra le altre
edizioni delle “leggi patrie” si segnalano Las
siete partidas di Alfonso X el Sabio, edite a Siviglia nel 1491 col
commento di Alfonso Díaz de Montalvo, autore fra l’altro del Repertorium quaestionum super Nicolaum de
Tudeschis, pubblicato sempre a Siviglia nel 1477, le Ordenanzas reales de Castilla, raccolte e commentate dallo stesso
Díaz de Montalvo in un’edizione sivigliana del 1485[59].
Anche nei paesi di lingua tedesca il rapporto tra
produzione editoriale e mondo universitario è assai stretto. A Magonza, la
«culla» della stampa a caratteri mobili, dove nel 1476 venne istituita
l’università, Schöffer, nella doppia veste di stampatore e di editore, investì
ingenti capitali nella propria azienda, guardando non soltanto al mercato
locale ma commercializzando opere di medicina, di diritto, testi classici
destinati al mondo degli studi: l’imprenditore tedesco vendeva libri a Lubecca
e ad Angers, partecipava con la propria produzione alle fiere di Lipsia e di
Francoforte, aprì una bottega a Parigi. Suo figlio Johann, subentrato al padre
nel 1503, divenne una sorta di stampatore non ufficiale dell’università,
pubblicando soprattutto classici latini, incarico che durò sino alla sua morte
(1531). A Colonia, sede di una rinomata università fondata nel 1388 e di una
delle più antiche facoltà di teologia europee, erano attive nel XV secolo ben
29 tipografie. Si calcola che tra il 1464, anno in cui Ulrich Zell impiantò la
prima stamperia, e la fine del secolo venissero pubblicati nella città renana
circa milletrecento titoli. Quasi tutti i libri apparsi a Colonia erano opere
di teologia, di cui la buona metà testi della tradizione tomista e albertiana.
Nel 1474 un breve di Sisto IV affidava alla facoltà teologica la sorveglianza
sulla produzione editoriale e la censura sulla stampa: alcuni incunaboli recano
la scritta «in alma universitate Coloniensi» (cioè pubblicazione autorizzata
dell’Università di Colonia).
La stampa arrivò a Basilea nel 1467, sette anni
dopo l’istituzione dell’università, con un allievo diretto di Gutenberg,
Berthold Ruppel, che pubblicò l’editio princeps dei Moralia super Iob di Gregorio Magno, il più popolare commento di un
libro della Bibbia. In pochi anni la stampa divenne una delle attività
artigianali più rinomate della città svizzera che, grazie alle tipografie di
Johann Amerbach (1443-1513) e di Johannes Froben (1460-1527), acquisì una
rilevanza europea nella pubblicazione dei testi umanistici e delle edizioni
critiche delle opere dei padri della Chiesa[60]. Si calcola che le
tipografie attive nell’area germanica nella seconda metà del XV secolo siano
state intorno alle 1.200, distribuite in circa 200 città: fra queste, numerose
sono le sedi universitarie, fra le quali Erfurt
in Sassonia, il cui Studio era stato istituito nel 1392, e dove la
stampa fu introdotta nel 1482 da Paul Wider; Heidelberg nel Palatinato, con la
sua autorevole università (1386) specializzata nei corsi di diritto e medicina,
dove la tipografia iniziò ad essere attiva dal 1492; Treviri in Renania, col
suo Studio del 1453, conobbe la stampa nel 1481; Ingolstadt, università
bavarese (1472), con la tipografia attiva dal 1482; l’Università di Tubinga
(1476) nel Wüttenberg con la bottega di Johann Otmar (1498); lo Studio di
Rostock, città della Lega Anseatica, con la tipografia del convento di San Michele
(1476); l’Università di Friburgo (1455) in Brisgovia con le stamperie di
Friedrich Riederer (1493) e di Killian Fischer (1494); infine l’Università di
Lipsia (1409), uno dei centri culturali più importanti d’Europa, poteva diporre
di diverse tipografie e godeva i vantaggi delle fiere che si svolgevano in
città e costituivano un importante mercato librario[61]. Le nuove sedi
universitarie permisero agli studenti di non agiate condizioni economiche di
studiare più vicino alle loro città, tanto che la popolazione studentesca passò
da meno di un migliaio agli inizi del XV secolo a più di quattromila nel 1520.
Un discorso a parte merita Norimberga, città
priva di università, che svolse un «ruolo di guida» nel commercio del libro e
delle stampe: era infatti la sede della «più grande impresa capitalistica del
Quattro-Cinquecento nel settore editoriale», la tipografia di Anton Koberger
(1455-1513), stampatore, editore, libraio, che disponeva di ventiquattro torchi
e di oltre cento dipendenti, compositori, correttori, impressori, illuminatori,
legatori. Il suo catalogo, relativo agli anni 1473-1513, elencava circa
duecento titoli di diverso argomento, per lo più grandi volumi in folio[62].
Già nell’ottavo decennio del XV secolo l’Italia
superava di gran lunga la Germania per il numero di città o di piccoli centri
dotati di tipografia. Nel quindicennio 1464-1480 sui 52 laboratori tipografici
sorti in Italia 9 nascono in città dotate di università: nel
Si è calcolato, ovviamente con larga
approssimazione, che intorno al 1450 circolassero in Europa
duecento-trecentomila codici manoscritti, frutto del lavoro dei copisti e
dell’attività degli scriptoria
ecclesiastici e laici che avevano operato per circa otto secoli. Cinquant’anni
dopo, nel 1500, dovevano essere stati pubblicati nelle varie città europee tra
i dieci e i venti milioni di libri a stampa. Pur considerando che nella storia
delle idee i numeri hanno sempre un valore relativo, tenendo conto che sono
state censite 26.783 edizioni di incunaboli (secondo alcuni sarebbero circa
35.000), suddivisi in 10.511 editi nelle regioni dell’Impero, 10.514 nelle
città italiane,
Lo Studium
Urbis di Roma, ristrutturato nel 1432-35 da papa Eugenio IV, non era, a
differenza di Parigi, Bologna e Padova, un’università capace di accogliere
masse di studenti. Roma non era una città
universitaria e il suo Studio esercitava di fatto un’attrazione a
livello non più che regionale e costituiva, quindi, un mercato assai limitato
per i testi stampati[66]. Già nel marzo del
1472 Sweynheym e Pannaratz si rivolgevano a Sisto IV per chiedere aiuto,
dichiarando di avere la bottega carica di una mole immensa di libri e di essere
al tempo stesso sprovvisti dei mezzi per vivere. La supplica elencava 28 titoli
con una tiratura media di 644 esemplari per i libri di argomento religioso e di
351 per quelli di argomento profano, ad eccezione delle 1.100 copie delle Epistolae di San Gerolamo e della Postilla super totam Bibliam di Nicolò
da Lyra. In sostanza, in soli otto anni, i due artigiani tedeschi avrebbero
prodotto dai loro torchi oltre dodicimila libri[67]. Sui 1.825 titoli
pubblicati a Roma tra il 1467 e il 1500, dedicati in gran parte agli autori
latini classici e cristiani, ai padri e ai dottori della Chiesa, al diritto
civile e a quello canonico, alle guide per i pellegrini, ai provvedimenti
normativi del governo pontificio, il libro universitario occupava una posizione
per certi aspetti marginale[68]. Ebbero comunque un
certo successo le grammatiche latine per le scuole inferiori e, in particolare,
i Rudimenta del Perotti che in un
ventennio, dal 1473 al 1493, furono stampati 13 volte, per i tempi un vero e
proprio best seller. Alcune
edizioni avevano una precisa destinazione scolastica, come il De lingua latina di Varrone, le Comoediae di Terenzio curate da Angelo
Sabino, i Dialoghi di Luciano, le Vitae et sententiae philosophorum di
Diogene Laerzio curate da Francesco Elio Marchese su sollecitazione di Pomponio
Leto e, infine, i Punica di Silio
Italico, di cui ci sono pervenuti tre esemplari con gli appunti presi dagli
studenti del corso su Silio tenuto allo Studio romano nel 1473 da Domizio
Calderoni. I tipografi tedeschi Sachsel e Golsh si servirono per le loro
edizioni di classici della collaborazione dei maestri dello Studio, Sabino che
curò le Historiae di Ammiano
Marcellino e compose i Paradoxa in
Iuvenalem, pubblicati entrambi nel 1474, Calderini che scrisse i Commentarii in Ibin Ovidii, finiti di
stampare nel settembre dello stesso anno. Ma la virulenta polemica filologica
sui criteri editoriali sorta tra i due curatori portò i tipografi a modificare
i loro programmi[69].
Nell’ambito dell’editoria universitaria rientrano
anche le tre edizioni delle Institutiones
di Giustiniano con le glosse di Accursio: una pubblicata nell’aprile del 1473
da Ulrich Hahn, grazie al finanziamento e all’impegno commerciale del mercante
lucchese Simone Cardella, una nel novembre dello stesso anno da due chierici
tedeschi Georg Lauer e Leonhard Pflugl, e la terza, nel 1475, di nuovo da Hahn.
E, ancora, il Digestum Infortiatum,
curato dall’avvocato concistoriale Coronato da Planca, stampato nell’aprile del
1475 da Vitus Puecher, anch’egli ex chierico di Frisinga[70]. Si trattava di
quelli che a ragione Petrucci ha definito «libri da banco», le cui
caratteristiche principali erano il grande formato in folio, la disposizione del
testo su due colonne con ampi margini esterni ed inferiori necessari per le
annotazioni, l’uso dei caratteri gotici per la fonte romanistica e dei
caratteri romani per le glosse. Insomma, la riproposizione tipografica di «un
modello di codice nato in ambiente universitario fra XII e XIII secolo e
sopravvissuto nello stesso ambiente sino a tutto il Quattrocento»[71]. L’Infortiatum
stampato da Puecher era un’edizione di pregio, un lussuoso volume decorato da
preziosi capilettera e illustrato da raffinate miniature, che si rivolgeva
soprattutto al ricco mercato degli ambienti curiali e prelatizi.
Ancora più sfumata che a Roma appare la presenza
del libro universitario a Napoli, dove lo Studio, che era rimasto chiuso per un
decennio, venne riattivato nel 1465 con un’apertura alla cultura umanistica,
con l’inserimento di cattedre di humanitates,
oltre che con la riorganizzazione dei corsi di diritto necessari per la
formazione dei magistrati e dei burocrati del Regno. Le premesse per lo
sviluppo della stampa c’erano tutte. Non a caso il primo libro stampato nella
città partenopea nel 1471 dal tipografo strasburghese Sixtus Riessinger è la Lectura super Codicem di Bartolo.
Secondo le stime di Marco Santoro, dei 153 incunaboli pubblicati a Napoli dal
1470 al 1479 ben 37 (cioè il 24,1%) sono di diritto; seguono le opere
letterarie, 36 (23,5%), quelle religiose, 30 (19,7%), la trattatistica con 29
titoli (18,9%), la medicina e la botanica con 10 (6,6%). Nel 1473 il “legum
studens” Francesco Del Tuppo, colto umanista e segretario del re Ferrante
d’Aragona, fondava a proprie spese, con maestranze tedesche e olandesi, una
tipografia, cui si devono pubblicazioni di grande raffinatezza quali La commedia (1473 circa) dantesca, i Capitula, leges et constitutiones Regni
Neapolitani (1485-92?) e le Fabulae
(1493) di Esopo tradotte in volgare dallo stesso editore[72].
Ma è soprattutto a Bologna che si consuma la
grande battaglia tra il libro universitario a stampa e il libro manoscritto.
L’arte tipografica venne introdotta nella città emiliana da una società «per la
stampa dei libri» costituita nel 1470 tra un professore dello Studio, non a
caso di materie non giuridiche, il parmigiano Francesco Dal Pozzo (Puteolano),
docente di retorica, un dottore in medicina e arti, Annibale Malpigli, e un
ricco imprenditore, il «banchista» Baldassarre Azzoguidi. La società prevedeva
per i soci compiti differenziati: Puteolano svolgeva al tempo stesso un ruolo
di editor e di promoter, impegnandosi a reperire l’exemplar da stampare, a
revisionarlo, a correggere le bozze e, nel contempo, a curare la promozione
delle vendite, adottando o facendo adottare i testi all’università; Malpigli e
Azzoguidi seguivano tutte le fasi del lavoro tipografico e si occupavano degli
aspetti finanziari. I primi libri pubblicati nel 1471-72 dalla società erano
classici e testi di edificazione religiosa: l’editio princeps
dell’Opera di Ovidio, frutto di intense fatiche filologiche ed erudite
del Puteolano, «nuper a me recognita impressaque», come scriveva nella dedica
al cardinal legato Francesco Gonzaga a proposito del suo apporto scientifico,
le Epistolae di Falaride tradotte in
latino da Francesco Aretino, il De metris
di Nicolò Perotti, l’editio princeps della Bibliotheca historica di Diodoro Siculo e tre edizioni dei Confessionali di Sant’Antonino in
volgare[73].
La potente corporazione del manoscritto guardava
intanto con diffidenza i nuovi procedimenti a stampa destinati a semplificare
la produzione dei testi didattici. Il primo libro giuridico venne stampato a
Bologna nel 1472, auspice lo stesso Puteolano – che sino al suo trasferimento a
Milano nel 1475 fu uno dei protagonisti della vita culturale bolognese –, il
quale suggerì al notaio Antonio delle Tuate di farsi editore della Lectura super secunda parte Digesti veteris
di Alessandro Taragni, giurista di fama e professore di diritto all’università,
utilizzando per l’intrapresa il tipografo torinese Andrea Portilia, fatto
venire apposta da Parma, sua città natale[74]. Si trattava
ancora, però, di una pubblicazione nata al di fuori del monopolio degli
stazionari. È probabile che il successo editoriale del Tartagni abbia iniziato
ad incrinare le resistenze corporative dell’artigianato manoscritto e del
commercio delle pecie. È
significativo, ad esempio, che nell’autunno del 1473 Lazzaro della Penna,
bidello generale dello Studio bolognese – che controllava l’affitto dei
manoscritti didattici – costituisse una società con due studenti in legge
siciliani, Francesco de Vincentio e Onofrio de Advena, per la pubblicazione di
440 copie del primo dizionario giuridico dell’età umanistica, il Repertorium utriusque iuris del
giureconsulto veneziano Piero da Monte (morirà nel 1475), incaricando del
lavoro il tipografo Portilia. Poco dopo i soci si impegnavano a versare per
«mercede, stipendio et salario» 120 ducati d’oro e un esemplare dell’opera a
stampa al dottore civilista bolognese Petronio de Zoni per la cura e la
correzione del testo. L’impresa, però, era nata sotto una cattiva stella: il
lavoro editoriale andò avanti con lentezza per l’inesperienza dei tipografi
nella stampa di un’opera particolarmente complessa a causa della vastissima
serie di allegazioni legali comprese nel Repertorium;
i costi inevitabilmente lievitarono creando dissapori e litigi. Si decise
pertanto di ricorrere a nuovi soci e a nuovi curatori. Dopo la pubblicazione
nel settembre del 1474 del primo volume, de Zoni fu sostituito nel lavoro di
revisione da due studenti del Collegio di Spagna, Pedro de Lodeña, baccelliere
in diritto canonico a Salamanca, e Francisco de Huesca chierico della diocesi
di Siviglia. Finalmente nell’autunno del 1475, dopo rinnovati litigi, cambio
delle maestranze tipografiche (Portilia fu sostituito con Stefano Merlini da
Lecco), ulteriore ingresso di nuovi soci, i tre volumi del Repertorium risultavano stampati[75].
Questa vicenda mette in evidenza un intreccio di interessi economici e un
complesso di rapporti col mondo universitario che coinvolge non soltanto
un’importante figura amministrativa dello Studio, come il bidello generale, ma
anche docenti e allievi che entravano nel vivo dell’affare, seguendo
direttamente la pubblicazione con le proprie competenze filologiche e erudite
nella cura, nella revisione e nella correzione del testo, all’interno di
un’operazione che aveva come principale obiettivo la diffusione dei libri
tipografici presso gli studenti[76]. In effetti il
libro a stampa iniziò gradualmente a sostituire le pecie manoscritte
anche negli affollati corsi di diritto: nel 1474 Azzoguidi con una nuova
società pubblicava la prima parte dello Speculum
judiciale di Guglielmo Durante; nel 1476 Puteolano e Malpigli, in
società con l’intraprendente libraio Sigismondo de’ Libri, facevano stampare la
Repetitio capituli cum contingant de iure
iurando di Giovanni Nicoletti da Imola.
Quando Sigismondo morì, nel 1484, venne redatto
un inventario del suo magazzino librario bolognese: nella bottega erano
presenti più di 400 volumi a stampa e 45 manoscritti – ulteriore testimonianza
di come il libro a stampa continuasse a convivere, seppur su posizioni di
forza, con quello manoscritto –, per lo più testi giuridici, presenti in una
sola copia, e 20 copie della grammatica latina del Perotti. Nel piano superiore
erano conservate le opere destinate ai corsi universitari di diritto e al
pubblico dei giureconsulti: fra cui 422 copie dell’edizione della Lectura super VI parte Codicis di Baldo
degli Ubaldi, stampata nel 1477 da Domenico de’ Lapi a spese di Sigismondo, 172
copie della Repetitio di Giovanni da
Imola, e 150 copie di un’opera medica, il De
conservatione sanitatis di Benedetto da Nursia, tutte fatte pubblicare dal
libraio bolognese. In tutto ben 1.605 volumi. In un altro locale erano
ammassate 659 copie di varie edizioni «in charta magna», edite anch’esse da
Sigismondo. Il numero totale dei libri a stampa immagazzinati era di 2.664, una
cifra rilevante che dimostra come il commercio librario non si limitasse alle
vendite al dettaglio effettuate nella bottega sottostante, ma rientrasse in una
rete di distribuzione che andava ben al di là delle mura cittadine[77].
La pubblicazione di testi e manuali giuridici
sarebbe stata d’ora in poi inarrestabile. La quota più consistente delle
edizioni bolognesi del XV secolo (oltre cinquecento titoli) riguarda
soprattutto l’ambito del diritto ed è superiore a un quarto del totale. I libri
di argomento scientifico, in prevalenza di autori contemporanei, sono circa il
22%, anche se sono compresi i numerosi Pronostici
redatti dai docenti di astrologia. Scarsissimi i libri devozionali o liturgici.
La battaglia contro il manoscritto era in gran parte vinta, anche se summae e appunti delle lezioni
continuarono a circolare a lungo nelle aule bolognesi[78]. Non a torto nel
1486 il tipografo-editore Ugo Ruggeri poteva presentare con orgoglio il volume
del professore di diritto Ludovico Bolognini (1447 circa-1508), Syllogianthon decretorum, sottolineando
che si trattava di una pubblicazione importante, frutto della sua abilità
professionale («editus arte mea»), e rivolgersi direttamente al pubblico
universitario e non («Doctoribus et scolaribus, notariis et Secularibus
Ecclesiasticisque professoribus omnibus») per invitarlo ad acquistare e a far
conoscere il libro.
Diverso è il caso dello Studio di Perugia, dove
la stampa si affermò grazie ad una società di cui faceva parte il dottore
Matteo degli Ubaldi, esponente di una famiglia di giuristi che da circa un
secolo controllava i corsi universitari di diritto, e che godeva dell’appoggio
e del sostegno finanziario del signore della città, Braccio Baglioni. Il libro
a stampa venne così introdotto nell’ateneo perugino attraverso le vie
“ufficiali”, cioè tramite un forte legame garantito dalla presenza di un membro
autorevole dell’istituzione. L’obiettivo era quello di pubblicare i trattati
dei commentatori civilisti della scuola perugina per uso degli studenti
dell’università. Vennero chiamati due tipografi tedeschi, Petrus di Colonia e
Johannes di Bamberga, che grazie a una società costituita nell’aprile del 1471,
poterono stampare tre opere giuridiche: la Lectura
super VI parte Codicis di Baldo degli Ubaldi, la Lectura super I et II parte Digesti Veteris di Bartolo da
Sassoferrato e la Lectura super titulo de
appellationibus et nullitatibus sententiarum di Filippo Franchi. La
società, che rimase in vita 16 mesi, dovette affrontare lo spinoso problema
della commercializzazione dei tre volumi in folio, giacché l’ambiente
universitario locale non era in grado di assorbire tutte le eccedenze. Il libro
perugino ebbe comunque una discreta circolazione in altre città universitarie,
come Bologna, Pisa, Ferrara, Padova, Siena, Roma e Napoli[79]. Tra Padova e
Perugia, ad esempio, si era stabilito un canale per la commercializzazione dei
libri fin dal 1475-76, che legava Giovanni de Trimonia, bidello dello Studio
padovano, agli stampatori perugini[80].
Come avveniva spesso in quegli anni le società si
scioglievano quando avevano raggiunto lo scopo per cui si erano costituite –
cioè la pubblicazione dei volumi – e si ricostituivano con nuovi soci e con
nuovi capitali: i due artigiani tedeschi in un rinnovato sodalizio col Baglioni
e con altri cittadini di Perugia stamparono altre opere giuridiche, tra cui Circa materiam statutorum (Regulae generales
statutorum. Contrarietates Bartoli)[81] di Baldo, la Lectura super quinque libros Decretalium
(1473) di Niccolò Tedeschi, lo Speculum
iudiciale di Guglielmo Durante, la Repetitio
super materia irregularitatis di Mariano Sozzini e, in seguito, la Grammatica latina di Giovanni
Sulpizio Verulano. Nella seconda metà degli anni settanta sono sempre i
tipografi tedeschi a gestire in regime di semi-monopolio la stampa perugina:
Heinrich Kleyn di Ulm e Johannes Wydenast stamparono il commento Super II parte Infortiati di Bartolo
(1474-75) e, insieme al sassone Jakob Langenbeke, professore di teologia alla Sapienza vecchia, progettarono di
pubblicare l’editio princeps del Corpus Iuris Civilis, ma l’ambiziosa impresa fallì con numerosi
strascichi legali: vennero solo stampati la prima parte della Pandette e il Digestum Vetus cum glossa (aprile 1476), a cui si
aggiunse la Lectura in sextum codicis
di Pier Filippo della Corgna, professore perugino[82]. Anche alla fine
del secolo il rapporto tra Studio e attività tipografica continuò a restare
assai stretto: lo stampatore perugino Francesco Calzolari, esponente di una famiglia
che aveva fatto fortuna col commercio della carta, iniziò nel 1500 un’attività
in proprio, pubblicando la Lectura super
II parte Infortiati di Angelo Perigli, professore nell’università locale[83].
Nel 1472 Lorenzo de’ Medici decise il
trasferimento dello Studio generale da Firenze a Pisa, dove già dall’anno
successivo vennero attivati i corsi di diritto, teologia e medicina. A Firenze
rimasero i corsi propedeutici di retorica e di poetica e quelli di lingua e
filologia greca[84]. La stampa era
giunta nella città toscana relativamente tardi, nel 1471: operavano soltanto
due tipografi, rispetto alla dozzina attiva a Venezia nello stesso anno. Questo
ritardo era in gran parte dovuto alla diffidenza dei Medici e dei circoli
umanisti verso le prime imprese tipografiche tedesche: «bibliofili raffinati ed
esigenti – ha scritto Roberto Ridolfi –, certamente inorridirono davanti a
quelle rozze meccaniche riproduzioni: l’industriosa trovata di barbari
oltremontani dovette parere loro non arte, ma il rinnegamento, la rovina
dell’arte»[85]. D’altra parte
negli stessi anni anche il duca di Urbino, Federico da Montefeltro, detestava i
libri tipografici: secondo la testimonianza del libraio Vespasiano da Bisticci
nella sua biblioteca «non ce n’era ignuno a stampa, ché se ne sarebbe
vergognato»[86]. Sin dal principio,
quindi, dall’Opera virgiliana stampata nel 1471 da Bernardo Cennini alla
Commedia dantesca col commento di
Cristoforo Landino e le incisioni di Sandro Botticelli, edita da Niccolò
Tedesco nel 1481, la produzione libraria fiorentina si orientò sul versante
letterario e su quello umanistico[87]. Una delle poche
eccezioni è il De medicina di Aulo
Cornelio Celso, edito a Firenze nel 1478 per i tipi dei Giunta, uno dei primi
trattati medici ad essere stampati in Italia.
L’editoria universitaria venne relegata a Pisa,
sede dello Studio, dove il primo libro stampato (1482) non a caso è un testo
giuridico, i Consilia seu responsa
juris di Francesco Accolti (1418-1486), noto anche come Francesco
Aretino, professore di diritto nella locale università. Nel 1483 veniva
stampata da Gregorio de Gente, «civis pisanus et impressor librorum», la Repetitio legis primae De vulgari et
pupillari substitutione di Mariano Sozzini. Lo stesso stampatore pubblicava
anche opere di medicina come il De aqua
ardenti (1484) di Michele Savonarola e probabilmente il Regimen sanitatis salernitanum (sempre
del 1484) di Arnaldo da Villanova. Nel 1484 venne pubblicata inoltre De christiana religione di Marsilio
Ficino e, sempre da tipografi locali, altre opere di diritto dei maestri dello
Studio,come Felino Sandei e Bartolomeo Sozzini (e fra di esse i Commentaria super rubrica de iudiciis
(1494) di Filippo Decio)[88].
A Siena la stampa nacque nel
Anche a Pavia la stampa visse in simbiosi con lo
Studio, fra i circa trecento testi stampati nella seconda metà del secolo gli
8/10 sono di argomento giuridico e per il resto medico: i bidelli e i peciari,
che traevano guadagni dalla produzione e dall’affitto dei manoscritti, si
convertirono con prontezza alla nuova arte. La prima tipografia viene allestita
da una società costituita nel 1472 tra il dottore Manfredo de Guarguaglia,
lettore di medicina all’università, il giovane stampatore milanese Giovanni di
Sedriano e lo studente Guniforto de Regalibus. Il primo libro, finito di
stampare nell’ottobre del 1473, fu la Lectura
super institutionum libros quatuor, in folio, di Angelo Gambiglioni, un
manuale che godeva di un’ampia popolarità presso il pubblico dei giuristi
pratici. Le società pavesi appaiono estremamente attive nella stampa dei testi
universitari, come quella del milanese Antonio Carcano, bidello
dell’università, che pubblicò i Consilia
(1475 circa) di Angelo degli Ubaldi, l’Anatomia (1478) di Mondino de’
Liuzzi, il Pillurarium di Pantaleone di
Vercelli, professore di medicina nello Studio, e il Canone di Avicenna, o quella di Damiano de’ Confalonieri che tra il
1478 e il 1479 pubblicò fra l’altro i commenti al Codice di Bartolo, i quattro
grossi tomi dei Sermones medici
(1481-84) di Nicolò Falcuzio e il Super
tertium canonis Avicennae di Gentile da Foligno[94].
Sempre a Pavia venne pubblicato nel 1492 la Rosa anglica practica medicinae a capite ad pedes di John di
Gaddesden (Johannes Anglicus), uno dei classici della cosiddetta “medicina
pratica”. Nello stesso anno Giovanni Antonio Beretta e Francesco Girardengo,
editori e commercianti, incaricarono il tipografo Jacopo Suigo di stampare una
delle opere di riferimento della letteratura canonistica, la Lectura super Clementinis di Francesco
Zabarella: l’opera doveva essere stampata in 600 copie «bene correpta e bene
impressa»[95]. A Voghera presso
Pavia, nella piccola tipografia di Jacopo di Sannazaro da Ripa venne pubblicato
nel 1486 le Apostillae ad
Bartolum del Tartagni, chiaramente rivolte al mercato universitario pavese[96]. Pavia subì
comunque la diretta concorrenza di Milano che, con la trentina di tipografie
attive tra il 1471 e il 1500 che pubblicarono un migliaio circa di titoli di
vario argomento, era, dopo Venezia e Roma, il centro editoriale più rilevante
della penisola[97].
Assai emblematico risulta il caso di Padova, dove
l’attività tipografica, specializzata soprattutto nella produzione di testi universitari,
fu segnata dalla concorrenza della vicina Venezia, che rappresentava il più
importante centro europeo del libro a stampa[98]. La supremazia del
libro veneziano su quello stampato in Terraferma venne favorita dalla politica
protezionistica della signoria attraverso la concessione del privilegio di
stampa – accordato per la prima volta al
tipografo Bernardo Benalio nel 1492 – che garantiva l’esclusività della
pubblicazione di un’opera per dieci o vent’anni a Venezia e in tutto il
territorio della Repubblica veneta[99]. Ovviamente le
società tipografiche più forti per danneggiare la concorrenza si accaparravano
un numero elevato di privilegi anche di opere che non stampavano. In uno degli
esempi contenuti nell’Opuscolum scribendi epistolas di Francesco
Negri, pubblicato a Venezia nel 1488, uno studente recatosi a Padova a studiare
giurisprudenza si lamenta della mancanza di libri con un amico veneziano,
sostenendo che, invece, nella città lagunare «apud publicos impressores
abundanter reperiuntur», e lo prega di acquistare per proprio conto un libro di
diritto col commento di Bartolo[100]. Eppure, con gli
oltre 800 studenti e i numerosi professori Padova rappresentava nella seconda
metà del Quattrocento un mercato di indubbio rilievo[101]: «il libro padovano
era soprattutto il testo universitario, un poco tradizionale e raramente
aggiornatissimo – ha osservato Angelo Colla –, poiché doveva adattarsi a
programmi collaudati e, soprattutto, non doveva suscitare orgogli e rivalità
tra i professori, ai quali in parte, era affidata la promozione dei libri
stampati. Il progresso scientifico dell’umanesimo lagunare procedeva con un
ritmo più spedito della cultura elaborata nelle istituzioni scolastiche
ufficiali»[102].
A Padova si cominciò a stampare nel 1471 per
opera di Lorenzo Canozi di Lendinara, intarsiatore e pittore, allievo nella
fervida officina di Francesco Squarcione e condiscepolo di Andrea Mantegna: fra
i primi libri pubblicati figura uno dei classici della medicina medievale, il Liber
de complexionibus proprietatibus simplicium medicinarum laxativarum ed
altri aforismi di Mesue il vecchio (il medico arabo Abū Zakaryya
Yūhannā ibn Māsawaih, vissuto nella prima metà del IX secolo),
finito di stampare il 9 giugno 1471[103]. Come avveniva in
altre città universitarie, il commercio librario padovano non era colpito dai
dazi civici: come emerge ancora dal loro statuto del 1550 i bidelli-librai
tentarono di rimanere a lungo esenti da tutte le gabelle per il transito e
l’introduzione dei libri destinati in gran parte allo Studio[104]. Nel 1474 il doge
di Venezia, Niccolò Marcello, ordinava ai rettori di Padova di non far pagare
gabella a chi introduceva libri nella loro città e, viceversa, di imporre dazi
a chi ne esportava, dando così un colpo durissimo all’editoria patavina a vantaggio
di quella veneziana[105].
La società tipografica, costituita dal dottore in
legge Bartolomeo Valdezocco, esponente di una delle principali famiglie della
città, e dall’artigiano tedesco Martin Seibeneichen, che poteva disporre anche
di un locale concesso dall’università, pubblicò il 21 aprile 1472 il primo
trattato moderno di pediatria, il Libellus
de aegritudinibus et remediis infantium di Paolo Bagellardo: era il primo
libro di medicina concepito per essere stampato, e passato direttamente dallo
scrittorio dell’autore, lettore nell’ateneo padovano, al banco del compositore[106]. Tra le altre opere
dirette a soddisfare le richieste dell’ambiente universitario bisogna ricordare
il De arte cognoscendi venena di
Arnaldo da Villanova, edito nel 1473, i Consilia
medica, il più importante degli scritti casistici di Bartolomeo da
Montagnana, celebrato professore dello Studio padovano dal 1422 al 1441,
stampato nel
La tipografia padovana si cimentò anche col libro
giuridico: nell’autunno del 1475, auspice un ricco studente di giurisprudenza,
Giovanni Frascati da Brescia, veniva costituita una società per la stampa di
una «certa quantità de i volumi» dei Consilia
di Angelo degli Ubaldi: dal contratto si evince che i libri dovevano essere
commercializzati nelle città dell’Italia settentrionale (Vicenza, Verona,
Udine, Brescia, Bergamo, Pavia, Milano, Mantova, Reggio, Parma) al non modico
prezzo di tre ducati e mezzo la copia[109]. I costi globali di
un’edizione erano particolarmente alti, soprattutto se il volume superava le
500 copie. La Lectura super Infortiatum
di Bartolo, pubblicata nel 1481 da una società di otto persone e stampata da Maufer
in 1.250 esemplari, costò più di 1.600 ducati: le spese più rilevanti erano
state quelle per l’inchiostro (100 ducati), per la carta e per i caratteri (20
ducati per ogni cassa di
Nel 1529 nel dialogo Opulentia sordida Erasmo tracciò un ritratto satirico della
tipografia veneziana di Andrea Torresani, suocero di Aldo Manuzio, vicino a
Rialto – nella quale aveva vissuto dal gennaio al settembre 1508 per mettere a
punto una nuova edizione dei suoi Adagia
–, caratterizzata dal lavoro affannoso e talvolta frenetico, dall’avarizia del
proprietario e dalla convivenza forzata dei lavoranti e di molti dotti ospiti
(l’umanista olandese condivideva la stanza col grecista Girolamo Aleandro)[112]: «Quella casa aveva
una tale quantità di pulci e di cimici – ricorda Erasmo –, che di giorno non si
poteva stare in pace, e di notte non era possibile prendere sonno». Torresani
era talmente avaro che risparmiava su tutto: sulla legna, sul cibo, sul vino.
«Per lui, che era cresciuto in questo genere di miseria, l’unica cosa piacevole
era far soldi»: «trafficava in tutto», in quella città che «più di tutte le
altre» era «devota a Mercurio». Erasmo ritiene che «il suo patrimonio non fosse
inferiore a ottocentomila ducati come minimo»[113]. Una cifra davvero
considerevole (un palazzo sul Canal Grande valeva da
Di fronte al prepotente sviluppo dell’editoria
veneziana e dinanzi alle capacità imprenditoriali e commerciali dei tipografi
attivi nella metropoli lagunare, la stampa nelle città della Terraferma veneta
si riduceva via via entro ambiti sempre più ristretti, con una produzione
libraria destinata al consumo locale o, come nel caso padovano, a quello
universitario. Tra il 1469 e il 1500 avrebbero operato a Venezia oltre duecento
tipografi, pari a quanti ne ebbe negli stessi anni l’intera Germania[114]. La città di San
Marco era una delle grandi capitali dell’editoria europea: soltanto nel primo
decennio di attività tipografica (1469-1480) furono pubblicati 596 incunaboli,
fra i quali erano naturalmente comprese anche opere destinate all’insegnamento
universitario, come i 76 titoli relativi a grammatiche e a libri scolastici, i
121 testi teologici, i 100 giuridici e i 71 scientifici[115]. Nel XV secolo
Venezia da sola pubblicò 4.500 titoli (un ottavo di tutta l’Europa e un terzo
dell’Italia) contro le 1.800 di Roma, le circa 1.000 di Milano e di Firenze, le
700 di Bologna[116].
Quando nel 1469 i due fratelli Giovanni e
Vendelino da Spira si trasferirono a Venezia, dove prosperava un’attiva colonia
tedesca, la Serenissima era una città cosmopolita, ricca, in piena espansione,
culturalmente aperta, inserita in un ampio circuito commerciale che abbracciava
al tempo stesso il mondo orientale, i paesi dell’Europa centrale e dell’est.
Sin dal principio i più importanti tipografi-editori veneziani – Giovanni e
Vendelino, Nicholas Jenson, Cristoforo Valdarfer, Giovanni da Colonia, Erardo
Ratdolt, Lorenzo Canozi – dovettero affrontare due aspetti decisivi per lo
sviluppo della loro attività, come il rinnovamento tecnologico dei mezzi di
stampa e l’adeguamento societario alla commercializzazione su vasta scala del
prodotto.
I caratteri tondi delle Epistolae ad familiares (1469) di Cicerone stampate da Giovanni da
Spira, desunti dall’Alphabetum Romanum (1463) del calligrafo
veronese Felice Feliciano (Antiquarius), costruiti sui quadrati e sui circoli
delle lettere trascritte dalle antiche iscrizioni latine, erano di
straordinaria eleganza ed esprimevano il meglio della scrittura umanistica[117]. Jenson, che era
stato orefice e incisore nella zecca di Tours e si favoleggiava fosse stato
incaricato dal re di Francia di carpire il segreto dell’invenzione di
Gutenberg, creava negli stessi anni dei punzoni con un carattere romano
rotondo, sottile, proporzionato, di raffinata bellezza[118].
Ancora esteticamente più belli sono i «tipi» che
appaiono nel De Aetna di Pietro
Bembo, stampato da Aldo Manuzio tra il 1495 e il 1496, per il quale Francesco
Griffo, rinnovando l’estetica dei caratteri romani, aveva disegnato il
carattere poi detto «aldino», che si affiancava a quello greco e al corsivo
cancelleresco realizzati dalle «mani dedalee» dell’artigiano bolognese[119]. Il nuovo carattere
non a caso si sarebbe accompagnato con la nascita di un libro a stampa profondamente
diverso dai modelli del passato, spesso tardiva riproposizione del manoscritto
medievale: il volume di piccolo formato. Manuzio, d’altra parte, ebbe piena
coscienza della novità e del suo significato: «nell’aprile del 1501 – ha
scritto Petrucci a proposito del Vergilius
in ottavo, con i caratteri in minuscola italica, che inaugurava la nuova
produzione editoriale –, dunque, si sarebbe svolta a Venezia, per iniziativa
del più geniale editore europeo del tempo, una vera rivoluzione libraria, dalla
quale sarebbe scaturito, come Minerva dalla testa di Giove, il libro moderno,
nuovo nei caratteri e nuovo nel formato “portatile”»[120]. Il nuovo formato
ebbe una diffusione enorme, come è testimoniato dalla ritrattistica del primo
Cinquecento: «Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un
mio uccellare – scriveva Niccolò Machiavelli nella famosissima lettera a
Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 –. Ho un libro sotto, o Dante o
Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio et simili: leggo
quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordomi de’ mia, godomi un
pezzo in questo pensiero»[121]. Si affermavano in
sostanza due tipologie di libro e due generi di lettura: la prima è quella,
appunto, dei classici tascabili in ottavo, sia latini che volgari, stampati in
caratteri corsivi in poche centinaia di pagine, corredati da prefazioni ma
privi di commento, che potevano essere letti
in qualsiasi situazione; la seconda è quella della trattatistica
giuridica, scientifica, teologica con pesanti volumi di solito in folio, con
commenti sovrabbondanti, scarsamente maneggevoli, che dovevano essere letti
necessariamente sullo scrittoio[122].
L’altra importante innovazione dell’editoria
veneziana riguarda l’illustrazione in serie dei libri realizzata con la tecnica
xilografica: con la stessa impressione si potevano infatti stampare facilmente
il testo e le figure incise nelle matrici di legno, in rilievo come i
caratteri. Come ha osservato Erwin Panofsky «il passo veramente importante fu
fatto qundo si cessò di imprimere a mano e si affermò l’uso dei torchi; ciò
permise lo sviluppo di motivi lineari tanto densi e intricati che si sarebbero
immediatamente confusi se stampati a mano»[123]. Dalle tavole della
Passio stampate intorno al 1450,
primo esempio xilografico italiano, si giunge alla Hypnerotomachia Poliphili, attribuita a Francesco Colonna, edita
nel 1499 da Aldo Manuzio con splendide incisioni, considerato non a torto come
il più bel volume illustrato stampato nel Rinascimento[124].
Fernand Braudel, analizzando l’«irradiamento»
italiano in Europa durante il Rinascimento, ha posto l’accento sulla
«diffusione dei beni culturali» e, in particolare, sui «prodotti delle botteghe
dei fonditori di bronzi padovani», sulle «esportazioni precoci dei marmi di Carrara»,
sulla commercializzazione dei gioielli, degli argenti e delle opere d’arte[125]. Lo storico
francese sottovaluta però il fatto che l’Italia – e, in particolare, Venezia –
è stata anche una grande produttrice ed esportatrice di libri. Secondo calcoli attendibili
l’Italia avrebbe infatti prodotto nel primo secolo della stampa il 40,2% dei
libri pubblicati in Europa, pari a circa 35-40.000 volumi, mentre la Germania
ne avrebbe prodotto il 31,1%, la Francia il 16%, i Paesi Bassi l’8,6%, Spagna e
Portogallo il 2,3%[126].
Rispetto all’editoria romana, che nei primi anni
settanta era stata duramente colpita dalla crisi, quella veneziana riuscì nel
complesso a fronteggiare le difficoltà, sia aumentando le tirature, sia
differenziando l’offerta, sia, soprattutto, individuando un mercato più vasto
su cui piazzare il prodotto. Grandi balle di libri percorrevano tutte le vie
commerciali d’Europa: secondo l’indovinata espressione di Vittore Branca, la
«via delle spezie» aveva predisposto i percorsi della «via del libro»[127]. La società
tipografica di cui faceva parte dal 1471 Vindelino da Spira sceglieva come area
di distribuzione dei libri soprattutto le regioni germaniche. Viceversa, il
gruppo di cui era socio dal 1473 Jenson diffondeva la propria produzione
nell’Italia nord-occidentale e nell’area francese.
Per gran parte degli anni settanta la società di
Vendelino, con i suoi finanziatori e congiunti, Giovanni da Colonia e Giovanni
Manthen, e quella di Jenson esercitarono una sorta di monopolio sull’editoria
veneziana: sui 207 libri pubblicati nella città lagunare dal 1476 al 1478 quasi
il 40% con 82 titoli erano di Jenson «et socii» (45 titoli) e dei tedeschi (37
titoli)[128]. Le due aziende
rivali avevano ormai raggiunto un livello di impresa capitalistica, assai
lontana dall’originaria dimensione artigianale. Nel 1480 i due gruppi si fusero
e nacque la società «Zuan de Cologna, Niccolò Jenson e compagni», con un
capitale di circa 10.000 ducati. Nello stesso anno la nuova società pubblicava
ben venti edizioni di opere giuridiche e teologiche destinata al mercato
europeo, in gran parte universitario, per complessive 5.300 pagine di grande
formato: una produzione di gran lunga superiore a quella di ogni altra casa
editrice del tempo (la sola che poteva competere era quella dei Koberger a
Norimberga). Ma la morte di Jenson nell’autunno del 1480 interruppe l’attività
editoriale dell’azienda, che continuò comunque ad operare nel campo commerciale[129].
Rinaldo di Nimega, nuovo marito della vedova di
Giovanni da Spira, puntava sul mercato inglese, pubblicando nel 1483 un Ordo psalterii secundum ritum et
consuetudines Ecclesie Sarum Anglicane, uno dei più antichi offici di rito
britannico. Johann Hamman stampava un salterio in catalano, un messale per
Burgos, uno per Parigi, breviari per Utrecht e per
L’editoria veneziana incise profondamente anche
sul libro universitario, giacché molte delle opere pubblicate nella città
lagunare erano destinate agli Studi, oltre che al pubblico dei giuristi e degli
ecclesiastici di mezza Europa, in tirature molto più alte di quelle che si
potevano permettere i tipografi che operavano accanto agli atenei. È il caso,
ad esempio, dei commentari del Panormita alle Decretalia di Gregorio IX, stampati nel 1471 da Vindelino con la
consistente tiratura di mille copie che si differenziava nettamente dalle poche
centinaia di copie, prodotte dai tipografi suoi contemporanei[132]. Nel 1472
Vindelino, in società con Giovanni da Colonia, pubblicava la monumentale
raccolta delle Repetitiones,
disputationes necnon tractatus diversorum doctorum, un’opera destinata
soprattutto ai giureconsulti e ai professori degli Studi. Nel 1491 Battista de
Tortis avrebbe stampato le Decretalia
in 2.300 copie[133]. Un fiume di libri
usciva dunque dalle tipografie veneziane. Se si considera, secondo i calcoli di
Scholderer, una media di 250 copie per ciascuno dei 4.500 libri editi a Venezia
nel Quattrocento, si giunge all’impressionante dato di 1.125.000 volumi stampati[134]. E si tratta di un
dato in difetto, perché alla fine del secolo molti libri avevano una tiratura
di mille/duemila copie e Manuzio stampò nel 1502 il suo Catullo in una tiratura
di tremila[135]. Come ha osservato
Marino Zorzi, nel campo della stampa quattrocentesca Venezia era una
«superpotenza» che a partire dal 1475 «non conosceva rivali»[136].
L’editoria veneziana riuscì ad organizzare su
basi completamente nuove il commercio internazionale dei libri attraverso una
ramificata rete di distribuzione che si collegava assai spesso ai librai delle
sedi universitarie di Padova, Pavia, Ferrara, Bologna, Perugia, Pisa, Siena,
Roma e Napoli[137]. Ad esempio, il Decretorum codex, stampato in
folio nel 1474 da Jenson, venne acquistato da uno studente di giurisprudenza
nella libreria padovana di Antonio d’Avignone per 9 ducati. L’incunabolo aveva
avuto un rincaro di quattro volte il prezzo di stampa, pur in una piazza
relativamente vicina come quella di Padova[138]. A proposito del
giro d’affari del libraio veneziano Francesco de’ Madi, Martin Lowry ha
calcolato che in quattro anni, dal 1484 al 1488, aveva commercializzato ben
13.000 libri e potuto mettere in vendita contemporaneamente 1.361 volumi[139]. Sin dal 1476 il
commercio librario veneziano utilizzava cataloghi a stampa delle opere in
vendita, edite nella città lagunare o provenienti dalle altre regioni italiane,
come conferma quello pubblicato dalla tipografia di Giovanni da Colonia e
Giovanni Manthen[140]. A questo segue il
catalogo edito da Jenson intorno al 1478-79, di cui ci è pervenuto solo un
frammento (Index librorum venalium). Il primo catalogo di Aldo Manuzio
risale al 1498: dedicato esclusivamente alle edizioni greche, fornisce tutte le
informazioni possibili sulle opere e sui prezzi; il secondo, del 1503, riporta
i frontespizi dei volumi in greco e in latino con un elenco dei ricercati libri
portatiles, dei libri in via di pubblicazione e di quelli, non prodotti
dalla tipografia aldina ma presenti e in vendita nel negozio presso Rialto; il
terzo, del
Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che
il grande successo editoriale delle edizioni aldine è in qualche misura il
prodotto della «rivoluzione commerciale» libraria veneziana del XV secolo, del
rinnovamento tipografico e della nuova organizzazione societaria per la
produzione e la vendita dei libri. Sicuramente Aldo non avrebbe potuto iniziare
la sua straordinaria avventura editoriale, per la quale utilizzò i letterati e
i filologi più autorevoli del suo tempo e investì cospicui mezzi nel
rifacimento dei caratteri tipografici, senza avere alle spalle una società con
una potente organizzazione finanziaria: di essa facevano parte, oltre allo
stesso Manuzio, che disponeva del 10% delle quote, Pietro Francesco Barbarigo,
esponente di una famiglia patrizia, proprietario di cartiere, principale
finanziatore dell’impresa col 50% delle quote, e il tipografo Andrea Torresani,
che aveva lavorato nella stamperia di
Jenson e delle cui attrezzature e caratteri era entrato in possesso, che
deteneva il 40% delle quote[142].
Quando quarantenne giunse a Venezia nel 1490,
Aldo non aveva alcuna esperienza editoriale, era un umanista, un linguista, un
maestro di grammatica e metrica latina e greca: non a caso nel 1501,
ripubblicando la sua grammatica latina edita nel 1494, modificò il titolo
originario di Institutiones grammaticae in quello di Rudimenta
grammatices latinae linguae, dedicando l’opera agli anonimi, umili
colleghi, «literarii ludi magistris»[143]. Nel 1494,
all’inizio, dell’attività di «editore principe dell’età sua» vi erano già,
secondo Carlo Dionisotti, tutte le premesse per l’affermazione di quel «dominio
così prepotente su tutti gli aspetti dell’arte, sulla scelta, sulla produzione
e sul mercato dei libri». Erano tre, infatti, «gli elementi della nuova
editoria, inseparabili nel momento decisivo e però distinti [...]: i caratteri,
il formato e la preparazione dei testi»[144]. La politica
editoriale di Aldo era ispirata a un disegno preciso e coerente: la
pubblicazione in edizioni filologicamente corrette dei classici greci (Omero,
Esopo, Erodoto, Demostene, Sofocle, Euripide, Tucidide, Senofonte, Luciano), di
quelli latini (Plinio, Virgilio, Orazio, Catullo, Lucrezio, Giovenale,
Marziale, Lucano, Cicerone, Ovidio, Cesare) e di opere grammaticali greche e
latine (gli Erotemata di Costantino Lascaris, quella greca di Theodoro
Gaza, il dizionario greco-latino del Crastonus, la Cornucopiae linguae latinae
del Perotti, etc.). Manuzio si cimentò anche col delicato problema della
critica testuale delle sacre scritture, pubblicando nel 1501 una Bibbia
trilingue (ebraico, greco, latino); curò inoltre edizioni di classici italiani
(Dante, Petrarca) e di fortunate opere di autori contemporanei come Gli Asolani
(1505) di Pietro Bembo e gli Adagia (1508) di Erasmo[145]. In questo caso
Aldo collaborò intensamente con gli autori, tanto che il lavoro tipografico
procedeva man mano che questi redigevano il testo.
Le edizioni dei classici aldini trascuravano
deliberatamente le aule universitarie per rivolgersi al mondo degli umanisti:
in fondo l’Organon (1495) o il De animalibus (1497-98) di
Aristotele, stampati in greco senza commenti, o il De materia medicinali (1499)
di Dioscoride, sempre in greco, erano di difficile utilizzazione nella
didattica. Tra i 150 titoli pubblicati da Aldo dal 1494 al 1515 sono assai
poche le opere di argomento scientifico, fra queste il De epidemia quam
Itali morbum gallicum vocant (1494) del suo collaboratore editoriale e
medico umanista Nicolò Leoniceno, professore all’Università di Ferrara, che
ebbe vasta eco in Europa, gli Scriptores astronomici (1499) di Francesco
Negri e il De gradibus medicinarum (1497) del medico genovese Lorenzo
Maiolo, docente nello studio ferrarese[146]. Non figura nessun
libro di diritto.
Eppure, nonostante tutto, l’impianto filologico
delle edizioni aldine ha avuto una ricaduta positiva nell’ambito universitario:
ad esempio, dopo la realizzazione del monumentale corpus aristotelico,
offerto agli studiosi nella sua interezza, senza mutilazioni o interpolazioni
spesso fuorvianti, non era più possibile continuare ad utilizzare i vecchi
testi di eredità medievale. Le edizioni di Aldo non avevano note o pesanti
commenti, ma solo agili presentazioni esplicative. Da buon umanista Aldo era
infatti convinto che le opere dei classici dovessero parlare da sole, senza
alcuna intermediazione.
Nei primi tempi dell’invenzione della stampa i
tipografi pubblicavano in modo frenetico e per esclusivi fini di lucro tutti i
manoscritti che gli passavano fra le mani, senza alcuna verifica della qualità
del testo, spesso revisionato da curatori superficiali o poco preparati. La Historia
naturalis di Plinio, edita a Roma nel 1472 da Sweynheym e Pannartz, era
talmente piena di errori che spinse Niccolò Perotti ad avanzare la richiesta di
una censura preventiva di tipo filologico sulle stampe: a suo avviso una
commissione di eruditi avrebbe dovuto autorizzare preventivamente le edizioni
dei classici per evitare che circolassero testi così scorretti[147].
Nelle Castigationes Plinianae (1493)
l’umanista veneziano Ermolao Barbaro, mostrando, secondo Vittore Branca, «una
dottrina poderosa e enciclopedica da erudito e naturalista», metteva sotto
accusa le edizioni della Historia naturalis del 1473, pure curata dallo
stesso Perotti, e quella veneziana stampata da Jenson nel 1472, per dimostrare,
alla luce di una rigorosa critica filologica, che gli errori più che alle sviste
dei tipografi erano imputabili alle mende della tradizione manoscritta[148]. Ma anche Venezia
non era da meno: la editio princeps di Catullo, stampata nel 1472 da
Vindelino, conteneva, ad esempio, ogni sorta di fraintendimento: «Annali
Volusi, cacata carta» diventavano un titolo «Ad Lusi Cacatam», e
così via[149].
Anche nelle materie giuridiche, caratterizzate
nel complesso da una forte adesione alla tradizione, iniziava lentamente a
farsi strada l’idea della necessità di disporre di edizioni dei testi
romanistici conformi all’originale, depurate dall’intermediazione delle
interpretazioni successive, dalle glosse e dai commenti medievali. Per gli
umanisti, come ha osservato Francesco Calasso, era infatti «ragione di stupore
e di sdegno il metodo col quale i giureconsulti studiavano i testi giuridici,
antichi di un millennio, senza alcuna preoccupazione di farli rivivere nel
mondo che li aveva generati, paghi di ricavare il senso delle parole e di
costruirvi sopra delle teoriche»[150].
Fra i primi a criticare severamente il metodo dei
giuristi era stato Francesco Petrarca: in una celebre lettera, scritta tra il
1355 e il
L’esortazione ad accostarsi al diritto romano con
gli occhi dello storico implicava l’adozione di un metodo filologico e di
critica testuale per la migliore comprensione delle fonti, destinato a
rimettere in discussione interpretazioni e teorie secolari ormai consolidate.
Il rischio era infatti quello di «minare una tradizione ermeneutica, di
sovvertire prassi giudiziarie, di sconvolgere insomma un intero sistema ormai
affermato»[152]. Ogni ipotesi di
verifica della fondatezza delle teorie giuridiche insegnate nelle università
che si ispiravano all’opera dei glossatori bolognesi e dei commentatori
trecenteschi, in particolare di Bartolo, era considerata quasi un sacrilegio.
Nel marzo del 1433 Lorenzo Valla, giovane professore (aveva 28 anni) di
retorica nell’Università di Pavia, dove era stato chiamato grazie all’appoggio
del Panormita, componeva di getto uno dei suoi scritti più radicali, l’Epistula
dedicata a Pier Candido Decembri, destinata a suscitare la reazione indignata
dei giuristi pavesi, che lo avrebbero costretto ad abbandonare lo Studio e a
rifugiarsi a Milano. L’Epistula era stata scritta per confutare
l’insulsa affermazione di un anonimo legista, ammiratore incondizionato di
Bartolo, secondo cui anche un trattatello minore del giurista di Sassoferrato,
il De insigniis et armis, avrebbe avuto più valore di qualsiasi opera di
Cicerone. Valla demoliva senza mezzi termini tutto l’edificio del diritto
medievale: iniziava con Giustiniano, la cui compilazione avrebbe, a suo avviso,
distrutto l’armonia della sapienza giuridica romana, e proseguiva con Bartolo,
Baldo, Accursio, accusati di non conoscere il latino classico ma di adoperare
una lingua «barbara» e rozza («non urbanam quondam morum civilitate, sed
agrestem rusticanam»)[153].
Nella prefazione al terzo libro delle Elegantiae
(1435) Valla avrebbe riproposto in modo molto più meditato e convincente il suo
invito ad utilizzare gli strumenti filologici nella scienza giuridica:
«Meritano, infatti quei sommi antichi – scriveva a proposito degli autori
classici – che qualcuno li esponga secondo verità e come conviene e li difenda
da quanti li interpretano male, e da Goti piuttosto che da Latini […]. E non
dico ciò per attaccare gli studiosi di diritto – spiegava –, ma piuttosto per
esortarli e convincerli che senza una cultura letteraria non possono acquistare
perizia nella disciplina a cui aspirano, se vogliono rassomigliare a giuristi
piuttosto che a legulei»[154]. I contemporanei
accusavano Valla di praticare una critica tanto radicale da non fermarsi
nemmeno davanti ad acquisizioni culturali e ad autori universalmente ritenuti
indiscutibili, come, ad esempio, la tradizione giuridica medievale o l’opera di
Bartolo. Eppure, pochi anni dopo, nel 1440, nella Declamatio sulla donazione di
Costantino, Valla avrebbe rivendicato la fondatezza di quel metodo che,
attraverso la critica storica e filologica, era riuscito a dimostrare in modo
inoppugnabile la falsità di quel documento, su cui pure avevano espresso dubbi
e riserve gli stessi giuristi medievali[155]. Le Elegantiae
– con le loro 150 edizioni a stampa, dal 1471 alla fine del Cinquecento, un
vero e proprio best seller –, col loro stile asciutto e severo, finirono
per esercitare una profonda influenza sulla cultura umanistica che, fra
l’altro, incominciò a recepire l’esigenza dell’uso degli strumenti filologici
nella scienza giuridica[156].
Si incominciava dunque a guardare con occhi
diversi alle antiche fonti e iniziava a prendere consistenza quel movimento
definito «umanesimo giuridico» che si contrapponeva allo «scolasticismo» di
eredità medievale[157]. L’attenzione dei
giuristi e degli eruditi si concentrava sul manoscritto delle Pandette, fonte
antichissima dell’età giustinianea, chiamato sin dal XII secolo littera
Pisana. La leggenda tramandava che fosse stato scoperto ad Amalfi dai
conquistatori pisani tra il 1135 e il 1137[158]. In realtà, è
probabile che il codice avesse un’origine meridionale, «forse una delle copie
fatte eseguire per le province dell’impero», o che provenisse da Montecassino,
come indurrebbe a pensare una noterella del X secolo vergata in scrittura
beneventana, ampiamente usata nello scriptorium dell’abbazia benedettina[159]. Dopo la conquista
fiorentina di Pisa, nel 1406, il codice delle Pandette venne ribattezzato littera
Florentina. Nel 1419-20 venne costruito nel Palazzo dei priori di Firenze
un apposito tabernacolo per custodire l’antico e prezioso manoscritto, che
veniva mostrato in pubblico solo in situazioni eccezionali: nel Gargantua
Rabelais si fece gioco di quelle «cerimonie e solennità», con «tanti zendadi,
fiaccole, torce, paramenti e santimoníe», con le quali venivano mostrate «le Pandette
di Giustiniano a Firenze, o la Veronica a Roma»[160].
Il codice fiorentino, custodito in sacrario
del sommo magistrato della città, consultato da giuristi e eruditi, venne
analizzato per la prima volta con estremo scrupolo filologico da un umanista di
formazione non giuridica, Angelo Poliziano, che ipotizzò un’edizione critica
del manoscritto attraverso un puntuale raffronto col testo che veniva
normalmente utilizzato negli Studi sin dal tempo dei glossatori, la cosiddetta littera
Bononiensis, inficiata da errori e inesattezze. Poliziano, grazie
all’intercessione di Lorenzo de’ Medici, potè studiare il manoscritto senza
alcuna restrizione, come annotava nell’ultima pagina dell’incunabolo del Digestum
vetus glossato, nell’edizione veneziana del 1486, che aveva utilizzato per
la collazione con
L’idea di un’edizione critica del Digesto,
enunciata nella Miscellanea (1489) di Poliziano, ebbe comunque una forte eco,
accreditata ulteriormente dai progressi dell’arte tipografica, e stimolò la
curiosità di Ludovico Bolognini, professore di diritto nello Studio di Bologna,
che, dopo la morte dell’umanista fiorentino, si cimentò dal 1501 al 1507,
grazie anche ad un prolungato soggiorno nella città toscana, nel tentativo di
pubblicare un testo critico della Florentina[162]. Ma all’entusiasmo
del docente bolognese non corrispondeva uno spirito filologico, e il suo
tentativo riuscì nel complesso velleitario ed infruttuoso[163]. L’istanza
metodologica del Poliziano sarebbe stata raccolta soltanto dai giuristi della
generazione successiva, quelli della cosiddetta Scuola Culta, e in particolare
dalla triade costituita da Guillaume Budé, da Ulrich Zäsy (Zasius), da Andrea
Alciato, che avrebbero applicato gli strumenti filologici allo studio del
diritto. Come ha scritto Domenico Maffei, i Culti «ritenevano aberrante il
modo con cui gli interpreti si erano avvicinati al diritto romano […],
l’adattamento che essi avevano fatto di quel diritto ad una diversa realtà
sociale. Per l’umanista, la giurisprudenza medievale è barbara perché forza la
storia, non ha il senso della storia»[164].
Il presente lavoro realizzato col contributo del Miur, fondi Prin
(ex 40%) è frutto di uno stretto rapporto di collaborazione tra i due autori
nella ricerca e nella stesura del saggio. Tuttavia i paragrafi 1, 5 sono di
Antonello Mattone, 2 e 4 sono di Tiziana Olivari, il 3 è di entrambi.
[1] Cfr. Stephan Füssel, Gutenberg.
Il mondo cambiato, Milano 2001 (I ed. Frankfurt am Main-Leipzig 1999),
32-33; Id., Edizioni
gutenberghiane minori, «L’oggetto libro. Arte della stampa, mercato e
collezionismo», 2000, 34-35; il ricco catalogo della mostra, Gutemberg
aventur und Kunst Von Geheimunternehmen zur ersten Medienrevolution, Mainz
2000.
[2] Lucien Febvre e Henri-Jean Martin, La nascita del
libro, a cura di Armando Petrucci,
Roma-Bari 1977 (I ed. Paris 1958), 49.
[3] Cfr. Francesco Barberi, Per una storia del
libro. Profili, note, ricerche, Roma 1981, 10-11; cfr. in generale Gabriele Paolo Carosi, La stampa da
Magonza a Subiaco, Subiaco 1976; Gutenberg
a Roma. Le origini della stampa nella città dei papi (1467-1477), a cura di
Massimo Miglio e Orietta Rossini, Napoli 1997. Sugli
artigiani tedeschi a Roma e nelle altre città italiane cfr. Demetrio Marzi, I tipografi tedeschi
in Italia durante il secolo XV, in Otto
Hartwig, Festschrift zum fünfhundjähringen Geburtstage von Johann
Gutenberg, Leipzig 1900, 407-501.
[4] Cfr. Febvre, Martin, La
nascita del libro cit., 323. Anzi, 355 edizioni secondo il Gesamtkatalog der Wiegendrucke, hrsg. von der Kommission für den Gesamtkatalog der
Wiegendrucke, Leipzig 1925-96 (d’ora in poi GW), nn. 8674-9029.
[6] Cfr. Denys
Hay, Fiat lux, in Printing and the mind of man, edited by John Carter and Percy J. Muir, London 1967, XXI-XXIII.
[7] Elisabeth L. Eisenstein,
La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bologna
1985 (I ed. Cambridge 1979), 8; della stessa cfr. anche l’edizione epitomata
del volume del 1979, Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della stampa e
la nascita dell’età moderna, Bologna 1995 (I ed. Cambridge 1983), e il
saggio, L’invenzione della stampa: il libro e la nuova circolazione delle
idee, in
[8] Tomaso Garzoni, La
piazza universale di tutte le professioni del mondo, a cura di Paolo Cherchi e Beatrice Collina, II, Torino 1996, 1337. Cfr. inoltre Ottavia Niccoli, Garzoni Tomaso,
in Dizionario Biografico degli Italiani, LII, Roma 1999, 449-453.
[9] Francesco Bacone, Novum
Organum (aforisma n. 129), a cura di Enrico
De Mas, Bari 19683, 101-102.
[10] Sigfrid H. Steinberg,
Cinque secoli di stampa, Torino 1962 (I ed. London 1955), 21. Cfr. anche
Five hundred years of printing, new edition, revised by John Trevitt, London 1996, e Curt F. Bühler, Scribi e manoscritti
nel Quattrocento europeo, trad. it. parziale di The fifteenth century
book, Philadelphia 1960, ora in Libri, scrittori e pubblico nel
Rinascimento. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari 1979, 39-57.
[11] Sui termini del dibattito cfr. Armando
Petrucci, I percorsi della stampa da Gutenberg all’Encyclopédie,
in La memoria del sapere. Forme di conservazione e strutture organizzative
dall’antichità a oggi, a cura di Pietro
Rossi, Roma-Bari 1990, 135-139, e Lodovica
Braida, Stampa e cultura in Europa tra XV e XVI secolo, Roma-Bari
2000, 3-40, con aggiornata bibliografia a cui si rinvia.
[12] Luigi Balsamo, Il
libro per l’università nell’età moderna, in Le università dell’Europa.
Le scuole e i maestri. L’età moderna, a cura di Gian Paolo Brizzi e Jacques
Verger, Milano 1995, 47; cfr. in generale Severin Corsten, Universities and early printing, in Bibliography
and the study of 15th-century civilisation, edited by Lotte Hellinga, John Goldfinch, London 1987, 83-123; C. Tristano, Economia del libro in
Italia tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo: il prezzo del libro
“vecchio”, «Scrittura e civiltà», 14 (1990), pp. 199-241.
[13] Curzio Bastianoni, Giuliano Catoni, Impressum Senis.
Storie di tipografi, incunaboli e librai, Siena 1988, 10.
[14] Cfr. Massimo Miglio, Introduzione
a Giovanni Andrea de’ Bussi, Prefazioni
alle edizioni di Sweynheim e Pannaratz, prototipografi romani, a cura di Massimo Miglio, Milano 1978, LV-LIX.
Cfr. anche Malcolm Beckwith Parkes,
Produzione e commercio dei libri manoscritti, in Produzione e
commercio della carta e del libro secc. XIII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze 1992,
338-342.
[15] Antonio Sartori, Documenti
padovani sull’arte della stampa nel secolo XV, in Libri e stampatori in
Padova. Miscellanea di studi in onore di mons. Bellini, tipografo, editore,
libraio, Padova 1959, doc. n. XIV.
[17] Cfr. Edler de Roover,
Per la storia dell’arte della stampa in Italia.
Come furono stampati a Venezia tre dei
primi libri in volgare, «La Bibliofilia», 55 (1953), 110.
[18] Cfr. Luciano Bianchi,
Gli annali della tipografia senese compilati dal conte Scipione
Bichi-Borghesi, «Il Bibliofilo», 2 (1881), n. 8-9, 117.
[19] Per i due episodi cfr. Eisenstein,
La rivoluzione inavvertita cit., 70-72. Cfr. inoltre Lotte Hellinga, Peter Schöffer and the book-trade in
[21] Rudolph Hirsch, Stampa
e lettura fra il 1450 e il 1550, trad. it. parziale di Printing, selling
and reading 1450-1550, Wiesbaden 1967, ora in Libri, editori e pubblico
nell’Europa moderna. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari 1977, 8-10,
17. Sul volume di Hirsch cfr. l’acuta recensione di Roberto Ridolfi in «La Bibliofilia», 69 (1967), 113-114.
[22] I dati sono tratti da GW, da Ludwig
Friedrich Theodor Hain, Repertorium bibliographicum in quo libri
omnes ab arte typographica inventa usque ad annum MD, Berlin 1925 (I ed.
Stuttgartiae et Lutetiae Parisiorum 1826-38, d’ora in poi Hain), revisionato da Walther Arthur Copinger, Supplement
to Hain’s repertorium bibliographicum, Milano 1950 (I ed. London 1895-1902, d’ora in poi Cop.), e da Kornard Burger, The printers and the publisher of the
XVth century with lists of their works: index to the supplement to Hain’s
repertorium bibliographicum, London 1902; Dietrich
Reichling, Appendices ad Hainii - Copingeri Repertorium
bibliographicum. Additiones et emendationes, Monachii 1905-1914; Robert Proctor, An Index to the early
printed books in the
[23] Cit. in Armando Petrucci,
Per una nuova storia del libro, Introduzione
a Febvre, Martin, La nascita
del libro cit., XXIX.
[27] Hain, nn. 11698-11715; nn. 12697-12707; GW, nn. 9185-9209, nn. 8032-8138,
nn. 2225-2235. Cfr. inoltre Giovanni Mercati, Per la cronologia della vita e degli
scritti di Niccolò Perotti arcivescovo di Siponto, Città del Vaticano 1925;
Giuseppe Lombardi, L’editio
princeps dei “Rudimenta grammatices” di Niccolò Perotti, in Cultura
umanistica a Viterbo, per il V Centenario della stampa a Viterbo
(1488-1988), Viterbo, 12 novembre
[28] L’episodio è riportato in John
H. Elliott, La Spagna imperiale 1469-1716, Bologna 1982 (I ed. London 1981), 142. Cfr. inoltre Antonio
de Nebrija. V centenario 1492-1992, Actas del congreso internacional de
historiografía lingüística, editors Ricardo
Escavy Zamora, José Miguel Hernández Terrés, Antonio Roldán Pérez, Murcia
1994.
[34] Hain, nn. 10183-10200. Cfr. Ernst
Schulz, The study of incunables: problems and aims,
[35] GW, nn. 2032-2045; Hain,
nn. 10209-10222; GW, nn. 4644-4708; Hain,
nn. 7621-7731, nn. 9081-9136; GW, nn. 4329-4340; Mario Schiavone, Il “De Imitatione Christi” di Tommaso da
Kempis, «L’Esopo», 1993, n. 58, 51-56.
[36] GW, nn. 7580-7773. Inferiore è il numero delle edizioni, 152,
riportate da Hain, nn. 9486-9638. Cfr. anche Catalogue of books printed on
the continent of
[38] GW, nn. 3475-3665. Sul problema delle attribuzioni cfr. Ennio Cortese, Il diritto nella
storia medievale, II, Il basso medioevo, Roma 1995, 440-441.
[39] Hain, nn. 2271-23243;
IGI, nn. 9929-10000, con 71 edizioni; Hain,
nn. 15861-15889; IGI, nn. 9906-9927, che ne riporta 21; GW, nn. 522-530.
[41] GW, nn. 1675-1757; nn. 9101-9162; nn.
9138-9158; nn. 8959-8966; nn. 5816-5830; Hain,
nn. 4598-4646; nn. 16250-16259.
[42] Hain, nn. 12308-12371; GW, nn. 6474-6512; Hain,
nn. 14852-14867; nn. 15799-15830; nn. 15253-15332; nn. 10939-10972; nn.
14280-14325; GW, nn. 141-166; Hain,
nn. 14831-14850; nn. 6064-6065.
[44] GW, nn. 2678-2683. Cfr. inoltre Tiziana
Pesenti, Editoria medica tra Quattrocento e Cinquecento.
L’“Articella” e il “Fasciculus medicinae”, in Trattati scientifici nel
Veneto fra il XV e il XVI secolo, a cura di Ezio
Riondato, Vicenza 1985, 1-28; Hain,
nn. 9773-9777; IGI, nn. 5297-5300.
[47] Hain, nn. 13747-13763. Cfr. L. Hellinga, Medical
incunabula, in Medicine, mortality and the book trade, edd. R. Myers-M. Harris,
[49] Hain, nn.
14144-14153. Sulla chirurgia medievale cfr. Giovanna
Ferrari, Chirurgia e strumenti chirurgici, in Storia della
scienza, dir. Sandro Petruccioli, IV, Medioevo
Rinascimento, Roma 2001, 453-454.
[50] Hain, nn. 4809-4818, nn. 1-18, nn. 11550-11553, nn. 14480-14495; GW, nn.
2321-2324, 2519-2547; cfr. Dominique Coq,
Les incunables: textes anciens, textes noveaux, in Histoire de
l’édition française, sous la direction de Henri-Jean
Martin et Roger Chartier,
I, Le livre conquérant. Du Moyen Âge au milieu du XVIIe siècle, Paris
1982, 179-181; Luis García Ballester, La nueva industria
del libro médico y el renacer del humanismo médico latino, in La cultura
del Renaixement. Homenatge al pare Miquel Battlori, Bellaterra (Barcelona), Monografies Manuscrits, 1993, 111-128, e
più in generale sull’editoria medica quattrocentesca William Osler, Incunabula medica. A study of the earliest
printed medical books 1467-1480, London 1923; Arnold Carl Klebs, Incunabula scientifica et medica,
Hildesheim 1963; Margaret Bingham
Stillwell, The awakenig interest in science during the first century
of printing, 1450-1550, New York 1970;
e Giorgio Montecchi, La
stampa e la diffusione del sapere scientifico, in Storia della scienza
cit., IV, 699-710, con aggiornata bibliografia.
[51] Cfr. Fevbre, Martin, La
nascita del libro cit., 221. Come è noto, Febvre, cui si deve la parte introduttiva,
morì prima che il lavoro fosse terminato. Il libro va quindi attribuito
soprattutto a Martin e costituisce ancor oggi un’opera di sintesi per certi
versi insuperata.
[52] Cfr. Robert Brun, Le
livre français, Paris 1969, 10-17; Henri-Jean
Martin, Storia e potere della
scrittura, Roma-Bari 1990 (I ed. Paris, Perrin, 1988), 248-249; Robert
Marichal, Le Livre des prieurs de la Sorbonne (1431-1485), Paris
1987; Jacques Monfrin, Les
lectures de Guillaume Fichet et de Jean Heynlin d’après de prêts de la
Bibliothèque de la Sorbonne, «Bibliothèque de l’humanisme et Renaissance»,
17 (1955), 7-23; Jeanne Veyrin-Forrer,
Aux origines de l’imprimerie française: l’atelier de la Sorbonne et ses
mécènes (1470-1473), in La lettre et le texte. Trente années de recherches
sur l’histoire du livre, Paris 1987, 161-187.
[53] Cfr. Coq,
Les incunables cit., 177-193, e Albert
Labarre, Les incunables: la
presentation du livre, 195-225, entrambi in Histoire de l’edition
française cit., I; Henry-Jean Martin,
L’apparition de l’imprimerie, in Le Siècle d’or de l’imprimerie
lyonnaise, Paris 1972, 60-105; Id., Le
livre français sous l’Ancien Régime, Paris 1987, 29-39; e in generale Aime Vingtrinier, Histoire de l’imprimerie à Lyon de
l’origine jusqu’à nos jours, Lyon 1894.
[54] Cfr. il quadro generale offerto da Amalia Sarría Rueda, Los inicios de
la imprenta, in Historia ilustrada del libro español. De los incunables al siglo XVIII, bajo la dirección de Hipólito Escolar, Madrid 1994, 35-93; José García Oro, Los reyes y los
libros. La politica libraria de la Corona en el Siglo de Oro (1475-1598),
Madrid 1995, 11-39, e soprattutto Francisco
Vindel, El arte tipográfico en
España durante el siglo XV, 8 voll., Madrid 1945-50, ricchissimo di dati;
J. Delgado Casado, Diccionario de
impresores españoles (siglos XV-XVII), Madrid 1996, ad nomina.
[55] Cfr. Philippe
Berger, Libro y lectura en la Valencia del Renaicimiento, I,
Valencia 1987, 33-57.
[56] Cfr. Carmè
Gómez-Senent i Martínez, Història del llibre valencià, in El
llibre valencià, Valencia 1991, 19-29; Ricard
Blasco, Síntesi històrica de la impremta valenciana, in La
impremta valenciana, Valencia 1991, 51-69.
[57] Cfr. Vindel,
El arte tipográfico cit., I, passim; Delgado
Casado, Diccionario cit., passim; Sarría Rueda, Los inicios cit.,
52-53; Jordi Rubiò Balaguer, Imprenta
i llibreria a Barcelona (1474-1553), in Llibreters i impressors a la
Corona d’Aragó, Barcelona 1993, 23 ss.; Manuel
Peña, Cataluña en el Renacimiento: libros y lenguas (Barcelona,
1473-1600), prólogo de Ricardo García
Cárcel, Lleida 1996, 79 ss.
[58] Cfr. l’edizione anastatica Constitucions
de Catalunya incunable de 1495, intr. de Josep
M. Font i Rius, Barcelona 1988.
[59] Cfr. Henry
Thomas, Short-title catalogue of books printed in Spain and of
spanish books printed elsewhere in Europe before 1601 now in the British Museum,
London 1921, ad indicem; Jorge Rubiò,
Cultura de
[60] Cfr. Steinberg,
Cinque secoli di stampa cit., 41-54; Lotte
Hellinga, Gutenberg et ses premiers successeurs, in Les trois
révolutions du livre, Genève 2001, 19-44; Geldner,
Manual cit., 52-57, 157-167; Id.,
Das Fust-Schöffersche Signet und das Schöffersche Handzeichen, «Archiv
für Geschichte des Buchwesens», 1 (1958), 171-174; Heinrich Grimm, Das vermeintliche Allianz-signet
Fust-Schöffer und seine Schildinhalte, «Gutenberg Jahrbuch», 1962, 446-455;
Sven Dahl, La prototipografia
tedesca, in Marco Santoro, Il
libro a stampa. I primordi, Napoli 1990, 187-196; Fava, Manuale cit., 39-57.
[61] Sulla diffusione della stampa nella
Germania del XV secolo cfr. oltre, The German book 1450-1750: studies presented to David L. Paisey in
his retirement, edited by John L.
Flood and Willia A. Kelli,
London 1995, i vecchi, solidi studi di Ernst
Vouillième, Die deutschen Drucker des fünfzeheuten Jahrhunderts,
Berlin 1922; Konrad Haebler, Die
deutschen Buchdrucker des XV Jahrhunderts im Ausland, München 1924; Ferdinand Geldner, Die deutschen
Inkunabeldrucker, 2 voll., Stuttgart 1968-70; Der deutsche Buchhandel in
Urkunden und Quellen, hrsg. von Hans Widman, 2 voll., Hamburg 1965.
[63] Cfr. i dati di Geldner,
Manual cit., 57, cui si fa riferimento, e di William Turner Berry, H. Edmund Poole, Annals
of printing, a chronological encyclopaedia from the earliest times to 1950,
London 1966, 21.
[64] Cit. in Tammaro De Marinis,
La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, II, Milano 1947, 312-313.
[65] Cfr. Febvre, Martin, La nascita del libro
cit., 231-232, e soprattutto K. Dachs, W.
Schmidt, Wieviele Incunabelausgaben giht es wirklich?,
«Bibliotheksforum Bayern», 2 (1974), 83-95. I dati sono tratti da Uwe Neddermeyer, Von der Handschrift zum gedruckten Buch:
Schriftlichkeit und Leisenteresse im Mittelalter und in der frühen Neuzeit,
I, Text, Wiesbaden 1998, 121. Un quadro generale è
offerto da Brian Richardson, Printing,
writers and readers in renaissance Italy, Cambridge 1999.
[66] Cfr. Carla Frova, Massimo Miglio, «Studium Urbis» e
«Studium Curiae» nel Trecento e nel Quattrocento: linee di politica culturale,
e Rino Avesani, Appunti per la
storia dello «Studium Urbis» nel Quattrocento, entrambi in Roma e lo
Studium Urbis. Spazio urbano e cultura dal Quattro al Seicento, Atti del
convegno, Roma, 7-10 giugno 1989, Roma 1992, rispettivamente 26-39, 69-87.
[68] Cfr. gli atti dei convegni Scrittura, biblioteche e stampa a
Roma nel Quattrocento. Aspetti e problemi, Atti del seminario 1-2 giugno
[69] Cfr. Maria Grazia Blasio,
Lo Studium Urbis e la produzione romana a stampa: i corsi di retorica,
latino e greco, in Un pontificato ed una città. Sisto IV (1471-1484),
Atti del convegno, Roma 2-7 dicembre
[70] Cfr. Paola Farenga, Tipologia
del libro, in Gutenberg a Roma cit., 76-80, Indice delle edizioni
romane cit., nn. 184, 191, 364, 403. Cfr. anche Luigi De Gregori, La stampa a Roma nel secolo XV. Mostra
di edizioni romane nella R. Biblioteca Casanatense, Roma, Tipografia
Cuggiani, 1933, passim.
[71] Armando Petrucci, Alle
origini del libro moderno. Libri da banco, libri da bisaccia, libretti da mano,
«Italia medioevale e umanistica», 12 (1969), 295-313, ora in Libri,
scrittori e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari, Laterza,
1979, 141.
[72] Cfr. Marco Santoro, La
stampa a Napoli nel Quattrocento, Napoli 1984, 12-57. Cfr. anche Carlo De Frede, Sul commercio dei
libri a Napoli nella prima età della stampa, «Bollettino dell’Istituto di
Patologia del libro “Alfonso Gallo”», 14 (1955), n. 1-2, 62-78; Id., I lettori di umanità nello
studio di Napoli durante il Rinascimento, Napoli 1960, e Riccardo Filangieri, L’età aragonese,
in Storia dell’Università di Napoli, Napoli 1924, 157 ss.
[73] Cfr. i sempre validi lavori di Albano
Sorbelli, I primordi della stampa a Bologna. Baldassarre Azzoguidi,
Bologna 1908, 54-57, 125-139; Id.,
Storia della stampa a Bologna, Bologna 1929, 4 sgg., L. Sighinolfi, Francesco Puteolano e le
origini della stampa in Bologna e in Parma, Firenze, 1914; ed inoltre Curt F. Bühler, The University and
the press in Fifteenth-century Bologna, Notre-Dame (USA) 1958, 15 sgg.; Alfredo Cioni, Azzoguidi Baldassare,
e Rosario Contarino, Dal Pozzo
Francesco, detto il Puteolano, entrambi in Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, rispettivamente III,
1962, 765-766, XXXII, 1986, 213-216; Leonardo
Quaquarelli, Verifiche su Baldassarre Azzoguidi: un tratto di storia
incunabolistica italiana rivisitato da bibliologia, filologia e informatica,
e Luisa Avellini, Promozione
libraria nel Quattrocento bolognese, entrambi in Sul libro bolognese del
Rinascimento, a cura di Luigi Balsamo
e Leonardo Quaquarelli,
Bologna 1994, rispettivamente 27-75, 77-127; Luigi
Balsamo, Imprese tipografiche in Emilia nel ’400: aspetti economici,
in Produzione e circolazione libraria in Emilia (XV-XVIII secolo), Parma
1983, 11-43, Id., Editoria e
Umanesimo a Parma fra Quattro e Cinquecento, in Parma e l’Umanesimo
italiano, Atti del convegno internazionale, Parma 20 ottobre 1984, Padova
1986, 77-95.
[74] Cfr. Mostra del Digesto e della storia dello Studio di Bologna
nella biblioteca dell’Archiginnasio. Catalogo, a cura del Comitato ordinatore del Congresso
internazionale di diritto romano, Bologna 1933, n. 208, 28; ed anche Paul Oskar Kristeller, The University
of Bologna and the Renaissance, in Studies in Renaissance tought and
letters, II, Roma 1985, 135-146, e Ezio
Raimondi, Umanesimo e Università nel Quattrocento bolognese,
«Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», n.s., 1 (1956),
325-356, sulla diffusione delle idee umanistiche nello Studio bolognese.
[75] La vicenda è stata dettagliatamente ricostruita da Diego Quaglioni, Dal manoscritto alla
stampa. Agli inizi della tipografia giuridica bolognese, in Juristische
Buchproduktion im Mittelalter, her. von Vincenzo
Colli, Frankfurt am Main 2002, 599-
[76] Cfr. Pier Silverio Leicht,
Rapporti giuridici intorno al libro nel primo secolo della stampa, in Studi
e ricerche sulla storia della stampa del Quattrocento. Omaggio dell’Italia a
Giovanni Gutenberg nel V Centenario della sua scoperta, Milano 1942,
197-210; Leandro Perini, Stamperie
quattrocentesche: vocabolario, tecniche e rapporti giuridici, in Tecnica
e società nell’Italia dei secoli XII-XVI, Pistoia 1987, 59-70, oltre
ovviamente Hirsch, Stampa e
lettura cit., 38-40, e Geldner,
Manual de incunables cit., 191-206.
[77] Cfr. Domenico Fava, Un
grande libraio-editore di Bologna del Quattrocento: Sigismondo dei Libri,
«Gutenberg Jahrbuch», 1941, 80-97; Liliana
Poli, Contributi sopra Sigismondo de’ Libri, «La Bibliofilia», 51
(1949), 9-27; Angela Nuovo, Il
commercio librario nell’Italia del Rinascimento, Milano, Angeli, 1998,
49-52.
[78] Cfr. Luigi Balsamo, Università
e editoria nel Quattrocento e Cinquecento, in Università a Bologna. Maestri, studenti e luoghi dal XVI al
XX secolo, a cura di Gian Paolo
Brizzi, Lino Marini, Paolo Pombeni, Milano 1988, 125-127.
[79] Cfr. Giuseppe Ermini,
Storia dell’Università di Perugia, I, Firenze 1971, 146 ss.; Adamo Rossi, L’arte tipografica in
Perugia durante il secolo XV e la prima metà del XVI. Nuove ricerche,
Perugia 1868; Giocondo Ricciarelli,
I prototipografi in Perugia. Fonti documentarie, e dello stesso, Mercanti
di incunaboli a Perugia, entrambi in «Bollettino della Deputazione di
Storia Patria per l’Umbria», rispettivamente 67 (1970), 2, 77-161, 70 (1973),
1, 1-20; Andrea Capaccioni, Tipografi
e librai (secoli XV-XVIII), in Perugia. Storia illustrata delle città
dell’Umbria, III, Milano 1993, 929 ss.; Geldner,
Manual de incunables cit., 254-255. Per i testi cfr. Giuseppe Fumagalli, Lexicon typographicum Italiae. Dictionnaire
géographique d’Italie pour servir à l’histoire de l’imprimerie dans ce pays,
Florence 1905, 294-296.
[81] Cfr. Short-title catalogue of books printed in Italy and of Italian
books, printed in other countries from 1465 to 1600 now in the British Library,
London, The British Library, 1986, ad
vocem, 702; Rossi, L’arte tipografica cit., 7-12.
[82] Hain n. 9545, GW n.
36240, Fumagalli, Lexicon
cit., 295-296; Steinberg, Cinque
secoli cit., 101-102.
[83] Cfr. Ermini, Storia
dell’Università cit., I, 500-507. Sulla stampa perugina quattrocentesca
cfr. Andrea Capaccioni, Lineamenti
di storia dell’editoria umbra. Il Quattrocento e il Cinquecento, Perugia
1996, 25-32, con relativa bibliografia.
[84] Cfr. Armando F. Verde,
Lo Studio fiorentino, 1473-1503, I e II, Firenze 1973; Rodolfo Del Gratta, Gli studi di Pisa
e di Firenze nel XV secolo, ora in Scritti minori, Pisa 1999,
101-119; ed inoltre Eugenio Garin,
La tradizione umanistica, e Gian
Carlo Garfagnini, Lo studium generale regie civitatis Florentiae:
1321-1472 (antologia di documenti), in Storia dell’ateneo fiorentino.
Contributi di studio, I, Firenze 1986, 26-37, 57-107; Roberta Bargagli, Bartolomeo Sozzini,
Lorenzo de’ Medici e lo Studio di
Pisa (1473-1494), in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico.
Politica, economia, cultura, arte, III, Pisa 1996, 1165-1171. Lo Studio
fiorentino, come ha osservato Gene A.
Brucker, Florence and its university, in Action and conviction
in early modern Europe. Essays in memory of E.H. Harbison, edited by Theodore K. Rabb and Jerrold
E. Seigel, Princeton 1969,
220-236, stentava a porsi sul piano degli Studi più importanti della penisola.
[85] Roberto Ridolfi, La
stampa a Firenze nel secolo XV, Firenze 1958, 14; cfr. anche La stampa a
Firenze 1471-1550. Omaggio a Roberto Ridolfi, a cura di Dennis E. Rhodes, Firenze 1984, 27-40.
[87] Cfr. Dennis E. Rhodes,
Gli annali tipografici fiorentini del XV secolo, Firenze 1988, 27-135,
che segnala solo libri di argomento umanistico, letterario e religioso; Bruno Santi, Bernardo Cennini, in
Dizionario Biografico degli Italiani, XXIII, Roma 1979, 563-565; su
Niccolò Tedesco cfr. Ridolfi, La
stampa a Firenze cit., 49-62; Id.,
Le ultime imprese tipografiche di Niccolò Tedesco, «La Bibliofilia», 67
(1965), 143-152; Berta Maracchi
Bigiarelli, Incunaboli fiorentini «sine notis», «La Bibliofilia»,
67 (1965), 155 sgg.; Paolo Trovato,
Il libro toscano nell’età di Lorenzo. Schede e ipotesi, in La Toscana
al tempo di Lorenzo cit., II, 525-563.
[88] Cfr. Fumagalli, Lexicon
cit., 307-308; Silvano Burgalassi,
Incunaboli stampati a Pisa, «Antichità Pisane», 1975, n. 1, 14-27, con
l’elenco dei libri stampati dal 1482 al
[89] Cfr. Bastianoni, Catoni, Impressum Senis cit.,
17-40, e degli stessi, Studenti, tipografi e librai a Siena fra Repubblica e
Principato, in Lo Studio e i testi. Il libro universitario a Siena
(secoli XII-XVII), a cura di Mario
Ascheri, Siena 1996, 183-184. Sul tipografo tedesco cfr. Albano Sorbelli, Enrico di Colonia e
altri tipografi tedeschi a Bologna nel secolo XV, «Sonderdruck aus dem
Gutenberg. Jahrbuch», 1929, 109-126; Marzi,
I tipografi tedeschi in Italia cit., 407 sgg.; Luigi Balsamo, Primordi della stampa tipografica a
Modena: 1473 anziché
[90] Cfr. oltre il vecchio studio di Leo
Zdekauer, Lo Studio di Siena nel Rinascimento, Milano 1894 (rist.
anast. Bologna 1977), Peter Denley,
Dal 1357 alla caduta della Repubblica, in L’Università di Siena 750
anni di storia, Siena 1991, 27-38; Gianfranco
Fioravanti, Università e città, cultura umanistica e cultura
scolastica a Siena nel ’400, Firenze 1980-81 (estratto da «Rinascimento»),
117-167; Paolo Nardi, Umanesimo
e cultura giuridica nella Siena del Quattrocento, «Studi Senesi», 93
(1981), 425-445; Giovanni Minnucci,
Bibliografia sulla storia dell’Università di Siena dalle origini fino al XVI
secolo, in I tedeschi nella storia dell’Università di Siena, a cura
di Giovanni Minnucci, Siena 1988,
159-165, per ulteriori riferimenti bibliografici.
[91] Carlo Dionisotti, Filologia
umanistica e testi giuridici fra Quattrocento e Cinquecento, in La
critica del testo, Atti del secondo congresso internazionale della Società
italiana di storia del diritto, I, Firenze 1971, 192-198; Giuliana D’Amelio, Caccialupi
Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, XV, Roma
1972, 790-797; Mario Ascheri, Giuristi,
umanisti e istituzioni del Tre-Quattrocento: qualche problema, «Annali
dell’Istituto storico italo-germanico di Trento», 3 (1977), 62-70.
[92] Cfr. Bastianoni,
Catoni, Impressum Senis cit., 62-73; Dennis E. Rhodes,
The incunabula of Siena, in Essays in honour of Victor Scholderer,
Mainz, Karl Pressler, 1970, 337-348.
[94] Cfr. Fava, Manuale
degli incunaboli cit., 95-96; Rodolfo
Maiocchi, L’introduzione della stampa a Pavia, «Bollettino della Società
Pavese di Storia Patria», 2 (1902), 66-85; Fumagalli,
Lexicon cit., 289-291; Agostino
Sottili, Università e cultura a Pavia, in età visconteosforzesca,
in Storia di Pavia, III, 1, Pavia 1990, 359-451; Arnaldo Ganda, Guarguaglia Manfredo, in Dizionario
Biografico degli Italiani, LX, Roma 2003, 323-325; E. Gualandi, La tipografia in Pavia nel secolo XV,
«Bollettino della Società Pavese di Storia Patria», 59 (1959), 43-45; Arnaldo Ganda, Giovanni Sedriano e
Manfredi Guarguaglia. Nuovi documenti sulla prototipografia pavese,
«Accademie e Biblioteche d’Italia», 68 (2000), 66-85.
[95] Tullia Gasparrini Leporace,
Notizie e documenti inediti su Jacopo Suigo tipografo del sec. XV, «La
Bibliofilia», 49 (1947), 44; G. Deabate,
Jacopo Suigo da San Gennaro celebre tipografo piemontese del secolo XV,
Torino, 1899.
[97] Cfr. Caterina Santoro,
Gli inizi dell’arte della stampa, in Storia di Milano, VII, L’età
sforzesca, 1450-1500, Roma 1956, 872-882; Teresa
Rogledi Manni, La tipografia a Milano nel XV secolo, Firenze
1980; Arnaldo Ganda, I primordi
della tipografia milanese: Antonio Zarotto da Parma, Firenze 1984; Id., Niccolò Gorgonzola editore e
libraio in Milano (1496-1536), Firenze 1988.
[98] Cfr. sull’editoria padovana del XV secolo soprattutto Angelo Colla, Tipografi, editori e
libri a Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Trento, in La stampa degli
incunaboli nel Veneto, Vicenza 1984, 47-61, e Neri Pozza, L’editoria veneziana da Giovanni da Spira ad
Aldo Manuzio. I centri editoriali di Terraferma, in Storia della cultura
veneta, III/2, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza
1980, 240-244; Dennis E. Rhodes, Rettifiche
e aggiunte alla storia della stampa a Padova, 1471-
[99] Cfr. a questo proposito Pier
Silverio Leicht, L’editore veneziano Michele Tramezino ed i suoi
privilegi, in Miscellanea di scritti di bibliografia ed erudizione in
memoria di Luigi Ferrari, Firenze 1952, 357-367.
[101] Cfr. François Dupuigrenet
Desroussilles, L’Università di Padova dal 1405 al Concilio di Trento,
in Storia della cultura veneta cit., III/2, 615.
[103] Cfr. Short-title catalogue of books printed in Italy cit.,
739; Roberto Ridolfi, Lo
«stampatore del Mesue» e l’introduzione della stampa in Firenze, «La
Bibliofilia», 56 (1954), 1-20, Id., La
stampa a Firenze cit., 29-48, che modificò l’attribuzione del tipografo di
Mesue da Firenze a Padova; cfr. Dennis E.
Rhodes, Ancora per lo stampatore del Mesue, in Studi offerti a
Roberto Ridolfi direttore de «La Bibliofilia», a cura di Berta Maracchi Biagiarelli e Dennis E. Rhodes, Firenze 1973, 407-412.
Cfr. anche Aurora Cano Ledesma, Medicina
generale, in Storia della scienza, III, La civiltà islamica,
a cura di Roshdi Rashed, Roma
2002, 760, 783-
[104] Pietro Verrua, Studenti,
librai, bidelli, strozzini e dazio, «La Bibliofilia», 30 (1928), 223-228, e
Nuovo, Il commercio librario
cit., 67.
[106] Cfr. Colla, Tipografi,
editori cit., 59; Enrico Carone,
Bagellardo Paolo, in Dizionario Biografico degli Italiani, V,
Roma 1963, 179-180.
[107] Cfr. Silvia Reymond Munari,
La stampa dei «Consilia» di Bartolomeo Montagnana e dei «Consilia» di Angelo
degli Ubaldi in due contratti del 1475, «Quaderni per la storia dell’Università
di Padova», 13 (1980), 182-187; Giuseppe
Ongaro, La medicina nello Studio di Padova e nel Veneto, in Storia
della cultura veneta cit., III/3, 78-79, 98; Giovanni Mardersteig, La singolare cronaca della nascita
di un incunabolo. Il commento di Gentile da Foligno all’Avicenna stampato da
Pietro Maufer nel 1477, «Italia medioevale e umanistica», 8 (1965),
249-267; ed inoltre Tiziana Pesenti
Marangon, La miscellanea astrologica del prototipografo padovano
Barlolomeo Valdizocco e la diffusione dei testi astrologici e medici tra i
lettori padovani del ’400, «Quaderni per la storia dell’Università di
Padova», 11 (1978), 87-106.
[111] Le notizie sugli stipendi e sulle prestazioni delle maestranze si
ricavano da Rigoni, Stampatori
cit., 5-9, 18; Mardersteig, La
singolare cronaca cit., 251, 259-260; Sartori,
Documenti cit., n. VII; Colla, Tipografi,
editori cit., 40-41. Per un quadro comparativo cfr. anche Giuseppe Dondi, Apprendisti librai e operai
tipografi in tre officine piemontesi del secolo XVI, in Contributi alla
storia del libro italiano. Miscellanea in onore di Lamberto Donati, Firenze
1969, 115-116; Frédéric Barbier, Storia
del libro dall’antichità al XX secolo, postfazione di Mario Infelise, Bari 2004 (I ed. Paris
2001), 157-160. I collaboratori meglio retribuiti erano il correttore delle
bozze e il curatore dell’opera. Le bozze dovevano essere corrette appena le
pagine erano composte: data la penuria di caratteri bisognava riutilizzarli
subito per le pagine successive. La correzione era affidata a studenti universitari,
maestri di grammatica e di retorica, ma spesso anche a professori dello Studio
o a colti umanisti. Il curatore, cioè colui che preparava l’exemplar da affidare ai compositori,
aveva spesso un utile nella compartecipazione all’impresa editoriale e veniva
talvolta compensato con un certo numero di copie appena stampate.
[112] Cfr. Deno J. Geanakoplos, Erasmus
and Aldine Academy of Venice, «Greek, Roman and Byzantine Studies», 3
(1960), 107-134; Manlio Dazzi, Aldo Manuzio
e il dialogo veneziano di Erasmo, Vicenza 1969, 131-145; Gigliola Fragnito, Gasparo Contarini. Un
magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988, 146-151; Gino Benzoni¸ Venezia
[113] Erasmo da Rotterdam, Colloquia,
progetto editoriale e introduzione di Adriano
Prosperi, edizione con testo a fronte a cura di Cecilia Asso, Torino 2002, 1205, 1225.
[114] Cfr. Carlo Castellani, La
stampa in Venezia dalla sua origine alla morte di Aldo Manuzio seniore,
Venezia 1889, 35, e gli altri vecchi studi di Horatio
Forbes Brown, The Venetian printing press: 1469-1800. An historical
study based upon documents for the most part hitherto umpublished, London
1891; Ferdinando Ongania, L’arte
della stampa nel Rinascimento italiano, I, Venezia, Venezia 1894; Ester Pastorello, Bibliografia
storico-analitica dell’arte della stampa in Venezia, Venezia 1933, Ead., Tipografi, editori, librai a
Venezia nel secolo XVI, Firenze 1924, tutti assai ricchi di informazioni.
[115] Cfr. Neri Pozza, L’editoria
veneziana da Giovanni da Spira ad Aldo Manuzio, in La stampa degli
incunaboli nel Veneto, cit., 12, e più in generale il fondamentale lavoro
di Marino Zorzi, Dal manoscritto al libro, in Storia
di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, IV, Il
Rinascimento. Politica e cultura, a cura di Alberto
Tenenti e Ugo Tucci, Roma
1998, 872-892.
[116] Cfr. Francesco Barberi, La
tipografia italiana del Quattrocento, in Per una storia del libro
cit., 13; Neddermeyer, Von der
Handschrift cit., I, 121.
[117] Cfr. Giovanni Mardersteig, Nuovi
documenti su Felice Feliciano da Verona, «La Bibliofilia», 49 (1939),
106-108. Il manoscritto del calligrafo veronese conservato nella Biblioteca
Apostolica Vaticana è stato ripubblicato: Felice
Feliciano, Alphabetum Romanum, a cura di Giovanni Mardersteig, Verona 1960. Cfr. anche Giovanni Pozzi, Giulia
Gianella, Scienza antiquaria e letteratura. Il Feliciano. Il Colonna,
in Storia della cultura veneta cit., III/1, 460-477; Franco Pignatti, Feliciano Felice,
in Dizionario Biografico degli Italiani, XLVI, Roma 1996, 82-90.
[118] La biografia del tipografo francese e la vicenda della sua
attività editoriale sono state ricostruite nel bel volume di Martin Lowry, Nicholas Jenson and the
rise of Venetian publishing in Renaissance Europe, Oxford-Cambridge Mass,
1991, tradotto in italiano Nicolas Jenson e le origini dell’editoria
veneziana nell’Europa del Rinascimento, Roma 2002.
[119] Cfr. Steinberg, Cinque secoli
di stampa cit., 58-64; Giovanni
Mardesteig, Aldo Manuzio e i caratteri di Francesco Griffo da Bologna,
in Studi di bibliografia e di storia cit., III, 105-147; Aldo Manuzio
tipografo 1494-1515, catalogo, a cura di Luciana
Bigliazzi, Angela Dillon Bussi, Giancarlo Savino, Piero Scapecchi,
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 17 giugno-30 luglio 1994, Firenze
1994, 33-34; Ralph Exter, Aldus, Greek, and
the shape of the “classical corpus”, e Nicolas
Barker, The Aldine Italic, entrambi in Aldus Manutius and
Renaissance culture. Essays in memory of Franklin D. Murphy, edited by David S. Zeidberg, with the assistence of Fiorella Gioffredi Superbi,
Firenze, Olschki, 1998, 143-160, e soprattutto Luigi
Balsamo e Alberto Tinto, Origini del
corsivo nella tipografia italiana del Cinquecento, Milano 1967, 25-60.
[120] Petrucci, Alle origini del
libro moderno cit., 140. Cfr. anche Aldo Manuzio tipografo cit., 82.
[121] Niccolò Machiavelli, Opere
scelte, a cura di Gian Franco Berardi,
introduz. di Giuliano Procacci, Roma 1981, 595.
Cfr. anche Francesco De Leonardis-Angela Nuovo, Il libro nella pittura del
Rinascimento, in Il libro nell’Italia del Rinascimento, a cura di Angela Nuovo-Ennio Sandal, Brescia 1998, 105-159,
dove il libro portatile è raffigurato nei ritratti di Raffaello, Giorgione, Tiziano,
Bronzino, Lotto e Moroni.
[122] Cfr. Anthony Grafton, L’umanista
come lettore, in Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura
di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, Roma-Bari 1995, 199-204.
[124] Cfr. Fumagalli, Lexicon
cit., 454; Domenico Fava, I
libri italiani a stampa del secolo XV con figure della Biblioteca Nazionale di
Firenze, Milano 1936, 91-148; Max
Sander, Le livre à figures italien depuis 1467 jusqu’à 1530. Essai de
bibliographie et de son histoire, Milano 1942; Sergio Samek Luduvici, Arte del libro. Tre secoli di
storia del libro illustrato dal Quattrocento al Seicento, Milano 1974,
88-93; Gianvittorio Dillon, Sul libro
illustrato del Quattrocento: Venezia e Verona, in La stampa degli
incunaboli cit., 81-96; Pietro Scapecchi, L’“Hyperatomachia
Poliphili” e il suo autore, «Accademie e biblioteche d’Italia», 51 (1983),
286-298; Id., Aldo Manuzio. I
suoi libri, i suoi amici, tra XV e
XVI secolo, Firenze 1994, 62-64; Alessandro
Parronchi, Lo xilografo della Hypneratomachia Poliphili: Pietro
Angelo Agabiti?, «Prospettiva», 1984, n. 33-36, 101-111; Maurizio Calvesi, Il sogno di Polifilo Prenestino,
Roma 1980; Id., “Hypnerotomachia Poliphili”.
Nuovi riscontri e nuove evidenze documentarie per Francesco Colonna signore di
Preneste, «Storia dell’arte», 60 (1987), 85-136. Cfr. anche Zorzi, Dal manoscritto cit., 889-892, e, più
in generale, Armando Petrucci, Il
libro illustrato italiano del Quattrocento, in Libri, scrittura e
pubblico nel Rinascimento cit., 81-97, e The painted page. Italian Renaissance book illumination
1450-1550, edited by Jonathan James Graham Alexander, Münich-New York
1994, pp. 162-238, con ampia bibliografia, pp. 258-269.
[125] Fernand Braudel, L’Italia fuori
d’Italia. Due secoli e tre Italie, in Storia d’Italia, II, 2, Dalla
caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, 2144-2147.
[126] Cfr. Jean-François Gilmont,
Les centres de la production imprimée aux XVe et XVIe siècles, in Produzione
e commercio della carta cit., 351; Barberi,
La tipografia italiana del Quattrocento cit., 13.
[127] Vittore Branca, L’umanesimo
veneziano e l’arte del libro, «Revue des Études Italiennes», 27 (1981),
327.
[129] Cfr. Victor Scholderer, Printing
a Venice to the end of
[130] Cfr. Luigi Balsamo, Tecnologia
e capitali nella storia del libro, in Studi offerti a Roberto Ridolfi
cit., 85-89, e soprattutto Zorzi, Dal
manoscritto cit., 888-889; Giorgio Montecchi,
Dalla pagina manoscritta alla pagina stampata nei breviari in caratteri
glagolitici, Anica Nazor, I
libri glagolitici stampati a Venezia, entrambi in Il libro nel bacino
adriatico (secc. XV-XVIII), a cura di Sante Graciotti,
Firenze 1992, 3-30, 75-84, e infine, sui libri in greco cfr. Deno J. Geneakoplos, Greek scholars
in Venice. Studies in the
dissemination of Greek learnig from Byzantium to Western Europe, Cambridge Mass., 1962, che descrive il contributo
dato dall’umanesimo veneziano agli studi greci; Nicolas
Barker, Aldus Manutius and the development of Greek script and type
in the fifteenth century, Sandy Hook Conn. (USA),
Chriswich Book Shop inc., 1985; Despina Vlassi Sponza,
I greci a Venezia: una presenza costante nell’editoria (secc. XV-XX), in
Armeni, ebrei, greci stampatori a Venezia, catalogo della mostra,
Venezia 1989, 71-99; Le edizioni di testi greci da Aldo Manuzio e le prime
tipografie greche di Venezia, Catalogo e cura di Manoussos
Manoussacas e Kostantinos Staikos, Atene
1993; Evro Layton, The sixteenth century
Greek book in Italy. Printers and publishers for the Greek world, Venice
1994, 3-55.
[131] Cfr. Edoardo Barbieri, Le
Bibbie italiane dal Quattrocento al Cinquecento. Storia e bibliografia
ragionata delle edizioni in lingua italiana dal 1471 al 1600, I, Milano
1992, 37-70, con relativa bibliografia; Luigi Balsamo,
La Bibbia in tipografia, in La Bibbia a stampa da Gutenberg a Bodoni,
a cura di Ida Zatelli, Firenze 1996, 18-19; The
Bible as book the first printed editions, edd. P. Saenger-K. Van Kampen,
London, 1999; Ugo Rozzo, Linee
per una storia dell’editoria religiosa in Italia (1465-1600), Udine 1993,
14-18.
[134] Cfr. Victor Scholderer, Printers and readers in Italy in the fifteenth century, in Fifty
essays, 202 sgg.; Gedeon Borsa, Clavis
typographorum librariorumque Italiae 1463-1600, II, Aureliae Aquensis 1980,
386 sgg.; Martin C. Lowry, La
produzione del libro, in Produzione e commercio della carta cit.,
375-382.
[135] Cfr. Lowry, Nicholas Jenson
cit., 173-206, ritiene che fin dagli anni ottanta del Quattrocento le tirature
medie si avvicinassero alle 2.000 copie; Aldo Manuzio
tipografo cit., n. 55, 97.
[137] Sul commercio del libro cfr. Nuovo,
Il commercio librario nell’Italia cit., 66-90, con relativa bibliografia
a cui si rinvia, e della stessa, Il commercio librario a Ferrara tra XV e
XVI secolo. La bottega di Domenico Sivieri, Firenze 1998, 23-27, sulla
diffusione del libro veneziano nella città emiliana alla fine del XV secolo,
anche Luigi Balsamo, Commercio
librario attraverso Ferrara fra 1476 e 1481, «La Bibliofilia», 85 (1983),
277-298; Richardson, Stampatori,
autori cit., pp. 5-6. Cfr. inoltre il recente volume miscellaneo, Incunabula
and Their Readers. Printing, Selling and Using Books in the Fifteenth Century, edited by Kristen
Jensen, London
[140] Cfr. Gedeon
Borsa, Eine gedruckte venediger Buchführeranzeige um das Jahr 1476,
«Gutenberg Jahrbuch», 1961, 43-48.
[141] Cfr. Bernd
Breitenbruch, Ein Fragment einer bisher unbekannten Buchhändleranzeige,
«Gutenberg Jahrbuch», 1987, 138-145, e per i cataloghi aldini, Aldo Manuzio tipografo cit., n. 30, 61,
n. 76, 119, n. 118, 164-169; Martin Lowry,
The Manutius publicity campaign, in Aldus Manutius and Renaissance culture
cit., 31-46; Klaus Wagner, Aldo Manuzio e i prezzi dei suoi libri,
«La Bibliofilia», 77 (1975), 77-82; Carlo
Dionisotti, Aldo Manuzio umanista,
in Aldo Manuzio umanista e editore,
Milano 1995, 23-36.
[142] Cfr. Martin Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio. Affari e cultura
nella Venezia del Rinascimento, Roma 1984 (I ed. Oxford 1979), 99-146.
[144] Carlo Dionisotti, Aldo Manuzio editore, in Aldo Manuzio umanista cit., 91; Id., Aldo
Manuzio, in Dizionario critico della
letteratura italiana, a cura di Vittore Branca,
III, Torino 1986, 42-44. Fondamentali per la conoscenza di Aldo sono i testi
raccolti in Aldo Manuzio editore.
Dediche, prefazioni, note ai testi, a cura di Giovanni Orlandi, introduzione di Carlo Dionisotti, Milano 1975, e in Ester Pastorello, Di
Aldo Pio Manuzio: testimonianze e documenti, «La Bibliofilia», 67 (1965), n.
2, 163-220. Cfr. anche Aldo Manuzio e
l’ambiente veneziano cit.; Aldus
Manutius and renaissance culture cit.; Martin
Davies, Aldus Manutius, printer
and publisher of Renaissance Venice, London 1995. Sugli aspetti tecnici
cfr., fra gli altri, Giorgio Montecchi, L’imposizione nei libri in
ottavo di Aldo Manuzio, e Piccarda
Quilici, La legatura aldina, entrambi in La stampa in Italia
nel Cinquecento, Atti del convegno, Roma, 17-21 ottobre
[145] Cfr. Antoine
Augustin Renouard, Annales de
l’imprimerie des Alde ou histoire des trois Manuce et de leurs éditions, New
Castle, Delaware (USA), 1991 (I ed. Paris 1834), 1-45; Aldo Manuzio
tipografo cit., 27-145. Cfr. anche Brian
Richardson, Bembo and his influence, 1501-
[146] Cfr. Daniela Mugnai Carrara,
Nicolò Leoniceno, «Interpres», 2
(1979), 169-212; e della stessa, La biblioteca
di Nicolò Leoniceno. Tra Aristotele e Galeno: cultura e libri di un medico
umanista, Firenze, Olschki, 1991.
[147] Cfr. John
Monfasani, The first call of press
consorship: Niccolò Perotti, Giovanni Andrea Bussi, Antonio Moreto, and the
editing of Pliny’s “Natural History”, «Reinassance Quaterly», 41 (1988),
1-31.
[148] Cfr. Vittore Branca, L’umanesimo veneziano alla fine del
Quattrocento: Ermolao Barbaro e il suo circolo, in Storia della cultura veneta cit., III/1, 150-155; anche in Id., La
sapienza civile. Studi sull’umanesimo a Venezia, Firenze 1998, 59-103; Id., L’umanesimo,
in Storia di Venezia cit., IV,
731-739; Emilio Bigi, Barbaro Ermolao, in Dizionario
Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, 96-99.
[149] Cfr. Zorzi, Dal manoscritto al libro cit., 893. Le imprecisioni tipografiche e
le mende degli originali sono anche una caratteristica successiva, cfr. Robert Darnton, Le
licenze del tipografo, «The New York Review of Books. La rivista dei
libri», 14 (2004), n. 5, 18-22, e soprattutto Donald F.
McKenzie, Stampatori della mente e
altri saggi, con un saggio introduttivo di Michael
Suarez, Milano 2003 (I ed. Amherst-Boston 2002), 29-99.
[150] Francesco Calasso, Medioevo del diritto, I, Le fonti, Milano 1954, 598, e più in
generale dello stesso, Umanesimo
giuridico, in Introduzione al diritto
comune, Milano 1970, 181-205.
[151] Francesco Petrarca, Epistulae de rebus familiaribus et variae,
edizione e traduzione di Giuseppe Fracassetti,
I, Firenze 1859, XX, IV. Per la datazione cfr. Ugo
Dotti, Vita di Petrarca,
Roma-Bari 1987, 16-17. Cfr. soprattutto Maurizio
Manzin, Il petrarchismo giuridico.
Filosofia e logica del diritto agli inizi dell’umanesimo, Padova, Cedam,
1994, 34-51, 147-152, 193-198.
[153] Lorenzo Valla, Epistula carissimo et eloquentissimo viro
Candido Decembri, in Opera,
Basileae, apud Henricum Petrum, 1540, ora ristampa anastatica Opera, I, prefaz. di Eugenio Garin, Torino 1962, 633-643. Cfr. a questo
proposito, oltre Eugenio Garin, L’umanesimo italiano. Filosofia e vita
civile nel Rinascimento, Roma-Bari 1994 (I ed. 1952), 62-69, soprattutto Domenico Maffei, Gli
inizi dell’umanesimo giuridico, Milano 1956, 37-39, ed inoltre Gaeta, Lorenzo
Valla cit., 120-126, con un giudizio sostanzialmente riduttivo; Giacomo Manfredi, Lorenzo
Valla e i giuristi medievali, «Archivio storico per le province parmensi»,
serie 4, 9 (1957), 267-270; Riccardo Fubini, Umanesimo e secolarizzazione da Petrarca a
Valla, Roma, Bulzoni, 1990, 340 ss.; Mariangela
Regoliosi, Due nuove lettere di
Lorenzo Valla, «Italia medioevale e umanistica», 25 (1982), 164-185.
[154] Lorenzo Valla, Prefazione al terzo libro delle Eleganze,
in Prosatori latini del Quattrocento,
a cura di Eugenio Garin,
Milano-Napoli 1952, 613. Cfr. Lorenzo
Valla e l’Umanesimo italiano, Atti del Congresso internazionale di studi
umanistici, Parma, 18-19 settembre
[155] Cfr. Domenico Maffei, La donazione di Costantino nei giuristi
medievali, Milano 1964, 321-346, e l’efficace traduzione italiana La falsa donazione di Costantino, a cura
di Gabriele Pepe, Milano 1996.
[156] Cfr. a questo proposito Iozef Ijsewijn
e Gilbert Tournoy, Un primo censimento dei manoscritti e delle edizioni a stampa degli
«Elegantiarum linguae latinae libri sex» di Lorenzo Valla, «Humanistica
Lovanensia», 18 (1969), 25-41, e l’integrazione, 20 (1971), 1-3, col titolo Nuovi contributi per l’elenco dei
manoscritti e delle edizioni delle «Elegantiae» di Lorenzo Valla.
[157] Cfr., oltre il classico lavoro di Maffei,
Gli inizi dell’umanesimo giuridico
cit., 81 ss., sempre attuale e stimolante, Cortese,
Il diritto nella storia medievale
cit., II, 452-484, con bibliografia aggiornata cui si rinvia.
[158] Cfr. Enrico Spagnesi, La «littera Florentina»: miti e documenti,
in Le Pandette di Giustiniano. Storia e
fortuna di un codice illustre, due giornate di studio (Firenze, 23-24
giugno 1983), Firenze 1986, 99-130; Ennio Cortese,
Il diritto nella storia medievale, I,
L’alto Medioevo, Roma 1995, 380-382;
e la riproduzione anastatica del codice in facsimile Justiniani Augusti Pandectarum. Codex Florentinus, a cura di Alessandro Corbino e Bernardo
Santalucia, Firenze 1988.
[159] Guglielmo Cavallo, Libro e pubblico alla fine del mondo antico,
in Libri, editori e pubblico nel mondo
antico. Guida storica e critica, Roma-Bari, Laterza, 1975, 129, e dello stesso,
La circolazione libraria nell’età di
Giustiniano, in L’imperatore
Giustiniano. Storia e mito, Giornate di studio a Ravenna, 14-16 ottobre
[160] François Rabelais, Gargantua
e Pantagruele, a cura di Mario
Bonfantini, II, Torino 1953, 293. Cfr. anche Enzo
Nardi, Rabelais e il diritto
romano, Milano 1962, 223 ss.
[161] Cfr. Severino Caprioli, Visite alla pisana, in Le Pandette di Giustiniano cit., 37-98.
Sul tentativo di Poliziano, cfr. il vecchio studio di Francesco
Buonamici, Il Poliziano
giureconsulto o della letteratura nel diritto, Pisa 1863, e soprattutto Maffei, Gli
inizi dell’umanesimo giuridico cit., 84-90, Vittore
Branca, Poliziano e l’umanesimo
della parola, Torino 1983, 182-189, oltre la penetrante lettura di Calasso, Medioevo
del diritto cit., I, 599-600.
[162] Cfr. Severino Caprioli, Indagini sul Bolognini. Giurisprudenza e
filologia nel Quattrocento italiano, Milano 1969, 205-269; Id., Bolognini
Ludovico, in Dizionario Biografico degli
italiani, XI, Roma 1969, 337-352.