Assolutismo e
tradizione statutaria.
Il governo sabaudo e il diritto consuetudinario del Regno di
Sardegna (1720-1827)
Università di Sassari
Sommario: 1. Nel
segno della continuità. – 2. L’intervento
riformatore nell’isola. – 3. L’evasione dell’ordinamento consuetudinario: i
Consigli comunitativi e la chiusura dei campi. – 4. Tradizione consuetudinaria
e “diritto patrio”. – 5. Il crepuscolo della Carta de Logu.
«
Nel corso di quattro
secoli
Viceversa, nel decennio
1713-23 vennero realizzate in Piemonte profonde e significative riforme
nell’ambito istituzionale e fiscale che favorirono l’affermazione
di un sistema assolutistico, un vero e proprio Polizeistaat, fondato
sulla centralizzazione amministrativa e sull’organizzazione di
un’efficiente burocrazia, che richiedeva ordine e obbedienza e
presupponeva la formazione di un nuovo ceto di funzionari pubblici[3]:
l’editto di perequazione dei feudi contribuì a ridimensionare
notevolmente il peso del baronaggio soprattutto nelle campagne; la
razionalizzazione delle Segreterie di Stato e il riordinamento
dell’amministrazione finanziaria, rafforzò l’autorità
del governo centrale sulle realtà periferiche; con la promulgazione
delle nuove Costituzioni (1723) venne varata una prima, importante
consolidazione del diritto patrio subalpino[4]; infine con la
«restaurazione» dell’Università di Torino fu imposto
il controllo governativo sull’istruzione superiore. Era quindi per certi
versi comprensibile che, nel confronto tra due realtà così
diverse, un viceré sabaudo potesse sentirsi del tutto estraneo alle
forme di vita e alle tradizioni del mondo sardo, che spesso, nei carteggi con
L’atto di
cessione del Regno di Sardegna dalla Spagna al Piemonte (1720) stabiliva
infatti la continuità degli ordinamenti e imponeva ai nuovi dominatori
l’osservanza degli antichi privilegi e statuti. Nella
cerimonia di presa di possesso del Regno, celebrata nella cattedrale di
Cagliari il 2 settembre, il primo viceré sabaudo, il barone di
Saint-Rémy, giurò il rispetto delle leggi e delle costituzioni
della Sardegna secondo le clausole dei trattati internazionali: «Juramos
a Dios nuestro Señor, a Su Santissima Cruz y sagrados Evangelios con
nuestras manos corporalmente tocados sobre dicho libro missal – recitava
la formula del giuramento – […] de tener y observar […]
qualquesquier privilegios, constituciones, capitulos de corte, pragmaticas,
sanctiones, estatutos, ordenacionies, libertades, franquesas, exempciones,
buenos usos, fueros, costumbres escritas o no escritas, indultos y otros
qualesquier generos de concessiones y gracias […], capitulos de breu, Carta
de Logu, y todas qualesquier cosas que en semejantes juramentos se ha
acostumbrado jurar por los serenissimos Reyes de Aragón de imortal
memoria concedidos y otorgados»[6].
L’elenco
così minuzioso e dettagliato dimostra che, almeno formalmente, il nuovo
sovrano non poteva derogare dal rispetto del diritto concesso nel corso
dei secoli dai re d’Aragona e di Spagna, e che comprendeva non soltanto
le prammatiche e i capitoli di corte, gli statuti e i brevi, le franchigie
e i fueros, ma anche le grazie e i privilegi individuali, le
consuetudini scritte e quelle tramandate oralmente. È comprensibile come
lo stesso Vittorio Amedeo II, alla vigilia della presa di possesso del Regno,
inviasse una rigida istruzione al viceré: «La conformità
sovra inculcatavi degl’usi pratticati […] dai viceré
spagnuoli – scriveva il 20 maggio 1720 – dovrà essere anco
in riguardo alle leggi, costituzioni et usanze […]. Vi accomoderete per
altro alle maniere di que’ popoli e non permetterete, che si dia alcun
segno di disprezzo de’ loro costumi naturali e delle loro usanze, schivando
d’introdurne dell’altre tra di essi, ancorché le conoscerete
migliori […]. La prima, e principal regola […] dovrà essere
di non innovare, ma di lasciare nello stato in cui le troverete»[7].
Raccomandazioni ribadite anche il 10 novembre, dopo
l’insediamento del viceré: «Ces maximes sont de conformer
entièrement à ce que les Espagnols pratiquaient, principalement
avant les troubles arrivés dans ce Rojaume […], sans les
altérer; ni innover, parce que par ce moien ces peuples
s’aperçevant que l’on se conforme aux usages passéz,
s’accoutumerant facilement à nôtre domination»[8].
Il governo sabaudo intanto
doveva fare i conti col complesso sistema degli ordinamenti giuridici di
quell’isola lontana: «Le leggi particolari del Regno –
afferma una Veridica rellazione anonima del 1720 –, colle quali si
sentenziarono le cause sono primieramente quelle antichissime […] le
quali sono in lingua sarda chiamate Carta de Logu alla riserva di tutto
ciò, che non è riformato per le pragmatiche […] o per gli
atti di corte; secondo in mancanza della disposizione di detta Carta de Logu,
o per essere rinnovata, si giudica a tenore del disposto in esse pragmatiche o
atti di corte, terzo, per le costituzioni di Catalogna communicate al Regno per
privileggio; quarto in mancanza di tutto il suddetto si segue
D’altra parte il
ministero torinese non si stancava di ripetere, come nelle istruzioni del 30
ottobre 1731 al viceré marchese di Castagnole, di non innovare nulla e
di governare attenendosi strettamente alla pratica ormai consolidata del modello
spagnolo: «Lo studio vostro principale sarà di seguire in ogni
cosa la traccia che vi hanno lasciata li Spagnuoli da Carlo II indietro –
recitano le istruzioni – […]. Vi conformerete nel resto alle leggi,
prammatiche, capitoli di corte, lettere reali ed usi del Regno per quanto li
troverete in osservanza…»[12]. Ma i problemi
erano molto più complessi da come, da lontano, il governo di Torino
spesso li valutava. In una memoria del 31 dicembre 1731 il viceré
marchese di Cortanze metteva in evidenza le difficoltà per un
funzionario piemontese di orientarsi tra le diverse fonti normative vigenti:
«Le prammatiche, capitoli di corte, lettere reali ed usi del Regno erano
osservate dai Spagnuoli, occorrendo frequentemente dispensare dagli Statuti
prammaticali – scriveva al sovrano – […]. Dalle disposizioni
delle lettere reali non si declina mai, né meno da’ capitoli di
corte, salvo in quanto a’ questi in quei casi, nei quali si dispensa
anche dalle prammatiche. Quanto poi agli usi, se questi sono inveterati, e
praticati da’ tribunali e magistrati nelle città senza
controversia, non vi ha dubbio che non si può da essi declinare senza
aggravio, ma occorre frequentemente che in molte cose condannabili allegano il costumbre,
che manca veramente di tutti quei requisiti acciò un uso abbia forza di
legge»[13]. Emergeva
un’aperta diffidenza verso l’antico ius municipale,
considerato espressione di una tradizione autonomista contrastante con la
concezione della sovranità propria di una monarchia assolutista come
quella sabauda.
Anche il reggente
Un primo, significativo
momento di svolta nella legislazione criminale si verifica negli anni trenta
del secolo e, in particolare, durante il governo viceregio del marchese di
Rivarolo[16]. Si era
discusso a lungo su come reprimere i delitti più gravi. Ad esempio, a
proposito dell’abigeato, considerato un «disordine altrettanto
insoffribile quanto universale», il viceré marchese di Castagnole
aveva informato il sovrano come in molti villaggi fosse «giunto
all’ultimo grado di sua enormità […]. Poiché li
delinquenti non si contentano di rubar poche pecore, ma alcuni furti restano
composti di molte centinaia»: il rimedio proposto era quello
dell’alloggiamento di truppe nelle «ville più infette, per
intimorirle e correggerle»[17]. Il ministero
torinese intendeva evitare a tutti i costi di violare le clausole
dell’atto di cessione introducendo innovazioni soprattutto
nell’ambito istituzionale: «Dovrete lasciare ai mentovati tribunali
tutta la cognizione che loro appartiene senza nostra ingerenza – si legge
nelle istruzioni al marchese di Rivarolo del 1735 – […], spettando
unicamente ai magistrati l’obbligazione di dispensare la giustizia
[…]. Quello che può appartenervi è d’invigilare che
da ognuno senza parzialità sia adempiuto il proprio dovere e che la
giustizia venga amministrata con rettitudine ed esattezza»[18].
Il 12 maggio 1736 il
viceré Rivarolo emana un pregone che fissa le norme per un Formolario
di procedura penale. Scopo del provvedimento è «costrurre un
formulario che possa servire di norma, per la formazione de’ processi
criminali, affinché nell’avvenire l’imperizia o
l’ignoranza non possano servire di scusa ai giudici e segretari delle
curie per molti difetti che cotidianamente si ravvisano nelle cause da essi
costrutte»[19]. Autore del Formulario
è il giudice della Reale Udienza, il cagliaritano Francesco Cadello[20]:
l’obiettivo è razionalizzare più che innovare la normativa
precedente. Il Formulario infatti fornisce ai giudici criminali, specie
delle curie inferiori, un dettagliato prontuario sulla ricognizione del
cadavere, sul modo di riconoscere le ferite e le fratture, sull’esame dei
testimoni, sul confronto tra i testi e il presunto reo, sulle verbalizzazioni,
sul ruolo dei notai e dei cerusici. Nell’ampia utilizzazione della
trattatistica criminale di diritto comune cinque-seicentesca, Cadello si
discosta spesso dalle tradizionali disposizioni della Carta de Logu
perseguendo una maggiore efficienza e celerità delle procedure,
precisando la funzione dei testi e offrendo per le stesse garanzie a favore
dell’imputato. Anche se viene sovente richiamata la vecchia normativa
soprattutto in tema di incariche[21].
Gli strumenti
repressivi adottati dal viceré Rivarolo hanno tutte le caratteristiche
della politica penale d’Antico Regime: forche, attanagliamenti, esilio,
spedizioni militari punitive, procedimenti sommari, arruolamenti forzati.
Tuttavia, la vera svolta nella politica sabauda non sta tanto nella repressione
militaresca della criminalità, quanto nella decisione di attuare una
minuziosa visita generale dei villaggi e delle città, dei feudi e delle
incontrade per conoscere direttamente le condizioni del Regno[22]:
al di là dei provvedimenti emanati in materia agricola o penale e delle
condanne dei «facinorosi», la visita del 1737 è importante
per questa verifica diretta della realtà dell’ordine pubblico e
dell’amministrazione della giustizia, del comportamento delle
autorità locali e degli ufficiali baronali, delle condizioni delle
carceri e degli archivi[23].
L’energico viceré accreditava la presenza dello Stato nei villaggi
rurali, imponendo l’ordine con la «purgazione de’
malviventi», che erano a suo avviso «quasi tutti protetti da’
cavalieri o principali» e dagli stessi «ecclesiastici»[24].
Un’altra
rilevante riforma fu realizzata da Rivarolo con l’editto del 15 maggio
1738 che istituiva le tappe di insinuazione (gli uffici preposti alla
conservazione degli atti notarili) nelle città e nei villaggi maggiori
–innovando gli antichi capitoli della Carta de Logu sul notariato
–: il modello era quello già «sperimentato negli Stati di
Terraferma», nell’intento di eliminare i «danni» e
gli «abusi gravissimi» causati dalla «mancanza di archivi
pubblici», garantendo con la registrazione degli atti e delle
«scritture pubbliche, de’ contratti, de’ testamenti,
codicilli ed altre disposizioni» la certezza del diritto[25].
Nonostante la
severità della politica repressiva del viceré Rivarolo, il
fenomeno criminale riesplose in tutta la sua virulenza negli anni quaranta e
cinquanta. L’incremento del numero degli omicidi, delle grassazioni e dei
furti viene imputato da Manno alla «fiacchezza» dei governi
viceregi[26]. In realtà,
la nuova ondata di crimini era il prodotto di una serie di concause: la
rilevanza economica del fenomeno del contrabbando, in cui una ben ramificata
organizzazione malavitosa, grazie alla complicità dei corsi, traghettava
clandestinamente nelle Bocche di Bonifacio il bestiame rubato nell’isola
vicina, attività che vedeva impegnate non solo quadrillas di
banditi ma anche nobili e principali dei villaggi dell’Anglona e della
Gallura[27];
e insieme le vendette, le lotte di fazione, l’assenza dello Stato, le
carenze dell’amministrazione della giustizia baronale e, non ultima, la
pluralità e la contraddittorietà delle leggi.
All’interno dei
principi-guida della politica assolutistica attuata negli Stati di Terraferma,
anche in Sardegna l’iniziativa legislativa era diretta manifestazione del
ministero torinese e della Segreteria di Stato e di Guerra cagliaritana: gli
editti e i pregoni, cioè la volontà regia e viceregia, venivano
privilegiati come normativa primaria rispetto alle altre fonti della tradizione
«patria». Le clausole dell’atto di cessione che imponevano il
rispetto degli ordinamenti catalano-aragonesi e spagnoli venivano così
aggirate o svuotate di significato. Ad esempio, i Parlamenti, che davano
rappresentanza ai ceti privilegiati locali, non vennero più riconvocati.
Dal periodo della guerra di successione spagnola si era affermata la prassi, in
principio straordinaria, di far approvare l’importo del donativo annuale
dalle sole prime voci dei tre Stamenti. I tentativi del 1730-31 e del 1751 di
«congregare le Corti» fallirono miseramente[28].
I capitoli di corte si configuravano ormai come un retaggio del passato,
espressione di un contrattualismo tra Corona e Stamenti completamente estraneo
alla logica assolutistica piemontese.
In questo quadro
Gli anni dal 1739 al
1755 costituiscono una fase di sostanziale immobilismo della politica sabauda
verso
Soltanto dopo la pace
di Aquisgrana (1748) il governo piemontese iniziò a considerare sotto una
luce diversa il Regno di Sardegna e a predisporre un intervento riformatore
nell’isola. Artefice di questa politica fu il conte Giovanni Battista
Lorenzo Bogino, un esponente della nobiltà di toga emersa durante il
regno di Vittorio Amedeo II, cui dal 1755 fu affidato l’incarico degli
affari di Sardegna[33]. Sotto la sua
guida venne acquisito il maggior numero di dati, di notizie e di informazioni
sulla realtà dell’isola che, inseriti e rielaborati in ampie
relazioni e in dettagliati memoriali
potessero fornire tutti gli strumenti per una nuova politica di riforma.
Il Regolamento per il governo della Sardegna, emanato da Carlo Emanuele
III il 12 aprile 1755, appare come il tipico provvedimento legislativo di un
periodo di transizione: da un lato, infatti, guarda al nuovo e recepisce le
esigenze di funzionalità e le istanze di centralizzazione che avevano
caratterizzato i provvedimenti sabaudi per gli Stati di Terraferma;
dall’altro appare ancora condizionato da tutta la normativa ereditata dal
periodo spagnolo. In ossequio alle clausole dell’atto di cessione il Regolamento
ribadisce formalmente l’«osservanza» delle leggi del Regno,
prammatiche e capitoli di corte, insieme agli «Statuti» (fra cui,
appunto,
L’intervento
riformatore venne accuratamente preparato in un arco di tempo che va dal 1755
al 1758, durante il quale tutte le informazioni disponibili, tutte i piani
elaborati, tutte le memorie e i progetti furono discussi nel corso di numerose
riunioni di giunta cui parteciparono, oltre il ministro, i magistrati del
Supremo Consiglio di Sardegna, i funzionari ministeriali e
l’ex-viceré conte di Bricherasio. Nel 1758 l’avvocato
Antonio Bongino, funzionario della Segreteria di Stato e di Guerra torinese,
venne incaricato di redigere un ampio memoriale capace di sintetizzare le
posizioni e gli interventi emersi nel corso delle riunioni di giunta e le
diverse relazioni o i memoriali acquisiti su problemi come la crescita della
popolazione, lo sviluppo dell’agricoltura e del commercio,
l’introduzione delle manifatture e delle arti, l’amministrazione
della giustizia. Le tematiche giuridiche occupano peraltro una posizione di
fatto marginale rispetto ai grandi problemi economici e demografici. La
relazione si sofferma soprattutto sulla grave situazione dell’ordine
pubblico nelle ville, sulle disfunzioni della giustizia baronale, sulla
necessità dell’avocazione dei processi criminali dalla Reale
Udienza: «li più frequenti abusi nell’amministrazione della
giustizia ed il numero maggiore de’ delitti» si verifica, secondo
Bongino, nei feudi e in particolare in quelli dei baroni spagnoli, dove i
«reggidori non risiedono nella giurisdizione ed anche risiedendovi non
vegliano perché dagl’ufficiali e ministri di giustizia delle ville
si adempia ai loro doveri e siano prontamente arrestati li banditi ed altri
malfattori». Nelle riunioni di giunta il conte di Bricherasio aveva
avanzato una proposta radicale («il mezzo più opportuno e forse
l’unico per poter agire colle mani sciolte, sarebbe quello di far
l’acquisto de’ feudi de’ baroni che fanno il loro continuato
soggiorno in Ispagna»). Ma il ministero, vuoi per le clausole
dell’atto di cessione, vuoi per l’alto costo finanziario
dell’eventuale intervento (i feudi in questione comprendevano circa la
metà dell’intero territorio dell’isola) lasciò cadere
la proposta[35].
Il conte di Bricherasio
aveva prospettato inoltre «alcune cose intorno all’amministrazione
della giustizia» (a proposito delle procedure, della lungaggine dei
processi, delle condizioni delle carceri, dell’inesperienza o della
malafede dei giudici baronali) destinate ad ispirare l’impianto
dell’editto del 13 marzo 1759 che riformò l’ordinamento
giudiziario del Regno[36]. Si tratta di
un provvedimento con finalità eminentemente pratiche, volto a dare soluzioni
positive ad una serie di questioni relative sia al diritto penale sostanziale,
sia a quello processuale, affrontate senza alcuna impostazione sistematica.
L’editto mirava ad assicurare una più oculata «scelta
de’ ministri ordinarii delle curie», una «più temuta e
rispettata giustizia vendicativa» ispirata al valore deterrente della
pena («le pene contro i delinquenti» sono «istituite non
tanto a castigo loro per la pubblica vendetta, quanto anche per contegno degli
altri»), una maggiore «rettitudine e celerità» nella
«costruzione de’ processi»[37]. Si intendeva
cioè razionalizzare e rendere più efficiente la macchina
giudiziaria, eliminando disfunzioni ed abusi e controllando le curie baronali,
ma senza introdurre innovazioni significative rispetto al complesso della
normativa criminale vigente, costituita dalle prammatiche, dal Pregon
general del 1700 e dalla Carta de Logu.
A ragione, Mario Da
Passano ha parlato per il diritto penale del Settecento sardo di un
«riformismo senza riforme»[38]. A differenza,
infatti, di altre esperienze come quelle della Toscana, della Lombardia del
Trentino, dell’Austria, che nella seconda metà del XVIII secolo
attuano la mitigazione delle pene e l’umanizzazione del procedimento,
giungendo talvolta all’abolizione della tortura e della stessa pena di
morte, la dottrina penalistica sarda resta comunque tenacemente attaccata alle
regole e ai modelli del passato[39]. Anche in
Francia, però, dove circolavano le idee illuministe ed erano state
accolte favorevolmente le tesi di Cesare Beccaria, per tutta la seconda
metà del secolo le leggi penali restarono – come osservava
Federico II di Prussia – di «un rigore terribile», con largo
uso di sentenze capitali anche per reati di modesta entità, di forche,
arrotamenti, berline, pene corporali, galera, deportazioni nelle Americhe[40].
L’efficacia
concreta di un editto come questo così timido nei confronti della
giurisdizione baronale, dovette essere ben modesta, se nel 1773
l’avvocato Pierantonio Canova, primo segretario del ministero boginiano,
poteva affermare che «i provvedimenti emanati colla prammatica del 1759
tolti non avevano per anco tutti gli ostacoli che praticamente incontravansi a
rendere pronta ed esatta giustizia»[41]. Ad
integrazione del provvedimento del 1759 venne emanato il 24 febbraio 1765 anche
un altro editto, che aveva lo scopo di rendere meno farraginoso l’iter
dei processi civili e criminali[42]. Però le
linee di fondo della legislazione penale sabauda del secondo Settecento non
mutarono, come d’altra parte restarono in gran parte insoluti i gravi
problemi del banditismo e della criminalità rurale[43].
Dagli atti della visita
generale del Regno compiuta nel 1770 dal viceré Hallot Des Hayes emerge
nettamente la vitalità di usi e di antiche costumanze, sovente recepite
dal diritto consuetudinario e, in particolare, dalla Carta de Logu. Ad
esempio, nel villaggio barbaricino di Sarule i «ministri di giustizia
[…] sempre fanno uccidere il bestiame per segno di tentura, quando si
può tenturare vivo»; a Ploaghe, nel circondario di Sassari, il
bestiame degli ufficiali baronali danneggia la vidazzone: la
comunità aveva nominato due «deputati» per «invigilare
sul bestiame di detti ministri con autorità di tenturarlo e fare loro
pagare le macchisie e danni»[44]. Continuarono a
essere assai frequenti quei devastanti sconfinamenti di bestiame nei campi
coltivati che la normativa statutaria locale tentava di reprimere sin dai tempi
del trecentesco Codice rurale di Mariano IV d’Arborea: nella villa
di Bono, in Goceano il viceré può riscontrare il «gran danno
che in ogni anno cagionano li pastori, anche nel prato [cioè nel terreno
comunitario] col loro bestiame selvatico»; a Benetutti le «pecore
fanno molto danno ai seminati»; a Sedini, villaggio dell’Anglona, i
«seminerj vengono in parte dannificati dal bestiame»; a Norguiddo
(oggi Norbello), nell’Oristanese, la «bidatoni va in deterioramento
a cagione del bestiame […], mentre li pastori forestieri […]
cagionano infinito danno»; a Cuglieri, nel circondario di Bosa, invece i
«seminati sono bene custoditi da quattro bidazonargi» e non vi
è «chi usi di prepotenza»[45].
Nonostante gli
incentivi e i sostegni delle autorità governative alle attività
agricole, la cerealicoltura trova spesso ostacoli al suo sviluppo: nel
villaggio di Thiesi nel Meilogu il viceré osserva che la
«vidazzone è alquanto ristretta» per i
«lavoratori» (i labradores, cioè i produttori
agricoli) e «sebbene si abbia rappresentato» al feudatario di
«slargarla non ha avuto effetto a motivo che i pastori di alcuni
cavalieri lo impediscono». Il viceré segnala inoltre numerosi
conflitti tra i villaggi sull’esercizio dei diritti collettivi sul
pascolo: la villa di Seui nella Barbagia di Seulo ha una «lite vertente
con quella di Estercili nella Reale Udienza per certa promiscua pretesa
ne’ territorj» e nei salti; quella di Nule è in lite con
Benetutti e con Pattada, quella di Nulvi con Osilo, quella di Dualchi con
Silanus e Bortigali, e via dicendo. Il villaggio logudorese di Mores ha in atto
una controversia col barone per il contestato esercizio del diritto ademprivile
del ghiandatico nei boschi del demanio feudale[46].
Nel villaggio di
Orotelli il viceré rimase colpito dall’antica usanza di fidanzare,
anche per atto notarile, gli impuberi nella più tenera età
(«vidde […] varie ragazze che nella tenera età, in cui erano
di 7, 8, 9 e 10 anni già si trovavano vincolate in matrimonio»),
permettendo loro la convivenza anche tra chi non fosse ancora marito e moglie;
egli «prese a rimproverare un simil assurdo costume, imponendo […]
a non più proseguirlo, con avere frattanto mandato separarsi da ogni
consorzio tali immature spose»[47].
Gli ordinamenti di
governo dei villaggi sono ancora quelli disciplinati dalla Carta de Logu:
a Mandas, villa piccinna di 1.816 abitanti nel censimento del 1771, la
«comunità nomina cinque prouomini, questi fanno la terna di tre
soggetti, da prescegliersene uno dal reggitore», rappresentante del
signore feudale; «ciò fatto si congrega la comunità per gli
atti di procura al nuovo sindaco, che si mette immediatamente al possesso, in
seguito al dispaccio che spedisce il reggidore, ossia
Il reato più
diffuso è l’abigeato. Ad Orani, i «seminati sono ben
custoditi dai barrancelli, commettendosi bensì molti furti di vache,
bovi e cavalli dai malviventi»; ad Orotelli «li vassalli sentono il
pregiudizio di frequente furto di bestiame», che «si attribuisce
alle ville vicine» di Bottida, Bultei, Bono e Benetutti; proprio i
delinquenti di Benetutti «continuamente vanno nel territorio di Nuoro a
commettere furti massime di bestiame». Nel Capo di Sassari
l’abigeato alimenta il contrabbando con la vicina Corsica: ad Ozieri
«li bovi manzi non arrivano a 3 mesi per cagione del frequente furto, di
cui li ladri vendono e trasportano l’accennato bestiame nelle altre
ville»; a Berchidda «vi sono discoli e diffamati, li quali
abbenché si siano absentati dalla villa, se ne ritornano e rubano quanto
possano, massimamente il bestiame». I vassalli di Santu Lussurgiu si
lamentano col viceré di «non essere ascoltati in giudizio dai
ministri di giustizia» e, in particolare, che «sendo molto
frequenti e considerevoli furti de’ bestiame, ancorché si proceda
alla costruzione degli atti ed alla carcerazione dei delinquenti, si vedono
tosto in libertà»[49].
La relazione viceregia
sottolinea come siano spesso i nobili e i «principali» dei
villaggi, per non ricevere danni ai propri fondi e al proprio bestiame, ad
accordare protezione ai malviventi e ai banditi: a Tortolì il sindaco
stigmatizza coraggiosamente la «negligenza dei ministri ordinari»
che «di tanti frequenti omicidj e furti non si curavano di averne le
prove e di arrestarne li delinquenti per riflesso degli impegni di que’
cavalieri, li quali oltre di regolare li predetti ministri proteggevano li malviventi,
discoli ed oziosi, che in tale qualità venivano diffamati per ladri
[…], li quali tutti passeggiano pubblicamente nella villa»; a Nuoro
il viceré, informato che «a varj principali della villa
s’imputasse di proteggere malviventi», li convocò e
«minacciandoli le più rigorose pene, intimò loro di
astenersi da una tal prottezione»[50]. Le connivenze
non riguardano solo il mondo dei villaggi: il ministro Bogino resta infatti
scandalizzato dal comportamento di un magistrato, il dottor Salvatore
Scardaccio, proavvocato fiscale patrimoniale, accusato di aver dato aiuto e
asilo al cavalier Carta della villa di Bortigali, evaso dalle carceri di
Sassari[51].
A preoccupare il
governo piemontese sono soprattutto gli omicidi, gli scontri di fazione e le
vendette. Nel 1767 Bogino rimane impressionato dall’abnorme aumento degli
omicidi, segnalato dal viceré: «nel breve spazio di quattro mesi
se ne conterà ben da cento e più»[52];
nel
Ad Ilbono, villaggio della
Barbagia di Seulo, Des Hayes compone una faida tra alcune famiglie, fonte di
«forti inimicizie», con un singolare atto notarile: «hanno
perciò fatto e sottoscritto l’atto di pace colla reciproca
obbligazione di mai offendersi né in fatti né in parole,
né direttamente né indirettamente a pena di 500 scuti per ognuno
che venisse a contravvenire». Ad Oschiri apprende dell’esistenza
dell’«inimicizia» tra i fratelli Tarras Sircana «per
cagione dell’omicidio di Giò Tarras con li fratelli Bua»[55].
Nel corso della visita il viceré può annotare i nomi di 413
malviventi, «discoli», «diffamati per ladri» e oziosi,
di cui soltanto 10 sono detenuti in carcere, mentre gli altri si sono dati
«alla macchia»[56].
Anche le pene nella
loro esemplarità riprendono quelle, pur mitigate nell’età
spagnola, previste dalla Carta de Logu e dagli statuti locali. A Mandas,
ad esempio, i magistrati che accompagnano il viceré, esaminando le cause
criminali inevase presso la curia baronale, scelgono quella contro Vincenzo
Abis accusato di «furto domestico»: il reo, col procedimento
«economico», viene condannato alla «fustigazione», che
viene «eseguita con profitto di quella villa per il terrore che incusse
nel pubblico a contegno de’ delinquenti»[57].
D’altra parte lo stesso Des Hayes aveva scritto l’anno precedente a
Bogino: la «fustigazione in questo Regno è più temuta della
pena di morte, credendosi che ad essa soltanto sia allegata
l’infamia»[58]. A Sassari,
presso il tribunale della Reale Governazione, Gavino Puggioni viene condannato
a dieci anni di galera per numerosi furti, «previa tortura, fustigazione
e marca» (la marchiatura col ferro rovente, secondo l’antica pena
prevista dagli statuti della città). Fra le condanne si distingue quella
capitale di Giuseppe Mulas di Bultei «per l’esemplarità
dell’affission del capo in luogo eminente all’entrata di detta
villa per grassazione»[59].
Sino al 1827 il
retaggio medievale dell’infissione della testa mozza,
dell’attanagliamento o della marchiatura con ferri roventi, dello squartamento
e dell’«abbruciamento» del cadavere del reo, il «baccio
al piè del patibolo», cioè il bacio della forca da parte
dei condannati alla galera a vita, le esecuzioni nelle pubbliche piazze che
richiamavano gran «concorso» di popolo, fu usuale pratica
giudiziaria[60]. Nel febbraio
del 1821, durante una delle sue prime «escursioni»
all’interno dell’isola per realizzare le rilevazioni della carta
geodetica, il giovane ufficiale piemontese Alberto Ferrero della Marmora,
mentre in una notte tempestosa stava per
entrare nel villaggio di Domusnovas nell’Iglesiente, sentì
«sul viso qualcosa di sconosciuto» che in «un certo
modo» gli avvolse «tutta la faccia»: «io mi girai
– racconterà nel 1860 –, sollevando lo sguardo e quale non
fu il mio stupore nel vedere inchiodata su una trave una testa umana la cui
lunga e ampia capigliatura di donna cadeva e si agitava spinta dal vento
[…]. In quel momento un lampo proiettò una viva luce
sull’orribile testa che stava a mezzo piede di distanza dalla mia;
così per mezzo secondo riuscii a distinguere quelle guance disfatte e
cadenti, quegli occhi scavati e quella bocca aperta che mi facevano una smorfia
spaventosa»[61].
La relazione della
visita generale mette lucidamente in rilievo insufficienze, abusi,
inadeguatezze dell’amministrazione della giustizia nei feudi. A Bitti, ad
esempio, il ministro baronale ha «molti parenti che sono reputati
discoli», e nessuno ha il coraggio di «deponere contro i
medesimi». A Bono il viceré resta impressionato dal «cattivo
stato del Contado del Goceano tanto nell’amministrazione della giustizia
pella sua languidezza, che in altre cose riguardanti il pubblico». A
Noragugume il delegato e lo scrivano «non vanno mai a tenervi udienza, se
non dopo mesi e mesi, e quando vi si trasferiscono esigono eccessivi dritti».
Gli ufficiali dei Campidani risiedono ad Oristano, «con detrimento
dell’amministrazione di giustizia» dei villaggi. A Tuili
l’attività giudiziaria «resta appoggiata a un ministro
ignorante e a un notaio […], in grave pregiudizio di quel pubblico»[62].
Gli archivi delle curie che conservano i fascicoli processuali sono spesso nel
più totale disordine: talvolta i ministri di giustizia non hanno a
disposizione neppure la normativa vigente, come a Ploaghe, dove si è
riscontrata l’«irregolarità» della «mancanza di
alcune leggi riguardanti l’amministrazione della giustizia, come il
Formolario del marchese di Rivarolo», l’«editto del 1759, del
1765, li registri d’entrata e d’uscita de’ prigionieri e
delle sentenze». A Perfugas si è «trovata la curia
sprovvista delle prammatiche e di alcuni pregoni». A Castelsardo gli atti
processuali sono «in potere dello scrivano e con poca cautela consignarsi
dagli attuali ai successori». Nella città di Bosa mancano le
«prammatiche, pregoni, editti e molti registri», e di conseguenza
vige l’abuso di non adoperare le «debite cautele prescritte dalle
leggi del Regno per evitare i furti»[63].
Le carceri baronali
sono quasi sempre in pessimo stato. A Bultei si sono trovati «venti sette
detenuti» che «appena vi potevano stare, patendovi infinitamente la
loro salute per via dell’alito rinchiuso e ristretto, mentre non vi
è che una piccola finestra di poca larghezza». In genere i baroni
si rifiutano di provvedere al vitto dei carcerati: ad esempio, ad Ozieri
«li prigionieri vengano mantenuti dai loro stessi averi e li poveri
dall’elemosina, non somministrandosi loro alcuna razione, e perciò
molte volte il carceriere li conduce per le strade a dimandare la
carità». A Uri c’è «una piccola prigione in
pessimo stato, assomigliante a una grotta»[64].
Per certi versi
speculare alla relazione sulla visita viceregia è l’ampio
memoriale redatto nel 1768 da un funzionario governativo, il dottore Vincenzo
Mameli de Olmedilla, viceintendente per il Capo di Sassari e di Logudoro, degli
estesi feudi degli Stati di Oliva, che comprendevano il Ducato di Monteacuto,
il Principato di Anglona, il Marchesato del Marghine,
Dalla memoria emerge un
fosco quadro della giustizia feudale. A proposito del grosso villaggio di Ozieri,
capoluogo del Ducato di Monteacuto, Mameli scrive che «da sei anni a
questa parte non vi è causa criminale che si porti a termine, siano o no
arrestati i colpevoli, per cui nessuno più denuncia alla giustizia
qualsiasi pregiudizio o danno che gli si faccia, poiché mai si ottiene
soddisfazione e i malfattori liberati, poi maggiormente si vendicano di coloro
che li avessero denunciati». Questo «disordine» viene
attribuito alla malafede e talvolta alla complicità dei ministri di
giustizia, ma soprattutto alla loro «ignoranza, poiché non vi
è nessuno di essi capace di trattare una causa o istruire un processo e
tutto viene fatto dal notaio, che da solo interroga, esamina e stende la
deposizione dei testi senza la loro presenza». In tutto il Monteacuto
«la lamentela riguardante l’amministrazione della giustizia
è generale e più notevole che nel Marchesato del Margine,
perché sono governati peggio, anzi oppressi dal maggior numero dei
ministri, i quali non pensano che sia stato dato loro l’impiego per
amministrarla bene, ma per vivere a spese di ciò che passa nelle loro
mani e per migliorare le proprie condizioni a forza di guadagnare in ogni
parte». È inevitabile, quindi, che le composizioni per i delitti
«siano frequenti nella curia maggiore [cioè quella del Ducato] e
in quella di Ozieri»[66]. Anche nel
villaggio di Perfugas, scrive Mameli, «vi sono grandi lamentele, forse
più che negli altri villaggi, nei confronti del cattivo comportamento
dell’ufficiale dell’Anglona, il quale avendo qui i beni, parenti e
amici, maggiormente usa del suo arbitrio e del suo interesse a favore di essi e
a danno degli altri», proteggendo banditi e latitanti, in particolare
quelli del Sasso di Chiaramonti. «Sono veramente scusabili i
ministri di giustizia nelle presenti circostanze – constata amaramente il
viceintendente –, se non si espongono e si comportano con precauzione nei
confronti dei banditi e malfattori, poiché altrimenti diventerebbero
vittime»[67]. A Bolotana, ad
esempio, dopo che due luogotenenti di giustizia sono stati uccisi il
«reggitore non ha potuto più trovare qualcuno che volesse le loro
patenti»[68].
Un «buon sistema
di amministrazione della giustizia, con la quale meno gente deve morire a causa
dei delitti», la sicurezza nelle campagne a protezione delle coltivazioni
e del patrimonio zootecnico, la dura repressione delle quadrillas di
banditi e dei malfattori dediti ai furti e agli abigeati, l’introduzione
di «una migliore pratica dell’agricoltura» e della
«coltivazione dei prati» sono, secondo Mameli, i fattori che potrebbero
costituire il «mezzo per accrescere la popolazione, che oggi
proporzionalmente più si moltiplica», e per sviluppare le
potenzialità economiche dell’isola, con grande vantaggio per le
finanze del Regno[69].
Mameli è ben
consapevole di tutte le ipoteche negative dovute all’incidenza della
tradizione consuetudinaria e in particolare dei diritti collettivi delle
comunità: negli Stati di Oliva, osserva, non vi è
«proprietà di territorio appartenente a ciascun villaggio, essendo
lecito a qualunque abitante di qualsiasi villa di un feudo il pascolare,
seminare, far legna e utilizzare tutti i vantaggi, dei quali possono godere gli
abitanti di un altro villaggio in ogni località della stessa
giurisdizione feudale». In sostanza non vi è «distinzione di
proprietà fra una comunità e l’altra, se non nelle
località destinate al pascolo del bestiame domito, chiamato prato
e nella terra coltivata ciascun anno chiamata vidazzone». Per le
confinazioni si distinguono soltanto i limiti fissati dalle incariche,
cioè il distretto nel quale la comunità esercita la propria
giurisdizione, rilevati dai maggiori di giustizia, dai giurati del villaggio e
dai barracelli. Tuttavia, di fronte alla gravosità dell’incarica
sorgono sempre dispute tra i villaggi per la «pretesa di un più piccolo
o più grande distretto, per cui non è possibile conoscere con
certezza i limiti di ciascuna villa rispetto a quelli di un’altra della
medesima giurisdizione signorile, particolarmente nei territori più
lontani e soggetti ai delitti, se non è che si proceda giuridicamente e
in contraddittorio tra i confinanti alla verifica dei confini»[70].
Mameli critica inoltre
severamente un’altra eredità del diritto statutario del Medioevo
sardo: gli ordinamenti amministrativi del villaggio. Per antica consuetudine la
comunità, composta da tutti i capifamiglia, veniva riunita
dall’ufficiale baronale nella piazza del villaggio per eleggere i probi
homines e presentare al feudatario o al suo reggitore una terna di tre nomi
in base alla quale il signore, o il suo delegato, avrebbe scelto il sindaco.
Queste assemblee si rendevano necessarie non solo per la nomina del sindaco,
del maggiore di giustizia e del capitano dei barracelli, ma anche per intentare
una lite e per la contribuzione ad alcune spese. Il meccanismo elettorale
– come emerge dalla visita di Des Hayes – variava spesso da
villaggio a villaggio. Nelle ville ad economia pastorale, «trovandosi
lontano col proprio bestiame per una parte dell’anno», raramente i
pastori lasciavano le greggi e le famiglie per «attendere alle
riunioni» comunitative. In queste «congreghe», poi, la
comunità, vedendo che «di solito non si decide ciò che
desidera, ma ciò che vogliono i più muniti di procure riuniti
d’intesa con i ministri di giustizia, disgustata – afferma Mameli
–, non partecipa con piacere e con la opinione che il suo voto non serva
e che non importa darlo, […] né ha più attaccamento al bene
pubblico, il quale soffre da tale consuetudine, che peraltro è comune a
tutti i villaggi del Regno, ed è un grandissimo inconveniente e estorto
ai poveri pastori e agricoltori»[71].
Mameli enumera tutte le
irregolarità che ha potuto riscontrare di persona. A Ozieri il reggitore
feudale, non riuscendo a riunire la comunità, ha nominato a proprio
arbitrio i nove probi homines i quali, a loro volta, hanno eletto il
sindaco e il delegato di giustizia. Le comunità si riuniscono raramente
e il più delle volte «non è scrupolosamente verificata
l’asserzione che si è riunito il numero necessario, che viene scritto
dai notai negli atti e non sono rari gli abusi che si commettono per ingannare
il pubblico, mentre non si fa nulla con esattezza e scrupolo»[72].
Queste irregolarità, afferma, sono «comuni in tutta
La riforma
dell’amministrazione della giustizia baronale e dei Consigli comunitativi
era un impegno ormai inderogabile per il governo sabaudo. Con la visita
generale del viceré Des Hayes erano state d’altra parte recepite
tutte le lamentele delle comunità e dei vassalli e acquisite tutte le
informazioni necessarie sulle eccessive esazioni dei diritti baronali, sugli
abusi dei ministri di giustizia, sulla mancata residenza dei reggitori dei
feudi, sull’abigeato e sulla criminalità che colpivano duramente
l’economia dei villaggi. Il 6 agosto 1770 si concludevano intanto i lavori
della giunta cagliaritana incaricata di analizzare le disfunzioni della
giustizia baronale con una memoria sostanzialmente articolata in cinque punti,
espressamente indicati dallo stesso ministro Bogino, relativi alla nomina dei
reggitori da parte dei feudatari residenti in Spagna, all’inosservanza
dell’obbligo di residenza semestrale nei feudi, alle esazioni indebite
effettuate durante le visite nei villaggi, alla durata dell’incarico,
alla scelta per ufficiali di giustizia di «soggetti di poca
capacità e men buona condotta». Il parere della giunta era che la
residenza del reggitore nel feudo fosse «inutile» e «gravosa
a’ sudditi», che dovevano accollarsi le spese della sua permanenza
e, in definitiva, «di pregiudizio alla retta giustizia»: risiedendo
a Cagliari, invece, il reggitore sarebbe stato in grado di controllare
l’attività degli ufficiali di giustizia delle diverse curie, che
gli avrebbero dovuto trasmettere tutti gli atti sullo stato delle cause e sulla
vita del feudo. Anche sugli altri punti le conclusioni della giunta appaiono
scarsamente innovative, tese per lo più a razionalizzare
l’esistente[74].
Ben più avanzate
erano le opinioni del ministro Bogino che non esitò a criticare la
memoria della giunta, che gli appariva non «suscettibile di adeguato
provvedimento» per sanare i mali della giustizia e per proteggere i
«poveri agricoltori» dagli abusi e dalle angherie. Egli ipotizzava
la costituzione di un corpo di reggitori organico agli interessi governativi,
soprattutto nell’ambito della giustizia e dell’ordine pubblico. Se
la giunta aveva proposto l’abolizione della residenza, il ministro era
per la sua conservazione e addirittura ne immaginava il potenziamento,
là dove la memoria pareva voler «coonestare l’abuso
dell’inadempimento de’ reggitori»[75].
Sulle conclusioni della
giunta cagliaritana, il parere del Supremo Consiglio di Sardegna mostra, consapevole
forse dei limiti imposti dalle clausole dell’atto di cessione, soltanto
qualche cauta apertura, limitandosi a ritoccare la normativa vigente, ad esempio,
nel prevedere un esame per i giudici baronali e l’adeguamento del salario
dei ministri di giustizia per evitare che potessero rifarsi sui vassalli[76].
È probabile che il disegno del ministro, che aveva ben presente
l’esperienza piemontese dell’avocazione dei feudi (1719-20) col
netto ridimensionamento delle prerogative nobiliari, fosse quello di arrivare a
realizzare un sistema feudale fortemente temperato nelle sue immunità
giurisdizionali e rigidamente controllato dallo Stato attraverso la costituzione
di un corpo di reggitori (che di fatto finivano per operare come funzionari
pubblici ligi agli interessi della Corona), la riorganizzazione e la
razionalizzazione delle curie di prima e di seconda istanza, la valorizzazione
delle comunità di villaggio nel loro ruolo di struttura di contenimento
degli abusi baronali[77].
Ben più
“eversivo” nei confronti degli ordinamenti della Carta de Logu
e delle stesse clausole dell’atto di cessione risulta l’editto del
24 settembre 1771, che riformava i consigli comunitativi e introduceva una
regolamentazione stabile e unitaria per tutto il Regno. Il provvedimento
fissava il numero dei consiglieri – sette nei villaggi oltre i duecento
fuochi fiscali, cinque in quelli con una popolazione tra i duecento e i cento
fuochi, tre nelle ville con meno di cento fuochi – scelti tra i
«tre consueti ordini di persone, primo, mezzano ed infimo»,
rappresentativi di «tutti e tre ordini» sociali[78].
Il meccanismo elettorale prevedeva che la nomina dei consiglieri fosse espressa
dall’assemblea dei capifamiglia di ciascun villaggio riunita alla
presenza dell’ufficiale di giustizia e notificata con bando pubblico. Il
consigliere del «prim’ordine» che avrebbe avuto «per se
maggior numero di voti» sarebbe stato eletto sindaco: l’incarico
era annuale. Fra le sue prerogative vi era quella di «radunare il
consiglio», che rappresentava «tutta quanta la
comunità», e di proporre «in esso le materie» su cui
si sarebbe dovuto deliberare: in particolare, sugli «affari e gli
interessi del comune» e sulla ripartizione «degl’imposti
sì reali, che pubblici, ordinari e straordinari»[79].
Assume
un’evidente coloritura antibaronale il capitolo XXV del provvedimento,
che attribuisce al consiglio l’incarico di «vegliare»
sull’imposizione alla comunità di «aggravi», «nuovi
dazi ed angherie» e sull’usurpazione dei territori del
villaggio: «che si corrisponda la giusta mercede per que’
mandamenti che debbono di ragione pregarsi – recita l’editto
– e finalmente si conservino illesi i dritti ed immunità
appartenenti alla comunità, coll’opporsi all’introduzione
degli abusi ed a quanto riconoscerà di pregiudiziale al bene pubblico,
promovendone anzi ad ogni possa il vantaggio». Si trattava di un
implicito invito alla verifica dei diritti feudali, sia di quelli legittimi che
di quelli abusivi. Il sindaco veniva inoltre esentato dai comandamenti
personali e reali e dalla giurisdizione baronale, con l’estensione
parziale di questo privilegio anche ai consiglieri. L’ufficiale di
giustizia, pur partecipando alle riunioni, non poteva intromettersi negli
affari trattati dal consiglio comunitativo: il sindaco aveva infatti la facoltà
di denunziarne all’autorità viceregia ogni ingerenza e
prevaricazione. Il sovrano prendeva sotto la propria «immediata real
protezione» i consigli delle comunità e i consiglieri eletti,
incaricando il viceré, i magistrati e i governatori di vigilare
affinché non venissero «perturbati o comunque molestati
nell’esercizio di loro impiego»[80].
Nell’impostare,
tra il 1768 e il 1771, la riforma dei Consigli comunitativi il ministero
torinese aveva tenuto conto di diversi elementi: la drammatica situazione della
giustizia nelle campagne, in qualche modo frutto dell’incuria dei baroni
e soprattutto di quelli residenti in Spagna; il contenzioso ormai dilagante tra
le comunità di villaggio e i feudatari per la determinazione dei diritti
e delle prestazioni; il peso negativo di un feudalesimo parassitario sulle
potenzialità di sviluppo dell’agricoltura e di
«rifiorimento» della Sardegna. Maturava l’idea di costituire
nei villaggi una nuova classe dirigente, espressione del ceto dei produttori
agricoli e dei proprietari terrieri, capaci di dar vita a un
«corpo» di amministratori locali «sottoposto al Governo senza
veruna benché minima dipendenza dai baroni o altri principali delle
ville»[81].
L’avvocato
Canova, testimone e protagonista di quella stagione di riforme, ricorda che il
ministro Bogino era convinto che lo «stabilimento de’ corpi di
comunità» avrebbe potuto rappresentare un «contraddittorio
ed un freno» al «dispotismo» dei feudatari e dei reggitori
che «mai non avevano conosciuto per l’addietro»:
l’editto mirava dunque, secondo Canova, a creare un equilibrio tra la
«forza», conferita ai baroni dall’«esercizio della
giurisdizione di cui erano investiti ne’ propri feudi», ed un
«corpo indipendente e capace di resistere e promuovere le ragioni del
comune efficacemente»[82].
La risposta dei
feudatari non si fece attendere. Nel 1772 i baroni inoltrarono al Supremo
Consiglio una «rappresentanza» nella quale si rivendicavano tutti i
privilegi di Stamento del periodo spagnolo e addirittura di quello aragonese.
L’ignoto estensore di questo lungo memoriale tracciava una storia
partigiana del Regnum Sardiniae in funzione della riaffermazione delle
prerogative della nobiltà feudale, di cui sottolineava le benemerenze e
l’importante contributo legislativo dato nelle numerose sessioni dei
Parlamenti, non più convocati dal governo piemontese. La monarchia di
Spagna aveva sempre tutelato i privilegi feudali; la monarchia sabauda, invece,
sebbene esercitasse di fatto, in base alle clausole dell’atto di
cessione, una sovranità limitata, aveva deliberatamente violato la
«ley patria». Con l’istituzione dei Consigli comunitativi si
sferrava un attacco diretto ai privilegi feudali: le attribuzioni
amministrative e fiscali, tradizionale appannaggio dei baroni, venivano
affidate ai villici, uomini «de baja esfera, por lo más serviles
[…] avaros y interessados». In sostanza il memoriale riteneva che
l’editto fosse vulnerativo degli interessi del baronaggio, una palese
violazione delle clausole dell’atto di cessione sottoscritte e giurate
dal re di Sardegna: innanzitutto per «debilitar la jurisdición de
los barones y minorarles los derechos señoriles»; poi per
infrangere gli «usos y costumbres», gli «estatutos», i
capitoli di corte e le prammatiche del Regno che regolavano da tempo assai
antico la vita dei Consigli delle comunità[83].
La replica del governo
di Torino fu particolarmente energica: all’«ingiurioso»
memoriale veniva attribuito il disegno di screditare l’editto per
«farlo comparire alli baroni di quel Regno […] lesivo ed anzi
distruttivo della loro giurisdizione, autorità, prerogative e con
ciò commuoverli ed eccitarli a procurare con ogni sforzo la rivocazione
o modificazione». Il provvedimento era stato infatti elaborato da
ministri «informatissimi delle leggi, usi e consuetudini del Regno stesso
e de’ privileggi e prerogative de’ baroni». A questo
proposito si faceva osservare che, all’interno di una logica assolutistica,
era potestà del monarca stabilire «usi e pratiche di buon governo
spettanti all’ordine politico dello Stato e perciò dipendenti in
tutto e per tutto dall’autorità sovrana, la quale a misura
de’ cambiamenti ed esigenze, può ampliarli, restringerli,
modificarli, ed in una parola adattarvi quella forma e combinazione che esigge
il buon ordine e l’interesse de’ suoi popoli»[84].
Come ricorda l’avvocato Canova, sull’editto del 1771 il governo
mantenne sempre una linea di grande fermezza e di netta chiusura verso gli
attacchi dei feudatari «da togliere ogni lusinga di mai riuscire
nell’impegno di farne cadere l’esecuzione»[85].
Soltanto con la carta reale del 27 aprile 1775, nel mutato clima politico
successivo al licenziamento di Bogino, vennero mitigate alcune
“asperità” controverse, come la limitazione
dell’esenzione della giurisdizione baronale per i consiglieri e il
divieto dell’ingerenza in materia di tributi feudali[86].
Sull’esperienza
complessiva del riformismo settecentesco in Sardegna si è aperto un dibattito
tra due interpretazioni storiografiche sostanzialmente opposte: la prima ha
collocato la politica boginiana nel più ampio quadro del Settecento
italiano ed europeo e l’ha valutata in relazione ad altri modelli
riformatori di quegli anni (in particolare quello borbonico e quello
asburgico), tenendo conto delle possibilità effettive di realizzare il
progetto complessivo di intervento nell’isola e ponendo in evidenza anche
le premesse di modificazioni future; la seconda ha riproposto un giudizio
sostanzialmente riduttivo dell’esperienza boginiana, considerandola
episodica e frammentaria o, meglio, una «razionalizzazione senza
riforme»[87].
La «materia
agraria», meno condizionata, rispetto all’ambito della
giurisdizione baronale e dei Consigli comunitativi, dal rispetto delle clausole
dell’atto di cessione, è il terreno su cui si può
verificare l’effettiva incidenza della politica riformatrice in relazione
sia con l’eredità della normativa spagnola, sia col peso degli usi
e delle consuetudini locali. Almeno formalmente, infatti, l’iniziativa
legislativa sabauda si ricollega all’esperienza precedente: ad esempio,
il pregone del viceré Luigi di Blonay del 6 novembre 1741 sulla nomina
dei censori dell’agricoltura richiamava gli «ordini» e le
«disposizioni» che erano stati «emanati in altri tempi»[88].
Anche l’istituzione dei Monti frumentari e del Censorato generale, un
«vero e proprio organo» di miglioramento dell’agricoltura e
dell’economia sarda, che non a torto viene considerata come una delle
più significative riforme boginiane, pur col suo carattere fortemente
innovativo teneva ampiamente conto dei capitoli di corte e dei pregoni del XVII
secolo[89].
Le stesse Istruzioni generali a tutti li censori del Regno, elaborate
dal censore generale, dottor Giuseppe Cossu (ma fatte ritirare dal Bogino), una
sorta di nuovo e originale «codice agrario» dell’isola,
bilingue italiano e sardo, nel riordinare tutta la legislazione
«patria» sull’agricoltura riproponeva ancora gli antichi
istituti consuetudinari dei «ministri campestri volgarmente detti vidazonargius
o perdargius», richiamando, a proposito del divieto di introdurre
bestiame nei seminati o dell’opera dei lavoratori giornalieri, il
«disposto» e il «prescritto» della «carta
locale»[90].
Un problema di ancor
più difficile soluzione che non quello feudale era la questione della
«comunanza» delle terre e dei costumi comunitari che regolavano la
distribuzione annuale dei lotti in funzione dell’alternanza delle colture
tra la vidazzone e il paberile, disciplinata soprattutto dalla
normativa cinque-seicentesca[91]. Nella seconda
metà del XVIII secolo il movimento spontaneo e spesso disordinato delle
chiusure assumeva forme variegate e spesso contraddittorie da area ad area. Di
solito le tanche e i serrati sorgevano, in opposizione al sistema
comunitario, nelle terre destinate al «seminerio»[92].
Ad Ozieri, invece, come osserva nel 1768 Mameli nella sua relazione,
«sono frequenti le tanche per l’utilizzo da parte del bestiame, del
quale si fa maggiore apprezzamento che della coltivazione della terra e ogni
giorno vanno aumentando non senza usurpazione dei territori comunali e a danno
dell’agricoltura»[93]. A
Galtellì, in Baronia, gli agricoltori – osserva il viceré
Des Hayes nel 1770 – «per maggior sicurezza del seminerio
desiderano farsi una chiusura, come altre volte praticavasi». A
Villagrande Strisaili, in Ogliastra, il reggitore aveva ordinato «doversi
chiudere le bidatoni» per i danni arrecati dal bestiame[94].
Nel 1777 il Supremo Consiglio di Sardegna esaminava la richiesta del
proprietario sassarese Luigi Sechi Bologna di poter chiudere un terreno di 700
starelli (pari a circa
Anche all’interno
del demanio feudale e di quello regio si andavano enucleando forme di
appropriazione individuale o vere e proprie «semi-proprietà»,
come le cussorgie e le orzaline, appezzamenti occupati, in genere
su concessione signorile, dai pastori che vi costruivano una capanna e
delimitavano i confini del fondo[98].
Dall’inchiesta condotta nel 1762 dal magistrato della Reale Governazione,
Gavino Cocco, nei territori della Nurra, feudo della città di Sassari,
si evince che l’istituto della cussorgia era ampiamente diffuso
nei terreni concessi in enfiteusi dalla municipalità[99].
In Gallura, dove il paesaggio era caratterizzato da «spaziose spopolate
campagne», i pastori, osservava il viceré Des Hayes, avevano
«stabilito i loro stazj gli uni dagli altri divisi e lontani, onde
credonsi e reputansi proprietari di quei lunghi tratti di terreni»[100].
Le cussorgie, diffuse in tutta
Il pregone del
viceré Des Hayes del 2 aprile 1771 tentò di disciplinare questo
diritto, fissando gli obblighi del concessionario nel «coltivare i
distretti» con «fare piantamenti e seminamenti d’alberi
fruttiferi o da ghianda» nei modi indicati dai censori locali. I ministri
di giustizia, i censori e i «probi uomini» del villaggio avrebbero
dovuto fare «ogni anno la revista de’ territori […] conceduti
in cussorgie» e rilevare i «luoghi vacui» e indicandone
la destinazione colturale, e ingiungendo «altresì la chiusura per
impedirne l’ingresso a’ bestiami a pascolare in quei siti».
In sostanza il cussorgiale, titolare del dominio utile, avrebbe dovuto
rispettare alcune limitazioni al godimento del proprio diritto imposte dalla
normativa viceregia; nell’archivio di ogni curia doveva essere inoltre conservato
e messo a disposizione del censore «un registro delle diverse concessioni
di cussorgie esistenti nel distretto delle rispettive ville
coll’annotazione de’ limiti, tempo e clausole sostanziali della
concessione»[103].
Negli anni del
riformismo boginiano si era notevolmente rafforzata una linea favorevole
all’individualismo agrario[104]. Il primo
progetto concreto e articolato per una «generale divisione dei
terreni» era stato elaborato nel 1767 da due alti magistrati, il reggente
Pietro Sanna Lecca e il consigliere Francesco Pes: purtroppo il memoriale
è andato disperso e noi lo conosciamo attraverso il parere espresso
dall’avvocato fiscale generale De Rossi conte di Tonengo, che peraltro
non gli risparmia le sue critiche. L’«eruditissimo
sentimento» vuol dimostrare gli «immensi vantaggi che non ponno se
non risultare dalla divisione de’ terreni, applicazione d’essi in
proprietà ai particolari, introduzione delle praterie artifiziali,
taglio de’ fieni, costruzione delle stalle e fienili». La proposta
avanzata dai due magistrati di istituire a Cagliari una Accademia di
agricoltura, già caldeggiata da Bogino nel 1761-62, che «estenda
le sue ispezioni ai pastori» e si occupi di diffondere le nuove tecniche
e i «nuovi ritrovati» della moderna agronomia, viene rinviata dal
Tonengo ad una fase successiva, fino a che non siano superati i
«pregiudizi dell’invecchiato costume» e il «nuovo
sistema sia ben radicato». Anche la innovativa proposta di dar vita a un
«Magistrato sopra l’agricoltura e bestiame», con competenza
sugli affari giudiziari relativi all’agricoltura e alla pastorizia, viene
giudicata del tutto «intempestiva», giacché suonerebbe come
uno «smembramento della giurisdizione baronale» e provocherebbe le
«doglianze» dei feudatari e la richiesta del rispetto delle loro
prerogative in base alle clausole dell’atto di cessione[105].
Il conte di Tonengo
ritiene che per introdurre la riforma nel Regno non vi sia «altro mezzo
che quello di una pubblica universale perpetua legge» capace di obbligare
i baroni, le comunità e i «particolari» ad accettare il
provvedimento «sotto pene adeguate alle trasgressioni». La
soluzione più idonea sarebbe quella di «cominciare da uno
sperimento in piccolo», iniziando dai villaggi reali del Capo di Cagliari
o di quello di Sassari. La realizzazione concreta del progetto dovrebbe essere
affidata a un delegato dell’Intendenza generale e a un ingegnere che,
«oltre la misura de’ terreni» e un’indagine accurata
della realtà locale, avrebbe potuto assegnare ad ogni membro della villa
prescelta la quantità di terra che «ognuno d’essi
potrà lavorare». Ad ogni assegnatario avrebbe dovuto essere
concesso un lotto «pel seminerio di granaglie» e una «congrua
proporzionata quantità di terreni da ridursi a prato», con
l’obbligo di «formare una stalla sufficiente pel ricovero de’
rispettivi bestiami». La concessione era «in libero e franco
allodio», cioè in proprietà vera e piena, di modo che gli
agricoltori «ne siano liberi padroni e possano disporne tanto per ultima
volontà, che per atto tra vivi, passino agli eredi legittimi in caso di
successione intestata, possano vendere, ipotecare e sottoporre a censo».
L’avvocato fiscale piemontese è inoltre convinto «della
necessità e utilità della chiusura dei beni», lasciando i
«rispettivi proprietari» liberi di «chiudere i loro terreni
con siepe». La concessione era soggetta a un’unica condizione,
quella di «coltivare i terreni assegnati nel nuovo sistema»,
secondo le prescrizioni delle autorità, pena la decadenza[106].
In linea di principio
non vi era contrasto tra i progetti di chiusura dei campi e il diritto
statutario locale.
Più in sintonia
con la tradizione del diritto patrio del Regno è il rapporto tra le
chiusure e gli incentivi all’olivicoltura. La normativa del periodo
spagnolo aveva previsto, a proposito della coltivazione degli alberi di gelso e
degli ulivi, una forma di godimento individuale del fondo tancat, pur
limitato dai diritti regi[108]; in una
riunione di giunta svoltasi nell’estate 1773 presso
Mancava però
ancora un progetto di intervento globale sulla chiusura dei terreni. Bogino
valutava negativamente – racconta l’avvocato Canova – la
«comunanza della maggior parte delle terre da lavoro», convinto che
dal «solo diritto di proprietà […] derivar possano i veri
progressi dell’agricoltura». Già dal 1767 il ministro
progettava di «prescrivere di dette terre comunali la divisione e
metterle in privato progressivo dominio dei rispettivi cittadini», ma era
al tempo stesso consapevole che, se con «una provvidenza generale su tal
materia» non «si fossero altrimenti preparati gli animi d’una
nazione sì fortemente attaccata alle antiche costumanze» e
«in sospetto» di «ogni novità», la riforma
sarebbe miseramente fallita[110].
Nacque così
l’idea di affidare al gesuita veneto Angelo Berlendis, prefetto delle
regie scuole di Sassari, prima, e a Francesco Gemelli, gesuita piemontese e
docente di Eloquenza, poi, l’incarico di fornire uno
«scritto» che potesse aprire la «strada» alla riforma,
mettendo «in evidenza gli scapiti gravissimi» del sistema comunitario,
e diffondere «anche nel popolo la conoscenza di verità sì
palpabili». Come è testimoniato dal fitto carteggio, il ministro
Bogino seguì personalmente il lavoro di Gemelli, suggerendo cambiamenti
e modifiche al testo[111]. Nel 1773
l’opera era quasi «portata a compimento» ma, si capiva che
«sarebbe riuscita troppo elegante ed erudita per l’uso cui era
stato da prima ordinata». Il ministro pensò allora di «farne
poscia dall’autor medesimo formare un ristretto o compendio» che
avesse le originarie finalità didascaliche e divulgative[112].
Il Rifiorimento
della Sardegna venne pubblicato a Torino nel
Sulla base delle teorie
fisiocratiche, Gemelli pensava all’agricoltura come fonte primaria dello
sviluppo, appunto il «rifiorimento», e della ricchezza della
Sardegna: un’agricoltura che, superando gli antichi vincoli comunitari e
i tradizionali metodi di conduzione della terra, fosse totalmente rinnovata da
investimenti mirati di capitali da parte di un nuovo ceto di imprenditori
agricoli, cioè di «persone facoltose» interessate a chiudere
i propri terreni e ad ingrandire le loro proprietà. La proposta avanzata
dal gesuita piemontese prevede che ogni proprietario possa «chiuder le proprie
terre», «esenti dal pascolo comune»,
«coll’obbligo però di stabilirvi casine o cascine»
affinché «le terre rimangano a loro disposizione»; che le
«terre comuni e le quasi comuni», cioè quelle che
«appartengono alle comunità, ossia a’ pubblici de’ villaggi»,
possano essere venute ai «particolari»: la «chiusura delle
terre – afferma Gemelli – dovrà erigersi con rigore
grandissimo in su i principii, perché l’occhio si accostumi
all’idea della divisione e della intera proprietà della
terra»[113].
La cosiddetta
«linea Gemelli» e il grandioso piano di rinnovamento
dell’agricoltura e dell’allevamento vennero interpretati in modi
assai diversi dai contemporanei. Il Supremo Consiglio di Sardegna, ad esempio,
in un parere della primavera del 1774 stronca il manoscritto del Rifiorimento,
accusando Gemelli di aver disinvoltamente “saccheggiato” un
memoriale intitolato Agricoltura di Sardegna (purtroppo perduto)
«disteso» dai magistrati Sanna Lecca e Pes, di avere una sommaria
conoscenza delle consuetudini agricole locali e di aver generalizzato
immaginando in tutta l’isola «usi e abusi di Sassari», la
città nella quale risiedeva. In sostanza il Supremo Consiglio ritiene
che l’«utilità» del Rifiorimento
«sarà ben modica per non dire niuna. Conciossiacché si
tratta d’opera voluminosa, che probabilmente sarà poco ricercata,
e meno letta, singolarmente nelle ville del medesimo Regno, nelle quali
è più in voga l’agricoltura […] e molto meno si
sentiranno mossi quei agricoltori ad aderire ai suggerimenti dell’autore,
abbandonando le loro comuni inveterate pratiche». Perciò il
Consiglio nega all’autore il contributo statale per la pubblicazione
dell’opera[114].
Una tenace difesa delle
vecchie consuetudini viene fatta da Andrea Manca dell’Arca, dottore in
diritto ed esponente della piccola nobiltà sassarese, proprietario
terriero della generazione “preriformistica” (era nato nel 1707),
che nel 1780 pubblica a Napoli un interessante catechismo agrario dal titolo Agricoltura
di Sardegna. L’autore critica senza mezzi termini il Rifiorimento,
un’opera nella quale non si insegna «l’arte
dell’agricoltura, trattandosi soltanto con economici e storici discorsi
di certi avvertimenti per far il vino, piantar gelse e per la buona
coltivazione dell’ulivo […], persuadendo altresì alla
Nazione sarda la riforma ed abolizione di molti costumi confermati dalle leggi
e statuti antichi del Regno»[115].
La «linea
Gemelli» costituisce dunque una sorta di spartiacque generazionale tra
coloro che si ergevano a difensori delle antiche istituzioni agrarie
dell’isola e, in definitiva, dello stesso regime feudale, identificato
simbioticamente col sistema comunitario, e coloro che, formatisi nelle scuole e
nelle università riformate, guardavano invece favorevolmente alla
privatizzazione delle terre e alla formazione di un nuovo ceto
«possidente» nelle campagne. Fra questi figura l’avvocato
Diego Bernardo Marongio del villaggio logudorese di Bessude, allievo sassarese
di Gemelli («mio eruditissimo precettore»), che in una memoria del
1779 dal titolo Insinuazioni sul rifiorimento della sarda agricoltura
critica il «rovinoso sistema delle vidazzoni» e auspica la
chiusura dei seminati: «il mezzo più opportuno ed efficace per
assicurare al sardo contadino» il «suo lavoro – sostiene
–, io lo ritrovo nella chiusura, che potrebbe esser diversa a misura
de’ terreni e lor situazione. Il circondar di siepi, sassi e legna la
circonferenza, e limiti delle vidazzoni è il rimedio facilissimo
per la loro riserva»[116]. Il tema
gemelliano delle «casine», i poderi rurali necessari
all’insediamento dei coltivatori nei fondi chiusi, viene ripreso nel 1779
nel poema sardo-italiano Il tesoro della Sardegna ne’ bachi e gelsi
del sacerdote Antonio Purqueddu[117].
Un altro allievo
dell’autore del Rifiorimento, il giovane algherese Domenico Simon,
che negli anni successivi avrebbe ricoperto il prestigioso ufficio di
vicecensore generale, nel poema didascalico Le piante (1789) riprende in
versi eleganti i temi fisiocratici propugnati da Gemelli: «Ecco sparse
casine, e prender lena / Ciascuno a chiuder il terren deserto / Fiorisce
agricoltura, ed ogni pianta / Curva di frutti, lussureggia e incanta».
Nelle annotazioni al poemetto scrive a questo proposito: «Il difetto di
chiusura nelle terre di questo Regno, la cagione, onde ciò venga, la
necessità, e il modo di rimediarvi non può essere meglio espresso
che nel Rifiorimento della Sardegna». Gemelli, conclude Simon,
«ci propone i mezzi della nostra felicità, e noi non potremo mai
leggerlo abbastanza»[118].
Negli ottanta-novanta
del Settecento
Il progetto boginiano
che aveva rifondato le due Università di Cagliari (1764) e di Sassari
(1765) mirava a costruire uno Stato burocratico moderno, integrando le classi
dirigenti locali all’interno della monarchia sabauda e ponendo le
premesse di un profondo rinnovamento culturale. Nei programmi ministeriali
d’insegnamento si teneva conto delle nuove idee dei giusnaturalisti
moderni, Pufendorf, Heineccius, Wolff, o di illuministi di ispirazione
cattolica, come Muratori[119]. Non era
previsto l’insegnamento del ius patrium, anche se i professori
come esempio pratico potevano fare gli opportuni riferimenti alle prammatiche e
ai capitoli di corte. L’antico costituzionalismo e le Leggi fondamentali
del Regnum Sardiniae venivano riscoperti e riletti alla luce delle
teorie di Montesquieu e di Filangieri, dell’esperienza del patriottismo
settecentesco e della Rivoluzione americana[120].
Il processo di
sistemazione legislativa procedeva in Sardegna in modo lento e contraddittorio.
Nel 1775 era stata pubblicata dalla Stamperia reale di Cagliari la raccolta
normativa degli Editti, pregoni ed altri provvedimenti emanati per il Regno
di Sardegna, curata dal reggente Sanna Lecca, coadiuvato dal giudice Pes,
che aveva lo scopo di ordinare in modo sistematico e secondo criteri razionali
per materia le numerose disposizioni emanate dal sovrano (editti) e dai
viceré (pregoni) per l’amministrazione e il governo del Regno[121].
Si specifica infatti che la «collezione» non è «una
compilazione universale d’ogni sorta di leggi, ma di quelle soltanto, che
coll’impronta, per così dire, della perpetuità tendono a
regolare stabilmente il buon governo e ’l corso della giustizia nel
medesimo Regno, ed abbisognano quindi di venir richiamate alla puntuale
esecuzione». Non si tratta dunque di una «nuova
legislazione»: i provvedimenti, infatti – spiega Francesco Pes
–, sono stati «lasciati nello stato, e con lo stesso carattere di
validità e forza legislativa in cui erano dapprima senza alcuna
innovazione quanto all’intrinseco»; quanto
all’«estrinseco», poi, si «è adoperata ogni cura
e diligenza possibile nella traduzione di quelli […] estesi in idioma
spagnuolo»[122].
La raccolta del 1775
non può essere compresa nella categoria di quei complessi normativi di
diritto regio usualmente denominati «consolidazioni»,
giacché restavano fuori tutte le fonti di emanazione sovrana del periodo
aragonese e spagnolo[123]. Gli Editti
non intendono abrogare nulla della legislazione preesistente e rinviano ancora
una volta alle «leggi patrie»
e, ovviamente, al diritto comune. Lo spirito giuridicamente
“arretrato” della raccolta del 1775 risulta più evidente se
la si paragona alla celebre «consolidazione» delle Leggi e
costituzioni piemontesi del 1729, riformulate nel 1770, che non solo
abrogavano e modificavano la normativa precedente, ma indicavano puntualmente,
pur entro il sistema del diritto comune, le fonti in ordine di applicazione,
comprendendo anche le decisioni giurisprudenziali[124].
Nonostante gli
oggettivi condizionamenti dell’autonomia ordinamentale del Regnum
Sardiniae, tutelata dalle clausole dell’atto di cessione, iniziava
faticosamente a farsi strada presso i giuristi e i magistrati l’esigenza
di una profonda riforma legislativa. Nel 1790 due giudici della Reale Udienza,
Cristoforo Pau e Francesco Ignazio Casazza, inviano a Vittorio Amedeo III una
proposta di «compilazione» di un «nuovo codice di leggi
adattato ai bisogni di quel Regno». I due magistrati partono dalla
constatazione che «le leggi trovansi qua e là disperse nella Carta
locale, e Reali Prammatiche, parte nei Capitoli di Corte raccolti dal Descart,
ed in quelli, che trovansi tutt’ora inediti, parte nei due volumi di
pregoni impressi nel 1775, ed in molti altri vaganti fuori di tal raccolta.
Alcuni di essi contengono provvidenze fra di loro opposte. Mancano leggi
intorno a molte materie – proseguono –, come per cagion
d’esempio a riguardo dell’istruttoria delle cause civili, nelle
materie feudali, delle ultime volontà, e in ciò che concerne
l’economica amministrazione dei pubblici […]. Alcune leggi poi
s’ignorano, perché inedite, tuttoché esistano negli
archivi regio e patrimoniale». Un’attenzione specifica viene
dedicata all’agricoltura a proposito dell’eventuale compilazione di
«un Codice di leggi agrarie, nelle quali si accordassero privilegi ai proprietari
e si stabilisse la divisione delle terre, senza la quale è impossibile
che fiorisca l’agricoltura». Convinti sostenitori della
«linea Gemelli» Pau e Casazza affermano che la «divisione dei
terreni è da tutti universalmente desiderata nelle ville […], come
lo udimmo parecchie volte dai rettori e particolari dei villaggi». A loro
avviso, quindi, il «rifiorimento dell’agricoltura» dipende in
gran parte dalla chiusura e dalla privatizzazione dei campi: il modello
è lo «stato floridissimo» dell’Inghilterra, dovuto
«principalmente» al «ripartimento» e alla
«proprietà libera della terra»[125].
Il progetto di questa
innovativa “consolidazione” era destinato comunque ad
arenarsi. La legislazione viceregia degli ultimi decenni del secolo, quando
doveva confrontarsi con l’ambito consuetudinario e con gli antichi usi
del Regno, continuò a richiamare i capitoli della Carta de Logu[126].
Anche la situazione del diritto penale restò sostanzialmente immutata:
rimase irrisolto il problema della giurisdizione feudale e la procedura e le
pene conservarono i loro caratteri arcaici, derogando spesso alla tradizione
consuetudinaria. Il pregone emanato il 21 ottobre 1800 da Carlo Felice di
Savoia, duca del Genevese, sulla «buona amministrazione della
giustizia» imponeva ancora, ad esempio, che le comunità dovessero
essere tenute «a verificare i delitti ed arrestare i delinquenti giusta
il disposto della Reale Prammatica, Carta de Logu, ed altre leggi del
Regno, sotto la pena dell’incarica, non ostante qualunque aggiustamento,
transazione o contratto, che siavi, o possa esservi tra le predette
comunità e loro baroni». In caso di furto, incendio o altri
delitti i ministri di giustizia dovevano «d’ufficio ed
abbenché non siavi istanza di parte notificare l’incarica nel
termine e forma prescritta»[127]. Si trattava
quindi dell’imposizione di un antico istituto che, come attestano le
fonti normative del tempo, stava andando in desuetudine sostituito da tributi
alternativi concordati tra le comunità e il feudatario[128].
Nel 1776-77 il
viceré Filippo Francesco Ferrero della Marmora aveva ipotizzato di far
ricorso a «rimedj non già palliativi ma radicali»
nell’ambito dell’amministrazione della giustizia attraverso la
suddivisione del Regno in Province, destinando ad esse prefetti ed avvocati
fiscali con attribuzioni giurisdizionali sui «delitti di regalia» e
di controllo sulle curie baronali, provvedendo alla «costruzione di
pubbliche regie carceri provinciali», alla nomina triennale degli
«uffiziali di giustizia in persone esaminate di diversa villa e
dipartimento non ammovibili senza cognizione di causa e da sottoporsi alle
pubbliche assisi, e con ciò – sosteneva il viceré –
con darsi al nuovo sistema quella unità di movimento propria di quello
che osservasi negli altri Regii Stati di Terraferma»[129].
Alla Segreteria di Stato torinese il progetto apparve troppo radicale, in
parziale contrasto con le clausole dell’atto di cessione e con le
prerogative baronali, ma soprattutto troppo costoso.
Il diritto penale e
l’amministrazione della giustizia sono il terreno su cui si concentra la
riflessione di quella nuova generazione di giuristi e di magistrati che avevano
studiato nelle università riformate. Nel 1784 il giovane algherese
Matteo Luigi Simon pubblicava la dissertazione De questionibus aut tormentis
tenuta all’Università di Cagliari per il conseguimento della
laurea in utroque iure, che illustrava la teoria della tortura
nell’ambito del sistema delle prove. Pur all’interno (e con i
relativi condizionamenti) di una prova accademica, Simon teneva nel dovuto
conto le tesi della «moderna filosofia» illuministica sulla tortura
come assurdo esperimento per giungere alla verità, non riuscendo
peraltro a dissimulare il disagio nei confronti dell’arretrato quadro
legislativo e istituzionale del Regno[130].
In una memoria
dell’estate del 1791 il sostituto sovrannumerario dell’avvocato
fiscale regio, l’algherese Giovanni Lavagna, che si era laureato a
Sassari nel 1782, nel ricercare «la causa della frequenza dei delitti e
del poco non meno che ritardato castigo dei delinquenti» la addebita
senza esitazioni alla «Legge Patria a tenor della quale sono alcuni
degl’indicati delitti ammissibili di fidenza e del privilegio spettante
di perdonare i delitti […] mediante composizione». Naturalmente
l’indice è puntato sulla giustizia baronale: i ministri di
giustizia, scelti dai feudatari, sono infatti «i più ignoranti e
venali e qualche volta protettori degli stessi facinorosi. Da ciò ne
deriva con frequenza – afferma Lavagna – che i processi delle curie
ordinarie sono mal menati, che o si trascurano per ignoranza o malizia le prove
dei delitti, ovvero l’intorbidano per venalità ad oggetto o
d’occultare i misfatti o di renderli meno gravi in favore de’
delinquenti». Il giovane sostituto, pur all’interno di una visione
sostanzialmente moderata – approva, ad esempio, l’«uso dei
rimedi economici» –, critica severamente i «lodatori e i difensori
dei tempi andati», auspicando la riforma di una procedura penale ormai
anacronistica e dell’amministrazione giudiziaria feudale[131].
Nello stesso 1791 il
giudice delegato del Tribunale apostolico, il ventenne Faustino Cesare Baille, che
si era laureato l’anno prima nell’ateneo cagliaritano, redige
Baille, figlio di
Giovanni Cesare, amministratore generale dei feudi degli Stati di Oliva e del
Ducato di Mandas, pur segnalandone i limiti mostra un’attenzione
particolare per
In sintonia con lo
spirito patriottico dei primi anni novanta, anche Baille ritiene che le leggi
«parlamentarie» siano «leggi veramente sacrate, leggi che
meritano ogni encomio e lode, leggi finalmente degne d’essere come
prezioso tesoro serbate a perpetuità nei penetrali di Minerva» che
«formano la delizia del Regno» e costituiscono un freno al
«dispotismo, il quale […] vedesi inceppato dalle medesime»
per far «trionfare lo zelo patriottico»: nelle leggi delle Corti,
afferma il giovane giurista cagliaritano, «erano i legislatori gli
Stamenti popolari, i quali proponevano le leggi di commun consenso del popolo
alla Reale Maestà, da cui ne ottenevano il grazioso decreto per la
validità delle medesime»[135].
La mobilitazione
patriottica seguita alla vittoria delle truppe miliziane
«nazionali» sul corpo di spedizione francese,
l’autoconvocazione degli Stamenti, l’elaborazione della piattaforma
autonomistica delle «cinque domande» da presentare al sovrano,
stimolarono, nella primavera-estate del 1793, un intenso dibattito sui grandi
problemi irrisolti della Sardegna, primo fra i quali l’amministrazione
della giustizia e la raccolta delle leggi[136].
Allo Stamento militare
pervennero infatti numerosi memoriali, proposte e progetti di riforma in tema
di difesa militare del Regno, di politica economica e di istituzioni
giudiziarie. «Dalla mancanza di giustizia criminale e civile dipendono
tutti i mali della Sardegna; sono inutili gli stradoni, inutili i porti di
mare, inutili le fortezze, inutile qualsiasi provvedimento politico, se la
giustizia non gastiga i malvaggi, non previene i delitti»[137]:
è l’amara constatazione dell’avvocato don Giovanni Battista
Serafino, procuratore del duca dell’Asinara e di altri nobili del Capo di
Sassari.
La giustizia feudale
è posta duramente sotto accusa dal cavaliere sassarese don Lorenzo
Sanna: gli ufficiali baronali, che «sono i capi delle rispettive
curie» e «formano la prima pianta dei processi», da cui
«dipende lo stesso governo per le relazioni dei diversi affari»,
sono, a suo avviso, «quasi tutti ignoranti, meschini e talvolta anche
facinorosi. E in mani di persone simili si commette il sacro deposito delle
leggi – si domanda – e l’inestimabile bilancia della
giustizia?». Ciò che colpisce nella memoria di Sanna non sono
tanto le proposte, peraltro prevedibili, come quella di far nominare, previo
esame, i ministri di giustizia dalla Reale Udienza e dalla Reale Governazione,
quanto l’aspra invettiva antifeudale («quanto pochi sono quelli che
ardiscono alzare il curvo collo contro il feudatario che ha mille maniere di
farlo pentire, arbitro delle forze della giustizia?») di chi considerava
ormai il regime feudale avverso alla «naturale inclinazione»
dell’uomo[138].
Assai interessante
risulta l’ampio memoriale di Antonio Ignazio Paliaccio conte di Sindia, esponente
di una nobiltà di toga (suo nonno era stato reggente nel Supremo
Consiglio di Sardegna) che aveva fatto fortuna sotto la dinastia sabauda, che
guardava con favore la mobilitazione stamentaria e di fatto accoglieva
l’appello fisiocratico per la promozione del «rifiorimento»
agricolo e di nuove imprese commerciali[139]. Nel delineare
un progetto complessivo di riforma degli assetti istituzionali del Regno, dalla
legislazione all’amministrazione della giustizia, dalle magistrature alla
difesa militare, dalle milizie alle compagnie barracellari,
dall’istruzione pubblica al commercio, la sua Relazione esprime
posizioni moderatamente innovative, tenendo certamente conto
dell’eredità boginiana, in un disegno in cui la nobiltà, in
piena sintonia con la monarchia sabauda, diviene una nuova e moderna classe
dirigente assumendo in prima persona la responsabilità del processo di
rinnovamento delle strutture giudiziarie e di governo. È d’altra
parte, in questa prima fase della «sarda rivoluzione», una
posizioni assai diffusa all’interno dello Stamento militare che,
nell’elaborazione della piattaforma delle «cinque domande»,
unificava le rivendicazioni dell’aristocrazia feudale locale, della
nobiltà di servizio, della piccola nobiltà e dei cavalieri dei
villaggi.
Il conte di Sindia si
mostra pienamente consapevole dei gravi problemi giudiziari e dell’ordine
pubblico dell’isola, «primaria base della felicità di
qualunque nazione»: «una esatta, retta e ben regolata
amministrazione di giustizia manca nel Regno di Sardegna […]. Piange
l’agricoltore le sue biade devastate dal prepotente, il pastore li suoi
armenti distrutti dal ladro e dall’abigeo, la vedova il marito, il figlio
il padre toltogli da un empio omicida. Tutti cercano presso i ministri della
legge il risarcimento e l’esempio del castigo, mai però o
raramente l’ottengono. Ne deriva quindi che ciascuno s’arma della
vendetta e procura farsi da se stesso e privatamente quella ragione e giustizia
che in suo senso non ha trovato nei tribunali»[140].
Paliaccio non ha difficoltà
ad ammettere che nelle curie subalterne le disfunzioni derivano soprattutto dai
ministri di giustizia che «ben lungi d’avere la maggiore cognizione
della legale, ignorano per lo più le stesse leggi ed usi del paese, e
taluno appena sa leggere e malamente scrivere e non potendo procacciarsi
altrimenti la sussistenza, mettono in pratica tutti li mezzi per istrappare
qualche uffizialia o delegazione». Nelle curie dei villaggi i giudici
sono «ogni giorno persone più inabili o meno integre»,
giacché non è facile trovare un avvocato o un laureato in legge
che voglia recarsi nei feudi per ricoprire le cariche di ufficiale di giustizia
o di delegato baronale. I rimedi suggeriti riprendono alcune di quelle
soluzioni che erano state discusse a lungo in seno al governo ma erano state
sempre accantonate, come la garanzia dello «stipendio fisso» per i
delegati di giustizia, sottoposti all’arbitrio e alla
«volontà» del barone, l’introduzione della
«sindacatura» dell’attività giudiziaria, la
preparazione legale dei giudici. L’istituzione delle prefetture, con la
rinunzia dei «signori allodiali a quella porzione di loro
giudicatura», avrebbe potuto ovviare a queste disfunzioni, ristabilendo
una corretta amministrazione della giustizia e insieme consentendo ad un
«numero considerevole d’avvocati» di trovare
possibilità d’impiego. La riforma, secondo Paliaccio, sarebbe
stata estremamente utile alla feudalità, giacché la giustizia
sarebbe stata amministrata «dai prefetti ne’ feudi componenti
Nonostante queste
aperture, su un punto il conte di Sindia resta estremamente rigido, a difesa
delle proprie prerogative cetuali: l’istituzione dei Consigli
comunitativi, da vent’anni mal digerita dalla feudalità iberica e
da quella sarda. «Questo regolamento – scrive a proposito dei
provvedimenti del 1771-75 – non ha interamente sortito
quell’effetto di pubblico vantaggio che la paterna Sovrana cura si era
prefissa»: «recano questi consigli molti disordini e sono spesso il
fomite delle discordie e liti non meno ragionevoli coi privati che cogli stessi
feudatarj». Insomma, le cause inoltrate dai Consigli contro i baroni per
la verifica dei diritti illegittimi o contestati, l’autonomia dei
consiglieri dal potere feudale e, soprattutto, la pretesa per cui la
«rispettiva comunità si crede autorizzata immischiarsi in ogni
semplice provvedimento sì giuridico, che economico» dei baroni e
dei ministri di giustizia, sono i motivi del categorico rifiuto di quella
travagliata riforma da parte del conte. L’altro punto di chiusura
riguarda l’antico istituto dell’incarica: «le reali
prammatiche e
Il dibattito
politico-istituzionale degli anni 1793-96 si concentra soprattutto
sull’ambito del diritto pubblico e, in particolare, sul ruolo dei corpi
intermedi in una monarchia mista, sulla funzione dell’antica costituzione
e delle Leggi fondamentali del Regnum Sardiniae, identificate con i
capitoli di corte, sulle limitazioni al «dispotismo» assolutistico
del governo piemontese, sulla necessità delle convocazioni del
Parlamento come «assemblea generale dei rappresentanti» della
«Sarda Nazione», sulla rivendicazione dell’esclusività
delle cariche pubbliche e delle prelature per i «nazionali».
Ovviamente il tema della riforma della legislazione e dell’amministrazione
della giustizia restava più in ombra, anche se la seconda delle
«cinque domande», relativa all’«osservanza e
confermazione de’ Privilegi e Leggi fondamentali del Regno»,
implicava il rispetto di tutte le «leggi, privilegi e consuetudini»
(e, quindi, in teoria, anche dell’antico statuto di Eleonora) dei quali
Più che la
vetusta Carta de Logu iniziava infatti a stimolare l’interesse dei
patrioti, in una singolare «invenzione della tradizione», il
periodo giudicale e in particolare l’«autorità regale e
veramente sovrana» esercitata dai «regoli», da cui emergeva,
come sosteneva Lodovico Baille, avvocato, grande erudito, impiegato presso
l’ambasciata di Spagna a Torino, che al momento della conquista aragonese
il Regnum Sardiniae doveva «considerarsi deditizio e non
già conquistato dagli Spagnuoli; essendosi i medesimi valsi della forza
non già contro i Sardi […], ma bensì contro de’
Pisani»[145]. Veniva
riscoperta dagli Stamenti anche l’ultima pax Sardiniae del 1388,
accordo stipulato in modo paritario dalla giudicessa di Arborea e dal re
d’Aragona, nel quale potevano essere rintracciate alcune motivazioni di
fondo delle «cinque domande» e, in particolare, di quella
dell’esclusività degli impieghi[146].
Tra l’estate del
1795 e la primavera del 1796 si radicalizza l’agitazione dei
villaggi infeudati del Capo di Sassari e di Logudoro con la saldatura della
rivendicazione antifeudale con la piattaforma autonomistica delle «cinque
domande»[147]. Era inevitabile
che
L’onda lunga di
queste istanze viene in qualche modo recepita da uno dei protagonisti della
«sarda rivoluzione», Gianfrancesco Simon, abate di Salvenero e Cea,
in una Lettera sugli illustri coltivatori della Giurisprudenza in Sardegna,
la prima, agile e acuta sintesi della storia del diritto patrio del Regno,
indirizzata nel
L’interesse per
le peculiarità storiche del codice di Eleonora si accentua nel primo
decennio dell’Ottocento, in coincidenza col venir meno della sua
autorevolezza come diritto osservato nelle campagne del Regno. Nel 1805 vengono
pubblicate a Roma in una raffinata edizione le Costituzioni di Eleonora
giudicessa d’Arborea intitolate Carta de Logu del magistrato
cagliaritano Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli: si tratta della prima
edizione moderna della Carta che, grazie alla traduzione italiana e alle
numerose note esplicative, rendeva fruibile ad un pubblico più ampio
l’antico codice e consentiva agli storici e ai giuristi di penetrare il
senso delle norme che avevano caratterizzato la vita rurale della Sardegna
medievale e moderna[150]. Mameli,
primogenito di Vincenzo Mameli de Olmedilla, dopo la laurea in Giurisprudenza a
Cagliari aveva intrapreso la carriera giudiziaria, prima come aggiunto della
sala criminale della Reale Udienza, poi come magistrato effettivo, nel 1799
consigliere di Stato, e nel 1803 giudice del Consolato[151].
Quando pubblicò
le Costituzioni, Mameli aveva una solida preparazione tecnica ed una
profonda conoscenza del diritto patrio della Sardegna. Nel Proemio
avverte il lettore che la «traduzione della Carta de Logu, intrapresa
da me ad intendimento di rendere maggiormente noto un Codice così ben
inteso e de’ migliori che si sieno compilati ne’ suoi tempi»,
avrebbe potuto «non incontrar l’approvazione de’ rigorosi
osservatori» della lingua italiana e non sarebbe certo piaciuta ai
«grammatici per la frequente inosservanza delle regole» di un
«testo sardo di tanto antica composizione»[152].
In effetti il curatore si rende autocriticamente conto che l’italiano
adoperato nella traduzione e nelle note esplicative risulta spesso pesante e
farraginoso e che l’arbitrario adattamento (con la modifica della grafia
e delle desinenze originarie) dell’antico logudorese del codice al sardo
campidanese corrente dei suoi tempi risulta filologicamente improponibile. Per
la sua traduzione egli si era basato sui Commentaria et glosa di Olives,
ma con candida franchezza ammette di non aver consultato le edizioni a stampa
precedenti[153].
D’altra parte le
finalità dell’opera non erano né filologiche, né
tanto meno giuridiche, ma essenzialmente patriottiche, volte cioè a
magnificare con orgoglioso compiacimento l’antico statuto sardo[154].
Mameli non intendeva redigere un nuovo commentario, sul modello di quello di
Olives, ad un testo normativo ormai desueto e superato in gran parte dalle
leggi vigenti, ma si prefiggeva di realizzare un’opera essenzialmente
storico-antiquaria: la tentazione di un’analisi prettamente giuridica fu
«sempre vinta – affermava – col tenermi saldo nel primier mio
proponimento di non innovare notabilmente, e levar soltanto da questo antico
libro l’antica polvere, per quanto mi fosse possibile»[155].
Nonostante i loro
limiti intrinseci Le costituzioni del magistrato cagliaritano si
presentavano come un lavoro nel complesso utile, soprattutto per la conoscenza
e la divulgazione di un testo di non sempre facile comprensione. È
significativo, ad esempio, che proprio dall’opera di Mameli Federigo
Sclopis traesse le notizie sulla Carta de Logu per la sua Storia
della legislazione italiana, la prima, organica e documentata storia del
diritto dalle invasioni barbariche al processo codificatorio e costituzionale
unitario[156]. A
dispetto del giudizio favorevole di Manno («un’opera scritta con
buon giudizio e ricca di patrie notizie»), la storiografia sarda ha nel
complesso valutato negativamente il lavoro di Mameli[157].
Un severo verdetto senza appello venne infine espresso da uno dei più
autorevoli storici del diritto, Enrico Besta, secondo cui tra le edizioni del
codice di Eleonora quella di Mameli era «forse di tutte la
peggiore»[158].
Gli anni del soggiorno
dei Savoia in Sardegna (1799-1814) sono un periodo indubbiamente
contraddittorio, che ha fatto discutere a lungo gli storici[159].
Il definitivo tramonto delle aspirazioni autonomistiche e delle rivendicazioni
costituzionali, seppur all’interno del quadro di una monarchia mista di
Antico Regime, e delle istanze di rinnovamento sociale ed economico, col
superamento del regime feudale attraverso il meccanismo del riscatto oneroso da
parte delle comunità, segna la sconfitta dei nuovi ceti emergenti che si
sentivano ormai protagonisti della vita politica e civile del Regno. La feroce
repressione che si abbatté sui protagonisti della «sarda rivoluzione»
decapitò infatti un’intera classe dirigente sia nelle
realtà urbane, tra le fila della nobiltà di toga, degli avvocati,
dei notai, degli ecclesiastici, sia nei villaggi, dove faticosamente iniziava a
distinguersi un nuovo ceto di principali, di possidenti, di parroci e di
rettori, che si battevano per un nuovo assetto di proprietà della terra
e per nuovi rapporti di produzione nelle campagne. Non a torto Joseph de
Maistre, reggente
Tuttavia, già
dalla metà del primo decennio del secolo inizia a profilarsi una linea
di governo tesa a riproporre, seppur in un contesto radicalmente mutato alcuni
temi cari al riformismo boginiano: la diffusione delle tecniche agronomiche,
l’esigenza della chiusura dei terreni, la necessità della riforma
dell’amministrazione della giustizia, il riordinamento della
legislazione del Regno[162]. La fondazione
nel 1804 della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari
finalizzata, all’educazione degli agricoltori attraverso la divulgazione
delle nuove tecniche e dei moderni sistemi di conduzione della terra, alla
valorizzazione delle risorse naturali e allo sviluppo delle potenzialità
produttive dell’isola, ripropose con forza la «linea Gemelli»
a favore dell’individualismo agrario[163].
In uno dei primi
dibattiti dell’Accademia, quello sviluppatosi nel 1805 sui modi per
«conciliare l’agricoltura colla pastorizia, ossia trovare i mezzi
coi quali cessando le insorte gare tra gli agricoltori e i pastori, si possa
far fiorire e prosperare questo doppio ramo di ricchezza universale», si
delineano posizioni divergenti tra i fautori tout court delle chiusure
dei campi, tra i nostalgici del sistema comunitario, tra i sostenitori delle
ragioni degli usi collettivi a proposito della mancanza dei pascoli[164].
La posizione prevalente era quella rappresentata dal presidente
dell’Accademia, Lodovico Baille, che si riallacciava alle tesi del Rifiorimento
a proposito della necessità di creare «le praterie
artifiziali», di migliorare i pascoli «con quelle erbe che saranno
giudicate più salubri, più nutrienti», di «promuovere
il sistema delle chiusure tanto utile, anzi imprescindibile ovunque si voglia
che prosperi l’agricoltura», di moderare l’iniziativa dei
proprietari che, persuasi «del maggior pregio e valore» di un
«terreno colla chiusura, vorrebbero forse cerchiare vastissime estensioni
a pregiudizio degli altri in tanto che dura tuttora il sistema della comunione
dei pascoli»[165].
Baille e il sacerdote Efisio Muscas, strenui sostenitori della necessità
di incrementare le chiusure, criticavano però le iniziative private
illegittime, indicavano in dieci starelli (circa quattro ettari)
l’estensione massima di ogni terreno da recintare e suggerivano di
riservare in proprietà ai concessionari i nove decimi della superficie
chiusa[166].
Vi è un nesso
evidente tra le discussioni e le iniziative della Reale Società Agraria
e la promulgazione dell’editto del 3 dicembre 1806 diretto alla
promozione della coltivazione degli oliveti, che può essere considerato
come una parziale recezione legislativa della cosiddetta «linea
Gemelli». Il provvedimento prendeva le mosse dalla «legge
patria» (prammatiche, capitolo di corte del 1624, etc.), rinnovando a
«tutti li possidenti vigne ed altri terreni chiusi l’obbligo di
circondarli d’alberi di olivo […] a riserva delle sole tanche, il
pascolo delle quali si farà risultare necessario al bestiame». Era
concesso ai «proprietari di terreni aperti, non escluse le vidazzoni e i
paberili di chiuderli liberamente per formare oliveti» e veniva ribadita
la decadenza dalla concessione nel caso in cui il concessionario non avesse
ottemperato alle finalità previste dall’editto[167].
Sebbene in questa disposizione comparissero per la prima volta in modo
esplicito i termini «proprietario» e
«proprietà», stentava comunque ad affermarsi
un’organica concezione degli assetti di proprietà e di chiusura
dei terreni, capace di superare la logica delle concessioni particolari (per i
vigneti, per il foraggio, per i gelsi, per gli orti, per gli oliveti):
l’editto costituisce però il primo, sostanziale provvedimento di
eversione non soltanto del sistema comunitario, ma anche della Carta de Logu
che disciplinava la cungiadura solo sotto l’aspetto economico, in
vista cioè della protezione del fondo dai danneggiamenti del bestiame e
degli uomini, e non come dominio esclusivo.
Si trattava dunque di
estirpare dalla mentalità dell’agricoltore sardo – come
sostiene Giuseppe Manno, allora sostituto sovrannumerario dell’avvocato
fiscale, in un discorso letto nell’«adunanza» del 24 novembre
1811 della Reale Società Agraria – il «pregiudizio
dell’abitudine»: la «legislazione stessa – afferma il
giovane magistrato – previene i dubbi che l’attual sistema della
comunanza delle terre potrebbe eccitare sul luogo e sulla difesa delle novelle
piantagioni», in attesa del «desiato momento, in cui
un’equabile ripartizione e chiusura delle terre da lavoro porti seco la
sicurezza, la vera proprietà e l’interessamento»[168].
Il «desiato
momento» avrebbe conosciuto tempi estremamente lunghi di realizzazione,
mentre nel vuoto legislativo si sviluppava un movimento spontaneo di chiusura
delle vidazzoni e spesso di recinzione dei pascoli, con numerosi abusi sovente
a scapito degli stessi diritti collettivi delle comunità di villaggio,
che assumeva connotati diversi nelle varie realtà territoriali
dell’isola. Molto spesso si trattava di “usurpazioni” che si
erano sviluppate già dagli ultimi decenni del Settecento[169].
Nel 1818 le comunità del Ducato di Monteacuto, Ozieri, Oschiri, Tula e
Buddusò inoltravano al Supremo Consiglio di Sardegna un ricorso nel
quale lamentavano che dal 1815 la duchessa di Benavente avesse fatto demolire
dal proprio reggitore alcune «tanche erette senza permesso». La
stessa protesta dimostra quanto fosse ancora evanescente il diritto di
“proprietà” in Sardegna. Il feudo si faceva infatti strenuo
difensore del regime comunitario. I Consigli comunitativi, sostenitori del
movimento delle «chiusure» facevano presente che la
«misura» baronale «contro un sistema già adottato e
diretto a togliere le promiscuità de’ terreni e pascoli, sorgente
infausta di tanti mali che hanno desolato
Per dirimere la spinosa
controversia venne chiesto un parere a Prospero Balbo, che da ambasciatore
sabaudo a Madrid aveva avviato un negoziato per ottenere il riscatto dei feudi
sardi in cambio di un indennizzo. Confutando le tesi dell’avvocato della
duchessa, secondo cui in Sardegna «non solo le terre pubbliche e le comuni,
ma eziandio le proprie» non potevano essere chiuse «senza la
permissione del feudatario», Balbo sostiene che il «diritto preteso
da’ baroni di vietar le chiusure o non ha fondamento o nasce da pretesa
proprietà di terreni. A questi termini ridotta la controversia,
cioè quistionandosi di proprietà, l’ordine delle
presunzioni legali parmi – spiega Balbo – che sia prima in favore
di chi possiede, vale a dire di chi coltiva o fa coltivare, poi del comune, poi
del fisco, poi del barone». Per migliorare le condizioni
dell’agricoltura sarda propone tre forme di intervento, collegate fra
loro: «Regolare con leggi le mutazioni di proprietà che si fanno
per atto fra’ vivi o per successione a’ defunti»;
«Imporre colla maggior possibile uguaglianza le contribuzioni
necessarie»; «Incorporare al dominio eminente o pubblico il dominio
utile o privato, che è quanto dire insignorirsi e disporre d’una
proprietà»[171]. Nonostante la
prudenza nei confronti delle prerogative signorili e il richiamo delle
«leggi patrie» («Io non ho saputo trovarvi il menomo vestigio
del supposto diritto di vietar le chiusure»)[172],
Balbo affermava con decisione una presunzione di proprietà a favore,
appunto, di chi possedeva o coltivava la terra: poiché, poi, la proprietà
implicava a sua volta una «presunzione di interezza», cioè
il diritto di escludere altri, ne derivava ovviamente la necessità di
chiudere. L’alto funzionario sabaudo finiva così per teorizzare il
diritto «assoluto» di proprietà come espressione della
libera iniziativa individuale che si opponeva al regime comunitario e a tutte
le limitazioni del godimento individuale[173].
Che le
«più antiche leggi del Regno» fossero in oggettivo contrasto
con questa nuova concezione della proprietà che si stava faticosamente
affermando viene notato nel 1818 da Manno, ora primo ufficiale della Segreteria
di Stato per gli affari di Sardegna, secondo cui il codice di Eleonora
«proverebbe che la chiusura in quei tempi invece di essere un oggetto di
particolar grazia ed impetrazione, era solo considerata come un articolo di
cautela legale per acquistare il dritto del risarcimento dei danni contro i
pastori del bestiame vagante nei seminati: siccome non risulta – prosegue
– che tali chiusure acquistassero quella perpetuità, che è
la sola che si richiede nello stabilire e favorire la proprietà
[…], perciò non può dall’esame della Carta de Logu
trarsi alcun sicuro raziocinio per conoscere il sistema di quei tempi sulla libertà
o dipendenza delle chiusure»[174].
L’editto detto
«delle chiudende» del 6 ottobre 1820 (ma pubblicato in Sardegna
soltanto il 14 aprile 1823), recepì ampiamente le posizioni del
movimento economico e giuridico a favore delle chiusure. Formalmente il provvedimento
non era in contraddizione con gli ordinamenti feudali («non intendendosi
con la facoltà alla chiusura – si legge nelle Istruzioni sovra
le chiudende – variato, alterato, o diminuito in alcun conto»
il diritto «esercitato dal barone sul territorio»), ma in
realtà iniziava a minarne le fondamenta assestando un duro colpo al
regime comunitario e non – come spesso erroneamente si è scritto
– ai domini collettivi delle comunità sui cosiddetti terreni
ademprivili. L’editto, infatti, concedeva la facoltà di chiudere
qualunque terreno di proprietà privata «non soggetto a
servitù di pascolo, di passaggio, di fontana e
d’abbeveratojo»; nei terreni soggetti a servitù la chiusura
poteva essere effettuata solo dietro domanda al prefetto, previo assenso delle
comunità interessate[175]. A proposito
dello «spirito informatore» della legge, Carlo Guido Mor ha
osservato che la «nuova proprietà privata» derivava dalla
«chiusura di terreni su cui il privato o il villaggio» esercitavano
«diritti di possesso, con questa sola differenza che se il possesso era
coordinato con diritti ademprivili di terzi», la chiusura doveva essere
autorizzata dalle autorità. Quindi il «rimedio della
chiusura» costituiva il «solo titolo legale sulla proprietà
perfetta»[176].
L’applicazione
concreta della legge incontrò numerosi ostacoli, provocò svariati
abusi in violazione delle servitù e suscitò la dura opposizione
delle comunità specie nelle regioni ad economia pastorale[177].
Soltanto con la carta del 26 febbraio 1839, promulgata all’indomani del
riscatto dei feudi, definita non a torto da Italo Birocchi come il «vero
ordinamento organico della proprietà»[178],
venne accertata l’esistenza del dominio utile e del «titolo»
che consentiva all’utilista, attraverso la «chiusura», di
diventare titolare esclusivo del bene con tutte le annesse condizioni di
stabilità e di continuità[179]. Già
con l’editto del 1820 erano comunque venuti meno i presupposti di una cungiadura
soggetta, attraverso l’omologazione, la verifica e la perizia da parte
dei giurati del villaggio degli eventuali danni arrecati dal bestiame,
all’ingerenza della comunità, che non isolava giuridicamente un
lotto di terreno da un altro, ma lo distingueva solo economicamente,
determinando pertanto non un diritto di proprietà, ma di uso.
Nel primo decennio
dell’Ottocento restava ancora insoluto il grave problema della riforma
della giustizia penale e della repressione della criminalità rurale.
È emblematica, a questo proposito, l’istituzione nel 1807 di
quindici prefetture finalizzate al riordinamento dell’amministrazione
della giustizia, di controllo governativo sui feudi, di perequazione
tributaria. I prefetti avevano infatti una duplice funzione: giurisdizionale ed
amministrativa; erano giudici di prima istanza nei villaggi capoluoghi e di
appello nei restanti villaggi della provincia; in qualità di intendenti
provinciali esercitavano la sorveglianza in materia d’imposte e di
composizione dei Consigli comunitativi; vigilavano sulla pubblica sicurezza,
sugli uffici patrimoniali, sulla produzione agricola[180].
La questione feudale era vista soltanto dal punto di vista tributario: si
mirava infatti a colpire gli abusi senza peraltro intaccare il sistema
giudiziario baronale. Ancora nel 1818 Balbo non vedeva
l’«urgenza» dell’abolizione della giurisdizione feudale:
«Né penso – scriveva – si debba togliere ai baroni
senza fare ad un tempo nel sistema dei tribunali qualche notabile
miglioramento, e tale non parmi il togliere ai baroni la nomina dei giudici
inferiori solo per darla alla Corona che non ha sicurezza di scelte migliori.
Che se in questa parte si vuol fare una buona e salutare operazione –
concludeva Balbo – non si troverà grande ostacolo; poiché
in Sardegna la giurisdizione dei baroni è loro di molto gravosa per le
spese dei carcerati»[181].
Il numero dei delitti
che si commettevano nelle campagne restava elevato: ad esempio, nei decenni
1800-1809 e 1810-1819 la media annua degli omicidi era rispettivamente di 107 e
135 unità[182]. Nel 1816 Jean
François Mimaut, console francese a Cagliari, in un’acuta e
dettagliata relazione sulle condizioni dell’isola, riscontrava i numerosi
«abus dans l’administration de la justice criminelle», dovuti
ad un «code pénal très compliqué»: «la
lenteur de la procédure et la multiplicité même des crimes
– afferma Mimaut – en rendent la punition irrégulière
et difficile. Il faut ajouter que les moyens de parvenir
à la conviction des prévenus sont toujours imparfaits. Les
dépositions des témoins dans un pays, où les vengeances de
famille se perpétuent, sont trop dangereuses pour n’être pas
inexactes ou fausses, les malfaiteurs sont bien connus, les assassins bien
constatés; mais la prudence ou la fausseté rendent presque
toujours insuffisante ou nulle l’audition testimoniale»[183].
Nel primo decennio del
secolo si fa più pressante la necessità di «esaminare le troppo voluminose e
per conseguenza confuse leggi di questo nostro Regno e contemplarle nella
maniera più semplice e chiara»[184]. A questo fine
nel 1806 veniva nominata una commissione, presieduta da Cristoforo Pau,
incaricata di realizzare una raccolta finalizzata all’obiettivo di
«divenirsi ad una perfetta e generale legislazione»: il materiale
di base sarebbe stato costituito dalle «leggi attuali sparse in diversi
volumi e luoghi (Carta de Logu, Capitoli di Corte, Regie prammatiche, Regi
Editti, Pregoni viceregi muniti dell’approvazione della Reale Udienza a
sale riunite, Carte Reali e Regi Viglietti vertenti su cose molto
sostanziali)»[185]. La commissione
intendeva infatti elaborare una raccolta sistematica delle disposizioni vigenti
con valore di legge, per tutti i rami del diritto (diritto sostanziale e
diritto procedurale): insomma, una “compilazione” ancora una volta
ispirata al collaudato modello delle Leggi e Costituzioni piemontesi. I
lavori non andarono in porto, probabilmente, per l’affievolirsi della
spinta governativa. Il progetto, come ha osservato Birocchi, rimane comunque la
prima, significativa testimonianza dell’«esigenza del
consolidamento del ius patrium, ormai assunta in prima persona dalla
monarchia». Il ius municipale, che per tutto il XVIII secolo era
considerato espressione di «una tradizione autonomistica» per certi
aspetti contrastante con l’assolutismo sabaudo e che si sostanziava di
norme risalenti al Medioevo giudicale, come
Tuttavia, il contributo
più significativo al processo di consolidazione del diritto patrio del
Regno, pur limitato alla materia criminale, venne non tanto dagli ambienti
governativi quanto da un’iniziativa individuale. Nel 1817 apparve a
Genova l’opera Dei delitti, delle pene e della processura criminale
di Domenico Fois che, sebbene iniziativa di un privato, fu apprezzata dal
governo tanto da ottenere la dedica al re Carlo Felice e l’autorizzazione
alla pubblicazione. L’opera, come spiega l’autore nella prefazione,
era rivolta soprattutto alla pratica e non entrava in merito ai problemi
teorici dibattuti dai criminalisti del primo Ottocento. L’obiettivo di
Fois era infatti quello di «raccogliere, distribuire, ordinare, in
qualche modo fissare i principj elementari della giurisprudenza
criminale» e di «soggiungere di tratto in tratto le disposizioni
delle leggi vigenti del Regno di Sardegna mia patria; qual cosa credo –
spiegava – potrà giovare singolarmente a quelli tra’
concittadini che sono chiamati a trattare i criminali negozj»[187].
Il trattato era ampiamente debitore alle opere della tradizione
giusnaturalistica, mostrava di tenere nel debito conto gli studi penalisti
degli autori italiani tardosettecenteschi (Filangieri, Risi, Renazzi, De
Simoni, Cremani, etc.) e, naturalmente, di Beccaria. L’opera di Fois
costituisce un riuscito tentativo di classificazione e di reinterpretazione
delle «leggi patrie» e, insieme, una summa del diritto
criminale sardo disperso in varie fonti, dalla Carta de Logu agli editti
sabaudi, ordinata secondo princìpi razionali[188].
Questa «singolare consolidazione dottrinale» classificava non
soltanto i delitti (ad esempio: «quadriglia è il numero di
più di tre persone armate che battono la campagna commettendo ruberie o
altri misfatti)[189], ma criticava
anche la normativa vigente ogniqualvolta la reputava in contrasto con le
«massime» della ragione: ad esempio, la «legge patria»
che permetteva l’«uccisione dei banditi esposti alla pubblica
vendetta» o quella, «molto pericolosa», che ammetteva
«i testimonj inabili eccedendo il numero di due» per la
«prova legale del furto di bestiame»[190].
Ma è soprattutto
sull’«antichissima nostra istituzione» dell’incarica
che si concentravano le critiche di Fois, che osservava come il «Comune o
gli abitatori delle capanne» fossero «grandemente interessati ad
evitar la incarica», mentre gli «agenti delle curie»
baronali lo fossero «egualmente per mantenerla»: dimostrava inoltre
l’inefficacia della responsabilità collettiva come strumento
repressivo, sostenendo che l’istituto non aveva più «quel
grado di bontà relativa» che possedeva «all’epoca in
cui fu dalle leggi stabilita» ed evidenziando, spesso con malcelata
ironia, tutte le deficienze procedurali, le contraddizioni nella
quantificazione delle multe e le difficoltà di riscuoterle[191].
Le osservazioni sull’incarica attirarono le severe critiche del
Supremo Consiglio di Sardegna che, nel parere del 10 aprile 1817, ergendosi a
difensore della tradizione, accusava Fois di aver commesso un grosso
«sbaglio» nel considerare l’istituto come derivato
dall’obbligazione di garanzia che il potere civile doveva ai privati
«in forza del patto sociale»[192]. Soltanto con
la consulta del 13 maggio il Supremo Consiglio approvò la pubblicazione
dell’opera, a condizione che ne venissero tolte tutte le
«osservazioni» che riguardavano l’«interpretazione
o la censura delle patrie leggi» (seguiva un dettagliato elenco di
modifiche da apportare) e di porre in evidenza che l’«autore»
aveva voluto esprimere «le sue proprie opinioni senza alcuna intenzione
d’istruire il pubblico e di indurlo ad una pratica diversa da quella fin
qui osservata nel Regno»[193].
Proprio perché
proponeva opinioni private il trattato Dei delitti e delle pene non
poté essere utilizzato come strumento di interpretazione del diritto
criminale vigente. L’opera di Fois anticipava però le riforme
legislative attuate dal governo negli anni successivi, prime fra tutte nel 1821
l’estensione alla Sardegna dell’editto, già emanato per gli
Stati di Terraferma nel 1814, con cui veniva definitivamente abolito
«ogni residuo genere di tortura»[194]. Nel 1823
incominciarono i lavori preparatori della nuova “consolidazione”,
primo tentativo ufficiale di raccogliere e risistemare il ius patrium del
Regno: il 16 agosto venne nominato il magistrato Costantino Musio, membro del
Supremo Consiglio di Sardegna con l’incarico di fare una prima cernita
delle «leggi patrie», valutando quali conservare e quali invece
escludere dalla raccolta.
Sul progetto si
sviluppò nelle alte magistrature piemontesi e sarde un dibattito in cui
si delinearono sostanzialmente due posizioni: da un lato, quella dei giuristi,
che ritenevano necessaria una profonda e radicale revisione delle «leggi
patrie» con una riscrittura e una riformulazione degli istituti civili e
criminali, pur all’interno di una consolidazione ancora legata al diritto
comune (ma, specie per il diritto criminale, essi avevano una buona conoscenza
del code pénal francese); dall’altro, quella dei
magistrati, che si mostravano molto più accondiscendenti nei confronti
del ius patrium e delle consuetudini locali, convinti che alcuni
istituti tradizionali dovessero essere riproposti nella nuova raccolta
legislativa. È emblematico, ad esempio, il caso dell’abolizione
dell’incarica: Musio la conservò nel suo progetto; il
segretario di Stato per gli interni, il conte Gasparo Roget di Cholex, considerando
«dettata questa legge dalle particolari circostanze di tempo e di
luogo» la reputò «meritevole di venir antiquata»; la
commissione del 1824 la considerò ormai anacronistica, non più
rispondente a una regolare amministrazione della giustizia e a un sistema
ordinato di «forza pubblica» nelle campagne, specie dopo
l’istituzione dei carabinieri reali; infine, il Consiglio Supremo ne
propose l’abolizione, che venne recepita nel testo delle Leggi;
nel 1825
Gli articoli delle Leggi
civili e criminali che richiamano esplicitamente i capitoli della Carta
de Logu sono in definitiva assai pochi: riguardano, oltre il termine di
usucapione delle cose mobili, le pene per i reati di lesa maestà, di
omicidio volontario, di ferite e percosse, di distruzione delle recinzioni
o dei segnali di confine, di espianto e taglio doloso di alberi, di
devastazione dei vigneti e degli orti recintati, di introduzione del bestiame
manso o rude dentro le vigne ed «altri predij chiusi» e di cavalle
nei «prati» dove «sono cavalli domiti», di uccisione
del bestiame nei casi non consentiti dalla legge[197].
Altri istituti consuetudinari, anch’essi contemplati dallo statuto
arborense, come la comunione dei beni fra coniugi, i contratti di soccida, la
repressione dell’abigeato e degli incendi dolosi, la disciplina dei
«segni» e dei «marchi» del bestiame, il furto di
alveari, le tenture e le machizie, vengono recepiti dalla
consolidazione feliciana attraverso le prammatiche, i capitoli di corte, i
pregoni viceregi del periodo spagnolo e sabaudo.
Nel proemio di Carlo
Felice alla raccolta (redatto in realtà da Manno, magistrato del Supremo
Consiglio) si affermava che la «citazione delle antiche Leggi del
Regno», riportata «al margine» al «solo fine di
conservare» la loro memoria, non permetteva «a veruno di poter
allegare alcuna diversità o cambiamento di giurisprudenza fra le une e
le altre disposizioni», specificando che non dovevano «in altro
modo intendersi» se non «nella forma e nel tenore» in cui
erano riferite, incorporate, «spiegate nelle presenti Leggi». Si
riteneva opportuna l’osservanza di «quelle fra le antiche
leggi» che non si era potuto comprendere nella «compilazione»
ma che vi erano ricordate «espressamente» in «alcuni articoli
della medesima», con la «dichiarazione di una continuata
osservanza». Nei casi non previsti dalla raccolta feliciana si continuava
a derogare alla «Romana giurisprudenza» applicata al diritto
patrio, che era stata «sempre in vigore in mancanza delle Leggi del
Regno»[198].
Il cosiddetto
«Codice feliciano» è un’opera necessariamente
contraddittoria: come ha osservato Grossi, «è una consolidazione
fuori del suo naturale alveo storico; è una consolidazione in epoca di
codificazione». Promulgata vent’anni dopo la pubblicazione dei
codici napoleonici e soltanto dieci anni prima del codice albertino, la
raccolta feliciana intendeva «solo compiutamente consolidare il diritto
sardo»[199].
Un’opera, quindi, che si riallacciava agli schemi e all’impianto
delle consolidazioni settecentesche, che non conteneva una normativa
esauriente, derogando ancora una volta al diritto comune, e si mostrava
reticente sui problemi della giustizia e degli ordinamenti feudali ed evasiva
nei confronti dei nuovi provvedimenti a favore delle chiusure dei terreni.
Innovazioni vi sono in alcune materie civili, come ad esempio nell’ambito
delle successioni o nell’abolizione di fedecommessi e primogeniture.
L’attenzione prevalente delle Leggi era però rivolta alla
materia penale, che presentava indubbiamente importanti elementi di
novità come l’abolizione del sistema inquisitorio segreto e delle
prove privilegiate, la restrizione dei poteri discrezionali del giudice, la
conferma dell’abolizione della tortura, della fustigazione e dei marchi
d’infamia. Ma vi si sancivano anche alcune pene eccessive, come quella
della galera perpetua per i recidivi nel delitto di abigeato o quella di dieci
anni di galera a chi avesse baciato in pubblico una giovane anche consenziente
al fine di sposarla. In più, sopravvivevano inoltre alcuni privilegi
nobiliari come l’esenzione dalla giurisdizione dei tribunali ordinari e
dalla pena della galera e la forma speciale di citazione nelle cause civili[200].
Non a torto Manno ha sostenuto che la consolidazione feliciana rappresentava un
«passo grandissimo» in avanti nella «via legislativa»
di semplificazione e di razionalizzazione della normativa del Regno[201].
Si trattava di un’opera che guardava soprattutto indietro, volta al
recupero dell’antico diritto patrio sardo: secondo Mondolfo, invece
rappresentava una «specie di transizione fra la tradizione e lo spirito
nuovo»[202].
Col «Codice
feliciano» i capitoli della Carta de Logu, inglobati nel nuovo
testo insieme al resto delle «leggi patrie», vennero relegati tra
le fonti storiche. «Cessò il bisogno di punire il furto con la
pena di morte e il Legislatore l’abolì» – scriveva nel
1828 il «Giornale di Cagliari» –. La pena d’incarica,
il benefizio d’impunità eran la prova della debolezza dei governi
e l’ultimo specialmente per seminare la diffidenza tra le bande dei facinorosi
offendeva la moralità con dar fomite ai tradimenti e spesso la giustizia
con favorire più del reo debole il reo potente. Ambi furon tolti.
[…]. Proscritta fu la fustigazione, che non più si ha bisogno di
mezzi così violenti per inspirare l’orrore dell’infamia:
l’abbandono dei rei alla vendetta pubblica abolito, che in mano dei
privati non mai dee riporsi la spada ultrice della giustizia»[203].
Così, dopo oltre quattro secoli
* Questo lavoro si
ricollega – anzi, ne è una vera e propria prosecuzione – al
saggio La Carta de Logu tra diritto comune e diritto patrio (XV-XVII
secolo), in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del
diritto medievale e moderno, a cura di I. Birocchi e A. Mattone, Roma-Bari,
Laterza, 2004, 406-478. È stato realizzato col contributo del Miur,
fondi Prin (ex 40%). Un ringraziamento particolare a Italo Birocchi e a Manlio
Brigaglia che hanno letto il testo e sono stati prodighi di consigli e
suggerimenti. Numerose informazioni mi sono state fornite da Alessandra
Argiolas, Mario Da Passano, Carla Ferrante, Tiziana Olivari e Piero Sanna che
ringrazio.
[1] F. Venturi, Giuseppe Cossu, in Illuministi italiani,
vol. VII, Riformatori delle antiche Repubbliche, dei Ducati, dello Stato
Pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan, F. Venturi,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, 849-851. Cfr. anche A. Mattone, Franco
Venturi e la Sardegna. Dall’insegnamento cagliaritano agli studi sul
riformismo settecentesco, in Archivio sardo del movimento operaio
contadino e autonomistico, n. 47-49, 1996, 303-355, in particolare 335-347.
[2] Cfr. F. de Vico, Leyes y pragmaticas reales del Reyno de
Sardeña, Napoles, Imprenta real, 1640 (durante il governo sabaudo
ristampate Sasser, Emprenta de Joseph Piattoli, 1780); J. Dexart, Capitula
sive acta curiarum Regni Sardiniae, Calari, typis Antonii Galcerin apud
Bartholomeum Gobettum, 1645 (ristampa Calari, ex typographia Petri Borro per
Gaspar Nicolaus Garimberti, 1725); Pregon general mandado publicar por el
Excelentisimo Señor Don Fernando de Moncada Aragón, La Cerda y
Caetano, duque de San Juan, Caller, en la emprenta de Santo Domingo por
fray Juan Bautista Canavera, 1700, ristampato con traduzione italiana a fronte,
Cagliari, Reale Stamperia, 1780. Per la Carta de Logu cfr.
l’edizione anastatica dell’incunabolo (1480 circa), a cura di A.
Scanu, Cagliari, Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato della Pubblica
Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport, 1991. Nei
tribunali settecenteschi era adoperata l’edizione glossata da H. Olives, Commentaria
et glosa in Cartam de Logu, Madriti, in aedibus Alfonsi Gomezij et Petri
Cossin Typographorum, 1567, fra le ristampe cfr. quella Calari, ex typographia
Nobilis D.D. Petri Borro per Gaspar Nicolaus Garimberti, 1725. Utile risulta la
consultazione di F.C. Casula, La “Carta de Logu” del Regno di
Arborea. Traduzione libera e commento storico, Sassari, Carlo Delfino
editore, 1995. Cfr. a questo proposito F. Loddo Canepa, Le pubblicazioni
ufficiali del Regno di Sardegna, in Mediterranea, V, 1931, n. 8-10,
3-6; T. Olivari, Le edizioni a stampa della Carta de Logu (XV-XIX
secolo), in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del
diritto cit., 165-191.
[3] Cfr. G. Ricuperati, Le avventure di uno Stato «ben
amministrato». Rappresentazioni e realtà nello spazio sabaudo tra
Ancien Régime e Rivoluzione, Torino, Tirrenia Stampatori, 1994,
7-17; G. Symcox, La trasformazione dello Stato e il riflesso nella capitale,
in Storia di Torino, vol. IV, La città fra crisi e ripresa
(1630-1730), a cura di G. Ricuperati, Torino, Einaudi, 2002, 719-841.
[4] Il termine «consolidazione», che qui adoperiamo per
comodità, utilizzato da M.E. Viora, Consolidazioni e codificazioni.
Contributo allo studio della codificazione, Torino, Giappichelli, 1967,
11-25, è stato oggetto di motivate riserve da parte di U. Petronio, Una
categoria storiografica da rivedere, in Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico moderno, XIII, 1984, 705-717, sostanzialmente
riprese in Id., La lotta per la codificazione, Torino, Giappichelli,
2002, 92-102. Il punto sul dibattito viene ora fatto da I. Birocchi, Alla
ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età
moderna, Torino, Giappichelli, 2002, 539-549.
[5] Cfr. F. Loddo Canepa, Giudizi di alcuni viceré sabaudi
sulla Sardegna e i suoi problemi attraverso i carteggi ufficiali del Settecento,
in Annali della Facoltà di Lettere dell’Università di
Cagliari, XIX, 1952, parte 1, 1-18 dell’estratto.
[6] Il testo del giuramento è in S. Lippi, Re e principi
della dinastia sabauda in Sardegna, Cagliari, Valdès, 1899, 23-32.
Cfr. per un quadro generale A. Mattone, La cessione del Regno di Sardegna
dal trattato di Utrecht alla presa di possesso sabauda (1713-1720), in Rivista
storica italiana, CIV, 1992, n. 1, 5-89; A. Girgenti, Vittorio Amedeo II
e la cessione della Sardegna: trattative diplomatiche e scelte politiche,
in Studi Storici, XXXV, 1994, 677-704; E. Mongiano, “Universae
Europae securitas”. I trattati di cessione della Sardegna a Vittorio
Amedeo II di Savoia, Torino, Giappichelli, 1995.
[7] Dispacci di corte, ministeriali e vice-regi concernenti gli
affari politici, giuridici ed ecclesiastici del Regno di Sardegna (1720-1721),
a cura di F. Loddo Canepa, Roma, Società nazionale per la storia del
Risorgimento, 1934, doc. n. III, 10, 12, 19.
[8] Ivi, doc. n. XXXV, 67.
[9] Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi AST), Corte,
Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 4, n. 2, Veridica
rellazione del Regno di Sardegna e del suo governo, politico ed ecclesiastico
(s.d.). Il diritto di incarica era la responsabilità collettiva
della comunità di villaggio nel pagamento delle multe, come risarcimento
del danno, per i delitti commessi nel proprio territorio per i quali non era
stato accertato il reato e non erano stati arrestati i colpevoli. Così
lo descrive nel 1773 Joseph Fuos, cappellano del reggimento svizzero di stanza
a Cagliari: «Se avviene un delitto il giudice deve immediatamente
denunziarlo al viceré, anche se prima ch’esso proceda ad
un’inchiesta sul medesimo, e fino a che il comune nella cui giurisdizione
è avvenuto il delitto non indica il malfattore, ovvero non lo consegna,
nel caso che esso potesse acchiapparlo, deve risarcire i danni che quello ha
fatto, ovvero pagare duecento scudi per la pena di morte, che egli merita.
Questa è la cosiddetta incarica, che è ammessa nelle leggi
del paese»: J. Fuos, Nachrichten aus Sardinien von der
gegenwärtigen Verfassung dieser Insel, Leipzig, Siegfried Lebrecht
Crusius, 1780, trad. it. di P. Gastaldi Millelire, Notizie dalla Sardegna
(1773-1776), a cura di G. Angioni, Nuoro, Ilisso, 2000, 84. Cfr. inoltre G.
Catani, C. Ferrante, Un antico istituto del diritto criminale sardo:
l’«incarica» (XIV-XIX secolo), in La Carta de Logu
d’Arborea nella storia del diritto cit., 385-405.
[10] Archivio di Stato di Cagliari (d’ora in poi ASC), Atti
governativi, vol. I, (1720-1736), n. 5, Pregone per la
proibizione di ogni genere di arma (Cagliari, 17 settembre 1720), ora in Editti,
pregoni ed altri provvedimenti emanati pel Regno di Sardegna, vol. I,
Cagliari, nella Reale Stamperia di Cagliari, 1775, tit. VIII, ord. I, 192.
[11] Editti, pregoni cit., vol. I, tit. IX, ordinazione unica,
324. Il diritto di machizia (dal sardo makkissa, mancanza, danno)
era la facoltà accordata dalla normativa statutaria trecentesca al
proprietario o al possessore di un fondo di poter macellare – o di
trattenere (tenturare) sino all’accertamento del danno – un
certo numero di capi di bestiame sorpresi a pascolare in un campo coltivato:
cfr. G. Paulis, La machizia nel diritto della Sardegna medioevale e
moderna, in Officina linguistica, I, 1997, n. 1, 89-105.
[12] L. La Rocca, Istruzioni al marchese Falletti di Castagnole
viceré di Sardegna dal 1731 al 1735, in Studi storici e giuridici
dedicati ed offerti a Federico Ciccaglione, vol. III, Catania, Giannotta
editore, 1910, 111-112. In generale sull’età di Vittorio Amedeo II
cfr. G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del
Settecento, vol. I e II, Modena, Società tipografica editrice
modenese, 1957; G. Symcox, Vittorio Amedeo II. L’assolutismo sabaudo
1675-1730, Torino, Società editrice internazionale, 1985 (I ediz.
London, Thames & Hudson, 1983); G. Astuti, Legislazione e riforme in
Piemonte nei secoli XVI-XVIII, in La monarchia piemontese nei secoli
XVI-XVIII, Roma, Famija piemonteisa, 1951, 97-111; Id., Gli ordinamenti
giuridici degli Stati sabaudi, ora in Tradizione romanistica e
civiltà giuridica europea, a cura di G. Diurni, vol. II, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1984, 656-665; G. Ricuperati, Gli strumenti
dell’assolutismo sabaudo: Segreterie di Stato e Consiglio delle Finanze
nel XVIII secolo, in Le avventure di uno Stato «ben
amministrato» cit., 57-75; Id., Lo Stato sabaudo e la storia da
Emanuele Filiberto a Vittorio Amedeo II. Bilancio di studi e prospettive di
ricerca, e F. Venturi, Problemi del Settecento piemontese, entrambi
in Studi Piemontesi, 1980, rispettivamente, 20-41, 42-47. Un ancora
penetrante saggio sull’età di Vittorio Amedeo II è quello
di F. Venturi, Saggi sull’Europa illuminista, I, Alberto
Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, 1954, 63-126. Sugli aspetti
istituzionali cfr. anche M.E. Viora, Le Costituzioni Piemontesi (Leggi e
costituzioni di S.M. il re di Sardegna) 1723-1729-1770, Milano-Torino-Roma,
Fratelli Bocca editori, 1928; I. Soffietti, Le fonti del diritto nella
legislazione del Regno di Sardegna nel XVIII secolo, in Rivista di
storia del diritto italiano, LX, 1987, 255-265; G.S. Pene Vidari, Giudici
e processo nelle raccolte legislative sabaude settecentesche, in Costituzioni
sabaude (1723), Milano, Giuffrè, 2002, VII-XL.
[13] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 2, mazzo 4, n. 11, Relazione del marchese di Cortanze
dell’occorso pendente il suo governo nel Regno di Sardegna (Torino,
31 dicembre 1731).
[14] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 2, mazzo 4, n. 10, Relazione del conte Beraudo di Pralormo sovra lo
stato di quel Regno (Cagliari, 30 aprile-3 maggio 1731). Una biografia del
magistrato è in Il silenzio e il servizio. Le «Epoche principali
della vita» di Vincenzo Sebastiano Beraudo di Pralormo, saggio
introduttivo a cura di A. Merlotti, Torino, Silvio Zamorani editore, 2003,
35-39: si tratta dell’autobiografia del figlio del reggente. Della sua
permanenza a Cagliari Filippo Domenico ha lasciato un lungo e minuzioso Diario
di Sardegna di quasi 2900 pagine manoscritte. Un primo studio è la
tesi di laurea di E. Mura, La Sardegna nelle note cagliaritane di un alto
funzionario sabaudo: i diari inediti di Filippo Domenico Beraudo di Pralormo
(1730-1734), Università di Sassari, Facoltà di Scienze
Politiche, rel. P. Sanna, a.a. 1999-2000.
[15] ASC, Atti governativi, vol. I (1720-1736), n. 19,
Pregone sulla proibizione delle armi da fuoco del 6 marzo 1724, anche in Editti,
pregoni cit., vol. I, tit. VII, ord. III, 194-203, in cui si richiama
quanto «prescritto dalla Reale prammatica e dai capitoli della Carta
de Logu»; Ivi, vol. I, tit. VII, ord. V, 204-214, Pregone del 20
maggio 1726 sulla «proibizione del porto d’arme, la persecuzione e
punizione de’ delinquenti e la verificazione de’ delitti», in
cui il cap. XXVIII ripropone la pena dell’incarica; Atti
governativi, vol. I, (1720-1736), n. 47, Pregone del 2 dicembre 1728
sulle quadrillas; n. 48, Pregone del 18 dicembre 1728 per
l’«estirpazione delle fazioni e parzialità nelle ville del
Regno», anche in Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VII, ord.
VIII, 217-220; n. 49, Pregone contro i malviventi del 17 febbraio 1729; n. 51,
Pregone sulla criminalità del 17 marzo 1729; n. 61, Pregone
sull’ordine pubblico del 21 ottobre 1730 (manoscritto); Pregone del 6
maggio 1730 sulla proibizione delle armi da fuoco, in Editti, pregoni
cit., vol. I, tit. VII, ord. X, 221-225; n. 63, Pregone sulle curie reali e
baronali del 16 aprile 1731; n. 65, Pregone sulla proibizione delle armi del 28
maggio 1731; n. 71, Pregon general sobre la prohibición de las armas,
dell’11 gennaio 1732, con numerose notizie sulle aree di diffusione della
criminalità, in Editti, pregoni, vol. I, tit. VII, ord. XI,
225-236; n. 72, Pregone sugli omicidi e sulle quadrillas del 5 febbraio
1733; Pregone del 7 maggio 1733 sulle «provvidenze per estirpare le
parzialità insorte tra le ville di S. Lussurgiu e Pauli Latino»,
in Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VII, ord. XII, 237-238. Cfr. a
questo proposito la tesi di L. Delogu, Criminalità e delinquenza
nella Sardegna sabauda attraverso la corrispondenza viceregia e i documenti
della Segreteria di Stato e di Guerra di Cagliari (1700-1738),
Università di Sassari, Facoltà di Giurisprudenza, Corso di laurea
in Scienze Politiche, rel. A. Mattone, a.a. 1990-91.
[16] Sull’esperienza complessiva del viceregno del marchese di
Rivarolo cfr. A. Mattone, Istituzioni e riforme nella Sardegna del
Settecento, in Dal trono all’albero della libertà.
Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di
Sardegna dall’Antico Regime all’età rivoluzionaria, vol.
I, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Ufficio centrale per i
beni archivistici, 1991, 364-377. Cfr. inoltre A. Pino Branca, La vita economica
della Sardegna sabauda (1720-1773), pref. di G. Prato, Messina, Casa
editrice Giuseppe Principato, 1926, 140 sgg.; F. Loddo Canepa, La Sardegna
dal 1478 al 1793, vol. II, Gli anni 1720-1793, a cura di G. Olla
Repetto, Sassari, Gallizzi, 1975, 189-211; C. Sole, La Sardegna sabauda nel
Settecento, Sassari, Chiarella, 1984, 69-83; A. Girgenti, La storia
politica nell’età delle riforme, in Storia dei Sardi e
della Sardegna, a cura di M. Guidetti, vol. IV, L’età
contemporanea dal governo piemontese agli anni sessanta del nostro secolo,
Milano, Jaca Book, 1989, 58-65.
[17] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 4, c.
65.
[18] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 4, mazzo 1, n. 31, Minuta d’istruzione al marchese di Rivarolo
nominato viceré della Sardegna tendente al bon governo di quel Regno
(s.d.).
[19] ASC, Atti governativi, vol. I, (1720-1736), n. 83, Pregone
di Sua Eccellenza il viceré marchese di Rivarolo che manda osservarsi il
Formolario per la costruzione de’ processi delle cause criminali,
anche in Editti pregoni cit., vol. I, tit. VI, ord. II, 153-155.
[20] Cfr. P. Tola, Dizionario degli uomini illustri di
Sardegna, vol. I, Torino, Chirio e Mina, 1837, 154-156; ASC, Segreteria
di Stato e di Guerra, serie II, vol. 710, Riflessi del giudice Cadello
sovra un pregone progettato per l’arresto dei malviventi (Cagliari,
14 ottobre 1738), da cui emerge che l’orizzonte giudiziario del
magistrato cagliaritano era strettamente legato alla cultura curiale
dell’età spagnola e al reiterato rispetto delle leggi del Regno.
[21] Formulario para la
construción de processos criminales por el que se deven arreglar las
curias en virtud del Pregon del Excelentissimo Señor Virrey
marqués de Rivarol de los doze de mayo MDCCXXXVI, Caller, en la Imprenta de los herederos de Honofrio Martin, 1736. Fra gli autori figurano Giulio Claro, Prospero Farinacci, Miguel de
Cortiada, Orazio Greco e il suo trattato medico-legale, Miquel de
Calderò, Joan Pere Fontanella, Giovanni Luigi Riccio, Garcia Mastrillo,
Jaime Cancer, Lluis de Peguera, Francisco Salgado, Tommaso Agnello, Nicola
Vincenzo Scoppa, Marco Antonio Sabelli, Sigismondo Scaccia, Antonio Concioli e
Giovanni Domenico Rinaldi, oltre naturalmente i giuristi locali, Girolamo
Olives, Francesco Vico, Pietro Quesada Pilo. Rispetto ai magistrati sardi del
Seicento, assai informati sulla dottrina del tempo, la cultura giuridica di
Cadello, legata soprattutto alla letteratura decisionistica e ai trattati dei
pratici del XVI-XVII secolo, appare nel complesso arretrata. L’unico, indiretto
riferimento a un’opera contemporanea riguarda le Leggi e costituzioni
di Sua Maestà, edite a Torino nel 1729.
[22] Cfr. G. Manno, Storia di Sardegna, vol. IV, Torino, Alliana
e Paravia, 1826, 173; Mattone, Istituzioni e riforme cit., 370.
[23] I provvedimenti presi durante la visita sono in ASC, Atti
governativi, vol. II, (1737-1745), nn. 91-103, alcuni anche in Editti,
pregoni cit., vol. I, tit. V, ord. II, 127-128, ord. III, 128-129, ord. IV, 129-130; tit. VII, ord.
XIII-XVII, 238-244; vol. II, tit. XIII, ord. II, 59; tit. XIV, ord. I-II,
95-97; tit. XVIII, ord. III-IV, 307-315. Cfr. inoltre AST, Corte,
Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 5, n. 12, Relazione
dello stato del Regno di Sardegna e delle provvidenze date per il buon governo
del medesimo in occasione della visita fattane dal viceré marchese di
Rivarolo (Cagliari, 10 giugno 1737).
[24] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 2, mazzo 5, Relazione del marchese di Rivarolo del suo governo nel
Regno di Sardegna (22 novembre 1738).
[25] Editti, pregoni cit., vol. I, tit. XI, ord. III, 342-358.
Un altro pregone emanato da Rivarolo il 30 agosto 1738 prescriveva che i
contratti dovevano essere sottoscritti dal notaio e dalle parti (vol. I, tit.
XI, ord. IV, 359-360). Cfr. P. Canepa, Il notariato in Sardegna, in Studi
Sardi, II, 1936, n. 2, 52-72.
[26] Manno, Storia di Sardegna cit., vol. IV, 173. Cfr. anche la
tesi di M. Manai, Criminalità e delinquenza nella Sardegna sabauda
attraverso la corrispondenza viceregia e i documenti della Segreteria di Stato
e di Guerra di Cagliari (1737-1759), Università di Sassari,
Facoltà di Giurisprudenza, Corso di laurea in Scienze politiche, rel. A.
Mattone, a.a. 1991-92.
[27] Cfr. C. Sole, Il problema del contrabbando tra la Sardegna e la
Corsica: aspetti economici e implicazioni politico-diplomatiche, in Politica,
economia e società in Sardegna nell’età moderna,
Cagliari, Fossataro, 1978, 93-122; A. Asole, Le operazioni di contrabbando
nella Gallura del secolo XVIII, in Quaderni bolotanesi, XVI, 1990,
367-376; G. Murgia, Il contrabbando tra la Sardegna e la Corsica nel XVIII
secolo, in Etudes Corses, XVI, 1988, n. 30-31, 237-251; S. Pira,
La Gallura nel Settecento: una repubblica montanara tra contrabbando
e banditismo, in Studi e ricerche in onore di Girolamo Sotgiu, vol.
II, Cagliari, Cuec, 1994, 91-105; A. Argiolas, A. Mattone, Ordinamenti
portuali e territorio costiero di una comunità della Sardegna moderna.
Terranova (Olbia) in Gallura nei secoli XV-XVIII, in Da Olbìa ad
Olbia 2500 anni di storia di una città mediterranea, a cura di G.
Meloni e P.F. Simbula, vol. II, Sassari, Chiarella, 1996, 146-155, sulla
normativa settecentesca contro il contrabbando.
[28] Cfr. M.A. Benedetto, Nota sulla mancata convocazione del
Parlamento sardo nel secolo XVIII, in Liber memorialis Antonio Era,
Bruxelles, Editions Corten, 1963, 115-168.
[29] Nella primavera del 1770, nel corso della visita generale del
Regno, il viceré Vittorio Ludovico Hallot Des Hayes poteva consultare e
«prendere cognizione» nel palazzo municipale di Sassari del Libro
de’ privilegi. Incuriosito, domandò al segretario civico se
essi venissero applicati «in forma specifica, come si erano
concessi» dai re d’Aragona, o se nel corso del tempo «ne
fosse alterata l’osservanza». Da un’attenta ricognizione
poté verificare che il «privilegio del promenato»,
cioè l’antico juhi de prohomens di modello barcellonese,
non si osservava più nella «forma» originaria, mentre la
«facoltà ai probi uomini, o consiglieri di giudicare le cause
criminali de’ loro concittadini», insieme al «giudice
ordinario» veniva esercitata secondo il diritto accordato da Alfonso V il
6 aprile 1440: F. Loddo Canepa, Relazione della visita del viceré Des
Hayes al Regno di Sardegna, in Archivio Storico Sardo, XXV, 1958, n.
3-4, 264-265; cfr. anche C. Ferrante, A. Mattone, I privilegi e le
istituzioni municipali del Regno di Sardegna nell’età di Alfonso
il Magnanimo, in XVI Congresso di storia della Corona d’Aragona.
La Corona d’Aragona ai tempi di Alfonso il Magnanimo. Atti, vol. I, a
cura di G. D’Agostino e G. Buffardi, Napoli, Paparo edizioni, 2000,
277-278.
[30] Su questa fase cfr. Mattone, Istituzioni e riforme cit.,
375-380.
[31] «Non ostante tutte le provvidenze fin’ora date
[…], le spedizioni militari […] e li vari nuovi appostamenti di
truppe», i banditi continuano a commettere «scandalosi delitti
[…], furti, omicidi ed insulti nelle pubbliche strade senza che nemmeno
le facciano veruna impressione, i castighi, i supplici e le pubbliche
esemplarità co’ quali moltissimi de’ rei capitati nelle
forze della giustizia sono stati sacrificati alla pubblica vendetta». I
magistrati del tribunale supremo denunciano «in primo luogo le sempre
più calamitose circostanze […] poiché non ha hormai più
né passo, né strada sicura per la libertà del commercio
interno per essere troppo frequenti i latrocinii […]. Moltiplicansi gli
abigeati ed altri furti nelle campagne […]. Ritrovansi gli abitanti nella
dura necessità di non potersi assicurare il seminerio de’ loro
terreni, la pastura delle greggi e la raccolta de’ loro frutti se prima
non convengono co’ banditi del contributo che le dovrà dare
de’ medesimi […]. Derivane da ciò la troppo scandalosa
necessità d’una quasi universale connivenza nel Regno coi
perturbatori della pubblica tranquillità»: L. Rogier, La
Sardegna e il banditismo nel 1747 in una relazione della Reale Udienza, in La
Sardegna nel Risorgimento, a cura del Comitato sardo per le celebrazioni
del centenario dell’Unità, Sassari, Gallizzi, 1962, 51-52.
[32] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 5 e 6, mazzo 1 da inv., Parere della Reale Udienza sovra il nuovo
progetto dell’incariche (1747). Si tratta dei pareri preliminari
all’emanazione del pregone «con cui si prescrivono diverse
disposizioni riguardanti le incariche» promulgato il 28 maggio 1748 dal
viceré marchese di Santa Giulia, ora in Editti, pregoni cit.,
vol. I, tit. VIII, ord. I, 319-320, nel quale viene sostanzialmente riproposta
senza grandi modifiche la normativa prammaticale.
[33] Per un profilo biografico del ministro cfr. G. Quazza, Bogino Giovanni Battista
Lorenzo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XI, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1969, 183-189; G. Ricuperati, Lo
Stato sabaudo nel Settecento. Dal trionfo delle burocrazie alla crisi
d’Antico Regime, Torino, Utet, 2001, 89-94.
[34] F. Loddo Canepa, Due complessi normativi regi inediti sul
governo della Sardegna (1686 e 1755), in Annali della Facoltà di
Lettere Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari,
XXI, 1953, parte 1, 272-297, 312-363; cfr. anche Mattone, Istituzioni e
riforme cit., 382-384; I. Birocchi, Il Regnum Sardiniae dalla
cessione dell’isola ai Savoia alla «fusione perfetta», in
Storia dei Sardi cit., vol. IV, 178-180.
[35] Biblioteca Reale di Torino (d’ora in poi BRT), Storia Patria,
ms. 858, Relazione di varj progetti sovra diverse materie che riflettono la
Sardegna, cc. 307-308; il testo è stato parzialmente ripubblicato in
Il riformismo settecentesco in Sardegna, a cura di L. Bulferetti,
Cagliari, Fossataro, 1966, 127 sgg.; un’altra copia del memoriale
è conservata in BUC, Fondo Orrù, ms. 73, Relazione
ufficiale delle principali cose amministrative della Sardegna sino al 1790;
cfr. a questo proposito A. Girgenti, Memorie di funzionari nel periodo del riformismo
boginiano in Sardegna, in La memoria, i lumi, la storia, Roma,
Società italiana di studi sul secolo XVIII, 1987, 51-54; Ead., La
storia politica cit., 68-70; Mattone, Istituzioni e riforme cit.,
385-387.
[36] Relazione di varj progetti cit., cc. 316-332. Cfr. anche V.
Castronovo, Bricherasio, Giovanni Battista Cacherano di, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. XIV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1972, 227-229.
[37] Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VII, ord. XXV, 283-306.
L’editto è frutto di numerose riunioni di giunta: ASC, Segreteria
di Stato e di Guerra, serie II, vol. 1739, Risultato de’ congressi
per la pronta amministrazione della giustizia (Cagliari, 19 ottobre 1758).
Da essi si evince che la sovrapposizione di leggi, bandi, statuti incideva
negativamente sulla repressione del crimine, giacché le pene, spesso
assai severe, erano frequentemente eluse. Nel regio biglietto che accompagnava
l’editto del 13 marzo 1759 Carlo Emanuele III poneva all’attenzione
del viceré conte Tana il problema della cattiva applicazione della
normativa penale, ricordandogli che proprio nell’osservanza risiedeva
l’«anima delle leggi»: ASC, Reale Udienza, classe IV,
busta 67/4, c. 62.
[38] Cfr. M. Da Passano, Riformismo
senza riforme: i Savoia e il diritto penale sardo nel Settecento, in Studi
in memoria di Giovanni Tarello, vol. I, Saggi storici, Milano,
Giuffrè, 1990, 219-223, cui si deve anche una penetrante analisi
dell’editto; Id.; Il diritto penale sardo nel XVIII secolo, in Archivio
sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, n. 29-31, 1990,
202-214.
[39] Cfr. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, 1,
Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, Il Mulino, 1976, 383
sgg.; A. Cavanna, La codificazione in Italia. Le origini lombarde,
Milano, Giuffrè, 1987, 317 sgg.; Birocchi, Alla ricerca
dell’ordine cit., 491 sgg.
[40] Cfr. J.M. Carbasse, Introduction
historique au droit pénal, Paris, Puf, 1990, 105-165; A. Laingui, A.
Lebigre, Histoire du droit pénal, vol. I, Le droit
pénal, vol. II, La procédure criminelle, Paris, Cujas,
s.d., 113 sgg., 87 sgg.; e soprattutto J.-P. Royer, Histoire de la justice
en France, Paris, Puf, 1995, 23-84.
[41] BRT, Storia Patria, ms. 302, Relazione della Sardegna regnando
Carlo Emanuele III ed essendo suo ministro per li negozii di quel Regno il
conte Giambattista Bogino cioè dal 1755 al 1773 distesa da Pierantonio
Canova…, c. 18, anche in AST, Corte, Paesi, Sardegna,
Politico, cat. 2, mazzo 4, n. 16.
[42] Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VI, ord. VII, 164-172.
Cfr. anche Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 223-224.
[43] Cfr. Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 223 sgg.;
Id., La criminalità e il banditismo dal Settecento alla prima guerra
mondiale, in La Sardegna («Storia d’Italia. Le regioni
dall’Unità a oggi»), a cura di L. Berlinguer e A. Mattone,
Einaudi, Torino 1998, 423-430; G. Doneddu,
Criminalità e società nella Sardegna del secondo Settecento,
in Criminalità e società in età moderna, a cura di
L. Berlinguer e F. Colao («La Leopoldina», n. 12), Milano,
Giuffrè, 1991, 581-632.
[44] Loddo Canepa, La visita del viceré
Des Hayes cit., 172, 226.
[45] Ivi, 189, 191, 246, 305, 290.
[46] Ivi, 203, 157, 300, 205; cfr. G. Murgia, Progetti di
colonizzazione ed ordine pubblico nella Contea di Oliva negli anni del
riformismo boginiano (1759-1773), in Studi e ricerche in onore di
Giampaolo Pisu, Cagliari, Cuec, 1996, 108-109.
[47] Ivi, 188-189. ASC, Atti governativi, vol. XV, (1822-25),
n. 115, Regio editto portante varj provvedimenti in rapporto agli sponsali
fra impuberi e alla coabitazione fra gli sposi (Cagliari, 10 settembre
1824): stigmatizza l’«abuso di permettere la celebrazione degli
sponsali fra persone di età non matura e quello ancor più grave
di tollerare la coabitazione degli sposi e delle loro future spose con offesa
della pubblica onestà […] e contra gli espressi comandamenti
de’ sagri Canoni, singolarmente delle disposizioni contenute nel Concilio
di Trento». Cfr. a questo proposito R. Di Tucci, Gli sponsali sardi,
in La Regione, I, 1922, n. 2, 13 sgg., e soprattutto M. Da Passano, I
matrimoni clandestini e sconvenienti nella Sardegna del primo Ottocento, in
Scritti di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei, a
cura di M. Ascheri, Padova, Editrice Antenore, 1991, 481-508.
[48] Ivi, 141, 151, 215, 173, 213. Nella villa di San Pantaleo, ad
esempio, i nove designati sono suddivisi in tre categorie «di principali,
la prima; di buoni massaj e pastori la seconda e la terza di poveri»,
«questi eletti assistono i sindaci nel corso del loro anno, e senza il
loro concerto non si risolve da’ sindaci cosa riguardante la
comunità» ( 132). I dati demografici sono tratti da D. Angioni, S.
Loi, G. Puggioni, La popolazione dei comuni sardi dal 1688 al 1991,
Cagliari, Cuec, 1997, 99 sgg., e dal vecchio F. Corridore, Storia
documentata della popolazione di Sardegna (1479-1901), Torino, Clausen,
1902 (rist. anast. Bologna, Forni, 1976), 100 sgg.
[49] Ivi, 175, 177, 214, 223, 308.
[50] Ivi, 160, 186.
[51] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 38, c.
62, dispaccio del 4 settembre 1771.
[52] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 294, c.
175, dispaccio del 17 luglio 1767.
[53] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 296, c.
1 v.
[54] AST, Corte, Paesi, Sardegna, serie K, Ristretto
della relazione generale della visita fatta nel Regno nell’anno 1770…
[55] Loddo Canepa, La visita del viceré cit., 159, 218.
[56] Nel «catalogo» dei banditi pubblicato in appendice al
pregone del 4 agosto 1745 dal viceré marchese di Santa Giulia (ASC, Atti
governativi, vol. II, (1737-45), n. 153) figuravano 268 banditi e
latitanti: segno, da un lato, che nel 1770 la criminalità era
probabilmente aumentata; e dall’altro che il governo viceregio aveva esteso
la sua iniziativa repressiva anche ad altre categorie («discoli»,
«oziosi», etc.) socialmente pericolose.
[57] Ivi, 150.
[58] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 296, c.
29, dispaccio del 5 ottobre 1769. La fustigazione era una pena assai diffusa:
nel 1771, ad esempio, venne emanata un’«esemplare condanna
economica alla pubblica fustigazione» di una povera donna cagliaritana,
rea di aver rubato un pezzo di stoffa da una bottega (vol. 297, c. 117,
dispaccio del viceré Caissotti di Robbione del 27 ottobre 1771).
Nell’agosto 1802 venne pubblicamente fustigato a Sassari il notaio
cagliaritano Francesco Cilocco, condannato all’impiccagione per un
tentativo di insurrezione filofrancese nel nord Sardegna: la
«nobiltà sassarese ha esultato per questa frustazione –
annota nel suo diario il magistrato Giovanni Lavagna –; che la frusta era
di doppia suola intessuta con piombo; che una ciurma di ragazzi prezzolati
andava fischiando e gridando…»: C. Sole, Le “Carte
Lavagna” e l’esilio di Casa Savoia in Sardegna, Milano,
Giuffrè, 1970, 192.
[59] Loddo Canepa, La visita del viceré cit., 268. Sulla
pratica della marchiatura cfr. E. Costa, Sassari, vol. III, Sassari,
Gallizzi, 1992 (I ediz. Sassari, Gallizzi, 1909), 1784-1789. Nel settembre del
1760 la Reale Udienza condannava a morte, previa
«l’esemplarità delle tenaglie infuocate», Anacleto
Sanna reo di aver ucciso premeditatamente sua moglie: ASC, Segreteria di
Stato e di Guerra, serie I, vol. 289, c. 42 v., dispaccio del viceré
conte Tana dell’11 ottobre 1760. Gli esempi in tal senso sono numerosi.
[60] Cfr. F. Loddo Canepa, Gli esecutori di giustizia e le
esecuzioni penali in Sardegna (nomi, usi, aneddottica), in Archivio
Storico Sardo», XXV, 1957, n. 1-2, 513-520.
[61] A. della Marmora, Itinerario dell’isola di Sardegna,
vol. I, a cura di M.G. Longhi, Nuoro, Ilisso, 1997 («Bibliotheca
Sarda», 14), 307. Si trattava di una donna condannata il 10 gennaio 1821
per aver ucciso la moglie del suo amante per poterlo in seguito sposare. La
pena prevedeva che dopo l’esecuzione la testa dovesse essere staccata dal
corpo e inchiodata sullo strumento del supplizio. Nell’autunno del 1772
la sala criminale della Reale Udienza aveva emanato alcune sentenze capitali:
erano stati condannati in contumacia Giuseppe Sale, Gavino Santus e Filippo
Porcu «coll’esemplarità di tagliarsi loro la testa ed
affiggersi al luogo del delitto»: ASC, Segreteria di Stato e di Guerra,
serie I, vol. 297, c. 111 v., dispaccio del viceré Caissotti di Robbione
del 12 dicembre 1772.
[62] Loddo Canepa, La visita del viceré cit., 179, 197,
295, 318, 326.
[63] Ivi, 225, 249, 263-264, 281, 286. «Essendosi osservato
– scrive il viceré – che in buona parte delle curie mancano
delle prammatiche, pregoni ed editti, o parte di essi […], non si
è omesso di lasciare gli ordini opportuni per la provvista…»
( 337).
[64] Ivi, 195, 214, 279.
[65] Cfr. V. Angius, Cronaca del feudalesimo sardo nel secolo XVIII,
in G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli
Stati di S.M. il re di Sardegna, vol. XVIII quater, Torino, Gaetano
Maspero, 1856, 218-222.
[66] I. Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli
Stati di Oliva (1769): il ducato di Monteacuto, in Quaderni bolotanesi,
XI, 1985, 201-202. La relazione è in Archivo de la Nobleza, Toledo, Osuna,
legajo 640, n. 5; cfr. A. Javierre Mur, Cerdeña en el Archivo de la
casa de Osuna, in Archivio Storico Sardo, XXV, 1957, n. 1-2, 201. La
fonte è stata ampiamente utilizzata da J. Day, Per lo studio del
banditismo sardo nei secoli XIV-XVII, in J. Day, Uomini e terre nella
Sardegna coloniale XII-XVIII secolo, Torino, Celid, 1987, 245 sgg.; Mameli
faceva parte, insieme al reggente la Reale Cancelleria Giuseppe Della Valle,
all’avvocato fiscale Zopeno, all’intendente generale Vacha, al
giudice della sala criminale della Reale Udienza dottor Litterio Cugia, della
giunta incaricata di analizzare la questione della giustizia baronale: ASC, Segreteria
di Stato e di Guerra, serie I, vol. 34, c. 127 v., dispaccio del 4 ottobre
1769. Su Mameli (1722-1804) cfr. il profilo biografico di V. Del Piano, Giacobini,
moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812,
Cagliari, Edizioni Castello, 1996, 266.
[67] I. Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli Stati
di Oliva (1769): il Principato di Anglona e la Contea di Osilo e di Coghinas,
in Quaderni bolotanesi, XII, 1986, 299-300.
[68] I. Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli
Stati di Oliva (1769): la parte generale e il Marchesato del Marghine, in Quaderni
bolotanesi, X, 1984, 205.
[69] Ivi, 227.
[70] Ivi, 182-183. Cfr. a questo proposito A. Cadinu, Villaggio e
confine. La lunga durata, in Sardegna, a cura di G. Angioni e A.
Sanna («L’architettura popolare in Italia», dir. E. Guidoni),
Roma-Bari, Laterza, 1988, 27-35.
[71] Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli Stati
di Oliva (1769): il ducato del Monteacuto cit., 204.
[72] Ivi, 204-205. A questo proposito Mameli cita l’«atto
relativo alla elezione del sindaco di Tula, per la quale si sono serviti della
mia persona e della opportunità della convocazione della comunità
per prestare giuramento in occasione della nuova presa di possesso per le
Eccellentissime Signore Duchesse, dopo la riunione con la difficoltà già
esposta, della comunità, il che è stato fatto molto
inopportunamente come suol farsi nel maggior numero dei villaggi, in una piazza
aperta, nella quale chi va e chi viene, né si sa con certezza chi vi
abbia partecipato (poiché il ministro di giustizia che li ha convocati,
non usa la dovuta precauzione di far registrare dall’attuario il nome dei
convenuti senza lasciarli uscire, finché abbiano espresso il loro voto)
ho visto che erano state proposte dal ministro tre persone, le quali erano
state scelte da nove probi homines incaricati dal medesimo senza
intervento della Comunità e scrivendo i loro nomi sopra un brutto pezzo
di carta, ciascuno in una riga separata, fa passare gli individui convocati,
che erano voluti restare e dopo preso il voto, non scriveva il nome, ma faceva
solamente un segno nella riga di una delle persone proposte e dopo che erano
passati tutti contava i segni e rendeva pubblico quello, nella cui riga aveva
il medesimo posto un maggior numero di segni, per cui non si poteva verificare
chi veramente aveva ottenuto il maggior numero di voti […]. Da questo
fatto – prosegue Mameli – si giudichi la condotta di tali ministri
di giustizia in tutto il resto, soprattutto quando non vi siano persone che non
li possano mettere in soggezione, dato che mai in questo modo o in altri
analoghi o peggiori, potrà esser vera l’affermazione posta negli
strumenti notarili che si sia riunita, delle tre parti, la maggioranza delle
due e che si sia avuto un risultato con la molteplicità dei voti; come
andrà l’amministrazione delle povere comunità, i cui
componenti sono in questo modo frequentemente ostacolati nelle loro faccende, e
si giudichi quanto soffra l’agricoltura» ( 205).
[73] Ivi, 205.
[74] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, vol. 1739, Memoria
sui supposti abusi de’ baroni, reggitori e ministri di giustizia
(Cagliari, 6 agosto 1770). L’estensore del documento è il dott.
Litterio Cugia, su cui Del Piano, Giacobini moderati cit., 181-83. Cfr.
a questo proposito anche Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 225-227,
e la tesi di laurea di G.P. Cocco, Criminalità e delinquenza nella
Sardegna sabauda attraverso la corrispondenza viceregia e i documenti della
Segreteria di Stato e di Guerra di Cagliari (1759-1775), Università
di Sassari, Facoltà di Scienze Politiche, rel. A. Mattone, a.a. 1996-97.
[75] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 36,
lettera di Bogino del 5 settembre 1770, che accompagna il parere del Supremo
Consiglio di Sardegna. L’avvocato Canova nella sua Relazione della
Sardegna cit., cc. 47-48, scrive che Cugia si era «rivolto ad una
specie di apologia ed escusazione de’ reggidori non residenti, i quali
contravvenivano in tal guisa ad una antica e vegliante legge del Regno,
richiamata ancora per sodissimi motivi da poco tempo ad osservanza». Sia
il ministro, sia il Supremo Consiglio avevano invece ritenuto di
«prescrivere agli officiali di giustizia, loro luogotenenti ed altri
ministri subalterni […] delle cautele più proprie ad assicurarsi
della loro capacità e toglierli dalla soggezione e dipendenza cieca che
hanno presentemente ai baroni con stabilire i requisiti e l’approvazione
che dovessero avere […] come è prescritto per quelli di nomina
regia».
[76] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, vol. 1739,
cc. 307 sgg., Parere del Supremo Consiglio di Sardegna del 5 settembre 1770.
Cfr. anche Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 226.
[77] Cfr., ad esempio, la linea di intervento ipotizzata in AST, Corte,
Paesi, Sardegna, Materie feudali cat. Feudi in genere,
mazzo 1, n. 39, Memoria istruttiva dell’avvocato F.R. Bardesono
concernente la riduzione a mano regia de’ feudi rimessa
all’intendente generale Giaume (Torino, 19 febbraio 1772).
[78] I capitoli VI, VII e CXXIII della Carta de Logu
distinguevano i villaggi in grandi, medi, piccoli a seconda dei
«fuochi» fiscali: ovviamente il numero dei giurati variava secondo
la consistenza della villa: dieci in sa villa manna, cinque in quella picinna.
Cfr. a questo proposito G. Olla Repetto, L’ordinamento
costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine del ’300, in Il
mondo della Carta de Logu, Cagliari, Edizioni 3T, 1979, 161-162, e C.
Ferrante, A. Mattone, Le comunità rurali nella Sardegna medievale,
in Studi Storici, XLV, 2004, n. 1, 220-231.
[79] Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIII, ord. VII, cap. II, 86-93. Sulla genesi e sui lavori preparatori dell’editto cfr. I.
Birocchi, M. Capra, L’istituzione dei Consigli Comunitativi in
Sardegna, in Quaderni sardi di storia, n. 4, 1983-84, 139-158; M.
Lepori, Feudalità e Consigli comunitativi nella Sardegna del
Settecento, in Etudes Corses, n. 30-31, 1988, 171-182; Ead., Dalla
Spagna ai Savoia. Ceti e Corona nella Sardegna del Settecento, Roma,
Carocci, 2003, 92 sgg., che costituisce oggi il saggio di riferimento; Mattone,
Istituzioni e riforme cit., 405-411; Id., La cessione del Regno di
Sardegna cit., 55-61; G.G. Ortu, Villaggio e poteri signorili in
Sardegna. Profilo storico della comunità medievale e moderna,
Roma-Bari, Laterza, 1996, 208-212. Fra gli studi meno recenti cfr. Loddo
Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793 cit., vol. II, 143-146.
[80] Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIII, ord. VII, cap.
II, 90-93.
[81] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 9, mazzo 1, n. 9, Parere del collaterale F.R. Bardesono e successivo parere
per un nuovo stabilimento e forma de’ consigli di Comunità
(Torino, 30 ottobre 1768). Cfr. Birocchi, Capra, L’istituzione dei
Consigli cit., 144-148, e Lepori, Dalla Spagna ai Savoia cit.,
92-107, che giustamente sottolinea il peso del contenzioso tra comunità
e baroni nell’elaborazione del provvedimento. Nel 1768 era
stata avviata un’indagine per verificare le «vessazioni ed angherie
usatesi e che quotidianamente» erano praticate «da’ varii
baroni, ministri di giustizia e reggidori» che avevano «riempito
d’inquietezze e d’afflizioni le Comunità». La
relazione redatta dal magistrato della Reale Udienza, dottor Gavino Cocco,
«fu la spinta all’editto delle Comunità»: ASC, Segreteria
di Stato e di Guerra, serie II, vol. 1661, Relazione sugli aggravi che
s’impongono ai villani (Cagliari, s.d., ma 1768). Sui contraddittori
aspetti dell’amministrazione della giustizia baronale, cfr. anche G.
Spanedda, Giustizia e comunità nella baronia di Ploaghe (1420-1839),
Sassari, Carlo Delfino editore, 1995, 33-54.
[82] Relazione della Sardegna regnando Carlo Emanuele III cit.,
cc. 101-102.
[83] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 9, mazzo 1, n. 23, Rappresentanza de’ baroni per dimostrar
pregiudiziale alla loro giurisdizione l’editto che prescrive lo
stabilimento de’ consigli delle comunità e successiva risposta
(Torino, 17 ottobre 1772). Cfr. anche Mattone, Istituzioni e riforme
cit., 407-409.
[84] AST, Corte, Paesi, Sardegna, cat. 9, mazzo 1,
Risposta ad uno scritto in favor dei baroni relativamente al Regio editto dei
consigli delle comunità (Torino, 13 ottobre 1772). Cfr. anche nello
stesso archivio il parere del Supremo Consiglio di Sardegna del 15 marzo 1773
in Sardegna, Giuridico, Pareri del Supremo Consiglio,
mazzo 1.
[85] Relazione della Sardegna cit., c. 102.
[86] ASC, Atti governativi, vol. VI, (1773-79), n. 341, Regio
Editto riguardo ai Consigli comunali relativo al precedente del 24 settembre
1771 (Cagliari, 27 aprile 1775). Cfr. anche AST, Corte, Paesi,
Sardegna, Giuridico, Pareri del Supremo Consiglio, mazzo
2, Prospetto di Regio Editto relativo a quello de’ 24 settembre 1771
sullo stabilimento de’ Consigli di Città e Comunità disteso
dall’avvocato fiscale regio Bardesono (Torino, aprile 1775).
[87] Per la prima interpretazione cfr. F. Venturi, Il conte Bogino,
il dottor Cossu e i Monti frumentari. Episodio di storia sardo-piemontese del
secolo XVIII, in Rivista storica italiana, LXXVI, 1964, 470-506; G.
Ricuperati, Il riformismo sabaudo settecentesco e la Sardegna. Appunti per
una discussione, in I volti della pubblica felicità. Storiografia
e politica nel Piemonte settecentesco, Torino, Albert Meynier, 1989,
159-202; Id., Lo Stato sabaudo nel Settecento cit., 88-153; I. Birocchi,
La carta autonomistica della Sardegna. Le «leggi fondamentali»
nel triennio rivoluzionario (1793-96), Torino, Giappichelli, 1992, 38-75;
Girgenti, La storia politica cit., 65-112; Mattone, Istituzioni e
riforme cit., 325-419; P. Sanna, La Sardegna sabauda, in Storia
della Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Cagliari, Edizioni Della Torre,
1998, 202-233; Lepori, Dalla Spagna ai Savoia cit., 92 sgg.
Per la seconda
interpretazione cfr. F. Loddo Canepa, Il riformismo settecentesco nel Regnum
Sardiniae, in Il Ponte, VII, 1951, n. 9-10, 1033-1044, con acute
considerazioni; L. Bulferetti, Premessa a Il riformismo settecentesco
cit., 1-48; Id., Le riforme nel campo agricolo nel periodo sabaudo, in Fra
il passato e l’avvenire. Saggi storici sull’agricoltura sarda in
onore di Antonio Segni, Padova, Cedam, 1965, 314-344; Sole, La Sardegna
sabauda cit., 103-104; G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda
1720-1847, Roma-Bari, Laterza, 1984, 89-90; L. Carta, Dallo sbarco
francese a Quartu all’insurrezione antipiemontese di Cagliari del 28
aprile 1794: alcune linee interpretative, in Francia e Italia negli anni
della Rivoluzione, a cura di L. Carta e G. Murgia, Roma-Bari, Laterza,
1995, 22-43; F. Francioni, Vespro sardo. Dagli esordi della dominazione
piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794, Cagliari, Condaghes,
2001, 67 sgg., con un’accentuazione di tipo “nazionalitario”.
[88] Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIV, ord. III, 100. Il
riferimento normativo è a Dexart, Capitula cit., lib. III, tit.
VII, cap. XI; Pregon general cit., cap. 168.
[89] Cfr. Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu cit.,
492-497; e la sempre penetrante lettura di P. Grossi, Per la storia della
legislazione sabauda in Sardegna: il Censore dell’agricoltura, in Annali
della Facoltà Giuridica dell’Università di Macerata,
XXVI, 1963, 197-240. Sui Monti frumentari cfr. A. Agostini, Origini delle
costituzioni dei Monti frumentari in Sardegna (1666-1767), in Archivio
giuridico, LXXI, 1903, 277-319; B. Fulcheri, Monti frumentari della
Sardegna. Contributo alla storia generale dell’isola, in Miscellanea
di storia italiana, serie III, X, 1906, 27-80; Pino Branca, Vita
economica cit., 147-163; F. Loddo Canepa, Censorato generale, in Dizionario
archivistico per la Sardegna, vol. II, Tipografia Giovanni Ledda, Cagliari
1926-31, 33-46; L. Del Piano, I Monti di soccorso in Sardegna, in Fra
il passato e l’avvenire cit., 387-402; A. Boscolo, L. Bulferetti, L.
Del Piano, Profilo storico economico della Sardegna dal riformismo
settecentesco al “Piano di Rinascita”, Padova, Cedam, 1962,
63-85; G. Doneddu, Il Censorato generale, in Economia e storia,
I, 1980, 65-94; M. Lepori, Le fonti settecentesche: Annona e Censorato,
in Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico,
n. 11-13, 1980, 161-192; P. Sanna, Dai Monti frumentari alle banche
dell’Ottocento, in La Sardegna, a cura di M. Brigaglia, vol.
3, Aggiornamenti, cronologie e indici generali, Cagliari, Edizioni Della
Torre, 1988, 219-221; G. Toniolo, Credito, istituzioni, sviluppo: il caso
della Sardegna, e L. Conte, Dai Monti frumentari al Banco di Sardegna,
entrambi in Storia del Banco di Sardegna. Credito, istituzioni, sviluppo dal
XVIII al XX secolo, a cura di G. Toniolo, Roma-Bari, Laterza, 1995,
rispettivamente 29-49, 117-129; G. Tore, Governo e modernizzazione economica
in età sabauda, in La Camera di Commercio di Cagliari (1862-1997),
vol. I, 1720-1900, Cagliari, Camera di Commercio, 1997, 71-97; infine il
catalogo della mostra La terra, il lavoro, il grano. Dai Monti frumentari
agli anni Duemila, a cura di M. Brigaglia e M.G. Cadoni, Sassari, Banco di
Sardegna, 2003, a cui si rinvia per ogni altro approfondimento bibliografico.
[90] Istruzioni generali a tutti li censori del Regno di Sardegna
continenti le diverse leggi agrarie del Regno…, Cagliari, nella
Stamperia Reale di Cagliari, 1771, capp. 9, 19, 12, 20, 17, 22, 18, 23. Cfr.
Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu cit., 497-499; Id., Giuseppe
Cossu cit., vol. III, t. 2, 849-859; L. Scaraffia, Cossu Giuseppe,
in Dizionario biografico degli italiani, vol. XXX, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, 1984, 115-118; G. Marci, La santa
follia del censore, in G. Cossu, La coltivazione de’ gelsi e la
propagazione de’ filugelli in Sardegna, a cura di G. Marci, Cagliari,
Centro di studi filologici sardi/Cuec, 2002, IX-LIX, e soprattutto M. Lepori, Giuseppe
Cossu e il riformismo settecentesco in Sardegna, con un’antologia di
scritti, Cagliari, Cooperativa editoriale Polo Sud, 1991.
[91] Un’efficace descrizione del sistema comunitario è in
M. Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, a cura di M. Brigaglia,
Cagliari, Edizioni Della Torre, 1979 (I ediz. Tours, Arrault, 1941), 122-136.
[92] Cfr. G. Doneddu, Ceti privilegiati e proprietà fondiaria
nella Sardegna del secolo XVIII, Milano, Giuffrè, 1990, 280-302.
[93] Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli Stati
di Oliva: il Ducato del Monteacuto cit., 209.
[94] Loddo Canepa, La visita del viceré
Des Hayes cit., 180, 162.
[95] AST, Sardegna, Giuridico, Pareri del Supremo
Consiglio di Sardegna, reg. n. 7, cc. 27-33 (Torino, 7 agosto 1777).
[96] Ivi, reg. n. 6, c. 9 (Torino, 10 novembre 1776).
[97] Ivi, reg. n. 7, c. 161 (Torino, 26 maggio 1779).
[98] Cfr. R. Piga, Le cussorgie, in Atti del II Congresso
nazionale di diritto agrario, Roma, Edizioni universitarie, 1939, 51-61; R.
Trifone, Cussorgia, in Novissimo Digesto Italiano, vol. V,
Torino, Utet, 1968, 83-84.
[99] Archivio di Stato di Sassari, Archivio storico del Comune di
Sassari, b. 31, fasc. n. 8, Visita generale delle terre colte ed incolte
della Flumenargia e della Nurra eseguita dall’assessore civile di questa
Reale Governazione avvocato don Gavino Cocco nell’anno 1762.
[100] Loddo Canepa, La visita del viceré cit., 250-251.
Cfr. inoltre G. Doneddu, Una regione feudale nell’età moderna,
Sassari, Iniziative culturali, 1977, 51-59; G. Mele, Da pastori a signori.
Ricchezza e prestigio sociale nella Gallura del Settecento, Sassari, Edes,
1994, 16-33; Argiolas, Mattone, Ordinamenti portuali e territorio costiero
cit., 155-160.
[101] Cfr. G. Todde, Ademprivio, in Enciclopedia giuridica
italiana, vol. I, t. 2, Milano, Unione tipografico editrice, 1892, 91; ora
in Id., Scritti economici sulla Sardegna, a cura di P. Maurandi e T.
Deonette, Cagliari, Centro di studi filologici sardi/Cuec, 2003; D. Porcu, G.
Lallai, Usi e costumanze di Sardegna fra i contadini e i pastori del
Parteolla e del Gerrei, in Mediterranea, I, 1927, n. 10, 30-31; Usi
civici e diritti di cussorgia, Atti del convegno (Sinnai, 22 aprile 1989),
Dolianova (Cagliari), Comunità montana del Parteolla, 1989.
[102] Cfr. N. Mulas, Cenni particolari sull’origine ed uso
degli ademprivi di Sardegna, Cagliari, Tipografia nazionale, 1858, 40-46; a
questo proposito anche I. Birocchi,
Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna. Provvedimenti
normativi, orientamenti di governo e ruolo delle forze sociali dal 1839 al 1851,
Milano, Giuffrè, 1982, 342-344.
[103] ASC, Atti governativi, vol. VI, (1769-79), n. 309, Pregone
di Sua Eccellenza don Ludovico Hallot conte di Des Hayes contenente diverse
provvidenze date in seguito alla visita del Regno (Cagliari, 2 aprile 1771),
ora in Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIV, ord. VIII, 147.
[104] Cfr. in generale soprattutto M. Da Passano, Le discussioni sul
problema della chiusura dei campi nella Sardegna sabauda, in Materiali
per una storia della cultura giuridica, X, 1980, n. 2, 417-435; A. Mattone,
Le vigne e le chiusure: la tradizione vitivinicola nella storia del diritto
agrario della Sardegna (XIII-XIX secolo), in Storia della vite e del
vino in Sardegna, a cura di M.L. Di Felice e A. Mattone, Roma-Bari,
Laterza, 1999, 96-98.
[105] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 6, mazzo 8, n. 25, Parere dell’avvocato fiscale regio Conte di
Tonengo sul progetto dell’assegnazione de’ terreni per
l’agricoltura (Torino, 18 aprile 1767). Sul documento cfr. anche Da
Passano, Le discussioni cit., 423-424. Sul problema della diffusione di
una nuova cultura agronomica cfr. Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu
cit., 481-485; Grossi, Per la storia della legislazione cit., 207-213;
Ricuperati, Il riformismo sabaudo cit., 193-195; P. Sanna, La vite e
il vino nella cultura agronomica del Settecento, in Storia della vite e
del vino cit., 143-203; G.G. Ortu, Prefazione a A. Manca
dell’Arca, Agricoltura di Sardegna, a cura di G.G. Ortu, Nuoro,
Ilisso, 2000 («Bibliotheca Sarda», 59), 9-30.
[106] Ivi.
[107] Cfr. Olives, Commentaria cit., 78-79.
[108] Cfr. Dexart, Capitula cit., lib. VIII,
tit. VII, cap. III, 1332, cap. IX, 1337; Vico, Leyes y pragmaticas cit., vol. II, tit. XLV, cap. I, 283; Pregon general cit., capp. 183-187.
[109] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 6, mazzo 2, n. 47, Risultato di giunta concernente l’aumento e
miglior coltura degli oliveti e suggerimento di varie provvidenze a darsi a
tale riguardo (Sassari, 10 luglio 1773). Cfr. anche G. Cossu, Istruzione
olearia ad uso dei vassalli del Duca di San Pietro ed altri agricoltori del
Regno di Sardegna, Torino, Stamperia Reale, 1789; Lepori, Giuseppe Cossu
cit., 123-130. Cfr. a questo proposito Da Passano, Le discussioni cit.,
425; G. Doneddu, L’olivicoltura in Sardegna in epoca moderna, M.
Manconi, P. Porcu, L’innesto degli olivastri e l’olivicoltura
nella legislazione spagnola e sabauda (XVI-XIX sec.), T. Olivari, L’olivicoltura
sarda attraverso la memorialistica e le relazioni amministrative (XVII-XIX
sec.), tutti in Olio sacro e profano. Tradizioni olearie in Sardegna e
in Corsica, a cura di M. Atzori e A. Vodret, Sassari, Edes, 1995,
rispettivamente 85-87, 102-106, 107-110.
[110] Relazione della Sardegna cit., cc. 147-149.
[111] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico,
cat. 10, Mazzo lettere Università di Sassari dal 28 maggio 1768 a
tutto il 1772 (lettere di Gemelli a Bogino); serie G., Lettere a
particolari sardi, vol. 15, cc. 62v., 80; vol. 16, cc. 76, 126 v. (lettere
di Bogino a Gemelli).
[112] Relazione della Sardegna cit., c. 152.
[113] F. Gemelli, Rifiorimento della Sardegna proposto nel
miglioramento di sua agricoltura, Torino, presso Giammichele Briolo, 1776,
vol. I, 110-118, vol. II, 5-16, 21-36. Per un succinto profilo biografico cfr.
G.G. Fagioli Vercellone, Gemelli Francesco, in Dizionario biografico
degli italiani, vol. LIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,
1999, 40-42. Bulferetti, Premessa a Il riformismo cit., 31-48, ha
espresso le posizioni più critiche sulla validità
dell’opera del gesuita piemontese, accusata di astrattezza e di scarsa
originalità, seguito da Sole, La Sardegna sabauda cit., 123-126,
e da Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda cit., 51-56.
All’opposto Venturi, Francesco Gemelli cit., 891-904; Da Passano, Le
discussioni cit., 425-427; Sanna, La vite e il vino cit., 143-162;
Mattone, Istituzioni e riforme cit., 401-403 hanno espresso una
valutazione ampiamente positiva sulle idee di fondo del Rifiorimento;
più dubitativo Ortu, Prefazione a Manca dell’Arca, Agricoltura
cit., 9-28, e soprattutto Id., Economia e società rurale in Sardegna,
in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a
cura di P. Bevilacqua, vol. II, Uomini e classi, Venezia, Marsilio
editori, 1990, 325-333, a proposito di una «linea Cossu» in parte
contrapposta alla «linea Gemelli».
[114] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Giuridico,
Pareri del Supremo Consiglio di Sardegna, mazzo 1, Parere riguardante
lo scritto del padre Gemelli sull’agricoltura (Torino, 30 maggio
1774). Cfr. anche Bulferetti, Premessa cit., 33-35. I due tomi vennero
pubblicati grazie a un contributo personale del conte Bogino.
[115] Manca dell’Arca, Agricoltura di Sardegna cit., 45.
Cfr. anche Tola, Dizionario cit., vol. II, 213-215; Sanna, La vite e
il vino cit., 145-149. Cfr. anche l’edizione dell’opera curata
da G. Marci, Cagliari, Cuec, 2000.
[116] La memoria conservata in ASC, Segreteria di Stato e di Guerra,
serie II, vol. 1654, è stata pubblicata da G. Murgia, “Insinuazioni
sul rifiorimento della sarda agricoltura”, in Archivio sardo del movimento
operaio contadino e autonomistico, n. 17-19, 1982, 213.
[117] A. Purqueddu, De su tesoru de sa Sardigna, a cura di G.
Marci, Cagliari, Cuec, 1999 (I ediz. Cagliari, Stamperia Reale, 1779), 171.
[118] D. Simon, Le piante, a cura di G. Marci, Cagliari, Centro
di studi filologici sardi/Cuec, 2002 (I ediz. Cagliari, Stamperia Reale, 1780),
51, 63, 86. Su Domenico Simon cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon, una
famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, in All’ombra
dell’aquila imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali
nei territori sabaudi in età napoleonica (1802-1814), vol. II, Roma,
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1994, 762-863.
[119] Cfr. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna cit.,
53-75; A. Mattone, P. Sanna, La “rivoluzione delle idee”: la
riforma delle due università sarde e la circolazione della cultura
europea (1764-1790), in Rivista storica italiana, CX, 1998, n. 3,
834-942; E. Verzella, L’Università di Sassari
nell’età delle riforme (1763-1777), Sassari, Centro
interdisciplinare per la storia dell’Università di Sassari, 1992,
105 sgg.; Ead., L’età di Vittorio Amedeo III in Sardegna: il
caso dell’Università di Sassari, in Annali della Fondazione
Luigi Einaudi, XXIV, 1990, 225-274; P. Sanna, La rifondazione dell’Università
di Sassari e il rinnovamento degli studi nel Settecento, in Annali di
storia delle università italiane, VI, 2002, 71-94.
[120] Cfr. Birocchi, La carta autonomistica cit., 77 sgg.; A.
Mattone, P. Sanna, Costituzionalismo e patriottismo nella «sarda
rivoluzione», in Universalismo e nazionalità
nell’esperienza del giacobinismo italiano, a cura di L. Lotti e R.
Villari, Roma-Bari, Laterza, 2003, 191-244.
[121] Sulle biografie dei due magistrati cfr. Tola, Dizionario
cit., vol. III, 166-48; C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese,
vol. II, Torino-Roma, Favale, 1881 (rist. anast. Bologna, Forni, 1999),
373-374.
[122] Editti, pregoni cit., vol. I, Introduzione al piano
dell’opera, VII-IX. Cfr. F. Loddo Canepa, Le pubblicazioni
ufficiali del Regno di Sardegna. Contributo alla storia della stampa
nell’isola, in Mediterranea, V, 1931, n. 8-10, 8-9,
dell’estratto; L. Sannia Nowé, Ideale felicitario, lealismo
monarchico e coscienza «nazionale» nelle pubblicazioni della Reale
Stamperia di Cagliari (1770-1799), e M.G. Sanjust, La politica culturale
e l’attività della Reale Stamperia di Cagliari dal 1770 al 1799,
entrambi in Dal trono all’albero della libertà cit., vol.
II, rispettivamente 620 sgg., 651 sgg.; T. Olivari, Artigiani-tipografi e
librai in Sardegna nel XVIII secolo, in Corporazioni, gremi e
artigianato tra Sardegna, Spagna e Italia nel Medioevo e nell’età
moderna (XIV-XIX secolo), a cura di A. Mattone, Cagliari, AM&D
edizioni, 2000, 591-602, sul rilievo editoriale della pubblicazione.
[123] L’osservazione è di Birocchi, Il Regnum
Sardiniae dalla cessione cit., 186. Cfr. anche Grossi, Per la storia
della legislazione sabauda cit., 201; M. Da Passano, Delitto e
delinquenza nella Sardegna sabauda (1823-1844), Milano, Giuffrè,
1984, 16-17; Mattone, Istituzioni e riforme cit., 404-405.
[124] Cfr. Viora, Le Costituzioni Piemontesi cit., 149 sgg.;
Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 335-350; e in particolare
I. Soffietti, C. Montanari, Il diritto negli Stati sabaudi: le fonti (secoli
XV-XIX), Torino, Giappichelli, 2001, 61-111, a cui si rinvia anche per
l’esaustiva bibliografia; Pene Vidari, Giudici e processo cit.,
VII sgg.
[125] Il documento, assai noto alla storiografia, conservato in AST, Corte,
Paesi, Sardegna, Politico, cat. 6, mazzo 2, parte 2, n. 64,
è stato pubblicato da L. Bulferetti, L’assolutismo illuminato
in Italia (1700-1789), Milano, Istituto per gli studi di politica
internazionale, 1944, 293-296. La memoria è datata Cagliari, 12 febbraio
1790. La seconda parte del memoriale è dedicata alle materie
ecclesiastiche e, in particolare, in caso di omicidio, all’abolizione
della «giurisdizione vescovile» di cui godono i
«regolari». Su Casazza cfr. E. Genta, Senato e senatori di
Piemonte nel secolo XVIII, Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria,
1983, 71, 73, 103, 117, 193 (scheda n. 41).
[126] Cfr. ASC, Atti governativi, vol. VI, (1769-79), n.
342, Lettera circolare sugli incendi del viceré Ferrero della Marmora
indirizzata ai ministri di giustizia (Cagliari, 14 giugno 1775), nella
quale si prescriveva l’applicazione dell’incarica per tutti
i pastori che avevano le capanne nel distretto contiguo al sito nel quale era
stato appiccato l’incendio doloso, rinnovata più volte: cfr., ad
esempio, il pregone del viceré Thaon di Sant’Andrea del 7 giugno 1789.
[127] ASC, Atti governativi, vol. XI, (1802-05), n. 704, Pregone
di Sua Altezza Reale il signor duca del Genevese in cui si contengono alcune
provvidenze per la buona amministrazione della giustizia (Cagliari, 21
ottobre 1800). Cfr. a questo proposito Da Passano, La criminalità e
il banditismo cit., 429.
[128] «Dalla visita – si legge nel pregone del viceré
Des Hayes del 2 aprile 1771 –, che ordinammo de’ processi,
essendoci risultato, che in più curie non si dà l’incarica
de’ delitti, che si commettono, né alla comunità, né
alle capanne de’ pastori, come prescrivono le Regie Prammatiche, donde
rimangono senza prova i delitti, sciolti e liberi delinquenti, e le parti lese
senza la dovuta indennizzazione, prescriviamo perciò a tutti i ministri
di giustizia, così reali che baronali, che, abolita, come aboliamo ogni
pretesa, pratica, stile o costumanza in contrario, per qualunque pretesto,
causa o ragione introdotta, debbano all’avvenire dare le incariche alle
comunità, o pastori a tenore dell’anzidetta disposizione
prammaticale, sotto pena […] della sospensione dall’impiego per
termine d’un anno, od altra anche maggiore, secondo le
circostanze»: Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIV, ord. VIII,
cap. XXVIII, 137-138.
[129] Cfr. M.L. Plaisant, L’istituzione delle prefetture in
Sardegna nei progetti del 1776 e del 1806, Cagliari, Litotipografia Paolo
Pisano, 1981, 16-29; Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 228-229.
[130] M.A. Simonius, De quaestionibus aut tormentis dissertatio
habita in Regia Calaritana Academia anno 1784, s.n.t. (ma Cagliari, Reale
Stamperia, 1784). Cfr. a questo proposito I. Birocchi, Dottrine e diritto
penale in Sardegna nel primo Ottocento. Il trattato Dei delitti, delle pene di
Domenico Fois, Cagliari, Cuec, 1988, 5-9, e col titolo Considerazioni
sulla legislazione e la dottrina criminale in Sardegna nel periodo precedente
all’introduzione del codice feliciano, in Illuminismo e dottrine
penali, a cura di L. Berlinguer e F. Colao, Milano, Giuffrè, 1990
(«La Leopoldina», 10), 305-309, a cui si rinvia per l’attenta
lettura del testo; Mattone, Sanna, I Simon cit., 770-772. Su questo tema
cfr. in generale P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune,
vol. II, Milano, Giuffrè, 1954, 234 sgg.
[131] Biblioteca Comunale di Alghero, ms. 48/VI, Riflessi
sull’attuale stato dell’amministrazione di giustizia in Sardegna
(4-20 settembre 1791). In Istituzioni e riforme cit., 403-404, avevo
erroneamente attribuito il testo a Matteo Luigi Simon. Su Giovanni Lavagna
(1761-1838) cfr. Del Piano, Giacobini e moderati cit., 250-252; Sole, Le
“Carte Lavagna” cit., 6-10. La data della laurea si evince da
F. Obinu, I laureati dell’Università di Sassari 1766-1945,
pref. di G.P. Brizzi e M. Brigaglia, Roma, Carocci, 2002, scheda n. 83, 106, e
sull’attività di magistrato M. Da Passano, I Savoia in Sardegna
e i problemi della repressione penale, in All’ombra
dell’aquila imperiale cit., vol. I, 215-222.
[132] BUC, Miscellanea Baille, s.p.6.3.4., F.C. Baille, Compilazione
delle leggi municipali del Regno di Sardegna spettanti al criminale;
un’altra copia della Compilazione col titolo Compendio delle
leggi municipali del Regno di Sardegna in cui si contengono la Carta locale, le
Reggie Prammatiche, i Capitoli di Corte… è in Archivio
Simon-Guillot, Alghero, cart. B, fasc. n. 69. Il manoscritto fu redatto sotto
gli stimoli dell’avvocato dei poveri Giambattista Lostia, già
docente nell’ateneo cagliaritano, a cui la Compilazione è
dedicata. Cfr. Birocchi, Dottrine e diritto penale cit., 38-41. Sul
canonico Baille (1771-1852) cfr. Del Piano, Giacobini e moderati cit.,
84.
[133] Ivi, c. V.
[134] Ivi, cc. V-VI.
[135] Ivi, cc. VI-VII. La Compilazione si pone però al di
fuori del dibattito illuministico sulla tortura e sulla pena di morte ed
esprime la cultura giuridica dominante nelle Università sarde, sostanzialmente
moderata pur con qualche cauta apertura verso le novità. A proposito
della tortura, infatti, Baille ritiene che questo «metodo […] da
molti tacciato di barbaro, ed inumano come contrario ai principi della raggione
e della giustizia, pur nondimeno è seguitato nei più illuminati
tribunali d’Europa, ove la giustizia e l’equità militano del
pari» (c. 48).
[136] Cfr. a questo proposito Birocchi, La carta autonomistica
cit., 77-114; L. Carta, La “sarda rivoluzione”. Studi e ricerche
sulla crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari,
Condaghes, 2001, 7-159; A. Mattone, P. Sanna, La «crisi
politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti
antifeudali (1793-96), in Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze
popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, a cura di A.M. Rao,
Roma, Carocci, 1999, 37-70.
[137] L’attività degli Stamenti nella «Sarda
Rivoluzione» (1793-1799), a cura di L. Carta, t. 1, Atti dello
Stamento militare. Anno 1793 (Acta Curiarum Regni Sardiniae, 24/I), Cagliari,
Consiglio regionale della Sardegna, 2000, doc. n. 35/2, 571.
[138] AST, Corte, Paesi, Politico, mazzo 1, Carte
relative ai dispacci 1791-92-93, Scritto del signor don Lorenzo Sanna a
riguardo della legislazione e rifiorimento del Regno di Sardegna con vantaggio
del Regio Erario e dei sudditi (allegato al dispaccio del 9 agosto 1793).
Sanna è autore di un altro memoriale, esposto nella seduta dello
Stamento militare del 25 giugno 1793, sulla razionalizzazione del sistema
ecclesiastico e di quello dei dazi, ora pubblicato in L’attività
degli Stamenti cit., t. 1, n. 46/2, 701-706.
[139] La Relazione del conte di Sindia sullo stato attuale e sui
miglioramenti da apportarsi alla Sardegna, datata Torino, 15 maggio 1793, e
fatta pervenire allo Stamento militare da Domenico Simon, è ora in L’attività
degli Stamenti cit., t. 1, n. 43-2, 650-692, ma era stata già edita,
con una dubitativa datazione, da F. Loddo Canepa, Una relazione del conte di
Sindia sullo stato attuale e sui miglioramenti da apportare alla Sardegna
(1794?), in Studi Sardi, XII-XIII, 1952-54, parte II, 330-425. Sul
conte di Sindia cfr. Del Piano, Giacobini moderati cit., 357-359. Sulla Relazione
cfr. l’acuta lettura di Birocchi, La carta autonomistica cit., 92.
[140] L’attività degli Stamenti cit., t. I, 650-651;
Loddo Canepa, Una relazione cit., 375. In fondo le tesi di Paliaccio
sono assai simili a quelle di Lorenzo Sanna: «Oggi il villico è
portato alla prepotenza e alla vendetta, si svegli la giustizia, abbia
ciascheduno il fatto suo illeso e sicuro, senza che siavi bisogno di farselo
rispettare colla forza privata, sia punito l’affronto prima che si
determini a risarcirlo colla vendetta e cessano così le inquietudini e i
dissapori, si prende amore alla tranquillità e al quieto vivere a cui l’uomo
è per naturale inclinazione portato»: Scritto del signor don
Lorenzo Sanna cit.
[141] L’attività degli Stamenti cit., 655-656; Loddo
Canepa, La relazione cit., p. 377.
[142] Ivi, 677, e 398.
[143] Manifesto giustificativo della emozione popolare accaduta in
Cagliari il dì XXVIII aprile MDCCXCIV, nella Cagliari, Stamperia
Reale, 1794, 4, 20, ora in edizione anastatica in Pagine di storia
cagliaritana 1794-1795. Manifesto giustificativo e altri documenti del triennio
rivoluzionario, a cura di L. Carta, Cagliari, Camera di Commercio,
Industria, Artigianato e Agricoltura, 1995, 144, 160. Cfr. a questo proposito
Birocchi, La carta autonomistica cit., 94-110; Mattone, Sanna, Costituzionalismo
e patriottismo cit., 200-205; L. Carta, Reviviscenza e involuzione
dell’istituto parlamentare nella Sardegna di fine Settecento (1793-1799),
in L’attività degli Stamenti cit., t. 1, 66-119.
[144] Il Ragionamento è pubblicato in L’attività
degli Stamenti cit., t. 2, 1207, e in appendice a Birocchi, La carta
autonomistica cit., 266; cfr. Mattone, Sanna, I Simon cit., 793-798.
[145] L. Baille, Memoria sulle cinque domande e sul diritto del Regno
di Sardegna di inviare ambasciatori a Torino (autunno 1793 - inverno 1794),
ora in Birocchi, La carta autonomistica cit., 281; cfr. delllo stesso
anche Tra diritto e politica nel triennio rivoluzionario sardo di fine
Settecento: considerazioni in margine a un’inedita memoria di Lodovico
Baille, in Quaderni bolotanesi, XVII, 1991, 186-199. Cfr. inoltre P.
Martini, Memorie intorno alla vita del cavaliere Lodovico Baille, in Catalogo
della biblioteca sarda del cavalier Ludovico Baille, Cagliari, Timon, 1844,
3-42; G. Sorgia, Baille Lodovico, in Dizionario biografico degli
italiani, vol. V, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1963,
286-287; Del Piano, Giacobini moderati cit., 82-84.
[146] Cfr. la supplica dei tre Stamenti del 4 settembre 1794 che
richiama esplicitamente il «Trattato di pace stipulato nel novembre 1386
fra la giudicessa d’Arborea donna Eleonora e il re don Pietro
d’Aragona ratificato da suo figlio re don Giovanni negli 8 aprile 1388 in
seguito alle convenzioni sottoscritte in Cagliari nell’assemblea generale
della nazione sarda li 17 gennaio dello stesso anno 1388»: L’attività
degli Stamenti cit., t. 2, 1465. Cfr. A. Mattone, Un mito nazionale per
la Sardegna. Eleonora d’Arborea nella tradizione storiografica (XVI-XIX
secolo), in Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e
nella Carta de Logu, a cura di G. Mele, Oristano, Comune di Oristano, 1995,
33.
[147] Cfr. a questo proposito oltre i vecchi lavori di G. Manno, Storia
moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799, a cura di A. Mattone,
Nuoro, Ilisso, 1998 (I ediz. Torino, Favale, 1842), 259 sgg.; S. Pola, I
moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802, vol. I, Sassari,
Stamperia della L.I.S., 1923, 17 sgg.; L. Berlinguer, Alcuni documenti sul
moto antifeudale del 1795-96, in La Sardegna del Risorgimento cit.,
105-138, a proposito degli «strumenti di unione», su cui anche
Birocchi, La carta autonomistica cit., 139-146; F. Loddo Canepa, Rapporti
fra feudatari e vassalli in Sardegna, in Fra il passato e
l’avvenire cit., 273-313; Carta, Reviviscenza cit., 222 sgg.,
a cui si rinvia anche per l’aggiornata bibliografia.
[148] L’Achille della Sarda Liberazione, manoscritto
conservato in BUC, Miscellanea Baille, 7.17.IV, è stato
pubblicato da L. Del Piano, Osservazioni e note sulla storiografia angioiana,
in Studi Sardi, XVII, 1959-61, 59-64, e da P. Cuccuru, Un testo
giacobino sardo: L’Achille della Sarda Liberazione, in Il Pensiero
politico, XII, 1979, 59-64. Per l’analisi del testo cfr. Birocchi, La
carta autonomistica cit., 146-153; F. Francioni, Diritto di resistenza,
nazione e patria in Sardegna durante la Rivoluzione francese, in Le
autonomie etniche e speciali in Italia e nell’Europa mediterranea.
Processi storici e istituzionali, Atti del Convegno nel quarantennale dello
Statuto (Cagliari, 29 settembre - 1° ottobre 1988), Cagliari, Consiglio
regionale della Sardegna, 1988, 85-105; A. Contu, Giusnaturalismo e teoria
della dissimulazione nella Sardegna rivoluzionaria, in Quaderni
bolotanesi, XV, 1988, 187-226; Mattone, Sanna, La «crisi
politica» cit., 64-67.
[149] G. Simon, Lettera sugl’illustri coltivatori della
Giurisprudenza in Sardegna fino alla metà del secolo XVIII,
Cagliari, dalla Reale Stamperia, 1801, 8-9. Cfr. a questo proposito Mattone,
Sanna, I Simon cit., 855; Mattone, Un mito nazionale cit., 35-36.
Simon aveva per certi versi fatto proprio il paragone tra la zarina Caterina II
e la giudicessa d’Arborea formulato da F. Cetti, Appendice alla Storia
naturale dei quadrupedi di Sardegna, Sassari, Piattoli, 1777, 34-34, ora
Id., Storia naturale di Sardegna, a cura di A. Mattone e P. Sanna,
Nuoro, Ilisso, 2000 («Bibliotheca Sarda», 52), 180-181.
[150] Cfr. Le costituzioni di Eleonora intitolate Carta de Logu,
colla traduzione letterale dalla sarda all’italiana favella e con copiose
note di don Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli, Roma, presso Antonio
Fulgoni, 1805. Dell’opera esistono due ristampe anastatiche, Cagliari,
Editrice “3 T”, 1974; Nuoro, Archivio fotografico sardo, 2003. Cfr.
anche Olivari, Le edizioni a stampa cit., 174-175.
[151] Su Giovanni Maria Mameli (Cagliari 1758 - Iglesias 1843) cfr. D.
Scano, I Mameli da don Giovanni Maria Mameli († 1751) a Goffredo
Mameli († 1849), in Mediterranea, IV, 1930, 1-14; Del Piano, Giacobini
moderati cit., 226. Era uno spirito aperto che aveva guardato con simpatia
il moto patriottico del 1793-96: il suo nome figura infatti in un elenco di
sospetti di «giacobinismo» trovato nel 1795 tra le carte del
generale delle armi, marchese della Planargia: Pezze originali di cui si fa
menzione nel Ragionamento giustificativo rassegnato colla rappresentanza quarta
dai tre Stamenti del Regno di Sardegna a S.S.R.M. sotto li 24 agosto 1795,
Cagliari, nella Reale Stamperia, 1795, 80, ora in Pagine di storia
cagliaritana cit., 354. Nel 1806 avrebbe redatto un trattato, rimasto
manoscritto, per «sollevare l’arte vetraria d’Italia» e
per impiantare in Sardegna «fabbriche di vetro d’ogni
qualità»: G.M. Mameli de’ Mannelli, Trattato
dell’arte vetraria, a cura di P. Amat di San Filippo, in Rendiconti
della Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL. Memorie di Scienze
Fisiche e Naturali, serie V, XVIII, 1994, parte II, 69-162.
[152] Le costituzioni cit., 1.
[153] «Sei, par, che sieno state le edizioni fin ora fattesi della
Carta de Logu: la prima, che nelle ultime viene denominata
l’antica [l’incunabolo] non mi è riuscita di poterla vedere
[…]; la seconda in quarto piccolo [quella del 1560]» gli era
pervenuta «alle mani […] dopo che il mio lavoro era già
terminato»: Le costituzioni cit., 3. Eppure, pochi anni prima, un
fine erudito e bibliofilo, G. Simon, Lettera sugl’illustri cit.,
8, aveva descritto l’incunabolo da lui posseduto «stampato
probabilmente nel 1495 ed impresso con caratteri rubro-nigri semigotici».
L’opera si presentava quindi carente nella ricognizione delle fonti e
nella conoscenza dei testi, spesso assai diversi fra loro, del codice
arborense.
[154] «Quanta compiacenza io provo – affermava il magistrato
cagliaritano –, ogniqualvolta rivolto in mente il vantaggio, che ha
recato alla mia Patria la non interrotta osservanza delle sue leggi antiche e
particolarmente di questo Codice, che conta già quattrocent’anni,
dacché sono persuaso che da ciò in gran parte dipenda
l’uniformità de’ costumi mantenutivisi fin ora
pressoché interamente, e la sua venerazione pe’ proprj Statuti, ed
il più fedele attaccamento a’ suoi legittimi sovrani»: Le
costituzioni cit., 7.
[155] Mameli progettava di pubblicare un altro volume, una sorta di Appendice
alle Costituzioni di Eleonora, dove intendeva inserire «i
Commentari del Chiarissimo Olives […] e con essi […] oltre alla
Dedicatoria del medesimo, ed alle Prefazioni delle diverse edizioni anche le
questioni co’ rispettivi solvimenti contenute nell’edizione seconda
[1560], e darò alle stampe detti Commentari ricorrenti, procurando
però di non conseguire la traccia meritevolmente incorsa da non pochi
editori, i quali senz’avervi mutato, né aggiunto cosa alcuna,
predicano l’edizion loro per corretta ed accresciuta»: Le
costituzioni cit., 9. Dal punto di vista filologico questo proposito non
lasciava presagire nulla di buono: non è quindi una gran perdita se
l’Appendice non venne mai pubblicata.
[156] Cfr. F. Sclopis, Storia della legislazione italiana, vol.
II, Progressi, Torino, Società editrice torinese, 1844, 167-169;
ed anche A. Mattone, La storiografia giuridica dell’Ottocento e il
diritto statutario della Sardegna medievale, in Materiali per una storia
della cultura giuridica, XXVI, 1996, 81-86, e in generale G.S. Pene Vidari,
Federigo Sclopis (1798-1878), in Studi Piemontesi, VII, 1978, n.
1, 160-172; G.P. Romagnani, Storiografia e politica culturale nel Piemonte
di Carlo Alberto, Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1985, 205
sgg.
[157] Manno, Storia di Sardegna cit., vol. III, 132. Secondo
Simon, La Sardegna antica e moderna cit., 24, «sarebbe stato
desiderabile che le note e le dissertazioni […] non contenessero tante
inesattezze, ma fossero scritte con maggiore senso critico». Più
problematico e articolato risulta invece il giudizio di Siotto Pintor, Storia
letteraria di Sardegna cit., vol. II, 288-292, che valutava positivamente i
commenti di Mameli «in molti aspetti assai commendevoli», volti a
spiegare «il senso delle oscure leggi», ma nel contempo ne
criticava «l’enorme adunamento di cose estranee» alla
trattazione, il «numero strabocchevole di note», la
«mediocrità dello stile italiano»: «sono troppe
– scriveva Siotto Pintor – le pagine del cavaliere Mameli nelle
quali intese dimostrarsi non solo legislatore e politico, ma agronomo, storico,
medico e filologo […]. Quanto meglio avrebbe il cavaliere Mameli
provveduto alla sua fama, se a luogo d’inserire nella sua pregevole scrittura
tante inutili disquisizioni di erudizione e di lingua, avesse indagato il vero
autore delle leggi tutte contenute nel codice di Eleonora? O se non un romanzo,
ma una vera storia dato ci avesse dei Giudici di Arborea?». Ma gli
appunti di Siotto Pintor erano rivolti soprattutto alla traduzione italiana e
ai numerosi svarioni nei quali era incorso Mameli: «oltre al vizio
intrinseco dell’oscurità, nascono le viete frasi e le strane
trasposizioni che non appartengono ad alcuna lingua, ma che a qualche severo
lettore possono apparire una scuola di solenne pedanteria. Tali sono il condire
acqua innanzi di S. Michele, e il cane assaltato che s’uccide mano
a mano, e i cavalli che non bastano a cavalle diece insuso, e i berbici
per pecore, e i buini per buoi», e gli esempi
potrebbero continuare.
Questi rilievi hanno
pesato nelle interpretazioni successive: F. Loddo Canepa, I giuristi sardi
del secolo XIX, in Augustea, 28 ottobre 1937, estratto, Cagliari,
Società Editrice Italiana, 1938, 40, ha affermato che l’edizione
di Mameli «per quanto utile è ben lungi dall’essere perfetta
anche per l’interpretazione, non sempre fondata, che l’autore
dà di leggi e di istituti e per le continue divagazioni su cose estranee
all’argomento».
[158] «Non di manoscritti si valse infatti il Mameli –
afferma Besta –, ma di stampe e di stampe non ottime […],
modificò spesso arbitrariamente il testo preferendo alle antiche e
originarie desinenze quelle dei tempi suoi e dei suoi tempi adottò la
grafia. Ciò comportava di già un voluto allontanamento da quella
che dovea presumibilmente essere la lezione genuina della legge: e oltre a
ciò, mentre avrebbe dovuto sforzarsi di giungere ad essa attraverso le
varianti e le scorrezioni delle stampe rinunciando a qualunque arbitrio
ricostruttivo, gli arbitrii non mancano e spesso il testo capricciosamente
modificato è diventato persino incomprensibile, né giovano a
chiarirlo e la traduzione e le note, qualche volta erudite, ma non di rado
errate per una scarsa conoscenza filologica e per poca cultura storica»:
E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in Studi
sassaresi, sez. I, III, 1903-4, n. 2, 9.
[159] Su questo periodo ancora utile risulta la lettura della vecchia
(Cagliari, Timon, 1852) opera di P. Martini, Storia di Sardegna dall’anno
1799 al 1816, a cura di A. Accardo, Nuoro, Ilisso, 1999 («Bibliotheca
Sarda», 48), di G. Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal
1798 al 1848, Torino, Casanova, 1877 (Bologna, Forni, 1978), 7-84, e di E.
Pontieri, Carlo Felice al governo della Sardegna 1799-1806, in Archivio
Storico Italiano, XCIV, 1935, n. 1, 45-220, n. 2, 187-231. Fra gli studi
più recenti A. Boscolo, M. Brigaglia, L. Del Piano, La Sardegna
contemporanea, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1974, 69-132; L. Del Piano, La
Sardegna nell’Ottocento, Sassari, Chiarella, 1984, 7-133, con ricca
bibliografia; Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda cit., 213-226, con
acute osservazioni; F. Francioni, Gli inglesi e la Sardegna: conflitti e
progetti politici nella prospettiva del crollo dell’impero napoleonico,
in All’ombra dell’aquila imperiale cit., vol. I, 235-290; Intellettuali
e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia,
a cura di G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta, voll. I e II, Oristano, Editrice
S’Alvure, 1991; G.G. Ortu, Movimenti lenti, tensioni e attese nella
Sardegna del primo Ottocento, in Storia dei Sardi cit., vol. IV,
215-242; Il soggiorno della corte sabauda a Cagliari (1799-1815), Atti
dell’incontro culturale (Cagliari, 3 maggio 1990), Cagliari, Edizioni del
Bollettino bibliografico e rassegna archivistica e di studi storici della
Sardegna, 1992; A. Mattone, Le origini della questione sarda. Le
strutture, le permanenze, le eredità, in La Sardegna cit., 5
sgg.
[160] Cfr. A. Blanc, Mémoires politiques
et correspondance diplomatique de J. De Maistre, Paris, Librairie Nouvelle,
1858, 61; F. Lemmi, Giuseppe de Maistre in Sardegna, in Fert,
III, 1931, 10.
[161] Cfr. U.G. Mondolfo, Agricoltura e pastorizia in Sardegna nel
tramonto del feudalesimo, in Rivista italiana di sociologia, VIII,
1904, n. 4, ora in Il feudalesimo in Sardegna, a cura di A. Boscolo,
Cagliari, Fossataro, 1967, 429-455.
[162] Cfr. T. Orrù, La Sardegna Stato a sé
nell’era napoleonica, in Annali della Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Cagliari, s. I, XI, 1984,
319-340, a cui si rinvia per il quadro d’insieme.
[163] Sulla Reale Società Agraria ed Economica cfr. Boscolo,
Bulferetti, Del Piano, Profilo storico economico della Sardegna cit.,
89-107; S. Serra, La Reale Società Agraria ed Economica, in La
Camera di Commercio cit., vol. I, 173-206, elusivo nei confronti dei grandi
temi dibattuti dalla Reale Società; Memorie della Reale
Società Agraria ed Economica di Cagliari, a cura di P. Maurandi,
Roma, Carocci, 2001, che raccoglie numerose memorie accademiche, anche se i
saggi introduttivi sono di modesto livello e spesso disinformati; il lavoro di
riferimento resta comunque quello di M.L. Di Felice, La Società Agraria
ed Economica di Cagliari: la scienza economica nei dibattiti accademici, in
Gli archivi per la storia della scienza e della tecnica, Atti del
convegno (Desenzano del Garda, 4-8 giugno 1991), vol. II, Roma, Ministero per i
Beni Culturali e Ambientali, 1995, 947-1017, a cui si rimanda anche per la
nutrita bibliografia e l’indicazione delle fonti.
[164] I termini del dibattito sono sintetizzati da A. Pino Branca, La
politica economica del governo sabaudo in Sardegna (1773-1848), Padova,
Cedam, 1928, 65-72; e Di Felice, La Società Agraria cit.,
989-996.
[165] L. Baille, I problemi dell’agricoltura e della pastorizia,
ora in La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di
C. Sole, Cagliari, Fossataro, 1967, 292.
[166] Cfr. E. Muscas, Memoria sulla dissenzione de’ pastori
cogli agricoltori (1805), in La Sardegna di Carlo Felice cit.,
299-304, con acute considerazioni sulla «legge patria». Sul
rapporto tra i dibattiti della Società e l’attività
legislativa cfr. Birocchi, Per la storia della proprietà cit.,
22-26.
[167] ASC, Atti governativi, vol. 11, n. 798, Editto di Sua
Maestà portante diverse providenze dirette a promuovere la piantagione
degli oliveti ed innesto degli olivi selvatici (Cagliari, 3 dicembre 1806).
Sul provvedimento cfr. Birocchi, Per la storia della proprietà
cit., 26-27; Mattone, Le vigne e le chiusure cit., 98; Da Passano, Le
discussioni sul problema cit., 431.
[168] G. Manno, Il pregiudizio dell’abitudine, pref. di P.
Maurandi, Nuoro, Poliedro, 2001, 38.
[169] In una lettera del sindaco della comunità di Ozieri al
reggitore feudale (21 febbraio 1772) si tracciava, ad esempio, un lungo elenco
dei territori chiusi, ma non autorizzati, con i nomi dei responsabili, e si
auspicava la punizione di coloro che avevano fatto le recinzioni. In
un’altra lettera dell’11 aprile 1779 il sindaco specificava la
posizione della comunità: «noi non intendiamo impugnare né
trattare di possessi antichi e proprii di particolari che con il concorso del
tempo si chiusero, se non che si occupino le terre aperte e si chiudano per
propri personali interessi i campi e le montagne»: Archivio del Comune di
Ozieri, Registro cartas.
Viceversa, negli
stessi anni, ad Alghero era stata la contessa Teresa Delarca a
«serrare» il salto di Montagnez. La municipalità fece
ricorso alla Reale Udienza che, il 20 settembre 1779, riconosceva alla
nobildonna il diritto di «ristabilire e ristorare, a suo libero
piacimento ed arbitrio, quelle chiusure che trovansi nel detto salto […]
e anche di chiudere nuovamente tutto il riferito tenimento, lasciando libera
però ed intatta la strada reale posta di mezzo di detto salto»:
Archivio Storico del Comune di Alghero, busta 790, fasc. 193, cc. 1-4. Il 20
maggio 1791 il viceré Balbiano autorizzava, dietro pagamento di cento
scudi, il censore Bartolomeo Simon a realizzare la chiusura di due appezzamenti
di terreno nella località Tercus e Giaga per
l’«utilità evidente che deve risultare a’ seminati,
agli agricoltori ed ai pastori stessi […] dalla chiusura dei narrati
terreni» (busta 793, fasc. 31). Cfr. a questo proposito anche la tesi di
laurea di A. Natale, La nascita della proprietà perfetta nel
territorio di Alghero, Università di Sassari, Facoltà di
Scienze Politiche, rel. A. Mattone, a.a. 2002-2003.
[170] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Giuridico,
Pareri del Supremo Consiglio, mazzo 17, Parere del Supremo Consiglio
sulla rappresentazione delle Comunità d’Ozieri, Oschiri e Tula
sulle chiusure delle tanche fatte senza permesso e sulla demolizione delle
medesime (Torino, 13 maggio 1818). Le tanche erano 3 ad Ozieri, 13 a
Buddusò, 2 a Pattada, 44 ad Alà dei Sardi, 25 a Nule: in tutto 87.
[171] P. Balbo, Considerazioni sul diritto dei feudatari di impedire
le chiusure (1818), in La Sardegna di Carlo Felice cit., 317-335.
«Non ho potuto vedere la Carta de Logu, antica legge di Sardegna –
ammetteva Balbo –, ma in questa pubblica biblioteca ho scoperto un libro
in lingua catalana, col seguente frontespizio: Capitols de Cort del Stament
militar de Sardenya» ( 325). Cfr. inoltre G.P. Romagnani, Prospero
Balbo intellettuale e uomo di Stato (1762-1837), vol. II, Da Napoleone a
Carlo Alberto (1800-1837), Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria,
1990, 359-367; Id., Il Parere di Prospero Balbo sui diritti signorili
in Sardegna (1818). Una proposta di riforma giuridica ed economica dei primi
anni della Restaurazione, in Intellettuali e società cit.,
vol. II, 7-17.
[172] Ivi, 327. Cfr. anche Birocchi, Per la storia della
proprietà cit., 28.
[173] Si trattava appunto del passaggio da una concezione giuridica
delle «proprietà», espressione di una «pluralizzazione
proprietaria» e degli usi collettivi, ad una concezione individuale ed
esclusiva del dominio: cfr. a questo proposito le considerazioni di P. Grossi, La
proprietà e le proprietà nell’officina dello storico,
in La proprietà e le proprietà, a cura di E. Cortese,
Milano, Giuffrè, 1988,
205-272, a cui si rinvia.
[174] G. Manno, Annotazioni storiche sulle chiusure (1818), in La
Sardegna di Carlo Felice cit., 339-340. Sulla figura di Manno magistrato
cfr. G. Siotto Pintor, Storia della vita di Giuseppe Manno, Torino,
Bellardi & C., 1869, 42 sgg.; i saggi compresi in Giuseppe Manno
politico storico e letterato, Atti del Convegno (Cagliari, 15-16 gennaio
1988), Cagliari, Edizioni del “Bollettino bibliografico e rassegna
archivistica della Sardegna”, 1989; G. Ricuperati, L’esperienza
intellettuale e storiografica di Giuseppe Manno fra le istituzioni culturali
piemontesi e la Sardegna, in Intellettuali e società cit.,
vol. I, 57-86; G.P. Romagnani, Giuseppe Manno intellettuale e uomo politico
nel Piemonte del Risorgimento, in “Fortemente moderati”.
Intellettuali subalpini tra Sette e Ottocento, Alessandria, Edizioni
dell’orso, 1999, 102-103; A. Accardo, Alcune note per la biografia di
Giuseppe Manno, in La biblioteca di Giuseppe Manno, a cura di A.
Accardo, Cagliari, Consiglio regionale della Sardegna, 1999, 15-95.
[175] Editto delle chiudende (1820), ora in La Sardegna di
Carlo Felice cit., 353-364.
[176] C.G. Mor, Le leggi sulle chiudende (1820-1839), in Atti
del II Congresso nazionale di diritto agrario cit., 65-67. Sulle chiudende
vi è una vasta bibliografia: cfr. Le Lannou, Pastori e contadini
cit., 163-165; Bulferetti, Le riforme nel campo agricolo cit., 339-344;
Del Piano, La Sardegna nell’Ottocento cit., 83-102; Sole, Premessa
a La Sardegna di Carlo Felice cit., 31-66; Sotgiu, Storia della
Sardegna sabauda cit., 266-276; Id., La Sardegna della prima metà
dell’Ottocento: i germi della contemporaneità, in Intellettuali
e società cit., vol. I, 23-42. È emersa inoltre
un’interpretazione di sostanziale svalutazione della portata
innovatrice dell’editto nell’ipotesi che la proprietà
privata fosse largamente presente nel mondo agrario sardo prima del
provvedimento del 1820: cfr. Loddo Canepa, Rapporti tra feudatari e vassalli
cit., 278-279, e soprattutto Doneddu, Ceti privilegiati e proprietà
fondiaria cit., 275-288. Cfr. Birocchi, Per la storia della
proprietà cit., 29-41, 340-350, per un’analisi giuridica
dell’evoluzione del concetto di proprietà; ed anche Mattone, Le
origini della questione sarda cit., 109-120. Per gli aspetti particolari
cfr. G. Todini, G. Murgia, Le chiudende nel territorio di Nuoro prima e dopo
la pubblicazione del regio editto del 6 ottobre 1820, in Archivio
storico sardo di Sassari, II, 1976, 25-65; I. Bussa, Le chiudende: il
problema generale e l’applicazione dell’editto del 1820 a Bolotana,
in Quaderni bolotanesi, V, 1979, 35-56.
[177] Cfr. L. Del Piano, Le sollevazioni contro le chiudende
(1832-33), Cagliari, Sardegna Nuova Editrice, 1971, 23 sgg.; G. Todde, Storia
di Nuoro e delle Barbagie, Cagliari, Fossataro, 1971, 190 sgg.
[178] Birocchi, Verso la proprietà perfetta cit., 555-556.
[179] Regolamento per la divisione dei terreni del Regno di Sardegna,
in Atti governativi ed economici del Regno di Sardegna dall’anno 1820,
vol. V, Cagliari, Stamperia Reale, 1843, 692-717; cfr. anche F. Ciuffo, Della
regia legge per la ripartizione de’ terreni di Sardegna, Cagliari,
Stamperia Reale, 1841, 13-16. Per un quadro più ampio della politica
sabauda sull’assetto fondiario sardo cfr. F. Loddo Canepa, Il
riformismo feliciano e carloalbertino, in Nuovo bollettino bibliografico
sardo, III, 1958, n. 15, 7-9; B. Montale, Dall’assolutismo
settecentesco alle libertà costituzionali. Emanuele Pes di Villamarina
(1777-1852), Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1973,
192-198.
[180] ASC, Atti governativi, vol. 11, n. 808, Editto di Sua
Maestà portante lo stabilimento di quindici prefetture (Cagliari, 4
maggio 1807). Cfr. a questo proposito M.L. Plaisant, Politica e
amministrazione sabauda fra Settecento e Ottocento, I, Le Prefetture in
Sardegna (1776-1814), Cagliari, Grafiche Elmas, 1983, 52-55, 59-74; G.
Doneddu, Le Prefetture nel Regno di Sardegna, in Archivio sardo del
movimento operaio contadino e autonomistico, n. 11-13, 1980, 133-154.
[181] Balbo, Considerazioni sul diritto dei feudatari cit., 319.
[182] Cfr. R. Camba, G. Puggioni, N. Rudas, Aspetti e motivi della
criminalità rurale sarda, in Quaderni di psicologia, n. 5,
1970, 47. Cfr. soprattutto Da
Passano, Delitto e delinquenza cit., 84-93.
[183] Archives Nationales, Archives
Etrangères, Paris, vol. 408, J.F. Mimaut, Aperçu sur
l’état actuel de la Sardaigne, sous le rapport de son
administration, de ses mœurs, de ses produits et de son commerce
(Cagliari, 23 agosto 1816), ff. 19-20. Su Mimaut cfr. I.
Calia, Francia e Sardegna nel Settecento. Economia, politica, cultura,
premessa di M. Aymard, Milano, Giuffrè, 1993, 49-50, 58-60.
[184] ASC, Atti governativi, vol. XI, n. 791, Regio editto con
cui viene istituito un consiglio supremo di revisione ed una sala di
supplicazione (Cagliari, 23 luglio 1806). Cfr. anche Da Passano, I
Savoia in Sardegna cit., 218-220.
[185] Lettera di Cristoforo Pau del 29 settembre 1806 cit. in I.
Birocchi, Il problema del riordinamento della legislazione sarda ed il
progetto di codificazione del 1806, in All’ombra dell’aquila
imperiale cit., vol. I, 205. La commissione era composta dai magistrati
Costantino Musio, Giuseppe Cossu, Ignazio Casazza, segretario Raimondo Garau.
[186] Birocchi, Il problema cit., 208-209.
[187] D. Fois, Dei delitti, delle pene e della processura criminale,
vol. I, Genova, dalla Stamperia di Giacinto Bonaudo, 1816 (ma 1817), IV. Per la
biografia del giurista sardo cfr. Birocchi, Dottrine e diritto penale
cit., 42-43; Id., Per la storia della proprietà cit., 465-471; ed
il vecchio R. Bonu, Scrittori sardi nati nel XVIII secolo con notizie
storiche e letterarie dell’epoca, vol. I, Cagliari, Fossataro, 1972,
250-261.
[188] Fois, Dei delitti cit., vol. I, V-VII, «Le leggi
patrie – scrive Fois – sono comprese nella Carta locale, nei
capitoli di corte, nelle prammatiche, nel pregone del duca di San Giovanni, nel
corpo degli Editti e Pregoni, nel Formulario, negli Editti e ordinazioni
emanati dopo il 1775, nelle Carte Reali e Regi Biglietti che conservansi negli
archivi della Reale Udienza […]. La Carta Locale, riguardata come il
Codice più antico della Sardegna, è stata in parte, specialmente
in quella della sanzione penale o abolita o modificata dalle prammatiche e
dagli editti […]. La Carta Locale – prosegue – è stata
poi anche recentemente commentata e tradotta in lingua italiana da Giovanni
Maria Mameli de’ Mannelli. Questo commento è molto erudito e
somministra molte cognizioni per lo studio delle Patrie Leggi».
[189] Ivi, vol. I, cap. VI, tit. III, par. VIII, 18. Per una lettura
generale dell’opera si rinvia a Birocchi, Dottrine e diritto penale
cit., 61-75; Id., La cultura giuridica in Sardegna nell’età
della Restaurazione. Primi appunti, in Intellettuali e società
cit., vol. I, 210-211.
[190] Ivi, vol. I, cap. VI, tit. I, sez. I, par. II, 127; vol. II, cap.
VIII, tit. I, sez. I, par. II, 37.
[191] Ivi, vol. III, cap. XIV, 127-35.
[192] «Questa legge – afferma il Supremo Consiglio in
risposta alle critiche di Fois –, rapportata nella Carta de Logu
[…], rinnovata nelle prammatiche […] e la di cui osservanza trovasi
bene spesso inculcata con nuovi editti e pregoni, anche in questi nostri
più vicini tempi, per eccitare la vigilanza e la sollecitudine
più attiva negli amministratori de’ pubblici, ella è
unicamente penale e proporzionata alla trascuranza usata nel disimpegno de’
doveri loro specialmente ingiunti di rintracciare le prove de’ delitti,
conoscerne gli autori, arrestarli e procurarne la pronta punizione, ella
è diretta a mettere un argine e prevenire le funeste conseguenze che la
frode, la negligenza, la connivenza e il favore potrebbero produrre in
disprezzo della giustizia e in pregiudizio del pubblico moltiplicando i delitti
[…]; dal che ne deriva chiaramente – è la conclusione del
Supremo Consiglio – che il fondamento della legge d’incarica non
possa trarsi dal principio adottato dall’autore, cioè dalla
garanzia delle proprietà dovuta dal governo, bensì dalla
necessità della diligenza de’ giurati nello scoprimento,
persecuzione, arresto e condanna dei delinquenti». Anche a proposito
delle prove testimoniali il Supremo Consiglio usava la mano pesante, osservando
come fosse facile «accorgersi in quale stiracchiatura» Fois cadesse
per «sconvolgere il senso e l’osservanza della patria legge»
senza «plausibile motivo» e per «puro capriccio di favorirne
gli incolpati»: AST, Corte, Paesi, Sardegna, Giuridico,
Pareri del Supremo Consiglio, mazzo 16, registro n. 23, cc. 152-152v.,
156.
[193] Ivi, cc. 171v.-172.
[194] ASC, Atti governativi, vol. XIV, n. 1028, Regio Editto
con cui si abolisce la tortura nel capo dei complici ed a mente del Regio
Editto e l’altra stabilita dalle antiche Leggi del Regno per li rei, che
si ostinano a tacere nell’atto della loro contestazione (Cagliari, 2
febbraio 1821). Cfr. a questo proposito M. Da Passano, Il diritto penale
sardo dalla Restaurazione alla fusione, in Ombre e luci della Restaurazione.
Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di
Sardegna, Atti del convegno (Torino, 21-24 ottobre 1991), Roma, Ministero
per i Beni Culturali e Ambientali, 1997, 404-405.
[195] Sui lavori di compilazione delle Leggi feliciane cfr. A.
Lattes, Le Leggi civili e criminali di Carlo Felice pel Regno di Sardegna,
in Studi economico-giuridici pubblicati per cura della Facoltà di
Giurisprudenza della Regia Università di Cagliari, I, 1909, 187-286
(su cui cfr. la recensione di U.G. Mondolfo in Archivio Storico Sardo,
V, 1909, 250-255, che considera lo studio «diligente e succoso»),
ora in La Sardegna di Carlo Felice cit., 405-509, e per la parte penale
Da Passano, Delitto e delinquenza cit., 19-70. Cfr. anche Siotto Pintor,
Storia civile cit., 160-162, con un “feroce” giudizio sul
«codice feliciano», e quello, invece, opposto di G. Manno, Note
sarde e ricordi, a cura di A. Accardo e G. Ricuperati, Cagliari, Centro di
studi filologici sardi/Cuec, 2003 (I ed. Torino, Stamperia Reale, 1868),
180-181.
[196] Cfr. Lattes, Le leggi cit., 505-506, e Da Passano, Delitto
e delinquenza cit., 40-41. «È abolita pure la pena della
così detta incarica – si legge nell’articolo 1710 della
consolidazione – solita darsi ai Comuni, od ai pastori a seconda delle
regioni, nelle quali si commettevano, né si farà più luogo
ad alcun procedimento a tal titolo».
[197] Cfr. Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna raccolte e
pubblicate per ordine di S.S.R.M. il re Carlo Felice, Torino, per Andrea
Alliana, 1827, tit. XXI, art. 315, Carta de Logu, cap. LXVIII; parte II,
libro I, tit. I, art. 1701, art. 1702, capp. I-II; tit. XII, art. 1817, cap. III; tit. XVII, art.
1838, art. 1839, cap. IX; tit. XXVIII, art. 1977, 1978, 1979, cap. CLXXIV; tit.
XXIX, art. 1990, 1991, cap. CXII; art. 1995, cap. CLXIX; art. 2002, cap. CXX. Cfr. anche Lattes, Le leggi
cit., 422-423, e il saggio di M. Da Passano, La «Carta de Logu»
e le «Leggi» feliciane, in
[198] Leggi civili e criminali cit., VI-VII.
[199] Grossi, Per la storia della legislazione sabauda cit., 203.
[200] Sulle Leggi feliciane cfr. il giudizio di Birocchi, Il
Regnum Sardiniae dalla cessione cit., 197-198, e di Da Passano, Delitto
e delinquenza cit., 43-70, per il diritto penale.
[201] Manno, Note sarde e ricordi cit., 180-181. «Le règne de Charles-Félix
fut marqué par la promulgation du Code sarde de 1827 – avrebbe
scritto Manno nel 1844 –, qui contient toutes les lois civiles et
criminelles déjà observées en Sardaigne, avec les
modifications, les changements et les additions qui étaient conformes
à l’amélioration introduite tous les jours davantage dans
les différentes branches de l’administration civile du royaume. Le
Code est remarquable dans la partie des lois civiles, par le soin qu’on a
eu de résoudre, par des lois formelles et explicites, toutes les
questions judiciaires les plus fréquentes qui, n’étant
point réglées auparavant par un texte exprès de la loi
commune ou par les dispositions des statuts, étaient abandonnées
à la jurisprudence quelquefois variable des magistrats […]. La
partie des lois criminelle est plus complète, et l’on profita de
cette reforme de lois pour en faire disparaître tous les vestiges
d’ancienne barbarie»: G. Manno, Législation de
l’île de Sardaigne, in Revue de Droit français et
étranger, I, 1844, 7.
[202] Mondolfo, Recensione a Lattes cit., 253-254; a proposito
dello studio di Lattes, Mondolfo ritiene che sarebbe stato utile
«mostrare come disposizioni delle prammatiche aragonesi e persino della Carta
de Logu, in materie in cui pure le norme giuridiche van soggette attraverso
i tempi a sostanziali modificazioni, abbiano potuto persistere accanto a
disposizioni dei codici francesi».
[203] Raccolta delle leggi civili e criminali del Regno di Sardegna,
in Giornale di Cagliari, n. 3, settembre 1827, 9-12; n. 5, novembre
1827, 9-14; n. 4, aprile 1828, 17-21 (la cit. è alla 19).
L’articolo non firmato è del magistrato cagliaritano Stanislao
Caboni, fondatore del periodico, su cui cfr. I giornali sardi
dell’Ottocento. Quotidiani, periodici e riviste della Biblioteca
universitaria di Sassari. Catalogo (1795-1899), a cura di R. Cecaro, G.
Fenu, F. Francioni, Cagliari, Regione Autonoma della Sardegna, 1991, n. 65,
134.
[204] L’espressione è dell’abate Gianandrea Massala, Sonetti
storici sulla Sardegna, Cagliari, Reale Stamperia, 1808, 173: «Questo
codice eccellente, il quale peraltro nelle leggi penali risente la barbarie e
la rozzezza di quei secoli […] fu eziandio accettato in una posteriore
assemblea del Regno, come legge generale sotto il nome di Carta de Logu
o Statuto locale». Cfr. S. Scandellari, P. Cuccuru, Un illuminista
sardo tra il XVIII e il XIX secolo, Gianandrea Massala, in Archivio
storico sardo di Sassari, III, 1977, 213-235.