N. 4 – 2005 – Contributi

 

 

Assolutismo e tradizione statutaria.

Il governo sabaudo e il diritto consuetudinario del Regno di Sardegna (1720-1827)

 

Antonello Mattone

Università di Sassari

 

 

Sommario: 1. Nel segno della continuità. – 2. L’intervento riformatore nell’isola. – 3. L’evasione dell’ordinamento consuetudinario: i Consigli comunitativi e la chiusura dei campi. – 4. Tradizione consuetudinaria e “diritto patrio”. – 5. Il crepuscolo della Carta de Logu.

 

 

1. – Nel segno della continuità

 

«La Sardegna cercava [….], in mezzo a mille difficoltà, di trovare un nuovo rapporto tra le esigenze locali e la lontana capitale del Regno sardo – quella Torino da cui giungevano viceré e professori, funzionari e giudici, ordini ed esortazioni, ispirati tutti da una curiosa atmosfera di speranza e di diffidenza, d’incoraggiamento e di sudditanza. Era, in qualche modo, pur su scala ridotta e con un metro tutto singolare, il primo rapporto tra Nord e Sud in uno Stato dell’Italia moderna»: così Franco Venturi, tracciando un profilo biografico di Giuseppe Cossu, il funzionario che, per una trentina d’anni, tra il 1767 e il 1796, era stato al centro della politica sabauda di riforme volta a «migliorare la situazione economica, amministrativa e culturale della Sardegna», valutava il complesso rapporto tra l’isola e la Dominante piemontese[1]. Si trattava di un’intuizione penetrante: la Sardegna e il Piemonte avevano infatti vissuto esperienze politiche e istituzionali diametralmente opposte. Era quindi inevitabile che l’impatto tra due mondi profondamente diversi portasse a forme di incomprensione e, talvolta, di rigetto.

Nel corso di quattro secoli la Corona di Spagna aveva impresso un marchio indelebile alla società e alle istituzioni del Regnum Sardiniae: gli Stamenti, che rappresentavano i tre ordini cetuali, si riunivano ogni dieci anni nel Parlamento generale (Curiae generales) che, approvando il donativo proposto dal monarca, avanzava nel contempo, attraverso il meccanismo pattizio del do ut des, do ut facias, una serie di richieste, i capitoli di corte, approvate a loro volta dal sovrano; le città erano gelose custodi delle franchigie economiche e degli antichi privilegi concessi dai re catalano-aragonesi; il baronaggio, specie quello residente nella madrepatria iberica, godeva nei feudi di ampie immunità amministrative e giurisdizionali; i tentativi di ricompilazione delle leggi, attuati soprattutto nel XVII secolo con le raccolte dei capitoli di corte e delle prammatiche regie e con il Pregon general del 1700, non erano riusciti a limitare il diffuso particolarismo giuridico e a comprimere la vitalità della tradizione consuetudinaria che si identificava nello statuto trecentesco della Carta de Logu d’Arborea, confermata nel 1421 ed estesa a tutti i territori feudali del Regno[2]. Era in sostanza una «monarchia mista» nella quale i poteri “assoluti” del sovrano e dei viceré erano in qualche misura temperati dal costituzionalismo del sistema stamentario e dai controlli sugli atti normativi effettuati dalla Reale Udienza, istituita nel 1564-73 come tribunale supremo ed organismo senatorio del Regno. Per un viceré spagnolo la Sardegna era dunque universo prevedibile e conosciuto: la desolazione delle campagne era simile a quella dell’Aragona o della Castiglia; l’orgoglio della nobiltà locale e le complesse procedure delle assemblee parlamentari richiamavano quelle dei regni iberici; come in Spagna, le quadrillas di banditi infestavano i caminos reales e vessavano le popolazioni dei villaggi.

Viceversa, nel decennio 1713-23 vennero realizzate in Piemonte profonde e significative riforme nell’ambito istituzionale e fiscale che favorirono l’affermazione di un sistema assolutistico, un vero e proprio Polizeistaat, fondato sulla centralizzazione amministrativa e sull’organizzazione di un’efficiente burocrazia, che richiedeva ordine e obbedienza e presupponeva la formazione di un nuovo ceto di funzionari pubblici[3]: l’editto di perequazione dei feudi contribuì a ridimensionare notevolmente il peso del baronaggio soprattutto nelle campagne; la razionalizzazione delle Segreterie di Stato e il riordinamento dell’amministrazione finanziaria, rafforzò l’autorità del governo centrale sulle realtà periferiche; con la promulgazione delle nuove Costituzioni (1723) venne varata una prima, importante consolidazione del diritto patrio subalpino[4]; infine con la «restaurazione» dell’Università di Torino fu imposto il controllo governativo sull’istruzione superiore. Era quindi per certi versi comprensibile che, nel confronto tra due realtà così diverse, un viceré sabaudo potesse sentirsi del tutto estraneo alle forme di vita e alle tradizioni del mondo sardo, che spesso, nei carteggi con la Segreteria di Stato torinese, venivano valutate in termini estremamente negativi[5]. Gli errori commessi durante la breve esperienza di governo della Sicilia erano una ferita che bruciava ancora: non a caso in questo frangente Vittorio Amedeo II si mostrò estremamente prudente, ordinando ai viceré di rispettare le leggi e le consuetudini locali.

L’atto di cessione del Regno di Sardegna dalla Spagna al Piemonte (1720) stabiliva infatti la continuità degli ordinamenti e imponeva ai nuovi dominatori l’osservanza degli antichi privilegi e statuti. Nella cerimonia di presa di possesso del Regno, celebrata nella cattedrale di Cagliari il 2 settembre, il primo viceré sabaudo, il barone di Saint-Rémy, giurò il rispetto delle leggi e delle costituzioni della Sardegna secondo le clausole dei trattati internazionali: «Juramos a Dios nuestro Señor, a Su Santissima Cruz y sagrados Evangelios con nuestras manos corporalmente tocados sobre dicho libro missal – recitava la formula del giuramento – […] de tener y observar […] qualquesquier privilegios, constituciones, capitulos de corte, pragmaticas, sanctiones, estatutos, ordenacionies, libertades, franquesas, exempciones, buenos usos, fueros, costumbres escritas o no escritas, indultos y otros qualesquier generos de concessiones y gracias […], capitulos de breu, Carta de Logu, y todas qualesquier cosas que en semejantes juramentos se ha acostumbrado jurar por los serenissimos Reyes de Aragón de imortal memoria concedidos y otorgados»[6].

L’elenco così minuzioso e dettagliato dimostra che, almeno formalmente, il nuovo sovrano non poteva derogare dal rispetto del diritto conces­so nel corso dei secoli dai re d’Aragona e di Spagna, e che comprendeva non soltanto le prammatiche e i capitoli di corte, gli statuti e i brevi, le fran­chigie e i fueros, ma anche le grazie e i privilegi individuali, le consuetudini scritte e quelle tramandate oralmente. È comprensibile come lo stesso Vittorio Amedeo II, alla vigilia della presa di possesso del Regno, inviasse una rigida istruzione al viceré: «La conformità sovra inculcatavi degl’usi pratticati […] dai viceré spagnuoli – scriveva il 20 maggio 1720 – dovrà essere anco in riguardo alle leggi, costituzioni et usanze […]. Vi accomoderete per altro alle maniere di que’ popoli e non permetterete, che si dia alcun segno di disprezzo de’ loro costumi naturali e delle loro usanze, schivando d’introdurne dell’altre tra di essi, ancorché le conoscerete migliori […]. La prima, e principal regola […] dovrà essere di non innovare, ma di lasciare nello stato in cui le troverete»[7]. Raccomandazioni ribadite anche il 10 novembre, dopo l’insediamento del viceré: «Ces maximes sont de conformer entièrement à ce que les Espagnols pratiquaient, principalement avant les troubles arrivés dans ce Rojaume […], sans les altérer; ni innover, parce que par ce moien ces peuples s’aperçevant que l’on se conforme aux usages passéz, s’accoutumerant facilement à nôtre domination»[8].

Il governo sabaudo intanto doveva fare i conti col complesso sistema degli ordinamenti giuridici di quell’isola lontana: «Le leggi particolari del Regno – afferma una Veridica rellazione anonima del 1720 –, colle quali si sentenziarono le cause sono primieramente quelle antichissime […] le quali sono in lingua sarda chiamate Carta de Logu alla riserva di tutto ciò, che non è riformato per le pragmatiche […] o per gli atti di corte; secondo in mancanza della disposizione di detta Carta de Logu, o per essere rinnovata, si giudica a tenore del disposto in esse pragmatiche o atti di corte, terzo, per le costituzioni di Catalogna communicate al Regno per privileggio; quarto in mancanza di tutto il suddetto si segue la Legge Commune. Per la più pronta e più facile verificazione de’ delitti, prigionia o arresto de’ delinquenti, si praticava in tutto il Regno per speciale disposizione e atti di corte una legge detta de la encarga»[9]. Era dunque inevitabile che i provvedimenti viceregi emanati nel primo quindicennio del governo sabaudo si adeguassero completamente alle precedenti disposizioni del periodo spagnolo e alla tradizione delle «leggi locali»: così il pregone del viceré Saint-Rémy del 17 settembre 1720 sulla proibizione del porto delle armi da fuoco e la «persecuzione e punizione de’ delinquenti» richiamava esplicitamente la vecchia normativa sull’incarica che gravava sulle comunità, «tenute a provare i delitti» e ad arrestare i colpevoli nella «forma prescritta dalla Reale prammatica e dai capitoli della carta de logu»[10]. Anche nel pregone dell’11 dicembre 1726, nel quale si proibiva l’«esazione della machizia per l’ingresso dei buoi ne’ prati e vidazzoni», ci si rifaceva all’antico «dritto della tentura», tipico della tradizione consuetudinaria del Regno[11].

D’altra parte il ministero torinese non si stancava di ripetere, come nelle istruzioni del 30 ottobre 1731 al viceré marchese di Castagnole, di non innovare nulla e di governare attenendosi strettamente alla pratica ormai consolidata del modello spagnolo: «Lo studio vostro principale sarà di seguire in ogni cosa la traccia che vi hanno lasciata li Spagnuoli da Carlo II indietro – recitano le istruzioni – […]. Vi conformerete nel resto alle leggi, prammatiche, capitoli di corte, lettere reali ed usi del Regno per quanto li troverete in osservanza…»[12]. Ma i problemi erano molto più complessi da come, da lontano, il governo di Torino spesso li valutava. In una memoria del 31 dicembre 1731 il viceré marchese di Cortanze metteva in evidenza le difficoltà per un funzionario piemontese di orientarsi tra le diverse fonti normative vigenti: «Le prammatiche, capitoli di corte, lettere reali ed usi del Regno erano osservate dai Spagnuoli, occorrendo frequentemente dispensare dagli Statuti prammaticali – scriveva al sovrano – […]. Dalle disposizioni delle lettere reali non si declina mai, né meno da’ capitoli di corte, salvo in quanto a’ questi in quei casi, nei quali si dispensa anche dalle prammatiche. Quanto poi agli usi, se questi sono inveterati, e praticati da’ tribunali e magistrati nelle città senza controversia, non vi ha dubbio che non si può da essi declinare senza aggravio, ma occorre frequentemente che in molte cose condannabili allegano il costumbre, che manca veramente di tutti quei requisiti acciò un uso abbia forza di legge»[13]. Emergeva un’aperta diffidenza verso l’antico ius municipale, considerato espressione di una tradizione autonomista contrastante con la concezione della sovranità propria di una monarchia assolutista come quella sabauda.

Anche il reggente la Reale Cancelleria e presidente della Reale Udienza, conte Filippo Domenico Beraudo di Pralormo, in una relazione del 1731 traccia un drammatico quadro della situazione dell’ordine pubblico e delle disfunzioni dell’amministrazione della giustizia nei villaggi, constatando che, nonostante le numerose «provvidenze stabilite dalla real prammatica per distruggere li banditi, che sono in considerevole quantità nel Regno […], non è mai stato possibile di poter intieramente distruggere tutti questi fuorusciti». Molti di essi, prosegue il reggente, «sono condannati per delitti gravi, massime di grassazione alla strada […], molti si riducono a far li malviventi per aver occasione di far le proprie vendette, altri abbracciano questo miserabile genere di vita, o per propria inclinazione, o per schivar la fattica e procacciarsi il modo di vivere, mantenendosi di furti e rapine, rubbando bestiami e quanto altro gli cada per le mani». La piccola nobiltà delle ville è abituata a convivere con la criminalità e si riduce a «nascostamente proteggere codesti banditi e malviventi con dargli gl’avvisi delle spedizioni che si fanno contro d’essi, partecipando poi in ricompensa de’ loro furti e rapine». L’omertà regna sovrana: «quando si viene all’atto di volerne prendere informazioni e fabbricar processi per vedere se mai riuscisse di darne una volta un pubblico esempio, tutti – osserva Beraudo – hanno la bocca chiusa, nessuno vol parlare, né si trovano testimonij che vogliano deporre per timore d’essere danneggiati dai prepotenti, o nella vita o nelli armenti». La criminalità è indirettamente alimentata dalle lungaggini dell’amministra­zione giudiziaria: a proposito delle cause penali il reggente è infatti convinto che «se ne sarebbe spedito anche un maggior numero se la maggior parte d’esse non venisse ritardata a’ motivo di certi usi e stili che si praticano con molto pregiudizio della spedizione»[14]. Gli editti, i bandi e i pregoni emanati nel primo decennio del governo piemontese, in particolare quelli di materia criminale sul porto di armi proibite, sull’ordine pubblico nelle campagne, sul contrabbando, si pongono in una linea di stretta continuità con la normativa del periodo spagnolo[15].

Un primo, significativo momento di svolta nella legislazione criminale si verifica negli anni trenta del secolo e, in particolare, durante il governo viceregio del marchese di Rivarolo[16]. Si era discusso a lungo su come reprimere i delitti più gravi. Ad esempio, a proposito dell’abigeato, considerato un «disordine altrettanto insoffribile quanto universale», il viceré marchese di Castagnole aveva informato il sovrano come in molti villaggi fosse «giunto all’ultimo grado di sua enormità […]. Poiché li delinquenti non si contentano di rubar poche pecore, ma alcuni furti restano composti di molte centinaia»: il rimedio proposto era quello dell’alloggiamento di truppe nelle «ville più infette, per intimorirle e correggerle»[17]. Il ministero torinese intendeva evitare a tutti i costi di violare le clausole dell’atto di cessione introducendo innovazioni soprattutto nell’ambito istituzionale: «Dovrete lasciare ai mentovati tribunali tutta la cognizione che loro appartiene senza nostra ingerenza – si legge nelle istruzioni al marchese di Rivarolo del 1735 – […], spettando unicamente ai magistrati l’obbligazione di dispensare la giustizia […]. Quello che può appartenervi è d’invigilare che da ognuno senza parzialità sia adempiuto il proprio dovere e che la giustizia venga amministrata con rettitudine ed esattezza»[18].

Il 12 maggio 1736 il viceré Rivarolo emana un pregone che fissa le norme per un Formolario di procedura penale. Scopo del provvedimento è «costrurre un formulario che possa servire di norma, per la formazione de’ processi criminali, affinché nell’avvenire l’imperizia o l’ignoranza non possano servire di scusa ai giudici e segretari delle curie per molti difetti che cotidianamente si ravvisano nelle cause da essi costrutte»[19]. Autore del Formulario è il giudice della Reale Udienza, il cagliaritano Francesco Cadello[20]: l’obiettivo è razionalizzare più che innovare la normativa precedente. Il Formulario infatti fornisce ai giudici criminali, specie delle curie inferiori, un dettagliato prontuario sulla ricognizione del cadavere, sul modo di riconoscere le ferite e le fratture, sull’esame dei testimoni, sul confronto tra i testi e il presunto reo, sulle verbalizzazioni, sul ruolo dei notai e dei cerusici. Nell’ampia utilizzazione della trattatistica criminale di diritto comune cinque-seicentesca, Cadello si discosta spesso dalle tradizionali disposizioni della Carta de Logu perseguendo una maggiore efficienza e celerità delle procedure, precisando la funzione dei testi e offrendo per le stesse garanzie a favore dell’imputato. Anche se viene sovente richiamata la vecchia normativa soprattutto in tema di incariche[21].

Gli strumenti repressivi adottati dal viceré Rivarolo hanno tutte le caratteristiche della politica penale d’Antico Regime: forche, attanagliamenti, esilio, spedizioni militari punitive, procedimenti sommari, arruolamenti forzati. Tuttavia, la vera svolta nella politica sabauda non sta tanto nella repressione militaresca della criminalità, quanto nella decisione di attuare una minuziosa visita generale dei villaggi e delle città, dei feudi e delle incontrade per conoscere direttamente le condizioni del Regno[22]: al di là dei provvedimenti emanati in materia agricola o penale e delle condanne dei «facinorosi», la visita del 1737 è importante per questa verifica diretta della realtà dell’ordine pubblico e dell’amministrazione della giustizia, del comportamento delle autorità locali e degli ufficiali baronali, delle condizioni delle carceri e degli archivi[23]. L’energico viceré accreditava la presenza dello Stato nei villaggi rurali, imponendo l’ordine con la «purgazione de’ malviventi», che erano a suo avviso «quasi tutti protetti da’ cavalieri o principali» e dagli stessi «ecclesiastici»[24].

Un’altra rilevante riforma fu realizzata da Rivarolo con l’editto del 15 maggio 1738 che istituiva le tappe di insinuazione (gli uffici preposti alla conservazione degli atti notarili) nelle città e nei villaggi maggiori –innovando gli antichi capitoli della Carta de Logu sul notariato –: il modello era quello già «sperimentato negli Stati di Terraferma», nell’in­tento di eliminare i «danni» e gli «abusi gravissimi» causati dalla «mancanza di archivi pubblici», garantendo con la registrazione degli atti e delle «scritture pubbliche, de’ contratti, de’ testamenti, codicilli ed altre disposizioni» la certezza del diritto[25].

Nonostante la severità della politica repressiva del viceré Rivarolo, il fenomeno criminale riesplose in tutta la sua virulenza negli anni quaranta e cinquanta. L’incremento del numero degli omicidi, delle grassazioni e dei furti viene imputato da Manno alla «fiacchezza» dei governi viceregi[26]. In realtà, la nuova ondata di crimini era il prodotto di una serie di concause: la rilevanza economica del fenomeno del contrabbando, in cui una ben ramificata organizzazione malavitosa, grazie alla complicità dei corsi, traghettava clandestinamente nelle Bocche di Bonifacio il bestiame rubato nell’isola vicina, attività che vedeva impegnate non solo quadrillas di banditi ma anche nobili e principali dei villaggi dell’Anglona e della Gallura[27]; e insieme le vendette, le lotte di fazione, l’assenza dello Stato, le carenze dell’amministrazione della giustizia baronale e, non ultima, la pluralità e la contraddittorietà delle leggi.

All’interno dei principi-guida della politica assolutistica attuata negli Stati di Terraferma, anche in Sardegna l’iniziativa legislativa era diretta manifestazione del ministero torinese e della Segreteria di Stato e di Guerra cagliaritana: gli editti e i pregoni, cioè la volontà regia e viceregia, venivano privilegiati come normativa primaria rispetto alle altre fonti della tradi­zione «patria». Le clausole dell’atto di cessione che imponevano il rispetto degli ordinamenti catalano-aragonesi e spagnoli venivano così aggirate o svuotate di significato. Ad esempio, i Parlamenti, che davano rappresentanza ai ceti privilegiati locali, non vennero più riconvocati. Dal periodo della guerra di successione spagnola si era affermata la prassi, in principio straordinaria, di far approvare l’importo del donativo annuale dalle sole prime voci dei tre Stamenti. I tentativi del 1730-31 e del 1751 di «congregare le Corti» fallirono miseramente[28]. I capitoli di corte si configuravano ormai come un retaggio del passato, espressione di un contrattualismo tra Corona e Stamenti completamente estraneo alla logica assolutistica piemontese.

In questo quadro la Carta de Logu continuò ad assolvere la sua funzione di diritto consuetudinario dei villaggi infeudati e del mondo delle campagne, reprimendo i delitti e i reati nelle regioni rurali (vendette, abigeato, danneggiamenti alle colture, incendi dolosi, etc.) e disciplinando gli antichi istituti locali (incarica, soccida, matrimonio sardesco, etc.). Anche i vecchi privilegi urbani erano ancora osservati e spesso difesi con fermezza dalle città nei confronti delle ingerenze governative[29].

Gli anni dal 1739 al 1755 costituiscono una fase di sostanziale immobilismo della politica sabauda verso la Sardegna. I provvedimenti emanati dai viceré, specie in materia penale, si limitano a rinnovare con variazioni minime i pregoni e i bandi precedenti[30]. La Reale Udienza, in una relazione del 6 febbraio 1747, presentava al sovrano un quadro davvero tenebroso della situazione dell’ordine pubblico del Regno[31]. In un parere sulle incariche della primavera del 1747 il tribunale supremo della Sardegna riaffermava ancora una volta la linea di continuità con gli ordinamenti antichi, a proposito di un istituto contestato di cui si chiedeva da tempo il «temperamento», ribadendo la «necessità dell’osservanza delle Leggi locali pria d’internarsi nello scrutinio delle modificazioni, ampliazioni co’ quelle compatibili da’ quali ritrar se ne speri qualche giovamento»[32].

 

2. – L’intervento riformatore nell’isola

 

Soltanto dopo la pace di Aquisgrana (1748) il governo piemontese iniziò a considerare sotto una luce diversa il Regno di Sardegna e a predisporre un intervento riformatore nell’isola. Artefice di questa politica fu il conte Giovanni Battista Lorenzo Bogino, un esponente della nobiltà di toga emersa durante il regno di Vittorio Amedeo II, cui dal 1755 fu affidato l’incarico degli affari di Sardegna[33]. Sotto la sua guida venne acquisito il maggior numero di dati, di notizie e di informazioni sulla realtà dell’isola che, inseriti e rielaborati in ampie relazioni e in dettagliati memoriali  potessero fornire tutti gli strumenti per una nuova politica di riforma. Il Regolamento per il governo della Sardegna, emanato da Carlo Emanuele III il 12 aprile 1755, appare come il tipico provvedimento legislativo di un periodo di transizione: da un lato, infatti, guarda al nuovo e recepisce le esigenze di funzionalità e le istanze di centralizzazione che avevano caratterizzato i provvedimenti sabaudi per gli Stati di Terraferma; dall’altro appare ancora condizionato da tutta la normativa ereditata dal periodo spagnolo. In ossequio alle clausole dell’atto di cessione il Regolamento ribadisce formalmente l’«osservanza» delle leggi del Regno, prammatiche e capitoli di corte, insieme agli «Statuti» (fra cui, appunto, la Carta de Logu), agli «stili» e alle «consuetudini» del passato (cap. 3). Anche in materia criminale il Regolamento risulta contraddittorio: da un lato, infatti, ammette la concessione di guidatici e salvacondotti ai delinquenti che avessero favorito l’«arresto» di «altri rei» (cap. 12), dall’altro, invita il viceré a mostrarsi «sempre vigoroso ed inflessibile contro de’ banditi e malviventi, con eccitare il zelo del Real Consiglio, non meno che degli altri tribunali e fiscali, contro di essi» (cap. 18): il viceré deve «invigilare» affinché la «giustizia sia amministrata con tutta rettitudine […] ed esatta spedizione e particolarmente de’ processi criminali» (cap. 27). Una particolare attenzione viene sollecitata nei confronti delle sentenze delle curie baronali (cap. 17)[34].

L’intervento riformatore venne accuratamente preparato in un arco di tempo che va dal 1755 al 1758, durante il quale tutte le informazioni disponibili, tutte i piani elaborati, tutte le memorie e i progetti furono discussi nel corso di numerose riunioni di giunta cui parteciparono, oltre il ministro, i magistrati del Supremo Consiglio di Sardegna, i funzionari ministeriali e l’ex-viceré conte di Bricherasio. Nel 1758 l’avvocato Antonio Bongino, funzionario della Segreteria di Stato e di Guerra torinese, venne incaricato di redigere un ampio memoriale capace di sintetizzare le posizioni e gli interventi emersi nel corso delle riunioni di giunta e le diverse relazioni o i memoriali acquisiti su problemi come la crescita della popolazione, lo sviluppo dell’agricoltura e del commercio, l’introduzione delle manifatture e delle arti, l’amministrazione della giustizia. Le tematiche giuridiche occupano peraltro una posizione di fatto marginale rispetto ai grandi problemi economici e demografici. La relazione si sofferma soprattutto sulla grave situazione dell’ordine pubblico nelle ville, sulle disfunzioni della giustizia baronale, sulla necessità dell’avocazione dei processi criminali dalla Reale Udienza: «li più frequenti abusi nell’amministrazione della giustizia ed il numero maggiore de’ delitti» si verifica, secondo Bongino, nei feudi e in particolare in quelli dei baroni spagnoli, dove i «reggidori non risiedono nella giurisdizione ed anche risiedendovi non vegliano perché dagl’ufficiali e ministri di giustizia delle ville si adempia ai loro doveri e siano prontamente arrestati li banditi ed altri malfattori». Nelle riunioni di giunta il conte di Bricherasio aveva avanzato una proposta radicale («il mezzo più opportuno e forse l’unico per poter agire colle mani sciolte, sarebbe quello di far l’acquisto de’ feudi de’ baroni che fanno il loro continuato soggiorno in Ispagna»). Ma il ministero, vuoi per le clausole dell’atto di cessione, vuoi per l’alto costo finanziario dell’eventuale intervento (i feudi in questione comprendevano circa la metà dell’intero territorio dell’isola) lasciò cadere la proposta[35].

Il conte di Bricherasio aveva prospettato inoltre «alcune cose intorno all’amministrazione della giustizia» (a proposito delle procedure, della lungaggine dei processi, delle condizioni delle carceri, dell’inesperienza o della malafede dei giudici baronali) destinate ad ispirare l’impianto dell’editto del 13 marzo 1759 che riformò l’ordinamento giudiziario del Regno[36]. Si tratta di un provvedimento con finalità eminentemente pratiche, volto a dare soluzioni positive ad una serie di questioni relative sia al diritto penale sostanziale, sia a quello processuale, affrontate senza alcuna impostazione sistematica. L’editto mirava ad assicurare una più oculata «scelta de’ ministri ordinarii delle curie», una «più temuta e rispettata giustizia vendicativa» ispirata al valore deterrente della pena («le pene contro i delinquenti» sono «istituite non tanto a castigo loro per la pubblica vendetta, quanto anche per contegno degli altri»), una maggiore «rettitudine e celerità» nella «costruzione de’ processi»[37]. Si intendeva cioè razionalizzare e rendere più efficiente la macchina giudiziaria, eliminando disfunzioni ed abusi e controllando le curie baronali, ma senza introdurre innovazioni significative rispetto al complesso della normativa criminale vigente, costituita dalle prammatiche, dal Pregon general del 1700 e dalla Carta de Logu.

A ragione, Mario Da Passano ha parlato per il diritto penale del Settecento sardo di un «riformismo senza riforme»[38]. A differenza, infatti, di altre esperienze come quelle della Toscana, della Lombardia del Trentino, dell’Austria, che nella seconda metà del XVIII secolo attuano la mitigazione delle pene e l’umanizzazione del procedimento, giungendo talvolta all’abolizione della tortura e della stessa pena di morte, la dottrina penalistica sarda resta comunque tenacemente attaccata alle regole e ai modelli del passato[39]. Anche in Francia, però, dove circolavano le idee illuministe ed erano state accolte favorevolmente le tesi di Cesare Beccaria, per tutta la seconda metà del secolo le leggi penali restarono – come osservava Federico II di Prussia – di «un rigore terribile», con largo uso di sentenze capitali anche per reati di modesta entità, di forche, arrotamenti, berline, pene corporali, galera, deportazioni nelle Americhe[40].

L’efficacia concreta di un editto come questo così timido nei confronti della giurisdizione baronale, dovette essere ben modesta, se nel 1773 l’avvocato Pierantonio Canova, primo segretario del ministero boginiano, poteva affermare che «i provvedimenti emanati colla prammatica del 1759 tolti non avevano per anco tutti gli ostacoli che praticamente incontravansi a rendere pronta ed esatta giustizia»[41]. Ad integrazione del provvedimento del 1759 venne emanato il 24 febbraio 1765 anche un altro editto, che aveva lo scopo di rendere meno farraginoso l’iter dei processi civili e criminali[42]. Però le linee di fondo della legislazione penale sabauda del secondo Settecento non mutarono, come d’altra parte restarono in gran parte insoluti i gravi problemi del banditismo e della criminalità rurale[43].

Dagli atti della visita generale del Regno compiuta nel 1770 dal viceré Hallot Des Hayes emerge nettamente la vitalità di usi e di antiche costumanze, sovente recepite dal diritto consuetudinario e, in particolare, dalla Carta de Logu. Ad esempio, nel villaggio barbaricino di Sarule i «ministri di giustizia […] sempre fanno uccidere il bestiame per segno di tentura, quando si può tenturare vivo»; a Ploaghe, nel circondario di Sassari, il bestiame degli ufficiali baronali danneggia la vidazzone: la comunità aveva nominato due «deputati» per «invigilare sul bestiame di detti ministri con autorità di tenturarlo e fare loro pagare le macchisie e danni»[44]. Continuarono a essere assai frequenti quei devastanti sconfinamenti di bestiame nei campi coltivati che la normativa statutaria locale tentava di reprimere sin dai tempi del trecentesco Codice rurale di Mariano IV d’Arborea: nella villa di Bono, in Goceano il viceré può riscontrare il «gran danno che in ogni anno cagionano li pastori, anche nel prato [cioè nel terreno comunitario] col loro bestiame selvatico»; a Benetutti le «pecore fanno molto danno ai seminati»; a Sedini, villaggio dell’Anglona, i «seminerj vengono in parte dannificati dal bestiame»; a Norguiddo (oggi Norbello), nell’Oristanese, la «bidatoni va in deterioramento a cagione del bestiame […], mentre li pastori forestieri […] cagionano infinito danno»; a Cuglieri, nel circondario di Bosa, invece i «seminati sono bene custoditi da quattro bidazonargi» e non vi è «chi usi di prepotenza»[45].

Nonostante gli incentivi e i sostegni delle autorità governative alle attività agricole, la cerealicoltura trova spesso ostacoli al suo sviluppo: nel villaggio di Thiesi nel Meilogu il viceré osserva che la «vidazzone è alquanto ristretta» per i «lavoratori» (i labradores, cioè i produttori agricoli) e «sebbene si abbia rappresentato» al feudatario di «slargarla non ha avuto effetto a motivo che i pastori di alcuni cavalieri lo impediscono». Il viceré segnala inoltre numerosi conflitti tra i villaggi sull’esercizio dei diritti collettivi sul pascolo: la villa di Seui nella Barbagia di Seulo ha una «lite vertente con quella di Estercili nella Reale Udienza per certa promiscua pretesa ne’ territorj» e nei salti; quella di Nule è in lite con Benetutti e con Pattada, quella di Nulvi con Osilo, quella di Dualchi con Silanus e Bortigali, e via dicendo. Il villaggio logudorese di Mores ha in atto una controversia col barone per il contestato esercizio del diritto ademprivile del ghiandatico nei boschi del demanio feudale[46].

Nel villaggio di Orotelli il viceré rimase colpito dall’antica usanza di fidanzare, anche per atto notarile, gli impuberi nella più tenera età («vidde […] varie ragazze che nella tenera età, in cui erano di 7, 8, 9 e 10 anni già si trovavano vincolate in matrimonio»), permettendo loro la convivenza anche tra chi non fosse ancora marito e moglie; egli «prese a rimproverare un simil assurdo costume, imponendo […] a non più proseguirlo, con avere frattanto mandato separarsi da ogni consorzio tali immature spose»[47].

Gli ordinamenti di governo dei villaggi sono ancora quelli disciplinati dalla Carta de Logu: a Mandas, villa piccinna di 1.816 abitanti nel censimento del 1771, la «comunità nomina cinque prouomini, questi fanno la terna di tre soggetti, da prescegliersene uno dal reggitore», rappresentante del signore feudale; «ciò fatto si congrega la comunità per gli atti di procura al nuovo sindaco, che si mette immediatamente al possesso, in seguito al dispaccio che spedisce il reggidore, ossia la Curia maggiore». A Pauli Gerrei il «marchese feudatario presceglie il più capace» della terna ed «a questo viene conferta dalla comunità la procura per poter agire in nome del pubblico». A Pattada invece il reggitore sceglie «quello che ha avuto maggiori voti» dalla comunità. A Sarule il «sindaco vecchio forma a suo piacere e degli eletti la terna, indi si congrega la comunità senza permesso di superiore per la nomina del nuovo sindaco. Gli eletti col sindaco anteriore propongono la terna alla comunità giuntata, la quale o l’approva, o la rifà a suo piacere, poscia si rimette al reggidore e questo dei tre, elegge quello che meglio gli piace». Ad Ozieri, villa manna di 5.210 abitanti nel censimento del 1771, il reggitore feudale «nomina 9 prouomini di quelli che hanno esercitato alcun impiego, tre di ogni qualità; questi formano la terna e viene votata dalla comunità congregata per tal’effetto, con permesso, e chi risulta avere maggiori voti, viene eletto e serve di sindaco»[48]. La comunità e gli amministratori sono ancora soggetti all’antico istituto dell’in­carica e al pagamento della relativa penale: «il denaro viene esatto da’ collettori nominati dalla curia – osserva il viceré nella villa di Senorbì – […] se trattasi di causa d’incarica li collettori pagano l’importare di questa a’ ministri di giustizia».

Il reato più diffuso è l’abigeato. Ad Orani, i «seminati sono ben custoditi dai barrancelli, commettendosi bensì molti furti di vache, bovi e cavalli dai malviventi»; ad Orotelli «li vassalli sentono il pregiudizio di frequente furto di bestiame», che «si attribuisce alle ville vicine» di Bottida, Bultei, Bono e Benetutti; proprio i delinquenti di Benetutti «continuamente vanno nel territorio di Nuoro a commettere furti massime di bestiame». Nel Capo di Sassari l’abigeato alimenta il contrabbando con la vicina Corsica: ad Ozieri «li bovi manzi non arrivano a 3 mesi per cagione del frequente furto, di cui li ladri vendono e trasportano l’accennato bestiame nelle altre ville»; a Berchidda «vi sono discoli e diffamati, li quali abbenché si siano absentati dalla villa, se ne ritornano e rubano quanto possano, massimamente il bestiame». I vassalli di Santu Lussurgiu si lamentano col viceré di «non essere ascoltati in giudizio dai ministri di giustizia» e, in particolare, che «sendo molto frequenti e considerevoli furti de’ bestiame, ancorché si proceda alla costruzione degli atti ed alla carcerazione dei delinquenti, si vedono tosto in libertà»[49].

La relazione viceregia sottolinea come siano spesso i nobili e i «principali» dei villaggi, per non ricevere danni ai propri fondi e al proprio bestiame, ad accordare protezione ai malviventi e ai banditi: a Tortolì il sindaco stigmatizza coraggiosamente la «negligenza dei ministri ordinari» che «di tanti frequenti omicidj e furti non si curavano di averne le prove e di arrestarne li delinquenti per riflesso degli impegni di que’ cavalieri, li quali oltre di regolare li predetti ministri proteggevano li malviventi, discoli ed oziosi, che in tale qualità venivano diffamati per ladri […], li quali tutti passeggiano pubblicamente nella villa»; a Nuoro il viceré, informato che «a varj principali della villa s’imputasse di proteggere malviventi», li convocò e «minacciandoli le più rigorose pene, intimò loro di astenersi da una tal prottezione»[50]. Le connivenze non riguardano solo il mondo dei villaggi: il ministro Bogino resta infatti scandalizzato dal comportamento di un magistrato, il dottor Salvatore Scardaccio, proavvocato fiscale patrimoniale, accusato di aver dato aiuto e asilo al cavalier Carta della villa di Bortigali, evaso dalle carceri di Sassari[51].

A preoccupare il governo piemontese sono soprattutto gli omicidi, gli scontri di fazione e le vendette. Nel 1767 Bogino rimane impressionato dall’abnorme aumento degli omicidi, segnalato dal viceré: «nel breve spazio di quattro mesi se ne conterà ben da cento e più»[52]; nel 1770, a pochi mesi dall’inizio della visita di Des Hayes, il numero dei delitti resta sostanzialmente costante: il 10 gennaio il ministro scrive al viceré che la serie di «omicidj proditori», compiuto in un breve arco di tempo, è «cosa che mi ha stordito ed ha fatta non minore impressione nella Maestà Sovrana»[53]. Nel Ristretto, redatto all’indomani della conclusione della visita, Des Hayes scrive: «La vendetta può dirsi innata ai regnicoli, spezialmente nel Capo di Sassari o nella Gallura, dove quegli abitanti, per altro di spirito finissimo, sono capaci di qualsivoglia scelleratezza […]. Non è meno potente la loro propensione ai furti, ma sui cammini però assai meno che costà in Piemonte. Il più sta negli abigeati, o abduzion di bestiame parte per essere condotto alle marine particolarmente della Gallura e parte per servir di vivanda»[54].

Ad Ilbono, villaggio della Barbagia di Seulo, Des Hayes compone una faida tra alcune famiglie, fonte di «forti inimicizie», con un singolare atto notarile: «hanno perciò fatto e sottoscritto l’atto di pace colla reciproca obbligazione di mai offendersi né in fatti né in parole, né direttamente né indirettamente a pena di 500 scuti per ognuno che venisse a contravvenire». Ad Oschiri apprende dell’esistenza dell’«inimicizia» tra i fratelli Tarras Sircana «per cagione dell’omicidio di Giò Tarras con li fratelli Bua»[55]. Nel corso della visita il viceré può annotare i nomi di 413 malviventi, «discoli», «diffamati per ladri» e oziosi, di cui soltanto 10 sono detenuti in carcere, mentre gli altri si sono dati «alla macchia»[56].

Anche le pene nella loro esemplarità riprendono quelle, pur mitigate nell’età spagnola, previste dalla Carta de Logu e dagli statuti locali. A Mandas, ad esempio, i magistrati che accompagnano il viceré, esaminando le cause criminali inevase presso la curia baronale, scelgono quella contro Vincenzo Abis accusato di «furto domestico»: il reo, col procedimento «economico», viene condannato alla «fustigazione», che viene «eseguita con profitto di quella villa per il terrore che incusse nel pubblico a contegno de’ delinquenti»[57]. D’altra parte lo stesso Des Hayes aveva scritto l’anno precedente a Bogino: la «fustigazione in questo Regno è più temuta della pena di morte, credendosi che ad essa soltanto sia allegata l’infamia»[58]. A Sassari, presso il tribunale della Reale Governazione, Gavino Puggioni viene condannato a dieci anni di galera per numerosi furti, «previa tortura, fustigazione e marca» (la marchiatura col ferro rovente, secondo l’antica pena prevista dagli statuti della città). Fra le condanne si distingue quella capitale di Giuseppe Mulas di Bultei «per l’esemplarità dell’affission del capo in luogo eminente all’entrata di detta villa per grassazione»[59].

Sino al 1827 il retaggio medievale dell’infissione della testa mozza, dell’attanagliamento o della marchiatura con ferri roventi, dello squartamento e dell’«abbruciamento» del cadavere del reo, il «baccio al piè del patibolo», cioè il bacio della forca da parte dei condannati alla galera a vita, le esecuzioni nelle pubbliche piazze che richiamavano gran «concorso» di popolo, fu usuale pratica giudiziaria[60]. Nel febbraio del 1821, durante una delle sue prime «escursioni» all’interno dell’isola per realizzare le rilevazioni della carta geodetica, il giovane ufficiale piemontese Alberto Ferrero della Marmora, mentre in una notte tempestosa stava per  entrare nel villaggio di Domusnovas nell’Iglesiente, sentì «sul viso qualcosa di sconosciuto» che in «un certo modo» gli avvolse «tutta la faccia»: «io mi girai – racconterà nel 1860 –, sollevando lo sguardo e quale non fu il mio stupore nel vedere inchiodata su una trave una testa umana la cui lunga e ampia capigliatura di donna cadeva e si agitava spinta dal vento […]. In quel momento un lampo proiettò una viva luce sull’orribile testa che stava a mezzo piede di distanza dalla mia; così per mezzo secondo riuscii a distinguere quelle guance disfatte e cadenti, quegli occhi scavati e quella bocca aperta che mi facevano una smorfia spaventosa»[61].

La relazione della visita generale mette lucidamente in rilievo insufficienze, abusi, inadeguatezze dell’amministrazione della giustizia nei feudi. A Bitti, ad esempio, il ministro baronale ha «molti parenti che sono reputati discoli», e nessuno ha il coraggio di «deponere contro i medesimi». A Bono il viceré resta impressionato dal «cattivo stato del Contado del Goceano tanto nell’amministrazione della giustizia pella sua languidezza, che in altre cose riguardanti il pubblico». A Noragugume il delegato e lo scrivano «non vanno mai a tenervi udienza, se non dopo mesi e mesi, e quando vi si trasferiscono esigono eccessivi dritti». Gli ufficiali dei Campidani risiedono ad Oristano, «con detrimento dell’amministrazione di giustizia» dei villaggi. A Tuili l’attività giudiziaria «resta appoggiata a un ministro ignorante e a un notaio […], in grave pregiudizio di quel pubblico»[62]. Gli archivi delle curie che conservano i fascicoli processuali sono spesso nel più totale disordine: talvolta i ministri di giustizia non hanno a disposizione neppure la normativa vigente, come a Ploaghe, dove si è riscontrata l’«irregolarità» della «mancanza di alcune leggi riguardanti l’amministrazione della giustizia, come il Formolario del marchese di Rivarolo», l’«editto del 1759, del 1765, li registri d’entrata e d’uscita de’ prigionieri e delle sentenze». A Perfugas si è «trovata la curia sprovvista delle prammatiche e di alcuni pregoni». A Castelsardo gli atti processuali sono «in potere dello scrivano e con poca cautela consignarsi dagli attuali ai successori». Nella città di Bosa mancano le «prammatiche, pregoni, editti e molti registri», e di conseguenza vige l’abuso di non adoperare le «debite cautele prescritte dalle leggi del Regno per evitare i furti»[63].

Le carceri baronali sono quasi sempre in pessimo stato. A Bultei si sono trovati «venti sette detenuti» che «appena vi potevano stare, patendovi infinitamente la loro salute per via dell’alito rinchiuso e ristretto, mentre non vi è che una piccola finestra di poca larghezza». In genere i baroni si rifiutano di provvedere al vitto dei carcerati: ad esempio, ad Ozieri «li prigionieri vengano mantenuti dai loro stessi averi e li poveri dall’elemosina, non somministrandosi loro alcuna razione, e perciò molte volte il carceriere li conduce per le strade a dimandare la carità». A Uri c’è «una piccola prigione in pessimo stato, assomigliante a una grotta»[64].

Per certi versi speculare alla relazione sulla visita viceregia è l’ampio memoriale redatto nel 1768 da un funzionario governativo, il dottore Vincenzo Mameli de Olmedilla, viceintendente per il Capo di Sassari e di Logudoro, degli estesi feudi degli Stati di Oliva, che comprendevano il Ducato di Monteacuto, il Principato di Anglona, il Marchesato del Marghine, la Contea di Osilo e Coghinas, della famiglia spagnola dei duchi di Benavente e Gandía. Il 21 gennaio 1768 il tribunale del Regio Patrimonio aveva riconfermato alle duchesse di Benavente la concessione feudale delle incontrade, sequestrate dal fisco nel 1740 per una successione contestata[65]; nel 1769 Mameli consegnava la sua relazione sullo stato dei feudi all’intendente generale del Regno, l’avvocato Felice Cassiano Vacha, e al console di Spagna, don Giovanni Cesare Baille, procuratore delle duchesse, in occasione della nuova presa di possesso dei signori iberici.

Dalla memoria emerge un fosco quadro della giustizia feudale. A proposito del grosso villaggio di Ozieri, capoluogo del Ducato di Monteacuto, Mameli scrive che «da sei anni a questa parte non vi è causa criminale che si porti a termine, siano o no arrestati i colpevoli, per cui nessuno più denuncia alla giustizia qualsiasi pregiudizio o danno che gli si faccia, poiché mai si ottiene soddisfazione e i malfattori liberati, poi maggiormente si vendicano di coloro che li avessero denunciati». Questo «disordine» viene attribuito alla malafede e talvolta alla complicità dei ministri di giustizia, ma soprattutto alla loro «ignoranza, poiché non vi è nessuno di essi capace di trattare una causa o istruire un processo e tutto viene fatto dal notaio, che da solo interroga, esamina e stende la deposizione dei testi senza la loro presenza». In tutto il Monteacuto «la lamentela riguardante l’amministrazione della giustizia è generale e più notevole che nel Marchesato del Margine, perché sono governati peggio, anzi oppressi dal maggior numero dei ministri, i quali non pensano che sia stato dato loro l’impiego per amministrarla bene, ma per vivere a spese di ciò che passa nelle loro mani e per migliorare le proprie condizioni a forza di guadagnare in ogni parte». È inevitabile, quindi, che le composizioni per i delitti «siano frequenti nella curia maggiore [cioè quella del Ducato] e in quella di Ozieri»[66]. Anche nel villaggio di Perfugas, scrive Mameli, «vi sono grandi lamentele, forse più che negli altri villaggi, nei confronti del cattivo comportamento dell’ufficiale dell’Anglona, il quale avendo qui i beni, parenti e amici, maggiormente usa del suo arbitrio e del suo interesse a favore di essi e a danno degli altri», proteggendo banditi e latitanti, in particolare quelli del Sasso di Chiaramonti. «Sono veramente scusabili i ministri di giustizia nelle presenti circostanze – constata amaramente il viceintendente –, se non si espongono e si comportano con precauzione nei confronti dei banditi e malfattori, poiché altrimenti diventerebbero vittime»[67]. A Bolotana, ad esempio, dopo che due luogotenenti di giustizia sono stati uccisi il «reggitore non ha potuto più trovare qualcuno che volesse le loro patenti»[68].

Un «buon sistema di amministrazione della giustizia, con la quale meno gente deve morire a causa dei delitti», la sicurezza nelle campagne a protezione delle coltivazioni e del patrimonio zootecnico, la dura repressione delle quadrillas di banditi e dei malfattori dediti ai furti e agli abigeati, l’introduzione di «una migliore pratica dell’agricoltura» e della «coltivazione dei prati» sono, secondo Mameli, i fattori che potrebbero costituire il «mezzo per accrescere la popolazione, che oggi proporzionalmente più si moltiplica», e per sviluppare le potenzialità economiche dell’isola, con grande vantaggio per le finanze del Regno[69].

Mameli è ben consapevole di tutte le ipoteche negative dovute all’incidenza della tradizione consuetudinaria e in particolare dei diritti collettivi delle comunità: negli Stati di Oliva, osserva, non vi è «proprietà di territorio appartenente a ciascun villaggio, essendo lecito a qualunque abitante di qualsiasi villa di un feudo il pascolare, seminare, far legna e utilizzare tutti i vantaggi, dei quali possono godere gli abitanti di un altro villaggio in ogni località della stessa giurisdizione feudale». In sostanza non vi è «distinzione di proprietà fra una comunità e l’altra, se non nelle località destinate al pascolo del bestiame domito, chiamato prato e nella terra coltivata ciascun anno chiamata vidazzone». Per le confinazioni si distinguono soltanto i limiti fissati dalle incariche, cioè il distretto nel quale la comunità esercita la propria giurisdizione, rilevati dai maggiori di giustizia, dai giurati del villaggio e dai barracelli. Tuttavia, di fronte alla gravosità dell’incarica sorgono sempre dispute tra i villaggi per la «pretesa di un più piccolo o più grande distretto, per cui non è possibile conoscere con certezza i limiti di ciascuna villa rispetto a quelli di un’altra della medesima giurisdizione signorile, particolarmente nei territori più lontani e soggetti ai delitti, se non è che si proceda giuridicamente e in contraddittorio tra i confinanti alla verifica dei confini»[70].

Mameli critica inoltre severamente un’altra eredità del diritto statutario del Medioevo sardo: gli ordinamenti amministrativi del villaggio. Per antica consuetudine la comunità, composta da tutti i capifamiglia, veniva riunita dall’ufficiale baronale nella piazza del villaggio per eleggere i probi homines e presentare al feudatario o al suo reggitore una terna di tre nomi in base alla quale il signore, o il suo delegato, avrebbe scelto il sindaco. Queste assemblee si rendevano necessarie non solo per la nomina del sindaco, del maggiore di giustizia e del capitano dei barracelli, ma anche per intentare una lite e per la contribuzione ad alcune spese. Il meccanismo elettorale – come emerge dalla visita di Des Hayes – variava spesso da villaggio a villaggio. Nelle ville ad economia pastorale, «trovandosi lontano col proprio bestiame per una parte dell’anno», raramente i pastori lasciavano le greggi e le famiglie per «attendere alle riunioni» comunitative. In queste «congreghe», poi, la comunità, vedendo che «di solito non si decide ciò che desidera, ma ciò che vogliono i più muniti di procure riuniti d’intesa con i ministri di giustizia, disgustata – afferma Mameli –, non partecipa con piacere e con la opinione che il suo voto non serva e che non importa darlo, […] né ha più attaccamento al bene pubblico, il quale soffre da tale consuetudine, che peraltro è comune a tutti i villaggi del Regno, ed è un grandissimo inconveniente e estorto ai poveri pastori e agricoltori»[71].

Mameli enumera tutte le irregolarità che ha potuto riscontrare di persona. A Ozieri il reggitore feudale, non riuscendo a riunire la comunità, ha nominato a proprio arbitrio i nove probi homines i quali, a loro volta, hanno eletto il sindaco e il delegato di giustizia. Le comunità si riuniscono raramente e il più delle volte «non è scrupolosamente verificata l’asserzione che si è riunito il numero necessario, che viene scritto dai notai negli atti e non sono rari gli abusi che si commettono per ingannare il pubblico, mentre non si fa nulla con esattezza e scrupolo»[72]. Queste irregolarità, afferma, sono «comuni in tutta la Sardegna, la quale necessariamente abbisogna di una riforma anche relativamente al modo col quale si governano le comunità dei villaggi e di un regolamento uniforme per tutte[73].

 

3. – L’eversione dell’ordinamento consuetudinario: i Consigli comunitativi e la chiusura dei campi

 

La riforma dell’amministrazione della giustizia baronale e dei Consigli comunitativi era un impegno ormai inderogabile per il governo sabaudo. Con la visita generale del viceré Des Hayes erano state d’altra parte recepite tutte le lamentele delle comunità e dei vassalli e acquisite tutte le informazioni necessarie sulle eccessive esazioni dei diritti baronali, sugli abusi dei ministri di giustizia, sulla mancata residenza dei reggitori dei feudi, sull’abigeato e sulla criminalità che colpivano duramente l’economia dei villaggi. Il 6 agosto 1770 si concludevano intanto i lavori della giunta cagliaritana incaricata di analizzare le disfunzioni della giustizia baronale con una memoria sostanzialmente articolata in cinque punti, espressamente indicati dallo stesso ministro Bogino, relativi alla nomina dei reggitori da parte dei feudatari residenti in Spagna, all’inosservanza dell’obbligo di residenza semestrale nei feudi, alle esazioni indebite effettuate durante le visite nei villaggi, alla durata dell’incarico, alla scelta per ufficiali di giustizia di «soggetti di poca capacità e men buona condotta». Il parere della giunta era che la residenza del reggitore nel feudo fosse «inutile» e «gravosa a’ sudditi», che dovevano accollarsi le spese della sua permanenza e, in definitiva, «di pregiudizio alla retta giustizia»: risiedendo a Cagliari, invece, il reggitore sarebbe stato in grado di controllare l’attività degli ufficiali di giustizia delle diverse curie, che gli avrebbero dovuto trasmettere tutti gli atti sullo stato delle cause e sulla vita del feudo. Anche sugli altri punti le conclusioni della giunta appaiono scarsamente innovative, tese per lo più a razionalizzare l’esistente[74].

Ben più avanzate erano le opinioni del ministro Bogino che non esitò a criticare la memoria della giunta, che gli appariva non «suscettibile di adeguato provvedimento» per sanare i mali della giustizia e per proteggere i «poveri agricoltori» dagli abusi e dalle angherie. Egli ipotizzava la costituzione di un corpo di reggitori organico agli interessi governativi, soprattutto nell’ambito della giustizia e dell’ordine pubblico. Se la giunta aveva proposto l’abolizione della residenza, il ministro era per la sua conservazione e addirittura ne immaginava il potenziamento, là dove la memoria pareva voler «coonestare l’abuso dell’inadempimento de’ reggitori»[75].

Sulle conclusioni della giunta cagliaritana, il parere del Supremo Consiglio di Sardegna mostra, consapevole forse dei limiti imposti dalle clausole dell’atto di cessione, soltanto qualche cauta apertura, limitandosi a ritoccare la normativa vigente, ad esempio, nel prevedere un esame per i giudici baronali e l’adeguamento del salario dei ministri di giustizia per evitare che potessero rifarsi sui vassalli[76]. È probabile che il disegno del ministro, che aveva ben presente l’esperienza piemontese dell’avocazione dei feudi (1719-20) col netto ridimensionamento delle prerogative nobiliari, fosse quello di arrivare a realizzare un sistema feudale fortemente temperato nelle sue immunità giurisdizionali e rigidamente controllato dallo Stato attraverso la costituzione di un corpo di reggitori (che di fatto finivano per operare come funzionari pubblici ligi agli interessi della Corona), la riorganizzazione e la razionalizzazione delle curie di prima e di seconda istanza, la valorizzazione delle comunità di villaggio nel loro ruolo di struttura di contenimento degli abusi baronali[77].

Ben più “eversivo” nei confronti degli ordinamenti della Carta de Logu e delle stesse clausole dell’atto di cessione risulta l’editto del 24 settembre 1771, che riformava i consigli comunitativi e introduceva una regolamentazione stabile e unitaria per tutto il Regno. Il provvedimento fissava il numero dei consiglieri – sette nei villaggi oltre i duecento fuochi fiscali, cinque in quelli con una popolazione tra i duecento e i cento fuochi, tre nelle ville con meno di cento fuochi – scelti tra i «tre consueti ordini di persone, primo, mezzano ed infimo», rappresentativi di «tutti e tre ordini» sociali[78]. Il meccanismo elettorale prevedeva che la nomina dei consiglieri fosse espressa dall’assemblea dei capifamiglia di ciascun villaggio riunita alla presenza dell’ufficiale di giustizia e notificata con bando pubblico. Il consigliere del «prim’ordine» che avrebbe avuto «per se maggior numero di voti» sarebbe stato eletto sindaco: l’incarico era annuale. Fra le sue prerogative vi era quella di «radunare il consiglio», che rappresentava «tutta quanta la comunità», e di proporre «in esso le materie» su cui si sarebbe dovuto deliberare: in particolare, sugli «affari e gli interessi del comune» e sulla ripartizione «degl’imposti sì reali, che pubblici, ordinari e straordinari»[79].

Assume un’evidente coloritura antibaronale il capitolo XXV del provvedimento, che attribuisce al consiglio l’incarico di «vegliare» sull’imposi­zione alla comunità di «aggravi», «nuovi dazi ed angherie» e sull’usurpa­zione dei territori del villaggio: «che si corrisponda la giusta mercede per que’ mandamenti che debbono di ragione pregarsi – recita l’editto – e finalmente si conservino illesi i dritti ed immunità appartenenti alla comunità, coll’opporsi all’introduzione degli abusi ed a quanto riconoscerà di pregiudiziale al bene pubblico, promovendone anzi ad ogni possa il vantaggio». Si trattava di un implicito invito alla verifica dei diritti feudali, sia di quelli legittimi che di quelli abusivi. Il sindaco veniva inoltre esentato dai comandamenti personali e reali e dalla giurisdizione baronale, con l’esten­sione parziale di questo privilegio anche ai consiglieri. L’ufficiale di giustizia, pur partecipando alle riunioni, non poteva intromettersi negli affari trattati dal consiglio comunitativo: il sindaco aveva infatti la facoltà di denunziarne all’autorità viceregia ogni ingerenza e prevaricazione. Il sovrano prendeva sotto la propria «immediata real protezione» i consigli delle comunità e i consiglieri eletti, incaricando il viceré, i magistrati e i governatori di vigilare affinché non venissero «perturbati o comunque molestati nell’esercizio di loro impiego»[80].

Nell’impostare, tra il 1768 e il 1771, la riforma dei Consigli comunitativi il ministero torinese aveva tenuto conto di diversi elementi: la drammatica situazione della giustizia nelle campagne, in qualche modo frutto dell’incuria dei baroni e soprattutto di quelli residenti in Spagna; il contenzioso ormai dilagante tra le comunità di villaggio e i feudatari per la determinazione dei diritti e delle prestazioni; il peso negativo di un feudalesimo parassitario sulle potenzialità di sviluppo dell’agricoltura e di «rifiorimento» della Sardegna. Maturava l’idea di costituire nei villaggi una nuova classe dirigente, espressione del ceto dei produttori agricoli e dei proprietari terrieri, capaci di dar vita a un «corpo» di amministratori locali «sottoposto al Governo senza veruna benché minima dipendenza dai baroni o altri principali delle ville»[81].

L’avvocato Canova, testimone e protagonista di quella stagione di riforme, ricorda che il ministro Bogino era convinto che lo «stabilimento de’ corpi di comunità» avrebbe potuto rappresentare un «contraddittorio ed un freno» al «dispotismo» dei feudatari e dei reggitori che «mai non avevano conosciuto per l’addietro»: l’editto mirava dunque, secondo Canova, a creare un equilibrio tra la «forza», conferita ai baroni dall’«esercizio della giurisdizione di cui erano investiti ne’ propri feudi», ed un «corpo indipendente e capace di resistere e promuovere le ragioni del comune efficacemente»[82].

La risposta dei feudatari non si fece attendere. Nel 1772 i baroni inoltrarono al Supremo Consiglio una «rappresentanza» nella quale si rivendicavano tutti i privilegi di Stamento del periodo spagnolo e addirittura di quello aragonese. L’ignoto estensore di questo lungo memoriale tracciava una storia partigiana del Regnum Sardiniae in funzione della riaffermazione delle prerogative della nobiltà feudale, di cui sottolineava le benemerenze e l’importante contributo legislativo dato nelle numerose sessioni dei Parlamenti, non più convocati dal governo piemontese. La monarchia di Spagna aveva sempre tutelato i privilegi feudali; la monarchia sabauda, invece, sebbene esercitasse di fatto, in base alle clausole dell’atto di cessione, una sovranità limitata, aveva deliberatamente violato la «ley patria». Con l’istituzione dei Consigli comunitativi si sferrava un attacco diretto ai privilegi feudali: le attribuzioni amministrative e fiscali, tradizionale appannaggio dei baroni, venivano affidate ai villici, uomini «de baja esfera, por lo más serviles […] avaros y interessados». In sostanza il memoriale riteneva che l’editto fosse vulnerativo degli interessi del baronaggio, una palese violazione delle clausole dell’atto di cessione sottoscritte e giurate dal re di Sardegna: innanzitutto per «debilitar la jurisdición de los barones y minorarles los derechos señoriles»; poi per infrangere gli «usos y costumbres», gli «estatutos», i capitoli di corte e le prammatiche del Regno che regolavano da tempo assai antico la vita dei Consigli delle comunità[83].

La replica del governo di Torino fu particolarmente energica: all’«ingiurioso» memoriale veniva attribuito il disegno di screditare l’editto per «farlo comparire alli baroni di quel Regno […] lesivo ed anzi distruttivo della loro giurisdizione, autorità, prerogative e con ciò commuoverli ed eccitarli a procurare con ogni sforzo la rivocazione o modificazione». Il provvedimento era stato infatti elaborato da ministri «informatissimi delle leggi, usi e consuetudini del Regno stesso e de’ privileggi e prerogative de’ baroni». A questo proposito si faceva osservare che, all’interno di una logica assolutistica, era potestà del monarca stabilire «usi e pratiche di buon governo spettanti all’ordine politico dello Stato e perciò dipendenti in tutto e per tutto dall’autorità sovrana, la quale a misura de’ cambiamenti ed esigenze, può ampliarli, restringerli, modificarli, ed in una parola adattarvi quella forma e combinazione che esigge il buon ordine e l’interesse de’ suoi popoli»[84]. Come ricorda l’avvocato Canova, sull’editto del 1771 il governo mantenne sempre una linea di grande fermezza e di netta chiusura verso gli attacchi dei feudatari «da togliere ogni lusinga di mai riuscire nell’impegno di farne cadere l’esecuzione»[85]. Soltanto con la carta reale del 27 aprile 1775, nel mutato clima politico successivo al licenziamento di Bogino, vennero mitigate alcune “asperità” controverse, come la limitazione dell’esenzione della giurisdizione baronale per i consiglieri e il divieto dell’ingerenza in materia di tributi feudali[86].

Sull’esperienza complessiva del riformismo settecentesco in Sardegna si è aperto un dibattito tra due interpretazioni storiografiche sostanzialmente opposte: la prima ha collocato la politica boginiana nel più ampio quadro del Settecento italiano ed europeo e l’ha valutata in relazione ad altri modelli riformatori di quegli anni (in particolare quello borbonico e quello asburgico), tenendo conto delle possibilità effettive di realizzare il progetto complessivo di intervento nell’isola e ponendo in evidenza anche le premesse di modificazioni future; la seconda ha riproposto un giudizio sostanzialmente riduttivo dell’esperienza boginiana, considerandola episodica e frammentaria o, meglio, una «razionalizzazione senza riforme»[87].

La «materia agraria», meno condizionata, rispetto all’ambito della giurisdizione baronale e dei Consigli comunitativi, dal rispetto delle clausole dell’atto di cessione, è il terreno su cui si può verificare l’effettiva incidenza della politica riformatrice in relazione sia con l’eredità della normativa spagnola, sia col peso degli usi e delle consuetudini locali. Almeno formalmente, infatti, l’iniziativa legislativa sabauda si ricollega all’esperienza precedente: ad esempio, il pregone del viceré Luigi di Blonay del 6 novembre 1741 sulla nomina dei censori dell’agricoltura richiamava gli «ordini» e le «disposizioni» che erano stati «emanati in altri tempi»[88]. Anche l’istituzione dei Monti frumentari e del Censorato generale, un «vero e proprio organo» di miglioramento dell’agricoltura e dell’economia sarda, che non a torto viene considerata come una delle più significative riforme boginiane, pur col suo carattere fortemente innovativo teneva ampiamente conto dei capitoli di corte e dei pregoni del XVII secolo[89]. Le stesse Istruzioni generali a tutti li censori del Regno, elaborate dal censore generale, dottor Giuseppe Cossu (ma fatte ritirare dal Bogino), una sorta di nuovo e originale «codice agrario» dell’isola, bilingue italiano e sardo, nel riordinare tutta la legislazione «patria» sull’agricoltura riproponeva ancora gli antichi istituti consuetudinari dei «ministri campestri volgarmente detti vidazonargius o perdargius», richiamando, a proposito del divieto di introdurre bestiame nei seminati o dell’opera dei lavoratori giornalieri, il «disposto» e il «prescritto» della «carta locale»[90].

Un problema di ancor più difficile soluzione che non quello feudale era la questione della «comunanza» delle terre e dei costumi comunitari che regolavano la distribuzione annuale dei lotti in funzione dell’alternanza delle colture tra la vidazzone e il paberile, disciplinata soprattutto dalla normativa cinque-seicentesca[91]. Nella seconda metà del XVIII secolo il movimento spontaneo e spesso disordinato delle chiusure assumeva forme variegate e spesso contraddittorie da area ad area. Di solito le tanche e i serrati sorgevano, in opposizione al sistema comunitario, nelle terre destinate al «seminerio»[92]. Ad Ozieri, invece, come osserva nel 1768 Mameli nella sua relazione, «sono frequenti le tanche per l’utilizzo da parte del bestiame, del quale si fa maggiore apprezzamento che della coltivazione della terra e ogni giorno vanno aumentando non senza usurpazione dei territori comunali e a danno dell’agricoltura»[93]. A Galtellì, in Baronia, gli agricoltori – osserva il viceré Des Hayes nel 1770 – «per maggior sicurezza del seminerio desiderano farsi una chiusura, come altre volte praticavasi». A Villagrande Strisaili, in Ogliastra, il reggitore aveva ordinato «doversi chiudere le bidatoni» per i danni arrecati dal bestiame[94]. Nel 1777 il Supremo Consiglio di Sardegna esaminava la richiesta del proprietario sassarese Luigi Sechi Bologna di poter chiudere un terreno di 700 starelli (pari a circa 40 ettari) «a muro, fosso ed a muraglia secca» nella regione Casteddu, tra la città e il porto di Torres, per evitare che i «seminerj» potessero «essere facilmente devastati» dai «pastori delle vicine ville»: il progetto di Sechi era ambizioso, perché oltre che per il grano, prevedeva di utilizzare il fondo per il pascolo di 20 vacche e 100 pecore, per la coltivazione di 200 alberi di gelso e di ulivi e di una vigna[95]. Da una lite del 1777 che aveva come protagonista la comunità di Quartucciu, nel Cagliaritano, sappiamo che dal 1770 nel salto detto di Pispisa, a causa «dell’aumento delle vigne, delle terre chiuse e delle case», era stato vietato dal viceré il pascolo per il bestiame rude e «conceduto tutto detto prato per il bestiame manso»[96]. Nel 1779 la comunità di Ittiri, nel Sassarese, faceva causa al feudatario per aver chiuso «con muro un’estensione di terreno capace di 300 e più sacchi di grano in parte coltivo, e solito coltivarsi e seminarsi dagli agricoltori di detta villa, ed in parte di bosco a motivo di tale chiudimento sia quel Publico rimasto privo del seminerio negli anni, che solevasi detto seminare, come pure del pascolo in quegli anni ne’ quali non seminavasi e perfino dell’uso del boscheggiare e raccogliere la ghianda»[97]. Gli esempi potrebbero continuare.

Anche all’interno del demanio feudale e di quello regio si andavano enucleando forme di appropriazione individuale o vere e proprie «semi-proprietà», come le cussorgie e le orzaline, appezzamenti occupati, in genere su concessione signorile, dai pastori che vi costruivano una capanna e delimitavano i confini del fondo[98]. Dall’inchiesta condotta nel 1762 dal magistrato della Reale Governazione, Gavino Cocco, nei territori della Nurra, feudo della città di Sassari, si evince che l’istituto della cussorgia era ampiamente diffuso nei terreni concessi in enfiteusi dalla municipalità[99]. In Gallura, dove il paesaggio era caratterizzato da «spaziose spopolate campagne», i pastori, osservava il viceré Des Hayes, avevano «stabilito i loro stazj gli uni dagli altri divisi e lontani, onde credonsi e reputansi proprietari di quei lunghi tratti di terreni»[100]. Le cussorgie, diffuse in tutta la Sardegna ma specialmente nelle zone spopolate della Gallura, dove venivano chiamate stazzi o rebagni, della Nurra, del Sarrabus, del Sulcis, dove venivano dette oddeus, del Parteolla e del Gerrei (furriadorgius), del Goceano (leadas), si confusero spesso con i numerosi diritti derivanti dalle consuetudini locali[101]. In principio la concessione era a titolo di semplice ademprivio: nel XVIII secolo iniziò però a mutare natura giuridica, trasformandosi in una sorta di dominio utile del cussorgiale sul proprio appezzamento che prevedeva non solo l’esclusione dal godimento degli altri ademprivisti ma anche il diritto all’alienazione e alla trasmissione ereditaria. Sulle cussorgie i possessori godevano, secondo i giuristi del XIX secolo, di un diritto di uso esclusivo se non addirittura di un vero e proprio diritto di «proprietà»[102].

Il pregone del viceré Des Hayes del 2 aprile 1771 tentò di disciplinare questo diritto, fissando gli obblighi del concessionario nel «coltivare i distretti» con «fare piantamenti e seminamenti d’alberi fruttiferi o da ghianda» nei modi indicati dai censori locali. I ministri di giustizia, i censori e i «probi uomini» del villaggio avrebbero dovuto fare «ogni anno la revista de’ territori […] conceduti in cussorgie» e rilevare i «luoghi vacui» e indicandone la destinazione colturale, e ingiungendo «altresì la chiusura per impedirne l’ingresso a’ bestiami a pascolare in quei siti». In sostanza il cussorgiale, titolare del dominio utile, avrebbe dovuto rispettare alcune limitazioni al godimento del proprio diritto imposte dalla normativa viceregia; nell’archivio di ogni curia doveva essere inoltre conservato e messo a disposizione del censore «un registro delle diverse concessioni di cussorgie esistenti nel distretto delle rispettive ville coll’annotazione de’ limiti, tempo e clausole sostanziali della concessione»[103].

Negli anni del riformismo boginiano si era notevolmente rafforzata una linea favorevole all’individualismo agrario[104]. Il primo progetto concreto e articolato per una «generale divisione dei terreni» era stato elaborato nel 1767 da due alti magistrati, il reggente Pietro Sanna Lecca e il consigliere Francesco Pes: purtroppo il memoriale è andato disperso e noi lo conosciamo attraverso il parere espresso dall’avvocato fiscale generale De Rossi conte di Tonengo, che peraltro non gli risparmia le sue critiche. L’«eruditissimo sentimento» vuol dimostrare gli «immensi vantaggi che non ponno se non risultare dalla divisione de’ terreni, applicazione d’essi in proprietà ai particolari, introduzione delle praterie artifiziali, taglio de’ fieni, costruzione delle stalle e fienili». La proposta avanzata dai due magistrati di istituire a Cagliari una Accademia di agricoltura, già caldeggiata da Bogino nel 1761-62, che «estenda le sue ispezioni ai pastori» e si occupi di diffondere le nuove tecniche e i «nuovi ritrovati» della moderna agronomia, viene rinviata dal Tonengo ad una fase successiva, fino a che non siano superati i «pregiudizi dell’invecchiato costume» e il «nuovo sistema sia ben radicato». Anche la innovativa proposta di dar vita a un «Magistrato sopra l’agricoltura e bestiame», con competenza sugli affari giudiziari relativi all’agricoltura e alla pastorizia, viene giudicata del tutto «intempestiva», giacché suonerebbe come uno «smembramento della giurisdizione baronale» e provocherebbe le «doglianze» dei feudatari e la richiesta del rispetto delle loro prerogative in base alle clausole dell’atto di cessione[105].

Il conte di Tonengo ritiene che per introdurre la riforma nel Regno non vi sia «altro mezzo che quello di una pubblica universale perpetua legge» capace di obbligare i baroni, le comunità e i «particolari» ad accettare il provvedimento «sotto pene adeguate alle trasgressioni». La soluzione più idonea sarebbe quella di «cominciare da uno sperimento in piccolo», iniziando dai villaggi reali del Capo di Cagliari o di quello di Sassari. La realizzazione concreta del progetto dovrebbe essere affidata a un delegato dell’Intendenza generale e a un ingegnere che, «oltre la misura de’ terreni» e un’indagine accurata della realtà locale, avrebbe potuto assegnare ad ogni membro della villa prescelta la quantità di terra che «ognuno d’essi potrà lavorare». Ad ogni assegnatario avrebbe dovuto essere concesso un lotto «pel seminerio di granaglie» e una «congrua proporzionata quantità di terreni da ridursi a prato», con l’obbligo di «formare una stalla sufficiente pel ricovero de’ rispettivi bestiami». La concessione era «in libero e franco allodio», cioè in proprietà vera e piena, di modo che gli agricoltori «ne siano liberi padroni e possano disporne tanto per ultima volontà, che per atto tra vivi, passino agli eredi legittimi in caso di successione intestata, possano vendere, ipotecare e sottoporre a censo». L’avvocato fiscale piemontese è inoltre convinto «della necessità e utilità della chiusura dei beni», lasciando i «rispettivi proprietari» liberi di «chiudere i loro terreni con siepe». La concessione era soggetta a un’unica condizione, quella di «coltivare i terreni assegnati nel nuovo sistema», secondo le prescrizioni delle autorità, pena la decadenza[106].

In linea di principio non vi era contrasto tra i progetti di chiusura dei campi e il diritto statutario locale. La Carta de Logu, pur con tutti i controlli dei giurati della villa e le necessarie omologazioni, prevedeva la cungiadura, cioè la chiusura dei fondi con siepe, fosso o muro, circoscrivendola alle vigne, agli orti ed ai campi di cereali («et laores qui sunt usades de reer cungiadura», recita il cap. CXII). La chiusura aveva finalità essenzialmente economiche e non prefigurava, ovviamente, un dominio pieno sul fondo. Tuttavia, allo statuto arborense, che considerava la «habitacione dessa villa» (cap. XXXVIII) come l’insieme dei seminati intorno al villaggio, era di fatto estraneo il sistema comunitario vidazzone/paberile che si sarebbe affermato soprattutto nel XVI secolo. In fondo il giurista cinquecentesco Girolamo Olives nei suoi Commentaria alla Carta de Logu aveva dato un’interpretazione “estensiva” di questo capitolo a proposito di un regime di sfruttamento dei terreni sconosciuto al codice di Eleonora[107].

Più in sintonia con la tradizione del diritto patrio del Regno è il rapporto tra le chiusure e gli incentivi all’olivicoltura. La normativa del periodo spagnolo aveva previsto, a proposito della coltivazione degli alberi di gelso e degli ulivi, una forma di godimento individuale del fondo tancat, pur limitato dai diritti regi[108]; in una riunione di giunta svoltasi nell’estate 1773 presso la Reale Governazione di Sassari sull’«aumento e miglior coltura degli oliveti» si propone di concedere in enfiteusi con «moderate condizioni» le terre comunali e quelle del demanio feudale ai «particolari li quali fossero in istato di obbligarsi a chiuderli secondo l’esigenza del sito, in modo che non portassero pregiudizio di terzo […], ed intieramente guarnirli di olivi dentro un discreto tempo […]. Le leggi statutarie dispongono – prosegue la risoluzione, ricollegandosi alla normativa precedente – in favore di siffatti piantamenti che gli uliveti passino con perpetuo vincolo agli eredi discendenti di quei che li piantano e non possano essere distratti in pubblica subasta, né per debiti civili, né di quelli ancora contratti in favore del signore del luogo»[109].

Mancava però ancora un progetto di intervento globale sulla chiusura dei terreni. Bogino valutava negativamente – racconta l’avvocato Canova – la «comunanza della maggior parte delle terre da lavoro», convinto che dal «solo diritto di proprietà […] derivar possano i veri progressi dell’agricoltura». Già dal 1767 il ministro progettava di «prescrivere di dette terre comunali la divisione e metterle in privato progressivo dominio dei rispettivi cittadini», ma era al tempo stesso consapevole che, se con «una provvidenza generale su tal materia» non «si fossero altrimenti preparati gli animi d’una nazione sì fortemente attaccata alle antiche costumanze» e «in sospetto» di «ogni novità», la riforma sarebbe miseramente fallita[110].

Nacque così l’idea di affidare al gesuita veneto Angelo Berlendis, prefetto delle regie scuole di Sassari, prima, e a Francesco Gemelli, gesuita piemontese e docente di Eloquenza, poi, l’incarico di fornire uno «scritto» che potesse aprire la «strada» alla riforma, mettendo «in evidenza gli scapiti gravissimi» del sistema comunitario, e diffondere «anche nel popolo la conoscenza di verità sì palpabili». Come è testimoniato dal fitto carteggio, il ministro Bogino seguì personalmente il lavoro di Gemelli, suggerendo cambiamenti e modifiche al testo[111]. Nel 1773 l’opera era quasi «portata a compimento» ma, si capiva che «sarebbe riuscita troppo elegante ed erudita per l’uso cui era stato da prima ordinata». Il ministro pensò allora di «farne poscia dall’autor medesimo formare un ristretto o compendio» che avesse le originarie finalità didascaliche e divulgative[112].

Il Rifiorimento della Sardegna venne pubblicato a Torino nel 1776 in due grossi tomi, tre anni dopo il licenziamento di Bogino. L’autore ritiene che il «difetto fondamentale» o, meglio, la «radice infetta che il suo vizio comunica a ogni ramo della sarda agricoltura» sia soprattutto la «comunanza, o quasi comunanza delle terre». Gemelli sferra un attacco al fondo al sistema comunitario della vidazzone e del paberile: nell’«adottato sistema delle vidazzoni – osserva – non v’ha proprietà: dunque in esso non v’ha interesse, né amor proprio, e per conseguenza non v’ha industria». Gli usi comunitari sono dunque una delle cause non secondarie dell’arretratezza dell’agricoltura sarda: «questo disordine della comunanza delle terre – sostiene il gesuita piemontese – è di tanta conseguenza, che la storia ne ammaestra, che dovunque è stata in vigore la divisione e proprietà delle terre, colà è fiorita grandemente l’agricoltura, e giaciuta è per l’opposito, dove si è praticata la comunanza». La chiusura dei campi è valutata, sia come strumento economico di difesa delle coltivazioni dai danni provocati dal bestiame, sia come segno tangibile della proprietà «perfetta».

Sulla base delle teorie fisiocratiche, Gemelli pensava all’agricoltura come fonte primaria dello sviluppo, appunto il «rifiorimento», e della ricchezza della Sardegna: un’agricoltura che, superando gli antichi vincoli comunitari e i tradizionali metodi di conduzione della terra, fosse totalmente rinnovata da investimenti mirati di capitali da parte di un nuovo ceto di imprenditori agricoli, cioè di «persone facoltose» interessate a chiudere i propri terreni e ad ingrandire le loro proprietà. La proposta avanzata dal gesuita piemontese prevede che ogni proprietario possa «chiuder le proprie terre», «esenti dal pascolo comune», «coll’obbligo però di stabilirvi casine o cascine» affinché «le terre rimangano a loro disposizione»; che le «terre comuni e le quasi comuni», cioè quelle che «appartengono alle comunità, ossia a’ pubblici de’ villaggi», possano essere venute ai «particolari»: la «chiusura delle terre – afferma Gemelli – dovrà erigersi con rigore grandissimo in su i principii, perché l’occhio si accostumi all’idea della divisione e della intera proprietà della terra»[113].

La cosiddetta «linea Gemelli» e il grandioso piano di rinnovamento dell’agricoltura e dell’allevamento vennero interpretati in modi assai diversi dai contemporanei. Il Supremo Consiglio di Sardegna, ad esempio, in un parere della primavera del 1774 stronca il manoscritto del Rifiorimento, accusando Gemelli di aver disinvoltamente “saccheggiato” un memoriale intitolato Agricoltura di Sardegna (purtroppo perduto) «disteso» dai magistrati Sanna Lecca e Pes, di avere una sommaria conoscenza delle consuetudini agricole locali e di aver generalizzato immaginando in tutta l’isola «usi e abusi di Sassari», la città nella quale risiedeva. In sostanza il Supremo Consiglio ritiene che l’«utilità» del Rifiorimento «sarà ben modica per non dire niuna. Conciossiacché si tratta d’opera voluminosa, che probabilmente sarà poco ricercata, e meno letta, singolarmente nelle ville del medesimo Regno, nelle quali è più in voga l’agricoltura […] e molto meno si sentiranno mossi quei agricoltori ad aderire ai suggerimenti dell’autore, abbandonando le loro comuni inveterate pratiche». Perciò il Consiglio nega all’autore il contributo statale per la pubblicazione dell’opera[114].

Una tenace difesa delle vecchie consuetudini viene fatta da Andrea Manca dell’Arca, dottore in diritto ed esponente della piccola nobiltà sassarese, proprietario terriero della generazione “preriformistica” (era nato nel 1707), che nel 1780 pubblica a Napoli un interessante catechismo agrario dal titolo Agricoltura di Sardegna. L’autore critica senza mezzi termini il Rifiorimento, un’opera nella quale non si insegna «l’arte dell’agricoltura, trattandosi soltanto con economici e storici discorsi di certi avvertimenti per far il vino, piantar gelse e per la buona coltivazione dell’ulivo […], persuadendo altresì alla Nazione sarda la riforma ed abolizione di molti costumi confermati dalle leggi e statuti antichi del Regno»[115].

La «linea Gemelli» costituisce dunque una sorta di spartiacque generazionale tra coloro che si ergevano a difensori delle antiche istituzioni agrarie dell’isola e, in definitiva, dello stesso regime feudale, identificato simbioticamente col sistema comunitario, e coloro che, formatisi nelle scuole e nelle università riformate, guardavano invece favorevolmente alla privatizzazione delle terre e alla formazione di un nuovo ceto «possidente» nelle campagne. Fra questi figura l’avvocato Diego Bernardo Marongio del villaggio logudorese di Bessude, allievo sassarese di Gemelli («mio eruditissimo precettore»), che in una memoria del 1779 dal titolo Insinuazioni sul rifiorimento della sarda agricoltura critica il «rovinoso sistema delle vidazzoni» e auspica la chiusura dei seminati: «il mezzo più opportuno ed efficace per assicurare al sardo contadino» il «suo lavoro – sostiene –, io lo ritrovo nella chiusura, che potrebbe esser diversa a misura de’ terreni e lor situazione. Il circondar di siepi, sassi e legna la circonferenza, e limiti delle vidazzoni è il rimedio facilissimo per la loro riserva»[116]. Il tema gemelliano delle «casine», i poderi rurali necessari all’insediamento dei coltivatori nei fondi chiusi, viene ripreso nel 1779 nel poema sardo-italiano Il tesoro della Sardegna ne’ bachi e gelsi del sacerdote Antonio Purqueddu[117].

Un altro allievo dell’autore del Rifiorimento, il giovane algherese Domenico Simon, che negli anni successivi avrebbe ricoperto il prestigioso ufficio di vicecensore generale, nel poema didascalico Le piante (1789) riprende in versi eleganti i temi fisiocratici propugnati da Gemelli: «Ecco sparse casine, e prender lena / Ciascuno a chiuder il terren deserto / Fiorisce agricoltura, ed ogni pianta / Curva di frutti, lussureggia e incanta». Nelle annotazioni al poemetto scrive a questo proposito: «Il difetto di chiusura nelle terre di questo Regno, la cagione, onde ciò venga, la necessità, e il modo di rimediarvi non può essere meglio espresso che nel Rifiorimento della Sardegna». Gemelli, conclude Simon, «ci propone i mezzi della nostra felicità, e noi non potremo mai leggerlo abbastanza»[118].

 

4. – Tradizione consuetudinaria e “diritto patrio”

 

Negli ottanta-novanta del Settecento la Carta de Logu inizia a venir considerata, soprattutto dalle nuove generazioni che si erano laureate nelle università riformate, come un anacronistico retaggio del passato e, di conseguenza, ad essere identificata con quegli ordinamenti feudali che nel 1421 l’avevano fatta propria, prima confermandola e successivamente estendendola a tutti i territori baronali del Regno.

Il progetto boginiano che aveva rifondato le due Università di Cagliari (1764) e di Sassari (1765) mirava a costruire uno Stato burocratico moderno, integrando le classi dirigenti locali all’interno della monarchia sabauda e ponendo le premesse di un profondo rinnovamento culturale. Nei programmi ministeriali d’insegnamento si teneva conto delle nuove idee dei giusnaturalisti moderni, Pufendorf, Heineccius, Wolff, o di illuministi di ispirazione cattolica, come Muratori[119]. Non era previsto l’insegnamento del ius patrium, anche se i professori come esempio pratico potevano fare gli opportuni riferimenti alle prammatiche e ai capitoli di corte. L’antico costituzionalismo e le Leggi fondamentali del Regnum Sardiniae venivano riscoperti e riletti alla luce delle teorie di Montesquieu e di Filangieri, dell’esperienza del patriottismo settecentesco e della Rivoluzione americana[120].

Il processo di sistemazione legislativa procedeva in Sardegna in modo lento e contraddittorio. Nel 1775 era stata pubblicata dalla Stamperia reale di Cagliari la raccolta normativa degli Editti, pregoni ed altri provvedimenti emanati per il Regno di Sardegna, curata dal reggente Sanna Lecca, coadiuvato dal giudice Pes, che aveva lo scopo di ordinare in modo sistematico e secondo criteri razionali per materia le numerose disposizioni emanate dal sovrano (editti) e dai viceré (pregoni) per l’amministrazione e il governo del Regno[121]. Si specifica infatti che la «collezione» non è «una compilazione universale d’ogni sorta di leggi, ma di quelle soltanto, che coll’impronta, per così dire, della perpetuità tendono a regolare stabilmente il buon governo e ’l corso della giustizia nel medesimo Regno, ed abbisognano quindi di venir richiamate alla puntuale esecuzione». Non si tratta dunque di una «nuova legislazione»: i provvedimenti, infatti – spiega Francesco Pes –, sono stati «lasciati nello stato, e con lo stesso carattere di validità e forza legislativa in cui erano dapprima senza alcuna innovazione quanto all’intrinseco»; quanto all’«estrinseco», poi, si «è adoperata ogni cura e diligenza possibile nella traduzione di quelli […] estesi in idioma spagnuolo»[122].

La raccolta del 1775 non può essere compresa nella categoria di quei complessi normativi di diritto regio usualmente denominati «consolidazioni», giacché restavano fuori tutte le fonti di emanazione sovrana del periodo aragonese e spagnolo[123]. Gli Editti non intendono abrogare nulla della legislazione preesistente e rinviano ancora una volta alle «leggi patrie»  e, ovviamente, al diritto comune. Lo spirito giuridicamente “arretrato” della raccolta del 1775 risulta più evidente se la si paragona alla celebre «consolidazione» delle Leggi e costituzioni piemontesi del 1729, riformulate nel 1770, che non solo abrogavano e modificavano la normativa precedente, ma indicavano puntualmente, pur entro il sistema del diritto comune, le fonti in ordine di applicazione, comprendendo anche le decisioni giurisprudenziali[124].

Nonostante gli oggettivi condizionamenti dell’autonomia ordinamentale del Regnum Sardiniae, tutelata dalle clausole dell’atto di cessione, iniziava faticosamente a farsi strada presso i giuristi e i magistrati l’esigen­za di una profonda riforma legislativa. Nel 1790 due giudici della Reale Udienza, Cristoforo Pau e Francesco Ignazio Casazza, inviano a Vittorio Amedeo III una proposta di «compilazione» di un «nuovo codice di leggi adattato ai bisogni di quel Regno». I due magistrati partono dalla constatazione che «le leggi trovansi qua e là disperse nella Carta locale, e Reali Prammatiche, parte nei Capitoli di Corte raccolti dal Descart, ed in quelli, che trovansi tutt’ora inediti, parte nei due volumi di pregoni impressi nel 1775, ed in molti altri vaganti fuori di tal raccolta. Alcuni di essi contengono provvidenze fra di loro opposte. Mancano leggi intorno a molte materie – proseguono –, come per cagion d’esempio a riguardo dell’istruttoria delle cause civili, nelle materie feudali, delle ultime volontà, e in ciò che concerne l’economica amministrazione dei pubblici […]. Alcune leggi poi s’igno­rano, perché inedite, tuttoché esistano negli archivi regio e patrimoniale». Un’attenzione specifica viene dedicata all’agricoltura a proposito dell’eventuale compilazione di «un Codice di leggi agrarie, nelle quali si accordassero privilegi ai proprietari e si stabilisse la divisione delle terre, senza la quale è impossibile che fiorisca l’agricoltura». Convinti sostenitori della «linea Gemelli» Pau e Casazza affermano che la «divisione dei terreni è da tutti universalmente desiderata nelle ville […], come lo udimmo parecchie volte dai rettori e particolari dei villaggi». A loro avviso, quindi, il «rifiorimento dell’agricoltura» dipende in gran parte dalla chiusura e dalla privatizzazione dei campi: il modello è lo «stato floridissimo» dell’Inghilterra, dovuto «principalmente» al «ripartimento» e alla «proprietà libera della terra»[125].

Il progetto di questa innovativa “consolidazione” era destinato comun­que ad arenarsi. La legislazione viceregia degli ultimi decenni del secolo, quando doveva confrontarsi con l’ambito consuetudinario e con gli antichi usi del Regno, continuò a richiamare i capitoli della Carta de Logu[126]. Anche la situazione del diritto penale restò sostanzialmente immutata: rimase irrisolto il problema della giurisdizione feudale e la procedura e le pene conservarono i loro caratteri arcaici, derogando spesso alla tradizione consuetudinaria. Il pregone emanato il 21 ottobre 1800 da Carlo Felice di Savoia, duca del Genevese, sulla «buona amministrazione della giustizia» imponeva ancora, ad esempio, che le comunità dovessero essere tenute «a verificare i delitti ed arrestare i delinquenti giusta il disposto della Reale Prammatica, Carta de Logu, ed altre leggi del Regno, sotto la pena dell’incarica, non ostante qualunque aggiustamento, transazione o contratto, che siavi, o possa esservi tra le predette comunità e loro baroni». In caso di furto, incendio o altri delitti i ministri di giustizia dovevano «d’ufficio ed abbenché non siavi istanza di parte notificare l’incarica nel termi­ne e forma prescritta»[127]. Si trattava quindi dell’imposizione di un antico istituto che, come attestano le fonti normative del tempo, stava andando in desuetudine sostituito da tributi alternativi concordati tra le comunità e il feudatario[128].

Nel 1776-77 il viceré Filippo Francesco Ferrero della Marmora aveva ipotizzato di far ricorso a «rimedj non già palliativi ma radicali» nell’ambito dell’amministrazione della giustizia attraverso la suddivisione del Regno in Province, destinando ad esse prefetti ed avvocati fiscali con attribuzioni giurisdizionali sui «delitti di regalia» e di controllo sulle curie baronali, provvedendo alla «costruzione di pubbliche regie carceri provinciali», alla nomina triennale degli «uffiziali di giustizia in persone esaminate di diversa villa e dipartimento non ammovibili senza cognizione di causa e da sottoporsi alle pubbliche assisi, e con ciò – sosteneva il viceré – con darsi al nuovo sistema quella unità di movimento propria di quello che osservasi negli altri Regii Stati di Terraferma»[129]. Alla Segreteria di Stato torinese il progetto apparve troppo radicale, in parziale contrasto con le clausole dell’atto di cessione e con le prerogative baronali, ma soprattutto troppo costoso.

Il diritto penale e l’amministrazione della giustizia sono il terreno su cui si concentra la riflessione di quella nuova generazione di giuristi e di magistrati che avevano studiato nelle università riformate. Nel 1784 il giovane algherese Matteo Luigi Simon pubblicava la dissertazione De questionibus aut tormentis tenuta all’Università di Cagliari per il conseguimento della laurea in utroque iure, che illustrava la teoria della tortura nell’ambito del sistema delle prove. Pur all’interno (e con i relativi condizionamenti) di una prova accademica, Simon teneva nel dovuto conto le tesi della «moderna filosofia» illuministica sulla tortura come assurdo esperimento per giungere alla verità, non riuscendo peraltro a dissimulare il disagio nei confronti dell’arretrato quadro legislativo e istituzionale del Regno[130].

In una memoria dell’estate del 1791 il sostituto sovrannumerario dell’avvocato fiscale regio, l’algherese Giovanni Lavagna, che si era laureato a Sassari nel 1782, nel ricercare «la causa della frequenza dei delitti e del poco non meno che ritardato castigo dei delinquenti» la addebita senza esitazioni alla «Legge Patria a tenor della quale sono alcuni degl’indicati delitti ammissibili di fidenza e del privilegio spettante di perdonare i delitti […] mediante composizione». Naturalmente l’indice è puntato sulla giustizia baronale: i ministri di giustizia, scelti dai feudatari, sono infatti «i più ignoranti e venali e qualche volta protettori degli stessi facinorosi. Da ciò ne deriva con frequenza – afferma Lavagna – che i processi delle curie ordinarie sono mal menati, che o si trascurano per ignoranza o malizia le prove dei delitti, ovvero l’intorbidano per venalità ad oggetto o d’occultare i misfatti o di renderli meno gravi in favore de’ delinquenti». Il giovane sostituto, pur all’interno di una visione sostanzialmente moderata – approva, ad esempio, l’«uso dei rimedi economici» –, critica severamente i «lodatori e i difensori dei tempi andati», auspicando la riforma di una procedura penale ormai anacronistica e dell’amministrazione giudiziaria feudale[131].

Nello stesso 1791 il giudice delegato del Tribunale apostolico, il ventenne Faustino Cesare Baille, che si era laureato l’anno prima nell’ateneo cagliaritano, redige la Compilazione delle leggi municipali del Regno di Sardegna spettanti al criminale con lo scopo di raccogliere in un utile repertorio le leggi patrie che «disperse vagavano nella Carta de Logu, capitoli di corte, prammatiche, editti e pregoni»[132]. La Compilazione, scritta in italiano, aveva una finalità essenzialmente pratica, com’era volta a fornire ai magistrati, agli avvocati, ai funzionari pubblici, agli ufficiali di giustizia baronali un efficiente repertorio e un utile strumento di consultazione del diritto patrio vigente nel Regno in materia penale: i singoli istituti sono illustrati sempre a partire dai capitoli della Carta de Logu, per registrare poi i provvedimenti normativi emanati in epoca spagnola e sabauda. Proprio per l’impianto dichiaratamente pratico dell’opera, l’autore evita di affrontare questioni dottrinarie, anche se nella parte introduttiva si confronta con l’istanza utilitaristica del diritto punitivo e con l’idea della proporzionalità della pena.

Baille, figlio di Giovanni Cesare, amministratore generale dei feudi degli Stati di Oliva e del Ducato di Mandas, pur segnalandone i limiti mostra un’attenzione particolare per la Carta de Logu, che era ancora ampiamente osservata nelle curie baronali del Regno. I principi punitivi dello statuto arborense gli appaiono però superati dai tempi e in contrasto con la nuova cultura giuridica settecentesca: «qual cuor sì disumano e barbaro potrà vedere paragonata una mutilazione d’un membro ad una tenue somma di denaro senza raccapricciarsi ed inorridire? – si domanda Baille – […]. Donna Eleonora ebbe solo in mira quel principio che i delitti si devono punire ma non abbadò punto all’altro principio non men certo, che salutevole, che i colpevoli devono essere corretti, il qual principio altro non è che una rettissima illazione, la quale a guisa di piccolo ruscelletto sgorga e diramasi dalla suddetta limpida sorgente dell’adottato problema dei più illuminati tribunali: anzi – prosegue – ben considerato neppure seguitò in tutto il suddetto principio, mentre derivando dal medesimo che i delitti si devono punire equalmente, avrebbe dovuto la medesima stabilire d’emanare tali leggi, per le quali s’inflingessero le pene proporzionalmente non solo ai delitti, ma eziandio agli individui delinquenti»[133]. In sostanza, la composizione pecuniaria della pena è fonte di notevole disuguaglianza giacché lo statuto impone in modo perentorio «o di pagare la tal somma tra giorni quindici, o di perder l’occhio, il braccio, l’orecchia, la mano, derivando ciò in non poco detrimento dello stesso corpo sociale»: i poveri, che non sono in grado di pagare devono, secondo il dettato della Carta de Logu, «irremissibilmente soccombere alla tanto penosa mutilazione, con offrire in tal guisa nella città un doloroso spettacolo di tanti mutilati; quando al contrario i nobili ed opulenti, collo sborso del detto denaro seguitarebbero a restarsene tranquilli, anzi accrescendosi vieppiù la loro alteriggia e tracottanza»[134].

In sintonia con lo spirito patriottico dei primi anni novanta, anche Baille ritiene che le leggi «parlamentarie» siano «leggi veramente sacrate, leggi che meritano ogni encomio e lode, leggi finalmente degne d’essere come prezioso tesoro serbate a perpetuità nei penetrali di Minerva» che «formano la delizia del Regno» e costituiscono un freno al «dispotismo, il quale […] vedesi inceppato dalle medesime» per far «trionfare lo zelo patriottico»: nelle leggi delle Corti, afferma il giovane giurista cagliaritano, «erano i legislatori gli Stamenti popolari, i quali proponevano le leggi di commun consenso del popolo alla Reale Maestà, da cui ne ottenevano il grazioso decreto per la validità delle medesime»[135].

La mobilitazione patriottica seguita alla vittoria delle truppe miliziane «nazionali» sul corpo di spedizione francese, l’autoconvocazione degli Stamenti, l’elaborazione della piattaforma autonomistica delle «cinque domande» da presentare al sovrano, stimolarono, nella primavera-estate del 1793, un intenso dibattito sui grandi problemi irrisolti della Sardegna, primo fra i quali l’amministrazione della giustizia e la raccolta delle leggi[136].

Allo Stamento militare pervennero infatti numerosi memoriali, proposte e progetti di riforma in tema di difesa militare del Regno, di politica economica e di istituzioni giudiziarie. «Dalla mancanza di giustizia criminale e civile dipendono tutti i mali della Sardegna; sono inutili gli stradoni, inutili i porti di mare, inutili le fortezze, inutile qualsiasi provvedimento politico, se la giustizia non gastiga i malvaggi, non previene i delitti»[137]: è l’amara constatazione dell’avvocato don Giovanni Battista Serafino, procuratore del duca dell’Asinara e di altri nobili del Capo di Sassari.

La giustizia feudale è posta duramente sotto accusa dal cavaliere sassarese don Lorenzo Sanna: gli ufficiali baronali, che «sono i capi delle rispettive curie» e «formano la prima pianta dei processi», da cui «dipende lo stesso governo per le relazioni dei diversi affari», sono, a suo avviso, «quasi tutti ignoranti, meschini e talvolta anche facinorosi. E in mani di persone simili si commette il sacro deposito delle leggi – si domanda – e l’inestima­bile bilancia della giustizia?». Ciò che colpisce nella memoria di Sanna non sono tanto le proposte, peraltro prevedibili, come quella di far nominare, previo esame, i ministri di giustizia dalla Reale Udienza e dalla Reale Governazione, quanto l’aspra invettiva antifeudale («quanto pochi sono quelli che ardiscono alzare il curvo collo contro il feudatario che ha mille maniere di farlo pentire, arbitro delle forze della giustizia?») di chi considerava ormai il regime feudale avverso alla «naturale inclinazione» dell’uomo[138].

Assai interessante risulta l’ampio memoriale di Antonio Ignazio Paliaccio conte di Sindia, esponente di una nobiltà di toga (suo nonno era stato reggente nel Supremo Consiglio di Sardegna) che aveva fatto fortuna sotto la dinastia sabauda, che guardava con favore la mobilitazione stamentaria e di fatto accoglieva l’appello fisiocratico per la promozione del «rifiorimento» agricolo e di nuove imprese commerciali[139]. Nel delineare un progetto complessivo di riforma degli assetti istituzionali del Regno, dalla legislazione all’amministrazione della giustizia, dalle magistrature alla difesa militare, dalle milizie alle compagnie barracellari, dall’istruzione pubblica al commercio, la sua Relazione esprime posizioni moderatamente innovative, tenendo certamente conto dell’eredità boginiana, in un disegno in cui la nobiltà, in piena sintonia con la monarchia sabauda, diviene una nuova e moderna classe dirigente assumendo in prima persona la responsabilità del processo di rinnovamento delle strutture giudiziarie e di governo. È d’altra parte, in questa prima fase della «sarda rivoluzione», una posizioni assai diffusa all’interno dello Stamento militare che, nell’elaborazione della piattaforma delle «cinque domande», unificava le rivendicazioni dell’aristocrazia feudale locale, della nobiltà di servizio, della piccola nobiltà e dei cavalieri dei villaggi.

Il conte di Sindia si mostra pienamente consapevole dei gravi problemi giudiziari e dell’ordine pubblico dell’isola, «primaria base della felicità di qualunque nazione»: «una esatta, retta e ben regolata amministrazione di giustizia manca nel Regno di Sardegna […]. Piange l’agricoltore le sue biade devastate dal prepotente, il pastore li suoi armenti distrutti dal ladro e dall’abigeo, la vedova il marito, il figlio il padre toltogli da un empio omicida. Tutti cercano presso i ministri della legge il risarcimento e l’esempio del castigo, mai però o raramente l’ottengono. Ne deriva quindi che ciascuno s’arma della vendetta e procura farsi da se stesso e privatamente quella ragione e giustizia che in suo senso non ha trovato nei tribunali»[140].

Paliaccio non ha difficoltà ad ammettere che nelle curie subalterne le disfunzioni derivano soprattutto dai ministri di giustizia che «ben lungi d’avere la maggiore cognizione della legale, ignorano per lo più le stesse leggi ed usi del paese, e taluno appena sa leggere e malamente scrivere e non potendo procacciarsi altrimenti la sussistenza, mettono in pratica tutti li mezzi per istrappare qualche uffizialia o delegazione». Nelle curie dei villaggi i giudici sono «ogni giorno persone più inabili o meno integre», giacché non è facile trovare un avvocato o un laureato in legge che voglia recarsi nei feudi per ricoprire le cariche di ufficiale di giustizia o di delegato baronale. I rimedi suggeriti riprendono alcune di quelle soluzioni che erano state discusse a lungo in seno al governo ma erano state sempre accantonate, come la garanzia dello «stipendio fisso» per i delegati di giustizia, sottoposti all’arbitrio e alla «volontà» del barone, l’introduzione della «sindacatura» dell’attività giudiziaria, la preparazione legale dei giudici. L’istituzione delle prefetture, con la rinunzia dei «signori allodiali a quella porzione di loro giudicatura», avrebbe potuto ovviare a queste disfunzioni, ristabilendo una corretta amministrazione della giustizia e insieme consentendo ad un «numero considerevole d’avvocati» di trovare possibilità d’impiego. La riforma, secondo Paliaccio, sarebbe stata estremamente utile alla feudalità, giacché la giustizia sarebbe stata amministrata «dai prefetti ne’ feudi componenti la Prefettura a nome anche di caduno de’ rispettivi feudatari del luogo senza violare né li usi, né li diritti spettanti al barone, che vassallo»[141].

Nonostante queste aperture, su un punto il conte di Sindia resta estremamente rigido, a difesa delle proprie prerogative cetuali: l’istituzione dei Consigli comunitativi, da vent’anni mal digerita dalla feudalità iberica e da quella sarda. «Questo regolamento – scrive a proposito dei provvedimenti del 1771-75 – non ha interamente sortito quell’effetto di pubblico vantaggio che la paterna Sovrana cura si era prefissa»: «recano questi consigli molti disordini e sono spesso il fomite delle discordie e liti non meno ragionevoli coi privati che cogli stessi feudatarj». Insomma, le cause inoltrate dai Consigli contro i baroni per la verifica dei diritti illegittimi o contestati, l’autonomia dei consiglieri dal potere feudale e, soprattutto, la pretesa per cui la «rispettiva comunità si crede autorizzata immischiarsi in ogni semplice provvedimento sì giuridico, che economico» dei baroni e dei ministri di giustizia, sono i motivi del categorico rifiuto di quella travagliata riforma da parte del conte. L’altro punto di chiusura riguarda l’antico istituto dell’incarica: «le reali prammatiche e la Carta de Logu – afferma Paliaccio – prescrivono il numero del bestiame necessario, che può avere un pastore, e proibiscono per impedire i furti e conservare le altrui proprietà, che un pastore abbia bestiame fuorché d’un solo padrone». A questa legge, «che si dovrebbe chiamare alla più stretta osservanza» si dovrebbero accompagnare degli incentivi affinché anche il pastore «travagliasse la terra per una certa estensione»: il «minore ozio, di quello in cui marcisce nelle più vaste e desolate campagne, diminuirebbe i delitti e sarebbero le proprietà più rispettate». In realtà, dietro la discutibile soluzione di riproporre la responsabilità collettiva delle comunità si cela la volontà baronale di non rinunciare ad uno dei più remunerativi, per quanto anacronistici, diritti[142].

Il dibattito politico-istituzionale degli anni 1793-96 si concentra soprattutto sull’ambito del diritto pubblico e, in particolare, sul ruolo dei corpi intermedi in una monarchia mista, sulla funzione dell’antica costituzione e delle Leggi fondamentali del Regnum Sardiniae, identificate con i capitoli di corte, sulle limitazioni al «dispotismo» assolutistico del governo piemontese, sulla necessità delle convocazioni del Parlamento come «assemblea generale dei rappresentanti» della «Sarda Nazione», sulla rivendicazione dell’esclusività delle cariche pubbliche e delle prelature per i «nazionali». Ovviamente il tema della riforma della legislazione e dell’ammi­ni­strazione della giustizia restava più in ombra, anche se la seconda delle «cinque domande», relativa all’«osservanza e confermazione de’ Privilegi e Leggi fondamentali del Regno», implicava il rispetto di tutte le «leggi, privilegi e consuetudini» (e, quindi, in teoria, anche dell’antico statuto di Eleonora) dei quali la Dominante aveva finito – come affermava il Manifesto giustificativo dell’aprile 1794 – per «non solo alterarne la sostanza […], ma cancellarne perfino la memoria»[143]. In realtà, come spiega il deputato degli Stamenti presso la corte di Torino, l’avvocato Gerolamo Pitzolo, nel Ragio­namento giustificativo delle cinque domande, redatto nella capitale sabauda nell’autunno del 1793, a proposito di questa seconda richiesta, bisognava intendere i capitoli di corte come leggi pattuite: cioè «doversi mandare l’osservanza di queste leggi, giuste il loro letterale significato, nella forma, che si trovano approvate, e concedute nei rispettivi Parlamenti, o privilegj, e che finora non furono in modo legittimo rivocati»[144].

Più che la vetusta Carta de Logu iniziava infatti a stimolare l’interesse dei patrioti, in una singolare «invenzione della tradizione», il periodo giudicale e in particolare l’«autorità regale e veramente sovrana» esercitata dai «regoli», da cui emergeva, come sosteneva Lodovico Baille, avvocato, grande erudito, impiegato presso l’ambasciata di Spagna a Torino, che al momento della conquista aragonese il Regnum Sardiniae doveva «considerarsi deditizio e non già conquistato dagli Spagnuoli; essendosi i medesimi valsi della forza non già contro i Sardi […], ma bensì contro de’ Pisani»[145]. Veniva riscoperta dagli Stamenti anche l’ultima pax Sardiniae del 1388, accordo stipulato in modo paritario dalla giudicessa di Arborea e dal re d’Aragona, nel quale potevano essere rintracciate alcune motivazioni di fondo delle «cinque domande» e, in particolare, di quella dell’esclusività degli impieghi[146].

Tra l’estate del 1795 e la primavera del 1796 si radicalizza l’agitazio­ne dei villaggi infeudati del Capo di Sassari e di Logudoro con la saldatura della rivendicazione antifeudale con la piattaforma autonomistica delle «cinque domande»[147]. Era inevitabile che la Carta de Logu venisse sempre più identificata con quelle immunità (come l’amministrazione della giustizia) o con quei diritti feudali (come le machizie e le incariche) di cui ormai si avvertiva l’insostenibile peso. L’obiettivo non era più di moderare il baronaggio, quanto quello di opporsi alla «schiavitù feudistica»: il «diritto che hanno i popoli di liberarsi colla forza dei feudi – si legge ne L’Achille della sarda liberazione, un documento articolato in tesi diffuso nelle campagne logudoresi nella primavera del 1796 – è un diritto promanante dalle nozioni della giustizia più rigorosa […]. I Feudatari – prosegue L’Achille – tengono in una manifesta e spaventevole oppressione le classi più laboriose, le più utili e le più numerose della Sardegna, l’agricoltore e il pastore»[148].

L’onda lunga di queste istanze viene in qualche modo recepita da uno dei protagonisti della «sarda rivoluzione», Gianfrancesco Simon, abate di Salvenero e Cea, in una Lettera sugli illustri coltivatori della Giurisprudenza in Sardegna, la prima, agile e acuta sintesi della storia del diritto patrio del Regno, indirizzata nel 1801 a Tommaso de Quesada, professore di Diritto canonico nell’Università di Sassari. Pur lodando la Carta de Logu come un «codice di legislazione così savio ed esatto, che miglior certamente non potrebbero presentarlo i più raffinati giuspubblicisti, all’indole adattato e alla natural costituzione de’ Sardi e della Sardegna», Simon ne sottolinea anche l’oggettivo anacronismo: quel «codice», infatti, «contiene in lingua prettamente sarda […] leggi sagge, leggi giuste, leggi opportune […], sanzionate dall’attual casa Regnante, e tuttavia mantenute in vigore da’ nostri magistrati e a risalva d’alcune penalità longobardiche moderate alle Prammatiche […] e da varie leggi successive della Real Casa di Savoia, dopo i lumi filosofici che ha ricevuto in quasi tutte l’europee contrade il gius criminale». Simon si dichiara consapevole che «in questa parte vi sarebbe molto da riformare nel nostro diritto; e chi ha letto il Beccaria e il Filangieri non può che affrettarne co’ voti il felice momento». Tuttavia, se, alla luce delle teorie illuministiche, si deve addebitare alla «colpa de’ tempi il tuttora vigente tra noi longobardico sistema in molte parti della nostra costituzione», non per questo non bisogna lodare il fatto che nel XIV secolo, cioè «nel tempo appunto della generale barbarie d’Europa una sarda donna abbia dato a’ secoli futuri l’esempio di savia, dotta e benefica legislatrice, gloria che non ebbe mai altra donna prima di lei»[149]. La Carta de Logu, valutata positivamente come diritto storico, era ormai considerata totalmente superata dai tempi e in stridente contrasto con le più moderne e avanzate dottrine giuridiche, come diritto vigente.

 

5. – Il crepuscolo della Carta de Logu

 

L’interesse per le peculiarità storiche del codice di Eleonora si accentua nel primo decennio dell’Ottocento, in coincidenza col venir meno della sua autorevolezza come diritto osservato nelle campagne del Regno. Nel 1805 vengono pubblicate a Roma in una raffinata edizione le Costituzioni di Eleonora giudicessa d’Arborea intitolate Carta de Logu del magistrato cagliaritano Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli: si tratta della prima edizione moderna della Carta che, grazie alla traduzione italiana e alle numerose note esplicative, rendeva fruibile ad un pubblico più ampio l’antico codice e consentiva agli storici e ai giuristi di penetrare il senso delle norme che avevano caratterizzato la vita rurale della Sardegna medievale e moderna[150]. Mameli, primogenito di Vincenzo Mameli de Olmedilla, dopo la laurea in Giurisprudenza a Cagliari aveva intrapreso la carriera giudiziaria, prima come aggiunto della sala criminale della Reale Udienza, poi come magistrato effettivo, nel 1799 consigliere di Stato, e nel 1803 giudice del Consolato[151].

Quando pubblicò le Costituzioni, Mameli aveva una solida preparazione tecnica ed una profonda conoscenza del diritto patrio della Sardegna. Nel Proemio avverte il lettore che la «traduzione della Carta de Logu, intrapresa da me ad intendimento di rendere maggiormente noto un Codice così ben inteso e de’ migliori che si sieno compilati ne’ suoi tempi», avrebbe potuto «non incontrar l’approvazione de’ rigorosi osservatori» della lingua italiana e non sarebbe certo piaciuta ai «grammatici per la frequente inosservanza delle regole» di un «testo sardo di tanto antica composizione»[152]. In effetti il curatore si rende autocriticamente conto che l’italiano adoperato nella traduzione e nelle note esplicative risulta spesso pesante e farraginoso e che l’arbitrario adattamento (con la modifica della grafia e delle desinenze originarie) dell’antico logudorese del codice al sardo campidanese corrente dei suoi tempi risulta filologicamente improponibile. Per la sua traduzione egli si era basato sui Commentaria et glosa di Olives, ma con candida franchezza ammette di non aver consultato le edizioni a stampa precedenti[153].

D’altra parte le finalità dell’opera non erano né filologiche, né tanto meno giuridiche, ma essenzialmente patriottiche, volte cioè a magnificare con orgoglioso compiacimento l’antico statuto sardo[154]. Mameli non intendeva redigere un nuovo commentario, sul modello di quello di Olives, ad un testo normativo ormai desueto e superato in gran parte dalle leggi vigenti, ma si prefiggeva di realizzare un’opera essenzialmente storico-antiquaria: la tentazione di un’analisi prettamente giuridica fu «sempre vinta – affermava – col tenermi saldo nel primier mio proponimento di non innovare notabilmente, e levar soltanto da questo antico libro l’antica polvere, per quanto mi fosse possibile»[155].

Nonostante i loro limiti intrinseci Le costituzioni del magistrato cagliaritano si presentavano come un lavoro nel complesso utile, soprattutto per la conoscenza e la divulgazione di un testo di non sempre facile comprensione. È significativo, ad esempio, che proprio dall’opera di Mameli Federigo Sclopis traesse le notizie sulla Carta de Logu per la sua Storia della legislazione italiana, la prima, organica e documentata storia del diritto dalle invasioni barbariche al processo codificatorio e costituzionale unitario[156]. A dispetto del giudizio favorevole di Manno («un’opera scritta con buon giudizio e ricca di patrie notizie»), la storiografia sarda ha nel complesso valutato negativamente il lavoro di Mameli[157]. Un severo verdetto senza appello venne infine espresso da uno dei più autorevoli storici del diritto, Enrico Besta, secondo cui tra le edizioni del codice di Eleonora quella di Mameli era «forse di tutte la peggiore»[158].

Gli anni del soggiorno dei Savoia in Sardegna (1799-1814) sono un periodo indubbiamente contraddittorio, che ha fatto discutere a lungo gli storici[159]. Il definitivo tramonto delle aspirazioni autonomistiche e delle rivendicazioni costituzionali, seppur all’interno del quadro di una monarchia mista di Antico Regime, e delle istanze di rinnovamento sociale ed economico, col superamento del regime feudale attraverso il meccanismo del riscatto oneroso da parte delle comunità, segna la sconfitta dei nuovi ceti emergenti che si sentivano ormai protagonisti della vita politica e civile del Regno. La feroce repressione che si abbatté sui protagonisti della «sarda rivoluzione» decapitò infatti un’intera classe dirigente sia nelle realtà urbane, tra le fila della nobiltà di toga, degli avvocati, dei notai, degli ecclesiastici, sia nei villaggi, dove faticosamente iniziava a distinguersi un nuovo ceto di principali, di possidenti, di parroci e di rettori, che si battevano per un nuovo assetto di proprietà della terra e per nuovi rapporti di produzione nelle campagne. Non a torto Joseph de Maistre, reggente la Reale Cancelleria a Cagliari dal 1800 al 1803, definiva bâtonocratie il dispotico governo del viceré Carlo Felice[160]. Per oltre un ventennio il feudalesimo costituì una delle fondamenta della «restaurata» monarchia sabauda in Sardegna[161]. La Carta de Logu continuò di conseguenza ad identificarsi col sistema consuetudinario connaturato agli ordinamenti feudali, disciplinando ancora gli antichi usi agricoli e pastorali delle ville, i matrimoni sardeschi, le incariche, il diritto penale con le sue pene crudeli.

Tuttavia, già dalla metà del primo decennio del secolo inizia a profilarsi una linea di governo tesa a riproporre, seppur in un contesto radicalmente mutato alcuni temi cari al riformismo boginiano: la diffusione delle tecniche agronomiche, l’esigenza della chiusura dei terreni, la necessità della riforma dell’amministrazione della giustizia, il riordina­men­to della legislazione del Regno[162]. La fondazione nel 1804 della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari finalizzata, all’educazione degli agricoltori attraverso la divulgazione delle nuove tecniche e dei moderni sistemi di conduzione della terra, alla valorizzazione delle risorse naturali e allo sviluppo delle potenzialità produttive dell’isola, ripropose con forza la «linea Gemelli» a favore dell’individualismo agrario[163].

In uno dei primi dibattiti dell’Accademia, quello sviluppatosi nel 1805 sui modi per «conciliare l’agricoltura colla pastorizia, ossia trovare i mezzi coi quali cessando le insorte gare tra gli agricoltori e i pastori, si possa far fiorire e prosperare questo doppio ramo di ricchezza universale», si delineano posizioni divergenti tra i fautori tout court delle chiusure dei campi, tra i nostalgici del sistema comunitario, tra i sostenitori delle ragioni degli usi collettivi a proposito della mancanza dei pascoli[164]. La posizione prevalente era quella rappresentata dal presidente dell’Accademia, Lodovico Baille, che si riallacciava alle tesi del Rifiorimento a proposito della necessità di creare «le praterie artifiziali», di migliorare i pascoli «con quelle erbe che saranno giudicate più salubri, più nutrienti», di «promuovere il sistema delle chiusure tanto utile, anzi imprescindibile ovunque si voglia che prosperi l’agricoltura», di moderare l’iniziativa dei proprietari che, persuasi «del maggior pregio e valore» di un «terreno colla chiusura, vorrebbero forse cerchiare vastissime estensioni a pregiudizio degli altri in tanto che dura tuttora il sistema della comunione dei pascoli»[165]. Baille e il sacerdote Efisio Muscas, strenui sostenitori della necessità di incrementare le chiusure, criticavano però le iniziative private illegittime, indicavano in dieci starelli (circa quattro ettari) l’estensione massima di ogni terreno da recintare e suggerivano di riservare in proprietà ai concessionari i nove decimi della superficie chiusa[166].

Vi è un nesso evidente tra le discussioni e le iniziative della Reale Società Agraria e la promulgazione dell’editto del 3 dicembre 1806 diretto alla promozione della coltivazione degli oliveti, che può essere considerato come una parziale recezione legislativa della cosiddetta «linea Gemelli». Il provvedimento prendeva le mosse dalla «legge patria» (prammatiche, capitolo di corte del 1624, etc.), rinnovando a «tutti li possidenti vigne ed altri terreni chiusi l’obbligo di circondarli d’alberi di olivo […] a riserva delle sole tanche, il pascolo delle quali si farà risultare necessario al bestiame». Era concesso ai «proprietari di terreni aperti, non escluse le vidazzoni e i paberili di chiuderli liberamente per formare oliveti» e veniva ribadita la decadenza dalla concessione nel caso in cui il concessionario non avesse ottemperato alle finalità previste dall’editto[167]. Sebbene in questa disposizione comparissero per la prima volta in modo esplicito i termini «proprietario» e «proprietà», stentava comunque ad affermarsi un’organica concezione degli assetti di proprietà e di chiusura dei terreni, capace di superare la logica delle concessioni particolari (per i vigneti, per il foraggio, per i gelsi, per gli orti, per gli oliveti): l’editto costituisce però il primo, sostanziale provvedimento di eversione non soltanto del sistema comunitario, ma anche della Carta de Logu che disciplinava la cungiadura solo sotto l’aspetto economico, in vista cioè della protezione del fondo dai danneggiamenti del bestiame e degli uomini, e non come dominio esclusivo.

Si trattava dunque di estirpare dalla mentalità dell’agricoltore sardo – come sostiene Giuseppe Manno, allora sostituto sovrannumerario dell’avvocato fiscale, in un discorso letto nell’«adunanza» del 24 novembre 1811 della Reale Società Agraria – il «pregiudizio dell’abitudine»: la «legislazione stessa – afferma il giovane magistrato – previene i dubbi che l’attual sistema della comunanza delle terre potrebbe eccitare sul luogo e sulla difesa delle novelle piantagioni», in attesa del «desiato momento, in cui un’equabile ripartizione e chiusura delle terre da lavoro porti seco la sicurezza, la vera proprietà e l’interessamento»[168].

Il «desiato momento» avrebbe conosciuto tempi estremamente lunghi di realizzazione, mentre nel vuoto legislativo si sviluppava un movimento spontaneo di chiusura delle vidazzoni e spesso di recinzione dei pascoli, con numerosi abusi sovente a scapito degli stessi diritti collettivi delle comunità di villaggio, che assumeva connotati diversi nelle varie realtà territoriali dell’isola. Molto spesso si trattava di “usurpazioni” che si erano sviluppate già dagli ultimi decenni del Settecento[169]. Nel 1818 le comunità del Ducato di Monteacuto, Ozieri, Oschiri, Tula e Buddusò inoltravano al Supremo Consiglio di Sardegna un ricorso nel quale lamentavano che dal 1815 la duchessa di Benavente avesse fatto demolire dal proprio reggitore alcune «tanche erette senza permesso». La stessa protesta dimostra quanto fosse ancora evanescente il diritto di “proprietà” in Sardegna. Il feudo si faceva infatti strenuo difensore del regime comunitario. I Consigli comunitativi, sostenitori del movimento delle «chiusure» facevano presente che la «misura» baronale «contro un sistema già adottato e diretto a togliere le promiscuità de’ terreni e pascoli, sorgente infausta di tanti mali che hanno desolato la Sardegna», avrebbe potuto provocare «un gran disordine» nel Capo di Logudoro[170].

Per dirimere la spinosa controversia venne chiesto un parere a Prospero Balbo, che da ambasciatore sabaudo a Madrid aveva avviato un negoziato per ottenere il riscatto dei feudi sardi in cambio di un indennizzo. Confutando le tesi dell’avvocato della duchessa, secondo cui in Sardegna «non solo le terre pubbliche e le comuni, ma eziandio le proprie» non potevano essere chiuse «senza la permissione del feudatario», Balbo sostiene che il «diritto preteso da’ baroni di vietar le chiusure o non ha fondamento o nasce da pretesa proprietà di terreni. A questi termini ridotta la controversia, cioè quistionandosi di proprietà, l’ordine delle presunzioni legali parmi – spiega Balbo – che sia prima in favore di chi possiede, vale a dire di chi coltiva o fa coltivare, poi del comune, poi del fisco, poi del barone». Per migliorare le condizioni dell’agricoltura sarda propone tre forme di intervento, collegate fra loro: «Regolare con leggi le mutazioni di proprietà che si fanno per atto fra’ vivi o per successione a’ defunti»; «Imporre colla maggior possibile uguaglianza le contribuzioni necessarie»; «Incorporare al dominio eminente o pubblico il dominio utile o privato, che è quanto dire insignorirsi e disporre d’una proprietà»[171]. Nonostante la prudenza nei confronti delle prerogative signorili e il richiamo delle «leggi patrie» («Io non ho saputo trovarvi il menomo vestigio del supposto diritto di vietar le chiusure»)[172], Balbo affermava con decisione una presunzione di proprietà a favore, appunto, di chi possedeva o coltivava la terra: poiché, poi, la proprietà implicava a sua volta una «presunzione di interezza», cioè il diritto di escludere altri, ne derivava ovviamente la necessità di chiudere. L’alto funzionario sabaudo finiva così per teorizzare il diritto «assoluto» di proprietà come espressione della libera iniziativa individuale che si opponeva al regime comunitario e a tutte le limitazioni del godimento individuale[173].

Che le «più antiche leggi del Regno» fossero in oggettivo contrasto con questa nuova concezione della proprietà che si stava faticosamente affermando viene notato nel 1818 da Manno, ora primo ufficiale della Segreteria di Stato per gli affari di Sardegna, secondo cui il codice di Eleonora «proverebbe che la chiusura in quei tempi invece di essere un oggetto di particolar grazia ed impetrazione, era solo considerata come un articolo di cautela legale per acquistare il dritto del risarcimento dei danni contro i pastori del bestiame vagante nei seminati: siccome non risulta – prosegue – che tali chiusure acquistassero quella perpetuità, che è la sola che si richiede nello stabilire e favorire la proprietà […], perciò non può dall’esame della Carta de Logu trarsi alcun sicuro raziocinio per conoscere il sistema di quei tempi sulla libertà o dipendenza delle chiusure»[174].

L’editto detto «delle chiudende» del 6 ottobre 1820 (ma pubblicato in Sardegna soltanto il 14 aprile 1823), recepì ampiamente le posizioni del movimento economico e giuridico a favore delle chiusure. Formalmente il provvedimento non era in contraddizione con gli ordinamenti feudali («non intendendosi con la facoltà alla chiusura – si legge nelle Istruzioni sovra le chiudende – variato, alterato, o diminuito in alcun conto» il diritto «esercitato dal barone sul territorio»), ma in realtà iniziava a minarne le fondamenta assestando un duro colpo al regime comunitario e non – come spesso erroneamente si è scritto – ai domini collettivi delle comunità sui cosiddetti terreni ademprivili. L’editto, infatti, concedeva la facoltà di chiudere qualunque terreno di proprietà privata «non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana e d’abbeveratojo»; nei terreni soggetti a servitù la chiusura poteva essere effettuata solo dietro domanda al prefetto, previo assenso delle comunità interessate[175]. A proposito dello «spirito informatore» della legge, Carlo Guido Mor ha osservato che la «nuova proprietà privata» derivava dalla «chiusura di terreni su cui il privato o il villaggio» esercitavano «diritti di possesso, con questa sola differenza che se il possesso era coordinato con diritti ademprivili di terzi», la chiusura doveva essere autorizzata dalle autorità. Quindi il «rimedio della chiusura» costituiva il «solo titolo legale sulla proprietà perfetta»[176].

L’applicazione concreta della legge incontrò numerosi ostacoli, provocò svariati abusi in violazione delle servitù e suscitò la dura opposizione delle comunità specie nelle regioni ad economia pastorale[177]. Soltanto con la carta del 26 febbraio 1839, promulgata all’indomani del riscatto dei feudi, definita non a torto da Italo Birocchi come il «vero ordinamento organico della proprietà»[178], venne accertata l’esistenza del dominio utile e del «titolo» che consentiva all’utilista, attraverso la «chiusura», di diventare titolare esclusivo del bene con tutte le annesse condizioni di stabilità e di continuità[179]. Già con l’editto del 1820 erano comunque venuti meno i presupposti di una cungiadura soggetta, attraverso l’omologazione, la verifica e la perizia da parte dei giurati del villaggio degli eventuali danni arrecati dal bestiame, all’ingerenza della comunità, che non isolava giuridicamente un lotto di terreno da un altro, ma lo distingueva solo economicamente, determinando pertanto non un diritto di proprietà, ma di uso.

Nel primo decennio dell’Ottocento restava ancora insoluto il grave problema della riforma della giustizia penale e della repressione della criminalità rurale. È emblematica, a questo proposito, l’istituzione nel 1807 di quindici prefetture finalizzate al riordinamento dell’amministrazione della giustizia, di controllo governativo sui feudi, di perequazione tributaria. I prefetti avevano infatti una duplice funzione: giurisdizionale ed amministrativa; erano giudici di prima istanza nei villaggi capoluoghi e di appello nei restanti villaggi della provincia; in qualità di intendenti provinciali esercitavano la sorveglianza in materia d’imposte e di composizione dei Consigli comunitativi; vigilavano sulla pubblica sicurezza, sugli uffici patrimoniali, sulla produzione agricola[180]. La questione feudale era vista soltanto dal punto di vista tributario: si mirava infatti a colpire gli abusi senza peraltro intaccare il sistema giudiziario baronale. Ancora nel 1818 Balbo non vedeva l’«urgenza» dell’abolizione della giurisdizione feudale: «Né penso – scriveva – si debba togliere ai baroni senza fare ad un tempo nel sistema dei tribunali qualche notabile miglioramento, e tale non parmi il togliere ai baroni la nomina dei giudici inferiori solo per darla alla Corona che non ha sicurezza di scelte migliori. Che se in questa parte si vuol fare una buona e salutare operazione – concludeva Balbo – non si troverà grande ostacolo; poiché in Sardegna la giurisdizione dei baroni è loro di molto gravosa per le spese dei carcerati»[181].

Il numero dei delitti che si commettevano nelle campagne restava elevato: ad esempio, nei decenni 1800-1809 e 1810-1819 la media annua degli omicidi era rispettivamente di 107 e 135 unità[182]. Nel 1816 Jean François Mimaut, console francese a Cagliari, in un’acuta e dettagliata relazione sulle condizioni dell’isola, riscontrava i numerosi «abus dans l’administration de la justice criminelle», dovuti ad un «code pénal très compliqué»: «la lenteur de la procédure et la multiplicité même des crimes – afferma Mimaut – en rendent la punition irrégulière et difficile. Il faut ajouter que les moyens de parvenir à la conviction des prévenus sont toujours imparfaits. Les dépositions des témoins dans un pays, où les vengeances de famille se perpétuent, sont trop dangereuses pour n’être pas inexactes ou fausses, les malfaiteurs sont bien connus, les assassins bien constatés; mais la prudence ou la fausseté rendent presque toujours insuffisante ou nulle l’audition testimoniale»[183].

Nel primo decennio del secolo si fa più pressante la necessità di  «esaminare le troppo voluminose e per conseguenza confuse leggi di questo nostro Regno e contemplarle nella maniera più semplice e chiara»[184]. A questo fine nel 1806 veniva nominata una commissione, presieduta da Cristoforo Pau, incaricata di realizzare una raccolta finalizzata all’obiettivo di «divenirsi ad una perfetta e generale legislazione»: il materiale di base sarebbe stato costituito dalle «leggi attuali sparse in diversi volumi e luoghi (Carta de Logu, Capitoli di Corte, Regie prammatiche, Regi Editti, Pregoni viceregi muniti dell’approvazione della Reale Udienza a sale riunite, Carte Reali e Regi Viglietti vertenti su cose molto sostanziali)»[185]. La commissione intendeva infatti elaborare una raccolta sistematica delle disposizioni vigenti con valore di legge, per tutti i rami del diritto (diritto sostanziale e diritto procedurale): insomma, una “compilazione” ancora una volta ispirata al collaudato modello delle Leggi e Costituzioni piemontesi. I lavori non andarono in porto, probabilmente, per l’affievolirsi della spinta governativa. Il progetto, come ha osservato Birocchi, rimane comunque la prima, significativa testimonianza dell’«esigenza del consolidamento del ius patrium, ormai assunta in prima persona dalla monarchia». Il ius municipale, che per tutto il XVIII secolo era considerato espressione di «una tradizione autonomistica» per certi aspetti contrastante con l’assolutismo sabaudo e che si sostanziava di norme risalenti al Medioevo giudicale, come la Carta de Logu, o al periodo aragonese-spagnolo, veniva assunto quale «oggetto della politica legislativa: si progettò ufficialmente – sottolinea ancora Birocchi – di ridurlo ad unità, con un intervento che avrebbe inciso inevitabilmente su di esso non solo nella forma ma anche nei contenuti»[186].

Tuttavia, il contributo più significativo al processo di consolidazione del diritto patrio del Regno, pur limitato alla materia criminale, venne non tanto dagli ambienti governativi quanto da un’iniziativa individuale. Nel 1817 apparve a Genova l’opera Dei delitti, delle pene e della processura criminale di Domenico Fois che, sebbene iniziativa di un privato, fu apprezzata dal governo tanto da ottenere la dedica al re Carlo Felice e l’autorizzazione alla pubblicazione. L’opera, come spiega l’autore nella prefazione, era rivolta soprattutto alla pratica e non entrava in merito ai problemi teorici dibattuti dai criminalisti del primo Ottocento. L’obiettivo di Fois era infatti quello di «raccogliere, distribuire, ordinare, in qualche modo fissare i principj elementari della giurisprudenza criminale» e di «soggiungere di tratto in tratto le disposizioni delle leggi vigenti del Regno di Sardegna mia patria; qual cosa credo – spiegava – potrà giovare singolarmente a quelli tra’ concittadini che sono chiamati a trattare i criminali negozj»[187]. Il trattato era ampiamente debitore alle opere della tradizione giusnaturalistica, mostrava di tenere nel debito conto gli studi penalisti degli autori italiani tardosettecenteschi (Filangieri, Risi, Renazzi, De Simoni, Cremani, etc.) e, naturalmente, di Beccaria. L’opera di Fois costituisce un riuscito tentativo di classificazione e di reinterpretazione delle «leggi patrie» e, insieme, una summa del diritto criminale sardo disperso in varie fonti, dalla Carta de Logu agli editti sabaudi, ordinata secondo princìpi razionali[188]. Questa «singolare consolidazione dottrinale» classificava non soltanto i delitti (ad esempio: «quadriglia è il numero di più di tre persone armate che battono la campagna commettendo ruberie o altri misfatti)[189], ma criticava anche la normativa vigente ogniqualvolta la reputava in contrasto con le «massime» della ragione: ad esempio, la «legge patria» che permetteva l’«uccisione dei banditi esposti alla pubblica vendetta» o quella, «molto pericolosa», che ammetteva «i testimonj inabili eccedendo il numero di due» per la «prova legale del furto di bestiame»[190].

Ma è soprattutto sull’«antichissima nostra istituzione» dell’incarica che si concentravano le critiche di Fois, che osservava come il «Comune o gli abitatori delle capanne» fossero «grandemente interessati ad evitar la incarica», mentre gli «agenti delle curie» baronali lo fossero «egualmente per mantenerla»: dimostrava inoltre l’inefficacia della responsabilità collettiva come strumento repressivo, sostenendo che l’istituto non aveva più «quel grado di bontà relativa» che possedeva «all’epoca in cui fu dalle leggi stabilita» ed evidenziando, spesso con malcelata ironia, tutte le deficienze procedurali, le contraddizioni nella quantificazione delle multe e le difficoltà di riscuoterle[191]. Le osservazioni sull’incarica attirarono le severe critiche del Supremo Consiglio di Sardegna che, nel parere del 10 aprile 1817, ergendosi a difensore della tradizione, accusava Fois di aver commesso un grosso «sbaglio» nel considerare l’istituto come derivato dall’obbligazione di garanzia che il potere civile doveva ai privati «in forza del patto sociale»[192]. Soltanto con la consulta del 13 maggio il Supremo Consiglio approvò la pubblicazione dell’opera, a condizione che ne venissero tolte tutte le «osservazioni» che riguardavano l’«interpretazio­ne o la censura delle patrie leggi» (seguiva un dettagliato elenco di modifiche da apportare) e di porre in evidenza che l’«autore» aveva voluto esprimere «le sue proprie opinioni senza alcuna intenzione d’istruire il pubblico e di indurlo ad una pratica diversa da quella fin qui osservata nel Regno»[193].

Proprio perché proponeva opinioni private il trattato Dei delitti e delle pene non poté essere utilizzato come strumento di interpretazione del diritto criminale vigente. L’opera di Fois anticipava però le riforme legislative attuate dal governo negli anni successivi, prime fra tutte nel 1821 l’estensione alla Sardegna dell’editto, già emanato per gli Stati di Terraferma nel 1814, con cui veniva definitivamente abolito «ogni residuo genere di tortura»[194]. Nel 1823 incominciarono i lavori preparatori della nuova “consolidazione”, primo tentativo ufficiale di raccogliere e risistemare il ius patrium del Regno: il 16 agosto venne nominato il magistrato Costantino Musio, membro del Supremo Consiglio di Sardegna con l’incarico di fare una prima cernita delle «leggi patrie», valutando quali conservare e quali invece escludere dalla raccolta. La Reale Udienza, il reggente la Reale Cancelleria, la Reale Governazione di Sassari, il magistrato del Consolato e la Giunta Patrimoniale furono sollecitati ad inviare a Torino pareri e proposte sulla riforma. Si chiese anche la trasmissione delle copie dei capitoli di corte inediti e un parere specifico della Reale Udienza sull’istituto dell’incarica. Il 30 giugno 1824 il testo del progetto elaborato da Musio fu inviato a Cagliari in due grossi volumi manoscritti per essere esaminato dai giudici della magistratura suprema del Regno. A questo fine venne costituita un’apposita commissione, presieduta da don Angelo Giua e composta dai magistrati don Francesco Mannu, Pasquale Randaciu, Francesco Mossa (relatore delle materie civili), don Giuseppe Paderi e dall’avvocato dei poveri Domenico Fois (relatore per il criminale). I suoi lavori incominciarono il 25 luglio e terminarono il 27 novembre. Il progetto venne poi discusso dalla Reale Udienza a sale riunite e rispedito nella capitale subalpina il 30 aprile 1825, insieme ai verbali della commissione e alle osservazioni della Reale Udienza. Infine, dall’8 giugno al 1° settembre 1826, il Supremo Consiglio di Sardegna esaminò il progetto e le osservazioni e mise a punto il testo definitivo[195].

Sul progetto si sviluppò nelle alte magistrature piemontesi e sarde un dibattito in cui si delinearono sostanzialmente due posizioni: da un lato, quella dei giuristi, che ritenevano necessaria una profonda e radicale revisione delle «leggi patrie» con una riscrittura e una riformulazione degli istituti civili e criminali, pur all’interno di una consolidazione ancora legata al diritto comune (ma, specie per il diritto criminale, essi avevano una buona conoscenza del code pénal francese); dall’altro, quella dei magistrati, che si mostravano molto più accondiscendenti nei confronti del ius patrium e delle consuetudini locali, convinti che alcuni istituti tradizionali dovessero essere riproposti nella nuova raccolta legislativa. È emblematico, ad esempio, il caso dell’abolizione dell’incarica: Musio la conservò nel suo progetto; il segretario di Stato per gli interni, il conte Gasparo Roget di Cholex, considerando «dettata questa legge dalle particolari circostanze di tempo e di luogo» la reputò «meritevole di venir antiquata»; la commissione del 1824 la considerò ormai anacronistica, non più rispondente a una regolare amministrazione della giustizia e a un sistema ordinato di «forza pubblica» nelle campagne, specie dopo l’istituzione dei carabinieri reali; infine, il Consiglio Supremo ne propose l’abolizione, che venne recepita nel testo delle Leggi; nel 1825 la Reale Udienza sostenne invece l’utilità di far sopravvivere l’antico istituto almeno per i delitti più gravi (omicidio, grassazione, incendi); il viceré vicario, conte Gennaro Roero di Monticelli, nel dispaccio di accompagnamento del parere del supremo magistrato, si dichiarò contrario alla riproposizione del principio della responsabilità collettiva[196].

Gli articoli delle Leggi civili e criminali che richiamano esplicitamente i capitoli della Carta de Logu sono in definitiva assai pochi: riguardano, oltre il termine di usucapione delle cose mobili, le pene per i reati di lesa maestà, di omicidio volontario, di ferite e percosse, di distruzione delle re­cinzioni o dei segnali di confine, di espianto e taglio doloso di alberi, di devastazione dei vigneti e degli orti recintati, di introduzione del bestiame manso o rude dentro le vigne ed «altri predij chiusi» e di cavalle nei «prati» dove «sono cavalli domiti», di uccisione del bestiame nei casi non consen­titi dalla legge[197]. Altri istituti consuetudinari, anch’essi contemplati dallo statuto arborense, come la comunione dei beni fra coniugi, i contratti di soccida, la repressione dell’abigeato e degli incendi dolosi, la disciplina dei «segni» e dei «marchi» del bestiame, il furto di alveari, le tenture e le machizie, vengono recepiti dalla consolidazione feliciana attraverso le prammatiche, i capitoli di corte, i pregoni viceregi del periodo spagnolo e sabaudo.

Nel proemio di Carlo Felice alla raccolta (redatto in realtà da Manno, magistrato del Supremo Consiglio) si affermava che la «citazione delle antiche Leggi del Regno», riportata «al margine» al «solo fine di conservare» la loro memoria, non permetteva «a veruno di poter allegare alcuna diversità o cambiamento di giurisprudenza fra le une e le altre disposizioni», specificando che non dovevano «in altro modo intendersi» se non «nella forma e nel tenore» in cui erano riferite, incorporate, «spiegate nelle presenti Leggi». Si riteneva opportuna l’osservanza di «quelle fra le antiche leggi» che non si era potuto comprendere nella «compilazione» ma che vi erano ricordate «espressamente» in «alcuni articoli della medesima», con la «dichiarazione di una continuata osservanza». Nei casi non previsti dalla raccolta feliciana si continuava a derogare alla «Romana giurisprudenza» applicata al diritto patrio, che era stata «sempre in vigore in mancanza delle Leggi del Regno»[198].

Il cosiddetto «Codice feliciano» è un’opera necessariamente contraddittoria: come ha osservato Grossi, «è una consolidazione fuori del suo naturale alveo storico; è una consolidazione in epoca di codificazione». Promulgata vent’anni dopo la pubblicazione dei codici napoleonici e soltanto dieci anni prima del codice albertino, la raccolta feliciana intendeva «solo compiutamente consolidare il diritto sardo»[199]. Un’opera, quindi, che si riallacciava agli schemi e all’impianto delle consolidazioni settecentesche, che non conteneva una normativa esauriente, derogando ancora una volta al diritto comune, e si mostrava reticente sui problemi della giustizia e degli ordinamenti feudali ed evasiva nei confronti dei nuovi provvedimenti a favore delle chiusure dei terreni. Innovazioni vi sono in alcune materie civili, come ad esempio nell’ambito delle successioni o nell’abolizione di fedecommessi e primogeniture. L’attenzione prevalente delle Leggi era però rivolta alla materia penale, che presentava indubbiamente importanti elementi di novità come l’abolizione del sistema inquisitorio segreto e delle prove privilegiate, la restrizione dei poteri discrezionali del giudice, la conferma dell’abolizione della tortura, della fustigazione e dei marchi d’infamia. Ma vi si sancivano anche alcune pene eccessive, come quella della galera perpetua per i recidivi nel delitto di abigeato o quella di dieci anni di galera a chi avesse baciato in pubblico una giovane anche consenziente al fine di sposarla. In più, sopravvivevano inoltre alcuni privilegi nobiliari come l’esenzione dalla giurisdizione dei tribunali ordinari e dalla pena della galera e la forma speciale di citazione nelle cause civili[200]. Non a torto Manno ha sostenuto che la consolidazione feliciana rappresentava un «passo grandissimo» in avanti nella «via legislativa» di semplificazione e di razionalizzazione della normativa del Regno[201]. Si trattava di un’opera che guardava soprattutto indietro, volta al recupero dell’antico diritto patrio sardo: secondo Mondolfo, invece rappresentava una «specie di transizione fra la tradizione e lo spirito nuovo»[202].

Col «Codice feliciano» i capitoli della Carta de Logu, inglobati nel nuovo testo insieme al resto delle «leggi patrie», vennero relegati tra le fonti storiche. «Cessò il bisogno di punire il furto con la pena di morte e il Legislatore l’abolì» – scriveva nel 1828 il «Giornale di Cagliari» –. La pena d’incarica, il benefizio d’impunità eran la prova della debolezza dei governi e l’ultimo specialmente per seminare la diffidenza tra le bande dei facinorosi offendeva la moralità con dar fomite ai tradimenti e spesso la giustizia con favorire più del reo debole il reo potente. Ambi furon tolti. […]. Proscritta fu la fustigazione, che non più si ha bisogno di mezzi così violenti per inspirare l’orrore dell’infamia: l’abbandono dei rei alla vendetta pubblica abolito, che in mano dei privati non mai dee riporsi la spada ultrice della giustizia»[203]. Così, dopo oltre quattro secoli la Carta de Logu usciva di scena, scarsamente rimpianta, come «legge generale» del Regno[204].

 

 

 



* Questo lavoro si ricollega – anzi, ne è una vera e propria prosecuzione – al saggio La Carta de Logu tra diritto comune e diritto patrio (XV-XVII secolo), in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a cura di I. Birocchi e A. Mattone, Roma-Bari, Laterza, 2004, 406-478. È stato realizzato col contributo del Miur, fondi Prin (ex 40%). Un ringraziamento particolare a Italo Birocchi e a Manlio Brigaglia che hanno letto il testo e sono stati prodighi di consigli e suggerimenti. Numerose informazioni mi sono state fornite da Alessandra Argiolas, Mario Da Passano, Carla Ferrante, Tiziana Olivari e Piero Sanna che ringrazio.

[1] F. Venturi, Giuseppe Cossu, in Illuministi italiani, vol. VII, Riformatori delle antiche Repubbliche, dei Ducati, dello Stato Pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, 849-851. Cfr. anche A. Mattone, Franco Venturi e la Sardegna. Dall’insegnamento cagliaritano agli studi sul riformismo settecentesco, in Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, n. 47-49, 1996, 303-355, in particolare 335-347.

[2] Cfr. F. de Vico, Leyes y pragmaticas reales del Reyno de Sardeña, Napoles, Imprenta real, 1640 (durante il governo sabaudo ristampate Sasser, Emprenta de Joseph Piattoli, 1780); J. Dexart, Capitula sive acta curiarum Regni Sardiniae, Calari, typis Antonii Galcerin apud Bartholomeum Gobettum, 1645 (ristampa Calari, ex typographia Petri Borro per Gaspar Nicolaus Garimberti, 1725); Pregon general mandado publicar por el Excelentisimo Señor Don Fernando de Moncada Aragón, La Cerda y Caetano, duque de San Juan, Caller, en la emprenta de Santo Domingo por fray Juan Bautista Canavera, 1700, ristampato con traduzione italiana a fronte, Cagliari, Reale Stamperia, 1780. Per la Carta de Logu cfr. l’edizione anastatica dell’incunabolo (1480 circa), a cura di A. Scanu, Cagliari, Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport, 1991. Nei tribunali settecenteschi era adoperata l’edizione glossata da H. Olives, Commentaria et glosa in Cartam de Logu, Madriti, in aedibus Alfonsi Gomezij et Petri Cossin Typographorum, 1567, fra le ristampe cfr. quella Calari, ex typographia Nobilis D.D. Petri Borro per Gaspar Nicolaus Garimberti, 1725. Utile risulta la consultazione di F.C. Casula, La “Carta de Logu” del Regno di Arborea. Traduzione libera e commento storico, Sassari, Carlo Delfino editore, 1995. Cfr. a questo proposito F. Loddo Canepa, Le pubblicazioni ufficiali del Regno di Sardegna, in Mediterranea, V, 1931, n. 8-10, 3-6; T. Olivari, Le edizioni a stampa della Carta de Logu (XV-XIX secolo), in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto cit., 165-191.

[3] Cfr. G. Ricuperati, Le avventure di uno Stato «ben amministrato». Rappresentazioni e realtà nello spazio sabaudo tra Ancien Régime e Rivoluzione, Torino, Tirrenia Stampatori, 1994, 7-17; G. Symcox, La trasformazione dello Stato e il riflesso nella capitale, in Storia di Torino, vol. IV, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), a cura di G. Ricuperati, Torino, Einaudi, 2002, 719-841.

[4] Il termine «consolidazione», che qui adoperiamo per comodità, utilizzato da M.E. Viora, Consolidazioni e codificazioni. Contributo allo studio della codificazione, Torino, Giappichelli, 1967, 11-25, è stato oggetto di motivate riserve da parte di U. Petronio, Una categoria storiografica da rivedere, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XIII, 1984, 705-717, sostanzialmente riprese in Id., La lotta per la codificazione, Torino, Giappichelli, 2002, 92-102. Il punto sul dibattito viene ora fatto da I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, 539-549.

[5] Cfr. F. Loddo Canepa, Giudizi di alcuni viceré sabaudi sulla Sardegna e i suoi problemi attraverso i carteggi ufficiali del Settecento, in Annali della Facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari, XIX, 1952, parte 1, 1-18 dell’estratto.

[6] Il testo del giuramento è in S. Lippi, Re e principi della dinastia sabauda in Sardegna, Cagliari, Valdès, 1899, 23-32. Cfr. per un quadro generale A. Mattone, La cessione del Regno di Sardegna dal trattato di Utrecht alla presa di possesso sabauda (1713-1720), in Rivista storica italiana, CIV, 1992, n. 1, 5-89; A. Girgenti, Vittorio Amedeo II e la cessione della Sardegna: trattative diplomatiche e scelte politiche, in Studi Storici, XXXV, 1994, 677-704; E. Mongiano, “Universae Europae securitas”. I trattati di cessione della Sardegna a Vittorio Amedeo II di Savoia, Torino, Giappichelli, 1995.

[7] Dispacci di corte, ministeriali e vice-regi concernenti gli affari politici, giuridici ed ecclesiastici del Regno di Sardegna (1720-1721), a cura di F. Loddo Canepa, Roma, Società nazionale per la storia del Risorgimento, 1934, doc. n. III, 10, 12, 19.

[8] Ivi, doc. n. XXXV, 67.

[9] Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi AST), Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 4, n. 2, Veridica rellazione del Regno di Sardegna e del suo governo, politico ed ecclesiastico (s.d.). Il diritto di incarica era la responsabilità collettiva della comunità di villaggio nel pagamento delle multe, come risarcimento del danno, per i delitti commessi nel proprio territorio per i quali non era stato accertato il reato e non erano stati arrestati i colpevoli. Così lo descrive nel 1773 Joseph Fuos, cappellano del reggimento svizzero di stanza a Cagliari: «Se avviene un delitto il giudice deve immediatamente denunziarlo al viceré, anche se prima ch’esso proceda ad un’inchiesta sul medesimo, e fino a che il comune nella cui giurisdizione è avvenuto il delitto non indica il malfattore, ovvero non lo consegna, nel caso che esso potesse acchiapparlo, deve risarcire i danni che quello ha fatto, ovvero pagare duecento scudi per la pena di morte, che egli merita. Questa è la cosiddetta incarica, che è ammessa nelle leggi del paese»: J. Fuos, Nachrichten aus Sardinien von der gegenwärtigen Verfassung dieser Insel, Leipzig, Siegfried Lebrecht Crusius, 1780, trad. it. di P. Gastaldi Millelire, Notizie dalla Sardegna (1773-1776), a cura di G. Angioni, Nuoro, Ilisso, 2000, 84. Cfr. inoltre G. Catani, C. Ferrante, Un antico istituto del diritto criminale sardo: l’«incarica» (XIV-XIX secolo), in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto cit., 385-405.

[10] Archivio di Stato di Cagliari (d’ora in poi ASC), Atti governativi, vol. I, (1720-1736), n. 5, Pregone per la proibizione di ogni genere di arma (Cagliari, 17 settembre 1720), ora in Editti, pregoni ed altri provvedimenti emanati pel Regno di Sardegna, vol. I, Cagliari, nella Reale Stamperia di Cagliari, 1775, tit. VIII, ord. I, 192.

[11] Editti, pregoni cit., vol. I, tit. IX, ordinazione unica, 324. Il diritto di machizia (dal sardo makkissa, mancanza, danno) era la facoltà accordata dalla normativa statutaria trecentesca al proprietario o al possessore di un fondo di poter macellare – o di trattenere (tenturare) sino all’accertamento del danno – un certo numero di capi di bestiame sorpresi a pascolare in un campo coltivato: cfr. G. Paulis, La machizia nel diritto della Sardegna medioevale e moderna, in Officina linguistica, I, 1997, n. 1, 89-105.

[12] L. La Rocca, Istruzioni al marchese Falletti di Castagnole viceré di Sardegna dal 1731 al 1735, in Studi storici e giuridici dedicati ed offerti a Federico Ciccaglione, vol. III, Catania, Giannotta editore, 1910, 111-112. In generale sull’età di Vittorio Amedeo II cfr. G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, vol. I e II, Modena, Società tipografica editrice modenese, 1957; G. Symcox, Vittorio Amedeo II. L’assolutismo sabaudo 1675-1730, Torino, Società editrice internazionale, 1985 (I ediz. London, Thames & Hudson, 1983); G. Astuti, Legislazione e riforme in Piemonte nei secoli XVI-XVIII, in La monarchia piemontese nei secoli XVI-XVIII, Roma, Famija piemonteisa, 1951, 97-111; Id., Gli ordinamenti giuridici degli Stati sabaudi, ora in Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, a cura di G. Diurni, vol. II, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984, 656-665; G. Ricuperati, Gli strumenti dell’assolutismo sabaudo: Segreterie di Stato e Consiglio delle Finanze nel XVIII secolo, in Le avventure di uno Stato «ben amministrato» cit., 57-75; Id., Lo Stato sabaudo e la storia da Emanuele Filiberto a Vittorio Amedeo II. Bilancio di studi e prospettive di ricerca, e F. Venturi, Problemi del Settecento piemontese, entrambi in Studi Piemontesi, 1980, rispettivamente, 20-41, 42-47. Un ancora penetrante saggio sull’età di Vittorio Amedeo II è quello di F. Venturi, Saggi sull’Europa illuminista, I, Alberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, 1954, 63-126. Sugli aspetti istituzionali cfr. anche M.E. Viora, Le Costituzioni Piemontesi (Leggi e costituzioni di S.M. il re di Sardegna) 1723-1729-1770, Milano-Torino-Roma, Fratelli Bocca editori, 1928; I. Soffietti, Le fonti del diritto nella legislazione del Regno di Sardegna nel XVIII secolo, in Rivista di storia del diritto italiano, LX, 1987, 255-265; G.S. Pene Vidari, Giudici e processo nelle raccolte legislative sabaude settecentesche, in Costituzioni sabaude (1723), Milano, Giuffrè, 2002, VII-XL.

[13] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 4, n. 11, Relazione del marchese di Cortanze dell’occorso pendente il suo governo nel Regno di Sardegna (Torino, 31 dicembre 1731).

[14] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 4, n. 10, Relazione del conte Beraudo di Pralormo sovra lo stato di quel Regno (Cagliari, 30 aprile-3 maggio 1731). Una biografia del magistrato è in Il silenzio e il servizio. Le «Epoche principali della vita» di Vincenzo Sebastiano Beraudo di Pralormo, saggio introduttivo a cura di A. Merlotti, Torino, Silvio Zamorani editore, 2003, 35-39: si tratta dell’autobiografia del figlio del reggente. Della sua permanenza a Cagliari Filippo Domenico ha lasciato un lungo e minuzioso Diario di Sardegna di quasi 2900 pagine manoscritte. Un primo studio è la tesi di laurea di E. Mura, La Sardegna nelle note cagliaritane di un alto funzionario sabaudo: i diari inediti di Filippo Domenico Beraudo di Pralormo (1730-1734), Università di Sassari, Facoltà di Scienze Politiche, rel. P. Sanna, a.a. 1999-2000.

[15] ASC, Atti governativi, vol. I (1720-1736), n. 19, Pregone sulla proibizione delle armi da fuoco del 6 marzo 1724, anche in Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VII, ord. III, 194-203, in cui si richiama quanto «prescritto dalla Reale prammatica e dai capitoli della Carta de Logu»; Ivi, vol. I, tit. VII, ord. V, 204-214, Pregone del 20 maggio 1726 sulla «proibizione del porto d’arme, la persecuzione e punizione de’ delinquenti e la verificazione de’ delitti», in cui il cap. XXVIII ripropone la pena dell’incarica; Atti governativi, vol. I, (1720-1736), n. 47, Pregone del 2 dicembre 1728 sulle quadrillas; n. 48, Pregone del 18 dicembre 1728 per l’«estirpazione delle fazioni e parzialità nelle ville del Regno», anche in Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VII, ord. VIII, 217-220; n. 49, Pregone contro i malviventi del 17 febbraio 1729; n. 51, Pregone sulla criminalità del 17 marzo 1729; n. 61, Pregone sull’ordine pubblico del 21 ottobre 1730 (manoscritto); Pregone del 6 maggio 1730 sulla proibizione delle armi da fuoco, in Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VII, ord. X, 221-225; n. 63, Pregone sulle curie reali e baronali del 16 aprile 1731; n. 65, Pregone sulla proibizione delle armi del 28 maggio 1731; n. 71, Pregon general sobre la prohibición de las armas, dell’11 gennaio 1732, con numerose notizie sulle aree di diffusione della criminalità, in Editti, pregoni, vol. I, tit. VII, ord. XI, 225-236; n. 72, Pregone sugli omicidi e sulle quadrillas del 5 febbraio 1733; Pregone del 7 maggio 1733 sulle «provvidenze per estirpare le parzialità insorte tra le ville di S. Lussurgiu e Pauli Latino», in Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VII, ord. XII, 237-238. Cfr. a questo proposito la tesi di L. Delogu, Criminalità e delinquenza nella Sardegna sabauda attraverso la corrispondenza viceregia e i documenti della Segreteria di Stato e di Guerra di Cagliari (1700-1738), Università di Sassari, Facoltà di Giurisprudenza, Corso di laurea in Scienze Politiche, rel. A. Mattone, a.a. 1990-91.

[16] Sull’esperienza complessiva del viceregno del marchese di Rivarolo cfr. A. Mattone, Istituzioni e riforme nella Sardegna del Settecento, in Dal trono all’albero della libertà. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di Sardegna dall’Antico Regime all’età rivoluzionaria, vol. I, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1991, 364-377. Cfr. inoltre A. Pino Branca, La vita economica della Sardegna sabauda (1720-1773), pref. di G. Prato, Messina, Casa editrice Giuseppe Principato, 1926, 140 sgg.; F. Loddo Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793, vol. II, Gli anni 1720-1793, a cura di G. Olla Repetto, Sassari, Gallizzi, 1975, 189-211; C. Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, Sassari, Chiarella, 1984, 69-83; A. Girgenti, La storia politica nell’età delle riforme, in Storia dei Sardi e della Sardegna, a cura di M. Guidetti, vol. IV, L’età contemporanea dal governo piemontese agli anni sessanta del nostro secolo, Milano, Jaca Book, 1989, 58-65.

[17] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 4, c. 65.

[18] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 4, mazzo 1, n. 31, Minuta d’istruzione al marchese di Rivarolo nominato viceré della Sardegna tendente al bon governo di quel Regno (s.d.).

[19] ASC, Atti governativi, vol. I, (1720-1736), n. 83, Pregone di Sua Eccellenza il viceré marchese di Rivarolo che manda osservarsi il Formolario per la costruzione de’ processi delle cause criminali, anche in Editti pregoni cit., vol. I, tit. VI, ord. II, 153-155.

[20] Cfr. P. Tola, Dizionario degli uomini illustri di Sardegna, vol. I, Torino, Chirio e Mina, 1837, 154-156; ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, vol. 710, Riflessi del giudice Cadello sovra un pregone progettato per l’arresto dei malviventi (Cagliari, 14 ottobre 1738), da cui emerge che l’orizzonte giudiziario del magistrato cagliaritano era strettamente legato alla cultura curiale dell’età spagnola e al reiterato rispetto delle leggi del Regno.

[21] Formulario para la construción de processos criminales por el que se deven arreglar las curias en virtud del Pregon del Excelentissimo Señor Virrey marqués de Rivarol de los doze de mayo MDCCXXXVI, Caller, en la Imprenta de los herederos de Honofrio Martin, 1736. Fra gli autori figurano Giulio Claro, Prospero Farinacci, Miguel de Cortiada, Orazio Greco e il suo trattato medico-legale, Miquel de Calderò, Joan Pere Fontanella, Giovanni Luigi Riccio, Garcia Mastrillo, Jaime Cancer, Lluis de Peguera, Francisco Salgado, Tommaso Agnello, Nicola Vincenzo Scoppa, Marco Antonio Sabelli, Sigismondo Scaccia, Antonio Concioli e Giovanni Domenico Rinaldi, oltre naturalmente i giuristi locali, Girolamo Olives, Francesco Vico, Pietro Quesada Pilo. Rispetto ai magistrati sardi del Seicento, assai informati sulla dottrina del tempo, la cultura giuridica di Cadello, legata soprattutto alla letteratura decisionistica e ai trattati dei pratici del XVI-XVII secolo, appare nel complesso arretrata. L’unico, indiretto riferimento a un’opera contemporanea riguarda le Leggi e costituzioni di Sua Maestà, edite a Torino nel 1729.

[22] Cfr. G. Manno, Storia di Sardegna, vol. IV, Torino, Alliana e Paravia, 1826, 173; Mattone, Istituzioni e riforme cit., 370.

[23] I provvedimenti presi durante la visita sono in ASC, Atti governativi, vol. II, (1737-1745), nn. 91-103, alcuni anche in Editti, pregoni cit., vol. I, tit. V, ord. II, 127-128, ord. III, 128-129, ord. IV, 129-130; tit. VII, ord. XIII-XVII, 238-244; vol. II, tit. XIII, ord. II, 59; tit. XIV, ord. I-II, 95-97; tit. XVIII, ord. III-IV, 307-315. Cfr. inoltre AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 5, n. 12, Relazione dello stato del Regno di Sardegna e delle provvidenze date per il buon governo del medesimo in occasione della visita fattane dal viceré marchese di Rivarolo (Cagliari, 10 giugno 1737).

[24] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 5, Relazione del marchese di Rivarolo del suo governo nel Regno di Sardegna (22 novembre 1738).

[25] Editti, pregoni cit., vol. I, tit. XI, ord. III, 342-358. Un altro pregone emanato da Rivarolo il 30 agosto 1738 prescriveva che i contratti dovevano essere sottoscritti dal notaio e dalle parti (vol. I, tit. XI, ord. IV, 359-360). Cfr. P. Canepa, Il notariato in Sardegna, in Studi Sardi, II, 1936, n. 2, 52-72.

[26] Manno, Storia di Sardegna cit., vol. IV, 173. Cfr. anche la tesi di M. Manai, Criminalità e delinquenza nella Sardegna sabauda attraverso la corrispondenza viceregia e i documenti della Segreteria di Stato e di Guerra di Cagliari (1737-1759), Università di Sassari, Facoltà di Giurisprudenza, Corso di laurea in Scienze politiche, rel. A. Mattone, a.a. 1991-92.

[27] Cfr. C. Sole, Il problema del contrabbando tra la Sardegna e la Corsica: aspetti economici e implicazioni politico-diplomatiche, in Politica, economia e società in Sardegna nell’età moderna, Cagliari, Fossataro, 1978, 93-122; A. Asole, Le operazioni di contrabbando nella Gallura del secolo XVIII, in Quaderni bolotanesi, XVI, 1990, 367-376; G. Murgia, Il contrabbando tra la Sardegna e la Corsica nel XVIII secolo, in Etudes Corses, XVI, 1988, n. 30-31, 237-251; S. Pira, La Gallura nel Settecento: una repubblica montanara tra contrabbando e banditismo, in Studi e ricerche in onore di Girolamo Sotgiu, vol. II, Cagliari, Cuec, 1994, 91-105; A. Argiolas, A. Mattone, Ordinamenti portuali e territorio costiero di una comunità della Sardegna moderna. Terranova (Olbia) in Gallura nei secoli XV-XVIII, in Da Olbìa ad Olbia 2500 anni di storia di una città mediterranea, a cura di G. Meloni e P.F. Simbula, vol. II, Sassari, Chiarella, 1996, 146-155, sulla normativa settecentesca contro il contrabbando.

[28] Cfr. M.A. Benedetto, Nota sulla mancata convocazione del Parlamento sardo nel secolo XVIII, in Liber memorialis Antonio Era, Bruxelles, Editions Corten, 1963, 115-168.

[29] Nella primavera del 1770, nel corso della visita generale del Regno, il viceré Vittorio Ludovico Hallot Des Hayes poteva consultare e «prendere cognizione» nel palazzo municipale di Sassari del Libro de’ privilegi. Incuriosito, domandò al segretario civico se essi venissero applicati «in forma specifica, come si erano concessi» dai re d’Aragona, o se nel corso del tempo «ne fosse alterata l’osservanza». Da un’attenta ricognizione poté verificare che il «privilegio del promenato», cioè l’antico juhi de prohomens di modello barcellonese, non si osservava più nella «forma» originaria, mentre la «facoltà ai probi uomini, o consiglieri di giudicare le cause criminali de’ loro concittadini», insieme al «giudice ordinario» veniva esercitata secondo il diritto accordato da Alfonso V il 6 aprile 1440: F. Loddo Canepa, Relazione della visita del viceré Des Hayes al Regno di Sardegna, in Archivio Storico Sardo, XXV, 1958, n. 3-4, 264-265; cfr. anche C. Ferrante, A. Mattone, I privilegi e le istituzioni municipali del Regno di Sardegna nell’età di Alfonso il Magnanimo, in XVI Congresso di storia della Corona d’Aragona. La Corona d’Aragona ai tempi di Alfonso il Magnanimo. Atti, vol. I, a cura di G. D’Agostino e G. Buffardi, Napoli, Paparo edizioni, 2000, 277-278.

[30] Su questa fase cfr. Mattone, Istituzioni e riforme cit., 375-380.

[31] «Non ostante tutte le provvidenze fin’ora date […], le spedizioni militari […] e li vari nuovi appostamenti di truppe», i banditi continuano a commettere «scandalosi delitti […], furti, omicidi ed insulti nelle pubbliche strade senza che nemmeno le facciano veruna impressione, i castighi, i supplici e le pubbliche esemplarità co’ quali moltissimi de’ rei capitati nelle forze della giustizia sono stati sacrificati alla pubblica vendetta». I magistrati del tribunale supremo denunciano «in primo luogo le sempre più calamitose circostanze […] poiché non ha hormai più né passo, né strada sicura per la libertà del commercio interno per essere troppo frequenti i latrocinii […]. Moltiplicansi gli abigeati ed altri furti nelle campagne […]. Ritrovansi gli abitanti nella dura necessità di non potersi assicurare il seminerio de’ loro terreni, la pastura delle greggi e la raccolta de’ loro frutti se prima non convengono co’ banditi del contributo che le dovrà dare de’ medesimi […]. Derivane da ciò la troppo scandalosa necessità d’una quasi universale connivenza nel Regno coi perturbatori della pubblica tranquillità»: L. Rogier, La Sardegna e il banditismo nel 1747 in una relazione della Reale Udienza, in La Sardegna nel Risorgimento, a cura del Comitato sardo per le celebrazioni del centenario dell’Unità, Sassari, Gallizzi, 1962, 51-52.

[32] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 5 e 6, mazzo 1 da inv., Parere della Reale Udienza sovra il nuovo progetto dell’incariche (1747). Si tratta dei pareri preliminari all’emanazione del pregone «con cui si prescrivono diverse disposizioni riguardanti le incariche» promulgato il 28 maggio 1748 dal viceré marchese di Santa Giulia, ora in Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VIII, ord. I, 319-320, nel quale viene sostanzialmente riproposta senza grandi modifiche la normativa prammaticale.

[33] Per un profilo biografico del ministro cfr. G. Quazza, Bogino Giovanni Battista Lorenzo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1969, 183-189; G. Ricuperati, Lo Stato sabaudo nel Settecento. Dal trionfo delle burocrazie alla crisi d’Antico Regime, Torino, Utet, 2001, 89-94.

[34] F. Loddo Canepa, Due complessi normativi regi inediti sul governo della Sardegna (1686 e 1755), in Annali della Facoltà di Lettere Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari, XXI, 1953, parte 1, 272-297, 312-363; cfr. anche Mattone, Istituzioni e riforme cit., 382-384; I. Birocchi, Il Regnum Sardiniae dalla cessione dell’isola ai Savoia alla «fusione perfetta», in Storia dei Sardi cit., vol. IV, 178-180.

[35] Biblioteca Reale di Torino (d’ora in poi BRT), Storia Patria, ms. 858, Relazione di varj progetti sovra diverse materie che riflettono la Sardegna, cc. 307-308; il testo è stato parzialmente ripubblicato in Il riformismo settecentesco in Sardegna, a cura di L. Bulferetti, Cagliari, Fossataro, 1966, 127 sgg.; un’altra copia del memoriale è conservata in BUC, Fondo Orrù, ms. 73, Relazione ufficiale delle principali cose amministrative della Sardegna sino al 1790; cfr. a questo proposito A. Girgenti, Memorie di funzionari nel periodo del riformismo boginiano in Sardegna, in La memoria, i lumi, la storia, Roma, Società italiana di studi sul secolo XVIII, 1987, 51-54; Ead., La storia politica cit., 68-70; Mattone, Istituzioni e riforme cit., 385-387.

[36] Relazione di varj progetti cit., cc. 316-332. Cfr. anche V. Castronovo, Bricherasio, Giovanni Battista Cacherano di, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XIV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1972, 227-229.

[37] Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VII, ord. XXV, 283-306. L’editto è frutto di numerose riunioni di giunta: ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, vol. 1739, Risultato de’ congressi per la pronta amministrazione della giustizia (Cagliari, 19 ottobre 1758). Da essi si evince che la sovrapposizione di leggi, bandi, statuti incideva negativamente sulla repressione del crimine, giacché le pene, spesso assai severe, erano frequentemente eluse. Nel regio biglietto che accompagnava l’editto del 13 marzo 1759 Carlo Emanuele III poneva all’attenzione del viceré conte Tana il problema della cattiva applicazione della normativa penale, ricordandogli che proprio nell’osservanza risiedeva l’«anima delle leggi»: ASC, Reale Udienza, classe IV, busta 67/4, c. 62.

[38] Cfr. M. Da Passano, Riformismo senza riforme: i Savoia e il diritto penale sardo nel Settecento, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, vol. I, Saggi storici, Milano, Giuffrè, 1990, 219-223, cui si deve anche una penetrante analisi dell’editto; Id.; Il diritto penale sardo nel XVIII secolo, in Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, n. 29-31, 1990, 202-214.

[39] Cfr. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, 1, Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, Il Mulino, 1976, 383 sgg.; A. Cavanna, La codificazione in Italia. Le origini lombarde, Milano, Giuffrè, 1987, 317 sgg.; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 491 sgg.

[40] Cfr. J.M. Carbasse, Introduction historique au droit pénal, Paris, Puf, 1990, 105-165; A. Laingui, A. Lebigre, Histoire du droit pénal, vol. I, Le droit pénal, vol. II, La procédure criminelle, Paris, Cujas, s.d., 113 sgg., 87 sgg.; e soprattutto J.-P. Royer, Histoire de la justice en France, Paris, Puf, 1995, 23-84.

[41] BRT, Storia Patria, ms. 302, Relazione della Sardegna regnando Carlo Emanuele III ed essendo suo ministro per li negozii di quel Regno il conte Giambattista Bogino cioè dal 1755 al 1773 distesa da Pierantonio Canova…, c. 18, anche in AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 4, n. 16.

[42] Editti, pregoni cit., vol. I, tit. VI, ord. VII, 164-172. Cfr. anche Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 223-224.

[43] Cfr. Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 223 sgg.; Id., La criminalità e il banditismo dal Settecento alla prima guerra mondiale, in La Sardegna («Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi»), a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, Einaudi, Torino 1998, 423-430; G. Doneddu, Criminalità e società nella Sardegna del secondo Settecento, in Criminalità e società in età moderna, a cura di L. Berlinguer e F. Colao («La Leopoldina», n. 12), Milano, Giuffrè, 1991, 581-632.

[44] Loddo Canepa, La visita del viceré Des Hayes cit., 172, 226.

[45] Ivi, 189, 191, 246, 305, 290.

[46] Ivi, 203, 157, 300, 205; cfr. G. Murgia, Progetti di colonizzazione ed ordine pubblico nella Contea di Oliva negli anni del riformismo boginiano (1759-1773), in Studi e ricerche in onore di Giampaolo Pisu, Cagliari, Cuec, 1996, 108-109.

[47] Ivi, 188-189. ASC, Atti governativi, vol. XV, (1822-25), n. 115, Regio editto portante varj provvedimenti in rapporto agli sponsali fra impuberi e alla coabitazione fra gli sposi (Cagliari, 10 settembre 1824): stigmatizza l’«abuso di permettere la celebrazione degli sponsali fra persone di età non matura e quello ancor più grave di tollerare la coabitazione degli sposi e delle loro future spose con offesa della pubblica onestà […] e contra gli espressi comandamenti de’ sagri Canoni, singolarmente delle disposizioni contenute nel Concilio di Trento». Cfr. a questo proposito R. Di Tucci, Gli sponsali sardi, in La Regione, I, 1922, n. 2, 13 sgg., e soprattutto M. Da Passano, I matrimoni clandestini e sconvenienti nella Sardegna del primo Ottocento, in Scritti di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei, a cura di M. Ascheri, Padova, Editrice Antenore, 1991, 481-508.

[48] Ivi, 141, 151, 215, 173, 213. Nella villa di San Pantaleo, ad esempio, i nove designati sono suddivisi in tre categorie «di principali, la prima; di buoni massaj e pastori la seconda e la terza di poveri», «questi eletti assistono i sindaci nel corso del loro anno, e senza il loro concerto non si risolve da’ sindaci cosa riguardante la comunità» ( 132). I dati demografici sono tratti da D. Angioni, S. Loi, G. Puggioni, La popolazione dei comuni sardi dal 1688 al 1991, Cagliari, Cuec, 1997, 99 sgg., e dal vecchio F. Corridore, Storia documentata della popolazione di Sardegna (1479-1901), Torino, Clausen, 1902 (rist. anast. Bologna, Forni, 1976), 100 sgg.

[49] Ivi, 175, 177, 214, 223, 308.

[50] Ivi, 160, 186.

[51] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 38, c. 62, dispaccio del 4 settembre 1771.

[52] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 294, c. 175, dispaccio del 17 luglio 1767.

[53] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 296, c. 1 v.

[54] AST, Corte, Paesi, Sardegna, serie K, Ristretto della relazione generale della visita fatta nel Regno nell’anno 1770

[55] Loddo Canepa, La visita del viceré cit., 159, 218.

[56] Nel «catalogo» dei banditi pubblicato in appendice al pregone del 4 agosto 1745 dal viceré marchese di Santa Giulia (ASC, Atti governativi, vol. II, (1737-45), n. 153) figuravano 268 banditi e latitanti: segno, da un lato, che nel 1770 la criminalità era probabilmente aumentata; e dall’altro che il governo viceregio aveva esteso la sua iniziativa repressiva anche ad altre categorie («discoli», «oziosi», etc.) socialmente pericolose.

[57] Ivi, 150.

[58] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 296, c. 29, dispaccio del 5 ottobre 1769. La fustigazione era una pena assai diffusa: nel 1771, ad esempio, venne emanata un’«esemplare condanna economica alla pubblica fustigazione» di una povera donna cagliaritana, rea di aver rubato un pezzo di stoffa da una bottega (vol. 297, c. 117, dispaccio del viceré Caissotti di Robbione del 27 ottobre 1771). Nell’agosto 1802 venne pubblicamente fustigato a Sassari il notaio cagliaritano Francesco Cilocco, condannato all’impiccagione per un tentativo di insurrezione filofrancese nel nord Sardegna: la «nobiltà sassarese ha esultato per questa frustazione – annota nel suo diario il magistrato Giovanni Lavagna –; che la frusta era di doppia suola intessuta con piombo; che una ciurma di ragazzi prezzolati andava fischiando e gridando…»: C. Sole, Le “Carte Lavagna” e l’esilio di Casa Savoia in Sardegna, Milano, Giuffrè, 1970, 192.

[59] Loddo Canepa, La visita del viceré cit., 268. Sulla pratica della marchiatura cfr. E. Costa, Sassari, vol. III, Sassari, Gallizzi, 1992 (I ediz. Sassari, Gallizzi, 1909), 1784-1789. Nel settembre del 1760 la Reale Udienza condannava a morte, previa «l’esemplarità delle tenaglie infuocate», Anacleto Sanna reo di aver ucciso premeditatamente sua moglie: ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 289, c. 42 v., dispaccio del viceré conte Tana dell’11 ottobre 1760. Gli esempi in tal senso sono numerosi.

[60] Cfr. F. Loddo Canepa, Gli esecutori di giustizia e le esecuzioni penali in Sardegna (nomi, usi, aneddottica), in Archivio Storico Sardo», XXV, 1957, n. 1-2, 513-520.

[61] A. della Marmora, Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. I, a cura di M.G. Longhi, Nuoro, Ilisso, 1997 («Bibliotheca Sarda», 14), 307. Si trattava di una donna condannata il 10 gennaio 1821 per aver ucciso la moglie del suo amante per poterlo in seguito sposare. La pena prevedeva che dopo l’esecuzione la testa dovesse essere staccata dal corpo e inchiodata sullo strumento del supplizio. Nell’autunno del 1772 la sala criminale della Reale Udienza aveva emanato alcune sentenze capitali: erano stati condannati in contumacia Giuseppe Sale, Gavino Santus e Filippo Porcu «coll’esemplarità di tagliarsi loro la testa ed affiggersi al luogo del delitto»: ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 297, c. 111 v., dispaccio del viceré Caissotti di Robbione del 12 dicembre 1772.

[62] Loddo Canepa, La visita del viceré cit., 179, 197, 295, 318, 326.

[63] Ivi, 225, 249, 263-264, 281, 286. «Essendosi osservato – scrive il viceré – che in buona parte delle curie mancano delle prammatiche, pregoni ed editti, o parte di essi […], non si è omesso di lasciare gli ordini opportuni per la provvista…» ( 337).

[64] Ivi, 195, 214, 279.

[65] Cfr. V. Angius, Cronaca del feudalesimo sardo nel secolo XVIII, in G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il re di Sardegna, vol. XVIII quater, Torino, Gaetano Maspero, 1856, 218-222.

[66] I. Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli Stati di Oliva (1769): il ducato di Monteacuto, in Quaderni bolotanesi, XI, 1985, 201-202. La relazione è in Archivo de la Nobleza, Toledo, Osuna, legajo 640, n. 5; cfr. A. Javierre Mur, Cerdeña en el Archivo de la casa de Osuna, in Archivio Storico Sardo, XXV, 1957, n. 1-2, 201. La fonte è stata ampiamente utilizzata da J. Day, Per lo studio del banditismo sardo nei secoli XIV-XVII, in J. Day, Uomini e terre nella Sardegna coloniale XII-XVIII secolo, Torino, Celid, 1987, 245 sgg.; Mameli faceva parte, insieme al reggente la Reale Cancelleria Giuseppe Della Valle, all’avvocato fiscale Zopeno, all’intendente generale Vacha, al giudice della sala criminale della Reale Udienza dottor Litterio Cugia, della giunta incaricata di analizzare la questione della giustizia baronale: ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 34, c. 127 v., dispaccio del 4 ottobre 1769. Su Mameli (1722-1804) cfr. il profilo biografico di V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari, Edizioni Castello, 1996, 266.

[67] I. Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli Stati di Oliva (1769): il Principato di Anglona e la Contea di Osilo e di Coghinas, in Quaderni bolotanesi, XII, 1986, 299-300.

[68] I. Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli Stati di Oliva (1769): la parte generale e il Marchesato del Marghine, in Quaderni bolotanesi, X, 1984, 205.

[69] Ivi, 227.

[70] Ivi, 182-183. Cfr. a questo proposito A. Cadinu, Villaggio e confine. La lunga durata, in Sardegna, a cura di G. Angioni e A. Sanna («L’architettura popolare in Italia», dir. E. Guidoni), Roma-Bari, Laterza, 1988, 27-35.

[71] Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli Stati di Oliva (1769): il ducato del Monteacuto cit., 204.

[72] Ivi, 204-205. A questo proposito Mameli cita l’«atto relativo alla elezione del sindaco di Tula, per la quale si sono serviti della mia persona e della opportunità della convocazione della comunità per prestare giuramento in occasione della nuova presa di possesso per le Eccellentissime Signore Duchesse, dopo la riunione con la difficoltà già esposta, della comunità, il che è stato fatto molto inopportunamente come suol farsi nel maggior numero dei villaggi, in una piazza aperta, nella quale chi va e chi viene, né si sa con certezza chi vi abbia partecipato (poiché il ministro di giustizia che li ha convocati, non usa la dovuta precauzione di far registrare dall’attuario il nome dei convenuti senza lasciarli uscire, finché abbiano espresso il loro voto) ho visto che erano state proposte dal ministro tre persone, le quali erano state scelte da nove probi homines incaricati dal medesimo senza intervento della Comunità e scrivendo i loro nomi sopra un brutto pezzo di carta, ciascuno in una riga separata, fa passare gli individui convocati, che erano voluti restare e dopo preso il voto, non scriveva il nome, ma faceva solamente un segno nella riga di una delle persone proposte e dopo che erano passati tutti contava i segni e rendeva pubblico quello, nella cui riga aveva il medesimo posto un maggior numero di segni, per cui non si poteva verificare chi veramente aveva ottenuto il maggior numero di voti […]. Da questo fatto – prosegue Mameli – si giudichi la condotta di tali ministri di giustizia in tutto il resto, soprattutto quando non vi siano persone che non li possano mettere in soggezione, dato che mai in questo modo o in altri analoghi o peggiori, potrà esser vera l’affermazione posta negli strumenti notarili che si sia riunita, delle tre parti, la maggioranza delle due e che si sia avuto un risultato con la molteplicità dei voti; come andrà l’amministrazione delle povere comunità, i cui componenti sono in questo modo frequentemente ostacolati nelle loro faccende, e si giudichi quanto soffra l’agricoltura» ( 205).

[73] Ivi, 205.

[74] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, vol. 1739, Memoria sui supposti abusi de’ baroni, reggitori e ministri di giustizia (Cagliari, 6 agosto 1770). L’estensore del documento è il dott. Litterio Cugia, su cui Del Piano, Giacobini moderati cit., 181-83. Cfr. a questo proposito anche Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 225-227, e la tesi di laurea di G.P. Cocco, Criminalità e delinquenza nella Sardegna sabauda attraverso la corrispondenza viceregia e i documenti della Segreteria di Stato e di Guerra di Cagliari (1759-1775), Università di Sassari, Facoltà di Scienze Politiche, rel. A. Mattone, a.a. 1996-97.

[75] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, vol. 36, lettera di Bogino del 5 settembre 1770, che accompagna il parere del Supremo Consiglio di Sardegna. L’avvocato Canova nella sua Relazione della Sardegna cit., cc. 47-48, scrive che Cugia si era «rivolto ad una specie di apologia ed escusazione de’ reggidori non residenti, i quali contravvenivano in tal guisa ad una antica e vegliante legge del Regno, richiamata ancora per sodissimi motivi da poco tempo ad osservanza». Sia il ministro, sia il Supremo Consiglio avevano invece ritenuto di «prescrivere agli officiali di giustizia, loro luogotenenti ed altri ministri subalterni […] delle cautele più proprie ad assicurarsi della loro capacità e toglierli dalla soggezione e dipendenza cieca che hanno presentemente ai baroni con stabilire i requisiti e l’approvazione che dovessero avere […] come è prescritto per quelli di nomina regia».

[76] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, vol. 1739, cc. 307 sgg., Parere del Supremo Consiglio di Sardegna del 5 settembre 1770. Cfr. anche Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 226.

[77] Cfr., ad esempio, la linea di intervento ipotizzata in AST, Corte, Paesi, Sardegna, Materie feudali cat. Feudi in genere, mazzo 1, n. 39, Memoria istruttiva dell’avvocato F.R. Bardesono concernente la riduzione a mano regia de’ feudi rimessa all’intendente generale Giaume (Torino, 19 febbraio 1772).

[78] I capitoli VI, VII e CXXIII della Carta de Logu distinguevano i villaggi in grandi, medi, piccoli a seconda dei «fuochi» fiscali: ovviamente il numero dei giurati variava secondo la consistenza della villa: dieci in sa villa manna, cinque in quella picinna. Cfr. a questo proposito G. Olla Repetto, L’ordinamento costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine del ’300, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari, Edizioni 3T, 1979, 161-162, e C. Ferrante, A. Mattone, Le comunità rurali nella Sardegna medievale, in Studi Storici, XLV, 2004, n. 1, 220-231.

[79] Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIII, ord. VII, cap. II, 86-93. Sulla genesi e sui lavori preparatori dell’editto cfr. I. Birocchi, M. Capra, L’istituzione dei Consigli Comunitativi in Sardegna, in Quaderni sardi di storia, n. 4, 1983-84, 139-158; M. Lepori, Feudalità e Consigli comunitativi nella Sardegna del Settecento, in Etudes Corses, n. 30-31, 1988, 171-182; Ead., Dalla Spagna ai Savoia. Ceti e Corona nella Sardegna del Settecento, Roma, Carocci, 2003, 92 sgg., che costituisce oggi il saggio di riferimento; Mattone, Istituzioni e riforme cit., 405-411; Id., La cessione del Regno di Sardegna cit., 55-61; G.G. Ortu, Villaggio e poteri signorili in Sardegna. Profilo storico della comunità medievale e moderna, Roma-Bari, Laterza, 1996, 208-212. Fra gli studi meno recenti cfr. Loddo Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793 cit., vol. II, 143-146.

[80] Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIII, ord. VII, cap. II, 90-93.

[81] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 9, mazzo 1, n. 9, Parere del collaterale F.R. Bardesono e successivo parere per un nuovo stabilimento e forma de’ consigli di Comunità (Torino, 30 ottobre 1768). Cfr. Birocchi, Capra, L’istituzione dei Consigli cit., 144-148, e Lepori, Dalla Spagna ai Savoia cit., 92-107, che giustamente sottolinea il peso del contenzioso tra comunità e baroni nell’elabora­zio­ne del provvedimento. Nel 1768 era stata avviata un’indagine per verificare le «vessazioni ed angherie usatesi e che quotidianamente» erano praticate «da’ varii baroni, ministri di giustizia e reggidori» che avevano «riempito d’inquietezze e d’afflizioni le Comunità». La relazione redatta dal magistrato della Reale Udienza, dottor Gavino Cocco, «fu la spinta all’editto delle Comunità»: ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, vol. 1661, Relazione sugli aggravi che s’impongono ai villani (Cagliari, s.d., ma 1768). Sui contraddittori aspetti dell’amministrazione della giustizia baronale, cfr. anche G. Spanedda, Giustizia e comunità nella baronia di Ploaghe (1420-1839), Sassari, Carlo Delfino editore, 1995, 33-54.

[82] Relazione della Sardegna regnando Carlo Emanuele III cit., cc. 101-102.

[83] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 9, mazzo 1, n. 23, Rappresentanza de’ baroni per dimostrar pregiudiziale alla loro giurisdizione l’editto che prescrive lo stabilimento de’ consigli delle comunità e successiva risposta (Torino, 17 ottobre 1772). Cfr. anche Mattone, Istituzioni e riforme cit., 407-409.

[84] AST, Corte, Paesi, Sardegna, cat. 9, mazzo 1, Risposta ad uno scritto in favor dei baroni relativamente al Regio editto dei consigli delle comunità (Torino, 13 ottobre 1772). Cfr. anche nello stesso archivio il parere del Supremo Consiglio di Sardegna del 15 marzo 1773 in Sardegna, Giuridico, Pareri del Supremo Consiglio, mazzo 1.

[85] Relazione della Sardegna cit., c. 102.

[86] ASC, Atti governativi, vol. VI, (1773-79), n. 341, Regio Editto riguardo ai Consigli comunali relativo al precedente del 24 settembre 1771 (Cagliari, 27 aprile 1775). Cfr. anche AST, Corte, Paesi, Sardegna, Giuridico, Pareri del Supremo Consiglio, mazzo 2, Prospetto di Regio Editto relativo a quello de’ 24 settembre 1771 sullo stabilimento de’ Consigli di Città e Comunità disteso dall’avvocato fiscale regio Bardesono (Torino, aprile 1775).

[87] Per la prima interpretazione cfr. F. Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu e i Monti frumentari. Episodio di storia sardo-piemontese del secolo XVIII, in Rivista storica italiana, LXXVI, 1964, 470-506; G. Ricuperati, Il riformismo sabaudo settecentesco e la Sardegna. Appunti per una discussione, in I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Torino, Albert Meynier, 1989, 159-202; Id., Lo Stato sabaudo nel Settecento cit., 88-153; I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-96), Torino, Giappichelli, 1992, 38-75; Girgenti, La storia politica cit., 65-112; Mattone, Istituzioni e riforme cit., 325-419; P. Sanna, La Sardegna sabauda, in Storia della Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1998, 202-233; Lepori, Dalla Spagna ai Savoia cit., 92 sgg.

Per la seconda interpretazione cfr. F. Loddo Canepa, Il riformismo settecentesco nel Regnum Sardiniae, in Il Ponte, VII, 1951, n. 9-10, 1033-1044, con acute considerazioni; L. Bulferetti, Premessa a Il riformismo settecentesco cit., 1-48; Id., Le riforme nel campo agricolo nel periodo sabaudo, in Fra il passato e l’avvenire. Saggi storici sull’agricoltura sarda in onore di Antonio Segni, Padova, Cedam, 1965, 314-344; Sole, La Sardegna sabauda cit., 103-104; G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda 1720-1847, Roma-Bari, Laterza, 1984, 89-90; L. Carta, Dallo sbarco francese a Quartu all’insurrezione antipiemontese di Cagliari del 28 aprile 1794: alcune linee interpretative, in Francia e Italia negli anni della Rivoluzione, a cura di L. Carta e G. Murgia, Roma-Bari, Laterza, 1995, 22-43; F. Francioni, Vespro sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794, Cagliari, Condaghes, 2001, 67 sgg., con un’accentuazione di tipo “nazionalitario”.

[88] Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIV, ord. III, 100. Il riferimento normativo è a Dexart, Capitula cit., lib. III, tit. VII, cap. XI; Pregon general cit., cap. 168.

[89] Cfr. Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu cit., 492-497; e la sempre penetrante lettura di P. Grossi, Per la storia della legislazione sabauda in Sardegna: il Censore dell’agricoltura, in Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Macerata, XXVI, 1963, 197-240. Sui Monti frumentari cfr. A. Agostini, Origini delle costituzioni dei Monti frumentari in Sardegna (1666-1767), in Archivio giuridico, LXXI, 1903, 277-319; B. Fulcheri, Monti frumentari della Sardegna. Contributo alla storia generale dell’isola, in Miscellanea di storia italiana, serie III, X, 1906, 27-80; Pino Branca, Vita economica cit., 147-163; F. Loddo Canepa, Censorato generale, in Dizionario archivistico per la Sardegna, vol. II, Tipografia Giovanni Ledda, Cagliari 1926-31, 33-46; L. Del Piano, I Monti di soccorso in Sardegna, in Fra il passato e l’avvenire cit., 387-402; A. Boscolo, L. Bulferetti, L. Del Piano, Profilo storico economico della Sardegna dal riformismo settecentesco al “Piano di Rinascita”, Padova, Cedam, 1962, 63-85; G. Doneddu, Il Censorato generale, in Economia e storia, I, 1980, 65-94; M. Lepori, Le fonti settecentesche: Annona e Censorato, in Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, n. 11-13, 1980, 161-192; P. Sanna, Dai Monti frumentari alle banche dell’Ottocento, in La Sardegna, a cura di M. Brigaglia, vol. 3, Aggiornamenti, cronologie e indici generali, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1988, 219-221; G. Toniolo, Credito, istituzioni, sviluppo: il caso della Sardegna, e L. Conte, Dai Monti frumentari al Banco di Sardegna, entrambi in Storia del Banco di Sardegna. Credito, istituzioni, sviluppo dal XVIII al XX secolo, a cura di G. Toniolo, Roma-Bari, Laterza, 1995, rispettivamente 29-49, 117-129; G. Tore, Governo e modernizzazione economica in età sabauda, in La Camera di Commercio di Cagliari (1862-1997), vol. I, 1720-1900, Cagliari, Camera di Commercio, 1997, 71-97; infine il catalogo della mostra La terra, il lavoro, il grano. Dai Monti frumentari agli anni Duemila, a cura di M. Brigaglia e M.G. Cadoni, Sassari, Banco di Sardegna, 2003, a cui si rinvia per ogni altro approfondimento bibliografico.

[90] Istruzioni generali a tutti li censori del Regno di Sardegna continenti le diverse leggi agrarie del Regno…, Cagliari, nella Stamperia Reale di Cagliari, 1771, capp. 9, 19, 12, 20, 17, 22, 18, 23. Cfr. Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu cit., 497-499; Id., Giuseppe Cossu cit., vol. III, t. 2, 849-859; L. Scaraffia, Cossu Giuseppe, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XXX, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1984, 115-118; G. Marci, La santa follia del censore, in G. Cossu, La coltivazione de’ gelsi e la propagazione de’ filugelli in Sardegna, a cura di G. Marci, Cagliari, Centro di studi filologici sardi/Cuec, 2002, IX-LIX, e soprattutto M. Lepori, Giuseppe Cossu e il riformismo settecentesco in Sardegna, con un’antologia di scritti, Cagliari, Cooperativa editoriale Polo Sud, 1991.

[91] Un’efficace descrizione del sistema comunitario è in M. Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1979 (I ediz. Tours, Arrault, 1941), 122-136.

[92] Cfr. G. Doneddu, Ceti privilegiati e proprietà fondiaria nella Sardegna del secolo XVIII, Milano, Giuffrè, 1990, 280-302.

[93] Bussa, La relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli Stati di Oliva: il Ducato del Monteacuto cit., 209.

[94] Loddo Canepa, La visita del viceré Des Hayes cit., 180, 162.

[95] AST, Sardegna, Giuridico, Pareri del Supremo Consiglio di Sardegna, reg. n. 7, cc. 27-33 (Torino, 7 agosto 1777).

[96] Ivi, reg. n. 6, c. 9 (Torino, 10 novembre 1776).

[97] Ivi, reg. n. 7, c. 161 (Torino, 26 maggio 1779).

[98] Cfr. R. Piga, Le cussorgie, in Atti del II Congresso nazionale di diritto agrario, Roma, Edizioni universitarie, 1939, 51-61; R. Trifone, Cussorgia, in Novissimo Digesto Italiano, vol. V, Torino, Utet, 1968, 83-84.

[99] Archivio di Stato di Sassari, Archivio storico del Comune di Sassari, b. 31, fasc. n. 8, Visita generale delle terre colte ed incolte della Flumenargia e della Nurra eseguita dall’assessore civile di questa Reale Governazione avvocato don Gavino Cocco nell’anno 1762.

[100] Loddo Canepa, La visita del viceré cit., 250-251. Cfr. inoltre G. Doneddu, Una regione feudale nell’età moderna, Sassari, Iniziative culturali, 1977, 51-59; G. Mele, Da pastori a signori. Ricchezza e prestigio sociale nella Gallura del Settecento, Sassari, Edes, 1994, 16-33; Argiolas, Mattone, Ordinamenti portuali e territorio costiero cit., 155-160.

[101] Cfr. G. Todde, Ademprivio, in Enciclopedia giuridica italiana, vol. I, t. 2, Milano, Unione tipografico editrice, 1892, 91; ora in Id., Scritti economici sulla Sardegna, a cura di P. Maurandi e T. Deonette, Cagliari, Centro di studi filologici sardi/Cuec, 2003; D. Porcu, G. Lallai, Usi e costumanze di Sardegna fra i contadini e i pastori del Parteolla e del Gerrei, in Mediterranea, I, 1927, n. 10, 30-31; Usi civici e diritti di cussorgia, Atti del convegno (Sinnai, 22 aprile 1989), Dolianova (Cagliari), Comunità montana del Parteolla, 1989.

[102] Cfr. N. Mulas, Cenni particolari sull’origine ed uso degli ademprivi di Sardegna, Cagliari, Tipografia nazionale, 1858, 40-46; a questo proposito anche I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna. Provvedimenti normativi, orientamenti di governo e ruolo delle forze sociali dal 1839 al 1851, Milano, Giuffrè, 1982, 342-344.

[103] ASC, Atti governativi, vol. VI, (1769-79), n. 309, Pregone di Sua Eccellenza don Ludovico Hallot conte di Des Hayes contenente diverse provvidenze date in seguito alla visita del Regno (Cagliari, 2 aprile 1771), ora in Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIV, ord. VIII, 147.

[104] Cfr. in generale soprattutto M. Da Passano, Le discussioni sul problema della chiusura dei campi nella Sardegna sabauda, in Materiali per una storia della cultura giuridica, X, 1980, n. 2, 417-435; A. Mattone, Le vigne e le chiusure: la tradizione vitivinicola nella storia del diritto agrario della Sardegna (XIII-XIX secolo), in Storia della vite e del vino in Sardegna, a cura di M.L. Di Felice e A. Mattone, Roma-Bari, Laterza, 1999, 96-98.

[105] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 6, mazzo 8, n. 25, Parere dell’avvocato fiscale regio Conte di Tonengo sul progetto dell’assegnazione de’ terreni per l’agricoltura (Torino, 18 aprile 1767). Sul documento cfr. anche Da Passano, Le discussioni cit., 423-424. Sul problema della diffusione di una nuova cultura agronomica cfr. Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu cit., 481-485; Grossi, Per la storia della legislazione cit., 207-213; Ricuperati, Il riformismo sabaudo cit., 193-195; P. Sanna, La vite e il vino nella cultura agronomica del Settecento, in Storia della vite e del vino cit., 143-203; G.G. Ortu, Prefazione a A. Manca dell’Arca, Agricoltura di Sardegna, a cura di G.G. Ortu, Nuoro, Ilisso, 2000 («Bibliotheca Sarda», 59), 9-30.

[106] Ivi.

[107] Cfr. Olives, Commentaria cit., 78-79.

[108] Cfr. Dexart, Capitula cit., lib. VIII, tit. VII, cap. III, 1332, cap. IX, 1337; Vico, Leyes y pragmaticas cit., vol. II, tit. XLV, cap. I, 283; Pregon general cit., capp. 183-187.

[109] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 6, mazzo 2, n. 47, Risultato di giunta concernente l’aumento e miglior coltura degli oliveti e suggerimento di varie provvidenze a darsi a tale riguardo (Sassari, 10 luglio 1773). Cfr. anche G. Cossu, Istruzione olearia ad uso dei vassalli del Duca di San Pietro ed altri agricoltori del Regno di Sardegna, Torino, Stamperia Reale, 1789; Lepori, Giuseppe Cossu cit., 123-130. Cfr. a questo proposito Da Passano, Le discussioni cit., 425; G. Doneddu, L’olivicoltura in Sardegna in epoca moderna, M. Manconi, P. Porcu, L’innesto degli olivastri e l’olivicoltura nella legislazione spagnola e sabauda (XVI-XIX sec.), T. Olivari, L’olivicoltura sarda attraverso la memorialistica e le relazioni amministrative (XVII-XIX sec.), tutti in Olio sacro e profano. Tradizioni olearie in Sardegna e in Corsica, a cura di M. Atzori e A. Vodret, Sassari, Edes, 1995, rispettivamente 85-87, 102-106, 107-110.

[110] Relazione della Sardegna cit., cc. 147-149.

[111] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 10, Mazzo lettere Università di Sassari dal 28 maggio 1768 a tutto il 1772 (lettere di Gemelli a Bogino); serie G., Lettere a particolari sardi, vol. 15, cc. 62v., 80; vol. 16, cc. 76, 126 v. (lettere di Bogino a Gemelli).

[112] Relazione della Sardegna cit., c. 152.

[113] F. Gemelli, Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura, Torino, presso Giammichele Briolo, 1776, vol. I, 110-118, vol. II, 5-16, 21-36. Per un succinto profilo biografico cfr. G.G. Fagioli Vercellone, Gemelli Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. LIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1999, 40-42. Bulferetti, Premessa a Il riformismo cit., 31-48, ha espresso le posizioni più critiche sulla validità dell’opera del gesuita piemontese, accusata di astrattezza e di scarsa originalità, seguito da Sole, La Sardegna sabauda cit., 123-126, e da Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda cit., 51-56. All’opposto Venturi, Francesco Gemelli cit., 891-904; Da Passano, Le discussioni cit., 425-427; Sanna, La vite e il vino cit., 143-162; Mattone, Istituzioni e riforme cit., 401-403 hanno espresso una valutazione ampiamente positiva sulle idee di fondo del Rifiorimento; più dubitativo Ortu, Prefazione a Manca dell’Arca, Agricoltura cit., 9-28, e soprattutto Id., Economia e società rurale in Sardegna, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di P. Bevilacqua, vol. II, Uomini e classi, Venezia, Marsilio editori, 1990, 325-333, a proposito di una «linea Cossu» in parte contrapposta alla «linea Gemelli».

[114] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Giuridico, Pareri del Supremo Consiglio di Sardegna, mazzo 1, Parere riguardante lo scritto del padre Gemelli sull’agricoltura (Torino, 30 maggio 1774). Cfr. anche Bulferetti, Premessa cit., 33-35. I due tomi vennero pubblicati grazie a un contributo personale del conte Bogino.

[115] Manca dell’Arca, Agricoltura di Sardegna cit., 45. Cfr. anche Tola, Dizionario cit., vol. II, 213-215; Sanna, La vite e il vino cit., 145-149. Cfr. anche l’edizione dell’opera curata da G. Marci, Cagliari, Cuec, 2000.

[116] La memoria conservata in ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, vol. 1654, è stata pubblicata da G. Murgia, “Insinuazioni sul rifiorimento della sarda agricoltura”, in Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, n. 17-19, 1982, 213.

[117] A. Purqueddu, De su tesoru de sa Sardigna, a cura di G. Marci, Cagliari, Cuec, 1999 (I ediz. Cagliari, Stamperia Reale, 1779), 171.

[118] D. Simon, Le piante, a cura di G. Marci, Cagliari, Centro di studi filologici sardi/Cuec, 2002 (I ediz. Cagliari, Stamperia Reale, 1780), 51, 63, 86. Su Domenico Simon cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon, una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, in All’ombra dell’aquila imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi in età napoleonica (1802-1814), vol. II, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1994, 762-863.

[119] Cfr. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna cit., 53-75; A. Mattone, P. Sanna, La “rivoluzione delle idee”: la riforma delle due università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), in Rivista storica italiana, CX, 1998, n. 3, 834-942; E. Verzella, L’Università di Sassari nell’età delle riforme (1763-1777), Sassari, Centro interdisciplinare per la storia dell’Università di Sassari, 1992, 105 sgg.; Ead., L’età di Vittorio Amedeo III in Sardegna: il caso dell’Università di Sassari, in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, XXIV, 1990, 225-274; P. Sanna, La rifondazione dell’Università di Sassari e il rinnovamento degli studi nel Settecento, in Annali di storia delle università italiane, VI, 2002, 71-94.

[120] Cfr. Birocchi, La carta autonomistica cit., 77 sgg.; A. Mattone, P. Sanna, Costituzionalismo e patriottismo nella «sarda rivoluzione», in Universalismo e nazionalità nell’esperienza del giacobinismo italiano, a cura di L. Lotti e R. Villari, Roma-Bari, Laterza, 2003, 191-244.

[121] Sulle biografie dei due magistrati cfr. Tola, Dizionario cit., vol. III, 166-48; C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, vol. II, Torino-Roma, Favale, 1881 (rist. anast. Bologna, Forni, 1999), 373-374.

[122] Editti, pregoni cit., vol. I, Introduzione al piano dell’opera, VII-IX. Cfr. F. Loddo Canepa, Le pubblicazioni ufficiali del Regno di Sardegna. Contributo alla storia della stampa nell’isola, in Mediterranea, V, 1931, n. 8-10, 8-9, dell’estratto; L. Sannia Nowé, Ideale felicitario, lealismo monarchico e coscienza «nazionale» nelle pubblicazioni della Reale Stamperia di Cagliari (1770-1799), e M.G. Sanjust, La politica culturale e l’attività della Reale Stamperia di Cagliari dal 1770 al 1799, entrambi in Dal trono all’albero della libertà cit., vol. II, rispettivamente 620 sgg., 651 sgg.; T. Olivari, Artigiani-tipografi e librai in Sardegna nel XVIII secolo, in Corporazioni, gremi e artigianato tra Sardegna, Spagna e Italia nel Medioevo e nell’età moderna (XIV-XIX secolo), a cura di A. Mattone, Cagliari, AM&D edizioni, 2000, 591-602, sul rilievo editoriale della pubblicazione.

[123] L’osservazione è di Birocchi, Il Regnum Sardiniae dalla cessione cit., 186. Cfr. anche Grossi, Per la storia della legislazione sabauda cit., 201; M. Da Passano, Delitto e delinquenza nella Sardegna sabauda (1823-1844), Milano, Giuffrè, 1984, 16-17; Mattone, Istituzioni e riforme cit., 404-405.

[124] Cfr. Viora, Le Costituzioni Piemontesi cit., 149 sgg.; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 335-350; e in particolare I. Soffietti, C. Montanari, Il diritto negli Stati sabaudi: le fonti (secoli XV-XIX), Torino, Giappichelli, 2001, 61-111, a cui si rinvia anche per l’esaustiva bibliografia; Pene Vidari, Giudici e processo cit., VII sgg.

[125] Il documento, assai noto alla storiografia, conservato in AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 6, mazzo 2, parte 2, n. 64, è stato pubblicato da L. Bulferetti, L’assolutismo illuminato in Italia (1700-1789), Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1944, 293-296. La memoria è datata Cagliari, 12 febbraio 1790. La seconda parte del memoriale è dedicata alle materie ecclesiastiche e, in particolare, in caso di omicidio, all’abolizione della «giurisdizione vescovile» di cui godono i «regolari». Su Casazza cfr. E. Genta, Senato e senatori di Piemonte nel secolo XVIII, Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1983, 71, 73, 103, 117, 193 (scheda n. 41).

[126] Cfr. ASC, Atti governativi, vol. VI, (1769-79), n. 342, Lettera circolare sugli incendi del viceré Ferrero della Marmora indirizzata ai ministri di giustizia (Cagliari, 14 giugno 1775), nella quale si prescriveva l’applicazione dell’incarica per tutti i pastori che avevano le capanne nel distretto contiguo al sito nel quale era stato appiccato l’incendio doloso, rinnovata più volte: cfr., ad esempio, il pregone del viceré Thaon di Sant’Andrea del 7 giugno 1789.

[127] ASC, Atti governativi, vol. XI, (1802-05), n. 704, Pregone di Sua Altezza Reale il signor duca del Genevese in cui si contengono alcune provvidenze per la buona amministrazione della giustizia (Cagliari, 21 ottobre 1800). Cfr. a questo proposito Da Passano, La criminalità e il banditismo cit., 429.

[128] «Dalla visita – si legge nel pregone del viceré Des Hayes del 2 aprile 1771 –, che ordinammo de’ processi, essendoci risultato, che in più curie non si dà l’incarica de’ delitti, che si commettono, né alla comunità, né alle capanne de’ pastori, come prescrivono le Regie Prammatiche, donde rimangono senza prova i delitti, sciolti e liberi delinquenti, e le parti lese senza la dovuta indennizzazione, prescriviamo perciò a tutti i ministri di giustizia, così reali che baronali, che, abolita, come aboliamo ogni pretesa, pratica, stile o costumanza in contrario, per qualunque pretesto, causa o ragione introdotta, debbano all’avvenire dare le incariche alle comunità, o pastori a tenore dell’anzidetta disposizione prammaticale, sotto pena […] della sospensione dall’impiego per termine d’un anno, od altra anche maggiore, secondo le circostanze»: Editti, pregoni cit., vol. II, tit. XIV, ord. VIII, cap. XXVIII, 137-138.

[129] Cfr. M.L. Plaisant, L’istituzione delle prefetture in Sardegna nei progetti del 1776 e del 1806, Cagliari, Litotipografia Paolo Pisano, 1981, 16-29; Da Passano, Riformismo senza riforme cit., 228-229.

[130] M.A. Simonius, De quaestionibus aut tormentis dissertatio habita in Regia Calaritana Academia anno 1784, s.n.t. (ma Cagliari, Reale Stamperia, 1784). Cfr. a questo proposito I. Birocchi, Dottrine e diritto penale in Sardegna nel primo Ottocento. Il trattato Dei delitti, delle pene di Domenico Fois, Cagliari, Cuec, 1988, 5-9, e col titolo Considerazioni sulla legislazione e la dottrina criminale in Sardegna nel periodo precedente all’introduzione del codice feliciano, in Illuminismo e dottrine penali, a cura di L. Berlinguer e F. Colao, Milano, Giuffrè, 1990 («La Leopoldina», 10), 305-309, a cui si rinvia per l’attenta lettura del testo; Mattone, Sanna, I Simon cit., 770-772. Su questo tema cfr. in generale P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, vol. II, Milano, Giuffrè, 1954, 234 sgg.

[131] Biblioteca Comunale di Alghero, ms. 48/VI, Riflessi sull’attuale stato dell’amministrazione di giustizia in Sardegna (4-20 settembre 1791). In Istituzioni e riforme cit., 403-404, avevo erroneamente attribuito il testo a Matteo Luigi Simon. Su Giovanni Lavagna (1761-1838) cfr. Del Piano, Giacobini e moderati cit., 250-252; Sole, Le “Carte Lavagna” cit., 6-10. La data della laurea si evince da F. Obinu, I laureati dell’Università di Sassari 1766-1945, pref. di G.P. Brizzi e M. Brigaglia, Roma, Carocci, 2002, scheda n. 83, 106, e sull’attività di magistrato M. Da Passano, I Savoia in Sardegna e i problemi della repressione penale, in All’ombra dell’aquila imperiale cit., vol. I, 215-222.

[132] BUC, Miscellanea Baille, s.p.6.3.4., F.C. Baille, Compilazione delle leggi municipali del Regno di Sardegna spettanti al criminale; un’altra copia della Compilazione col titolo Compendio delle leggi municipali del Regno di Sardegna in cui si contengono la Carta locale, le Reggie Prammatiche, i Capitoli di Corte… è in Archivio Simon-Guillot, Alghero, cart. B, fasc. n. 69. Il manoscritto fu redatto sotto gli stimoli dell’avvocato dei poveri Giambattista Lostia, già docente nell’ateneo cagliaritano, a cui la Compilazione è dedicata. Cfr. Birocchi, Dottrine e diritto penale cit., 38-41. Sul canonico Baille (1771-1852) cfr. Del Piano, Giacobini e moderati cit., 84.

[133] Ivi, c. V.

[134] Ivi, cc. V-VI.

[135] Ivi, cc. VI-VII. La Compilazione si pone però al di fuori del dibattito illuministico sulla tortura e sulla pena di morte ed esprime la cultura giuridica dominante nelle Università sarde, sostanzialmente moderata pur con qualche cauta apertura verso le novità. A proposito della tortura, infatti, Baille ritiene che questo «metodo […] da molti tacciato di barbaro, ed inumano come contrario ai principi della raggione e della giustizia, pur nondimeno è seguitato nei più illuminati tribunali d’Europa, ove la giustizia e l’equità militano del pari» (c. 48).

[136] Cfr. a questo proposito Birocchi, La carta autonomistica cit., 77-114; L. Carta, La “sarda rivoluzione”. Studi e ricerche sulla crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari, Condaghes, 2001, 7-159; A. Mattone, P. Sanna, La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali (1793-96), in Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, a cura di A.M. Rao, Roma, Carocci, 1999, 37-70.

[137] L’attività degli Stamenti nella «Sarda Rivoluzione» (1793-1799), a cura di L. Carta, t. 1, Atti dello Stamento militare. Anno 1793 (Acta Curiarum Regni Sardiniae, 24/I), Cagliari, Consiglio regionale della Sardegna, 2000, doc. n. 35/2, 571.

[138] AST, Corte, Paesi, Politico, mazzo 1, Carte relative ai dispacci 1791-92-93, Scritto del signor don Lorenzo Sanna a riguardo della legislazione e rifiorimento del Regno di Sardegna con vantaggio del Regio Erario e dei sudditi (allegato al dispaccio del 9 agosto 1793). Sanna è autore di un altro memoriale, esposto nella seduta dello Stamento militare del 25 giugno 1793, sulla razionalizzazione del sistema ecclesiastico e di quello dei dazi, ora pubblicato in L’attività degli Stamenti cit., t. 1, n. 46/2, 701-706.

[139] La Relazione del conte di Sindia sullo stato attuale e sui miglioramenti da apportarsi alla Sardegna, datata Torino, 15 maggio 1793, e fatta pervenire allo Stamento militare da Domenico Simon, è ora in L’attività degli Stamenti cit., t. 1, n. 43-2, 650-692, ma era stata già edita, con una dubitativa datazione, da F. Loddo Canepa, Una relazione del conte di Sindia sullo stato attuale e sui miglioramenti da apportare alla Sardegna (1794?), in Studi Sardi, XII-XIII, 1952-54, parte II, 330-425. Sul conte di Sindia cfr. Del Piano, Giacobini moderati cit., 357-359. Sulla Relazione cfr. l’acuta lettura di Birocchi, La carta autonomistica cit., 92.

[140] L’attività degli Stamenti cit., t. I, 650-651; Loddo Canepa, Una relazione cit., 375. In fondo le tesi di Paliaccio sono assai simili a quelle di Lorenzo Sanna: «Oggi il villico è portato alla prepotenza e alla vendetta, si svegli la giustizia, abbia ciascheduno il fatto suo illeso e sicuro, senza che siavi bisogno di farselo rispettare colla forza privata, sia punito l’affronto prima che si determini a risarcirlo colla vendetta e cessano così le inquietudini e i dissapori, si prende amore alla tranquillità e al quieto vivere a cui l’uomo è per naturale inclinazione portato»: Scritto del signor don Lorenzo Sanna cit.

[141] L’attività degli Stamenti cit., 655-656; Loddo Canepa, La relazione cit., p. 377.

[142] Ivi, 677, e 398.

[143] Manifesto giustificativo della emozione popolare accaduta in Cagliari il dì XXVIII aprile MDCCXCIV, nella Cagliari, Stamperia Reale, 1794, 4, 20, ora in edizione anastatica in Pagine di storia cagliaritana 1794-1795. Manifesto giustificativo e altri documenti del triennio rivoluzionario, a cura di L. Carta, Cagliari, Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, 1995, 144, 160. Cfr. a questo proposito Birocchi, La carta autonomistica cit., 94-110; Mattone, Sanna, Costituzionalismo e patriottismo cit., 200-205; L. Carta, Reviviscenza e involuzione dell’istituto parlamentare nella Sardegna di fine Settecento (1793-1799), in L’attività degli Stamenti cit., t. 1, 66-119.

[144] Il Ragionamento è pubblicato in L’attività degli Stamenti cit., t. 2, 1207, e in appendice a Birocchi, La carta autonomistica cit., 266; cfr. Mattone, Sanna, I Simon cit., 793-798.

[145] L. Baille, Memoria sulle cinque domande e sul diritto del Regno di Sardegna di inviare ambasciatori a Torino (autunno 1793 - inverno 1794), ora in Birocchi, La carta autonomistica cit., 281; cfr. delllo stesso anche Tra diritto e politica nel triennio rivoluzionario sardo di fine Settecento: considerazioni in margine a un’inedita memoria di Lodovico Baille, in Quaderni bolotanesi, XVII, 1991, 186-199. Cfr. inoltre P. Martini, Memorie intorno alla vita del cavaliere Lodovico Baille, in Catalogo della biblioteca sarda del cavalier Ludovico Baille, Cagliari, Timon, 1844, 3-42; G. Sorgia, Baille Lodovico, in Dizionario biografico degli italiani, vol. V, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1963, 286-287; Del Piano, Giacobini moderati cit., 82-84.

[146] Cfr. la supplica dei tre Stamenti del 4 settembre 1794 che richiama esplicitamente il «Trattato di pace stipulato nel novembre 1386 fra la giudicessa d’Arborea donna Eleonora e il re don Pietro d’Aragona ratificato da suo figlio re don Giovanni negli 8 aprile 1388 in seguito alle convenzioni sottoscritte in Cagliari nell’assemblea generale della nazione sarda li 17 gennaio dello stesso anno 1388»: L’attività degli Stamenti cit., t. 2, 1465. Cfr. A. Mattone, Un mito nazionale per la Sardegna. Eleonora d’Arborea nella tradizione storiografica (XVI-XIX secolo), in Società e cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu, a cura di G. Mele, Oristano, Comune di Oristano, 1995, 33.

[147] Cfr. a questo proposito oltre i vecchi lavori di G. Manno, Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799, a cura di A. Mattone, Nuoro, Ilisso, 1998 (I ediz. Torino, Favale, 1842), 259 sgg.; S. Pola, I moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802, vol. I, Sassari, Stamperia della L.I.S., 1923, 17 sgg.; L. Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale del 1795-96, in La Sardegna del Risorgimento cit., 105-138, a proposito degli «strumenti di unione», su cui anche Birocchi, La carta autonomistica cit., 139-146; F. Loddo Canepa, Rapporti fra feudatari e vassalli in Sardegna, in Fra il passato e l’avvenire cit., 273-313; Carta, Reviviscenza cit., 222 sgg., a cui si rinvia anche per l’aggiornata bibliografia.

[148] L’Achille della Sarda Liberazione, manoscritto conservato in BUC, Miscellanea Baille, 7.17.IV, è stato pubblicato da L. Del Piano, Osservazioni e note sulla storiografia angioiana, in Studi Sardi, XVII, 1959-61, 59-64, e da P. Cuccuru, Un testo giacobino sardo: L’Achille della Sarda Liberazione, in Il Pensiero politico, XII, 1979, 59-64. Per l’analisi del testo cfr. Birocchi, La carta autonomistica cit., 146-153; F. Francioni, Diritto di resistenza, nazione e patria in Sardegna durante la Rivoluzione francese, in Le autonomie etniche e speciali in Italia e nell’Europa mediterranea. Processi storici e istituzionali, Atti del Convegno nel quarantennale dello Statuto (Cagliari, 29 settembre - 1° ottobre 1988), Cagliari, Consiglio regionale della Sardegna, 1988, 85-105; A. Contu, Giusnaturalismo e teoria della dissimulazione nella Sardegna rivoluzionaria, in Quaderni bolotanesi, XV, 1988, 187-226; Mattone, Sanna, La «crisi politica» cit., 64-67.

[149] G. Simon, Lettera sugl’illustri coltivatori della Giurisprudenza in Sardegna fino alla metà del secolo XVIII, Cagliari, dalla Reale Stamperia, 1801, 8-9. Cfr. a questo proposito Mattone, Sanna, I Simon cit., 855; Mattone, Un mito nazionale cit., 35-36. Simon aveva per certi versi fatto proprio il paragone tra la zarina Caterina II e la giudicessa d’Arborea formulato da F. Cetti, Appendice alla Storia naturale dei quadrupedi di Sardegna, Sassari, Piattoli, 1777, 34-34, ora Id., Storia naturale di Sardegna, a cura di A. Mattone e P. Sanna, Nuoro, Ilisso, 2000 («Bibliotheca Sarda», 52), 180-181.

[150] Cfr. Le costituzioni di Eleonora intitolate Carta de Logu, colla traduzione letterale dalla sarda all’italiana favella e con copiose note di don Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli, Roma, presso Antonio Fulgoni, 1805. Dell’opera esistono due ristampe anastatiche, Cagliari, Editrice “3 T”, 1974; Nuoro, Archivio fotografico sardo, 2003. Cfr. anche Olivari, Le edizioni a stampa cit., 174-175.

[151] Su Giovanni Maria Mameli (Cagliari 1758 - Iglesias 1843) cfr. D. Scano, I Mameli da don Giovanni Maria Mameli († 1751) a Goffredo Mameli († 1849), in Mediterranea, IV, 1930, 1-14; Del Piano, Giacobini moderati cit., 226. Era uno spirito aperto che aveva guardato con simpatia il moto patriottico del 1793-96: il suo nome figura infatti in un elenco di sospetti di «giacobinismo» trovato nel 1795 tra le carte del generale delle armi, marchese della Planargia: Pezze originali di cui si fa menzione nel Ragionamento giustificativo rassegnato colla rappresentanza quarta dai tre Stamenti del Regno di Sardegna a S.S.R.M. sotto li 24 agosto 1795, Cagliari, nella Reale Stamperia, 1795, 80, ora in Pagine di storia cagliaritana cit., 354. Nel 1806 avrebbe redatto un trattato, rimasto manoscritto, per «sollevare l’arte vetraria d’Italia» e per impiantare in Sardegna «fabbriche di vetro d’ogni qualità»: G.M. Mameli de’ Mannelli, Trattato dell’arte vetraria, a cura di P. Amat di San Filippo, in Rendiconti della Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL. Memorie di Scienze Fisiche e Naturali, serie V, XVIII, 1994, parte II, 69-162.

[152] Le costituzioni cit., 1.

[153] «Sei, par, che sieno state le edizioni fin ora fattesi della Carta de Logu: la prima, che nelle ultime viene denominata l’antica [l’incunabolo] non mi è riuscita di poterla vedere […]; la seconda in quarto piccolo [quella del 1560]» gli era pervenuta «alle mani […] dopo che il mio lavoro era già terminato»: Le costituzioni cit., 3. Eppure, pochi anni prima, un fine erudito e bibliofilo, G. Simon, Lettera sugl’illustri cit., 8, aveva descritto l’incunabolo da lui posseduto «stampato probabilmente nel 1495 ed impresso con caratteri rubro-nigri semigotici». L’opera si presentava quindi carente nella ricognizione delle fonti e nella conoscenza dei testi, spesso assai diversi fra loro, del codice arborense.

[154] «Quanta compiacenza io provo – affermava il magistrato cagliaritano –, ogniqualvolta rivolto in mente il vantaggio, che ha recato alla mia Patria la non interrotta osservanza delle sue leggi antiche e particolarmente di questo Codice, che conta già quattrocent’anni, dacché sono persuaso che da ciò in gran parte dipenda l’uniformità de’ costumi mantenutivisi fin ora pressoché interamente, e la sua venerazione pe’ proprj Statuti, ed il più fedele attaccamento a’ suoi legittimi sovrani»: Le costituzioni cit., 7.

[155] Mameli progettava di pubblicare un altro volume, una sorta di Appendice alle Costituzioni di Eleonora, dove intendeva inserire «i Commentari del Chiarissimo Olives […] e con essi […] oltre alla Dedicatoria del medesimo, ed alle Prefazioni delle diverse edizioni anche le questioni co’ rispettivi solvimenti contenute nell’edizione seconda [1560], e darò alle stampe detti Commentari ricorrenti, procurando però di non conseguire la traccia meritevolmente incorsa da non pochi editori, i quali senz’avervi mutato, né aggiunto cosa alcuna, predicano l’edizion loro per corretta ed accresciuta»: Le costituzioni cit., 9. Dal punto di vista filologico questo proposito non lasciava presagire nulla di buono: non è quindi una gran perdita se l’Appendice non venne mai pubblicata.

[156] Cfr. F. Sclopis, Storia della legislazione italiana, vol. II, Progressi, Torino, Società editrice torinese, 1844, 167-169; ed anche A. Mattone, La storiografia giuridica dell’Ottocento e il diritto statutario della Sardegna medievale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XXVI, 1996, 81-86, e in generale G.S. Pene Vidari, Federigo Sclopis (1798-1878), in Studi Piemontesi, VII, 1978, n. 1, 160-172; G.P. Romagnani, Storiografia e politica culturale nel Piemonte di Carlo Alberto, Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1985, 205 sgg.

[157] Manno, Storia di Sardegna cit., vol. III, 132. Secondo Simon, La Sardegna antica e moderna cit., 24, «sarebbe stato desiderabile che le note e le dissertazioni […] non contenessero tante inesattezze, ma fossero scritte con maggiore senso critico». Più problematico e articolato risulta invece il giudizio di Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna cit., vol. II, 288-292, che valutava positivamente i commenti di Mameli «in molti aspetti assai commendevoli», volti a spiegare «il senso delle oscure leggi», ma nel contempo ne criticava «l’enorme adunamento di cose estranee» alla trattazione, il «numero strabocchevole di note», la «mediocrità dello stile italiano»: «sono troppe – scriveva Siotto Pintor – le pagine del cavaliere Mameli nelle quali intese dimostrarsi non solo legislatore e politico, ma agronomo, storico, medico e filologo […]. Quanto meglio avrebbe il cavaliere Mameli provveduto alla sua fama, se a luogo d’inserire nella sua pregevole scrittura tante inutili disquisizioni di erudizione e di lingua, avesse indagato il vero autore delle leggi tutte contenute nel codice di Eleonora? O se non un romanzo, ma una vera storia dato ci avesse dei Giudici di Arborea?». Ma gli appunti di Siotto Pintor erano rivolti soprattutto alla traduzione italiana e ai numerosi svarioni nei quali era incorso Mameli: «oltre al vizio intrinseco dell’oscurità, nascono le viete frasi e le strane trasposizioni che non appartengono ad alcuna lingua, ma che a qualche severo lettore possono apparire una scuola di solenne pedanteria. Tali sono il condire acqua innanzi di S. Michele, e il cane assaltato che s’uccide mano a mano, e i cavalli che non bastano a cavalle diece insuso, e i berbici per pecore, e i buini per buoi», e gli esempi potrebbero continuare.

Questi rilievi hanno pesato nelle interpretazioni successive: F. Loddo Canepa, I giuristi sardi del secolo XIX, in Augustea, 28 ottobre 1937, estratto, Cagliari, Società Editrice Italiana, 1938, 40, ha affermato che l’edizione di Mameli «per quanto utile è ben lungi dall’essere perfetta anche per l’interpretazione, non sempre fondata, che l’autore dà di leggi e di istituti e per le continue divagazioni su cose estranee all’argomento».

[158] «Non di manoscritti si valse infatti il Mameli – afferma Besta –, ma di stampe e di stampe non ottime […], modificò spesso arbitrariamente il testo preferendo alle antiche e originarie desinenze quelle dei tempi suoi e dei suoi tempi adottò la grafia. Ciò comportava di già un voluto allontanamento da quella che dovea presumibilmente essere la lezione genuina della legge: e oltre a ciò, mentre avrebbe dovuto sforzarsi di giungere ad essa attraverso le varianti e le scorrezioni delle stampe rinunciando a qualunque arbitrio ricostruttivo, gli arbitrii non mancano e spesso il testo capricciosamente modificato è diventato persino incomprensibile, né giovano a chiarirlo e la traduzione e le note, qualche volta erudite, ma non di rado errate per una scarsa conoscenza filologica e per poca cultura storica»: E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in Studi sassaresi, sez. I, III, 1903-4, n. 2, 9.

[159] Su questo periodo ancora utile risulta la lettura della vecchia (Cagliari, Timon, 1852) opera di P. Martini, Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816, a cura di A. Accardo, Nuoro, Ilisso, 1999 («Bibliotheca Sarda», 48), di G. Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Torino, Casanova, 1877 (Bologna, Forni, 1978), 7-84, e di E. Pontieri, Carlo Felice al governo della Sardegna 1799-1806, in Archivio Storico Italiano, XCIV, 1935, n. 1, 45-220, n. 2, 187-231. Fra gli studi più recenti A. Boscolo, M. Brigaglia, L. Del Piano, La Sardegna contemporanea, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1974, 69-132; L. Del Piano, La Sardegna nell’Ottocento, Sassari, Chiarella, 1984, 7-133, con ricca bibliografia; Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda cit., 213-226, con acute osservazioni; F. Francioni, Gli inglesi e la Sardegna: conflitti e progetti politici nella prospettiva del crollo dell’impero napoleonico, in All’ombra dell’aquila imperiale cit., vol. I, 235-290; Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, a cura di G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta, voll. I e II, Oristano, Editrice S’Alvure, 1991; G.G. Ortu, Movimenti lenti, tensioni e attese nella Sardegna del primo Ottocento, in Storia dei Sardi cit., vol. IV, 215-242; Il soggiorno della corte sabauda a Cagliari (1799-1815), Atti dell’incontro culturale (Cagliari, 3 maggio 1990), Cagliari, Edizioni del Bollettino bibliografico e rassegna archivistica e di studi storici della Sardegna, 1992; A. Mattone, Le origini della questione sarda. Le strutture, le permanenze, le eredità, in La Sardegna cit., 5 sgg.

[160] Cfr. A. Blanc, Mémoires politiques et correspondance diplomatique de J. De Maistre, Paris, Librairie Nouvelle, 1858, 61; F. Lemmi, Giuseppe de Maistre in Sardegna, in Fert, III, 1931, 10.

[161] Cfr. U.G. Mondolfo, Agricoltura e pastorizia in Sardegna nel tramonto del feudalesimo, in Rivista italiana di sociologia, VIII, 1904, n. 4, ora in Il feudalesimo in Sardegna, a cura di A. Boscolo, Cagliari, Fossataro, 1967, 429-455.

[162] Cfr. T. Orrù, La Sardegna Stato a sé nell’era napoleonica, in Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari, s. I, XI, 1984, 319-340, a cui si rinvia per il quadro d’insieme.

[163] Sulla Reale Società Agraria ed Economica cfr. Boscolo, Bulferetti, Del Piano, Profilo storico economico della Sardegna cit., 89-107; S. Serra, La Reale Società Agraria ed Economica, in La Camera di Commercio cit., vol. I, 173-206, elusivo nei confronti dei grandi temi dibattuti dalla Reale Società; Memorie della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, a cura di P. Maurandi, Roma, Carocci, 2001, che raccoglie numerose memorie accademiche, anche se i saggi introduttivi sono di modesto livello e spesso disinformati; il lavoro di riferimento resta comunque quello di M.L. Di Felice, La Società Agra­ria ed Economica di Cagliari: la scienza economica nei dibattiti accademici, in Gli archivi per la storia della scienza e della tecnica, Atti del convegno (Desenzano del Garda, 4-8 giugno 1991), vol. II, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1995, 947-1017, a cui si rimanda anche per la nutrita bibliografia e l’indicazione delle fonti.

[164] I termini del dibattito sono sintetizzati da A. Pino Branca, La politica economica del governo sabaudo in Sardegna (1773-1848), Padova, Cedam, 1928, 65-72; e Di Felice, La Società Agraria cit., 989-996.

[165] L. Baille, I problemi dell’agricoltura e della pastorizia, ora in La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di C. Sole, Cagliari, Fossataro, 1967, 292.

[166] Cfr. E. Muscas, Memoria sulla dissenzione de’ pastori cogli agricoltori (1805), in La Sardegna di Carlo Felice cit., 299-304, con acute considerazioni sulla «legge patria». Sul rapporto tra i dibattiti della Società e l’attività legislativa cfr. Birocchi, Per la storia della proprietà cit., 22-26.

[167] ASC, Atti governativi, vol. 11, n. 798, Editto di Sua Maestà portante diverse providenze dirette a promuovere la piantagione degli oliveti ed innesto degli olivi selvatici (Cagliari, 3 dicembre 1806). Sul provvedimento cfr. Birocchi, Per la storia della proprietà cit., 26-27; Mattone, Le vigne e le chiusure cit., 98; Da Passano, Le discussioni sul problema cit., 431.

[168] G. Manno, Il pregiudizio dell’abitudine, pref. di P. Maurandi, Nuoro, Poliedro, 2001, 38.

[169] In una lettera del sindaco della comunità di Ozieri al reggitore feudale (21 febbraio 1772) si tracciava, ad esempio, un lungo elenco dei territori chiusi, ma non autorizzati, con i nomi dei responsabili, e si auspicava la punizione di coloro che avevano fatto le recinzioni. In un’altra lettera dell’11 aprile 1779 il sindaco specificava la posizione della comunità: «noi non intendiamo impugnare né trattare di possessi antichi e proprii di particolari che con il concorso del tempo si chiusero, se non che si occupino le terre aperte e si chiudano per propri personali interessi i campi e le montagne»: Archivio del Comune di Ozieri, Registro cartas.

Viceversa, negli stessi anni, ad Alghero era stata la contessa Teresa Delarca a «serrare» il salto di Montagnez. La municipalità fece ricorso alla Reale Udienza che, il 20 settembre 1779, riconosceva alla nobildonna il diritto di «ristabilire e ristorare, a suo libero piacimento ed arbitrio, quelle chiusure che trovansi nel detto salto […] e anche di chiudere nuovamente tutto il riferito tenimento, lasciando libera però ed intatta la strada reale posta di mezzo di detto salto»: Archivio Storico del Comune di Alghero, busta 790, fasc. 193, cc. 1-4. Il 20 maggio 1791 il viceré Balbiano autorizzava, dietro pagamento di cento scudi, il censore Bartolomeo Simon a realizzare la chiusura di due appezzamenti di terreno nella località Tercus e Giaga per l’«utilità evidente che deve risultare a’ seminati, agli agricoltori ed ai pastori stessi […] dalla chiusura dei narrati terreni» (busta 793, fasc. 31). Cfr. a questo proposito anche la tesi di laurea di A. Natale, La nascita della proprietà perfetta nel territorio di Alghero, Università di Sassari, Facoltà di Scienze Politiche, rel. A. Mattone, a.a. 2002-2003.

[170] AST, Corte, Paesi, Sardegna, Giuridico, Pareri del Supremo Consiglio, mazzo 17, Parere del Supremo Consiglio sulla rappresentazione delle Comunità d’Ozieri, Oschiri e Tula sulle chiusure delle tanche fatte senza permesso e sulla demolizione delle medesime (Torino, 13 maggio 1818). Le tanche erano 3 ad Ozieri, 13 a Buddusò, 2 a Pattada, 44 ad Alà dei Sardi, 25 a Nule: in tutto 87.

[171] P. Balbo, Considerazioni sul diritto dei feudatari di impedire le chiusure (1818), in La Sardegna di Carlo Felice cit., 317-335. «Non ho potuto vedere la Carta de Logu, antica legge di Sardegna – ammetteva Balbo –, ma in questa pubblica biblioteca ho scoperto un libro in lingua catalana, col seguente frontespizio: Capitols de Cort del Stament militar de Sardenya» ( 325). Cfr. inoltre G.P. Romagnani, Prospero Balbo intellettuale e uomo di Stato (1762-1837), vol. II, Da Napoleone a Carlo Alberto (1800-1837), Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1990, 359-367; Id., Il Parere di Prospero Balbo sui diritti signorili in Sardegna (1818). Una proposta di riforma giuridica ed economica dei primi anni della Restaurazione, in Intellettuali e società cit., vol. II, 7-17.

[172] Ivi, 327. Cfr. anche Birocchi, Per la storia della proprietà cit., 28.

[173] Si trattava appunto del passaggio da una concezione giuridica delle «proprietà», espressione di una «pluralizzazione proprietaria» e degli usi collettivi, ad una concezione individuale ed esclusiva del dominio: cfr. a questo proposito le considerazioni di P. Grossi, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, in La proprietà e le proprietà, a cura di E. Cortese, Milano, Giuffrè, 1988,  205-272, a cui si rinvia.

[174] G. Manno, Annotazioni storiche sulle chiusure (1818), in La Sardegna di Carlo Felice cit., 339-340. Sulla figura di Manno magistrato cfr. G. Siotto Pintor, Storia della vita di Giuseppe Manno, Torino, Bellardi & C., 1869, 42 sgg.; i saggi compresi in Giuseppe Manno politico storico e letterato, Atti del Convegno (Cagliari, 15-16 gennaio 1988), Cagliari, Edizioni del “Bollettino bibliografico e rassegna archivistica della Sardegna”, 1989; G. Ricuperati, L’esperienza intellettuale e storiografica di Giuseppe Manno fra le istituzioni culturali piemontesi e la Sardegna, in Intellettuali e società cit., vol. I, 57-86; G.P. Romagnani, Giuseppe Manno intellettuale e uomo politico nel Piemonte del Risorgimento, in “Fortemente moderati”. Intellettuali subalpini tra Sette e Ottocento, Alessandria, Edizioni dell’orso, 1999, 102-103; A. Accardo, Alcune note per la biografia di Giuseppe Manno, in La biblioteca di Giuseppe Manno, a cura di A. Accardo, Cagliari, Consiglio regionale della Sardegna, 1999, 15-95.

[175] Editto delle chiudende (1820), ora in La Sardegna di Carlo Felice cit., 353-364.

[176] C.G. Mor, Le leggi sulle chiudende (1820-1839), in Atti del II Congresso nazionale di diritto agrario cit., 65-67. Sulle chiudende vi è una vasta bibliografia: cfr. Le Lannou, Pastori e contadini cit., 163-165; Bulferetti, Le riforme nel campo agricolo cit., 339-344; Del Piano, La Sardegna nell’Ottocento cit., 83-102; Sole, Premessa a La Sardegna di Carlo Felice cit., 31-66; Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda cit., 266-276; Id., La Sardegna della prima metà dell’Ottocento: i germi della contemporaneità, in Intellettuali e società cit., vol. I, 23-42. È emersa inoltre un’inter­pretazione di sostanziale svalutazione della portata innovatrice dell’editto nell’ipotesi che la proprietà privata fosse largamente presente nel mondo agrario sardo prima del provvedimento del 1820: cfr. Loddo Canepa, Rapporti tra feudatari e vassalli cit., 278-279, e soprattutto Doneddu, Ceti privilegiati e proprietà fondiaria cit., 275-288. Cfr. Birocchi, Per la storia della proprietà cit., 29-41, 340-350, per un’analisi giuridica dell’evoluzione del concetto di proprietà; ed anche Mattone, Le origini della questione sarda cit., 109-120. Per gli aspetti particolari cfr. G. Todini, G. Murgia, Le chiudende nel territorio di Nuoro prima e dopo la pubblicazione del regio editto del 6 ottobre 1820, in Archivio storico sardo di Sassari, II, 1976, 25-65; I. Bussa, Le chiudende: il problema generale e l’applicazione dell’editto del 1820 a Bolotana, in Quaderni bolotanesi, V, 1979, 35-56.

[177] Cfr. L. Del Piano, Le sollevazioni contro le chiudende (1832-33), Cagliari, Sardegna Nuova Editrice, 1971, 23 sgg.; G. Todde, Storia di Nuoro e delle Barbagie, Cagliari, Fossataro, 1971, 190 sgg.

[178] Birocchi, Verso la proprietà perfetta cit., 555-556.

[179] Regolamento per la divisione dei terreni del Regno di Sardegna, in Atti governativi ed economici del Regno di Sardegna dall’anno 1820, vol. V, Cagliari, Stamperia Reale, 1843, 692-717; cfr. anche F. Ciuffo, Della regia legge per la ripartizione de’ terreni di Sardegna, Cagliari, Stamperia Reale, 1841, 13-16. Per un quadro più ampio della politica sabauda sull’assetto fondiario sardo cfr. F. Loddo Canepa, Il riformismo feliciano e carloalbertino, in Nuovo bollettino bibliografico sardo, III, 1958, n. 15, 7-9; B. Montale, Dall’assolutismo settecentesco alle libertà costituzionali. Emanuele Pes di Villamarina (1777-1852), Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1973, 192-198.

[180] ASC, Atti governativi, vol. 11, n. 808, Editto di Sua Maestà portante lo stabilimento di quindici prefetture (Cagliari, 4 maggio 1807). Cfr. a questo proposito M.L. Plaisant, Politica e amministrazione sabauda fra Settecento e Ottocento, I, Le Prefetture in Sardegna (1776-1814), Cagliari, Grafiche Elmas, 1983, 52-55, 59-74; G. Doneddu, Le Prefetture nel Regno di Sardegna, in Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, n. 11-13, 1980, 133-154.

[181] Balbo, Considerazioni sul diritto dei feudatari cit., 319.

[182] Cfr. R. Camba, G. Puggioni, N. Rudas, Aspetti e motivi della criminalità rurale sarda, in Quaderni di psicologia, n. 5, 1970, 47. Cfr. soprattutto Da Passano, Delitto e delinquenza cit., 84-93.

[183] Archives Nationales, Archives Etrangères, Paris, vol. 408, J.F. Mimaut, Aperçu sur l’état actuel de la Sardaigne, sous le rapport de son administration, de ses mœurs, de ses produits et de son commerce (Cagliari, 23 agosto 1816), ff. 19-20. Su Mimaut cfr. I. Calia, Francia e Sardegna nel Settecento. Economia, politica, cultura, premessa di M. Aymard, Milano, Giuffrè, 1993, 49-50, 58-60.

[184] ASC, Atti governativi, vol. XI, n. 791, Regio editto con cui viene istituito un consiglio supremo di revisione ed una sala di supplicazione (Cagliari, 23 luglio 1806). Cfr. anche Da Passano, I Savoia in Sardegna cit., 218-220.

[185] Lettera di Cristoforo Pau del 29 settembre 1806 cit. in I. Birocchi, Il problema del riordinamento della legislazione sarda ed il progetto di codificazione del 1806, in All’ombra dell’aquila imperiale cit., vol. I, 205. La commissione era composta dai magistrati Costantino Musio, Giuseppe Cossu, Ignazio Casazza, segretario Raimondo Garau.

[186] Birocchi, Il problema cit., 208-209.

[187] D. Fois, Dei delitti, delle pene e della processura criminale, vol. I, Genova, dalla Stamperia di Giacinto Bonaudo, 1816 (ma 1817), IV. Per la biografia del giurista sardo cfr. Birocchi, Dottrine e diritto penale cit., 42-43; Id., Per la storia della proprietà cit., 465-471; ed il vecchio R. Bonu, Scrittori sardi nati nel XVIII secolo con notizie storiche e letterarie dell’epoca, vol. I, Cagliari, Fossataro, 1972, 250-261.

[188] Fois, Dei delitti cit., vol. I, V-VII, «Le leggi patrie – scrive Fois – sono comprese nella Carta locale, nei capitoli di corte, nelle prammatiche, nel pregone del duca di San Giovanni, nel corpo degli Editti e Pregoni, nel Formulario, negli Editti e ordinazioni emanati dopo il 1775, nelle Carte Reali e Regi Biglietti che conservansi negli archivi della Reale Udienza […]. La Carta Locale, riguardata come il Codice più antico della Sardegna, è stata in parte, specialmente in quella della sanzione penale o abolita o modificata dalle prammatiche e dagli editti […]. La Carta Locale – prosegue – è stata poi anche recentemente commentata e tradotta in lingua italiana da Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli. Questo commento è molto erudito e somministra molte cognizioni per lo studio delle Patrie Leggi».

[189] Ivi, vol. I, cap. VI, tit. III, par. VIII, 18. Per una lettura generale dell’opera si rinvia a Birocchi, Dottrine e diritto penale cit., 61-75; Id., La cultura giuridica in Sardegna nell’età della Restaurazione. Primi appunti, in Intellettuali e società cit., vol. I, 210-211.

[190] Ivi, vol. I, cap. VI, tit. I, sez. I, par. II, 127; vol. II, cap. VIII, tit. I, sez. I, par. II, 37.

[191] Ivi, vol. III, cap. XIV, 127-35.

[192] «Questa legge – afferma il Supremo Consiglio in risposta alle critiche di Fois –, rapportata nella Carta de Logu […], rinnovata nelle prammatiche […] e la di cui osservanza trovasi bene spesso inculcata con nuovi editti e pregoni, anche in questi nostri più vicini tempi, per eccitare la vigilanza e la sollecitudine più attiva negli amministratori de’ pubblici, ella è unicamente penale e proporzionata alla trascuranza usata nel disimpegno de’ doveri loro specialmente ingiunti di rintracciare le prove de’ delitti, conoscerne gli autori, arrestarli e procurarne la pronta punizione, ella è diretta a mettere un argine e prevenire le funeste conseguenze che la frode, la negligenza, la connivenza e il favore potrebbero produrre in disprezzo della giustizia e in pregiudizio del pubblico moltiplicando i delitti […]; dal che ne deriva chiaramente – è la conclusione del Supremo Consiglio – che il fondamento della legge d’incarica non possa trarsi dal principio adottato dall’autore, cioè dalla garanzia delle proprietà dovuta dal governo, bensì dalla necessità della diligenza de’ giurati nello scoprimento, persecuzione, arresto e condanna dei delinquenti». Anche a proposito delle prove testimoniali il Supremo Consiglio usava la mano pesante, osservando come fosse facile «accorgersi in quale stiracchiatura» Fois cadesse per «sconvolgere il senso e l’osservanza della patria legge» senza «plausibile motivo» e per «puro capriccio di favorirne gli incolpati»: AST, Corte, Paesi, Sardegna, Giuridico, Pareri del Supremo Consiglio, mazzo 16, registro n. 23, cc. 152-152v., 156.

[193] Ivi, cc. 171v.-172.

[194] ASC, Atti governativi, vol. XIV, n. 1028, Regio Editto con cui si abolisce la tortura nel capo dei complici ed a mente del Regio Editto e l’altra stabilita dalle antiche Leggi del Regno per li rei, che si ostinano a tacere nell’atto della loro contestazione (Cagliari, 2 febbraio 1821). Cfr. a questo proposito M. Da Passano, Il diritto penale sardo dalla Restaurazione alla fusione, in Ombre e luci della Restaurazione. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di Sardegna, Atti del convegno (Torino, 21-24 ottobre 1991), Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1997, 404-405.

[195] Sui lavori di compilazione delle Leggi feliciane cfr. A. Lattes, Le Leggi civili e criminali di Carlo Felice pel Regno di Sardegna, in Studi economico-giuridici pubblicati per cura della Facoltà di Giurisprudenza della Regia Università di Cagliari, I, 1909, 187-286 (su cui cfr. la recensione di U.G. Mondolfo in Archivio Storico Sardo, V, 1909, 250-255, che considera lo studio «diligente e succoso»), ora in La Sardegna di Carlo Felice cit., 405-509, e per la parte penale Da Passano, Delitto e delinquenza cit., 19-70. Cfr. anche Siotto Pintor, Storia civile cit., 160-162, con un “feroce” giudizio sul «codice feliciano», e quello, invece, opposto di G. Manno, Note sarde e ricordi, a cura di A. Accardo e G. Ricuperati, Cagliari, Centro di studi filologici sardi/Cuec, 2003 (I ed. Torino, Stamperia Reale, 1868), 180-181.

[196] Cfr. Lattes, Le leggi cit., 505-506, e Da Passano, Delitto e delinquenza cit., 40-41. «È abolita pure la pena della così detta incarica – si legge nell’articolo 1710 della consolidazione – solita darsi ai Comuni, od ai pastori a seconda delle regioni, nelle quali si commettevano, né si farà più luogo ad alcun procedimento a tal titolo».

[197] Cfr. Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna raccolte e pubblicate per ordine di S.S.R.M. il re Carlo Felice, Torino, per Andrea Alliana, 1827, tit. XXI, art. 315, Carta de Logu, cap. LXVIII; parte II, libro I, tit. I, art. 1701, art. 1702, capp. I-II; tit. XII, art. 1817, cap. III; tit. XVII, art. 1838, art. 1839, cap. IX; tit. XXVIII, art. 1977, 1978, 1979, cap. CLXXIV; tit. XXIX, art. 1990, 1991, cap. CXII; art. 1995, cap. CLXIX; art. 2002, cap. CXX. Cfr. anche Lattes, Le leggi cit., 422-423, e il saggio di M. Da Passano, La «Carta de Logu» e le «Leggi» feliciane, in La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto cit., 479-497.

[198] Leggi civili e criminali cit., VI-VII.

[199] Grossi, Per la storia della legislazione sabauda cit., 203.

[200] Sulle Leggi feliciane cfr. il giudizio di Birocchi, Il Regnum Sardiniae dalla cessione cit., 197-198, e di Da Passano, Delitto e delinquenza cit., 43-70, per il diritto penale.

[201] Manno, Note sarde e ricordi cit., 180-181. «Le règne de Charles-Félix fut marqué par la promulgation du Code sarde de 1827 – avrebbe scritto Manno nel 1844 –, qui contient toutes les lois civiles et criminelles déjà observées en Sardaigne, avec les modifications, les changements et les additions qui étaient conformes à l’amélioration introduite tous les jours davantage dans les différentes branches de l’administration civile du royaume. Le Code est remarquable dans la partie des lois civiles, par le soin qu’on a eu de résoudre, par des lois formelles et explicites, toutes les questions judiciaires les plus fréquentes qui, n’étant point réglées auparavant par un texte exprès de la loi commune ou par les dispositions des statuts, étaient abandonnées à la jurisprudence quelquefois variable des magistrats […]. La partie des lois criminelle est plus complète, et l’on profita de cette reforme de lois pour en faire disparaître tous les vestiges d’ancienne barbarie»: G. Manno, Législation de l’île de Sardaigne, in Revue de Droit français et étranger, I, 1844, 7.

[202] Mondolfo, Recensione a Lattes cit., 253-254; a proposito dello studio di Lattes, Mondolfo ritiene che sarebbe stato utile «mostrare come disposizioni delle prammatiche aragonesi e persino della Carta de Logu, in materie in cui pure le norme giuridiche van soggette attraverso i tempi a sostanziali modificazioni, abbiano potuto persistere accanto a disposizioni dei codici francesi».

[203] Raccolta delle leggi civili e criminali del Regno di Sardegna, in Giornale di Cagliari, n. 3, settembre 1827, 9-12; n. 5, novembre 1827, 9-14; n. 4, aprile 1828, 17-21 (la cit. è alla 19). L’articolo non firmato è del magistrato cagliaritano Stanislao Caboni, fondatore del periodico, su cui cfr. I giornali sardi dell’Ottocento. Quotidiani, periodici e riviste della Biblioteca universitaria di Sassari. Catalogo (1795-1899), a cura di R. Cecaro, G. Fenu, F. Francioni, Cagliari, Regione Autonoma della Sardegna, 1991, n. 65, 134.

[204] L’espressione è dell’abate Gianandrea Massala, Sonetti storici sulla Sardegna, Cagliari, Reale Stamperia, 1808, 173: «Questo codice eccellente, il quale peraltro nelle leggi penali risente la barbarie e la rozzezza di quei secoli […] fu eziandio accettato in una posteriore assemblea del Regno, come legge generale sotto il nome di Carta de Logu o Statuto locale». Cfr. S. Scandellari, P. Cuccuru, Un illuminista sardo tra il XVIII e il XIX secolo, Gianandrea Massala, in Archivio storico sardo di Sassari, III, 1977, 213-235.