N. 4 – 2005 – Contributi

 

 

Attilio MastinoLa Sardegna dalle origini all'età vandalica nell'opera di Giuseppe Manno

 

Attilio Mastino

Università di Sassari

 

 

I primi due volumi della Storia di Sardegna di Giuseppe Manno[1] comparvero in prima edizione tra il 1825 ed il 1826, in un periodo che precede (ma il discorso vale anche per le edizioni successive tutte uscite prima del 1840) non solo la falsificazione delle Carte di Arborea[2] ma anche le grandi scoperte archeologiche ed epigrafiche del canonico Giovanni Spano, padre dell'archeologia della Sardegna[3]. Da un lato dunque l’opera costituisce un’eccezione nel panorama della produzione dell’Ottocento, per non essere ancora inquinata dal mito delle Pergamente d’Arborea; d’altro lato però si colloca in un periodo in cui non erano stati ancora acquisiti i risultati degli scavi archeologici promossi nell’isola, il che spiega i molti limiti dell’opera, soprattutto per l'età imperiale romana, che non può giovarsi delle indagini topografiche e archeologiche e dell'apporto delle numerose iscrizioni latine anche di carattere pubblico e con riflessi sull'amministrazione provinciale e cittadina, venute alla luce e comunque studiate a partire dalla metà dell'Ottocento ed inserire nel 1883 nel X volume del Corpus Inscriptionum Latinarum[4]. Ma in generale sono evidenti i limiti di una ricerca affrettata, se l’opera fu scritta in sette mesi dal Manno, che non aveva adeguatamente acquisito gli strumenti dell'analisi filologica e la profondità dell'indagine storica, anche se non manca una riflessione pacata, non priva di acume e di ironia, che si differenzia nettamente dalla posizione di tutti gli studiosi precedenti. In particolare il Manno supera senz’altro l’impostazione annalistica dell’opera del Fara e dei suoi epigoni e si confronta in modo nuovo con le fonti letterarie, utilizzate con disinvoltura e con ampiezza. Egli del resto ammira l’opera del Fara, il De rebus Sardois, che gli appare però inquinata dall'utilizzo di Annio di Viterbo «impostore troppo noto per la pubblicazione da lui fatta delle supposte scritture di Beroso» (I, 23)[5].

Preceduta da una citazione dantesca «poiché la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparse», l’opera del Manno risponde non a curiosità banali né tende a «prevenire o scemare le disgrazie dell’umanità»: l’autore è convinto che «la conoscenza invece dell’intero reggimento degli antichi popoli ammaestra coloro, ai quali il bene degli uomini sta in sul cuore». L'amore di patria è quello per la Sardegna tutta e per la nazione sarda[6], in un momento che precede di alcuni decenni la perfetta fusione del Regno con gli stati di terraferma. Ma un piccolo spazio ha anche Alghero, la città natale, ripetutamente richiamata nell'opera come la piccola patria. Eppure la storia antica si presta meno a valorizzare il ruolo autonomo della Sardegna, tanto che il Manno ritiene che i suoi «nazionali» potranno «riconoscere nelle vicende rapportate meno un'istoria propria, che una sequela dell'altrui» (II, 93).

Nell’introduzione alla terza edizione, pubblicata a Milano nel 1835, Defendente Sacchi esaltando l’amore immenso del Manno per la propria terra avrebbe scritto: «L’isola di Sardegna presentò in tutti i secoli un popolo armigero, sdegnoso di servitù, e preda sovente per la sua posizione delle altre nazioni; un popolo che fondò instituzioni, creò leggi, e diede uomini, i quali o percorsero o emularono, o vinsero quelli degli stati che lo circondano»[7]. Proprio a questo proposito, ad Antonio Taramelli un secolo dopo dispiacerà l’impostazione stessa del lavoro del Manno, che giudicherà fondamentale ma inquinato da «giudizi unilaterali sull’opera romana in Sardegna», ove evidentemente gli si rimprovera un patriottismo sardo che si spinge fino a criticare la romanizzazione, che il Fascismo vorrà invece esaltare come uno straordinario modello[8].

Cinque anni dopo, gli Editori Capolago della Tipografia Elvetica, licenziando la quarta edizione, avrebbero sottolineato che il prego principale dell’opera è legato al proposito dell’autore, fornito di una vasta e profonda erudizione giuridica, di «trattare la storia della sua patria in modo civile, anche per quanto riguarda ai remoti tempi»[9].

Le fonti a disposizione del Manno erano limitate: intanto la documentazione epigrafica era pressocché inaccessibile, se le iscrizioni conosciute dal Manno sono sostanzialmente quelle pubblicate da Ludovico Baille, il fondatore del Museo di Cagliari, «un dotto scrittore nazionale vivente, in due sue scritture degne di encomio» (I, 214)[10]: la base di Porto Torres che cita il restauro del tempio della Fortuna scoperta nel 1819, ampiamente utilizzata dai falsari delle Carte d'Arborea[11] (I, 316 s. n. 1), la base dedicata a L. Cornelius Marcellus che testimonia la muncipalità di Sulci[12] (I, 284 e n. 1), alcuni miliari sardi come quello di Vespasiano (non di Nerone) a Macomer[13], dei Severi (non degli Antonini) a Monastir[14], di Emiliano a Fordongianus[15] (I, 320), infine quello di Filippo a Bitia[16], tutte pietre «scoperte mentre si scriveva la presente opera» (I, 318 s. n. 2), un diploma militare dell'età di Adriano[17] pubblicato dal Vernazza nel 1818 e rinvenuto a Tortolì (I, 326 e n. 1). Infine la dedica del tempio di Iside e di Serapide da Sulci[18] (I, 317 n. 1), la base dei Cornenses a Santa Caterina di Pittinuri, utile per localizzare la patria di Ampsicora[19] (I, 298 n.), e alcuni pochi epitafi misenati dei marinai sardi, come quello di M. Epidius Quadratus conservato nell'Università di Cagliari[20] (I, 326 n. 2). Tra le falsae, il Manno conosce attraverso il Bonfant ed il Cossu il falso cinquecentesco che attribuisce a Carales il nome di civitas Iolae, con un collegamento al mito di Iolao[21] (I, 29 n. 2); nel secondo volume si segnala l’intelligente posizione assunta sull'interpretazione delle numerose iscrizioni latine rinvenute a Cagliari ed a Porto Torres in occasione degli scavi seicenteschi nell'ambito della polemica municipalistica sul primato ecclesiastico, ma non sempre l'equilibrio è assicurato[22]. Buona è invece la raccolta delle costituzioni imperiali relative al basso impero, che il Manno commenta con notevole competenza.

Sul piano archeologico, conosce le rovine del tempio della Fortuna a Porto Torres cioé il c.d. Palazzo di Re Barbaro interpretato giustamente come terme centrali per la prima volta dall'Amedeo solo nel 1877 in occasione della visita del Mommsen[23]; e poi l'anfiteatro di Cagliari (I, 317 n. 1), gli acquedotti romani di Torres (dalle sorgenti sassaresi), di Nora, di Carales con origine a S.M. di Siliqua, le terme ed il ponte sul Tirso a Fordongianus, alcune strade romane, monumenti che in parte erano stati già studiati da Francesco Gemelli (I, 317 n. 2).

La bibliografia utilizzata dal Manno è scarsissima e in qualche caso egli riconosce l'assoluta inaffidabilità di chi l'ha preceduto, come nel caso dell'annalista padre Salvatore Vidal[24], l’autore nel Seicento del Clipeus aureus excellentiae Calaritanae (Firenze 1641), talora con qualche esagerazione, come a proposito della via a Turre Karales: «fra le stranezze dell'annalista Vitale – scrive il Manno - è degna d'esser annoverata questa, che alla strada sarda ci dà la seguente direzione: dal Campidoglio e da Torres per Cagliari. E già ch'egli abbia potuto dimenticare il mar Tirreno, che s'intromette fra li primi due punti di tale strada; ma in una storia, la quale non ti presenta che uno sgominare continuato, ed in cui, se da tanto ti senti, puoi ben numerare netto e spiccato un migliaio per lo meno di grosse babbuassaggini, d'uopo è che ogni cosa sia in concordanza» (I, 317 s. n. 3)[25]. Ma qui il Manno sbaglia, se il Vidal evidentemente si riferiva al Capitolium di Turris Libisonis come punto di partenza della strada. Più ragione ha il Manno ad attaccare il padre Vidal a proposito delle vicende della prima guerra romano-cartaginese in Sardegna: «chiunque poi bramasse di conoscere la maniera più agevole di riescire tosto dalla difficoltà delle storiche contradizioni, quella cioè di renderle più buie con novelli errori, non ha che a leggere la narrazione dell'annalista sardo P. Vitale, il quale con singolare ravviluppamento confondendo Duillio e Scipione, scambiando le isole Lipari colla Sardegna, e tutto annebbiando, ne presenta un garbuglio tale da stancar la censura del più paziente storico» (75 s. n. 4). È un giudizio che concorda pienamente con quello del Tola, che collega la celebrità del Vidal «più per la stranezza e pel disordine, che pel merito delle molte scritture da lui date alla luce»[26].

Oggetto di sarcasmo è anche l'opera Delle sarde antichità di Matteo Madao[27] pubblicata a Cagliari nel 1792[28], come a proposito dell'«arrischiata opinione» sull'origine sarda del poeta Ennio, l'uccisore di Iosto, «giudicandolo non ospite ma nativo»[29] (I, 114).

Più rispetto il Manno mostra per l'opera di Francisco De Vico[30], l’avversario del Vidal, autore della Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña dividida en siete partes (Barcelona 1639), anche se non mancano rettifiche e ironiche osservazioni come a proposito del toponimo Turris Libisonis: «Torres vuolsi dal Vico così chiamata dai Torreni o Tirreni, che traevano tal nome dall'edificar che faceano le lor magioni a foggia di torri: questi Tirreni o Vituloni inviati diconsi dallo storico a questa volta da Mesraimo, ossia Osiride, re d'Italia, figlio nientemeno che di Cam di Noé. Se l'amore delle stranezze può chiamarsi amor patrio, chi sel crede sel goda» (I, 39 n. 3).

Critiche riceve anche Michele Antonio Gazano per la Storia della Sardegna pubblicata a Cagliari nel 1777 che gli sembra sciatta nella forma ed alquanto dispersiva, perché l'autore «appigliossi al partito di ragunare merci straniere, innestando al suo libro gran parte de' fasti romani, senza alcuno di quelli artificii che d'uopo è adoperare, acciò la storia della provincia non confondasi con quella della metropoli, e non serbi una sembianza propria» (58 s. n. 1).

Cara gli è soprattutto l’opera Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento della sua agricoltura di Francesco Gemelli, pubblicata a Torino nel 1776[31], «per l’interesse vivissimo, con cui imprese a propagare maggiormente fra i Sardi i precetti e gli avvisi migliori della coltivazione delle terre, e meritevole di esser anche caro all’Italia da lui arricchita d’un opera, che con utilità e diletto può esser meditata dagli studiosi della rurale economia» (290 s.). Il Gemelli era partito dalle fonti classiche ed in particolare dal celebre positivo giudizio sulla Sardegna di Polibio[32], «isola eccellente per la sua estensione, per la moltitudine dei suoi abitanti per l’ubertà del suo suolo» (I, 79,6). Appaganti gli sembrano «le conghietture, che trasse il Gemelli dallo stato fiorente dell’agricoltura sarda ai tempi romani», sulla popolazione, sul numero dei caduti, oltre 150.000 solo nel II secolo d.C., tanto che «la nazione intiera» sarebbe potuta arrivare alla cifra di due milioni di abitanti: una cifra astronomica, sulla quale il Manno ha dei dubbi anche se non condivide fino in fondo la polemica scatenata dall’irascibile P. Tommaso Napoli[33] nella Compendiosa descrizione corografico-storica della Sardegna pubblicata a Cagliari nel 1814: «semplice era egli anche nell’ira, e perciò i rimbrotti, coi quali, allorché gli andava la senapa al naso, non si teneva in quelle sue note di travagliare vecchi e novelli scrittori delle cose sarde, i rimbrotti sono d’un uomo poco curantesi delle forme, colle quali si agevola, se non la conoscenza, l’amore almeno del vero». Eppure «sarebbe desiderabile che uomini siffatti sorgessero tratto tratto a frenare col caustico loro rigore gli sbalzi degli uomini d’ingegno, ed a riveder il pelo a quei tanti guastamestieri, le scritture dei quali non vagliono, come suol dirsi, un cece col buco» (292 s. n. 1). E poi un apprezzamento per la Storia naturale di Sardegna di Francesco Cetti[34], pubblicata a partire dal 1774, a proposito della mastruca, forse «la pelliccia che in alcune regioni della Sardegna è tuttora in uso»: «più appaganti io trovai le conghietture di quest’ultimo scrittore, tanto benemerito della storia naturale dell’isola» (314 s. n. 1).

Le letture del Manno sono però più ampie, se commenta ed ironizza sull’opinione di Edward Gibbon[35], «lo storico della decadenza del romano impero» (I, 281), che dopo d’aver dipinto le province oppresse dai ministri della repubblica» … «credette di poter asserire, che se si avesse da stabilire nella storia del mondo il periodo di tempo, in cui la condizione degli uomini sia stata più prospera e felice, si dovrebbe subito nominare quello, che corse dalla morte di Domiziano all’avvenimento di Commodo» (I, 282; vd. anche 318 e n. 1). Più rispetto il Manno ha nei confronti di Ludovico Antonio Muratori[36], citato per le Antiquitates Italicae Medi Aevii (I-VI, Milano 1738-43) e soprattutto per il duro giudizio sull’epigrafia paleocristiana della Sardegna nel Novus thesaurus veterum inscriptionum, per quanto la sua critica gli appaia spesso eccessivamente severa[37].

A prescindere dai molti limiti, l'impianto dell'opera appare solido, fondato com'è su una conoscenza amplissima delle fonti classiche, partendo dai miti sulle più antiche colonizzazioni dell'isola, «racconti favolosi», addirittura «bambolinaggini» (I, 33), che talora conservano un «impercettibile germe di verità» (I, 5), anche se le fonti hanno voluto «illustrare col diadema di monarchi tutti li più o meno celebri capi di quelle schiere di ventura, che nei tempi eroici approdarono nell’isola» (I, 225). L'edificazione dei «noraghes» viene attribuita «alli più antichi popolatori della Sardegna e non già ad alcuna delle colonie posteriori, o greche, o spagnuole, o libiche» (I, 13) e la loro funzione «come avvisano i più savi» dovrebbe esser stata quella di «sepolcri antichi di tribù o di famiglie» (I, 14), una tesi che sarà combattuta dallo Spano[38] ma ancora difesa dal Mommsen[39]. Tracce di un'antica colonizzazione greca gli sembrano documentate dal mito di Aristeo figlio di Apollo e della ninfa Cirene, raccontato da Diodoro Siculo, da Pausania, da Silio Italico e da Solino, che ne fa il fondatore di Carales; e poi gli Iberi di Norace, il fondatore di Nora; il mito di Forco e della figlia Medusa, infine Iolao ed i Tespiadi, «frutto dei cinquanta talami di Ercole» (I, 27), fondatori con gli Ateniesi di Olbia ed Ogrille; e ancora Dedalo e Sardus, con la statua donata a Delfi testimonianza dello sviluppo della metallurgia in Sardegna; dopo aver ricordato le monete coniate da Ottaviano con il nome anche del nonno Marco Azio Balbo, il Manno localizza il tempio del Sardus pater, il Sardopatoris fanum di Tolomeo, su un promontorio della costa occidentale della Sardegna, più precisamente col Fara a Capo Pecora a N di Buggerru[40] oppure a capo Frasca (I, 301 n.), una posizione storiografica che resisterà per oltre un secolo. Noi oggi sappiamo che la Sartiparias dell’Anonimo Ravennate e Metalla erano nell’Iglesiente nella valle di Antas[41].

Il ciclo delle mitiche colonizzazioni si chiude con gli Iliesi arrivati al seguito di Enea ed i Libici. E poi i nomi antichi di Icnos o Iscnusa e Sandaliotin di Timeo. Riserve il Manno esprime per il mito di Galata, «figliulo d'Olbio re de' Galli» (I, 23), per le molte invenzioni relative alla storia antidiluviana dell'isola, testimoniata da alcuni ebraismi come la denominazione Cadossene: «lascio che in siffatte ricerche s'inoltri chiunque non averta o la noia de' lettori o la miriade di spropositi, che sogocciolar suole dalla penna questioni tanto al di sopra dei comuni mezzi d'investigazione» (I, 33 n. 1). Il Manno conosceva le notizie erodotee relative ai tentativi di colonizzazione della Sardegna emersi in ambito ionico già nel VI secolo, coll'intervento nel panionio del saggio Biante di Priene e poi Istieo di Mileto alla corte di Dario[42]. Infine il collegamento con Sardi ed i Sardiani della Lidia, l’uccisione dei vecchi, il riso sardonico («quel ridere simulato, con cui il traditore accarezza, l’adulatore lusinga, l’insultato compiacesi nel pensiero della futura sua vendetta, l’orgoglioso dissimula il proprio torto»)[43] (I, 312).

Accettabile appare il quadro complessivo di un'antica colonizzazione fenicia e più precisamente tiria e di un successivo predominio militare cartaginese, temi che sono oggetto del II libro; la legazione ad Alessandro Magno gli sembra assumere il valore di una rappresentanza «d'una nazione indipendente» (I, 58), mentre la battaglia di Imera e la sconfitta di Amilcare e dei mercenari sardi gli consentono di ricostruire il ruolo della Sardegna nell'impero cartaginese. È all'inizio dell'età punica che si sviluppa per la prima volta quella che il Manno chiama la «resistenza dei sardi» (I, 65), già contro Macheo-Malco, sconfitto e rientrato a Cartagine e contro Asdrubale ed Amilcare Barca.

Estremamente ampia e dettagliata è la storia della conquista romana della Sardegna puntualmente datata ab urbe condita, partendo dalle spedizioni di L. Cornelio Scipione e di C. Sulpicio Patercolo nel corso della prima guerra romano-cartaginese, con l'utilizzo soprattutto di Polibio, al quale si deve il celebre giudizio sull'ingiusto intervento romano in Sardegna dopo la vittoria delle isole Egadi[44]: la cessione fu imposta dai Romani ai Cartaginesi, che «inabili ad opporre il petto a tanta piena di mali, ceder dovettero all'imperiosa condizione loro imposta, e riscattarsi dalla guerra, rinunciando ai diritti loro sulla Sardegna, e pagando ai Romani per soprassoma mille dugento talenti» (I, 80), con gran rincrescimento di «molti popoli sardi» che avevano origini comuni con i cartaginesi, anche perché «la lunga abituatezza maturato avea, se non l'amore, la tolleranza almeno del dominio» (I, 81). Per il Manno la Sardegna fu allora «dichiarata provincia del popolo romano, e lo fu prima di qualunque altra» (I, 82), prima ancora della stessa Sicilia: ma è la dominazione punica che sta alla base della successiva storia di rivolte e di guerre: «la Sardegna prima dei Cartaginesi non avea conosciuto alcuna forma regolare, od almeno concentrata, di comando, ed il dominio della repubblica di Cartagine tale non era stato da poter rassodare una maniera stabile di governo. Si dimostrarono perciò quegli isolani più indocili degli altri provinciali nell'accollarsi il nuovo giogo, il quale seria stato da essi spezzato, se in conquistatori meno potenti fossero imbattuti, o più sommessamente sopportato, se imbattuti si fossero in conquistatori meno sprezzanti» (I, 140).

Nel III libro, si affronta il tema delle «continue ribellioni» dei Sardi contro i Romani, gli interventi di consoli e pretori, i trionfi, l'utilizzo di «alcuni veltri che annasando per quei burroni scoprissero le traccie» dei ribelli sardi (I, 92), le uccisioni, la cattura di prigionieri, la schiavitù, la riscossione dei tributi. Il Manno crede ai prodigi che in Sardegna avrebbero annunciato la grande rivolta di quello che è l'eroe della resistenza sarda contro i Romani, Amsicora, l'alleato di Annibale, capace di raccogliere il dissenso e di interpretare «gli animi dei Sardi, oramai lassati dalle angherie romane» (I, 97); il figlio Iosto «e nell'avvenenza della persona (la fonte è Silio Italico) e nello slancio degli spiriti generosi manifestava già quanta delizia e conforto della patria sarebbe egli stato, se il destino a tanto servato lo avesse» (I, 101). «Ma se queste pagine - scrive il Manno - avranno a passare alla posterità, il nome di Amsicora, e quello di Iosto non più si dovranno a mala pena rintracciare negli annali d'una nazione, che colla mole delle sue gesta ecclissò rinomanze anche più grandi, ma la loro gloria poggierà sovra un terreno più propizio, e questa storia ingemmata del loro nome ricorderà in ogni tempo a' miei nazionali la costanza di quel canuto duce, e forse l'animo del lettore generoso e sensibile, tocco sentirassi di compassione pei casi del giovanetto di lui figliuolo» (I, 105). Per Mattone al Manno si deve una valorizzazione della figura di Ampsicora raccontata da Livio: del resto fu lui «con grande fiuto letterario» a tracciare «il plastico ritratto di un personaggio che, come un eroe da tragedia classica, potesse far fremere il lettore di giustificato orgoglio nazionale»[45]: fu certamente il Manno a creare il mito di Amsicora e di Iosto, a suscitare uno straordinario interesse per la localizzazione dell'antica Cornus e per la ripresa degli scavi e delle esplorazioni archeologiche a Santa Caterina di Pittinuri, che si data al 1831 per iniziativa del padre Vittorio Angius, dopo una visita del La Marmora, per quanto già nel 1825 nel primo volume dell’opera sia citato il ritrovamento (effettuato nel 1821 da Pietro De Roma) della base di Q. Sergius Quadratus che ricorda l'ordo et populus Cornensium[46]. Il Manno conosce il dibattito di quei giorni: «Fara la stimò collocata nella regione del Montiverro: mi è stato riferito, essersi testè scoperte in vicinanza a S. Caterina di Pitinuri, vestigia di un’antica città, ed essersi pure trovata una lapida coll’iscrizione Cornenses: in tal caso ogni dubbiezza sarebbe sciolta, e le conghietture del Fara acquisterebbero tutta l’evidenza»[47] (I, 298 n.).

Due anni dopo l'uscita della prima edizione del volume del Manno, l'Airaldi avrebbe pubblicato la tragedia Ampsicora, dramma eroico nuovissimo posto in musica dal maestro Nicolò Oneto Siciliano, opera prima, profondamente influenzata dalla Storia di Sardegna[48]; una tragedia che sarebbe stata criticata ad esempio dal Siotto Pintor a proposito dei «palpiti di Josto per Emilia» prima della battaglia finale[49] e che sarebbe stata però seguita da una serie di imitatori, come testimonia il più celebre dramma di Ortolani[50]. Al 1836 si data la poesia Amsicora di Pietro Martini, che precede di quasi dieci anni le prime scoperte delle Carte d'Arborea, nelle quali Ampsicora ed Iosto hanno un ruolo rilevante[51].

E poi il centurione Ennio, l'uccisore di Iosto secondo Silio Italico non conosciuto dal Manno, il poeta riportato a Roma dalla Sardegna da Catone il vecchio, pretore amato e temuto nell'isola, esempio straordinario di frugalità e buon governo; ben diverso dagli altri pretori che si portavano dietro un «codazzo di schiavi, di donne e di garzoncelli», costringendo gli onesti provinciali a supplicare giustizia «ai piè d'un liberto o d'una sgualdrinella» (I, 113).

Gli anni della rivolta degli Iliensi e dei Balari e dell'intervento di Ebuzio Caro e di Tiberio Sempronio Gracco sono narrati con fedele adesione al testo liviano, ricordando le pestilenze, forse la malaria, il numero dei caduti, i prigionieri, la posizione delle antiche colonie fenicio-puniche: gli Iliesi gli sembrano il popolo che più amava l'indipendenza: «o perchè il sangue troiano inspirasse maggior orgoglio, o perchè la vita asprissima durata pei dirupi li più inaccessi dell'isola maggiore incitamento somministrasse al viver libero» (I, 116). Privi di un capo, essi furono sconfitti sanguinosamente, sottoposti a nuovi tributi, venduti in schiavitù: il Manno commenta il detto Sardi Venales nel senso di «sardi da vendere», un'espressione applicata ancora ai tempi di Livio «per significare cose di malagevole smaltimento» (I, 123). Egli non ignora la versione plutarchea (Romolo, 25,7) recentemente valorizzata da Massimo Pittau che attribuisce tale espressione ad un'epoca più antica ed agli abitanti di Veio[52], «perchè i Toscani tutti da Sardi città di Lidia si diceano discendere». Ma il Manno preferisce seguire Aurelio Vittore[53] ed intende che gli schiavi sardi erano «mercanzia di mala vendita», perché l'irrequieta generazione di prigionieri Iliesi e Balari lasciava trasparire nel loro «feroce aspetto» e «in quel loro cipiglio la libertà da essi perduta nell'animo» (I, 125).

Deludente è il tentativo del Manno di raccogliere l’elenco dei governatori della Sardegna, quella che chiama la serie «dei pretori intermedi» (I, 115 n. 1), sostanzialmente partendo dall'opera di Tito Livio: lo fa correggendo il Fara[54], ma restando ancora lontano da un'accettabile filologica ricostruzione dei dati relativi all’età repubblicana, che solo di recente sono stati sistemati da Maria Antonietta Porcu[55]. Tra i questori emerge la figura di Gaio Gracco, il magistrato che fu capace di stimolare «l'indole generosa» dei Sardi, ottenendo offerte spontanee anzichè imponendo ingiuste requisizioni di frumento e di vesti. Le pagine di Plutarco e di Aulo Gellio vengono trascritte letteralmente, per far emergere le virtù del questore, che lasciò nell'isola un ricordo ben diverso da quello di tanti altri colleghi e di alcuni governatori disonesti, come Tito Albucio esiliato ad Atene o Emilio Scauro assolto invece per l'intervento di Cicerone. Il Manno si sforza di descrivere la nequizia di Albucio, che dopo il processo, «mutato il cielo e non vezzo, passò quietamente i giorni della sua condanna, filosofando, dice Cicerone, e farneticando dich'io; ché filosofia vera non cape nell'animo dei malvagi» (I, 136). E ancora i trionfi di Lucio Aurelio Oreste e di Marco Cecilio Metello alla fine del II secolo, che evocano la resistenza degli Iliensi, capaci «di veder accorrere sotto i vessilli della rivolta i popoli eziandio che li attorniavano» (I, 138). Il tema della resistenza alla romanizzazione è centrale ed il Manno constata che «alla irrequieta bramosia di scuotere il giogo della dominazione romana» è subentrata in età imperiale da parte dei Sardi «la pacifica tolleranza del governo e dei governanti di Roma». Del resto «allorquando i Romani colla forza, o col terrore delle loro armi soggiogato aveano qualche regione, prima loro sollecitudine si era di sottoporla a quella maniera di amministrazione, che più acconcia pareva loro a guarentire il vantaggio e la perpetuità della fatta conquista», allettando «le nazioni arrendevoli», punendo «con durezza le resistenti», frenando «con cautela quelle d’ambiguo contegno» (I, 223). Sdegno suscitano le informazioni sulla pesante requisizione dei tributi in Sardegna e delle decime «che si trasportavano a Roma per alimentarvici quell’irrequieta plebe» (I, 254 s.), anche se poi si assiste all’«aumentata infingardaggine del volgo» (I, 255). E poi «la maniera gravissima delle riscossioni, e la crudele vessazione de’ pubblicani» che causavano la «trista condizione delle province romane nel pagamento delle pubbliche gravezze» (I, 276).

A Luciano Marroccu è sembrato che il Manno abbia creato la premessa per la nascita della nazione sarda partendo dalla resistenza antiromana (con uno spirito non lontanissimo da quello di opere quale il Platone in Italia (1804) di Vincenzo Cuoco, che aveva enfatizzato l’antichità delle civiltà italiche rispetto alla cultura ellenica o L'Italia avanti il dominio dei Romani (1810) di Giuseppe Micali: uno spirito per cui, scriveva il Croce, anche Roma «faceva le parti di una potenza straniera, di una dominazione spagnuola o francese o austriaca»[56].

E poi Mario e Silla, le guerre civili, la resistenza del pretore mariano Quinto Antonio contro il legato sillano Lucio Filippo: la forma stessa con la quale compaiono i nomi si salda con il sistema onomastico irregolare adottato qualche anno dopo dalle Carte d’Arborea per i presidi della Sardegna. E poi la sfortunata vicenda del console M. Emilio Lepido, che il Manno preferisce immaginare morto dopo che gli era arrivata da Roma una lettere «la quale il chiariva delle dissolutezze della sua consorte» (149 s.), che gli negava dopo la sconfitta anche «l’asilo delle domestiche consolazioni» (I, 150). E poi la guerra di Pompeo contro i pirati, il comando straordinario per l’approvvigionamento annonario, l’attività di Quinto Cicerone ad Olbia, le caustiche osservazioni del fratello Marco sul clima malsano della Sardegna, e anche sull’ozio che nell’isola favoriva «il ricordo delle cose già obbliate» (I, 156 n. 1).

La Pro Scauro di Cicerone è commentata nel testo ancora filologicamente non perfetto curato da Angelo Maj, con le integrazioni dell’«ingegnoso e perspicace illustratore di vari importanti testi a penna della Regia biblioteca di Torino, teologo Amedeo Peyron, professore di lingue orientali in questa università» (I, 156 s. n. 2), il maestro di Giovanni Spano: il Manno preliminarmente si interroga sulla posizione da assumere di fronte al severo giudizio che Cicerone fornisce dei Sardi, in particolare esclude di poter «imitare alcuni degli scrittori miei nazionali, che al menomo cenno di dileggio, e talvolta anche di severa verità, non colla ragione e colla analisi del filosofo sorressero le stentate loro difese, ma colle ingiurie del pedante»: l’obiettivo è ancora una volta il «P. Vitale nei suoi Annali di Sardegna, il quale combattendo l’opinione di Cicerone e d’Orazio sul sardo Tigellio e seguendo il costume del suo secolo, nel quale ogni letteraria discussione contaminata era di detrazioni e villanie, ebbe la sfrontatezza di chiamare l’aurea eloquenza di Cicerone latrati e canto di rauca strozza i versi dell’immortale venusino, che delizia eterna pur sono e saranno di tutti coloro, i quali cane peius et angue schivano le scritture degli stolidi e degli impudenti; locché se a me non fu concesso, saranmi almeno lecito di purificarmi, appena dato mi fia di non più rivedere queste stalle d’Augia» (I, 158 n. 1)[57].

L’amor di patria non può portare ad insultare i nomi più venerati, né può cedere di fronte alla verità: del resto «lo scrittore intemperante» non deve far altro che «augurarsi lettori stupidi» (I, 159); meglio è prender atto dell’odio di Cicerone e lasciare al lettore di «veder nella narrazione lampeggiare il nome d’un gran nemico» (I, 160). Di fatto i propositi del Manno non sempre furono rispettati e la sua posizione è decisamente contro il governatore accusato di concussione, per il «depredamento della provincia», per le «non meritate ingiurie», per l’uccisione di Bostare di Nora, per il tentativo di violenza che aveva provocato il suicidio della moglie di Arine, anche se la posizione di Cicerone è puntualmente registrata, come a proposito dell’imprudente matrimonio tra Arine e la madre di Bostare, la «druda dissoluta» (I, 164 e 165 n. 1) presente al processo ed oggetto di scherno. Tra i sardi lodati da Cicerone compare Gneo Domizio Sincaio[58], ed una famiglia sarda che aveva ottenuto la cittadinanza romana da Pompeo, quella dei Deletoni, ma si tratta di un fraintendimento del testo ciceroniano, puntualmente ripreso nelle Carte d’Arborea. Infine la costernazione prodotta in Sardegna dall’assoluzione di Scauro, la pronta adesione della provincia alla causa dei populares di Cesare, l’allontanamento da Carales del governatore pompeiano Marco Cotta, Farsalo e poi la guerra africana, il suicidio di Catone e le ironiche osservazioni di Cicerone sul prossimo viaggio di Cesare in questo «podere» che ancora non aveva visitato, «invero niun altro ne possiede più cattivo, ma non perciò egli lo spregia» (I, 174). Il Manno ignora la promozione di Carales a municipio di cittadini romani fino alla fine della repubblica ma sembra aver avuto accesso diretto al Bellum africum, se ricorda la multa (per lui di 100.000 sesterzi) imposta ai Sulcitani da Cesare, che gli sembra quantificata in modo eccessivo dal Padre Stanislao Stefanini (nel De veteribus Sardiniae laudibus)[59] e dallo stesso P. Napoli (I, 304 n. 1); del resto gli sembra strano il silenzio dell’ autore, forse Aulo Irzio, se veramente il dittatore avesse concesso lo statuto municipale a Carales.

Per il Manno la vicenda del cantante sardo Tigellio, amico di Cesare e di Ottaviano, testimonia un’antica tradizione musicale radicata nell’isola e che prosegue fino ai nostri giorni: «Tigellio ha lasciato in Sardegna l’eredità del suo facile verseggiare» (I, 176 n.1), come dimostrano «quelle gare poetiche che contadini o pastori, privi affatto d’ogni conoscenza di lettere, sostengono con calore e con vivacità nelle occasioni di qualche familiare o pubblica allegrezza» (ibid.). Si tratta ovviamente di un’attualizzazione del tutto infondata se non altro perché il Manno sa bene che Orazio nella terza satira[60] ci ha conservato anche il repertorio di Tigellio, come l’Io Bacchae modo summa voce modo .. ima che rientra nella tradizione musicale urbana di Roma, che niente ha a che fare con la Sardegna. Ma il tema delle continuità, della storia lunga dell’isola, della possibilità di leggere il passato romano nell’arcaica atmosfera della Sardegna medioevale e moderna, è uno dei temi ricorrenti nelle pagine del Manno, come a proposito della lingua erede del latino, quando «l’Occidente intero scambiò le barbare sue voci col fluido e nobile idioma del Lazio e la Sardegna anch’essa abbandonato quel tramestìo di vocaboli punici e greci, il quale ne’ tempi precedenti compor dovea il dialetto nazionale, trovossi in grado di poter parlare la lingua dell’amico suo Ennio e del nemico suo Cicerone» (I, 327).

L’Arpinate odiava di cuore Tigellio, che gli sembrava più pestilente della sua patria, un personaggio troppo spregevole per dover essere tenuto in considerazione: in una lettera a M. Fadio Gallo del 20 agosto 45 a.C., alla vigilia del rientro a Roma di Cesare, a proposito di Tigellio Cicerone ricordava ironicamente il proverbio non omnibus dormio, riferito a quel Cipius (Cepione per il Manno, 182 s.), che fingeva di dormire per facilitare le avventure galanti della moglie[61]: ciò almeno fino a quando anche uno schiavo non volle approfittare del "sonno pesante" del marito compiacente, che allora decise di non fingere più di essere addormentato: perchè, se ci si arrende al forte, non ci si arrende a tutti. Così commenta il Manno: «questo Cepione di natura così tenera si mostrava verso la sua moglie, e con tanta spontaneità ne assecondava le licenze, che per turbar meno colla sua presenza il bertone [nel senso di stallone, amante di donna di malaffare], simulava di sonnecchiare. Gli avvenne tuttavia di dover rendere avvisato qualch’altro, che non per ciascuno ei dormiva» (I, 183 n. 1).

Di qui il disprezzo di Cicerone per l'odiato Tigellio, un personaggio di cui non è necessario preoccuparsi, nonostante le notizie allarmanti di una crescente ostilità comunicate da Gallo proprio alla vigilia del rientro di Cesare dalla Spagna. Il tema del clima malsano della Sardegna trova il Manno decisamente dalla parte di Cicerone, contro «i più armeggianti fra gli scrittori nazionali», decisi a difendere la reputazione della Sardegna tanto da considerare «delitto di lesa patria» l’accettare le osservazioni dell’Arpinate: tra tutti Francisco De Vico distorcendo l’espressione latina homo pestilentior patria sua, intende la Sardegna come luogo d’esilio ed attacca Claudiano[62] a proposito della denominazione Montes insani, escludendo che l’isola abbia potuto essere un luogo pestilente. Ma «il voler con sterili declamazioni smentire tutta l’antichità, non produce altro effetto che di toglier fede alle altre cose vere che posson narrarsi» (183 s. n. 2). E viceversa la Sardegna per il Manno ancora oggi in alcune aree paludose o troppo soleggiate appare malsana, quantunque poco popolata e perciò poco coltivata, mentre nell’antichità doveva essere più popolata e più verde, addirittura «feracissima»: «raffrenisi dunque la foga dello zelo soverchio che nuoce, ed invece d’incorrere la taccia di esagerata difesa, si accagionino di esagerata accusa gli scrittori romani, dai quali ove moderatamente scritto avessero, non più pestilente sarebbesi detta la Sardegna di molte altre regioni dell’Italia istessa, che pur appartengono a provincie di felicissimo clima» (I, 184 n. 2). È la «via mezzana» che il Manno predilige (II, 11).

Infine il secondo triumvirato, Sesto Pompeo e Menodoro in Sardegna, Ottaviano, Antonio e la «vezzosa regina» Cleopatra (I, 197), Augusto e la divisione dei poteri, la Sardegna provincia senatoria pacificata, l’esilio degli ebrei sotto Tiberio, negli anni di Cristo, quando «il cielo dischiuso avea i suoi splendori per illuminare l’infelice schiatta degli uomini» (I, 200). E poi pochi cenni, come a proposito della condanna ricordata negli Annali di Tacito[63] del procuratore Vipsanio Lenate, ob Sardiniam provinciam avare habitam: il Manno chiama il personaggio Vipsanio Lena preside della Sardegna (I, 200) e il suo testo appare alla base dell’erronea trascrizione latina del nome presente nelle Carte d’Arborea ed in particolare nelle vite di Sertonio, che considerano Lena appunto un praeses, titolo decisamente più tardo. E poi l’esilio in Sardegna di Aniceto, il prefetto della flotta di Miseno autoaccusatosi dell’adulterio con Ottavia, esiliato in Sardegna da Nerone, «il tremendo marito di Sporo» (I, 275). Commentando il giudizio di Tacito, il Manno osserva: «io non saprei se in tale circostanza Nerone promettesse da senno un ameno ritiro a chi confinar dovea in un’isola poco dai Romani pregiata per quel riguardo, o se per un raffinamento di malvagità volesse egli dare ad un gastigo l’apparenza d’un favore» (I, 201).

Ripercorrendo le tracce degli «storici delle cose sarde» il Manno osserva che l’intera età imperiale romana è completamente trascurata, perché si conoscono i nomi di pochissimi presidi provinciali sostanzialmente grazie alle fonti agiografiche ed ai pochi miliari, perché si saltano a pie' pari gli avvenimenti civili, per passare alle vicende religiose cristiane o all’occupazione vandalica: «nondimeno – egli osserva – con una più diligente ricerca, si può riempire in parte questo gran voto» (I, 203). È un invito che i falsari delle Carte d’Arborea avrebbero raccolto, impegnati a riempire il vuoto con nuove leggende, con avvenimrenti fantastici e con personaggi fittizi. Del resto analoghi vuoti sono testimoniati anche per gli artisti ed i letterati sardi in età romana: «non deve pertanto sorprendere, se (…) non rimase nella Sardegna il ricordo di persona alcuna celebre per lo studio delle umane discipline, quando il mondo intero poté appena in quella moltitudine di affettati scrittori lasciare alla ricordanza ed ammirazione della posterità i nomi di Luciano, di Longino e di altri pochissimi». Ma anche a questo proposito i falsari delle Carte d’Arborea avrebbero compensato il silenzio delle fonti. Del resto, commentando il giudizio del Muratori sul volgare dei documenti medioevali della Sardegna, il Manno ritiene che la Sardegna è stata modello per gli Italiani «per adottare nelle loro scritture la nuova favella», rimasta profondamente ancorata al latino classico (327 ss.): ancora una volta è possibile scorgere il punto di partenza dei falsari delle Carte d’Arborea. Sorprende semmai il silenzio, la prudenza e addirittura la benevolenza successiva del Manno nei confronti dei falsari, se il De Castro sette anni dopo la condanna dell'Accademia di Berlino avrebbe citato il Manno tra i difensori dell'autenticità delle Carte, sia pure «miscellanea di verità storiche, di tradizioni, di leggende», del resto solo «lo studio potrà sceverare il vero dal falso»[64]. Ma allora si deve coincordare col Marroccu, quando sostiene che i falsari videro nel Manno «il loro anticipatore e maestro»[65].

Il Manno conosce le fonti giuridiche, attribuisce alla Sardegna una serie di costituzioni imperiali come quelle di Costantino e di Giuliano sul cursus publicus, quella di Costantino sul dies solis la nuova festività cristiana, quelle di Valentiniano sui metallari e gli aurileguli. Il capitolo sull’amministrazione è ben costruito, con un’ampia conoscenza delle fonti giuridiche relative all’editto perpetuo, fino ad Ulpiano ed alle nuove disposizioni sull’ingresso in provincia dei proconsoli e del loro seguito, sulle sedute giudiziarie, sulle competenze dei questori, sui legati provinciali, sulle esazioni per il funzionamento del sistema provinciale. Ironia ed imbarazzo suscitano le disposizioni di Severo Alessandro[66] sulle concubine da mettere a disposizione del governatore che arrivava in provincia «perché, dic’egli, senza ciò non si può stare» (I, 248 n. 1), singulas concubinas, quod sine his esse non possent: «l’imperiale decreto contiene la seguente prestanza che noi, abituati ad altro pudore di costumi, non ardiremmo certamente collocare in tal novero». E poi i tributi, lo stipendium, le decime, i dazi, le altre riscossioni tese «a tassare la dissolutezza», le attività «delle femmine di mala vita» e «dei mediatori delle abiette loro opere» (I, 271), «che per la bruttura degli oggetti ai quali si riferivano, non possono inserirsi con decenza in una grave scrittura» (269 s.); le attività economiche, la produzione del frumento, la raccolta del sale, le miniere, le cave come quelle di granito rosso di Longon Sardo dove il Manno conosce le tracce dei non finiti: a Capo Testa sono conservate «due colonne informi di quel granito tuttora unite al masso, dal quale diconsi tolte quelle che s’impiegarono nel vestibolo del Pantheon d’Agrippa in Roma» (I, 267 n. 2).

E poi lo stato giuridico delle città in Sardegna, la ripresa della polemica municipalistica tra quelli che il Manno considera i soli due municipi Carales e Sulci, entrambi fondati dopo la fine della repubblica, e le due colonie di Turris e di Uselis, «propaggini» queste ultime della capitale (I, 288), sottoposte alle leggi romane e prive di autonomia: eppure «se più indipendente mostravasi la condizione dei municipii reggentisi con leggi proprie, più nobile quella era delle colonie, ver le quali maggior splendore si rifletteva dalla metropoli per la comunione di patria e di leggi con esse loro» (ibid.). Gli argomenti che portano ad esaltare la superiorità della colonia di Turris Libisonis sono simili a quelli che emergono nel Seicento ad esempio già nell’opera dell’arcivescovo di Sassari Gavino Manca de Cedrelles indirizzata nel 1615 al re Filippo III[67] e subito dopo nel 1639 nell’Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña del De Vico[68], dove «la insigne Ciudad» di Turris Libisonis è esaltata come «unica y verdadera» colonia romana in Sardegna. 

Una lunga nota di ben nove pagine (295 ss.) affronta il tema della geografia storica della Sardegna e tratta della localizzazione e dell’identificazione delle città romane, ma anche dei fiumi, dei promontori, delle isole, partendo dall’elenco di Tolomeo, arricchito dei dati dell’Itinerario Antoniniano, andando ben oltre le posizioni espresse dal Fara nel De chorographia Sardiniae (ancora allo stato di manoscritto, se l’edizione Cibrario fu pubblicata a Torino nel 1835). Alcune osservazioni sono brillanti, come la localizzazione di Tilum nella Nurra, di Neapolis a Santa Maria di Nabui presso Arbus, di Nora in comune di Pula, di Tibula che andrebbe tra Castelsardo e Platamona. Per Macopsisa il Manno è il primo a parlare di Macomer osservando: «la somiglianza del nome m’induce a preferire quest’opinione a quella del Fara, il quale conghiettura che Macopsissa fosse presso Padria, ove al suo tempo esistevano le rovine di un’antica città»[69] (I, 297 n.1). Il Manno corregge Tolomeo a proposito dell’erronea posizione costiera della colonia di Uselis.

Dubbi il Manno mantiene per Osaea (in realtà Othaea) di Tolomeo, sicuramente da identificarsi con Othoca-Utica, Santa Giusta, che lo studioso non sa dove collocare, si tratterebbe di un «sito incerto fra il capo la Frasca ed il Capo Pecora: il Vitale vorrebbe trovare Osaea in Orosei; ma non badò che Tolomeo la collocò nella parte occidentale dell’isola», più avanti seguendo il Wesseling colloca Othoca-Osaea dell’Itinerario Antoniniano tra Bosa e Neapolis; per Solci gli sembra preferibile una localizzazione sull’isola di Sant’Antioco «dove solamente veggonsi molte gradiose reliquie d’un’antica città» e non già sulla terraferma; al massimo potrebbe accogliersi una posizione intermedia del Baille, «il quale suppone per qualche sinistro distrutta l’antica Solci del continente, e rifabbricata poscia un’altra città dello stresso nome nella penisola» (I, 296 n. 1). Bithia (e non Bioea) andrebbe a Teulada anziché a Chia; sulla costa orientale il Susaleus vicus andrebbe collegato con il Sarrabus ed addirittura con Sorabile, oggi collocato a Fonni; Feronia andrebbe tra il Porto Sabbatino (Sabotino nella prima edizione) che chiude lo stagno di San Teodoro e Posada, mentre il Fara pensava alla foce del Rio Baddiani di Budoni[70]. Di grande interesse è la discussione sulla localizzazione nella costa settentrionale dell’isola di Plubium, una località ancora oggi di incerta localizzazione: il Manno pensa al territorio dei Corsi (I, 43) e preferisce pensare al promontorio La Testa (dove noi localizziamo Tibula e più probabilmente Longone), «ove al tempo del Fara esistevano le antiche rovine di questa città»[71] (I, 297 n. 1); andrebbe dunque respinta l’opinione del La Martiniere (nel Grand dictionnaire géographique et critique), «secondo la quale Plubium sarebbe l’odierno villaggio di Ploaghe»: questo sarà però il cavallo di battaglia del canonico Giovanni Spano, nato a Ploaghe nel 1803, e soprattutto dei compiacenti falsari delle carte d’Arborea, a proposito del Testo ed illustrazioni di un codice cartaceo del sec. XV contenente le leggi doganali e marittime del porto di Castel Genovese ordinate da Nicolò Doria e la fondazione e storia dell’antica città di Plubium (Cagliari 1859), un documento che sembra costruito dai falsari dopo la pubblicazione nel 1852 della Memoria sull'antica Truvine a cura dello Spano, che ora accoglie le fantasie sul cronista Francesco De Castro, sull'«intrepido e coraggioso Sarra», su Arrio amico di Mecenate. Si capiscono dunque le ironie di molti cononoscenti dello Spano, perplessi per l’entusiasmo e l’ingenuità del canonico, che dovè subire gli «sghignazzi» di qualche confratello poco credulone[72].

Ancora sulla costa settentrionale Iuliola dovrebbe identificarsi con l’Ampurias medioevale ed andrebbe localizzata a San Pietro a Mare alla foce del Coghinas.

Tra le città interne, sempre esaminate seguendo l’ordine della Geografia di Tolomeo, si menzionano Ericenum nel territorio di Osilo; Eraeum in una località incerta della Gallura, che oggi si pensa Tempio; per Gurulis Vetus si riporta il parere del Cluverio che la collega col mito dei Tespiadi e la fondazione di Ogrile e l’opinione del Fara, che pensava a Nostra Signora di Coros Ittiri[73] (oggi in realtà si pensa a Padria). Erronea la localizzazione a Fordongianus di Gurulis Nova, che invece va a Cuglieri, soprattutto in relazione alle coordinate di Tolomeo; ma in questo caso il Manno non si discosta dal Fara[74]. Saralapis sarebbe da identificare con Sorabile delll’Itinerario Antoniniano (sicuramente a Fonni), che il Manno citando l’opinione del La Martiniere vorrebbe a Villaputzu. Le Aquae Hypsitanae sono collocate esattamente presso le sorgenti termali di Fordongianus, secondo l’ipotesi del La Martiniere; vengono citate però altre improbabili localizzazioni come a Galtellì o ad Orosei oppure l’ipotesi del Fara che pensava allo stagno di Santa Giusta[75]. Le Aquae Laesitanae andrebbero alle terme di Sardara (dove invece noi localizziamo le Aquae Neapolitanae) oppure nello stagno di Orosei, almeno secondo l’ipotesi del Fara[76]; altri studiosi ricorda il Manno avevano pensato allo stagno di Quirra ed al Sarrabus. In realtà le coordinate ci dovrebbero portare a San Saturnino di Benetutti. Valeria, Valentia ed i Valentini andrebbero attorno a Laconi e non nella curatoria di Decimo, come pensava il Fara[77], ingannato dalle «vestigia di anticaglie esistenti in prossimità al villaggio di tal nome; ma fu forse tratto egli in errore dalle ruine dell’acquedotto cagliaritano» (I, 298 n. 1).

Segue la lista delle località omesse da Tolomeo e presenti nell’Itinerario di Antonino, con non poche bizzarrie: sulla strada costiera orientale tra Portus Tibulas e Caralis, Turublum Minus potrebbe essere identificata con Tibula (è ipotesi in parte ripresa da Pittau, che ora però pensa a Cala Austina presso Castelsardo)[78], mentre il Vitale pensava a Torralba, ma egli «nei suoi confronti geografici poco cura le posizioni rispettive, purché la tessitura delle lettere abbia nei nomi dei luoghi qualche corrispondenza» (I, 299 n. 1). Elephantharia andrebbe a Vignola, Longone (Lingonis per il Manno) esattamente a Longon sardo, Coclearia non può essere alla foce del Coghinas ma deve esattamente collocarsi a S di Olbia; Portus Liguidonis, che noi collochiamo a S. Lucia di Siniscola, andrebbe a Porto San Paolo o addirittura in Ogliastra. Il Manno conosce l’osservazione del Wesseling editore dell’Itinerario, che collega il toponimo Logudoro. Confonde la Viniola d’Ogliastra con la Viniola della Gallura (torre di Vignola), spostata sulla strada costiera orientale, come confonde Sulci Tortolì con Sulci Sant’Antioco: ma si rende conto che la sua è una «impigliatissima matassa», che lo porta erroneamente sulla strada costiera occidentale: ne ricava l’impressione, del tutto infondata, che «bisogna supporre confusa con singolare mescolanza nell’itinerario la sede dei nomi e delle distanze» (I, 299 n. 1). E poi Sarcapos collegato al Sarrabus, Ferraria oggi San Gregorio erroneamente collocata a Feronia oppure col Wesseling a Capo Ferrato. Un miscuglio poi il Manno fa delle altre strade trattando congiuntamente Biora, Gemellas, Hafa, Molaria, ad Medias: Molaria, l’attuale Mulargia, viene spostata sulla costa orientale a Porto San Paolo di fronte all’isola di Molara.

Tra i promontori Pachia extrema non sarebbe come sostenuto dal Fara Porto Paglia[79], ma il Capo Altano «perchè con questo promontorio, che più dell’altro sporge nel mare, finisce propriamente il lato meridionale dell’isola, al quale in questo luogo Tolomeo assegna il compimento» (I, 301 n. 1). Il Manno corregge il La Martiniere per l’Herculis portus, capo Malfatano, che va distinto da Ad Herculem (oggi si pensa a Stintino più che ad Osilo), mentre il La Martiniere li aveva posti entrambi sulla costa settentrionale della Sardegna: il primo del resto è collocato da Tolomeo nella parte meridionale dell’isola «come lo stesso La Martiniere confessa; onde è chiaro che egli nello scrivere un articolo non pose mente a rivedere ciò che avea scritto nell’altro» (I, 301 n. 1). Sugli altri promontori c’è un tentativo di localizzazione che non sempre è accettabile, ma che bene esprime una buona conoscenza delle carte tolemaiche.

Si potrebbe continuare a lungo, ma sarà sufficiente aver posto a confronto con pochi ma significativi sondaggi il De chorographia Sardiniae del Fara con l’apporto originale della Storia di Sardegna. Una trattazione a parte merita Alghero ed il suo territorio: il Manno mantiene Nure sulla costa occidentale ed in particolare nella Nurra, dove all’Argentiera sarebbe documentata l’attività di miniere in età imperiale; Carbia rimane di incerta localizzazione, anche se oggi noi sappiamo che si tratta di una stazione collocata presso Santa Maria di Carvia ad Alghero: il Manno riferisce l’opinione del Cluverio, seguito dal Braudand, Briet e La Maritinière, che vogliono il porto di Coracodes e l’antica (ma inesistente) città di Corax «nel luogo ove ora fa di se bella mostra la dolce patria mia Alghero» (301 s.), secondo l’ipotesi recentemente difesa da Rafael Caria. Ma le coordinate di Tolomeo conducono a collocare il Porto Coracodes a Capo Mannu a S di Cornus. Del resto il Manno è prudente e assume come di consueto una posizione «mezzana»: «non oso spiegare sovra questa oscura questione un’opinione, che inutile si riconoscerebbe, se il detto di si gravi scrittori è sufficiente; sospetta, se loro acconsentissi; debole, se dovessi combatterli» (ibid.). C’è dietro queste frasi non solo la prudenza ma anche un amor di patria che non si vuole offuscato dalla difesa campanilistica di un territorio che ha come orizzonte l’Hermaion promontorium esattamente Capo Marargio ed il Nymphaeus portus, che il Manno colloca a Porto Conte.

L’Herculis insula è l’Asinara, ma il nome moderno sarebbe derivato da Aenaria; l’isola Piana è la Diabate di Tolomeo, che il La Martinière vorrebbe identificare con «la piccola isola di Feluga (Foradada) che fronteggia il capo La Caccia» (I, 302 n. 1). Le Balearides di Plinio, sulle quali rimando al recente lavoro di Raimondo Zucca[80], non sarebbero le isole dell’arcipelago di La Maddalena ma secondo Fara l’isoletta di san Macario e l’altra vicina presso al capo Pula[81]; meno probabilmente gli scogli di S. Antioco, il Toro e la Vacca. Bizzara è l’idea del Manno, per il quale il nome deriverebbe dal fatto che erano abitate dal popolo dei Balari. E poi Ficaria, meglio Serpentara piuttosto che l’isoletta del Coltellazzo o l’isola di San Simone nello stagno di Cagliari, come proposto dal Fara[82], Callode sarebbe l’isola dei Cavoli, Phintonis insula uno scoglio presso il capo Testa, Fossae l’isola Rossa, Ilva a Castelsardo, Nymphaea l’isola Frisano a Castelsardo. Tutte localizzazioni assolutamente respinte dalla critica moderna.

Tra i fiumi a parte il Temo di Bosa (erroneamente Thermus) ed il Tirso di Oristano, si citano il fiume Sacer a Pabillonis, il Seprus Flumendosa ed il Cedrus d’Orosei.

L’elenco dei popoli chiude una lunga nota che il Manno considera noisissima, scusandosi «per l’aridità della materia» con «quei pochi che non la salteranno a piè pari» (I, 303 n. 1).

Una migliore qualità presenta il libro sesto, il primo del secondo tomo, dedicato alle origini del cristianesimo in Sardegna: il Manno sa bene di muoversi tra scogli irti di pericoli e tra le insidie dell’agiografia seicentesca, soprattutto per la diversa qualità delle sue fonti: da un lato c'è l'esigenza di «essere riguardoso» nei confronti di una materia trattata dagli scrittori ecclesiastici, contro i quali non si può procedere con la «critica severità dei lettori temerari» per non essere accusati «di soverchia presunzione nell'affrontare le difficoltà»; «dall'altro il dovere di sincero narratore mi obbliga a non dissimulare quegli errori, o quelle arrischiate conghietture, che talora si abbracciarono dagli scrittori delle cose religiose dell'isola». La soluzione adottata dal Manno in una materia tanto delicata, come ha ben notato Luciano Marroccu, è quella di «una via mezzana nella quale per l'ordinario si trova la verità delle cose», fondata sul «soccorso dei lumi» e sul «giudicar rettamente» (vd. anche II, 11)[83]. Eppure il compromesso non sempre garantisce un equilibrio reale. Essenziale gli sembra la posizione del padre Mattei «il quale con molta severità di critica imprese ad esaminare ed a combattere le antiche tradizioni delle nostre chiese» (II, 14), spesso fondate su deboli presupposti, come a proposito della predicazione del vangelo in Sardegna già in età apostolica con Pietro, Giacomo e Paolo, oppure in rapporto alle prime persecuzioni contro i cristiani nell'età di Nerone. E poi i martiri sardi, su molti dei quali come Giusta, Giustina ed Enedina, il Mattei e prima di lui il Ferrario, il cardinal Baronio ed il Tillemont, espressero seri dubbi, a proposito ad esempio della localizzazione della immaginaria città di Eaden a Santa Giusta. Ciò nonostante il Manno ritiene che «il lume della vera fede non penetrò tardi in Sardegna».

Di grande interesse sono le pagine dedicate dal Manno alla scoperta «fra le ruine dell'antica chiesa di S. Saturnino in Cagliari» di «molti depositi di vecchi ossami, nei quali il nome dei defunti trovavasi segnato con lettere iniziali, che interpretate, poteano dinotare esser quelle tombe di beati martiri». E allora la Relaçion dell'arcivescovo d'Esquivel nel 1617[84], l'Esquirro[85] ed il Bonfant[86] e gli altri appassionati sostenitori dell'autenticità delle reliquie, forniti di una «immaginazione meridionale» (II, 24), insensibile ad una critica seria; sull'altro versante il Bollando, il cardinale Barberini che diffidava «dall'accogliere inconsideratamente nelle sue opere le pubblicate relazioni prima che la chiesa romana ne profferisse giudizio», il Papebrochio, Ferdinando Ughelli, che si era venuto a trovare «impigliato in gravi difficoltà per ragione delle dubbiezze insorte sui monumenti novelli della chiesa sarda» e che ormai «più cauto partito reputava quello di seppellire le sue disquisizioni nell'oscurità del manoscritto» (II, 19). Sovrasta su tutti la posizione del Muratori, che interpretava la sigla B.M. non come beatus martyr ma come bonae memoriae o bene merenti e che commentando le censure dell'inquisizione sull'opera del Bonfant osservava che «migliore espediente saria stato … quello di cassare la scrittura intiera con un solo tratto di penna» (II, 20). Il Muratori non contento «di mordere la credenza dei Sardi» aveva poi ironizzato sulla richiesta della città di Piacenza di ottenere alcune delle reliquie caralitane. È singolare la posizione del Manno che, incerto sulla posizione da prendere, ritiene che il Muratori abbia esercitato una critica troppo severa e gli contesta di non aver tenuto conto del ritrovamento presso le reliquie «di vari stromenti di martirio, e di fiale ripiene di sangue» (II, 22); e insieme si appoggia alla «autorità gravissima … del dotto arcivescovo Ambrogio Machin» (ibid.), che nel 1639 confermava l'autenticità delle reliquie e permetteva la pratica di un culto speciale per i nuovi martiri[87].

Il Manno conosce bene la «gara fra li due arcivescovi di Cagliari e di Sassari», ricorda le ripetute pronunzie della sede romana sulla «maggiore antichità della chiesa cagliaritana, e nel rispetto di sede vescovile, ed in quello di sede metropolitana» (II, 34); non solo, ma riferisce la lucida sentenza romana che ricorda come l'organizzazione diocesana in Sardegna sia da intendersi in una linea di continuità con il culto imperiale gestito dai flamines provinciali nella capitale Karales in età imperiale: unde patet etiam quod sedes calaritana fuerit pariter metropolis, quia sicut primi flamines residebant in capite provinciarum, ita post adventum Christi, primates, patriarchae, et metropolitani resident… (II, 35). Del resto è certamente plausibile che la la ramificata e capillare organizzazione del culto imperiale possa esser stata effettivamente il modello territoriale diretto sul quale venne ad impiantarsi la nuova organizzazione religiosa diocesana in Sardegna[88].

Incerto tra le pretese di Sassari e di Cagliari, il Manno sostiene che lo storico deve invece seguire «le persone moderate e saggie, le quali rimirando con compassione o almeno con indifferenza le gare municipali, una sola patria riconoscono nella Sardegna, la Sardegna intiera» (II, 36 n.).

È una brillante soluzione per lo storico algherese che non ha argomenti per riuscire a difendere la causa di Sassari e dunque sceglie di collocarsi al di sopra delle parti in causa.

 

 



 

[1] Sul Manno, vd. R. Bonu, Scrittori sardi nati nel secolo XIX, con notizie storiche e letterarie dell’epoca, II, Sassari 1961, 195 ss.

 

[2] Vd. ora AA.VV., Le Carte d’Arborera. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, a cura di L. Marrocu, Cagliari 1997.

 

[3] Su Giovanni Spano (1803-1878), vd. Bonu, Scrittori sardi, II, cit., 306 ss., vd. ora A. Mastino, Il “Bullettino Archeologico Sardo” e le “Scoperte”: Giovanni Spano ed Ettore Pais, in Bullettino Archeologico Sardo - Scoperte Archeologiche, 1855-1884, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri, edizioni Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000, 32 ss.

 

[4] Vd. ora A. Mastino, Il viaggio di Theodor Mommsen e dei suoi collaboratori in Sardegna per il Corpus Inscriptionum Latinarum, in Atti Accademia Nazionale dei Lincei, in c.d.s.

 

[5] Vd. ora E. Cadoni, La Biblioteca di Giovanni Francesco Fara, in G.F. Fara, Ioannis Francisci Farae, Opera, edizione critica a cura di E. Cadoni, Sassari, 1992, 298 e 367 nr. 820, a proposito dell’utilizzo da parte del Fara dell’opera cosmogonica dello storico babilonese Beroso vissuto nel IV-III secolo a.C. Berosi lib. 5 antiquitatum totius orbis cum reliquis eius argomenti authoribus et Io. Anii commentariis, Antuerpie 1552. Per le citazioni di Beroso nell’opera del Fara, vd. ibid., In Sardiiniae Chorographiam, 62,4 (a proposito della denominazione Cadasone per la Sardegna, riferita da Annio da Viterbo).

 

[6] Per le riserve con le quali il Manno utilizza il termine “nazione”, con riferimento alla Sardegna antica, vd. I, 53: «…minor resistenza si dovea attendere da quel tramestio di popolazione, cui appena convenir potea il nome di nazione».

 

[7] D. Sacchi, Agli studiosi della Storia Italiana, in Storia di Sardegna del Barone Giuseppe Manno, Milano 18353, 1.

 

[8] A. Taramelli, Bibliografia romano-sarda, Roma 1939, 25.

 

[9] Vd. Gli Editori, in Storia di Sardegna del barone Giuseppe Manno, Tipografia Elvetica, Capolago Cantone Ticino 1840, VIII.

 

[10] Su Ludovico Baille (1764-1839), vd. G. Sorgia, DBI, 1963, 286 s.

 

[11] CIL X 7946, cfr. CIL X 1480*, Vd. A. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d'Arborea, in Le Carte d'Arborea cit., 267 nr. 6.

 

[12] CIL X 7518.

 

[13] CIL X 8023-24.

 

[14] CIL X 8010.

 

[15] CIL X 8011.

 

[16] CIL X 7996.

 

[17] CIL X 7855 = XVI 79, già in G. Vernazza di Freney, Diploma di Adriano, “Memorie Accad. Scienze”, Torino 1818.

 

[18] CIL X 7514.

 

[19] CIL X 7915, vd. A. Mastino, Cornus nella storia degli studi (con un catalogo delle iscrizioni rinvenute nel territorio del comune di Cuglieri), Cagliari 1979, 109 s. nr. 1.

 

[20] CIL X 7592.

 

[21] CIL X 1098*.

 

[22] In realtà alcune delle iscrizioni considerate falsae dal Mommsen in CIL X,1 sono state ritrovate: vd. D. Salvi, G. Stefani, Riscoperta di alcune iscrizioni rinvenute a Cagliari nel Seicento, "Epigraphica", 50, 1988, 244-251: AE 1988, 629 a = CIL X 1218* (Furiosus), 629 b = CIL X 1106* (Agate), 630 = CIL X 1243* ([I]enatus), 631 = CIL X 1250*-1251* (Iohan[---]), 632 = CIL X 1313* ([---]), 633 = CIL X 1340* (Pompeianus); vd. anche (a S. Restituta) AE 1990, 445 = CIL X 1185* (Euguenius) e (nel palazzo arcivescovile) CIL X 1413*, cfr. Salvi, Stefani, Riscoperta di alcune iscrizioni cit., 252 ss. Si aggiungano i casi di Inbenia a Cuglieri (CIL X 1248* = AE 1991, 910, cfr. 1993, 851) e di Aurelia Florentia ad Olbia (CIL X 1125* = AE 1990, 456). Per CIL X 1457* (pavimento musivo di Porto Torres con quattro episcopi citati), vd. S. Angiolillo, Mosaici antichi in Italia. Sardinia, Roma 1981, 195. La bibliografia sull'argomento è ormai imponente: per tutti vd. A. Mastino, La Sardegna cristiana in età tardo-antica, in La Sardegna paleocristiana tra Eusebio e Gregorio Magno, Atti del Convegno nazionale Cagliari 10-13 ottobre 1996, a cura di A. Mastino, G. Sotgiu, N. Spaccapelo, Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, Studi e ricerche di cultura religiosa, Nuova Serie, I, Cagliari 1999, 263 ss.  Problematico è invece esprimersi sull’autenticità delle iscrizioni trasferite da Cagliari in Catalogna a Vilassar de Dalt nel corso del 1623, nell’ultimo anno dell’episcopato di F. D’Esquivel: in proposito un contributo molto innovativo è quello di M. Mayer, Iscrizioni falsae tra Sardegna e Spagna, presentato al XIV Convegno de “L’Africa Romana” (Sassari dicembre 2000) (non inserito negli Atti), che ha raccolto le immagini fotografiche di una serie di epigrafi cagliaritane oggi perdute, vd. AA.VV., Vilassar y els Sants martirs, Vilassar de Dalt 1991, ed in particolare gli articoli di A. Fàbrega i Grau, Els sants màrtirs de Vilassar de Dalt, 19 ss., con fotografia a 29 dell’autentica delle reliquie tra gli altri di Marcellinus (CIL X 1300*), Ioachim (CIL X 1249*), Subenia (CIL X 1391*), Illarionis puer (CIL X 1247*), Emerenciana (CIL X 1178*), Ian(n)acis 1237, Ignes e Lucre[t]ia (CIL X 1247*), oltre agli altri martiri - di cui conosciamo l’epigrafe marmorea più o meno autentica - citati più avanti; P. Català i Roca, F. Manunta, Relíquies sardes venerades a Catalunya, 37 ss.; J. Pons i Godàs, Els sants màrtirs i el seu viatge, 57 ss. Per le fotografie delle iscrizioni trasferite a Vilassar o forse addirittura incise a Cagliari in età spagnola unificando più testi singoli, vd. X. Vilà Planas, La festa dels sants màrtirs, ibid., 154 (Iesmundus, Victoria e Floris, CIL X 1244*), 155 (Timotheus, CIL X 1401*e, sulla stessa lastra, Erculianus, CIL X 1182* e Agneta, CIL X 1108*).

 

[23] Vd. P. Ruggeri, Un’opera poco nota di un allievo di Ettore De Ruggiero. La Sardegna romana e l’antiquaria dell’Ottocento in Luigi Amedeo, in Dal mondo antico all’età contemporanea, Studi in onore di Manlio Brigaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Roma 2001, 143 s.; A. Mastino, Il viaggio di Theodor Mommsen cit., in c.d.s.

 

[24] Sul padre Salvatore Vidal (Maracalagonis c.1575-Roma 1647), vd. P. Tola, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, III, Torino 1837-38, 312.

 

[25] Le «babbuassaggini» del Vidal sono riprese dal Manno in Tola, Dizionario biografico, cit., III, 312.

 

[26] Tola, Dizionario biografico cit., III, 309 ss.

 

[27] Su Matteo Madao (Ozieri 1723-Cagliari 1800), vd. Tola, Dizionario biografico cit., II, 204 ss.

 

[28] M. Madao, Dissertazioni storiche apologetiche critiche sulle sarde antichità, Cagliari 1792.

 

[29] Vd. M. Sechi, Nota ad un episodio di storia sarda nelle “Puniche” di Silio Italico, “Studi Sardi”, VI-VII, 1942-47, 155 ss.; G. Runchina, Da Ennio a Silio Italico, in “Annali Facoltà di Magistero, Univ. Cagliari”, VI,1, 1982, 11 ss.; I. Bona, La visione geografica nei Punica di Silio Italico, Genova 1998, 68.

 

[30] Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña dividida en siete partes, dirigida a la catolicissima magestad del Rey N.S.D. Felipe Quarto el Grande compuesta por Don Francisco De Vico del Consejo de su Magestad, y su Regente en el Supremo de Aragon, Barcelona 1639. Su Francisco De Vico (Sassari c. 1580-Madrid 1644), vd. Tola, Dizionario biografico cit., III, 291 ss.

 

[31] Su Francesco Gemelli (1736-1780 c.), vd. Tola, Dizionario biografico cit., II, 124 ss.

 

[32] POL. I, 79, 6.

 

[33] Su Tommaso Napoli (Tunisi 1743-Cagliari 1825), vd. Tola, Dizionario biografico cit., III, 13 ss.

 

[34] Su Francesco Cetti (Como 1726-Sassari 1779), vd. Tola, Dizionario biografico cit., I, 211 ss.

 

[35] Su Edward Gibbon (1737-1794), vd. ora Ragione e immaginazione : Edward Gibbon e la storiografia europea del Settecento, a cura di Girolamo Imbruglia, Napoli 1996.

 

[36] Vignola 1672-Modena 1750.

 

[37] L.A. Muratori, Novus thesaurus veterum inscriptionum in praecipuis earumdem collectionibus hactenus praetermissarum, Milano I-IV, 1739-42. Vd. da ultimo F. Mariano, Ludovico Antonio Muratori e l'epigrafia lunense, in "Giornale storico della Lunigiana e del territorio lucense", n.s., 49-51, 1998-2000, 411 ss.

 

[38] Vd. Mastino, Il “Bullettino Archeologico Sardo” e le “Scoperte” cit., 32 ss.

 

[39] Vd. Mastino, Il viaggio di Theodor Mommsen cit., in c.d.s.

 

[40] Vd. Fara, In Sardiniae Chorographiam, cit., 92,34 e 200,28.

 

[41] Vd. R. Zucca, Il tempio di Antas (Sardegna archeologica, Guide e Itinerari, 11), Sassari 1989.

 

[42] HEROD. I, 170; V, 106, vd. I. Didu, I Greci e la Sardegna. Il mito e la storia, Cagliari 2002, 11 ss. e soprattutto E. Galvagno, I Greci e il “miraggio” sardo, in Da Olbìa ad Olbia, 2500 anni di una città mediterranea, I, a cura di A. Mastino e P. Ruggeri, Olbia maggio 1994, Sassari 1996, 149 ss.

 

[43] Vd. G. Paulis, Le "ghiande marine" e l'erba del riso sardonico negli autori greco-romani e nella tradizione dialettale sarda, "Quaderni di semantica", I, 1993, 9-23.

 

[44] POL. III, 28, 1 ss., vd. P. Meloni, La Sardegna romana, Sassari 19912, 37 ss.

 

[45] A. Mattone, Prefazione, in G. Manno, Storia di Sardegna, I, Ilisso, Nuoro 1996, 20.

 

[46] Th. Mommsen, in CIL X 7915, che erroneamente attribuisce la scoperta all’Angius nel 1831. Per gli scavi effettuati prima del 1821 da Pietro De Roma, cfr. A. Lamarmora, Itinerario dell’isola di Sardegna tradotto e compendiato dal can. Spano, Cagliari 1868, 352; G. Spano, Storia e descrizione dell’antica città di Cornus, “BAS”, X, 1864, 117; A. Taramelli, Cuglieri. Ricerche ed esplorazioni nell’antica Cornus, “Notizie scavi”, 1818, 303 n. 1; Mastino, Cornus, cit., 16 s. Per le scoperte dell’Angius, vd. V. Angius, in “Biblioteca Sarda”, III, 1838, 85; infine, la seconda visita del Lamarmora nel 1831 è in Viaggio in Sardegna (trad;. ital. Di V. Martelli), II, Cagliari 1927, 286 s.; Itinerario cit., 343 s.

 

[47] Per la collocazione della colonia di Cornus nell’opera del Fara, vd. In Sardiniae Chorographiam cit., 94,26, che più precisamente la collocava tra S’Archittu e Santa Caterina di Pittinuri; vd. anche ibid., 190,6.

 

[48] A. Airaldi, Ampsicora, dramma eroico nuovissimo posto in musica dal maestro Nicolò Oneto Siciliano, Cagliari 1833.

 

[49]  Cfr. G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, IV, Cagliari 1844, 109 s.

 

[50] B. Ortolani, Ampsicora, ossia supremo sforzo per la sarda indipendenza. Dramma tragico, Sassari 1865.

 

[51] P. Martini, Amsicora e la profuga di Nora, Cagliari 1836. Per l’Ampsicora deelle Carte d’Arborea, vd. Mastino, Cornus cit., 17 s.

 

[52] M. Pittau, La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi, Sassari 1981, 36 ss.

 

[53] AUR. VITT. 57,2.

 

[54] Fara, De rebus Sardois, in Opera cit., 116 ss.

 

[55] M.A. Porcu, I magistrati romani in Sardegna in età repubblicana, Sassari 1991.

 

[56] B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari 19473, 95. Vd. L. Marrocu, Giuseppe Manno tra stroriografia e politica, in AA.VV., Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, I, a cura di G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta, Atti del Convegno Nazionale di studi, Oristano 16-17 marzo 1990, Oristano 1991, 165.

 

[57] S. Vidal, Annales Sardiniae, Firenze 1639.

 

[58] Simaio per il Manno, I, 167 n. 1.

 

[59] S. Stefanini, De veteribus Sardiniae laudibus, Cagliari 1773.

 

[60] HOR. I,3, vv. 8-9.

 

[61] CIC., ad Fam. VII, 24; vd. anche Festo, s.v., cfr. P. Meloni, Note su Tigellio, "Studi Sardi", VII, 1947, 118 s.

 

[62] CLAUD., B. Gild. I, 513, vd. M. GRAS, Les Montes Insani de la Sardaigne, in Mélanges offerts à R. Dion, Parigi 1974, 349 ss.

 

[63] TAC. Ann., XIII, 30,1.

 

[64] S. A. De Castro, Il prof. Mommsen e le Carte d’Arborea, Sassari 1878, 53.

 

[65] Marrocu, Giuseppe Manno, cit., 167.

 

[66] HA, Alex. 42,4.

 

[67] G. Manca De Cedrelles, Relación breve de la invención de los cuerpos de los illustrissimos martires San Gavino, S. Proto y S. Iuanuario patrones de la Yglesia metropolitana Turritana, que se han hallado con otros Santos, por el mes de Iunio del año 1614 en el templo dedicado à los mismos Santos de la ciudad antigua de Torres en el Reyno de Serdeña,, Sassari 1615 (6 dell’edizione del 1739: «fue esta ciudad antiquissima colonia de Romanos»).

 

[68] De Vico, Historia general cit., VI parte, II capitolo, 5, 19 ss.

 

[69] Per l’erronea localizzazione di Macopsisa nell’opera del Fara, vd. In Sardiniae Chorographiam cit., 188,19.

 

[70] Ibid., 84,25; 222,23.

 

[71] Per la localizzazione di Publium, vd. Fara, In Sardiniae Chorographiam cit., 80,31; 226,2.

 

[72] G. Spano, Iniziazione ai miei studi, a cura di S. Tola, Cagliari 1997, 209 n. 12.

 

[73] Per la localizzazione a nella curatoria di Coros di Gurulis Vetus, vd. Fara, In Sardiniae Chorographiam cit., 170,30.

 

[74] Per l’erronea localizzazione di Gurulis Nova a Fordongianus, vd. già Fara, In Sardiniae Chorographiam cit., 194,32.

 

[75] Fara, In Sardiniae Chorographiam cit., 144,12.

 

[76] Ibid.., 144,2.

 

[77] Ibid., 196,21, che in realtà pensa esattamente a Laconi ed alla Parte Valenza.

 

[78] M. Pittau, I macrotoponimi sardi, in Dizionario della lingua sarda, fraseologico ed etimologico, II, italiano-sardo, Cagliari 2003, 572 s.; ora in modo più puntuale Id., Tibula = Castelsardo, Tibula Minor = cala Austina ed i tracciati stradali costieri della Sadegna antica, in Castelsardo città regia in c.d.s., distinguendo Tibula-Castelsardo da una possibile Tibula Minor-Cala Austina. Per l’etimologia di Tibula, vd. L. Di Salvo, Un fitonimo delle Naturales Historiae di Plinio e un antico toponimo in Sardegna, “Civiltà classica e cristiana”, XIV,3, 1993, 261 ss.

 

[79] Fara, In Sardiniae Chorographiam cit., 92,20, che in realtà pensava a Monte Nai.

 

[80] R. Zucca, Balearivde" Turrenikai; nh`soi, in XXI Miscellanea greca e romana, Roma 1997, 355 ss.

 

[81] Fara, In Sardiniae Chorographiam cit., 74,1.

 

[82] Fara, In Sardiniae Chorographiam cit., 72,28. .

 

[83] Marrocu, Giuseppe Manno, cit., 165.

 

[84] F. D’Esquivel, Relaçion de la invençion de los cuerpos santos que en los años 1614, 1615 y 1616 fueron hallados en varias iglesias de la ciudad de Caller y su arzobispado, Napoli 1617.

 

[85] S. Esquirro, Santuario de Caller y verdadera historia de la invençión de lo cuerpos santos hallados en la dicha ciudad y su arzobispado, Parte primera, Cagliari 1624.

 

[86] D. Bonfant, Triumpho de lo santos del reyno de Cerdeña, Cagliari 1635.

 

[87] B. Machin, Defensio sanctitatis beati Luciferi archiepisc. Calaritani, Sardiniae et Corsicae primatis et aliorum sanctorum quos colit eccl. Calaritana…, Cagliari 1639, cap. 54.

 

[88] Vd. Mastino, La Sardegna cristiana cit., 265 s.