Università di Sassari
I primi due volumi della Storia di Sardegna di Giuseppe Manno[1] comparvero in prima edizione tra il 1825 ed il
Preceduta da una citazione dantesca
«poiché la carità del natio loco mi strinse, raunai le
fronde sparse», l’opera del Manno risponde non a curiosità
banali né tende a «prevenire o scemare le disgrazie
dell’umanità»: l’autore è convinto che
«la conoscenza invece dell’intero reggimento degli antichi popoli
ammaestra coloro, ai quali il bene degli uomini sta in sul cuore».
L'amore di patria è quello per
Nell’introduzione alla terza edizione,
pubblicata a Milano nel 1835, Defendente Sacchi esaltando l’amore immenso
del Manno per la propria terra avrebbe scritto: «L’isola di
Sardegna presentò in tutti i secoli un popolo armigero, sdegnoso di
servitù, e preda sovente per la sua posizione delle altre nazioni; un
popolo che fondò instituzioni, creò leggi, e diede uomini, i
quali o percorsero o emularono, o vinsero quelli degli stati che lo
circondano»[7].
Proprio a questo proposito, ad Antonio Taramelli un secolo dopo
dispiacerà l’impostazione stessa del lavoro del Manno, che
giudicherà fondamentale ma inquinato da «giudizi unilaterali
sull’opera romana in Sardegna», ove evidentemente gli si rimprovera
un patriottismo sardo che si spinge fino a criticare la romanizzazione, che il
Fascismo vorrà invece esaltare come uno straordinario modello[8].
Cinque anni dopo, gli Editori Capolago della
Tipografia Elvetica, licenziando la quarta edizione, avrebbero sottolineato che
il prego principale dell’opera è legato al proposito
dell’autore, fornito di una vasta e profonda erudizione giuridica, di
«trattare la storia della sua patria in modo civile, anche per quanto
riguarda ai remoti tempi»[9].
Le fonti a disposizione del Manno erano limitate:
intanto la documentazione epigrafica era pressocché inaccessibile, se le
iscrizioni conosciute dal Manno sono sostanzialmente quelle pubblicate da
Ludovico Baille, il fondatore del Museo di Cagliari, «un dotto scrittore
nazionale vivente, in due sue scritture degne di encomio» (I, 214)[10]:
la base di Porto Torres che cita il restauro del tempio della Fortuna scoperta
nel 1819, ampiamente utilizzata dai falsari delle Carte d'Arborea[11]
(I, 316 s. n. 1), la base dedicata a L.
Cornelius Marcellus che testimonia la muncipalità di Sulci[12]
(I, 284 e n. 1), alcuni miliari sardi come quello di Vespasiano (non di Nerone)
a Macomer[13],
dei Severi (non degli Antonini) a Monastir[14],
di Emiliano a Fordongianus[15]
(I, 320), infine quello di Filippo a Bitia[16],
tutte pietre «scoperte mentre si scriveva la presente opera» (I,
318 s. n. 2), un diploma militare dell'età di Adriano[17]
pubblicato dal Vernazza nel 1818 e rinvenuto a Tortolì (I, 326 e n. 1).
Infine la dedica del tempio di Iside e di Serapide da Sulci[18]
(I, 317 n. 1), la base dei Cornenses
a Santa Caterina di Pittinuri, utile per localizzare la patria di Ampsicora[19]
(I, 298 n.), e alcuni pochi epitafi misenati dei marinai sardi, come quello di M. Epidius Quadratus conservato
nell'Università di Cagliari[20]
(I, 326 n. 2). Tra le falsae, il
Manno conosce attraverso il Bonfant ed il Cossu il falso cinquecentesco che
attribuisce a Carales il nome di civitas
Iolae, con un collegamento al mito di Iolao[21] (I,
29 n. 2); nel secondo volume si segnala l’intelligente posizione assunta
sull'interpretazione delle numerose iscrizioni latine rinvenute a Cagliari ed a
Porto Torres in occasione degli scavi seicenteschi nell'ambito della polemica
municipalistica sul primato ecclesiastico, ma non sempre l'equilibrio è
assicurato[22].
Buona è invece la raccolta delle costituzioni imperiali relative al
basso impero, che il Manno commenta con notevole competenza.
Sul piano archeologico, conosce le rovine del
tempio della Fortuna a Porto Torres cioé il c.d. Palazzo di Re Barbaro
interpretato giustamente come terme centrali per la prima volta dall'Amedeo
solo nel
La bibliografia utilizzata dal Manno è
scarsissima e in qualche caso egli riconosce l'assoluta inaffidabilità
di chi l'ha preceduto, come nel caso dell'annalista padre Salvatore Vidal[24],
l’autore nel Seicento del Clipeus
aureus excellentiae Calaritanae (Firenze 1641), talora con qualche
esagerazione, come a proposito della via
a Turre Karales: «fra le stranezze dell'annalista Vitale –
scrive il Manno - è degna d'esser annoverata questa, che alla strada
sarda ci dà la seguente direzione: dal Campidoglio e da Torres per
Cagliari. E già ch'egli abbia potuto dimenticare il mar Tirreno, che
s'intromette fra li primi due punti di tale strada; ma in una storia, la quale
non ti presenta che uno sgominare continuato, ed in cui, se da tanto ti senti,
puoi ben numerare netto e spiccato un migliaio per lo meno di grosse
babbuassaggini, d'uopo è che ogni cosa sia in concordanza» (I, 317
s. n. 3)[25].
Ma qui il Manno sbaglia, se il Vidal evidentemente si riferiva al Capitolium di Turris Libisonis come
punto di partenza della strada. Più ragione ha il Manno ad attaccare il
padre Vidal a proposito delle vicende della prima guerra romano-cartaginese in
Sardegna: «chiunque poi bramasse di conoscere la maniera più
agevole di riescire tosto dalla difficoltà delle storiche contradizioni,
quella cioè di renderle più buie con novelli errori, non ha che a
leggere la narrazione dell'annalista sardo P. Vitale, il quale con singolare
ravviluppamento confondendo Duillio e Scipione, scambiando le isole Lipari
colla Sardegna, e tutto annebbiando, ne presenta un garbuglio tale da stancar
la censura del più paziente storico» (75 s. n. 4). È un
giudizio che concorda pienamente con quello del Tola, che collega la
celebrità del Vidal «più per la stranezza e pel disordine,
che pel merito delle molte scritture da lui date alla luce»[26].
Oggetto di sarcasmo è anche l'opera Delle sarde antichità di Matteo
Madao[27]
pubblicata a Cagliari nel 1792[28],
come a proposito dell'«arrischiata opinione» sull'origine sarda del
poeta Ennio, l'uccisore di Iosto, «giudicandolo non ospite ma nativo»[29]
(I, 114).
Più rispetto il Manno mostra per l'opera
di Francisco De Vico[30],
l’avversario del Vidal, autore della Historia
general de
Critiche riceve anche Michele Antonio Gazano per
Cara gli è soprattutto l’opera Rifiorimento della Sardegna proposto nel
miglioramento della sua agricoltura di Francesco Gemelli, pubblicata a
Torino nel 1776[31],
«per l’interesse vivissimo, con cui imprese a propagare
maggiormente fra i Sardi i precetti e gli avvisi migliori della coltivazione
delle terre, e meritevole di esser anche caro all’Italia da lui
arricchita d’un opera, che con utilità e diletto può esser
meditata dagli studiosi della rurale economia» (290 s.). Il Gemelli era
partito dalle fonti classiche ed in particolare dal celebre positivo giudizio
sulla Sardegna di Polibio[32],
«isola eccellente per la sua estensione, per la moltitudine dei suoi
abitanti per l’ubertà del suo suolo» (I, 79,6). Appaganti gli sembrano «le conghietture,
che trasse il Gemelli dallo stato fiorente dell’agricoltura sarda ai
tempi romani», sulla popolazione, sul numero dei caduti, oltre 150.000
solo nel II secolo d.C., tanto che «la nazione intiera» sarebbe
potuta arrivare alla cifra di due milioni di abitanti: una cifra astronomica,
sulla quale il Manno ha dei dubbi anche se non condivide fino in fondo la
polemica scatenata dall’irascibile P. Tommaso Napoli[33]
nella Compendiosa descrizione
corografico-storica della Sardegna pubblicata a Cagliari nel 1814:
«semplice era egli anche nell’ira, e perciò i rimbrotti, coi
quali, allorché gli andava la senapa al naso, non si teneva in quelle
sue note di travagliare vecchi e novelli scrittori delle cose sarde, i
rimbrotti sono d’un uomo poco curantesi delle forme, colle quali si
agevola, se non la conoscenza, l’amore almeno del vero». Eppure
«sarebbe desiderabile che uomini siffatti sorgessero tratto tratto a
frenare col caustico loro rigore gli sbalzi degli uomini d’ingegno, ed a
riveder il pelo a quei tanti guastamestieri, le scritture dei quali non
vagliono, come suol dirsi, un cece col buco» (292 s. n. 1). E poi un
apprezzamento per
Le letture del Manno sono però più
ampie, se commenta ed ironizza sull’opinione di Edward Gibbon[35],
«lo storico della decadenza del romano impero» (I, 281), che dopo
d’aver dipinto le province oppresse dai ministri della repubblica»
… «credette di poter asserire, che se si avesse da stabilire nella
storia del mondo il periodo di tempo, in cui la condizione degli uomini sia
stata più prospera e felice, si dovrebbe subito nominare quello, che
corse dalla morte di Domiziano all’avvenimento di Commodo» (I, 282;
vd. anche 318 e n. 1). Più rispetto il Manno ha nei confronti di
Ludovico Antonio Muratori[36],
citato per le Antiquitates Italicae Medi
Aevii (I-VI, Milano 1738-43) e soprattutto per il duro giudizio
sull’epigrafia paleocristiana della Sardegna nel Novus thesaurus veterum inscriptionum, per quanto la sua critica gli
appaia spesso eccessivamente severa[37].
A prescindere dai molti limiti, l'impianto
dell'opera appare solido, fondato com'è su una conoscenza amplissima
delle fonti classiche, partendo dai miti sulle più antiche
colonizzazioni dell'isola, «racconti favolosi», addirittura
«bambolinaggini» (I, 33), che talora conservano un
«impercettibile germe di verità» (I, 5), anche se le fonti
hanno voluto «illustrare col diadema di monarchi tutti li più o
meno celebri capi di quelle schiere di ventura, che nei tempi eroici
approdarono nell’isola» (I, 225). L'edificazione dei
«noraghes» viene attribuita «alli più antichi
popolatori della Sardegna e non già ad alcuna delle colonie posteriori,
o greche, o spagnuole, o libiche» (I, 13) e la loro funzione «come
avvisano i più savi» dovrebbe esser stata quella di
«sepolcri antichi di tribù o di famiglie» (I, 14), una tesi
che sarà combattuta dallo Spano[38]
ma ancora difesa dal Mommsen[39].
Tracce di un'antica colonizzazione greca gli sembrano documentate dal mito di
Aristeo figlio di Apollo e della ninfa Cirene, raccontato da Diodoro Siculo, da
Pausania, da Silio Italico e da Solino, che ne fa il fondatore di Carales; e
poi gli Iberi di Norace, il fondatore di Nora; il mito di Forco e della figlia
Medusa, infine Iolao ed i Tespiadi, «frutto dei cinquanta talami di
Ercole» (I, 27), fondatori con gli Ateniesi di Olbia ed Ogrille; e ancora
Dedalo e Sardus, con la statua donata a Delfi testimonianza dello sviluppo
della metallurgia in Sardegna; dopo aver ricordato le monete coniate da Ottaviano
con il nome anche del nonno Marco Azio Balbo, il Manno localizza il tempio del
Sardus pater, il Sardopatoris fanum di Tolomeo, su un promontorio della costa
occidentale della Sardegna, più precisamente col Fara a Capo Pecora a N
di Buggerru[40]
oppure a capo Frasca (I, 301 n.), una posizione storiografica che
resisterà per oltre un secolo. Noi oggi sappiamo che
Il ciclo delle mitiche colonizzazioni si chiude
con gli Iliesi arrivati al seguito di Enea ed i Libici. E poi i nomi antichi di
Icnos o Iscnusa e Sandaliotin di Timeo. Riserve il Manno esprime per il mito di
Galata, «figliulo d'Olbio re de' Galli» (I, 23), per le molte
invenzioni relative alla storia antidiluviana dell'isola, testimoniata da
alcuni ebraismi come la denominazione Cadossene: «lascio che in siffatte
ricerche s'inoltri chiunque non averta o la noia de' lettori o la miriade di
spropositi, che sogocciolar suole dalla penna questioni tanto al di sopra dei
comuni mezzi d'investigazione» (I, 33 n. 1). Il Manno conosceva le
notizie erodotee relative ai tentativi di colonizzazione della Sardegna emersi
in ambito ionico già nel VI secolo, coll'intervento nel panionio del
saggio Biante di Priene e poi Istieo di Mileto alla corte di Dario[42].
Infine il collegamento con Sardi ed i Sardiani della Lidia, l’uccisione
dei vecchi, il riso sardonico («quel ridere simulato, con cui il
traditore accarezza, l’adulatore lusinga, l’insultato compiacesi nel
pensiero della futura sua vendetta, l’orgoglioso dissimula il proprio
torto»)[43]
(I, 312).
Accettabile appare il quadro complessivo di
un'antica colonizzazione fenicia e più precisamente tiria e di un successivo
predominio militare cartaginese, temi che sono oggetto del II libro; la
legazione ad Alessandro Magno gli sembra assumere il valore di una
rappresentanza «d'una nazione indipendente» (I, 58), mentre la
battaglia di Imera e la sconfitta di Amilcare e dei mercenari sardi gli
consentono di ricostruire il ruolo della Sardegna nell'impero cartaginese.
È all'inizio dell'età punica che si sviluppa per la prima volta
quella che il Manno chiama la «resistenza dei sardi» (I, 65),
già contro Macheo-Malco, sconfitto e rientrato a Cartagine e contro
Asdrubale ed Amilcare Barca.
Estremamente ampia e dettagliata è la
storia della conquista romana della Sardegna puntualmente datata ab urbe condita, partendo dalle
spedizioni di L. Cornelio Scipione e di C. Sulpicio Patercolo nel corso della
prima guerra romano-cartaginese, con l'utilizzo soprattutto di Polibio, al
quale si deve il celebre giudizio sull'ingiusto intervento romano in Sardegna
dopo la vittoria delle isole Egadi[44]:
la cessione fu imposta dai Romani ai Cartaginesi, che «inabili ad opporre
il petto a tanta piena di mali, ceder dovettero all'imperiosa condizione loro
imposta, e riscattarsi dalla guerra, rinunciando ai diritti loro sulla
Sardegna, e pagando ai Romani per soprassoma mille dugento talenti» (I,
80), con gran rincrescimento di «molti popoli sardi» che avevano
origini comuni con i cartaginesi, anche perché «la lunga
abituatezza maturato avea, se non l'amore, la tolleranza almeno del
dominio» (I, 81). Per il Manno
Nel III libro, si affronta il tema delle «continue
ribellioni» dei Sardi contro i Romani, gli interventi di consoli e
pretori, i trionfi, l'utilizzo di «alcuni veltri che annasando per quei
burroni scoprissero le traccie» dei ribelli sardi (I, 92), le uccisioni,
la cattura di prigionieri, la schiavitù, la riscossione dei tributi. Il
Manno crede ai prodigi che in Sardegna avrebbero annunciato la grande rivolta
di quello che è l'eroe della resistenza sarda contro i Romani, Amsicora,
l'alleato di Annibale, capace di raccogliere il dissenso e di interpretare
«gli animi dei Sardi, oramai lassati dalle angherie romane» (I,
97); il figlio Iosto «e nell'avvenenza della persona (la fonte è
Silio Italico) e nello slancio degli spiriti generosi manifestava già
quanta delizia e conforto della patria sarebbe egli stato, se il destino a
tanto servato lo avesse» (I, 101). «Ma se queste pagine - scrive il
Manno - avranno a passare alla posterità, il nome di Amsicora, e quello
di Iosto non più si dovranno a mala pena rintracciare negli annali d'una
nazione, che colla mole delle sue gesta ecclissò rinomanze anche
più grandi, ma la loro gloria poggierà sovra un terreno
più propizio, e questa storia ingemmata del loro nome ricorderà
in ogni tempo a' miei nazionali la costanza di quel canuto duce, e forse
l'animo del lettore generoso e sensibile, tocco sentirassi di compassione pei
casi del giovanetto di lui figliuolo» (I, 105). Per Mattone al Manno si
deve una valorizzazione della figura di Ampsicora raccontata da Livio: del
resto fu lui «con grande fiuto letterario» a tracciare «il
plastico ritratto di un personaggio che, come un eroe da tragedia classica,
potesse far fremere il lettore di giustificato orgoglio nazionale»[45]:
fu certamente il Manno a creare il mito di Amsicora e di Iosto, a suscitare uno
straordinario interesse per la localizzazione dell'antica Cornus e per la
ripresa degli scavi e delle esplorazioni archeologiche a Santa Caterina di
Pittinuri, che si data al 1831 per iniziativa del padre Vittorio Angius, dopo
una visita del
Due anni dopo l'uscita della prima edizione del
volume del Manno, l'Airaldi avrebbe pubblicato la tragedia Ampsicora, dramma eroico nuovissimo posto in musica dal maestro
Nicolò Oneto Siciliano, opera prima, profondamente influenzata dalla
Storia di Sardegna[48];
una tragedia che sarebbe stata criticata ad esempio dal Siotto Pintor a
proposito dei «palpiti di Josto per Emilia» prima della battaglia
finale[49]
e che sarebbe stata però seguita da una serie di imitatori, come
testimonia il più celebre dramma di Ortolani[50].
Al 1836 si data la poesia Amsicora di
Pietro Martini, che precede di quasi dieci anni le prime scoperte delle Carte
d'Arborea, nelle quali Ampsicora ed Iosto hanno un ruolo rilevante[51].
E poi il centurione Ennio, l'uccisore di Iosto
secondo Silio Italico non conosciuto dal Manno, il poeta riportato a Roma dalla
Sardegna da Catone il vecchio, pretore amato e temuto nell'isola, esempio
straordinario di frugalità e buon governo; ben diverso dagli altri
pretori che si portavano dietro un «codazzo di schiavi, di donne e di
garzoncelli», costringendo gli onesti provinciali a supplicare giustizia
«ai piè d'un liberto o d'una sgualdrinella» (I, 113).
Gli anni della rivolta degli Iliensi e dei Balari
e dell'intervento di Ebuzio Caro e di Tiberio Sempronio Gracco sono narrati con
fedele adesione al testo liviano, ricordando le pestilenze, forse la malaria,
il numero dei caduti, i prigionieri, la posizione delle antiche colonie
fenicio-puniche: gli Iliesi gli sembrano il popolo che più amava
l'indipendenza: «o perchè il sangue troiano inspirasse maggior
orgoglio, o perchè la vita asprissima durata pei dirupi li più
inaccessi dell'isola maggiore incitamento somministrasse al viver libero»
(I, 116). Privi di un capo, essi furono sconfitti sanguinosamente, sottoposti a
nuovi tributi, venduti in schiavitù: il Manno commenta il detto Sardi Venales nel senso di «sardi
da vendere», un'espressione applicata ancora ai tempi di Livio «per
significare cose di malagevole smaltimento» (I, 123). Egli non ignora la
versione plutarchea (Romolo, 25,7) recentemente valorizzata da Massimo Pittau
che attribuisce tale espressione ad un'epoca più antica ed agli abitanti
di Veio[52],
«perchè i Toscani tutti da Sardi città di Lidia si diceano
discendere». Ma il Manno preferisce seguire Aurelio Vittore[53]
ed intende che gli schiavi sardi erano «mercanzia di mala vendita»,
perché l'irrequieta generazione di prigionieri Iliesi e Balari lasciava
trasparire nel loro «feroce aspetto» e «in quel loro cipiglio
la libertà da essi perduta nell'animo» (I, 125).
Deludente è il tentativo del Manno di
raccogliere l’elenco dei governatori della Sardegna, quella che chiama la
serie «dei pretori intermedi» (I, 115 n. 1), sostanzialmente
partendo dall'opera di Tito Livio: lo fa correggendo il Fara[54],
ma restando ancora lontano da un'accettabile filologica ricostruzione dei dati
relativi all’età repubblicana, che solo di recente sono stati
sistemati da Maria Antonietta Porcu[55].
Tra i questori emerge la figura di Gaio Gracco, il magistrato che fu capace di
stimolare «l'indole generosa» dei Sardi, ottenendo offerte
spontanee anzichè imponendo ingiuste requisizioni di frumento e di
vesti. Le pagine di Plutarco e di Aulo Gellio vengono trascritte letteralmente,
per far emergere le virtù del questore, che lasciò nell'isola un
ricordo ben diverso da quello di tanti altri colleghi e di alcuni governatori
disonesti, come Tito Albucio esiliato ad Atene o Emilio Scauro assolto invece
per l'intervento di Cicerone. Il Manno si sforza di descrivere la nequizia di
Albucio, che dopo il processo, «mutato il cielo e non vezzo, passò
quietamente i giorni della sua condanna, filosofando, dice Cicerone, e
farneticando dich'io; ché filosofia vera non cape nell'animo dei
malvagi» (I, 136). E ancora i trionfi di Lucio Aurelio Oreste e di Marco
Cecilio Metello alla fine del II secolo, che evocano la resistenza degli
Iliensi, capaci «di veder accorrere sotto i vessilli della rivolta i
popoli eziandio che li attorniavano» (I, 138). Il tema della resistenza
alla romanizzazione è centrale ed il Manno constata che «alla
irrequieta bramosia di scuotere il giogo della dominazione romana»
è subentrata in età imperiale da parte dei Sardi «la
pacifica tolleranza del governo e dei governanti di Roma». Del resto
«allorquando i Romani colla forza, o col terrore delle loro armi
soggiogato aveano qualche regione, prima loro sollecitudine si era di
sottoporla a quella maniera di amministrazione, che più acconcia pareva
loro a guarentire il vantaggio e la perpetuità della fatta
conquista», allettando «le nazioni arrendevoli», punendo
«con durezza le resistenti», frenando «con cautela quelle
d’ambiguo contegno» (I, 223). Sdegno suscitano le informazioni
sulla pesante requisizione dei tributi in Sardegna e delle decime «che si
trasportavano a Roma per alimentarvici quell’irrequieta plebe» (I,
254 s.), anche se poi si assiste all’«aumentata infingardaggine del
volgo» (I, 255). E poi «la maniera gravissima delle riscossioni, e
la crudele vessazione de’ pubblicani» che causavano la
«trista condizione delle province romane nel pagamento delle pubbliche
gravezze» (I, 276).
A Luciano Marroccu è sembrato che il Manno
abbia creato la premessa per la nascita della nazione sarda partendo dalla
resistenza antiromana (con uno spirito non lontanissimo da quello di opere
quale il Platone in Italia (1804) di
Vincenzo Cuoco, che aveva enfatizzato l’antichità delle
civiltà italiche rispetto alla cultura ellenica o L'Italia avanti il dominio dei Romani (1810) di Giuseppe Micali:
uno spirito per cui, scriveva il Croce, anche Roma «faceva le parti di
una potenza straniera, di una dominazione spagnuola o francese o
austriaca»[56].
E poi Mario e Silla, le guerre civili, la
resistenza del pretore mariano Quinto Antonio contro il legato sillano Lucio
Filippo: la forma stessa con la quale compaiono i nomi si salda con il sistema
onomastico irregolare adottato qualche anno dopo dalle Carte d’Arborea
per i presidi della Sardegna. E poi la sfortunata vicenda del console M. Emilio
Lepido, che il Manno preferisce immaginare morto dopo che gli era arrivata da
Roma una lettere «la quale il chiariva delle dissolutezze della sua
consorte» (149 s.), che gli negava dopo la sconfitta anche
«l’asilo delle domestiche consolazioni» (I, 150). E poi la guerra
di Pompeo contro i pirati, il comando straordinario per
l’approvvigionamento annonario, l’attività di Quinto
Cicerone ad Olbia, le caustiche osservazioni del fratello Marco sul clima
malsano della Sardegna, e anche sull’ozio che nell’isola favoriva «il
ricordo delle cose già obbliate» (I, 156 n. 1).
L’amor di patria non può portare ad
insultare i nomi più venerati, né può cedere di fronte
alla verità: del resto «lo scrittore intemperante» non deve
far altro che «augurarsi lettori stupidi» (I, 159); meglio è
prender atto dell’odio di Cicerone e lasciare al lettore di «veder
nella narrazione lampeggiare il nome d’un gran nemico» (I, 160). Di
fatto i propositi del Manno non sempre furono rispettati e la sua posizione
è decisamente contro il governatore accusato di concussione, per il
«depredamento della provincia», per le «non meritate
ingiurie», per l’uccisione di Bostare di Nora, per il tentativo di
violenza che aveva provocato il suicidio della moglie di Arine, anche se la
posizione di Cicerone è puntualmente registrata, come a proposito
dell’imprudente matrimonio tra Arine e la madre di Bostare, la «druda
dissoluta» (I, 164 e 165 n. 1) presente al processo ed oggetto di
scherno. Tra i sardi lodati da Cicerone compare Gneo Domizio Sincaio[58],
ed una famiglia sarda che aveva ottenuto la cittadinanza romana da Pompeo,
quella dei Deletoni, ma si tratta di un fraintendimento del testo ciceroniano,
puntualmente ripreso nelle Carte d’Arborea. Infine la costernazione
prodotta in Sardegna dall’assoluzione di Scauro, la pronta adesione della
provincia alla causa dei populares di
Cesare, l’allontanamento da Carales del governatore pompeiano Marco
Cotta, Farsalo e poi la guerra africana, il suicidio di Catone e le ironiche
osservazioni di Cicerone sul prossimo viaggio di Cesare in questo
«podere» che ancora non aveva visitato, «invero niun altro ne
possiede più cattivo, ma non perciò egli lo spregia» (I,
174). Il Manno ignora la promozione di Carales a municipio di cittadini romani
fino alla fine della repubblica ma sembra aver avuto accesso diretto al Bellum africum, se ricorda la multa (per
lui di 100.000 sesterzi) imposta ai Sulcitani da Cesare, che gli sembra
quantificata in modo eccessivo dal Padre Stanislao Stefanini (nel De veteribus Sardiniae laudibus)[59]
e dallo stesso P. Napoli (I, 304 n. 1); del resto gli sembra strano il silenzio
dell’ autore, forse Aulo Irzio, se veramente il dittatore avesse concesso
lo statuto municipale a Carales.
Per il Manno la vicenda del cantante sardo
Tigellio, amico di Cesare e di Ottaviano, testimonia un’antica tradizione
musicale radicata nell’isola e che prosegue fino ai nostri giorni:
«Tigellio ha lasciato in Sardegna l’eredità del suo facile
verseggiare» (I, 176 n.1), come dimostrano «quelle gare poetiche
che contadini o pastori, privi affatto d’ogni conoscenza di lettere,
sostengono con calore e con vivacità nelle occasioni di qualche
familiare o pubblica allegrezza» (ibid.).
Si tratta ovviamente di un’attualizzazione del tutto infondata se non
altro perché il Manno sa bene che Orazio nella terza satira[60]
ci ha conservato anche il repertorio di Tigellio, come l’Io Bacchae modo summa voce modo .. ima
che rientra nella tradizione musicale urbana di Roma, che niente ha a che fare
con
L’Arpinate odiava
di cuore Tigellio, che gli sembrava più pestilente della sua patria, un
personaggio troppo spregevole per dover essere tenuto in considerazione: in una lettera a M.
Fadio Gallo del 20 agosto
Di qui il disprezzo di Cicerone per l'odiato Tigellio, un
personaggio di cui non è necessario preoccuparsi, nonostante le notizie
allarmanti di una crescente ostilità comunicate da Gallo proprio alla
vigilia del rientro di Cesare dalla Spagna. Il tema del clima malsano della
Sardegna trova il Manno decisamente dalla parte di Cicerone, contro «i
più armeggianti fra gli scrittori nazionali», decisi a difendere
la reputazione della Sardegna tanto da considerare «delitto di lesa
patria» l’accettare le osservazioni dell’Arpinate: tra tutti
Francisco De Vico distorcendo l’espressione latina homo pestilentior patria sua, intende
Infine il secondo triumvirato, Sesto Pompeo e Menodoro in Sardegna,
Ottaviano, Antonio e la «vezzosa regina» Cleopatra (I, 197),
Augusto e la divisione dei poteri,
Ripercorrendo
le tracce degli «storici delle cose sarde» il Manno osserva che
l’intera età imperiale romana è completamente trascurata,
perché si conoscono i nomi di pochissimi presidi provinciali
sostanzialmente grazie alle fonti agiografiche ed ai pochi miliari,
perché si saltano a pie' pari gli avvenimenti civili, per passare alle
vicende religiose cristiane o all’occupazione vandalica: «nondimeno
– egli osserva – con una più diligente ricerca, si
può riempire in parte questo gran voto» (I, 203). È un
invito che i falsari delle Carte d’Arborea avrebbero raccolto, impegnati
a riempire il vuoto con nuove leggende, con avvenimrenti fantastici e con
personaggi fittizi. Del resto analoghi vuoti sono testimoniati anche per gli
artisti ed i letterati sardi in età romana: «non deve pertanto
sorprendere, se (…) non rimase nella Sardegna il ricordo di persona
alcuna celebre per lo studio delle umane discipline, quando il mondo intero
poté appena in quella moltitudine di affettati scrittori lasciare alla
ricordanza ed ammirazione della posterità i nomi di Luciano, di Longino
e di altri pochissimi». Ma anche a questo proposito i falsari delle Carte
d’Arborea avrebbero compensato il silenzio delle fonti. Del resto,
commentando il giudizio del Muratori sul volgare dei documenti medioevali della
Sardegna, il Manno ritiene che
Il Manno conosce le fonti giuridiche, attribuisce alla Sardegna una
serie di costituzioni imperiali come quelle di Costantino e di Giuliano sul cursus publicus, quella di Costantino
sul dies solis la nuova
festività cristiana, quelle di Valentiniano sui metallari e gli
aurileguli. Il capitolo sull’amministrazione è ben costruito, con
un’ampia conoscenza delle fonti giuridiche relative all’editto
perpetuo, fino ad Ulpiano ed alle nuove disposizioni sull’ingresso in
provincia dei proconsoli e del loro seguito, sulle sedute giudiziarie, sulle
competenze dei questori, sui legati provinciali, sulle esazioni per il
funzionamento del sistema provinciale. Ironia ed imbarazzo suscitano le
disposizioni di Severo Alessandro[66] sulle concubine da mettere a disposizione del governatore che
arrivava in provincia «perché, dic’egli, senza ciò
non si può stare» (I, 248 n. 1), singulas concubinas, quod sine his esse non possent: «l’imperiale
decreto contiene la seguente prestanza che noi, abituati ad altro pudore di
costumi, non ardiremmo certamente collocare in tal novero». E poi i tributi, lo stipendium, le decime, i dazi, le altre
riscossioni tese «a tassare la dissolutezza», le attività
«delle femmine di mala vita» e «dei mediatori delle abiette
loro opere» (I, 271), «che per la bruttura degli oggetti ai quali
si riferivano, non possono inserirsi con decenza in una grave scrittura»
(269 s.); le attività economiche, la produzione del frumento, la
raccolta del sale, le miniere, le cave come quelle di granito rosso di Longon
Sardo dove il Manno conosce le tracce dei non finiti: a Capo Testa sono
conservate «due colonne informi di quel granito tuttora unite al masso,
dal quale diconsi tolte quelle che s’impiegarono nel vestibolo del
Pantheon d’Agrippa in Roma» (I, 267 n. 2).
E poi lo stato
giuridico delle città in Sardegna, la ripresa della polemica
municipalistica tra quelli che il Manno considera i soli due municipi Carales e
Sulci, entrambi fondati dopo la fine della repubblica, e le due colonie di
Turris e di Uselis, «propaggini» queste ultime della capitale (I,
288), sottoposte alle leggi romane e prive di autonomia: eppure «se
più indipendente mostravasi la condizione dei municipii reggentisi con
leggi proprie, più nobile quella era delle colonie, ver le quali maggior
splendore si rifletteva dalla metropoli per la comunione di patria e di leggi
con esse loro» (ibid.). Gli
argomenti che portano ad esaltare la superiorità della colonia di Turris
Libisonis sono simili a quelli che emergono nel Seicento ad esempio già
nell’opera dell’arcivescovo di Sassari Gavino Manca de Cedrelles
indirizzata nel 1615 al re Filippo III[67]
e subito dopo nel 1639 nell’Historia
general de
Una lunga nota di ben nove pagine (295 ss.)
affronta il tema della geografia storica della Sardegna e tratta della
localizzazione e dell’identificazione delle città romane, ma anche
dei fiumi, dei promontori, delle isole, partendo dall’elenco di Tolomeo,
arricchito dei dati dell’Itinerario Antoniniano, andando ben oltre le
posizioni espresse dal Fara nel De
chorographia Sardiniae (ancora allo stato di manoscritto, se
l’edizione Cibrario fu pubblicata a Torino nel 1835). Alcune osservazioni
sono brillanti, come la localizzazione di Tilum nella Nurra, di Neapolis a
Santa Maria di Nabui presso Arbus, di Nora in comune di Pula, di Tibula che
andrebbe tra Castelsardo e Platamona. Per Macopsisa il Manno è il primo
a parlare di Macomer osservando: «la somiglianza del nome m’induce
a preferire quest’opinione a quella del Fara, il quale conghiettura che
Macopsissa fosse presso Padria, ove
al suo tempo esistevano le rovine di un’antica città»[69]
(I, 297 n.1). Il Manno corregge Tolomeo a proposito dell’erronea
posizione costiera della colonia di Uselis.
Dubbi il Manno mantiene per Osaea (in
realtà Othaea) di Tolomeo, sicuramente da identificarsi con
Othoca-Utica, Santa Giusta, che lo studioso non sa dove collocare, si
tratterebbe di un «sito incerto fra il capo
Ancora sulla costa settentrionale Iuliola
dovrebbe identificarsi con l’Ampurias medioevale ed andrebbe localizzata
a San Pietro a Mare alla foce del Coghinas.
Tra le città interne, sempre esaminate
seguendo l’ordine della Geografia di Tolomeo, si menzionano Ericenum nel
territorio di Osilo; Eraeum in una località incerta della Gallura, che
oggi si pensa Tempio; per Gurulis Vetus si riporta il parere del Cluverio che
la collega col mito dei Tespiadi e la fondazione di Ogrile e l’opinione
del Fara, che pensava a Nostra Signora di Coros Ittiri[73]
(oggi in realtà si pensa a Padria). Erronea la localizzazione a
Fordongianus di Gurulis Nova, che invece va a Cuglieri, soprattutto in
relazione alle coordinate di Tolomeo; ma in questo caso il Manno non si
discosta dal Fara[74].
Saralapis sarebbe da identificare con Sorabile delll’Itinerario
Antoniniano (sicuramente a Fonni), che il Manno citando l’opinione del
Segue la lista delle località omesse da
Tolomeo e presenti nell’Itinerario di Antonino, con non poche bizzarrie:
sulla strada costiera orientale tra Portus Tibulas e Caralis, Turublum Minus
potrebbe essere identificata con Tibula (è ipotesi in parte ripresa da
Pittau, che ora però pensa a Cala Austina presso Castelsardo)[78],
mentre il Vitale pensava a Torralba, ma egli «nei suoi confronti
geografici poco cura le posizioni rispettive, purché la tessitura delle
lettere abbia nei nomi dei luoghi qualche corrispondenza» (I, 299 n. 1).
Elephantharia andrebbe a Vignola, Longone (Lingonis per il Manno) esattamente a
Longon sardo, Coclearia non può essere alla foce del Coghinas ma deve
esattamente collocarsi a S di Olbia; Portus Liguidonis, che noi collochiamo a
S. Lucia di Siniscola, andrebbe a Porto San Paolo o addirittura in Ogliastra.
Il Manno conosce l’osservazione del Wesseling editore
dell’Itinerario, che collega il toponimo Logudoro. Confonde
Tra i promontori Pachia extrema non sarebbe come
sostenuto dal Fara Porto Paglia[79],
ma il Capo Altano «perchè con questo promontorio, che più
dell’altro sporge nel mare, finisce propriamente il lato meridionale
dell’isola, al quale in questo luogo Tolomeo assegna il compimento»
(I, 301 n. 1). Il Manno corregge il
Si potrebbe continuare a lungo, ma sarà
sufficiente aver posto a confronto con pochi ma significativi sondaggi il De chorographia Sardiniae del Fara con
l’apporto originale della Storia di
Sardegna. Una trattazione a parte merita Alghero ed il suo territorio: il
Manno mantiene Nure sulla costa occidentale ed in particolare nella Nurra, dove
all’Argentiera sarebbe documentata l’attività di miniere in
età imperiale; Carbia rimane di incerta localizzazione, anche se oggi
noi sappiamo che si tratta di una stazione collocata presso Santa Maria di
Carvia ad Alghero: il Manno riferisce l’opinione del Cluverio, seguito dal
Braudand, Briet e
L’Herculis insula è l’Asinara,
ma il nome moderno sarebbe derivato da Aenaria; l’isola Piana è
Tra i fiumi a parte il Temo di Bosa (erroneamente
Thermus) ed il Tirso di Oristano, si citano il fiume Sacer a Pabillonis, il
Seprus Flumendosa ed il Cedrus d’Orosei.
L’elenco
dei popoli chiude una lunga nota che il Manno considera noisissima, scusandosi
«per l’aridità della materia» con «quei pochi
che non la salteranno a piè pari» (I, 303 n. 1).
Una
migliore qualità presenta il libro sesto, il primo del secondo tomo,
dedicato alle origini del cristianesimo in Sardegna: il Manno sa bene di
muoversi tra scogli irti di pericoli e tra le insidie dell’agiografia
seicentesca, soprattutto per la diversa qualità delle sue fonti: da un
lato c'è l'esigenza di «essere riguardoso» nei confronti di
una materia trattata dagli scrittori ecclesiastici, contro i quali non si
può procedere con la «critica severità dei lettori
temerari» per non essere accusati «di soverchia presunzione
nell'affrontare le difficoltà»; «dall'altro il dovere di
sincero narratore mi obbliga a non dissimulare quegli errori, o quelle
arrischiate conghietture, che talora si abbracciarono dagli scrittori delle
cose religiose dell'isola». La soluzione adottata dal Manno in una
materia tanto delicata, come ha ben notato Luciano Marroccu, è quella di
«una via mezzana nella quale per l'ordinario si trova la verità
delle cose», fondata sul «soccorso dei lumi» e sul
«giudicar rettamente» (vd. anche II, 11)[83].
Eppure il compromesso non sempre garantisce un equilibrio reale. Essenziale gli
sembra la posizione del padre Mattei «il quale con molta severità
di critica imprese ad esaminare ed a combattere le antiche tradizioni delle
nostre chiese» (II, 14), spesso fondate su deboli presupposti, come a
proposito della predicazione del vangelo in Sardegna già in età
apostolica con Pietro, Giacomo e Paolo, oppure in rapporto alle prime
persecuzioni contro i cristiani nell'età di Nerone. E poi i martiri
sardi, su molti dei quali come Giusta, Giustina ed Enedina, il Mattei e prima
di lui il Ferrario, il cardinal Baronio ed il Tillemont, espressero seri dubbi,
a proposito ad esempio della localizzazione della immaginaria città di
Eaden a Santa Giusta. Ciò nonostante il Manno ritiene che «il lume
della vera fede non penetrò tardi in Sardegna».
Di grande
interesse sono le pagine dedicate dal Manno alla scoperta «fra le ruine
dell'antica chiesa di S. Saturnino in Cagliari» di «molti depositi
di vecchi ossami, nei quali il nome dei defunti trovavasi segnato con lettere
iniziali, che interpretate, poteano dinotare esser quelle tombe di beati
martiri». E allora
Il Manno
conosce bene la «gara fra li due arcivescovi di Cagliari e di
Sassari», ricorda le ripetute pronunzie della sede romana sulla
«maggiore antichità della chiesa cagliaritana, e nel rispetto di
sede vescovile, ed in quello di sede metropolitana» (II, 34); non solo,
ma riferisce la lucida sentenza romana che ricorda come l'organizzazione
diocesana in Sardegna sia da intendersi in una linea di continuità con
il culto imperiale gestito dai flamines
provinciali nella capitale Karales in età imperiale: unde patet etiam quod sedes calaritana
fuerit pariter metropolis, quia sicut primi flamines residebant in capite
provinciarum, ita post adventum Christi, primates, patriarchae, et
metropolitani resident… (II, 35). Del resto è certamente
plausibile che la la ramificata e capillare organizzazione del culto imperiale possa
esser stata effettivamente il modello territoriale diretto sul quale venne ad
impiantarsi la nuova organizzazione religiosa diocesana in Sardegna[88].
Incerto
tra le pretese di Sassari e di Cagliari, il Manno sostiene che lo storico deve
invece seguire «le persone moderate e saggie, le quali rimirando con
compassione o almeno con indifferenza le gare municipali, una sola patria
riconoscono nella Sardegna,
È
una brillante soluzione per lo storico algherese che non ha argomenti per
riuscire a difendere la causa di Sassari e dunque sceglie di collocarsi al di
sopra delle parti in causa.
[1] Sul Manno, vd. R. Bonu,
Scrittori sardi nati nel secolo XIX, con
notizie storiche e letterarie dell’epoca, II, Sassari 1961, 195 ss.
[2] Vd. ora AA.VV., Le Carte
d’Arborera. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, a cura di
L. Marrocu, Cagliari 1997.
[3] Su Giovanni Spano (1803-1878), vd. Bonu, Scrittori sardi,
II, cit., 306 ss., vd. ora A. Mastino,
Il “Bullettino Archeologico
Sardo” e le “Scoperte”: Giovanni Spano ed Ettore Pais, in
Bullettino Archeologico Sardo - Scoperte
Archeologiche, 1855-1884, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri, edizioni Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000,
32 ss.
[4] Vd. ora A. Mastino, Il viaggio di Theodor Mommsen e dei suoi
collaboratori in Sardegna per il Corpus Inscriptionum Latinarum, in Atti
Accademia Nazionale dei Lincei, in c.d.s.
[5] Vd. ora E. Cadoni,
[6] Per le riserve con le quali il Manno utilizza il termine
“nazione”, con riferimento alla Sardegna antica, vd. I, 53:
«…minor resistenza si dovea attendere da quel tramestio di
popolazione, cui appena convenir potea il nome di nazione».
[7] D. Sacchi, Agli studiosi della Storia Italiana, in Storia di Sardegna del Barone Giuseppe Manno,
Milano 18353, 1.
[9] Vd. Gli Editori, in Storia di Sardegna del barone Giuseppe Manno,
Tipografia Elvetica, Capolago Cantone Ticino 1840, VIII.
[11] CIL X 7946, cfr. CIL X 1480*, Vd. A. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte
d'Arborea, in Le Carte d'Arborea
cit., 267 nr. 6.
[17] CIL X 7855 = XVI 79,
già in G. Vernazza di Freney,
Diploma di Adriano, “Memorie
Accad. Scienze”, Torino 1818.
[19] CIL X 7915, vd. A. Mastino, Cornus nella storia degli studi (con un catalogo delle iscrizioni
rinvenute nel territorio del comune di Cuglieri), Cagliari 1979, 109 s. nr.
1.
[22] In realtà alcune delle iscrizioni considerate falsae dal Mommsen in CIL X,1 sono state ritrovate: vd. D. Salvi, G. Stefani, Riscoperta di alcune iscrizioni rinvenute a Cagliari
nel Seicento, "Epigraphica", 50, 1988, 244-251: AE 1988,
[23] Vd. P. Ruggeri, Un’opera poco nota di un allievo di
Ettore De Ruggiero.
[24] Sul padre Salvatore Vidal (Maracalagonis c.1575-Roma 1647), vd. P.
Tola, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, III,
Torino 1837-38, 312.
[25] Le «babbuassaggini» del Vidal sono riprese dal Manno
in Tola, Dizionario biografico, cit., III,
312.
[29] Vd. M. Sechi, Nota ad un episodio di storia sarda nelle
“Puniche” di Silio Italico, “Studi Sardi”, VI-VII,
1942-47, 155 ss.; G. Runchina, Da Ennio a Silio Italico, in
“Annali Facoltà di Magistero, Univ. Cagliari”, VI,1, 1982,
11 ss.; I. Bona, La visione geografica nei Punica di Silio Italico, Genova 1998, 68.
[30] Historia general de
[33] Su Tommaso Napoli (Tunisi 1743-Cagliari 1825), vd. Tola, Dizionario biografico cit., III, 13 ss.
[35] Su Edward Gibbon (1737-1794), vd. ora Ragione e immaginazione : Edward
Gibbon e la storiografia europea del Settecento, a cura di Girolamo
Imbruglia, Napoli 1996.
[37] L.A. Muratori, Novus thesaurus veterum inscriptionum in
praecipuis earumdem collectionibus hactenus praetermissarum, Milano I-IV, 1739-42.
Vd. da ultimo F. Mariano, Ludovico Antonio Muratori e l'epigrafia
lunense, in "Giornale storico della Lunigiana e del territorio
lucense", n.s., 49-51, 1998-2000, 411 ss.
[42] HEROD. I, 170; V, 106, vd. I.
Didu, I Greci e
[43] Vd. G. Paulis, Le "ghiande marine" e l'erba del
riso sardonico negli autori greco-romani e nella tradizione dialettale sarda,
"Quaderni di semantica", I, 1993, 9-23.
[46] Th. Mommsen, in CIL X 7915, che erroneamente attribuisce
la scoperta all’Angius nel 1831. Per gli scavi effettuati prima del 1821
da Pietro De Roma, cfr. A. Lamarmora,
Itinerario dell’isola di Sardegna
tradotto e compendiato dal can. Spano, Cagliari 1868, 352; G. Spano, Storia e descrizione dell’antica città di Cornus,
“BAS”, X, 1864, 117; A.
Taramelli, Cuglieri. Ricerche ed
esplorazioni nell’antica Cornus, “Notizie scavi”, 1818,
303 n. 1; Mastino, Cornus, cit., 16 s. Per le scoperte
dell’Angius, vd. V. Angius,
in “Biblioteca Sarda”, III, 1838, 85; infine, la seconda visita del
Lamarmora nel 1831 è in Viaggio in
Sardegna (trad;. ital. Di V. Martelli), II, Cagliari 1927, 286 s.; Itinerario cit., 343 s.
[47] Per la collocazione della colonia di Cornus nell’opera del Fara, vd. In Sardiniae Chorographiam cit., 94,26, che più
precisamente la collocava tra S’Archittu e Santa Caterina di Pittinuri;
vd. anche ibid., 190,6.
[48] A. Airaldi, Ampsicora, dramma eroico nuovissimo posto in
musica dal maestro Nicolò Oneto Siciliano, Cagliari 1833.
[50] B. Ortolani, Ampsicora, ossia supremo sforzo per la sarda
indipendenza. Dramma tragico, Sassari 1865.
[51] P. Martini, Amsicora e la profuga di Nora, Cagliari
1836. Per l’Ampsicora deelle Carte d’Arborea, vd. Mastino, Cornus cit., 17 s.
[56] B. Croce, Storia della storiografia italiana nel
secolo decimonono, Bari 19473, 95. Vd. L. Marrocu, Giuseppe
Manno tra stroriografia e politica, in AA.VV., Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e
Unità d’Italia, I, a cura di G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta, Atti del Convegno Nazionale di studi,
Oristano 16-17 marzo 1990, Oristano 1991, 165.
[61] CIC., ad Fam. VII, 24;
vd. anche Festo, s.v., cfr. P. Meloni,
Note su Tigellio, "Studi
Sardi", VII, 1947, 118 s.
[62] CLAUD., B.
Gild. I, 513, vd. M. GRAS, Les Montes
Insani de
[67] G.
Manca De Cedrelles, Relación
breve de la invención de los cuerpos de los illustrissimos martires San
Gavino, S. Proto y S. Iuanuario patrones de
[69] Per l’erronea localizzazione di Macopsisa nell’opera del Fara, vd. In Sardiniae Chorographiam cit., 188,19.
[73] Per la localizzazione a nella curatoria di Coros di Gurulis Vetus,
vd. Fara, In Sardiniae Chorographiam cit., 170,30.
[74] Per l’erronea localizzazione di Gurulis Nova a Fordongianus,
vd. già Fara, In Sardiniae Chorographiam cit., 194,32.
[78] M. Pittau, I macrotoponimi sardi, in Dizionario della lingua sarda, fraseologico
ed etimologico, II, italiano-sardo, Cagliari 2003, 572 s.; ora in modo
più puntuale Id., Tibula = Castelsardo, Tibula Minor = cala
Austina ed i tracciati stradali costieri della Sadegna antica, in
Castelsardo città regia in c.d.s., distinguendo Tibula-Castelsardo da
una possibile Tibula Minor-Cala Austina. Per l’etimologia di Tibula, vd. L. Di Salvo, Un fitonimo delle Naturales Historiae di Plinio e un antico toponimo
in Sardegna, “Civiltà classica e cristiana”, XIV,3,
1993, 261 ss.
[80] R. Zucca,
Balearivde" Turrenikai; nh`soi, in XXI
Miscellanea greca e romana, Roma 1997, 355 ss.
[84] F.
D’Esquivel, Relaçion
de la invençion de los cuerpos santos que en los años 1614, 1615
y 1616 fueron hallados en varias iglesias de la ciudad de Caller y su
arzobispado, Napoli 1617.
[85] S. Esquirro,
Santuario de Caller y verdadera historia
de la invençión de lo cuerpos santos hallados en la dicha ciudad
y su arzobispado, Parte primera, Cagliari 1624.
[87] B. Machin, Defensio sanctitatis beati Luciferi
archiepisc. Calaritani, Sardiniae et Corsicae primatis et aliorum sanctorum
quos colit eccl. Calaritana…, Cagliari 1639, cap. 54.