Manum conserere e tacito consenso*
Università Cattolica di Milano e
Istituto della Enciclopedia Italiana
Sommario: 3.1. Il
significato di tacitus consensus in
Gell. 20.10.9. – 3.2. Il
rilievo di Gai. 3.82. – 3.3. Il rilievo di Gai. 4.11. – 3.4 Dal manum conserere all’ex iure
manum consertum vocare. La testimonianza gelliana ed il ruolo del pretore.
– 3.5. Segue: La
testimonianza di Cic. Mur. 12.26.
– 3.6. Procedure
pontificali e decreta. – 3.7. Considerazioni finali.
3.1. – Il significato di tacitus
consensus in Gell. 20.10.9
L’evento più
significativamente esemplare del modo in cui, nell’età arcaica, si poteva
pervenire alla disapplicazione di una norma delle XII tavole è certamente
rappresentato, a nostro avviso, dalla trasformazione del rito del manum conserere nell’ex iure manum consertum vocare, di cui
ci riferisce Gell. 20.10.7-9[1].
Come risulta dal contesto
del passo in esame[2],
Gellio s’interrogava qui sul significato dell’espressione ex iure manum consertum, utilizzata anche da Ennio nei suoi Annales[3],
per contrapporre alla forza bruta della guerra la violenza stilizzata propria
dei riti processuali (vis civilis et
festucaria[4]).
Da ciò l’autore[5]
trae spunto per interessarsi alla vicenda storica del manum conserere ed alla evoluzione di cui si è detto. Più
precisamente, secondo Gellio, l’importante innovazione strutturale sarebbe
stata introdotta tacito consensu.
Ebbene, tale espressione, se interpretata come un modale, strettamente
correlato a contra duodecim tabulas,
e non come un ablativo d’agente, che dipenda direttamente da institutum est, può semplicemente
significare che la modifica venne introdotta senza ricorrere allo strumento
della legge; e senza che, in particolare, l’uso dell’aggettivo tacitus di per sé valga ad escludere
l’intervento dei giuristi.
In tale convinzione, che
nega il rilievo di qualsiasi prassi spontanea, ci conferma la lettura di altri
due passi, di cui dobbiamo ora rendere attentamente conto.
3.2. – Il rilievo di Gai. 3.82
La fonte gelliana in
esame non è ovviamente l’unica nella quale, per alludere ad un processo
desuetudinario, o comunque consuetudinario, si utilizzino i termini tacito consensu. Essi compaiono infatti
in diversi altri passi (fra cui anche il celebre frammento giulianeo di cui a
D.1.3.32.1)[6],
ed in particolare in Gai. 3.82[7].
Ora, dall’analisi di questa fonte - pur di per sé concernente istituti
introdotti, anziché abrogati, tacito
consensu[8]
- possono trarsi, a nostro avviso, gli spunti più interessanti per la nostra
indagine, che edifica sul principio della sostanziale inscindibilità del
fenomeno della recezione consensu da
quello dell’interpretatio pontificale.
Ciò, sia facendo riferimento al testo, ove a proposito delle successiones alterius generis si rileva
come la loro genesi, fondata sul tacito consenso, si contrapponga a quella di
altri istituti, fondata invece sulla legge (o sull’editto del pretore, ma senza
affatto escludere, ed anzi affermando espressamente, che quel consenso
costituisce il veicolo per la recezione del diritto stesso, il che
significativamente richiama il pomponiano ius
quod sine scripto venit compositum a prudentibus, di cui a D. 1.2.2.5), sia facendo riferimento al contesto, dato
che di seguito (Gai. 3.83 ss.) verranno appunto trattati istituti, quali l’adrogatio o la conventio in manum, la cui complessità strutturale è tale da non
rendere neppure pensabile, a nostro avviso, che la loro enucleazione possa
essere avvenuta sulla base della mera prassi, del tutto priva dell’apporto tecnico
della giurisprudenza pontificale.
3.3. – Il rilievo di Gai. 4.11
Un significato di portata
generale va poi attribuito a Gai. 4.11[9],
che vale in qualche modo a definire il quadro complessivo nel quale si colloca
(con riferimento, almeno, ai riti formalizzati) l’intera nostra indagine, non
solo quella relativa al manum conserere.
Si tratta, come noto, del
passo delle Istituzioni in cui si riferisce del responso (presumibilmente
pontificale) che, nell’ambito della legis
actio sacramenti, dichiarò irrituale la pronuncia, da parte dell’attore, di
una parola in luogo di un’altra, prevista dalla legge delle XII tavole, ossia
di vites al posto di arbores. Sulla validità di un
procedimento solenne, come il sacramentum, poteva incidere negativamente, dunque, l’omissione
anche di una sola parola, o la sua sostituzione con un’altra: il formalismo
proprio delle actiones arcaiche aveva
carattere pienamente stringente, ed assolutamente inderogabili erano i precetti
di cui esso constava (rilievi, quest’ultimi, di cui si ha fra l’altro conferma
anche in Gai. 4.30[10]).
Ne consegue inevitabilmente che qualsiasi prassi si allontanasse, anche in
minima parte, dagli schemi prefissati sarebbe risultata invalidante dell’intero
rito.
Ciò, a maggior ragione,
sarà dovuto valere per mutamenti di più ampia portata, quale è quello inerente
al manum conserere, che interessava i
verba ed i gesta del procedimento, e che non poté senza dubbio prodursi per
effetto di una qualche pratica giudiziale (come pur, sorprendentemente, assai spesso
si afferma in dottrina[11]).
Certo, è possibile che
anche allora - non diversamente, del resto, da quanto avviene al giorno d’oggi
- molto di fatto esulasse dal rispetto delle regole formali[12].
Nel nostro caso, in particolare, si può ipotizzare che il pretore, trovatosi ad
affrontare nell’esercizio del suo ministero le difficoltà di cui ci riferisce
Gell. 20.10.7-9 (e di cui meglio diremo fra breve), abbia di fatto lasciato che
soltanto le parti, che pur non avevano ancora formalmente pronunciato la vocatio reciproca, si recassero sul
fondo a compiervi il rito. E sebbene nessuno muovesse forse obiezioni, contro
un simile modus operandi, per ragioni
di opportunità pratica (ed anche politica, dato che difficilmente un privato
avrebbe avuto interesse a contestare un magistrato) non vi è dubbio che, a
rigore, il procedimento in questione ne risultava irrimediabilmente invalidato.
Proprio da questo sorse
probabilmente l’esigenza di introdurre la riforma, ché la prassi descritta non
era a ciò in alcun modo sufficiente: occorreva qualcosa di più, e precisamente
un responso giurisprudenziale.
3.4. – Dal manum
conserere all’ex iure manum consertum
vocare. La testimonianza gelliana ed il ruolo del pretore
Al fine di rendere, qui,
più approfondita la nostra analisi sulla vicenda del manum conserere, occorre brevemente soffermarsi sulle sue
caratteristiche, ed in particolare sulle formalità di cui esso constava e sui
soggetti che vi erano implicati[13].
La fonte gelliana ci
informa di questo istituto, di cui Gaio nulla ci dice[14],
ma che sicuramente ebbe riconoscimento decemvirale (il versetto ‘Si
qui in iure manum conserunt…’,
tratto appunto da Gell. 20.10.8, viene fatto tradizionalmente coincidere con
XII Tab. 6.6a)[15],
e che - forse alludendo alla situazione di stallo in cui si trovavano i due
contendenti, che avevano simbolicamente combattuto l’uno contro l’altro, prima
di dare inizio al processo con le formalità rituali di rivendica del potere
sulla cosa[16]
- bene sembra attagliarsi alla struttura del sacramentum in rem[17].
Ora, il problema derivava
dal fatto che, dovendo necessariamente avvenire il rito in re praesenti[18],
allorché si trattava di cosa immobile o difficilmente trasportabile[19],
in base ad un’antica consuetudine[20]
il magistrato si recava di persona sul luogo per sovrintendere all’operazione,
cui le parti egualmente provvedevano, e se ne tornava quindi in città per esercitarvi la sua iurisdictio; ma poi a causa
dell’estensione dello stato romano[21]
fu sempre più difficile per il magistrato spostarsi. Fu così che si stabilì -
probabilmente in età di non molto successiva alle XII tavole[22]
- che fosse consentito alle parti, dopo una solenne reciproca invocazione
seguita dall’ordine del pretore (nella quale propriamente consisteva, dunque,
l’ex iure manum consertum vocare)[23],
di recarsi personalmente sul posto, accompagnate ciascuna dai propri testimoni[24],
allo scopo di compiervi il rito della manus
consertio e di prendere una parte del bene (sumere vindicias[25]),
che simboleggiasse il tutto - stratagemma, questo, frequentemente utilizzato
dai pontefici, anche in materia sacrale[26]
-, e su cui potessero poi normalmente svolgersi le formalità vindicatorie.
Ebbene, si osservi che nei
mutamenti apportati, tacito consensu,
alla struttura dell’istituto, gravemente contrastanti con la legge decemvirale
- alla cui prescrizione di stato in luogo, in
iure, nettamente si oppone, ora, l’ablativo di moto da luogo ex iure, tutto giocandosi pertanto, in
Gell. 20.10.9, sulla dialettica non in
iure apud praetorem … sed ex iure[27]
-, era pienamente coinvolto, insieme alle parti, anche il pretore[28],
essendo anzi lo scopo della riforma essenzialmente quello di rendere al
magistrato più agevole l’esercizio delle sue funzioni. Ciò risulta chiaramente,
del resto, anche dall’incipit del medesimo
passo, ove alla congiunzione avversativa - di cui si è riscontrato più volte
l’uso, nelle fonti, quando si voglia rimarcare lo iato storico creato dalla consuetudo contra legem fra il regime
vecchio ed il nuovo - immediatamente segue la frase concernente il magistrato
giusdicente[29].
Su questo punto occorre,
adesso, concentrare maggiormente la nostra attenzione.
3.5. – Segue: La testimonianza di Cic. Mur. 12.26
L’importanza del ruolo rivestito
dal pretore risalta, ancor più, nell’ulteriore evoluzione[30]
che l’istituto subì, forse, sul finire del periodo arcaico[31],
della quale ci riferisce Cic. Mur.
12.26[32].
Se si ha riguardo,
anzitutto, al contesto nel quale il passo è inserito[33],
è agevole comprendere l’intento che fondamentalmente muove Cicerone: la critica
ironica del formalismo pedante, proprio dei giuristi, che, nonostante la
diffusione del sapere operata da Cn. Flavio, hanno continuato ad elaborare
complicate formule inutili, al solo scopo di rendersi indispensabili. Ed è
essenzialmente in quest’ottica - che per noi riveste grande importanza, data
l’attinenza che presenta ai problemi posti da Gai. 4.11 e 30[34]
- che deve leggersi la testimonianza dell’Arpinate circa lo stadio di sviluppo
raggiunto dal rito, nel suo tempo. Se ne ricava che, in buona sostanza, ora
nessuno si muoveva più dal tribunale, giacché il simbolo vi era stato portato
fin dall’inizio[35];
e dopo che i due contendenti avevano provveduto alla vocatio reciproca (da noi descritta in precedenza[36],
ma di cui Cicerone, e non Gellio, riporta le parole del formulario), alla prima
intimazione rivolta dal pretore alle parti a recarsi sul posto (ite viam), come se queste si fossero già
allontanate, immediatamente seguiva quella a tornare (redite viam)[37].
Gli ordini dati dal magistrato - risalenti anch’essi, presumibilmente, allo
stadio precedente della vita dell’istituto, allorché venivano eseguiti in
maniera reale, e non fittizia - tecnicamente attuavano, con tutta evidenza, un dicere[38]:
ciò, in rapporto, s’intende, ai ben noti tria
verba giurisdizionali do dico addico,
di cui riferisce Varrone[39],
e attraverso i quali in qualche modo si esprimeva quella parte del formalismo,
proprio delle legis actiones,
specificamente riferibile al pretore.
Palese è la
«compromissione» di quest’ultimo nelle solennità strutturali elaborate dalla
giurisprudenza pontificale (ei quoque
carmen compositum est: espressione che significativamente riecheggia l’institutum est gelliano, e che certo
allude ad un’attività, intellettualmente qualificata, di qualcuno, non ad una
mera prassi)[40],
la quale fu ancora una volta, a nostro avviso, l’artefice autentica della
modifica. Ciò, sebbene per la verità Cicerone rivolga la critica di formalismo
eccessivo ai soli giuristi laici, e non ai pontefici, che non sono da lui
menzionati, o per riverenza, o per la reale convinzione che la responsabilità
di talune degenerazioni gravasse effettivamente sui primi. Tuttavia, la tesi
qui sostenuta, sulla quale la dottrina è per lo più concorde[41],
ci pare la più oggettivamente plausibile, dal momento che si tratta pur sempre
di una modifica introdotta nella struttura di un rito arcaico, tra i più
solenni, e facendo per di più ricorso, come si è detto, allo strumento della fictio[42].
Si osservi inoltre che lo stesso passo contiene spunti (quali il riferimento
agli illi barbati, di cui già ci
siamo avvalsi per cercare di datare la riforma, o quello al carmen, che il pretore è tenuto a
recitare[43],
affinché non se ne stia inerte o non faccia qualcosa di non previsto dal
rituale) che certo rinviano ad un’età più risalente, e che la stessa assistenza
fornita dal sapiens al magistrato e
alle parti, su cui non a caso il passo insiste molto al fine di negare il
rilievo di qualunque prassi spontanea (!), in qualche modo richiama funzioni
tipicamente pontificali (fra cui il praeire
verbis, al quale potrebbe forse alludere l’espressione ne (…) aliquid sua sponte loqueretur, e sul quale ci soffermeremo
in seguito).
3.6. – Procedure pontificali e decreta
Se è plausibile che sia
stata l’interpretatio pontificum ad
intervenire, in maniera determinante, sulla struttura del rito, è tuttavia impensabile, secondo noi,
che al fine di attuare, pur con le consuete cautele formali, tipiche della
perizia sacerdotale, un simile reiterato stravolgimento della originaria
previsione decemvirale[44]
– che oltretutto fissava al magistrato regole nuove da rispettare, afferenti
alle parole ai tempi e ai luoghi del rito – potesse ritenersi sufficiente il
responso rilasciato ad un privato dal pontefice annualmente delegato[45].
Ci sembra difficile, infatti, sostenere che il magistrato - nell’esercitare la
sua funzione ricognitiva del formalismo processuale di parte o addirittura
nell’introdurre modifiche ai formulari, specie laddove si trattasse di
formalità da osservarsi anche da parte sua - dovesse ritenersi soddisfatto di
un responso che il privato parte in causa asserisse di aver ottenuto dal
singolo sacerdote incaricato. Una eventualità simile sarebbe stata percepita, a
nostro parere, come contraria alla dignità stessa della funzione di cui il
pretore era titolare[46].
D’altronde la
ragionevolezza di tali rilievi può essere, in generale, sostenuta osservando
come nella stessa fonte, che attesta il praeesse
privatis del consulente singolo (ossia Pomp. D.1.2.2.6[47]), poco prima si afferma che depositario dell’interpretatio
sulle actiones era per la verità il
collegio; né può essere smentita, nel nostro caso specifico, dalla
testimonianza di Cic. Mur. 12.26,
nella quale il riferimento fatto all’assistenza prestata ai soggetti del
processo da un iuris consultus unico
non allude affatto, evidentemente, all’attività diretta ad introdurre modifiche
nelle formalità proprie del rito, ché anzi, come detto, riguardo al carmen riservato al pretore, il perfetto
passivo compositum est non è
certamente riferibile al sapiens lì
presente (e se anche, d’altra parte, il giureconsulto menzionato nella fonte
fosse stato chiamato a praeire verbis,
ossia a dettare le parole del
formulario al magistrato, secondo quanto dicevamo sopra, ciò sarebbe potuto
avvenire per effetto di una delega del collegio, distinta dal praeesse privatis, della quale si ha
ampio riscontro nelle fonti[48]
sia per l’ipotesi di innovazioni apportate con responso collegiale, sia per
l’ipotesi in cui, non essendovi state innovazioni, occorresse tuttavia
salvaguardare il rispetto delle formalità di sempre)[49].
Bisogna allora investire
un campo d’indagine, quello dei procedimenti in base ai quali avveniva la
consultazione dei pontifices,
solitamente del tutto trascurato[50].
Avremo modo di verificare, infatti, che, a seconda delle circostanze, le
procedure con cui i pontefici venivano interpellati, affinché esprimessero un
parere sulle più svariate questioni di diritto, potevano cambiare: di
conseguenza cambiava anche la maniera in cui si svolgeva l’agere, cavere, respondere giurisprudenziale[51]
e la forma assunta dai responsi.
Dalle fonti a nostra
disposizione sappiamo, esattamente, dell’esistenza di almeno un altro[52]
meccanismo attraverso il quale la giurisprudenza pontificale era chiamata a
svolgere la propria attività interpretativa: precisamente, nelle materie di
diritto sacro pubblico[53],
ove era il magistrato che, incaricato in ciò dal senato[54],
provvedeva ad interpellare ufficialmente il collegio come tale, al fine di
ottenere un decretum di risposta[55],
che, una volta comunicato dal pontefice massimo[56]
alle autorità interpellanti, sarebbe stato reso esecutivo dal senato con una
sua seconda delibera[57].
In tale procedimento erano coinvolti, come si vede, alcuni dei più importanti
organi della res publica, quali il
magistrato ed il senato (il cui duplice intervento era probabilmente richiesto
dal fatto che l’attuazione del responso collegiale, che imponeva la
celebrazione di pubblici riti nel rispetto di formalità determinate, avrebbe
poi comportato, nella maggior parte dei casi, l'assunzione di vincoli di natura
religiosa a carico dell’intera cittadinanza[58]).
Ora però, anche nelle
materie in cui erano coinvolti interessi privati[59],
vi erano dei riti solenni nei quali, oltre alle parti, era strutturalmente
implicato, come abbiamo visto, l’organo pubblico: si trattava, per l’appunto,
delle actiones processuali - non, per
lo più, di quelle negoziali[60]
-, i cui formulari saranno stati certo elaborati, e via via aggiornati, dalla
giurisprudenza pontificale, anche in funzione dei compiti che il magistrato
giusdicente avrebbe dovuto assolvere (e che per lo più consistevano, come si è
detto, nella pronuncia di determinate parole, essenzialmente riconducibili alla
triade do dico addico, in
corrispondenza delle varie fasi del procedimento e secondo i tempi scanditi
stabiliti dalla interpretatio sacerdotale[61]).
Si può senz’altro ravvisare, sotto questo profilo, un parallelismo
significativo fra il magistrato che, nell’esercizio dei suoi poteri d’imperio, ius dicit fra i cittadini ed il
magistrato che, sempre munito d’imperio, pronuncia, magari sotto dettatura, i verba di un pubblico voto[62];
nel caso specifico, poi, del sacramentum,
rito giurisdizionale di origine sacrale, tale parallelismo risulta quanto mai
evidente[63].
Pertanto, è lecito pensare che il pretore, ogni volta che si rendesse
necessario apportare una modifica alle formalità secondo le quali doveva
svolgersi una legis actio, che era
pur sempre un procedimento pubblico, e specie nell’ipotesi che si trattasse di
formalità da osservarsi anche da parte sua - ché in tal caso, alludendo il
nostro Pomp. D.1.2.2.6 ai soli privati,
non è neppure pensabile, a nostro avviso, che il sacerdote annualmente
incaricato potesse ingerirsi nella cosa -, solesse esperire la sopra descritta
procedura ufficiale di consultazione, la quale prevedeva che fosse proprio un
magistrato ad interpellare il collegio al fine di ottenere un decreto di
risposta[64].
Ciò, sebbene il meccanismo fosse qui, forse, semplificato, dal momento che, non
trattandosi di questioni di rilievo politico generale o tali da impegnare
l’intera cittadinanza, bensì soltanto di una lite fra privati, non vi era
probabilmente bisogno di chiamare in causa il senato. Non vi sarà stato, a
nostro avviso, né il senatoconsulto di autorizzazione né soprattutto quello di
ratifica di un decreto che, pur formalizzando un vero e proprio responsum pro collegio[65],
- destinato ad essere, senza dubbio, sottoposto a forme idonee di conservazione[66],
e quindi a diventare precedente autorevolissimo anche per gli anni a seguire -,
era di per sé privo di effetti generali, giacché dettava pur sempre soltanto la
disciplina da applicarsi ad un processo fra privati[67].
In conclusione, se
l’introduzione di una riforma, in contrasto con il dettato delle XII tavole,
avvenne senza ricorrere allo strumento della legge - del quale pur si faceva un
uso frequente nell’ambito delle legis
actiones, non a caso così denominate in ragione del loro, pressoché
costante, fondamento legislativo[68]
-, si può tuttavia ragionevolmente sostenere che il consensus generalizzato, di cui ci riferisce Gellio, ben lungi
dall’identificarsi con una qualche prassi spontanea, fosse stato indotto da un
mutamento d’indirizzo giurisprudenziale, sancito col più ufficiale dei
provvedimenti che i sacerdotes publici[69]
potessero adottare, il decreto collegiale.
Tale rilievo ci conferma
nell’impressione che, nel campo del processo, l’evoluzione della disciplina
generalmente si svolgesse in maniera più, per così dire, ufficiale, più
«controllata» che non nel campo negoziale, quasi che fosse costantemente
assistita da una produzione normativa e da una elaborazione giurisprudenziale
distinte, che seguivano criteri loro propri; né è, sotto quest’aspetto, a
nostro avviso da sottovalutare il dato che, nella riflessione degli epigoni, e
specialmente nel quadro della sistematica tripartita di S. Elio Peto, la
tematica delle actiones venga ad assumere
una peculiare autonomia[70].
Formuliamo, alfine,
l’auspicio che il presente scritto riesca utile alla comprensione non soltanto
dei problemi enunciati nella premessa (i quali, lo ricordiamo, non hanno ad
oggetto i rapporti solo fra prassi e giurisprudenza, ma fra prassi ed altre
fonti), ma anche di alcuni problemi di carattere più generale: intanto perché,
nel cogliere il senso profondo della testimonianza pomponiana sul praeesse privatis, ne limita tuttavia la
portata, evidenziando come sfera elettiva, sebbene non esclusiva,
d’applicazione dell’attività individuale di consulenza fosse, propriamente,
quella negoziale; poi perché, nel postulare la necessità di una costante
collaborazione tra magistrato e pontefici in ambito processuale, prefigura
scenari futuri[71],
nei quali l’elaborazione dell’editto fu effettivamente, come si sa, il
risultato dell’apporto dato dai giuristi (laici) al pretore.
* Si pubblica il capitolo III della monografia
di Lorenzo Franchini: «La desuetudine delle XII Tavole nell’età arcaica»,
Milano, Casa Editrice “Vita &
Pensiero”, 2005, 71-97. Di seguito anche l’Indice del volume: I. Premessa
metodologica. – II. La caduta in desuetudine di norme decemvirali.
Rassegna di ipotesi. – III. Manum conserere e tacito consenso. – Indice degli
Autori. – Indice delle fonti.
[1] Gell. 20.10.7-9: ‘Manum
conserere’ [***]. Nam de qua re disceptatur in iure in re praesenti, sive ager
sive quid aliud est, cum adversario simul manu prendere et in ea re sollemnibus
verbis vindicare, id est vindicia. Correptio manus in re atque in loco
praesenti apud praetorem ex duodecim tabulis fiebat, in quibus scriptum est:
‘Si qui in iure manum conserunt’. Sed postquam praetores, propagatis Italiae
finibus, datis iurisdictionibus negotiis occupatis, proficisci vindiciarum
dicendarum causa ad longinquas res gravabantur, institutum est contra duodecim
tabulas tacito consensu ut litigantes non in iure apud praetorem manum
consererent, sed ex iure manum consertum vocarent, id est alter alterum ex iure
ad conserendam manum in rem de qua ageretur vocaret atque, profecti simul in
agrum de quo litigabatur, terrae aliquid ex eo, uti unam glebam, in ius in
urbem ad praetorem deferrent, et in ea gleba tamquam in toto agro vindicarent.
Per i problemi inerenti alla restituzione del testo - nei quali non è
peraltro implicata la parte che a noi specificamente interessa - e per le
proposte di emendazione variamente avanzate dalla dottrina, si rinvia qui, per
es., a R. Santoro, Manu(m) conserere, AUPA, 32 (1971),
532-533; Nicosia, Il processo privato romano, I, Le origini², Torino 1986, 109, 119.
[2] Cfr. Gell. 20.10.1.
[3] V. 47 Vahlen, integralmente riportato in Gell. 20.10.4. Per
un’esegesi del testo enniano, per un suo commento, e per il valore che esso
presumibilmente rivestì per gli autori di epoche successive, cfr. ad es. Düll, Vom vindex, 9-14; Lévy Bruhl,
La manuum consertio, «Iura», 4
(1953), 165, e Recherches, 81; Santoro, Potere ed azione nell’antico diritto romano, AUPA, 30 (1967), 193, 195-196, 199, e Manu(m), 514 ss., 518, 575-576, 579-580;
Cannata, Violenza, 157 nota 5; Wolf,
Zur legis actio sacramento in rem, in
Römisches Recht in der europäischen
Tradition, Ebelsbach 1985, 9 e nota 47; Nicosia,
Il processo, I, 108-109 e nota 14; Kaser, Zur legis actio sacramento in rem, ZSS, 104 (1987), 60; D’Ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli 1988, 90-91, 105, e
Questioni, 143, secondo il quale
peraltro S. Elio Peto sarebbe la fonte di Ennio, e perciò anche di Gellio; Diliberto, Materiali, 191, che su questo punto richiama D’Ippolito; Albanese, Il processo,
82 e nota 276; Guarino, Manum conserere, in Pagine di diritto romano, IV, Napoli 1994, 107; L. Gutiérrez Masson, La ritualización de la violencia en el
derecho romano arcaico, «Index», 28
(2000), 263-264, 271 nota 68.
L’istituto è menzionato, facendo sempre
riferimento ai versi di Ennio, da Cic. Mur.
14.30; Att. 15.7; fam. 7.13.2; v. poi, anche a prescindere
da Ennio, Varro ling. 6.64; Cic. Mur. 12.26; de orat. 1.10.41; Prob. 4.4. Cfr., per la dottrina, ad es. Lévy Bruhl, La manuum, 166; Santoro, Manu(m),
581 ss.; Nicosia, Il processo, I, 108 nota 14; D’Ippolito, Sulla giurisprudenza, 105, e
Questioni, 143; Albanese, Il
processo, 82 nota 276; Gutiérrez
Masson, La ritualización, 261.
[5] E’ qui opportuno anticipare che parte della dottrina, pur magari
ammettendo che il racconto di Gellio non è immune da imperfezioni e
incongruenze, lo considera tuttavia sostanzialmente attendibile riguardo alla
notizia della trasformazione del manum
conserere nell’ex iure manum
consertum vocare, ed altra parte della dottrina nega invece alla
testimonianza ogni credibilità. Cfr. in proposito, per una adesione espressa al
primo orientamento, ad es. Pugliese, Il processo, 41-42, 67 note 77-78; Nicosia, Il processo, I, 108 ss.; Kaser, Zur legis, 56, 61, 66, per il quale Gellio è chiaro e stringato,
come il giurista che lo ispira; e per un’adesione espressa all’orientamento
contrapposto, per es., Santoro, Potere, 194, 197, e Manu(m), 514 ss., 518, 532 ss., 538 ss.; Albanese, Il processo,
69 e nota 237, 78-79; Guarino, Manum, 107; Gutiérrez Masson, La
ritualización, 262-263, 271 note 68 e 72. Quanto alla nostra posizione, v.
soprattutto infra, nnt. 13 e 16;
cfr., peraltro, quanto già dicevamo supra,
riguardo alla generale affidabilità di Gellio per la ricostruzione degli
istituti del diritto arcaico.
[7] Sunt autem etiam alterius generis successiones, quae neque lege XII
tabularum neque praetoris edicto, sed eo iure, quod tacito consensu receptum
est, introductae sunt.
[8] Per la dottrina sul consensus,
v. poi in generale, ad es., Gioffredi,
Ius, 80, 82, 109; Scherillo, s.v. Consuetudo, 306; Solazzi, La desuetudine, 286 nota 4; Thomas,
Custom, 49; Schmiedel, Consuetudo,
109, 111; Nörr, Zur Entstehung der gewohnheitsrechtlichen
Theorie, in Festschrift Felgentraeger,
Göttingen 1969, 356-359; Bove, La consuetudine, 95, 111; Gallo, Interpretazione, 5, 147 nota 1, Produzione,
77, e La sovranità, 13, specie in
ordine alla sostanziale riconducibilità della recezione consensu all’attività giurisprudenziale; Waldstein, Gewohnheitsrecht,
121-124; Scarano Ussani, L’utilità, 93-94.
[9] Unde eum, qui de vitibus succisis
ita egisset, ut in actione vites nominaret, responsum est eum rem perdidisse,
cum quia debuisset arbores nominare eo, quod lex XII tabularum, ex qua de
vitibus succisis actio competeret, generaliter de arboribus succisis loqueretur.
Per la dottrina, v. ad es. Wlassak,
Die klassische Prozessformel,
Wien-Leipzig 1924, 84-85 e nota 33, secondo il quale da Gai. 4.11 (e 4.30) si
evince il ruolo ineludibile dei giuristi già rispetto al processo antico; J. Paoli, Verba praeire dans la legis actio, RIDA, 3 (1950), 315 e note 75-76, 317, con considerazioni di grande importanza, dal nostro
punto di vista, circa la possibilità che il responso giurisprudenziale, dato
per il caso di Gai. 4.11, confermativo del vizio di nullità, avesse assunto la
forma di un decreto, destinato ad essere conservato negli archivi del collegio,
o più probabilmente fosse stato emesso dal singolo sacerdote delegato, anche
eventualmente all’atto del praeire verbis;
Riccobono, La voluntas, 302 ss., 306 e nota 4, con un significativo richiamo
di Cic. Mur. 12.26-27; Gallo, Interpretazione, 112; Nörr,
Der Jurist, 79; A.M. Giomaro, La tipicità delle legis actiones e la nominatio causae, Milano
1988, 29, 64; P. Frezza, Storia del processo civile in Roma fino
all’età di Augusto, in Scritti,
III, Roma 2000, 181.
[10] Sed istae omnes legis
actiones paulatim in odium venerunt: namque ex nimia subtilitate veterum, qui
tunc iura condiderunt, eo res perducta est, ut vel qui minimum errasset litem
perderet.
[11] Così, espressamente, per es. Nicosia,
Il processo, I, 120, 144, che in
riferimento all’ex iure manum consertum
vocare usa frasi come «venne introdotto nella prassi», «affermatosi nella
prassi»; Guarino, Manum, 107, «si convenne tacitamente una
prassi derogatoria delle XII tavole»; cfr. Lévy
Bruhl, La manuum, 168, «fut décidé d’un commun accord, mais contrairement à
la loi des XII Tables»; Solazzi, La desuetudine, 286 nota 4, secondo il
quale il consensus andrebbe qui
interpretato come «prassi del magistrato» (quantunque, su questo punto specifico,
inerente all’attività che il pretore era chiamato a svolgere, v. infra). Tuttavia, la tendenza ad
escludere il ruolo giocato dalla giurisprudenza nella disapplicazione della
norma decemvirale serpeggia, a nostro avviso, anche negli scritti di quegli
autori che, interpretando Gell. 20.10.7-9 alla lettera, parlano di deroga
tacita: cfr. per es. Kaser, Zur legis, 58; Albanese, Il processo,
79 (sebbene abbia in precedenza, a p. 5, affermato che nelle legis actiones il rilievo della prassi
processuale era inscindibile dalla straordinaria opera dell’interpretatio giurisprudenziale); Gutiérrez Masson, La ritualización, 262. Più accettabile, dal nostro punto di vista,
è parlare di modifica introdotta consuetudinariamente: così, per es., Bonfante, Storia del diritto romano I (IV ed.), Milano 1958, 162 nota 6; Pugliese, Il processo, 42. Riconosce espressamente, alfine, che la
giurisprudenza pontificale ebbe un fondamentale rilievo, ai fini
dell’introduzione della consuetudine contraria a XII Tab. 6.6a, Paoli, Verba, 305-306.
[12] Sul punto, cfr. ad es. Pugliese,
Principi teorici e realtà pratica nei
processi romani, TR, 35 (1967),
291 ss.
[13] Dobbiamo peraltro precisare che in questa sede non formano oggetto
di studio, di per sé, da parte nostra, né il rito del manum conserere né quello dell’ex
iure manum consertum vocare, specie se considerati in rapporto alla più
generale struttura della legis actio nella
quale si collocano: quel che, soltanto, ci interessa è indicare il modo
attraverso il quale poté, o non, avvenire il passaggio dall’uno all’altro rito.
Non vi è dubbio tuttavia che, nel far questo, preliminarmente aderiamo alle
tesi sostenute da quella parte della dottrina che, riconoscendo valore storico
alla testimonianza di Gell. 20.10.7-9, scorge nell’evoluzione dell’istituto il
superamento del modello decemvirale. Delle diverse opinioni formulate in
proposito dagli studiosi, e che per noi hanno quindi un (seppur importante)
valore di premessa, cercheremo di dar conto, all’occorrenza, nel corso del
nostro lavoro.
[14] Cfr. in particolare Gai. 4.17, nel quale sono, come noto, presenti
lacune, non colmate neppure dai rinvenimenti papiracei del secolo appena
trascorso. Nel passo, a proposito dei beni immobili e di quelli non
trasportabili sine incommodo, compare
peraltro la menzione del sumere vindicias,
di cui anche a Gell. 20.10.9, ma non del manum
conserere, che probabilmente, comunque, figurava nella parte andata
perduta. In ogni caso, riguardo a Gaio, alla disciplina del sacramentum in rem, considerata in rapporto
al manum conserere, ed alla necessità
di un’integrazione del passo attraverso il ricorso ad altre fonti, basti qui
rinviare, per es., a Lévy Bruhl, La manuum, 163-164, 166, e Recherches, 79; Pugliese, Il processo,
67 nota 76; Nicosia, Il processo, I, 106 ss., 117-118, 122,
secondo il quale, peraltro, Gaio potrebbe aver volutamente omesso la
trattazione dell’istituto, giacché ai suoi tempi era forse venuta meno anche la
fictio propria dell’ultima fase di
sviluppo del rito; Kaser, Zur legis, 57; Albanese, Il processo,
70, 80; Gutiérrez Masson, La ritualización, 259, che sui motivi
dell’omissione sembra accogliere l’ipotesi di Nicosia.
[15] Per la dottrina, ed anche in ordine all’opinione, assai diffusa
oggi fra gli studiosi, che il precetto figurasse nella seconda piuttosto che
nella sesta tavola, cfr. per es. Lévy
Bruhl, La manuum, 172 e nota 14, e Recherches, 83 nota 1, il quale propone
di integrare il versetto aggiungendo la frase ita ius esto; Santoro,
Potere, 192 nota 1, 193 e nota 7; Nicosia, Il processo, I, 108; D’Ippolito,
Sulla giurisprudenza, 105-106, e Questioni, 143, al quale anche si rinvia per i problemi inerenti
alla restituzione del testo (ove in particolare, se si ha riguardo alla
tradizione manoscritta, tra il si e
l’in potrebbe anche non figurare la
particella qui, peraltro ininfluente
ai fini della nostra indagine); Diliberto,
Materiali, 189 ss., 208; Albanese, Il processo, 79, 86; Gutiérrez
Masson, La ritualización, 263.
[16] Ciò, facendo salva, comunque, la definizione che dell’istituto dà
Gell. 20.10.7. Premessa di tutto il nostro discorso è che, secondo quanto
sostenuto da una parte della dottrina, il manum
conserere - inteso come rito processuale almeno in parte distinto dalla vindicatio della cosa, immobile o
difficilmente trasportabile, alla quale si applicava -, dovesse originariamente
svolgersi nel luogo in cui la cosa stessa si trovava, e nondimeno, in
conformità alla norma delle XII tavole, in
iure, ossia alla presenza del magistrato, che doveva spostarvisi; e che
però in seguito, contravvenendosi a quella norma, si sia consentito di
celebrarlo ex iure, in assenza del
magistrato, il quale rimaneva nel tribunale cittadino, da cui le parti si
chiamavano fuori, anche al fine di raccogliere il simbolo della cosa su cui si
sarebbero poi, di nuovo in iure,
svolte le formalità propriamente vindicatorie. Quest’impostazione, la sola che
renda possibile il rilievo di una consuetudo
contra legem, è a nostro avviso preferibile, in quanto non disattende la
testimonianza gelliana, e ne rivela anzi la compatibilità sia con Gai. 4.17,
che analogamente allude al sumere
vindicias, sia con Cic. Mur. 12.26,
che addirittura riporta i verba con i
quali si teneva il rito modificato, dando peraltro notizia di un’evoluzione ulteriore.
A queste esigenze non paiono invero soddisfare quei tentativi di ricostruzione,
esperiti da un’altra parte della dottrina, che negando valore a Gellio e
schiacciando su quella decemvirale la prospettiva temporale propria del regime
delle vocationes, descritto per la
verità da Cicerone in relazione ad un’età assai più recente, affermano che, se
vi era un precetto tavolare di quel tenore, esso non fu mai violato, dal
momento che il magistrato seguiva a sua volta le parti sul fondo, dove sarebbe
stato compiuto il manum conserere, e
che anche quando così non sarà, in una fase storica successiva, fuori dal
tribunale si sarebbe proceduto al solo sumere
vindicias, non più ad altro. Vi è poi tutta una serie di questioni, le
quali rivestono grande importanza per i problemi sopra accennati (si pensi per
es. al senso da attribuirsi a con-sero,
composto di sero, anche in rapporto
ad ad-sero, a sua volta attestato
nelle fonti; all’esistenza, nelle stesse, delle due versioni, manu e manum conserere, e alle diverse conseguenze che possono derivare
dal supporre l’una antecedente all’altra; alla genesi dell’idea del
combattimento con le mani, posto che il significato di atto di apprensione
della cosa fosse quello originario; alla plausibilità dell’ipotesi, poi per lo
più rigettata dalla dottrina, che l’esecuzione del rito potesse avere una
qualche parte nella costituzione del consortium
ercto non cito, di cui è evidente l’affinità verbale; all’eventualità di
una manuum consertio nel sacramentum in personam, anche sulla
base di Prob. 4.4), che non possiamo qui affrontare, e per lo studio delle
quali si rinvia all’abbondante letteratura esistente sull’argomento. In essa,
come dicevamo, possono essenzialmente rinvenirsi due grandi tendenze. Alla
prima, alla quale anche noi abbiamo aderito, sono per lo più riconducibili Düll, Vom vindex, 10 ss.; Luzzatto,
Procedura civile romana, I, Le legis actiones, Bologna 1948,
121-122; Paoli, Verba, 305 e nota 59, 306; Bonfante, Storia, 162 nota 6; Pugliese,
Il processo, 41 ss., secondo
il quale in particolare il manum
conserere sarebbe consistito nel tentativo rituale, esperito dalle parti,
di cacciarsi reciprocamente dal fondo; Watson,
Toward a New Hypothesis of the legis
actio sacramento in rem, RIDA, 14 (1967), 455 ss., tutto peraltro
concentrato sul tentativo di dimostrare la sua tesi, assai originale, della
struttura unilaterale del meccanismo vindicatorio; Kaser, Zivilprozessrecht,
74-75, e Zur legis, 53 ss.; Cannata, Profilo istituzionale del processo privato romano, I, Le
legis actiones, Torino 1980, 21-22, e Violenza,
159-162, 170-171; Wolf, Zur legis, 1 ss.; Nicosia, Il processo, I, 108 ss., pur con le peculiarità proprie del
pensiero di questo studioso, che non crede, per l’epoca decemvirale,
all’esistenza di un magistrato giusdicente; J.
Zlinsky, Gedanken zur legis actio
sacramento in rem, ZSS, 106 (1989), 106 ss., secondo il quale in
particolare l’istituto aveva finalità identificative della cosa lontana. Alla
seconda tendenza sono per lo più riconducibili Lévy
Bruhl, La manuum, 163 ss., e Recherches,
79-82, secondo cui il rito del manum
conserere per gli immobili equivaleva a quello della festuca per i mobili; Santoro,
Potere, 190-194, 197, e Manu(m), 514 ss., secondo il quale, in particolare,
lo studio della vicenda dell’istituto, che egli identifica totalmente con la
rivendicazione della cosa, deve farsi sulla base della sola testimonianza
ciceroniana, più antica di quella gelliana, e più adatta a rivelare la realtà
della prassi giudiziaria; Albanese,
Il processo, 68 ss., 78 ss.; Guarino, Manum, 106 ss.; Gutiérrez
Masson, La ritualización, 254
ss. V. poi, in ordine a problemi specifici, per es. F. Patetta, Le ordalie,
Torino 1890, 144; P. Collinet, Les nouveaux fragments des Institutes de
Gaius, RHD, 13 (1934), 96 ss., il quale, come sopra anticipato, ritiene che
la costituzione dell’antico consortium
familiare richiedesse il rispetto delle formalità proprie del nostro istituto; Noailles, Manum, 160, 163; Frezza,
Ordalia e legis actio sacramento, AG, 142 (1952), 87; Broggini, Iudex
arbiterve. Prolegomena zum Officium des römischen Privatrichters, Köln-Graz
1957, 38 e nota 39; Tondo, Ancora sul consortium domestico nella Roma
antica, SDHI, 60 (1994), 602-603, critico verso Collinet.
[17] E’ appena il caso di ricordare qui che la fase in iure del procedimento, quale ci è
descritta da Gai. 4.16-17, era caratterizzata dalla dialettica crescente tra i
due litiganti, posti formalmente sullo stesso piano, dimodoché all’attività sia
verbale che gestuale dell’uno strutturalmente corrispondesse quella dell’altro,
in una sequenza di operazioni contrapposte ad incastro, che, se protratta fino
alla fine, senza cadute di tensione, conduceva ad un ulteriore stato di
paralisi, risolvibile, a quel punto, solo mediante la prestazione dei sacramenta.
[18] V. ancora Gell. 20.10.7; cfr. Gai. 4.17 (in totam rem praesentem). Ciò appare richiesto dalla struttura
stessa del rito, sebbene non possa pregiudizialmente escludersi, sulla scorta
del citato passo gelliano, che anche XII Tab. 6.6a - il cui tenore non è poi,
tuttavia, in relazione a questo punto specifico, letteralmente richiamato -
alludesse in qualche modo alla presenza della cosa.
[19] Ciò, in conformità a Gai. 4.17, che parla di cose che non possono
trasportarsi sine incommodo (cfr.
Gell. 20.10.7: sive ager sive quid aliud
est, ove per aliud è da
intendersi altro di simile), e posto che esista il legame storico, d’altronde
attestato dallo stesso Gell. 20.10.9, tra il rito della manus consertio e quello del sumere
vindicias. Questo è l’orientamento prevalentemente seguito dalla dottrina,
specie da quella che presta affidamento alla ricostruzione gelliana (nel cui
solco anche noi ci collochiamo), ma non solo: in questo senso, a titolo
meramente esemplificativo, v. Lévy Bruhl,
La manuum, 163, 168, e Recherches,
80, 82; Pugliese, Il processo, I, 41, 66 nota 73; Nicosia,
Il processo, I, 109-110; contra, identificando l’oggetto del rito
nei soli immobili, per es., Cannata,
Profilo, 22, e Violenza, 160 e nota 8, 171, che non condivide l’approccio
dogmatizzante di chi postula l’automatica corrispondenza fra i casi della manus consertio originaria e quelli di
successiva rivendica sul simbolo, alcuni dei quali sono sopravvenuti; Kaser, Zur legis, 61, secondo il quale, in particolare, agli immobili si
riferivano le XII tavole; oppure, identificando l’oggetto del rito in tutti i
beni, anche mobili, per es. Santoro,
Potere, 192 nota 1, e Manu(m), 514 ss., 529-531, per cui il manum conserere si applicava a tutte le
cose suscettibili di vindicatio; Albanese, Il processo, 69 e nota 237; Gutiérrez
Masson, La ritualización, 260,
261, che anzi pensa che quella sui mobili potesse essere l’applicazione
originaria.
[20] Fatta propria, con ogni probabilità, dalla legge delle XII Tavole:
in XII Tab. 6.6a compare la locuzione in
iure, che, avendo forse già
assunto un significato topologico (d’altronde non incompatibile con un
originario significato rituale: ma su questo punto v. meglio infra), alludeva alla presenza del pretore,
di fronte al quale doveva comunque svolgersi il rito; e si rammenti che il
magistrato rendeva ius ogni luogo in
cui si recasse ad esercitare la giurisdizione (cfr. in proposito D.1.1.11: ius dicitur locus in quo ius redditur).
Per la dottrina, v. ad es. Pugliese, Il processo, I, 42; Cannata, Profilo, 22, e Violenza, 158; Kaser, Zur legis, 57, 59; D’Ippolito, Sulla giurisprudenza, 105;
Zlinsky, Gedanken, 118; v.
anche, per es., Lévy Bruhl, La manuum, 168-172, e Recherches,
82-83; Santoro, Manu(m), 550; Guarino, Manum,
107, i quali concordano sì col significato locativo di in iure, ma con quello intendono, lo ricordiamo, il tribunale
cittadino in cui, già in origine, si svolgeva la vocatio.
[21] Ché prima, come ha giustamente osservato Pugliese, Il processo, I, 67 nota 79, i fondi dovevano
trovarsi tutti, per lo più, nelle adiacenze della città. Ora invece il
magistrato avrebbe dovuto raggiungere longinquas
res (cfr. Gell. 20.10.9).
[22] Ciò, in conformità ad un’opinione pressoché unanime nella dottrina
favorevole alla tesi della trasformazione storica dell’istituto, ma senza che
siano stati, in genere, esperiti tentativi per collocarla meno vagamente nel
tempo. Pur con tutta la cautela del caso, derivante dalla mancanza di riscontri
testuali, azzarderemmo l’ipotesi di un’età successiva alla distruzione di Veio
ed alle stesse leggi Liciniae Sextiae,
istitutive della pretura giurisdizionale, ma precedente alla creazione dei
primi prefetti iure dicundo (in
ordine ai quali, v. ad es., per tutti, De
Martino, Storia della costituzione
romana², I, Napoli 1972, 435, e II, 1973, 135-137): si tratterebbe perciò,
all’incirca, della metà del IV secolo.
[23] Peraltro si osservi che Gell. 20.10.9, come dicevamo sopra, non
riporta le parole del formulario delle vocationes
(né per la verità precisa che parte vi avesse il pretore), per le quali
dobbiamo dunque attingere a Cic. Mur.
12.26. Tuttavia dal nostro passo può già evincersi che il rito consisteva
nell’invito reciproco (alter alterum)
a recarsi sul luogo interessato, cosicché alla vocatio dell’uno immediatamente
seguiva la revocatio dell’altro,
secondo una simmetria tipica della legis
actio sacramenti. Su un simile assetto strutturale gli studiosi sono per lo
più concordi: per tutti, v. ad es. da una parte Kaser,
Zur legis, 59, 62, per il quale
naturalmente l’esortazione non è diretta alla vindicatio, ma a renderla possibile, e dall’altra Albanese, Il processo, 81-83, 86, che pur essendo, su quest’ultimo punto, di
parere diametralmente opposto, tuttavia rileva come l’istituto consti appunto
di una simultanea sfida reciproca; contra,
soprattutto Santoro, Manu(m), 548-552, 562-566, per il quale
la vocatio, come invito ad andare,
veniva pronunciata dapprima in tribunale, mentre la revocatio, come invito a tornare, in un secondo momento sul fondo,
cosicché l’unità di tempo e di luogo, che caratterizza il rito descritto da
Cicerone, sarebbe frutto dell’involuzione successiva.
[24] Ciò risulta, invero, dal solo Cic. Mur. 12.26, ove compare l’espressione superstitibus praesentibus; v. anche Fest.
[25] Riguardo al rito del sumere
vindicias, al significato tecnico che vi assume la parola vindicia, diverso che in altre fasi del
processo (cfr. Fest. 516 L: Vindiciae
olim dicebantur illae, quae ex fundo sumptae in ius adlatae erant), ed alla
sua emersione storica, che pare in effetti inscindibile dalla disciplina del sacramentum sugli immobili, ed in
particolare dalla trasformazione del manum
conserere nell’ex iure manum
consertum vocare, cfr. innanzi tutto quanto dicevamo supra, nt. 16, con la dottrina ivi riportata; v. ancora, qui, per
es. Nicosia, Il processo, I, 121, secondo il quale, anzi, presto il sumere vindicias sarebbe stato l’unico
atto compiuto in loco dalle parti; Kaser, Zur legis, 63-65, che all’istituto attribuisce particolare rilievo,
anche in polemica con Santoro, Manu(m), spec.te 546, 568-570, 586, le
cui considerazioni in materia ci sembrano in effetti tra le meno calzanti del
suo lavoro, data la oggettiva difficoltà di conciliare l’esistenza del sumere vindicias, ampiamente attestata
nelle fonti, con l’idea, da lui sostenuta, che la manus consertio fosse la vindicatio
stessa e che il magistrato, per sovrintendere ad essa, seguisse, dopo la vocatio, le parti sul fondo.
[26] Cfr. per es. Kaser, Zur legis, 63 nota 41; Bona, Ius, 209; v. anche Franciosi,
Partes, 272-273.
[27] Così giustamente osservano coloro che, ritenendo tale
testimonianza degna di considerazione, prendono in particolare atto della
valenza topologica assunta dall’espressione ex
iure, dipendente da vocare: cfr.
per es. Pugliese, Il processo, 42, 67 nota 80; Kaser, Zivilprozessrecht, 74 e nota 57, e Zur legis, 58; A. Traglia,
in M. Terenzio Varrone, Opere (ed.
Utet), Torino 1974, 216 nota 36; Wolf,
Zur legis, 7 e nota 35, al quale
anche si rinvia per un’ampia ricognizione, sul punto, della dottrina risalente;
Nicosia, Il processo, I, 120-122; D’Ippolito,
Sulla giurisprudenza,
[28] Si noti anzi che in Gell. 20.10.8-9 notevole è l’insistenza sul
ruolo del magistrato, in assenza del quale ora si sarebbe svolto il rito,
strutturalmente mutato: tanto che la parola pretore vi ricorre per ben quattro
volte. Cfr. anche infra, nt.
[29] Sed postquam praetores, propagatis Italiae finibus, datis
iurisdictionibus negotiis occupatis cet.
[30] Anche se, almeno in riguardo al manum conserere, sarebbe forse più corretto parlare di involuzione,
dal momento che, introdotta la finzione di cui si dirà, esso finì per non
essere più celebrato.
[31] Si tratta, naturalmente, solo di un’ipotesi, non però priva, a
nostro avviso, di una certa ragionevolezza. La riforma difficilmente potrebbe
essere stata varata, infatti, prima della fine del III secolo, dato che Ennio
(cfr. Gell. 20.10.4 e 10) fa riferimento ad un rito che, in quanto
rappresentazione palese di violenza stilizzata, contrapposta alla violenza
reale della guerra, doveva essere ancora celebrato come tale, quando il poeta
scriveva, e non scomparso perché sostituito da finzioni. D’altronde collocare
la modifica nell’ultimo secolo della repubblica, come fanno taluni (v. per es. Pugliese, Il processo, I, 43; Santoro,
Manu(m), 535), non pare tener conto
della competenza, tradizionalmente pontificale, in materia di legis actiones (cfr. D.1.2.2.6; si noti
anzi che, nel passo riportato alla nota successiva, probabile è l’allusione al praeire verbis, funzione tipicamente
sacerdotale, oltre che all’uso di portare la barba, invalso in epoche assai risalenti.
La soluzione più ragionevole, allora, potrebbe esser quella di riferire
l’innovazione ad un’età di transizione (come noi abbiamo fatto nel testo),
allorché, fermo restando il monopolio dei pontifices
sul processo arcaico, si stava tuttavia diffondendo un sentimento di
insofferenza verso il formalismo delle antiche procedure (cfr. Gai. 4.30), che
avrebbe potuto effettivamente spingere nella direzione di una semplificazione.
V, in questo senso, soprattutto Nicosia,
Il processo, I, 114, 116, che pur ritiene
i protolaici autori della riforma.
[32] Cic. Mur.
12.26: Cum hoc fieri bellissime posset:
‘Fundus Sabinus meus est’. ‘Immo meus’, deinde iudicium, noluerunt. ‘Fundus’
inquit ‘qui est in agro qui Sabinus vocatur’. Satis verbose; cedo quid postea ?
‘Eum ego ex iure Quiritium meum esse aio’. Quid tum ? ‘Inde ibi ego
te ex iure manum consertum voco’. Quid huic tam loquaciter litigioso
responderet ille unde petebatur non habebat. Transit idem iuris consultus
tibicinis Latini modo. ‘Unde tu me’ inquit ‘ex iure manum consertum vocasti,
inde ibi ego te revoco’. Praetor interea ne pulchrum se ac beatum putaret atque
aliquid ipse sua sponte loqueretur, ei quoque carmen compositum est cum ceteris
rebus absurdum tum vero in illo: ‘Suis utrisque superstitibus praesentibus
istam viam dico; ite viam’. Praesto aderat sapiens ille qui inire viam doceret. ‘Redite viam’.
Eodem duce redibant. Haec iam tum apud illos barbatos ridicula, credo,
videbantur, homines, cum recte atque in loco constitissent, iuberi abire ut,
unde abissent, eodem statim redirent. Isdem ineptiis fucata sunt illa omnia:
‘Quando te in iure conspicio’ et haec ‘anne tu dicas qua ex causa vindicaveris
?’. Quae sed dum erant occulta, necessario ab eis qui ea tenebant petebantur;
postea vero pervolgata atque in manibus iactata et excussa, inanissima
prudentiae reperta sunt, fraudis autem et stultitiae plenissima.
E’ forse il caso di ricordare che a tale
testimonianza, più volte citata in precedenza, contrariamente che a Gell.
20.10.8-9, viene riconosciuta generale affidabilità, tanto che sul regime del
nostro istituto nella sua ultima fase di sviluppo, qui descritto dall’Arpinate,
la dottrina non si è, per lo più, divisa: per tutti, v. ancora ad es. Santoro, Manu(m), 540 ss., il quale osserva come Cicerone, che era stato
pretore, avesse una conoscenza diretta della cosa; Nicosia, Il processo,
I, 116.
[34] Cfr. qui, per es., Riccobono,
La voluntas, 306 e nota 4; Pugliese, Il processo, 43; Santoro,
Manu(m), 542-543; Nicosia, Il processo, I, 114; Kaser,
Zur legis, 61, 66; Albanese, Il processo, 80.
[35] Secondo quanto attestato da Gai. 4.17; v. anche, per es., Pugliese, Il processo, I, 43; Santoro,
Manu(m), 586; Nicosia, Il processo,
I, 122; Albanese, Il processo, 84.
[36] V. anche qui ad es. Nicosia,
Il processo, I, 116, e Kaser, Zur legis, 59, 61, 63, circa l’opportunità di utilizzare i dati
desunti da Cic. Mur. 12.26 per
integrare la testimonianza gelliana, già di per sé preziosa sul tema dell’ex iure manum consertum vocare; e d’altra
parte, Santoro, Manu(m), 552, 564, 585-586, secondo il
quale, in particolare, le due vocationes
– pur conservate ancora in vita, per il tradizionalismo tipico della mentalità
romana – assunsero il carattere dialogico di invito e controinvito immediato
solo nel procedimento involuto illustrato, per l’appunto, da Cic. Mur. 12.26, giacché in precedenza,
quando ancora realmente le parti si recavano sul fondo, le cose andavano ben
diversamente.
[37] Cfr. in proposito Düll,
Vom vindex, 17-18; Paoli, Verba, 283; Lévy Bruhl, La manuum, 167 e nota 10; Santoro,
Manu(m), 540 ss. (al quale anche si
rinvia per i problemi inerenti alla restituzione del testo, ove in luogo di ite potrebbe esservi stato inite: v. 542 nota 68); Guarino, Manum, 106; Gutiérrez Masson,
La ritualización, 262.
[39] Varro ling. 6.30: Contrarii horum vocantur dies nefasti, per
quos dies nefas fari praetorem do dico addico; itaque non potest agi; necesse est
aliquo eorum uti verbo, cum lege quid peragitur.
[40] Quanto il pretore fosse implicato, fin dall’origine, nelle
formalità proprie del rito, ci è rivelato anche dall’uso che Cicerone fa del
termine carmen, proprio dei formulari
arcaici: cfr., sul punto, Pugliese, Il processo, 43; Santoro, Manu(m),
543 e nota 72, 545; Nicosia, Il processo, I, 114.
[41] Attribuendo, per l’appunto, ai giuristi-sacerdoti la paternità dei
verba e dei gesta del procedimento: cfr. ad es. Wlassak,
Die klassische, 84, che in relazione
al passo ciceroniano significativamente ricorda anche Gai. 4.11 e 4.30 (dove in
particolare si dice del condere iura dei
veteres); Paoli, Verba, 283,
303-304, 306, 308; Santoro, Manu(m), 542-547, 562-563, 567-568, 582;
contra, Nicosia, Il processo,
I, 116, sulla base di un’interpretazione letterale di Cic. Mur. 12.25-26.
[42] Espediente, questo, cui, come si diceva in precedenza, i pontifices facevano ampio ricorso, e
che, precisamente, consisteva nel far derivare gli effetti propri di un fatto
non accaduto (la manus consertio fuori
dal tribunale cittadino) dal verificarsi di un fatto diverso (che in qualche
modo richiami il primo, come ad es. qui, forse, il mero atto dell’andare e
tornare, il fare qualche passo in una direzione e quindi, subito dopo, nell’altra).
V. in proposito, per es., Lévy Bruhl, La manuum, 171, e Recherches,
82; Pugliese, Il processo, 43; Santoro,
Potere, 194, e Manu(m), 535, 544; Cannata,
Violenza, 162, 170; Nicosia, Il processo, I, 117-118, 122; Kaser,
Zur legis, 66; Gutiérrez Masson, La ritualización, 262.
[44] La vicenda della manus
consertio, con particolare riferimento a Gell. 20.10.8-9 e alla
disapplicazione tacito consensu del
precetto di cui a XII Tab. 6.6a, è stata fatta talora oggetto di menzione, o
addirittura di analisi, pur eccessivamente fugaci, da parte della dottrina, da
noi citata all’inizio di questo lavoro, che si è specificamente occupata del
tema della desuetudine e dei suoi effetti. Ciò, per lo più, al fine di
ascrivere il nostro caso fra quelli di formale abrogazione di una norma di
legge, dovuta al processo desuetudinario (così per es. S. Brie, Die Lehre vom Gewohnheitsrecht, Breslau 1899, 40 e
nota 39; Bove, La consuetudine, 94-95; Waldstein, Gewohnheitsrecht, 123-124; Gallo,
Produzione, 77; Scarano Ussani, L’utilità, 93 nota 138), o viceversa fra quelli in cui tale
fenomeno non si è prodotto (così per es. Solazzi,
La desuetudine, 286 nota 4; Thomas, Custom, 45 nota 29). Ora, non si può qui non constatare come il
dettato della legge decemvirale sia stato, anche formalmente, disatteso da una
prassi, in cui erano fra l’altro implicati organi pubblici (non soltanto il
pretore, come avremo presto modo di precisare), la quale avrebbe comportato,
col passar del tempo, non solo la caduta del precetto che imponeva la
celebrazione in iure del rito, ma
addirittura la scomparsa dello stesso istituto disciplinato (a nulla vale, a
nostro avviso, l’obiezione del sopra citato Solazzi,
secondo cui, più che di desuetudo,
si tratterebbe qui di una «prassi del magistrato», dal momento che i processi
desuetudinari in nient’altro consistono se non nella pratica, disapplicativa di
una norma, adottata da quei soggetti che sarebbero chiamati, invece, ad applicarla;
ed il fatto che uno di essi sia, in questo caso, proprio il pretore depone, a
nostro avviso, in senso contrario). Circa la sorte, infine, del rito descritto
da Cic. Mur. 12.26 nelle epoche
successive, sembra doversi credere che esso, nel II secolo, fosse ancora
invalso, come d’altronde attesta lo stesso Gellio (20.10.1: nunc quoque), che pur non ne comprendeva
più il significato: v. per es., in questo senso, Lévy Bruhl, Recherches,
80 nota 1; Santoro, Manu(m), 535 nota 54; Diliberto, Materiali, 190, 192; Albanese,
Il processo, 81 nota 273, 87; contra, Nicosia,
Il processo, I, 117-118, 122, pur
sulla base della omessa menzione da parte di una fonte, come Gai. 4.17, che in
precedenza lo stesso autore aveva avvertito la necessità di integrare, ricorrendo
ad altri testi.
[45] Cfr. Pomp. D.1.2.2.6. Approfittiamo qui per rilevare come,
essendovi ogni anno un solo pontefice delegato a dare consulto ai privati (da
parte dell’unico organo, il collegio pontificale, cui sia pertanto lecito
riconoscere formalmente il monopolio dell’interpretazione giurisprudenziale),
l’esperienza giuridica romana arcaica, contrariamente a quella di epoche
successive, non potesse configurarsi come un’esperienza di ius controversum, giacché l’eventualità che più orientamenti contrapposti
costituissero contemporaneamente il diritto vigente risultava del tutto
improspettabile; il mutamento d’indirizzo giurisprudenziale era invece
possibile, ovviamente, nella «diacronia», sebbene per il carattere conservativo
della mentalità romana sarà certo per lo più prevalsa, nelle scelte di politica
del diritto adottate dal collegio, e di conseguenza nelle decisioni prese dai
singoli sacerdoti incaricati, la tendenza a rispettare il più possibile i
precedenti. Cfr., su questo punto, per tutti, ad es. Talamanca, Diritto,
142-143.
[46] Per meglio persuaderci della fondatezza del nostro ragionamento,
proviamo anzi ad esaminare un caso limite, certo storicamente verificatosi,
benché le fonti non si esprimano direttamente in proposito: quello inerente alla
prima volta in cui un privato intenda avvalersi di un nuovo rimedio appena
introdotto con legge (per esempio l’actio
communi dividundo, prevista dalla lex
Licinnia), nell’ambito di una legis
actio (per esempio la iudicis
postulatio). Certo i relativi formulari saranno stati subito elaborati
dalla giurisprudenza pontificale: ex novo,
e tenendo conto delle disposizioni dettate dalla legge (cfr. ancora quanto
dicevamo supra, a commento di Gai.
4.11), le quali tuttavia, senza la indispensabile mediazione dei giuristi,
risultano essere del tutto inoperanti. Ebbene, non è accettabile che in
un’ipotesi del genere il magistrato potesse sentirsi appagato da un responso
nel frattempo richiesto dal privato ed esercitasse la sua giurisdizione sulla
base di quello: per la stessa ragione, non si vede allora perché, anche quando
in tempi successivi si sarebbe trattato di apportare modifiche o aggiornamenti
ai certa verba della nostra azione,
non si sarebbe dovuto seguire di nuovo, preferibilmente, la stessa procedura.
[47] Omnium tamen harum et
interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant, ex quibus
constituebatur quis quoquo anno praeesset privatis.
[49] Per la dottrina, cfr. ad es. Wlassak,
Die klassische, 102 e nota 82; Paoli, Verba, spec.te 293, 297, 300, 316, di cui ci sembrano oltremodo
condivisibili le considerazioni relative alla legis actio sacramenti,
la quale, più di ogni altra, per la sua origine religiosa, doveva prestarsi
assai bene all’esercizio delle funzioni tipicamente pontificali (assai meno
condivisibili, invece, ci sembrano le considerazioni dello stesso Paoli, quando individua connessioni
improprie tra il praeesse ed il praeire, specie in riguardo ai soggetti
che li esplicavano); v. anche, ad es., F. Cancelli,
La giurisprudenza unica dei pontefici e
Gneo Flavio, Roma 1996, 18 ss., con ampia rassegna bibliografica.
[50] Anche i più seri e recenti studi sulla giurisprudenza dei pontifices, come ad es. quello di Cancelli, La giurisprudenza, spec.te 121-125 (pur di per sé concentrato nel
tentativo di dimostrare l’inesistenza di un monopolio pontificale in materia
civile: cosa che noi, fondamentalmente, non condividiamo, e che speriamo di
poter, più approfonditamente, discutere in altre sedi, pur riconoscendo
senz’altro fin d’ora che lo studio di Cancelli
è, per la ricognizione ampia delle fonti e della bibliografia pregressa,
oltremodo apprezzabile) sembrano dimostrare scarso interesse per il tema in
questione, che viene affrontato fugacemente e, talora, senza troppa cautela. V.
invece, pur in relazione a problemi specifici, per es. Paoli, Verba, 315
e nota 76; Manfredini, Contributi, 65-66, le cui penetranti
osservazioni sono state da noi già commentate supra.
[52] Resta traccia, per la verità, nelle fonti di responsi dati dai
pontefici a seguito di consultazione informale, attuata in via meramente
politica (in senato, in particolare, dato che i pontefici ne erano tutti
solitamente membri e ne costituivano una sorta di commissione interna per
affari tecnici) o addirittura nell’ambito dei rapporti interpersonali
normalmente coltivati dai membri dell'élite
cittadina: in proposito, cfr. per es. Liv. 31.9.5-10, ove si dà notizia di
un’opinione informalmente espressa in senato dal pontefice massimo P. Licinio
Crasso, che poi sarebbe stato smentito dal collegio; Cic. Att. 4.2.4, ove si riferisce di una decisione adottata de omnium conlegarum sententia, ossia
dopo che un pontefice aveva vagliato il parere concorde dei colleghi
considerati uti singuli, senza che
fosse ufficialmente interpellato il collegio come tale. I responsa emessi in questi casi, pur muniti di una certa
comprensibile autorevolezza, non erano ritenuti in alcun modo vincolanti né per
le autorità interpellanti né tanto meno per gli altri membri del collegio che,
se consultati formalmente, avrebbero potuto (anche in modo radicale, come
appunto avvenne nella vicenda di Licinio Crasso) sovvertire il suggerimento che
in precedenza era stato espresso. Per un approfondimento di tutto quanto sopra,
che non è del tutto privo di rilievo anche ai fini della presente ricerca
(qualora si voglia prendere in considerazione l’ipotesi di consultazioni
informali fra il pretore ed i giuristi: cfr. infra), basti rinviare, in questa sede, al nostro A proposito, 159 ss.
[53] Per la legittimità di quest’espressione, che edifica sulla
distinzione fra sacra publica e sacra privata, si rinvia soprattutto a Fest.
[54] V. in particolare Liv. 22.10.1; 26.34.12; 29.19.7-8; 29.20.10;
31.9.5-10; 38.44.3-6; 39.4.8-12; 39.5.7-10; 41.16.1-2; Cic. dom. 53.136.
[55] V. in particolare Liv. 24.44.7-9; 27.4.15; 27.25.7-10 (ove
soprattutto compare la motivazione della decisione adottata); 27.37.4;
27.37.5-15; 30.2.13; 31.9.5-10; 32.1.9; 33.44.1-2; 34.45.7; 37.3.1; 39.5.7-10;
39.16.6-11; 39.22.4; 40.45.2; 41.16.6; Cic. har.
resp. 7.13; Att. 4.2.3-4; Hemerelogia, C.I.L. I².212 ss.
[57] V. in particolare Liv. 22.9.11; 33.44.1-2; 34.44.1-3; 39.5.7-10;
41.16.6; Cic. har. resp. 7.13. Talora
un pontefice incaricato dal collegio interveniva anche alla celebrazione della
cerimonia, si trattasse di dettare al magistrato le parole per un’esatta nuncupatio della formula del rito (è il
cosiddetto praeire verbis, di cui si
è già fatto più volte cenno) od assolvere ad altre incombenze, per lo più di
carattere simbolico (si pensi al postem
tenere in occasione della consacrazione di templi): v. qui, a titolo
meramente esemplificativo, Liv. 4.27.2; 5.41.3; 9.46.6; 10.28.14-18;
22.9.7-10.8; 31.9.5-10; 36.2.2-5; 42.28.8-9; Cic. dom. 52.133 e 135; cfr., per es., Paoli,
Verba, 297, 300, 316, 319 e nota 81; Santoro, Manu(m), 567 ss.
[59] Alludiamo, ovviamente, alle questioni postesi, nel caso concreto,
riguardo all’applicazione di norme del ius
civile.
[60] Facevano probabilmente eccezione, però, quegli atti negoziali che
pur dovevano compiersi davanti al magistrato apud quem legis actio est.
Per un elenco di fonti relative a questi negozi v. per es. Bona, Ius, 227 note 51-52.
[61] Nell’ambito della legis
actio sacramenti in rem, in particolare, ed anche a prescindere dal manum conserere e dalla sua evoluzione
storica, il pretore appare, come già detto, pienamente coinvolto, per
l’attività che deve svolgere, nella struttura formale del rito, come tale
preordinata dall’agere sacerdotale,
che sembra vincolare lui allo stesso modo delle parti. Il magistrato, infatti,
adotta i suoi provvedimenti pronunciando parole che ne presuppongono sempre
altre, in precedenza espresse dai contendenti, o addirittura seguono ad
un’attività materiale concretamente compiutasi sotto i suoi occhi, come nel
caso dell’ordine mittite ambo rem.
Cfr., in proposito, naturalmente Gai. 4.16.
[63] Su questo punto, v. in particolare Paoli,
Verba, 292, 317, anche in riferimento
al praeire verbis.
[64] Potrebbe anzi ravvisarsi, a nostro avviso, nella struttura stessa di
Pomp. D.1.2.2.6, l’implicito riferimento al magistrato: dato il binomio
privati-pontefice delegato, è forse possibile enucleare, in posizione
dialettica, il binomio pretore-collegio (del quale ultimo, non a caso, Pomponio
ha fatto cenno appena sopra, per rilevarne la competenza sulle actiones). Ciò ovviamente non esclude
che, nella sfera del processo, potesse essere emesso anche un responso
individuale, vertendo inizialmente la questione, ad es., sulle formalità, orali
o gestuali, da osservarsi da parte dei soli litiganti privati; ma non è
immaginabile che il pretore, le cui incombenze d’altronde erano, come detto,
strutturalmente connesse al formalismo delle parti, dovesse poi attenervisi,
tanto da rinunciare a consultare personalmente il collegio (il quale
primariamente era, lo ricordiamo, organo consultivo dei magistrati, come
ampiamente risulta dalle fonti: cfr, in particolare, quelle citate supra, ntt. 54-55). Sul ruolo assolto
dal pontefice annualmente delegato, nell’ambito delle legis actiones, v. soprattutto Paoli,
Verba, 293, 297, 316, anche in ordine
ai rapporti col collegio, cui avrà dovuto in qualche modo riferire (e pur con
una discutibile commistione, da noi già in precedenza discussa, fra praeesse e praeeire, di cui il primo può, anche rispetto allo stesso soggetto,
implicare il secondo, ma non viceversa).
[65] Sull’espressione responsum
pro collegio, da intendersi come «responso dato a nome del collegio», v.
per es., Cic. dom. 53.136; har. resp. 10.21; Gell.
11.3.2; cfr., per tutti, ad es. Wolf,
Comitia, quae pro conlegio pontificum
habentur, in Das Profil der Juristen
in der europaeische Tradition. Symposion Wieacker, Ebelsbach 1980, 1
ss.; G. Mancuso, Studi sul
decretum nell’esperienza giuridica romana, AUPA, 40 (1988), 79 e nota 29.
[66] I decreta pontificum
erano conoscibili in quanto probabilmente raccolti e conservati nei commentarii, distinti dai libri che invece contenevano formule
rituali: per un approfondimento di tale importante questione, che oltre tutto
involve quella relativa alla presumibile esistenza di un archivio pontificale,
si rinvia soprattutto all’ampia opera di F.
Sini, di cui v. qui, per es., Documenti
sacerdotali di Roma antica, I, Libri
e commentarii, Sassari 1983, 96
ss., ed il recente Sua cuique civitati
religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 75 ss.;
cfr. ad es. L. Lange, Römische Alterthümer³, I, Berlin 1876,
27, 337-338, 347; Paoli, Verba, 315 e nota 76; G.J. Szemler, s.v. Pontifex, RE Suppl.,
15 (1978), 364-366.
[67] Su questa linea, essenzialmente, Mancuso,
Studi, 78-85, che tuttavia, pur individuando intelligentemente la categoria dei
responsi collegiali non resi esecutivi dal senato, attribuisce ad essa una
ampiezza forse eccessiva, non approfondendo l’indagine allo scopo di meglio
illustrare in quali casi fosse, presumibilmente, previsto l’esperimento di tale
procedura semplificata.
[68] V. Gai. 4.11, che è poi, lo ricordiamo, la fonte medesima che
riferisce del responso su vites ed arbores.
[69] Tale espressione ricorre frequentemente nelle fonti, specie
laddove si riferisce degli avvicendamenti annualmente verificatisi all’interno
dei collegi: v. qui, per es., limitatamente ai pontefici ed al periodo compreso
fra il 218 ed il 167 (quello per cui esiste il maggior numero di testimonianze
in proposito), Liv. 25.2.1-2; 26.23.7-8; 41.21.8-9; 42.28.10-13.
[70] Sul particolare, quasi autonomo rilievo acquisito dalla interpretatio pontificale in materia
processuale si sofferma, talora, la dottrina (v. ad es., significativamente, Guarino, Una palingenesi delle XII Tavole?, «Index», 19 (1991), 228); anche se non manca chi giustamente sottolinea (v.
per es. Amirante, Famiglia libertà città nell'epoca
decemvirale, in Società e diritto
nell' epoca decemvirale (Atti Copanello 1984), Napoli 1988, 67-71) che vi
erano nessi storici e genetici fortissimi fra i tria iura menzionati da Pomp. D.1.2.2.6, i quali concorrevano tutti
a formare il ius civile inteso come nomen commune.