N. 4 – 2005 – Contributi

 

BREVI NOTE IN TEMA DI INDAGINI PER I REATI DI CRIMINALITA’ ORGANIZZATA

 

Giovanni Barrocu

Università di Trieste

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. I rapporti con il pubblico ministero. – 3. I poteri.

 

 

1. – Premessa

 

La necessità di contrastare più efficacemente i fenomeni di criminalità organizzata ha indotto il legislatore a prevedere, segnatamente a partire dal 1991, nuovi modelli organizzativi costituiti da servizi centrali ed interprovinciali di polizia giudiziaria volti sia a coordinare le investigazioni delle altre unità di polizia in materia di reati di particolare allarme sociale, sia a svolgere direttamente un’attività investigativa caratterizzata da particolare agilità operativa[1]. Il fine che ha ispirato la costituzione di tali nuovi modelli è lo stesso che ha determinato l’istituzione della Direzione nazionale e delle Direzioni distrettuali antimafia permettendo, così, un adeguamento delle caratteristiche degli uffici del pubblico ministero alla marcata diffusione territoriale delle principali e più pericolose organizzazioni criminali[2].

Sembra opportuno ricordare preliminarmente come attraverso la creazione di servizi centralizzati di polizia si sia voluto impedire che l’attività di prevenzione ed indagine in materia di criminalità organizzata venga dispersa fra più organismi - non sempre dotati di adeguata specializzazione o sofisticate strutture -, o si svolga in forme non coordinate e senza il supporto dei necessari collegamenti investigativi[3]. Nella definizione di servizi centralizzati di polizia possono ricomprendersi sia la Direzione investigativa antimafia (istituita con il d.l. 29/10/1991 n. 345, conv. con modif. nella l. 12/7/1991 n. 203) che i servizi centrali ed interprovinciali delle forze di polizia  (art. 12 d.l. 13/5/1991 n. 152, conv. con modif. nella l. 15/3/1991 n. 82) e i nuclei interforze per le indagini relative ai sequestri di persona (art. 8 d.l. 15/1/1991, n. 8 conv. con modif. nella l. 15/3/1991, n. 82). La Direzione investigativa antimafia (DIA) è un servizio centralizzato a struttura assolutamente nuova, istituita nell’ambito del dipartimento della Pubblica sicurezza, con la finalità di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative esclusivamente a delitti di associazione di tipo mafioso o a reati che costituiscono espressione tipica di questa forma delinquenziale, nonché di assicurare lo svolgimento in forma coordinata delle attività di investigazione preventiva e di sicurezza. L’organismo ha una composizione interforze, risultando composta da personale dei ruoli della polizia di Stato, dell’arma dei carabinieri e del corpo della guardia di finanza, e si articola in una struttura centrale e in strutture periferiche che possono essere stabili o temporanee (i c.d. centri operativi)[4]. Alla DIA è preposto, come direttore tecnico-operativo, un funzionario delle forze di polizia con specifiche esperienze nella lotta alla criminalità organizzata. Con l’istituzione di questo nuovo organo, si è perseguito l’obiettivo di fornire funzionalità ed efficacia ai servizi centralizzati, caratterizzati, anch’essi, dalla massima accentuazione del livello di professionalità degli addetti, e non di far ricorso ad una struttura sovrapposta a quelle già esistenti[5].

I servizi centrali ed interprovinciali[6] hanno la funzione di assicurare il collegamento delle attività investigative relative a questi delitti di grave criminalità e di intraprendere, in via prioritaria, l’azione di contrasto contro le associazioni criminali. Allo scopo di raggiungere questi obiettivi, oltre a svolgere attività di indagine, acquisiscono ogni dato informativo o conoscitivo e si coordinano[7] tra loro e con gli altri organi di polizia giudiziaria anche straniera[8] eventualmente interessati. La funzione di supporto informativo e di investigazione giudiziaria dei servizi centrali ed interprovinciali, acquisisce una importanza fondamentale se si considera che, per la DIA, l’attività di indagine costituisce solo un compito sussidiario e legato al compimento di indagini mirate o collegate di particolare ampiezza anche territoriale[9].

Nonostante la previsione normativa di un coordinamento tra i diversi centri operativi, e tra questi e la DIA, l’esperienza di questi anni ha evidenziato sia il pericolo della mancanza di un effettivo collegamento tra i servizi centralizzati e le altre strutture di Polizia operanti sul territorio, sia il rischio di sovrapposizioni e duplicazioni dell’attività investigativa, fino alle difficoltà di individuare con chiarezza gli ambiti di reale operatività dei servizi in questione. E’ pertanto auspicabile un intervento legislativo che, risolvendo la situazione di incertezza, permetta di adeguare gli attuali assetti organizzativi alle rapide trasformazioni in atto all’interno delle organizzazioni criminali, sempre più orientate verso una attività delinquenziale maggiormente diffusa[10], senza disperdere le professionalità specifiche acquisite dal personale dei servizi centralizzati.

 

 

2. – I rapporti con il pubblico ministero

 

Ciò premesso, vediamo ora come si articolano i rapporti tra i menzionati organismi ed il pubblico ministero, sul quale incombe l’obbligo, nel momento in cui gli perviene la notizia di reato relativa ad un delitto di criminalità organizzata, di avvalersi dei servizi centrali ed interprovinciali di polizia, impartendo le opportune direttive per lo svolgimento congiunto e coordinato dell’attività di indagine. Difatti, fermi restando i poteri di collegamento spettanti al direttore centrale della polizia criminale, il procuratore distrettuale rimane il dominus delle indagini con il preciso dovere di avvalersi congiuntamente di tali servizi;ma c’è di più: l’art. 371-bis co. 1 c.p.p., al fine specifico di evitare sovrapposizioni e divergenze nella conduzione delle indagini, prevede espressamente che, per le investigazioni relative ai delitti di sua attribuzione, il procuratore nazionale antimafia possa disporre direttamente dei servizi in questione e regolare anche le modalità del loro impiego da parte delle procure distrettuali procedenti[11].

Se si escludono le difficoltà nel coordinamento, dovute al moltiplicarsi di organismi specializzati, ciò che in questi anni ha creato le maggiori difficoltà nei rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, è stata proprio la disciplina della comunicazione della notizia di reato prevista dall’art. 347 co. 1 c.p.p. Questa infatti, pur non contenendo quegli aspetti di “valutazione riassuntiva” che caratterizzavano il “rapporto di polizia giudiziaria”[12] previsto dal codice del 1930, si dovrebbe presentare innanzitutto come uno strumento conoscitivo idoneo a consentire al pubblico ministero l’iscrizione del fatto di reato nell’apposito registro e a porlo in condizione di orientare e dirigere le indagini. Invero, per permettergli una reale attività direttiva, la polizia giudiziaria dovrebbe descrivergli il reato con tempestività e precisione, sia nei suoi elementi essenziali sia con riguardo all’attività investigativa compiuta nell’immediatezza della scoperta del fatto[13]. L’art. 347 c.p.p., invece, nella sua formulazione originaria, imponeva alla polizia giudiziaria l’obbligo di riferire la notizia entro quarantotto ore dalla sua acquisizione senza possibilità di differimento, con la conseguente trasmissione al pubblico ministero di notitiae criminis non sufficientemente individuate e sviluppate, carenti dei principali elementi di prova idonei a sostenerle. I tempi ristretti in cui si trovava ad operare, costringevano la polizia giudiziaria a trasmettere notizie di reato “investigativamente mute” che rendevano sostanzialmente impossibile l’indicazione di appropriate direttive, oltre a far decorrere infruttuosamente i termini per le indagini preliminari. Inoltre, secondo una lettura restrittiva del disposto dell’art. 348 co. 1 c.p.p., si riteneva che quest’ultima, una volta comunicata la notizia di reato, non potesse svolgere alcuna attività investigativa finché non fossero intervenute le direttive del pubblico ministero, che, per di più, dovevano essere intese come limiti invalicabili di tale attività investigativa[14]. Si veniva così a creare una pericolosa stasi in cui, i due soggetti principali delle indagini preliminari, non erano posti in grado di adempiere correttamente alle relative funzioni, ed è al fine di risolvere questa situazione che il d.l. 8/6/1992, n. 306 conv. con modif. nella l. 7/8/1992, n. 326 ha modificato gli artt. 347 e 348 c.p.p. Vediamole brevemente.

Le innovazioni apportate all’art. 347 c.p.p. consentono più articolate ed elastiche modalità di comunicazione della notizia di reato al pubblico ministero: in particolare la notitia criminis va data senza ritardo in tutti i casi in cui non siano presenti le specifiche ragioni di urgenza e gravità indicate nel comma 3 dell’art. 347 c.p.p., o nel caso in cui l’urgenza debba essere desunta dalla necessità di non violare i diritti difensivi dell’indagato.

Si sancisce, quindi, l’innovativo principio – in considerazione non tanto del dato letterale dell’abrogato art. 347 c.p.p., quanto della anelastica interpretazione di cui era stato oggetto – che, in tutte le ipotesi in cui non ricorrano le specifiche esigenze sopra richiamate, non è necessario un immediato controllo sull’indagine da parte del pubblico ministero, ma è, invece, sufficiente che esso avvenga tempestivamente: “senza ritardo”, appunto, con tempi e modalità che non snaturino, né compromettano, il ruolo di direzione del pubblico ministero e l’efficace attività di indagine della polizia giudiziaria.

Per ciò che concerne le particolarità riguardanti i delitti di criminalità organizzata è importante analizzare brevemente il co. 3 dell’art. 347 c.p.p. In seguito alle modifiche suddette, ora, se si indaga per taluno dei reati previsti dall’art. 407 comma 2 lett. a), ed in ogni caso se sussistono ragioni di urgenza, la comunicazione della notizia di reato deve essere data immediatamente anche in forma orale; alla comunicazione orale deve comunque seguire, senza ritardo, quella scritta così come previsto dai commi 1 e 2 dello stesso art. 347 c.p.p.[15]. Il richiamo all’art. 407 co. 2 lett. a) c.p.p.[16] è comprensivo sia dei delitti di stampo mafioso di cui all’art. 51 co. 3-bis, sia di altri gravissimi reati tra cui quelli in materia di eversione e terrorismo previsti dal co. 3-quater dell’art. 51 c.p.p., sia quelli di criminalità organizzata c.d. “comune”. Questa eccezione alla disciplina generale, sta a significare che il legislatore ha voluto assicurare un immediato ed efficace raccordo tra attività della polizia giudiziaria ed informazione del pubblico ministero con particolare riguardo ai reati di notevole allarme sociale[17].

Si aggiunga che, con la modifica dell’art. 348 c.p.p., da un lato, si chiarisce che pure dopo la comunicazione la polizia giudiziaria continua a svolgere le funzioni di iniziativa[18] assegnatele dall’art. 55 c.p.p. e, dall’altro, che, pur intervenute le direttive del pubblico ministero, la prima continua a svolgere attività anche oltre l’ambito da queste segnato, perseguendo proprie linee investigative[19].

Premesso che  l’attività di iniziativa consiste nel compimento di qualsiasi attività, tipica o atipica, di informazione, investigazione ed assicurazione diretta alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole, le innovazioni introdotte consentono di delineare, all’interno dell’attività ad iniziativa della polizia giudiziaria, varie e distinte sottocategorie[20] che assumono la fisionomia o di un’attività autonoma, rappresentata da quella compiuta dopo l’acquisizione della notizia di reato e sino a quando non intervengono le direttive del pubblico ministero (art. 348 co. 1 c.p.p.), che, peraltro, potrebbero anche non essere mai impartite; ovvero di un’attività guidata: quella svolta nell’ambito delle direttive impartite del pubblico ministero (348 co. 3 c.p.p.), fermo restando che queste devono comunque essere intese come istruzioni che si limitano ad indicare l’obiettivo di indagine, rimanendo la polizia giudiziaria titolare di una discrezionalità tecnica - che distingue questo tipo di attività da quella delegata - in ordine alla scelta dei mezzi e delle investigazioni più idonee al perseguimento degli scopi di indagine indicati dal pubblico ministero; oppure di indagini successive, svolte sulla base di quanto richiesto da elementi emersi in un secondo momento (art. 348 co. 3 c.p.p.); resta, infine, la possibilità di un’azione parallela, costituita dall’attività autonoma compiuta dopo aver ricevuto le direttive del pubblico ministero ed, indipendentemente da queste, in attuazione di proprie linee investigative (come risulta dal novellato comma 3 dell’art. 348 c.p.p.).

 

 

3. – I poteri

 

Visti i margini di autonomia investigativa della polizia giudiziaria, restano da analizzare brevemente gli speciali poteri ad essa attribuiti - per l’esigenza di arginare il fenomeno mafioso - che le consentono, quando si procede per un delitto di criminalità organizzata, di superare gli ordinari limiti normativi.

Innanzitutto, è stata ampliata l’area del potere-dovere di arresto in flagranza, introducendolo per i casi di “delitti di partecipazione, promozione, direzione o organizzazione della associazione di tipo mafioso, prevista dall’art. 416-bis del c.p.”, laddove l’introduzione della lettera  l-bis nell’art. 380 co. 2 c.p.p. si risolve in un allargamento dell’area dell’arresto obbligatorio in flagranza meno ampio di quanto sembri[21], posto che tutte le condotte ivi descritte rientrano già nella previsione del  co. 1[22], con l’importante eccezione della mera partecipazione punita con la reclusione da tre a sei anni[23].

I soli ufficiali di polizia giudiziaria possono procedere, inoltre, ex art. 27 co. 2 l. 19/3/1990 n. 55 alla perquisizione, sia personale che locale, ivi compresa quella domiciliare, per ricercare denaro o valori, costituenti il prezzo della liberazione della persona sequestrata o i proventi di taluni delitti ovvero armi, munizioni o esplosivi [24]. Le perquisizioni de quibus devono avvenire nel corso di una attività programmata e predisposta in vista della prevenzione e repressione di gravi delitti, quando ricorrano casi eccezionali di necessità e urgenza, tali da non consentire un tempestivo provvedimento dell’autorità giudiziaria, non potendo, quindi,  essere compiute per iniziativa estemporanea del singolo ufficiale di polizia giudiziaria[25]. Ricorrendo  queste condizioni, quando sia stato commesso taluno di siffatti gravi delitti, o si debba  ricercare un latitante o un evaso, la polizia giudiziaria può altresì ricorrere a vere e proprie operazioni di rastrellamento urbano tramite le perquisizioni di edifici o di interi blocchi di costruzioni, al fine di introdursi in quei “quartieri bunker” che costituiscono veri e propri presidi armati delle organizzazioni criminali.

Alla polizia giudiziaria è, inoltre, conferito il potere di effettuare ispezioni per la prevenzione e repressione degli stessi reati, con la differenza che in questi casi vi possono procedere sia gli ufficiali che gli agenti, e l’ispezione può avere ad oggetto solo mezzi di trasporto, bagagli ed effetti personali, con l’importante esclusione dell’ispezione personale.

In aggiunta a queste particolari attribuzioni, vi è una gamma di speciali poteri caratterizzati dall’essere concessi esclusivamente ai servizi centrali ed interprovinciali della polizia giudiziaria. Il legislatore, difatti, dimostrando un particolare fiducia sull’efficienza delle specifiche articolazioni delle forze di polizia, ha dotato il relativo personale di poteri e facoltà che si differenziano rispetto alle normali competenze degli appartenenti delle forze stesse e che spesso corrispondono ai poteri e alle facoltà attribuiti al personale della DIA che, come già accennato, con queste forze speciali si coordinano.

Innanzitutto, occorre considerare quegli speciali poteri attribuiti dal legislatore a tali servizi specializzati che, per rendere più agile e sofisticata l’attività di contrasto della criminalità organizzata, consente l’infiltrazione nel circuito criminale al fine di compiere simulatamente operazioni (c.d. sotto copertura) di acquisto di droga, di ricettazione di armi e di riciclaggio[26]. L’attività deve essere preceduta dall’autorizzazione del pubblico ministero che ha un’efficacia scriminante e può spingersi fino a ricomprendere le c.d. operazioni o consegne controllate, le quali consentono ai servizi specializzati impegnati in specifiche indagini, di differire o addirittura omettere - anche qui, andando esenti da responsabilità - il compimento degli atti di competenza, quali il sequestro, la cattura, l’arresto o il fermo, quando tali atti sarebbero intempestivi o inopportuni ai fini delle indagini[27] (art. 12-quater d.l. 8/6/1992, n. 306 conv. con modif. nella l. 7/8/1992, n. 326).

Inoltre, secondo il dettato dell’art. 16 del citato d.l. 306/1992, il personale dei suddetti servizi ha la facoltà di visitare gli istituti penitenziari e può essere autorizzato ad avere colloqui investigativi con detenuti e internati allo scopo di ottenere informazioni utili alla prevenzione e repressione di gravi delitti[28]. Il colloquio può avvenire con detenuti o internati per qualsiasi tipo di reato, ma deve avere, come esclusiva finalità, l’acquisizione di informazioni utili per la prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata; l’autorizzazione dovrà essere data dal pubblico ministero per le persone sottoposte ad indagini, e dal ministro della giustizia quando il colloquio debba avvenire con internati, condannati o imputati. In seguito a questi colloqui, in base al disposto dell’art. 4-bis ord. penit. co. 1 e 3, i responsabili dei Servizi svolgono la fondamentale funzione di fornire al procuratore nazionale antimafia, al procuratore distrettuale e al giudice di sorveglianza ogni notizia utile circa gli attuali legami con la criminalità organizzata dei condannati che chiedono di fruire dei benefici penitenziari[29].

Un’ulteriore facoltà attribuita ai responsabili dei servizi ha ad oggetto la possibilità di richiedere l’autorizzazione ad effettuare intercettazioni di comunicazioni telefoniche e ambientali, superando i limiti imposti dall’art. 266 c.p.p., quando siano necessarie per l’attività di prevenzione e d’informazione in ordine ai delitti previsti dall’art. 51 co. 3-quater c.p.p. In questo regime differenziato, i presupposti per la concessione dell’intercettazione sono notevolmente attenuati in quanto ci si accontenta della sussistenza di sufficienti indizi di reato e di una valutazione  di necessità dell’intercettazione per lo svolgimento delle indagini che comporta la possibilità per il g.i.p. di disporla anche quando non sia l’unica scelta investigativa utilmente perseguibile. Inoltre, esiste una notevole differenza nei tempi di durata massima consentita per le operazioni: fino a quaranta giorni per il primo provvedimento del g.i.p., con possibilità di proroghe per periodi successivi di venti giorni, e con l’ulteriore precisazione per cui, nei casi di urgenza, lo stesso pubblico ministero può provvedere direttamente alla proroga.

A questa più snella disciplina, evidentemente modellata anche in relazione alle particolari caratteristiche di difficoltà e di durata tipiche di molti procedimenti per reati di criminalità organizzata, si è successivamente aggiunta una nuova disposizione volta a modificare, sempre con riferimento a procedimenti di questo tipo, il regime delle intercettazioni ambientali destinate a svolgersi nel domicilio e negli altri luoghi indicati dall’art. 614 c.p.p. In particolare si è esplicitamente consentito che, nel corso degli stessi procedimenti, tali intercettazioni possano venire disposte “anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa”. E’ stato così superato – alla luce delle notevoli difficoltà investigative ricordate poco sopra per i reati di criminalità organizzata – il limite stabilito per le intercettazioni ambientali nel domicilio dall’art. 266 co. 2 c.p.p., che in pratica circoscrive l’ammissibilità delle medesime alle sole situazioni di flagranza dell’attività criminosa[30].

Un breve cenno meritano anche le peculiarità della regolamentazione delle intercettazione preventive. L’art. 226 disp. coord. c.p.p., modificato dalla l. 15/12/2001 n. 438, consente di effettuare intercettazioni telefoniche al solo scopo di “prevenire” il compimento di determinati delitti particolarmente gravi in tema di criminalità organizzata mafiosa o terroristica. Il pubblico ministero, servendosi dei servizi centrali ed interprovinciali di polizia, dispone con decreto le intercettazioni quando “vi siano elementi investigativi che giustifichino l’attività di prevenzione”, con la precisazione che gli elementi acquisiti non potranno mai essere utilizzati nel procedimento penale ma dovranno avere una mera funzione investigativa.

Rimanendo nell’ambito dei poteri della polizia giudiziaria pare opportuno sottolineare brevemente le novità introdotte dal d.l. 27 luglio 2005, n. 144 (convertito, con modificazioni, in l. 31 luglio 2005, n. 155) recante “misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale”. Una prima modifica è stata apportata in materia di identificazione personale tramite l’aggiunta dopo il comma 2 dell’art. 349 c.p.p. - che attribuisce il potere alla polizia giudiziaria di procedere a rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici, nonché altri accertamenti per l’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini - del comma 2-bis, che prevede la possibilità, nel caso in cui gli accertamenti debbano consistere in prelievi di capelli o saliva e manca il consenso dell’indagato, di procedere al “prelievo coattivo nel rispetto della dignità personale del soggetto, previa autorizzazione scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, del pubblico ministero”.

Con questa nuova legge si è operato su quei poteri che la polizia giudiziaria esercita di autonomamente, appena inizia un procedimento penale o, magari, anche prima che vi sia la possibilità di riferire la notizia di reato al pubblico ministero, ed in particolar modo sui poteri che essa ha di procedere all’identificazione delle persone nei cui confronti vengono svolte le indagini, nel senso di consentire alla polizia giudiziaria anche di sottoporre l’indagato al test del dna[31] previa autorizzazione del pubblico ministero.

Ad una iniziale lettura del comma 2-bis dell’art. 349 c.p.p., i primi commentatori hanno sollevato seri dubbi di costituzionalità[32]. Difatti, si deve considerare che il prelievo coattivo costituisce restrizione della libertà personale[33], quali che siano le modalità, anche non invasive, in cui il prelievo avviene, e che l’art. 13 Cost. stabilisce che qualunque restrizione della stessa richiede un atto motivato dell’autorità giudiziaria ed una legge che, limitando la discrezionalità di tale autorità, preveda casi e modi in cui tale limitazione può consumarsi. Invece, anche ad una prima analisi, si può osservare come questa norma non rispetti la riserva di legge, attribuendo alla polizia giudiziaria un potere indifferenziato, senza una selezione dei casi in cui si può procedere al prelievo. L’inquadramento costituzionale consente di mettere a fuoco la logica assai insidiosa seguita dal legislatore[34]. Si deve tenere conto, infatti, che la Corte costituzionale è già intervenuta su questa materia sancendo, nella sentenza n. 238/1996, l’illegittimità costituzionale dell’art. 224 co. 2 c.p.p. nella parte in cui attribuiva al giudice un potere sostanzialmente analogo a quello ora conferito alla polizia giudiziaria. Tale norma consentiva al giudice di effettuare prelievi coattivi in mancanza di una legge che ne stabilisse chiaramente le condizioni di applicabilità. In seguito alla sentenza si era però creato un vuoto normativo che impediva di effettuare prelievi coattivi a qualunque imputato che non fosse consenziente: di qui, l’esigenza, da più parti avvertita, di una legge volta a colmare tale lacuna legislativa. Ciò che più sorprende è il modo in cui il legislatore è intervenuto, riproponendo, non solo l’indeterminatezza dei casi che aveva portato alla pronuncia della Corte costituzionale, ma affievolendo ancor di più le garanzie con l’attribuire tale iniziativa alla polizia giudiziaria. E’ auspicabile, quindi, che alla legge de qua seguano interventi normativi più meditati, non determinati da contingenze internazionali che, in questa occasione, hanno più che altro esaltato le esigenze preventive mirando ad un rafforzamento dei poteri di polizia[35]. Difatti, analizzando con maggiore attenzione la norma, emerge come la vera funzione attribuita alla polizia giudiziaria non sia quella identificativa – funzione svolta già efficacemente dai rilievi dattiloscopici –, ma piuttosto quella di creare un archivio informativo utile per l’accertamento di reati futuri, o già commessi, dei quali si hanno tracce genetiche da confrontare. Una tale politica legislativa sembrerebbe voler introdurre capziosamente, una modalità di archiviazione dei dati genetici che superi, di fatto, le rilevanti problematiche  giudiziarie e di tutela della privacy costituite dalla creazione di una banca dati genetica. 

La legge della quale si parla ha introdotto, poi, un’altra novità nell’istituto dell’identificazione personale, relativa al tempo massimo in cui la polizia giudiziaria può trattenere le persone sottoposte alle indagini o in grado di riferire circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti, inserendo alla fine del quarto comma dello stesso art. 349 la previsione in base alla quale nel caso in cui “l’identificazione risulti particolarmente complessa, oppure occorra l’assistenza dell’autorità consolare o di un interprete” previo avviso anche orale al pubblico ministero, può trattenere tali soggetti nei propri uffici non oltre le ventiquattro ore. Nonostante risulti palese l’intenzione del  legislatore di evitare il rilascio di persone non ancora identificate quando si persegua il fine di contrastare e prevenire fenomeni di terrorismo internazionale, il “ritorno storico” della legislazione dell’emergenza non convince in quanto riporta alla luce problemi sorti durante l’ultima stagione legislativa di contrasto alle stragi mafiose. In particolare ciò che genera i maggiori dubbi, oltre all’opportunità di intervenire su un corpo normativo  unitario come il codice di procedura penale con decreti-legge emanati in tutta fretta, è l’introduzione di disposizioni limitative della libertà personale per la necessità di contrastare particolari fenomeni criminali, nel caso di specie il terrorismo internazionale, che si traducono in modifiche di normative che restano comunque applicabili per qualsiasi tipo di reato.

Va, infine, ricordato come l’art. 13 della legge 155/2005 abbia introdotto nuove disposizioni in materia di arresto in flagranza di reato e di fermo di indiziato di delitto. Invero, sostituendo nella formulazione della lettera i) dell’art. 380 c.p.p. la frase “ pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni” con quella “pena della reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni” è stato abbassato il minimo edittale richiesto per l’arresto obbligatorio in flagranza di delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

L’art. 381 co. 2 c.p.p., inoltre, si è arricchito di un ulteriore caso in cui gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria hanno facoltà di arrestare in flagranza costituito dal nuovo reato, introdotto dall’art. 10 co. 4 l. 155/2005, di possesso e fabbricazione di documenti di identità falsi[36] (art. 497-bis c.p.).

Quanto al fermo di un indiziato, quando si proceda per un delitto commesso con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, va sottolineato come questo sia ora consentito indipendentemente dalla pena edittale prevista, introducendosi inoltre la specificazione che il possesso di documenti falsi – di cui al comma 3 dell’art. 384 c.p.p. - integra la sussistenza degli specifici elementi sopravvenuti che consentono alla polizia giudiziaria di procedere al fermo, in casi di urgenza, senza attendere il provvedimento del pubblico ministero, in quanto può ragionevolmente presumersi che l’indiziato possa sottrarsi al procedimento penale fuggendo all’estero.

Da quanto finora esposto emerge con chiarezza come il fine perseguito dalla disciplina de qua sia quello di attribuire la massima efficienza ai diversi corpi di polizia giudiziaria specializzati nella lotta alla criminalità organizzata, ponendoli gerarchicamente sotto le direttive di un’unica procura[37] ed imponendogli di coordinarsi tra di loro al fine di svolgere indagini rapide e complete. In questo modo si sono voluti creare speciali poteri che, derogando ai limiti previsti per i procedimenti relativi a reati comuni, consentisse alle forze di polizia di operare agilmente assicurando prontamente al procedimento indispensabili elementi di prova. La disciplina della quale si parla e, più in generale, l’intera normativa avente ad oggetto il procedimento per i reati di criminalità organizzata, è stata sottoposta, negli anni successivi alla sua introduzione, a numerosi correttivi che ne hanno attenuato la valenza repressiva[38], tuttavia, questa, non si è mai dovuta confrontare con una vera propria emergenza delinquenziale. Se si considera che la previsione di una normativa differenziata per i reati di criminalità organizzata, anche così come è ora concepita, non può non stridere con princìpi costituzionali quali l’eguaglianza e la presunzione di innocenza[39], ciò che è opportuno domandarsi è se, di fronte ad una nuova ondata criminale, il legislatore si fiderà della “tenuta” di queste norme o procederà, come spesso è avvenuto in passato, ad uno stravolgimento della disciplina creando un divario ancor più netto con la disciplina ordinaria[40]. A giudicare dalla l. 155/05 la tendenza sembrerebbe orientata verso un pericoloso ritorno storico alla legislazione dell’emergenza, che, come è noto, ha portato in Italia, nel periodo “caldo” della lotta alla mafia, ad una notevole compressione delle garanzie processuali attribuite agli imputati[41]. In questa situazione di evidente crisi internazionale e di nuova emergenza terroristica, ciò che pare auspicabile è che non vengano posti in dubbio princìpi irrinunciabili - considerati ormai espressione fondamentale di civiltà giuridica - in nome dell’efficienza processuale e del c.d. recupero del sapere investigativo.

 

 



 

[1] L. D’Ambrosio – P.L. Vigna, La pratica di polizia giudiziaria, Padova, 1998, 54.

 

[2] Sia nel codice di procedura penale che in leggi speciali sono presenti numerose disposizioni che derogano alla normativa ordinaria al fine di contrastare i fenomeni di criminalità organizzata,  per ciò che concerne nello specifico le indagini merita ricordare la particolare disciplina dei termini delle indagini preliminari, per un commento critico della quale si veda P. Corso, Indagini preliminari segrete per un anno, in Italia oggi, 1992, n. 6 e M. Frigo, Martelli  firma  il nuovo codice di polizia, in studio legale,1992, n. 3.

 

[3] P.L. Vigna, Le «nuove» indagini preliminari nei procedimenti per i delitti di criminalità organizzata, in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di V. Grevi, Roma – Bari, 1993, 57.

 

[4] L.D’Ambrosio – P.L.Vigna, op. cit., 59.

 

[5] L. Ferrajoli, Il coordinamento delle indagini nei procedimenti di criminalità organizzata, in Mafia e criminalità organizzata, coord. da P. Corso – G. Insolera – L. Stortoni, Torino, 1995, 429.

 

[6] Sono composti dal  Servizio centrale operativo della polizia di stato (S.C.O.), il Raggruppamento operativo speciale dell’arma dei carabinieri (R.O.S.), il Gruppo di investigazione sulla criminalità organizzata della guardia di finanza (S.C.I.C.O.). Orientativamente si può affermare che le direttrici di prevalente impegno dello S.C.O. consistono nel contrasto alla grande criminalità organizzata, in tutte le sue espressioni delinquenziali più gravi, anche nelle possibili forme di contaminazione dei settori dell’economia, della finanza e delle informazioni; del R.O.S. nei fatti di eversione, sequestri di persona, ricerca di latitanti e nei casi di accertata complessità dei reati ,con particolare riferimento a quelli che fanno capo a sodalizi mafiosi; dello  S.C.I.C.O. nell’individuazione dei flussi illeciti di riciclaggio, attraverso indagini nei confronti degli intermediari finanziari tipici e atipici (istituti di credito, società fiduciarie, finanziarie, leasing, factoring, e simili), degli appaltatori e sub-appaltatori di opere pubbliche e dei precettori di finanziamenti o contributi erogati da enti pubblici nazionali o comunitari.

 

[7] I servizi centrali ed interprovinciali, in determinate regioni o per particolari esigenze, si coordinano tra loro secondo il modello “interforze” a seguito di decreto emesso dal ministro dell’interno di concerto con i ministri di giustizia, della difesa e delle finanze.

 

[8] “A tale proposito, l’Accordo di Schengen e la relativa Convenzione (ratificati e resi esecutivi della L. 30/9/1993, n. 288) prevedono che la cooperazione tra i servizi di polizia avvenga tra l’altro mediante: a) la preventiva armonizzazione delle normative e, in particolare, di quelle relative alla immigrazione, agli stupefacenti, alle armi e agli esplosivi; b) la creazione di una banca dati informatizzata accessibile a tutti gli stati contraenti (c.d. Sistema d’informazione Schengen – SIS) contenente un complesso di informazioni idoneo ad agevolare i controlli di frontiera, di polizia e di dogana; c) il distacco all’estero di funzionari di polizia aventi compiti di collegamento, per un più efficace scambio delle informazioni in tema di lotta alla criminalità organizzata e per effettuare le richieste di assistenza.” Così, L. D’Ambrosio – P.L. Vigna, op. cit., 281.

 

[9] L. D’Ambrosio – P.L. Vigna, op. cit., 60.

 

[10] Pur restando il racket, il traffico internazionale di stupefacenti e di armi le principali fonti di profitto delle organizzazioni di stampo mafioso, si è assistito in questi anni ad un’accentuazione della c.d. microcriminalità, tramite l’inserimento nel tessuto delle organizzazioni di soggetti, generalmente minorenni, in condizioni economiche particolarmente disagiate, per la distribuzione “al dettaglio” di droga ed armi.

 

[11] L. D’Ambrosio – P.L.Vigna, op. cit., 61.

 

[12] Si veda sull’argomento, A. Tricoci, Sub art. 347, in Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di G. Conso - v. Grevi, Padova, 2005, «[…] il legislatore del 1988 ha innovato profondamente rispetto al c.p.p abr. Sopprimendo l’istituto del rapporto di p.g. e prevedendo, invece, un atto di informazione asciutto e stringato. Invero, il rapporto di p.g. non esauriva la sua funzione nella comunicazione della notizia di reato al p.m., ma costituiva un atto valutativo dell’attività  già compiuta dalla stessa p.g. destinato ad assumere valore probatorio ed idoneo, pertanto, a condizionare l’intero sviluppo delle successive fasi processuali».

 

[13] Il rapporto di polizia giudiziaria poteva meglio adempiere a tale funzione favorito, in ciò, dalla notevole elasticità del termine entro il quale doveva essere inviato, poiché l’art. 2 c.p.p. abr. prevedeva che la trasmissione dello stesso dovesse avvenire “senza ritardo”, a conclusione della c.d. “istruttoria di polizia

[14] P.L. Vigna, Le «nuove» indagini, cit., 57.

 

[15] Sul punto cfr. P. Corso - S. Guadalupi, Anticriminalità, un decreto ancora tutto da discutere, in Italia oggi, n. 6, 1992, 23 nonché M. Cicala, Un maxi decreto contro la criminalità organizzata, in Corr. giur., 1992, 715 il quale osserva «non vi è dunque alcuna necessità che sia il magistrato ad elaborare le direttive di carattere generale cui la polizia debba uniformarsi nella repressione del fenomeno mafioso».

 

[16] Inizialmente, il richiamo si riferiva all’art. 275 co. 3 più volte emendato dal 1989 ad oggi e che prevede la deroga all’extrema ratio nella scelta delle misure cautelari idonee per gli specifici delitti in esso indicati, ma, avendo questo perso la funzione di riferimento normativo per l’individuazione dei delitti per cui si applica il cosiddetto “doppio binario”,a causa della  modifica della tipologia dei reati richiamati, questa funzione è stata trasferita all’art. 407.

 

[17] In tal senso, P. Corso, Codice di procedura penale e criminalità organizzata, in mafia e criminalità organizza, cit., 136 ss.

 

[18] Si veda in tal senso Cass. 17 dicembre 1998, Bartoli, in Cass. pen., 2000, 3082 con nota adesiva di R. Cantone, I poteri della polizia giudiziaria prima e dopo l’intervento del pubblico ministero, in Cass. pen., ivi, 3083.

 

[19] P.L. Vigna, Le «nuove» indagini, cit., 55,  «i benefici del nuovo sistema sono palesi, sotto il profilo investigativo anche se esso evidenzia un costo non irrilevante, rappresentato da un certo qual distacco tra il pubblico ministero, che continua a impersonare il ruolo di direttore delle indagini e la polizia giudiziaria», in senso chiarificatore della disciplina, A. Nappi, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano 1992, 144, il quale esclude che la polizia giudiziaria possa svolgere indagini incompatibili con le direttive impartite dal pubblico ministero.

 

[20] L.D’Ambrosio – P.L. Vigna, op. cit. , 247 e ss., v. pure, A. Nappi, Guida al nuovo codice, cit., 144 ss.

 

[21] Lettera inserita dall’art. 4 d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356.

 

[22] Secondo il quale la polizia giudiziaria procede «all’arresto di chiunque è colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni».

 

[23] Lo sottolinea P. Corso, Codice di procedura penale e criminalità organizzata, in Mafia e criminalità organizza, cit., 136 ss.

 

[24] I delitti per cui sono concessi questi straordinari poteri sono: associazione di tipo mafioso (416-bis c.p.) e delitti commessi in relazione ad essa; riciclaggio (art. 648-bis c.p.); reimpiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.); rapina aggravata (art 629 co. 2 c.p.); sequestro di persona a scopo di estorsione (artt. 289-bis, 630 c.p.); traffico di sostanze stupefacenti (d.P.r. 9/10/1990, n. 309).

 

[25] Secondo L.D’Ambrosio – P.L. Vigna, op. cit. , 217, la norma farebbe riferimento a ipotesi in cui il tempo occorrente per richiedere e ottenere il decreto di perquisizione dell’autorità giudiziaria renderebbe vana la perquisizione alla quale è invece urgente e necessario provvedere in vista del raggiungimento dello scopo dell’atto, quando per “urgenza” debba intendersi la situazione in cui il ritardo ne comprometterebbe l’esito, e per “necessità” l’eventualità in cui l’atto risulti indispensabile ai fini delle indagini o per prevenire il compimento del reato.

 

[26] P.L. Vigna, Le «nuove» indagini, cit., 56, «l’istituto nato per la repressione dei più gravi delitti previsti nel settore delle sostanze stupefacenti, è stato esteso, grazie ai buoni risultati ottenuti, a quelli di estorsione, riciclaggio, impiego di denaro o altri beni di provenienza illecita e, ma con una legittimazione a disporre il ritardo solo da parte del pubblico ministero, al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione e al caso di ricettazione di armi, riciclaggio o impiego simulati». Per una disamina delle attività sottocopertura nell’ambito della cooperazione internazionale vedi M.R. Marchetti, L’assistenza giudiziaria internazionale, Milano, 2005, 202.

 

[27] Nel senso che, in caso di atti delegati dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria, non può non spettare all’organo delegante il potere di differimento vedi, A. Scaglione, I nuovi poteri della polizia giudiziaria nella strategia di prevenzione e repressione della criminalità organizzata, in Criminalità organizzata e repressione, Messina, 1994, 117.

 

[28] Lo stesso potere è attribuito al procuratore nazionale antimafia che, rispetto al personale di polizia giudiziaria, non necessita di alcuna autorizzazione preventiva, ed  anzi è immediatamente informato di eventuali autorizzazioni ottenute dal personale di polizia. La differenza fondamentale tra i colloqui investigativi della polizia giudiziaria e quelli del procuratore nazionale antimafia consiste nel fatto che quest’ultimi sono essenzialmente finalizzati alla sollecitazione del detenuto alla collaborazione processuale su fatti di mafia, mentre quelli della polizia giudiziaria hanno anche l’importantissima finalità di informazione e prevenzione (o di polizia di sicurezza), poiché mirano ad ottenere notizie “confidenziali” su fatti di criminalità organizzata (quindi, non solo di mafia) già compiuti o che siano in procinto di essere compiuti, vedi L. D’Ambrosio - P. L. Vigna, La pratica, cit., 55.

 

[29] G. Nanuia, La lotta alla mafia, Milano, 1999, 234 ss.; v. pure, P.L. Vigna, Le «nuove» indagini, cit. , 58 ss.

 

[30] V. Grevi, Nuovo codice di procedura penale e processi di criminalità organizzata: un primo bilancio, in Processo penale e criminalità organizzata, cit., 17.

 

 

[31] Per una analisi delle problematiche relative alle indagini tecnico-scientifiche vedi E. Aprile, Le indagini tecnico-scientifiche: problematiche giuridiche sulla formazione della prova penale, in Cass. pen., 2003, 12, 4034; per i collegamenti specifici tra coercibilità del prelievo del dna e diritto alla privacy cfr. Picotti, Trattamento dei dati genetici, violazione della privacy e tutela dei diritti fondamentali nel processo penale, in Riv. Inf. e  informatica, 2003, n. 4 – 5, 689.

 

[32] Così F. Di Leo, Terrorismo: le” scappatoie” per uscire dall’incostituzionalità sul prelievo del Dna, in Guida al diritto, 2005, n. 37, 11.

 

[33] Si veda in tal senso Corte cost. sentenza 9 luglio 1996, n. 238, Gregori, in Riv. giur. polizia, 1997, 787, con nota di G. Santacroce, Prelievo coattivo del sangue a scopo probatorio e tutela della libertà personale, in Cass. pen., 1996, 3567.

 

[34] Così F. Di Leo, op. cit, 12.

 

[35] Ancora F. Di leo, op .cit., 11.

 

[36] Così R. Bricchetti, Prelievi del Dna senza consenso, in Guida al diritto, 2005, n. 33, 69.

 

[37] Sul coordinamento tra le procure distrettuali antimafia e, tra queste e le procure della repubblica si veda S. Sau, Le indagini collegate. Il coordinamento investigativo degli uffici del pubblico ministero, Padova, 2003.

 

[38] Subito dopo le stragi di Capaci e Via Mariano D’Amelio si assistette ad una serie di interventi legislativi volti ad irrigidire la disciplina processuale così come era stata concepita dal legislatore del 1988, seguiti però, a distanza di alcuni anni, da provvedimenti  normativi più meditati che tentarono di rimediare alle principali distorsioni così create.

 

[39]Per un importante osservazione in tal senso si veda A. Cristiani,  Le modifiche al nuovo processo penale, Torino 1993, 62, «[…]l’emergenza nascente dalla gravità delle situazioni create dalla criminalità organizzata può giustificare disposizioni di carattere eccezionale; ma non vi è dubbio che quanto maggiore è la gravità del delitto per il quale si procede, tanto più grave può essere il pericolo per la persona innocente che ne sia coinvolta».

 

[40] Tali interventi normativi sono stati volti a reprimere più efficacemente il diffondersi delle organizzazioni criminali prima terroristiche, nei i c.d. “anni di piombo”, e successivamente di stampo mafioso, ma hanno creato una profonda differenza con quelle che erano le norme applicabili per i reati di criminalità c.d. “comune”.

 

[41] Gli interventi normativi furono così profondi da far riflettere molta parte della dottrina sulla effettiva accusatorietà del nostro sistema processuale e sulla conformità di questa legislazione speciale alla presunzione di innocenza. Si vedano tra gli altri P. Corso, Il nuovo processo penale è stato impallinato, in Italia oggi, 6 giugno 1992 e anche P. Ferrua, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992: il declino del processo accusatorio, Riv. It. dir. proc. pen., 1992, inoltre G. Frigo, Demolito il rito accusatorio largo al processo di polizia, in Il sole 24 ore 10 giugno 1992; Id., La resurrezione di Rocco dimentica le garanzie, ivi, 9 giugno 1992.