BREVI NOTE IN TEMA DI
INDAGINI PER I REATI DI CRIMINALITA’ ORGANIZZATA
Università
di Trieste
Sommario: 1. Premessa. – 2. I rapporti con il pubblico
ministero. – 3. I poteri.
La necessità di
contrastare più efficacemente i fenomeni di criminalità
organizzata ha indotto il legislatore a prevedere, segnatamente a partire dal
1991, nuovi modelli organizzativi costituiti da servizi centrali ed
interprovinciali di polizia giudiziaria volti sia a coordinare le investigazioni
delle altre unità di polizia in materia di reati di particolare allarme
sociale, sia a svolgere direttamente un’attività investigativa
caratterizzata da particolare agilità operativa[1].
Il fine che ha ispirato la costituzione di tali nuovi modelli è lo
stesso che ha determinato l’istituzione della Direzione nazionale e delle
Direzioni distrettuali antimafia permettendo, così, un adeguamento delle
caratteristiche degli uffici del pubblico ministero alla marcata diffusione
territoriale delle principali e più pericolose organizzazioni criminali[2].
Sembra opportuno
ricordare preliminarmente come attraverso la creazione di servizi centralizzati
di polizia si sia voluto impedire che l’attività di prevenzione ed
indagine in materia di criminalità organizzata venga dispersa fra
più organismi - non sempre dotati di adeguata specializzazione o
sofisticate strutture -, o si svolga in forme non coordinate e senza il
supporto dei necessari collegamenti investigativi[3].
Nella definizione di servizi centralizzati di polizia possono ricomprendersi
sia
I servizi centrali ed
interprovinciali[6]
hanno la funzione di assicurare il collegamento delle attività
investigative relative a questi delitti di grave criminalità e di
intraprendere, in via prioritaria, l’azione di contrasto contro le
associazioni criminali. Allo scopo di raggiungere questi obiettivi, oltre a
svolgere attività di indagine, acquisiscono ogni dato informativo o
conoscitivo e si coordinano[7]
tra loro e con gli altri organi di polizia giudiziaria anche straniera[8]
eventualmente interessati. La funzione di supporto informativo e di
investigazione giudiziaria dei servizi centrali ed interprovinciali, acquisisce
una importanza fondamentale se si considera che, per la DIA,
l’attività di indagine costituisce solo un compito sussidiario e
legato al compimento di indagini mirate o collegate di particolare ampiezza
anche territoriale[9].
Nonostante la
previsione normativa di un coordinamento tra i diversi centri operativi, e tra
questi e la DIA, l’esperienza di questi anni ha evidenziato sia il
pericolo della mancanza di un effettivo collegamento tra i servizi
centralizzati e le altre strutture di Polizia operanti sul territorio, sia il
rischio di sovrapposizioni e duplicazioni dell’attività
investigativa, fino alle difficoltà di individuare con chiarezza gli
ambiti di reale operatività dei servizi in questione. E’ pertanto
auspicabile un intervento legislativo che, risolvendo la situazione di
incertezza, permetta di adeguare gli attuali assetti organizzativi alle rapide
trasformazioni in atto all’interno delle organizzazioni criminali, sempre
più orientate verso una attività delinquenziale maggiormente
diffusa[10],
senza disperdere le professionalità specifiche acquisite dal personale
dei servizi centralizzati.
Ciò premesso,
vediamo ora come si articolano i rapporti tra i menzionati organismi ed il
pubblico ministero, sul quale incombe l’obbligo, nel momento in cui gli
perviene la notizia di reato relativa ad un delitto di criminalità
organizzata, di avvalersi dei servizi centrali ed interprovinciali di polizia,
impartendo le opportune direttive per lo svolgimento congiunto e coordinato
dell’attività di indagine. Difatti, fermi restando i poteri di
collegamento spettanti al direttore centrale della polizia criminale, il
procuratore distrettuale rimane il dominus
delle indagini con il preciso dovere di avvalersi congiuntamente di tali
servizi;ma c’è di più: l’art. 371-bis co. 1 c.p.p., al fine specifico di
evitare sovrapposizioni e divergenze nella conduzione delle indagini, prevede
espressamente che, per le investigazioni relative ai delitti di sua
attribuzione, il procuratore nazionale antimafia possa disporre direttamente
dei servizi in questione e regolare anche le modalità del loro impiego
da parte delle procure distrettuali procedenti[11].
Se si escludono le
difficoltà nel coordinamento, dovute al moltiplicarsi di organismi
specializzati, ciò che in questi anni ha creato le maggiori
difficoltà nei rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero,
è stata proprio la disciplina della comunicazione della notizia di reato
prevista dall’art. 347 co. 1 c.p.p. Questa infatti, pur non contenendo
quegli aspetti di “valutazione riassuntiva” che caratterizzavano il
“rapporto di polizia giudiziaria”[12]
previsto dal codice del 1930, si dovrebbe presentare innanzitutto come uno
strumento conoscitivo idoneo a consentire al pubblico ministero
l’iscrizione del fatto di reato nell’apposito registro e a porlo in
condizione di orientare e dirigere le indagini. Invero, per permettergli una
reale attività direttiva, la polizia giudiziaria dovrebbe descrivergli
il reato con tempestività e precisione, sia nei suoi elementi essenziali
sia con riguardo all’attività investigativa compiuta
nell’immediatezza della scoperta del fatto[13].
L’art. 347 c.p.p., invece, nella sua formulazione originaria, imponeva
alla polizia giudiziaria l’obbligo di riferire la notizia entro
quarantotto ore dalla sua acquisizione senza possibilità di
differimento, con la conseguente trasmissione al pubblico ministero di notitiae criminis non sufficientemente
individuate e sviluppate, carenti dei principali elementi di prova idonei a
sostenerle. I tempi ristretti in cui si trovava ad operare, costringevano la
polizia giudiziaria a trasmettere notizie di reato “investigativamente
mute” che rendevano sostanzialmente impossibile l’indicazione di
appropriate direttive, oltre a far decorrere infruttuosamente i termini per le
indagini preliminari. Inoltre, secondo una lettura restrittiva del disposto
dell’art. 348 co. 1 c.p.p., si riteneva che quest’ultima, una volta
comunicata la notizia di reato, non potesse svolgere alcuna attività
investigativa finché non fossero intervenute le direttive del pubblico
ministero, che, per di più, dovevano essere intese come limiti
invalicabili di tale attività investigativa[14].
Si veniva così a creare una pericolosa stasi in cui, i due soggetti
principali delle indagini preliminari, non erano posti in grado di adempiere
correttamente alle relative funzioni, ed è al fine di risolvere questa
situazione che il d.l. 8/6/1992, n. 306 conv. con modif. nella l. 7/8/1992, n.
326 ha modificato gli artt. 347 e 348 c.p.p. Vediamole brevemente.
Le innovazioni
apportate all’art. 347 c.p.p. consentono più articolate ed
elastiche modalità di comunicazione della notizia di reato al pubblico
ministero: in particolare la notitia
criminis va data senza ritardo in tutti i casi in cui non siano presenti le
specifiche ragioni di urgenza e gravità indicate nel comma 3
dell’art. 347 c.p.p., o nel caso in cui l’urgenza debba essere
desunta dalla necessità di non violare i diritti difensivi
dell’indagato.
Si sancisce, quindi,
l’innovativo principio – in considerazione non tanto del dato
letterale dell’abrogato art. 347 c.p.p., quanto della anelastica
interpretazione di cui era stato oggetto – che, in tutte le ipotesi in
cui non ricorrano le specifiche esigenze sopra richiamate, non è
necessario un immediato controllo sull’indagine da parte del pubblico
ministero, ma è, invece, sufficiente che esso avvenga tempestivamente:
“senza ritardo”, appunto, con tempi e modalità che non
snaturino, né compromettano, il ruolo di direzione del pubblico
ministero e l’efficace attività di indagine della polizia
giudiziaria.
Per ciò che
concerne le particolarità riguardanti i delitti di criminalità
organizzata è importante analizzare brevemente il co. 3 dell’art.
347 c.p.p. In seguito alle modifiche suddette, ora, se si indaga per taluno dei
reati previsti dall’art. 407 comma 2 lett. a), ed in ogni caso se
sussistono ragioni di urgenza, la comunicazione della notizia di reato deve
essere data immediatamente anche in forma orale; alla comunicazione orale deve
comunque seguire, senza ritardo, quella scritta così come previsto dai
commi 1 e 2 dello stesso art. 347 c.p.p.[15].
Il richiamo all’art. 407 co. 2 lett. a) c.p.p.[16]
è comprensivo sia dei delitti di stampo mafioso di cui all’art. 51
co. 3-bis, sia di altri gravissimi
reati tra cui quelli in materia di eversione e terrorismo previsti dal co. 3-quater dell’art. 51 c.p.p., sia
quelli di criminalità organizzata c.d. “comune”. Questa
eccezione alla disciplina generale, sta a significare che il legislatore ha
voluto assicurare un immediato ed efficace raccordo tra attività della
polizia giudiziaria ed informazione del pubblico ministero con particolare
riguardo ai reati di notevole allarme sociale[17].
Si aggiunga che, con la
modifica dell’art. 348 c.p.p., da un lato, si chiarisce che pure dopo la
comunicazione la polizia giudiziaria continua a svolgere le funzioni di
iniziativa[18]
assegnatele dall’art. 55 c.p.p. e, dall’altro, che, pur intervenute
le direttive del pubblico ministero, la prima continua a svolgere
attività anche oltre l’ambito da queste segnato, perseguendo
proprie linee investigative[19].
Premesso che l’attività di iniziativa
consiste nel compimento di qualsiasi attività, tipica o atipica, di
informazione, investigazione ed assicurazione diretta alla ricostruzione del
fatto e alla individuazione del colpevole, le innovazioni introdotte consentono
di delineare, all’interno dell’attività ad iniziativa della
polizia giudiziaria, varie e distinte sottocategorie[20]
che assumono la fisionomia o di un’attività autonoma,
rappresentata da quella compiuta dopo l’acquisizione della notizia di
reato e sino a quando non intervengono le direttive del pubblico ministero
(art. 348 co. 1 c.p.p.), che, peraltro, potrebbero anche non essere mai
impartite; ovvero di un’attività guidata: quella svolta
nell’ambito delle direttive impartite del pubblico ministero (348 co. 3
c.p.p.), fermo restando che queste devono comunque essere intese come
istruzioni che si limitano ad indicare l’obiettivo di indagine, rimanendo
la polizia giudiziaria titolare di una discrezionalità tecnica - che
distingue questo tipo di attività da quella delegata - in ordine alla
scelta dei mezzi e delle investigazioni più idonee al perseguimento
degli scopi di indagine indicati dal pubblico ministero; oppure di indagini
successive, svolte sulla base di quanto richiesto da elementi emersi in un
secondo momento (art. 348 co. 3 c.p.p.); resta, infine, la possibilità
di un’azione parallela, costituita dall’attività autonoma
compiuta dopo aver ricevuto le direttive del pubblico ministero ed,
indipendentemente da queste, in attuazione di proprie linee investigative (come
risulta dal novellato comma 3 dell’art. 348 c.p.p.).
Visti i margini di
autonomia investigativa della polizia giudiziaria, restano da analizzare
brevemente gli speciali poteri ad essa attribuiti - per l’esigenza di
arginare il fenomeno mafioso - che le consentono, quando si procede per un
delitto di criminalità organizzata, di superare gli ordinari limiti
normativi.
Innanzitutto, è
stata ampliata l’area del potere-dovere di arresto in flagranza,
introducendolo per i casi di “delitti di partecipazione, promozione, direzione
o organizzazione della associazione di tipo mafioso, prevista dall’art.
416-bis del c.p.”, laddove l’introduzione della lettera l-bis nell’art. 380 co. 2
c.p.p. si risolve in un allargamento dell’area dell’arresto
obbligatorio in flagranza meno ampio di quanto sembri[21], posto che tutte le
condotte ivi descritte rientrano già nella previsione del co. 1[22],
con l’importante eccezione della mera partecipazione punita con la
reclusione da tre a sei anni[23].
I soli ufficiali di
polizia giudiziaria possono procedere, inoltre, ex art. 27 co. 2 l. 19/3/1990 n. 55 alla perquisizione, sia
personale che locale, ivi compresa quella domiciliare, per ricercare denaro o
valori, costituenti il prezzo della liberazione della persona sequestrata o i
proventi di taluni delitti ovvero armi, munizioni o esplosivi [24].
Le perquisizioni de quibus devono
avvenire nel corso di una attività programmata e predisposta in vista
della prevenzione e repressione di gravi delitti, quando ricorrano casi
eccezionali di necessità e urgenza, tali da non consentire un tempestivo
provvedimento dell’autorità giudiziaria, non potendo, quindi, essere compiute per iniziativa
estemporanea del singolo ufficiale di polizia giudiziaria[25].
Ricorrendo queste condizioni,
quando sia stato commesso taluno di siffatti gravi delitti, o si debba ricercare un latitante o un evaso, la
polizia giudiziaria può altresì ricorrere a vere e proprie
operazioni di rastrellamento urbano tramite le perquisizioni di edifici o di
interi blocchi di costruzioni, al fine di introdursi in quei “quartieri
bunker” che costituiscono veri e propri presidi armati delle
organizzazioni criminali.
Alla polizia
giudiziaria è, inoltre, conferito il potere di effettuare ispezioni per
la prevenzione e repressione degli stessi reati, con la differenza che in
questi casi vi possono procedere sia gli ufficiali che gli agenti, e
l’ispezione può avere ad oggetto solo mezzi di trasporto, bagagli
ed effetti personali, con l’importante esclusione dell’ispezione
personale.
In aggiunta a queste
particolari attribuzioni, vi è una gamma di speciali poteri
caratterizzati dall’essere concessi esclusivamente ai servizi centrali ed
interprovinciali della polizia giudiziaria. Il legislatore, difatti,
dimostrando un particolare fiducia sull’efficienza delle specifiche
articolazioni delle forze di polizia, ha dotato il relativo personale di poteri
e facoltà che si differenziano rispetto alle normali competenze degli
appartenenti delle forze stesse e che spesso corrispondono ai poteri e alle
facoltà attribuiti al personale della DIA che, come già
accennato, con queste forze speciali si coordinano.
Innanzitutto, occorre
considerare quegli speciali poteri attribuiti dal legislatore a tali servizi
specializzati che, per rendere più agile e sofisticata
l’attività di contrasto della criminalità organizzata,
consente l’infiltrazione nel circuito criminale al fine di compiere
simulatamente operazioni (c.d. sotto copertura) di acquisto di droga, di
ricettazione di armi e di riciclaggio[26].
L’attività deve essere preceduta dall’autorizzazione del
pubblico ministero che ha un’efficacia scriminante e può spingersi
fino a ricomprendere le c.d. operazioni o consegne controllate, le quali
consentono ai servizi specializzati impegnati in specifiche indagini, di differire
o addirittura omettere - anche qui, andando esenti da responsabilità -
il compimento degli atti di competenza, quali il sequestro, la cattura,
l’arresto o il fermo, quando tali atti sarebbero intempestivi o
inopportuni ai fini delle indagini[27]
(art. 12-quater d.l. 8/6/1992, n. 306
conv. con modif. nella l. 7/8/1992, n. 326).
Inoltre, secondo il
dettato dell’art. 16 del citato d.l. 306/1992, il personale dei suddetti
servizi ha la facoltà di visitare gli istituti penitenziari e può
essere autorizzato ad avere colloqui investigativi con detenuti e internati
allo scopo di ottenere informazioni utili alla prevenzione e repressione di
gravi delitti[28].
Il colloquio può avvenire con detenuti o internati per qualsiasi tipo di
reato, ma deve avere, come esclusiva finalità, l’acquisizione di
informazioni utili per la prevenzione e repressione dei delitti di
criminalità organizzata; l’autorizzazione dovrà essere data
dal pubblico ministero per le persone sottoposte ad indagini, e dal ministro
della giustizia quando il colloquio debba avvenire con internati, condannati o
imputati. In seguito a questi colloqui, in base al disposto dell’art. 4-bis ord. penit. co. 1 e 3, i
responsabili dei Servizi svolgono la fondamentale funzione di fornire al
procuratore nazionale antimafia, al procuratore distrettuale e al giudice di
sorveglianza ogni notizia utile circa gli attuali legami con la
criminalità organizzata dei condannati che chiedono di fruire dei
benefici penitenziari[29].
Un’ulteriore
facoltà attribuita ai responsabili dei servizi ha ad oggetto la
possibilità di richiedere l’autorizzazione ad effettuare
intercettazioni di comunicazioni telefoniche e ambientali, superando i limiti
imposti dall’art. 266 c.p.p., quando siano necessarie per
l’attività di prevenzione e d’informazione in ordine ai
delitti previsti dall’art. 51 co. 3-quater
c.p.p. In questo regime differenziato, i presupposti per la concessione
dell’intercettazione sono notevolmente attenuati in quanto ci si
accontenta della sussistenza di sufficienti indizi di reato e di una valutazione di necessità
dell’intercettazione per lo svolgimento delle indagini che comporta la
possibilità per il g.i.p. di disporla anche quando non sia l’unica
scelta investigativa utilmente perseguibile. Inoltre, esiste una notevole
differenza nei tempi di durata massima consentita per le operazioni: fino a
quaranta giorni per il primo provvedimento del g.i.p., con possibilità
di proroghe per periodi successivi di venti giorni, e con l’ulteriore
precisazione per cui, nei casi di urgenza, lo stesso pubblico ministero
può provvedere direttamente alla proroga.
A questa più
snella disciplina, evidentemente modellata anche in relazione alle particolari
caratteristiche di difficoltà e di durata tipiche di molti procedimenti
per reati di criminalità organizzata, si è successivamente
aggiunta una nuova disposizione volta a modificare, sempre con riferimento a
procedimenti di questo tipo, il regime delle intercettazioni ambientali
destinate a svolgersi nel domicilio e negli altri luoghi indicati dall’art.
614 c.p.p. In particolare si è esplicitamente consentito che, nel corso
degli stessi procedimenti, tali intercettazioni possano venire disposte
“anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si
stia svolgendo l’attività criminosa”. E’ stato
così superato – alla luce delle notevoli difficoltà
investigative ricordate poco sopra per i reati di criminalità
organizzata – il limite stabilito per le intercettazioni ambientali nel
domicilio dall’art. 266 co. 2 c.p.p., che in pratica circoscrive
l’ammissibilità delle medesime alle sole situazioni di flagranza
dell’attività criminosa[30].
Un breve cenno meritano
anche le peculiarità della regolamentazione delle intercettazione
preventive. L’art. 226 disp. coord. c.p.p., modificato dalla l.
15/12/2001 n. 438, consente di effettuare intercettazioni telefoniche al solo
scopo di “prevenire” il compimento di determinati delitti
particolarmente gravi in tema di criminalità organizzata mafiosa o
terroristica. Il pubblico ministero, servendosi dei servizi centrali ed
interprovinciali di polizia, dispone con decreto le intercettazioni quando
“vi siano elementi investigativi che giustifichino
l’attività di prevenzione”, con la precisazione che gli
elementi acquisiti non potranno mai essere utilizzati nel procedimento penale
ma dovranno avere una mera funzione investigativa.
Rimanendo
nell’ambito dei poteri della polizia giudiziaria pare opportuno
sottolineare brevemente le novità introdotte dal d.l. 27 luglio 2005, n.
144 (convertito, con modificazioni, in l. 31 luglio 2005, n. 155) recante
“misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale”.
Una prima modifica è stata apportata in materia di identificazione
personale tramite l’aggiunta dopo il comma 2 dell’art. 349 c.p.p. -
che attribuisce il potere alla polizia giudiziaria di procedere a rilievi
dattiloscopici, fotografici e antropometrici, nonché altri accertamenti
per l’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le
indagini - del comma 2-bis, che
prevede la possibilità, nel caso in cui gli accertamenti debbano
consistere in prelievi di capelli o saliva e manca il consenso
dell’indagato, di procedere al “prelievo coattivo nel rispetto
della dignità personale del soggetto, previa autorizzazione scritta,
oppure resa oralmente e confermata per iscritto, del pubblico ministero”.
Con questa nuova legge
si è operato su quei poteri che la polizia giudiziaria esercita di
autonomamente, appena inizia un procedimento penale o, magari, anche prima che
vi sia la possibilità di riferire la notizia di reato al pubblico
ministero, ed in particolar modo sui poteri che essa ha di procedere
all’identificazione delle persone nei cui confronti vengono svolte le
indagini, nel senso di consentire alla polizia giudiziaria anche di sottoporre
l’indagato al test del dna[31]
previa autorizzazione del pubblico ministero.
Ad una iniziale lettura
del comma 2-bis dell’art. 349
c.p.p., i primi commentatori hanno sollevato seri dubbi di
costituzionalità[32].
Difatti, si deve considerare che il prelievo coattivo costituisce restrizione
della libertà personale[33],
quali che siano le modalità, anche non invasive, in cui il prelievo
avviene, e che l’art. 13 Cost. stabilisce che qualunque restrizione della
stessa richiede un atto motivato dell’autorità giudiziaria ed una legge
che, limitando la discrezionalità di tale autorità, preveda casi
e modi in cui tale limitazione può consumarsi. Invece, anche ad una
prima analisi, si può osservare come questa norma non rispetti la
riserva di legge, attribuendo alla polizia giudiziaria un potere
indifferenziato, senza una selezione dei casi in cui si può procedere al
prelievo. L’inquadramento costituzionale consente di mettere a fuoco la
logica assai insidiosa seguita dal legislatore[34].
Si deve tenere conto, infatti, che
La legge della quale si
parla ha introdotto, poi, un’altra novità nell’istituto
dell’identificazione personale, relativa al tempo massimo in cui la
polizia giudiziaria può trattenere le persone sottoposte alle indagini o
in grado di riferire circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti,
inserendo alla fine del quarto comma dello stesso art. 349 la previsione in
base alla quale nel caso in cui “l’identificazione risulti particolarmente
complessa, oppure occorra l’assistenza dell’autorità
consolare o di un interprete” previo avviso anche orale al pubblico
ministero, può trattenere tali soggetti nei propri uffici non oltre le
ventiquattro ore. Nonostante risulti palese l’intenzione del legislatore di evitare il rilascio di
persone non ancora identificate quando si persegua il fine di contrastare e
prevenire fenomeni di terrorismo internazionale, il “ritorno
storico” della legislazione dell’emergenza non convince in quanto
riporta alla luce problemi sorti durante l’ultima stagione legislativa di
contrasto alle stragi mafiose. In particolare ciò che genera i maggiori
dubbi, oltre all’opportunità di intervenire su un corpo normativo unitario come il codice di procedura
penale con decreti-legge emanati in tutta fretta, è l’introduzione
di disposizioni limitative della libertà personale per la
necessità di contrastare particolari fenomeni criminali, nel caso di
specie il terrorismo internazionale, che si traducono in modifiche di normative
che restano comunque applicabili per qualsiasi tipo di reato.
Va, infine, ricordato
come l’art. 13 della legge 155/2005 abbia introdotto nuove disposizioni
in materia di arresto in flagranza di reato e di fermo di indiziato di delitto.
Invero, sostituendo nella formulazione della lettera i) dell’art. 380 c.p.p. la frase “ pena della
reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci
anni” con quella “pena della reclusione non inferiore nel minimo a
quattro anni o nel massimo a dieci anni” è stato abbassato il
minimo edittale richiesto per l’arresto obbligatorio in flagranza di
delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione
dell’ordine costituzionale.
L’art. 381 co. 2
c.p.p., inoltre, si è arricchito di un ulteriore caso in cui gli agenti
e gli ufficiali di polizia giudiziaria hanno facoltà di arrestare in
flagranza costituito dal nuovo reato, introdotto dall’art. 10 co. 4 l.
155/2005, di possesso e fabbricazione di documenti di identità falsi[36]
(art. 497-bis c.p.).
Quanto al fermo di un
indiziato, quando si proceda per un delitto commesso con finalità di
terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico,
va sottolineato come questo sia ora consentito indipendentemente dalla pena edittale
prevista, introducendosi inoltre la specificazione che il possesso di documenti
falsi – di cui al comma 3 dell’art. 384 c.p.p. - integra la
sussistenza degli specifici elementi sopravvenuti che consentono alla polizia
giudiziaria di procedere al fermo, in casi di urgenza, senza attendere il
provvedimento del pubblico ministero, in quanto può ragionevolmente
presumersi che l’indiziato possa sottrarsi al procedimento penale
fuggendo all’estero.
Da quanto finora
esposto emerge con chiarezza come il fine perseguito dalla disciplina de qua sia quello di attribuire la
massima efficienza ai diversi corpi di polizia giudiziaria specializzati nella
lotta alla criminalità organizzata, ponendoli gerarchicamente sotto le
direttive di un’unica procura[37]
ed imponendogli di coordinarsi tra di loro al fine di svolgere indagini rapide
e complete. In questo modo si sono voluti creare speciali poteri che, derogando
ai limiti previsti per i procedimenti relativi a reati comuni, consentisse alle
forze di polizia di operare agilmente assicurando prontamente al procedimento
indispensabili elementi di prova. La disciplina della quale si parla e,
più in generale, l’intera normativa avente ad oggetto il
procedimento per i reati di criminalità organizzata, è stata
sottoposta, negli anni successivi alla sua introduzione, a numerosi correttivi
che ne hanno attenuato la valenza repressiva[38],
tuttavia, questa, non si è mai dovuta confrontare con una vera propria
emergenza delinquenziale. Se si considera che la previsione di una normativa
differenziata per i reati di criminalità organizzata, anche così
come è ora concepita, non può non stridere con princìpi
costituzionali quali l’eguaglianza e la presunzione di innocenza[39],
ciò che è opportuno domandarsi è se, di fronte ad una
nuova ondata criminale, il legislatore si fiderà della
“tenuta” di queste norme o procederà, come spesso è
avvenuto in passato, ad uno stravolgimento della disciplina creando un divario
ancor più netto con la disciplina ordinaria[40].
A giudicare dalla l. 155/05 la tendenza sembrerebbe orientata verso un
pericoloso ritorno storico alla legislazione dell’emergenza, che, come
è noto, ha portato in Italia, nel periodo “caldo” della
lotta alla mafia, ad una notevole compressione delle garanzie processuali
attribuite agli imputati[41].
In questa situazione di evidente crisi internazionale e di nuova emergenza
terroristica, ciò che pare auspicabile è che non vengano posti in
dubbio princìpi irrinunciabili - considerati ormai espressione
fondamentale di civiltà giuridica - in nome dell’efficienza
processuale e del c.d. recupero del sapere investigativo.
[2] Sia nel codice di
procedura penale che in leggi speciali sono presenti numerose disposizioni che
derogano alla normativa ordinaria al fine di contrastare i fenomeni di
criminalità organizzata, per
ciò che concerne nello specifico le indagini merita ricordare la
particolare disciplina dei termini delle indagini preliminari, per un commento
critico della quale si veda P. Corso,
Indagini preliminari segrete per un anno, in Italia oggi,
1992, n. 6 e M. Frigo, Martelli
firma il nuovo codice di
polizia, in studio legale,1992, n. 3.
[3] P.L. Vigna, Le «nuove» indagini preliminari nei
procedimenti per i delitti di criminalità organizzata, in Processo penale e criminalità
organizzata, a cura di V. Grevi, Roma
– Bari, 1993, 57.
[5] L. Ferrajoli, Il coordinamento delle indagini nei
procedimenti di criminalità organizzata, in Mafia e criminalità organizzata, coord. da P. Corso – G. Insolera – L.
Stortoni, Torino, 1995, 429.
[6] Sono composti dal Servizio centrale operativo della
polizia di stato (S.C.O.), il Raggruppamento operativo speciale dell’arma
dei carabinieri (R.O.S.), il Gruppo di investigazione sulla criminalità
organizzata della guardia di finanza (S.C.I.C.O.). Orientativamente si
può affermare che le direttrici di prevalente impegno dello S.C.O.
consistono nel contrasto alla grande criminalità organizzata, in tutte
le sue espressioni delinquenziali più gravi, anche nelle possibili forme
di contaminazione dei settori dell’economia, della finanza e delle
informazioni; del R.O.S. nei fatti di eversione, sequestri di persona, ricerca
di latitanti e nei casi di accertata complessità dei reati ,con
particolare riferimento a quelli che fanno capo a sodalizi mafiosi; dello S.C.I.C.O. nell’individuazione dei
flussi illeciti di riciclaggio, attraverso indagini nei confronti degli
intermediari finanziari tipici e atipici (istituti di credito, società
fiduciarie, finanziarie, leasing, factoring, e simili), degli appaltatori e
sub-appaltatori di opere pubbliche e dei precettori di finanziamenti o
contributi erogati da enti pubblici nazionali o comunitari.
[7] I servizi centrali ed
interprovinciali, in determinate regioni o per particolari esigenze, si
coordinano tra loro secondo il modello “interforze” a seguito di
decreto emesso dal ministro dell’interno di concerto con i ministri di
giustizia, della difesa e delle finanze.
[8] “A tale
proposito, l’Accordo di Schengen e la relativa Convenzione (ratificati e
resi esecutivi della L. 30/9/1993, n. 288) prevedono che la cooperazione tra i
servizi di polizia avvenga tra l’altro mediante: a) la preventiva armonizzazione
delle normative e, in particolare, di quelle relative alla immigrazione, agli
stupefacenti, alle armi e agli esplosivi; b) la creazione di una banca dati
informatizzata accessibile a tutti gli stati contraenti (c.d. Sistema
d’informazione Schengen – SIS) contenente un complesso di
informazioni idoneo ad agevolare i controlli di frontiera, di polizia e di
dogana; c) il distacco all’estero di funzionari di polizia aventi compiti
di collegamento, per un più efficace scambio delle informazioni in tema
di lotta alla criminalità organizzata e per effettuare le richieste di
assistenza.” Così, L. D’Ambrosio
– P.L. Vigna, op. cit.,
281.
[10] Pur restando il racket,
il traffico internazionale di stupefacenti e di armi le principali fonti di
profitto delle organizzazioni di stampo mafioso, si è assistito in
questi anni ad un’accentuazione della c.d. microcriminalità,
tramite l’inserimento nel tessuto delle organizzazioni di soggetti, generalmente
minorenni, in condizioni economiche particolarmente disagiate, per la
distribuzione “al dettaglio” di droga ed armi.
[12] Si veda
sull’argomento, A. Tricoci,
Sub art.
[13] Il rapporto di polizia
giudiziaria poteva meglio adempiere a tale funzione favorito, in ciò,
dalla notevole elasticità del termine entro il quale doveva essere
inviato, poiché l’art. 2 c.p.p. abr. prevedeva che la trasmissione
dello stesso dovesse avvenire “senza ritardo”, a conclusione della
c.d. “istruttoria di polizia
[14] P.L. Vigna, Le «nuove» indagini, cit., 57.
[15] Sul punto cfr. P. Corso - S. Guadalupi, Anticriminalità,
un decreto ancora tutto da discutere, in Italia oggi, n. 6, 1992, 23
nonché M. Cicala, Un
maxi decreto contro la criminalità organizzata, in Corr. giur., 1992, 715 il quale osserva
«non vi è dunque alcuna necessità che sia il magistrato ad
elaborare le direttive di carattere generale cui la polizia debba uniformarsi
nella repressione del fenomeno mafioso».
[16] Inizialmente, il
richiamo si riferiva all’art. 275 co. 3 più volte emendato dal
1989 ad oggi e che prevede la deroga all’extrema ratio nella
scelta delle misure cautelari idonee per gli specifici delitti in esso
indicati, ma, avendo questo perso la funzione di riferimento normativo per
l’individuazione dei delitti per cui si applica il cosiddetto
“doppio binario”,a causa della
modifica della tipologia dei reati richiamati, questa funzione è
stata trasferita all’art. 407.
[17] In tal senso, P. Corso, Codice di procedura
penale e criminalità organizzata, in mafia e criminalità
organizza, cit., 136 ss.
[18] Si veda in tal senso
Cass. 17 dicembre 1998, Bartoli, in Cass.
pen., 2000, 3082 con nota adesiva
di R. Cantone, I poteri della polizia giudiziaria prima e
dopo l’intervento del pubblico ministero, in Cass. pen., ivi, 3083.
[19]
P.L. Vigna,
Le «nuove» indagini, cit.,
55, «i benefici del nuovo
sistema sono palesi, sotto il profilo investigativo anche se esso evidenzia un
costo non irrilevante, rappresentato da un certo qual distacco tra il pubblico
ministero, che continua a impersonare il ruolo di direttore delle indagini e la
polizia giudiziaria», in senso chiarificatore della disciplina, A. Nappi, Guida al nuovo codice di
procedura penale, Milano 1992, 144, il quale esclude che la polizia
giudiziaria possa svolgere indagini incompatibili con le direttive impartite
dal pubblico ministero.
[20] L.D’Ambrosio – P.L. Vigna, op. cit. , 247 e ss., v. pure, A. Nappi, Guida al nuovo codice, cit., 144 ss.
[21] Lettera inserita
dall’art. 4 d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito in l. 7 agosto 1992, n.
356.
[22] Secondo il quale la
polizia giudiziaria procede «all’arresto di chiunque è colto
in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la
legge stabilisce la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel
massimo a venti anni».
[23] Lo sottolinea P. Corso, Codice di procedura penale e
criminalità organizzata, in Mafia e criminalità organizza,
cit., 136 ss.
[24] I delitti per cui sono
concessi questi straordinari poteri sono: associazione di tipo mafioso (416-bis c.p.) e delitti commessi in relazione
ad essa; riciclaggio (art. 648-bis
c.p.); reimpiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita
(art. 648-ter c.p.); rapina aggravata
(art 629 co. 2 c.p.); sequestro di persona a scopo di estorsione (artt. 289-bis, 630 c.p.); traffico di sostanze
stupefacenti (d.P.r. 9/10/1990, n. 309).
[25] Secondo L.D’Ambrosio – P.L. Vigna, op.
cit. , 217, la norma
farebbe riferimento a ipotesi in cui il tempo occorrente per richiedere e
ottenere il decreto di perquisizione dell’autorità giudiziaria renderebbe
vana la perquisizione alla quale è invece urgente e necessario
provvedere in vista del raggiungimento dello scopo dell’atto, quando per
“urgenza” debba intendersi la situazione in cui il ritardo ne
comprometterebbe l’esito, e per “necessità”
l’eventualità in cui l’atto risulti indispensabile ai fini
delle indagini o per prevenire il compimento del reato.
[26] P.L. Vigna, Le «nuove» indagini, cit., 56,
«l’istituto nato per la repressione dei più gravi delitti previsti
nel settore delle sostanze stupefacenti, è stato esteso, grazie ai buoni
risultati ottenuti, a quelli di estorsione, riciclaggio, impiego di denaro o
altri beni di provenienza illecita e, ma con una legittimazione a disporre il
ritardo solo da parte del pubblico ministero, al delitto di sequestro di
persona a scopo di estorsione e al caso di ricettazione di armi, riciclaggio o
impiego simulati». Per una disamina delle attività sottocopertura
nell’ambito della cooperazione internazionale vedi M.R. Marchetti, L’assistenza giudiziaria internazionale, Milano, 2005, 202.
[27] Nel senso che, in caso
di atti delegati dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria, non
può non spettare all’organo delegante il potere di differimento
vedi, A. Scaglione, I nuovi
poteri della polizia giudiziaria nella strategia di prevenzione e repressione
della criminalità organizzata, in Criminalità organizzata
e repressione, Messina, 1994, 117.
[28] Lo stesso potere
è attribuito al procuratore nazionale antimafia che, rispetto al
personale di polizia giudiziaria, non necessita di alcuna autorizzazione
preventiva, ed anzi è
immediatamente informato di eventuali autorizzazioni ottenute dal personale di
polizia. La differenza fondamentale tra i colloqui investigativi della polizia
giudiziaria e quelli del procuratore nazionale antimafia consiste nel fatto che
quest’ultimi sono essenzialmente finalizzati alla sollecitazione del
detenuto alla collaborazione processuale su fatti di mafia, mentre quelli della
polizia giudiziaria hanno anche l’importantissima finalità di
informazione e prevenzione (o di polizia di sicurezza), poiché mirano ad
ottenere notizie “confidenziali” su fatti di criminalità
organizzata (quindi, non solo di mafia) già compiuti o che siano in
procinto di essere compiuti, vedi L. D’Ambrosio
- P. L. Vigna, La pratica,
cit., 55.
[29] G. Nanuia, La lotta alla mafia, Milano, 1999, 234 ss.;
v. pure, P.L. Vigna, Le
«nuove» indagini, cit. , 58 ss.
[30]
V. Grevi, Nuovo codice di procedura penale e processi
di criminalità organizzata: un primo bilancio, in Processo penale
e criminalità organizzata, cit., 17.
[31] Per una analisi delle
problematiche relative alle indagini tecnico-scientifiche vedi E. Aprile, Le indagini tecnico-scientifiche: problematiche giuridiche sulla
formazione della prova penale, in Cass.
pen., 2003, 12, 4034; per i
collegamenti specifici tra coercibilità del prelievo del dna e diritto
alla privacy cfr. Picotti, Trattamento dei dati genetici, violazione della privacy e tutela dei
diritti fondamentali nel processo penale, in Riv. Inf. e informatica,
2003, n. 4 – 5, 689.
[32] Così F. Di Leo, Terrorismo: le” scappatoie” per uscire
dall’incostituzionalità sul prelievo del Dna, in Guida al diritto, 2005, n. 37, 11.
[33] Si veda in tal senso Corte
cost. sentenza 9 luglio 1996, n. 238, Gregori, in Riv. giur. polizia, 1997, 787, con nota di G. Santacroce, Prelievo coattivo del sangue a scopo probatorio e tutela della
libertà personale, in Cass.
pen., 1996, 3567.
[37] Sul coordinamento tra
le procure distrettuali antimafia e, tra queste e le procure della repubblica
si veda S. Sau, Le indagini
collegate. Il coordinamento investigativo degli uffici del pubblico ministero, Padova,
2003.
[38] Subito dopo le stragi
di Capaci e Via Mariano D’Amelio si assistette ad una serie di interventi
legislativi volti ad irrigidire la disciplina processuale così come era
stata concepita dal legislatore del 1988, seguiti però, a distanza di
alcuni anni, da provvedimenti
normativi più meditati che tentarono di rimediare alle principali
distorsioni così create.
[39]Per un importante
osservazione in tal senso si veda A.
Cristiani, Le modifiche
al nuovo processo penale, Torino 1993, 62,
«[…]l’emergenza nascente dalla gravità delle
situazioni create dalla criminalità organizzata può giustificare
disposizioni di carattere eccezionale; ma non vi è dubbio che quanto
maggiore è la gravità del delitto per il quale si procede, tanto
più grave può essere il pericolo per la persona innocente che ne
sia coinvolta».
[40] Tali interventi
normativi sono stati volti a reprimere più efficacemente il diffondersi
delle organizzazioni criminali prima terroristiche, nei i c.d. “anni di
piombo”, e successivamente di stampo mafioso, ma hanno creato una
profonda differenza con quelle che erano le norme applicabili per i reati di
criminalità c.d. “comune”.
[41] Gli interventi
normativi furono così profondi da far riflettere molta parte della
dottrina sulla effettiva accusatorietà del nostro sistema processuale e
sulla conformità di questa legislazione speciale alla presunzione di
innocenza. Si vedano tra gli altri P.
Corso, Il nuovo processo penale
è stato impallinato, in Italia
oggi, 6 giugno 1992 e anche P. Ferrua, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992: il declino del processo
accusatorio, Riv. It. dir. proc. pen., 1992, inoltre G. Frigo, Demolito il rito accusatorio largo al processo
di polizia, in Il sole
24 ore 10 giugno 1992; Id., La resurrezione di Rocco dimentica le garanzie, ivi, 9 giugno 1992.