N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana
Università di Sassari
Initia Urbis e sistema giuridico-religioso romano
(Ius
sacrum e ius publicum tra terminologia e sistematica)
Testo della relazione presentata nel Congresso
internazionale «Mundus novus.
America. Sistema giuridico latinoamericano», svoltosi a Roma, presso
l’Istituto Italo-Latino Americano (Palazzo Santacroce) e l’Università di Roma
‘Tor Vergata’ (Villa Mondragone), nei giorni 26-29 novembre 2003, organizzato
nel quadro delle attività del “Comitato Nazionale per la celebrazioni del
Quinto Centenario del viaggio di Amerigo Vespucci (1501-1502)”, per
iniziativa del prof. Sandro Schipani (Università di Roma ‘Tor
Vergata’), componente della Giunta del medesimo Comitato.
Sommario: 1. Premessa: oggetto e
limiti dell’esposizione. – 2. La rielaborazione ovidiana dell’Urbis origo. – 3. Terminologia e sistema: initia
(principia; origines; primordia) Urbis. – 4. Realtà spirituali
degli initia Urbis: uomini e dèi nella Urbs auspicato
inauguratoque condita (Tito Livio 5.52.2). – 5. Realtà materiali
degli initia urbis: la santità delle mura della città.
– 6. Dagli initia
Urbis, all’Imperium sine fine: Roma tra spazio e tempo nell’Eneide di Virgilio.
Per introdurre il tema “Initia urbis e sistema
giuridico-religioso romano”[1],
mi pare molto pertinente un pensiero di Carlo Cattaneo, il quale nel 1858, in
un saggio intitolato «La città considerata come principio ideale delle
istorie italiane», scriveva quanto segue: «L’imperio romano comincia entro
una città; è il governo di una città dilatato a comprendere tutte le nazioni
che circondano il Mediterraneo. La fede popolare derivò la città di Roma dalla
città d’Alba; Alba da Lavinio, Lavinio dalla lontana Troia; le generazioni dei
popoli apparvero alla loro mente generazioni di città»[2].
In quello stesso anno, il 1858, N.D.
Fustel De Coulanges concludeva la sua tesi dedicata alla dea Vesta, che
costituisce – com’è noto – il nucleo centrale della Cité antique,
pubblicata qualche anno più tardi, nel 1864[3]. In
quell’opera, il grande storico e comparatista francese ha disegnato, con
genialità ed acutezza, la città antica «come complesso d’istituzioni
politico-religiose, originale e irripetibile»[4].
Peraltro, l’originalità della città
antica, cioè quale insieme di strutture urbane e istituzioni
giuridico-religiose, era stata già evidenziata da J.-J. Rousseau, nel Contrat
social (libro I, cap. VI): «Le vrai sens de ce mot [cité] s’est presque entièrement effacé chez
les modernes; la plupart prennet une ville pour une Cité et un bourgeois pour
un citoyen. Il ne savent pas que les maisons font la ville, mais que les
citoyens font la cité».
Rousseau assumeva, in tal modo, la
definizione della civitas che davano i Romani, intesa essenzialmente
quale comunità di cittadini liberi; come attesta fra gli altri Cicerone:
De re publ. 1.49: quid est enim civitas nisi iuris
societas civium?[5]
Ma veniamo agli initia Urbis.
In una monografia dedicata alla fondazione di Roma,
Alexandre Grandazzi sostiene che gli antichi Romani ebbero coscienza del
«recommencement perpétuel» che aveva caratterizzato la storia della loro città,
in ragione delle varie ‘fondazioni’, quindi dei varii initia, di cui
essa era stata oggetto in epoche diverse[6].
Certo connesso ad un nuovo initium Urbis , o se si
preferisce ad una rifondazione di Roma, appare lo stesso Augusti cognomen attribuito ad Ottaviano nel 27 a.C., quando in
Senato prevalse la proposta di Munazio Planco su quanti ritenevano che lo si
dovesse chiamare invece Romolo. Dal passo di Svetonio, che ci riferisce nel
dettaglio l’episodio, apprendiamo che quel nome fu scelto ispirandosi al noto
verso, con cui il poeta Ennio aveva cantato l’antichissima fondazione
dell’Urbe:
Augusto augurio
postquam inclyta condita Roma est[7].
Invero l’esempio di Augusto è particolarmente calzante anche
agli affetti del nostro discorso; in quanto la sua presenza nella storia di
Roma rappresenta per poeti e storiografi dell’epoca l’angolo di osservazione
imprescindibile da cui rimodellare la tradizione (mitica, religiosa e
giuridica) degli initia urbis. Non è certo una novità, sostenere
la tesi che negli scrittori dell’età augustea (o meglio ancora nell’ideologia
che presiedeva alla ‘restaurazione’ augustea[8]) il
motivo storiografico dell’antichissima fondazione della urbs Roma (origo Urbis e imperii principium,
per usare le parole di Tito Livio[9]) si
saldava indissolubilmente con il presente: sia con le giustificazioni religiose
insite nella concezione provvidenziale e universalistica dell’impero ‘mondiale’
dei Romani; sia col mito dell’eternità di Roma.
Questo è, dunque, il mio punto di partenza, per indagare gli initia
urbis in relazione ai riti di fondazione delle città, alla terminologia,
ad alcune realtà spirituali e materiali, infine all’infinito spazio-temporale
dell’imperium populi Romani[10].
Anzitutto propongo la rielaborazione ovidiana (e quindi
augustea) della Urbis origo; soprattutto per evidenziare la
fortissima connotazione spazio/temporale che i riti di fondazione davano agli initia
urbis, sia determinando il tempo della città (e delle sue istituzioni),
sia qualificando religiosamente e giuridicamente le diverse porzioni dello
spazio terrestre.
é noto che la
vicenda della Urbis origo viene
trattata dal poeta nel IV libro dei Fasti
ai versi 807-862[11],
nel quadro dell’illustrazione della festività dei Parilia[12];
che i calendari antichi annotavano con la formula Roma condita o Natalis Urbis.
La narrazione poetica presenta diverse articolazioni: a) le
consultazione divina per mezzo degli uccelli (807-818); b) il rituale della
fondazione (819-836); c) il sacrilegio, la morte e il funerale di Remo
(837-856); d) la preghiera per Roma (857-862).
Che nella descrizione della Urbis
origo proposta da Ovidio, i riti di fondazione della città siano stati
improntati «secondo i concetti del diritto augurale che vediamo consolidato
nella Repubblica», è stato autorevolmente dimostrato da P. Catalano nei suoi
studi sul diritto augurale[13];
dove peraltro lo studioso evidenzia come in Ovidio siano correttamente
descritte «l’inaugurazione di scelta circa il regnum (versi 812-818); implicitamente, l’auspicazione circa il dies (versi 819 ss.); e infine
l’inaugurazione di approvazione del luogo, cioè del pomerio (verso 825 ss.)»[14].
Va altresì sottolineata l’attezione del poeta nel configurare
con esattezza terminologia e realtà giuridiche (precedenti e successive)
connesse alla fondazione dell’Urbs.
I due gemelli, che ancora guidavano un vulgus di pastori[15],
convengono di fondare la città (moenia
ponere) al fine di contrahere
agrestis (Fasti 4.810); quindi si
procede alla consultazione degli aves,
che ha esito favorevole per Romolo (Fasti
4.818: et arbitrium Romulus urbis habet);
solo a questo punto hanno inizio i riti di fondazione veri e propri: col
tracciamento del solco pomeriale, la preghiera di Romolo alle divinità, la
costruzione delle mura.
Apta dies legitur, qua moenia signet aratro;
sacra Pales suberant: inde movetur opus.
Fossa fit ad solidum, fruges iaciuntur in ima
et de vicino terra petita solo;
fossa repletur humo, plenaeque imponitur ara,
et novus accenso finditur igne focus.
Inde premens stivam designat moenia sulco;
alba iugum niveo com bove vacca tulit.
Vox fuit haec regis: «Condenti, Iuppiter, urbem,
et genitor Mavors Vestaque mater, ades,
quosque pium est adhibere deos, advertite cuncti!
auspicibus vobis hoc surgat opus.
Longa sit huic aetas dominaeque potentia
terrae,
sitque sub hac oriens occiduusque dies».
Ille praecabatur, tonitru dedit omina laevo
Iuppiter et laevo fulmina missa polo.
Augurio laeti iaciunt fundamina cives,
et novus exiguo tempore murus erat[16].
Il testo, come ho detto, è stato assai ben studiato dal punto di
vista dello ius augurium: non
sarebbe, dunque, molto significativo soffermarsi ulteriormente a descrivere le
varie fasi del manifestarsi della volontà degli dèi, i quali col tuono e col
fulmine determinano l’augurium che
perfeziona e conferma l’avvenuta fondazione della città. Dal momento in cui si
manifesta l’augurium, che costituisce
anche l’atto conclusivo della fondazione, ha inizio l’esistenza (religiosa e
giuridica) della urbs Roma e quindi
anche dei suoi cives; i quali,
infatti, non più vulgus ma cives, costruiranno in breve tempo le
mura della città[17].
Vorrei soffermarmi, invece, brevemente sul testo della
preghiera che Romolo nel fondare la sua città rivolge a Iuppiter, Mars, Vesta e agli altri Dèi quosque pium est adhibere (Vox fuit haec regis: «Condenti, Iuppiter,
urbem, / et genitor Mavors Vestaque mater, ades, / quosque pium est adhibere
deos, advertite cuncti / auspicibus vobis hoc surgat opus. / Longa sit huic
aetas dominaeque potentia terrae, / sitque sub hac oriens occiduusque dies):
non tanto sul contenuto dell’invocazione, con cui il poeta proietta nel passato
romuleo l’universalità dell’imperium
di Roma, storicamente determinato nell’età augustea, quanto piuttosto sulla
struttura della preghiera.
Può essere interessante sottolineare, al riguardo, la perfetta
aderenza della formulazione poetica alla cautela rituale delle formule di
preghiera elaborate dai sacerdoti romani, i quali, quasi ad esorcizzare l’umana
impossibilità di conoscere il numero degli dèi, prescrivevano al fedele di
rivolgersi sempre ad generalitatem, ne
quod numen praetereat, una volta pronunciata l’invocazione alle divinità
particolari onorate nella cerimonia[18].
Dopo i riti la terminologia. Per quanto compaia con maggiore
frequenza nelle opere di storici, come Tito Livio[19],
e di antiquari come Varrone (il quale aveva dedicato un libro alla narrazione
degli initia urbis [Romanae])[20],
l’espressione – e quindi la categoria – initia Urbis non risulta,
comunque, estranea alla lingua dei giuristi.
Per ragioni di tempo, mi limiterò a proporre qualche
considerazione sull’esempio più famoso – almeno per noi giuristi – che è il
testo di Gaio in D. 1.2.1.
D. 1.2.1 (Gaius libro primo ad
legem duodecim tabularum): Facturus legum vetustarum interpretationem
necessario prius ab urbis initiis repetendum existimavi, non quia velim
verbosos commentarios facere, sed quod in omnibus rebus animadverto id
perfectum esse, quod ex omnibus suis partibus constaret: et certe cuiusque rei
potissima pars principium est.
[«Nell'accingermi
all'interpretazione degli antichi " versetti " ho ritenuto che,
occorresse necessariamente in primo luogo risalire agli inizi della città, non
perché voglia scrivere commentari prolissi ma perché in tutte le cose ritengo
perfetto solo ciò che consti di tutte le sue parti: e certo di ciascuna cosa è
il principio la parte più importante» (trad. di Lelio Lantella)][21]
Non posso, né sarebbe opportuno, presentare ora un’articolata
esegesi del celebre testo gaiano, che peraltro non è esente da sospetti di
interpolazioni[22].
Al riguardo, mi pare da condividere l’impostazione di Lelio
Lantella, il quale ha studiato il passo in relazione alla proposizione
metodologica affermata dal giurista «cuiusque rei potissima pars principium
est», in un denso e stimolante saggio pubblicato nel 1983 negli Studi
Sanfilippo.
Il testo gaiano è stato ristudiato, di recente, da Sandro
Schipani[23];
il quale – superando in parte i risultati di Lantella – è pervenuto alla
conclusione che principium in D. 1.2.1 vada intepretato come «inizio,
che ha in sé, più che ogni altra parte, il proprio fondamento»[24].
Al di là delle possibili implicazioni derivanti dalle diverse
letture proposte (vuoi che si debba leggere: necessario prius ab urbis
initiis repetendum existimavi[25];
oppure: necessario p[opuli] R[omani] lus ab urbis initiis repetendum
existimavi[26]),
il testo di Gaio mi pare molto importante, proprio per la concezione
storico-giuridica degli initia Urbis che in esso si appalesa.
Gli initia Urbis sono presentati da Gaio come principium
della storia delle istituzioni romane, e quindi come potissima pars
di quelle istituzioni; che, nel divenire storico della vita del popolo
romano, hanno accresciuto e perfezionato la loro completezza iniziale.
Per quanto, a proposito dell’«initium civitatis nostrae»,
non manchi nello stesso titolo dei Digesta, precisamente nel successivo
frammento di Pomponio, una visione più “dinamica” proprio dell’origine e
dell’evoluzione del diritto[27].
Nei libri ab urbe condita di Tito Livio
si registra di norma una convinta adesione – forse anche influenzata dalla
coeva restaurazione religiosa di Augusto – alla “teologia” della storia propria
dei collegi sacerdotali romani; i quali, fin dalle prime elaborazioni
teologiche e giuridiche rilevabili nei loro documenti, teorizzarono un rapporto
di imprescindibile causalità con la
religio[28] per gli initia Urbis, da
cui conseguiva la vita e l’imperium
del Popolo romano[29].
Nell’opera liviana, infatti, traspare più volte la convinzione
che la storia dei Romani costituisse la prova più inconfutabile di come nelle
vicende umane «omnia prospera evenisse
sequentibus deos»[30];
unitamente ad un altro convincimento profondo: la pietas e la fides[31]
avevano costituito (e costituivano) gli elementi essenziali per la
legittimazione divina dell’imperium
dei Romani. A suo avviso, gli Dèi si sarebbero mostrati, in ogni circostanza,
assai più ben disposti verso coloro i quali avessero osservato la pietas ed onorato la fides («favere enim pietati
fideique deos, per quae populus
Romanus ad tantum fastigii venerit»)[32].
Ai fini del nostro discorso, appare più rilevante un altro passo
di Tito Livio[33],
peraltro assai conosciuto, tratto dal quinto dei suoi ab urbe condita libri (Liv. 5.52.1-3). In questo testo, relativo
alla narrazione degli eventi appena successivi alla distruzione dell’Urbe ad
opera dei Celti, il grande annalista, con un discorso attribuito a Furio
Camillo, ha voluto caratterizzare la città di Roma, proprio in ragione dei suoi
initia (cioè dei riti della sua fondazione), come lo spazio terrestre
massimamente votato alla religione[34]:
Tito Livio 5.52: [1] Haec culti neglectique numinis
tanta monumenta in rebus humanis cernentes ecquid sentitis, Quirites, quantum
uixdum e naufragiis prioris culpae cladisque emergentes paremus nefas? [2]
Vrbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non
religionum deorumque est plenus; sacrificiis sollemnibus non dies magis stati
quam loca sunt in quibus fiant. [3] Hos omnes deos publicos priuatosque, Quirites, deserturi estis?.
[Vedendo queste così grandi prove
dell’importanza che ha nelle cose umane il rispetto degli Dèi, non avvertite, o
Quiriti, quale empietà ci prepariamo a commettere, appena scampati dal
naufragio della colpa e della rovina precedente? Abbiamo una città fondata con
regolari auspici e augurii, dove non vi è luogo che non sia pieno di cose sacre
e di dèi; per i sacrifici solenni, nonché i giorni, sono stati fissati anche i
luoghi in cui devono compiersi. Volete abbandonare, o Quiriti, tutti questi
Dèi, pubblici e privati?]
La valenza religiosa di questo testo liviano era stata già colta
assai bene da Huguette Fugier nelle sue «ricerche sulle espressioni del sacro
nella lingua latina»[35]; del
resto il testo di Livio è molto esplicito: con buone argomentazioni, tutte
svolte sul filo della teologia e dello ius sacrum, Camillo
sosteneva che il Popolo romano sarebbe perito qualora avesse abbandonato il
sito dell’Urbs Roma, dove peraltro «nullus locus in ea non religionum
deorumque est plenus»; cioè l’unico luogo che aveva determinato (al momento
degli initia Urbis) e poteva assicurare (nel tempo) l’identità
religiosa e giuridica del Popolo romano, in quanto fondato da Romolo con un
atto inaugurale seguendo il volere degli Dèi.
Detto in altre parole, il pensiero di Camillo è che non si
potesse conservare la pax deorum al di fuori del solo ambito
locale (la Urbs Roma) adatto a contenere i riti e i sacrifici che
ordinariamente assicuravano al Popolo romano la conservazione della pax deorum.
Anzi nella parte finale del testo, si
confondono volutamente i luoghi con gli Dèi onorati in quei luoghi: Tito Livio,
infatti, fa dire a Camillo che l’abbandono del sito di Roma corrisponderebbe
all’abbandono degli Dèi romani: «Volete abbandonare, o Quiriti, tutti questi
Dèi, pubblici e privati?»
Questo imprescindibile legame tra Dèi e luoghi deputati al loro
culto, di cui la Urbs Roma rappresenta l’esempio più
significativo, non deve far dimenticare, tuttavia, che la religione politeista
romana, proprio perché finalizzata alla conservazione della pax deorum,
fu sempre caratterizzata da forti tensioni universalistiche e da costanti
“aperture” cultuali verso l’esterno.
Agli initia Urbis, attraverso i riti di fondazione
e la definizione del pomerio[36],
possono farsi risalire alcune concrete realtà materiali di res sanctae:
in particolare le mura dell’Urbs (e poi, per assimilazione del rito
augurale di fondazione, di tutte le città dell’orbe romano) e, almeno in età
giustinianea, anche le porte della città.
Proprio la santità delle mura era stata utilizzata come caso
esemplificativo di sanctum dal giurista Elio Gallo[37],
autore di un’opera intitolata «De verborum, quae ad ius civile pertinent,
significatione», laddove distingueva tria divini iuris genera[38].
Ora, a proposito dei tria divini iuris genera, si può
notare che, mentre per sacrum e per religiosum il giurista
individua sia le res (edificio; sepolcro) sia le procedure operative (consecratio;
inumazione del cadavere), nel caso di sanctum indica invece solo
l’oggetto della santità, tacendo sulle procedure operative, e quindi sulla
competenza a rendere sancta una res.
Ci soccorre al riguardo Cicerone, il quale nel de natura
deorum ricollega la santità delle mura alla teologia e al diritto elaborati
dal collegio dei pontefici («urbis muris, quos vos pontifices sanctos esse
dicitis»)[39].
Ancora più importante, al
riguardo, appare la glossa Tesca dell’epitome di Festo[40],
pervenuta purtroppo irrimediabilmente mutila; tuttavia nel testo festino, si
leggono con sicurezza le parole sancta loca, pontifici libri
e dedicaverit.
Si tratta, in tutta
evidenza, di una citazione testuale dai libri pontificum. Sulla
base della quale non risulta difficile affermare – ritengo senza alcun dubbio –
la presenza nei libri pontificum di formule solenni, di regole
rituali e di procedure relative alla santificazione dei luoghi; nonché una
competenza più generale dei pontefici in materia di sorveglianza e
regolamentazione dei loca sancta.
In relazione alla
regolamentazione dei sancta loca, i pontefici dovevano certo
raccordare la loro attività a quella degli àuguri; poiché. come è stato
autorevolmente dimostrato (Valeton, Catalano) «Dapprima
[…] ciò che era inauguratus era sanctus; anche se, ovviamente, la
sanctitas non era esclusiva delle realtà inaugurate».
In questa prospettiva, non
pare possibile sostenere che la santità delle mura sia più tarda rispetto alle
realtà inaugurate; tesi – come è noto – proposta dal Fabbrini[41].
Tuttavia, il dato testuale non corrobora la tesi del Fabbrini. Nessuna fonte
lascia intendere, infatti, una scansione temporale così evidente tra le due
accezioni di sanctum; né, d’altra parte, esiste prova certa che il
concetto di sanctum, inteso come «ciò che è inaugurato», abbia mai avuto
operatività esclusiva, perfino nella fase primordiale dell’esperienza giuridica
romana.
È certo, invece, che la teologia
e il diritto dei sacerdotes, considerava la santità delle mura connessa
agli stessi riti di fondazione dell’Urbe; attraverso le prescrizioni di quei libri
rituales etruschi, a cui secondo la tradizione si sarebbe richiamato il
fondatore di Roma[42].
Nella compilazione giustinianea numerose disposizioni tutelano
la santità delle mura. In D. 1.8.9.4[43],
Ulpiano attesta che non è lecito rifare le mura, né affiancare o sovrapporre
una costruzione senza l’autorizzazione del principe o del preside (forse di quest’autorizzazione
in età repubblicana erano competenti i pontefici)[44].
Nel frammento D. 1.8.11, il giurista Pomponio afferma che è sacrilegio, punito
con la pena capitale, non solo violare le mura, ma perfino il semplice transcendere
scalis admotis, cioè «scavalcare le mura avendovi accostato delle scale»,
poiché «non è lecito che i cittadini romani escano altrimenti che attraverso le
porte, essendo l’uscire altrimenti atto da nemici o cosa abominevole»[45].
Questa santità delle mura, forse perché volta a tutelare, oltre
che l’inviolabilità nei loca, anche la sicurezza degli homines,
risulta poi estesa anche al vallum degli accampamenti militari, che a
nessuno era lecito violare, pena la morte[46].
Come aveva annotato negli anni quaranta del secolo scorso Lorenz
Lersch[47],
in un paragrafo delle sue Antiquitates
Vergilianae, intitolato: «De urbis
condendae more», nel poema di Virgilio[48] non
mancano precisi riferimenti ai riti che sono necessari «ad novae urbis vel
coloniae aedificationem». Che nel descrivere tali riti Virgilio, «oltre che il
mondo della colonizzazione greca», abbia tenuto presenti soprattutto «i
concetti, le forme e la prassi della colonizzazione romana», è la tesi espressa
di recente da G.A. Mansuelli, nella v. “Città” da lui scritta per
l’Enciclopedia Virgiliana[49].
Così il poeta in Aen. 5.755-761[50],
ci presenta Enea che, anacronisticamente[51],
procede alla fondazione di una nuova Troia, la città governata da Aceste in
Sicilia, sulla base del rituale romano di fondazione, con il tracciamento del
solco e il sorteggio delle case. Ma per completare l’opera di fondazione, sono
necessarie anche le strutture giuridico-politiche comunitari: vi provvede
Aceste, re della nuova città, costituendo l’assemblea del popolo e promulgando
le prime leggi[52].
Nel poema virgiliano, le fondazioni più importanti di città
appaiono proiettate in un futuro più o meno lontano. Tale è il caso di Alba
Longa che sarà fondata da Ascanio (Aen.
6, 766). Tale è il caso della Roma di Romolo, l’inclita Roma, di cui Anchise in Aen.
6, 781-784 tratteggia il destino imperiale[53];
anche se per poter raggiungere il magnum
imperium a cui è destinata, l’Urbs avrà bisogno di essere fondata
anche legibus da Numa Pompilio[54].
Dalla profezia di Anchise emerge, dunque, il destino di Roma
all’impero. Negli initia Urbis stanno
le premesse per ciò che si dovrà compiere: «In altri termini - scrive
Massimiliamo Pavan - la R(oma) di Romolo è già città imperiale, nella stessa
misura in cui l’impero pacificato da Augusto sarà un impero romuleo»[55].
Del resto, fin dal primo libro dell’Eneide si appalesa nella
promessa di Iuppiter[56],
subito dopo la fondazione di Roma, il futuro imperium dei Romani: l’imperium
sine fine (Aen. 1.279)[57].
La forte carica ideologica e la precisa connotazione religiosa
del passo non sono sfuggiti a P. Boyancé, per il quale proprio sull’annuncio Imperium sine fine dedi «sur l’annonce
de l’Empire dans la bouche du dieu suprême repose pour ainsi dire toute
l’oeuvre»[58].
Già i commentari antichi[59]
avevano stabilito un nesso ben preciso tra l’imperium sine fine e l’eternità di Roma; lo stesso orientamento si
registra nella maggior parte della dottrina contemporanea (C. Koch[60],
F. Fabbrini[61],
E. Paratore[62],
K.D. Bracher[63],
J.-L. Pomathios[64]
ecc.).
Tuttavia, ad un esame più attento, il verso non sembra avere
univoco senso temporale. Lo interpretano in senso spazio/temporale sia G.
Piccaluga[65],
sia R. Turcan[66];
mentre il collega sassarese A. Mastino sostiene che nei due versi è attestata
la propensione dell’universalismo religioso e giuridico del popolo romano a
superare tutti i limiti di spazio: «l’impero romano era almeno teoricamente un imperium sine fine, che non aveva
frontiere»[67].
Nella prospettiva storiografica dell’Eneide, il regno di Saturno
(Aen. 8.314-327), che fonda
nell’antichissimo Lazio il mos, il cultus, le leges e la pax,
costituisce il vero punto d’inizio della storia “nazionale” romana; la quale si
sviluppa attraverso il re Latino e la discendenza di Enea, ancora presente a
Roma nella persona di Cesare Augusto: il Troianus
Caesar profetizzato da Iuppiter in Aen. 1.286-290.
Con Ottaviano il passato si fonde col presente e si proietta nel
futuro: solo a lui, tra i personaggi dei tempi storici, è riservato il
raffronto con Saturno, solo a lui è consentito dalla profezia di Anchise il condere aurea saecula (Aen. 6.791-795):
Hic vir, hic est, tibi quem promitti
saepius audis,
Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet
saecula qui rursus Latio regnata per arva
Saturno quondam; super et Garamantes et
Indos
proferet imperium[68].
Si adempiono in tal modo, per Virgilio e per la sua generazione,
i fata degli Eneadi e della Urbs Roma:
appare ora evidente che le vicende storiche dell’imperium dei Romani sono state determinate dagli Dèi al fine di
instaurare nell’età presente, tramite Augusto, un nuovo secolo d’oro, forse
superiore per stabilità anche agli antichi aura
saecula di Saturno[69].
[1] Utilizzo la categoria «sistema
giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle
motivazioni offerte da P. Catalano,
Linee del sistema sovrannazionale romano,
Torino 1965, 30 ss., in part. 37 n. 75; Id.,
Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 445 s.; Id., Diritto
e persone. Studi su origine e attualità del
sistema romano, Torino
1990, 57; con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni,
laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis
Humanae'', Roma 1991, 34 s. La validità del concetto di «ordinamento
giuridico» viene ancora riaffermata negli ultimi scritti di R. Orestano: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, 395 ss.; Id., Le
nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del
diritto, in Rivista trimestrale di
Diritto Pubblico 4, 1985, 959 ss., in part. 964 ss.; Id., Introduzione
allo studio del diritto romano, Bologna 1987, 348 ss.; seguito, fra gli
altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza
costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, 10 ss.; e parzialmente da A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, 56 s.
[2] C.
Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie
italiane, (pubblicato per la prima volta nel Crepuscolo [17 e 31
ottobre; 12 e 26 dicembre] del 1858), ora in Id.,
Scritti storici e geografici, II, a cura di G. Salvemini e E. Sestan,
Firenze 1957, 383 ss.
[3] N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique. Étude sur le culte, le
droit, les institutions de la Grèce et de Rome, 1864; riedizione Paris
1984, a cura di F. Hartog. Cfr. A. Sorel,
Notice sur les travaux de M. Fustel de
Coulanges, in Compte rendu de l'Académie de Sciences Morales et
Politiques (Institut de France) 1890, 5 ss. L’influenza sulla scienza romanistica
francese di questo grande storico e comparatista, con il quale «si percepisce
oggi il caratteristico inizio di quella che è la caratteristica storiografia
francese del mondo antico nei suoi elementi distintivi dalla storiografia
tedesca del mondo antico» (A. Momigliano,
La città antica di Fustel de Coulanges,
in Rivista Storica Italiana 82, 1970,
81 = Id.,
Quinto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1975, I, 159), è stata ben evidenziata da J. Gaudemet, Tendances et méthodes en droit romain, in Revue Philosophique 145, 1955, 151; e da A. Fernández-Barreiro, Los
estudios de derecho romano en Francia después del código de Napoleón, Roma-Madrid 1970, 54, il quale ha
sottolineato che la «Cité antique
estaba destinada a influir poderosamente en la concepción sociológica de la
Historia del Derecho». Vedi, più di recente, C.
Ampolo, Le origini di Roma e la
«Cité antique», in Mélanges de l'École Française de Rome 92, 1980, 567 ss.; C. Warnke, Antike Religion und antike Gesellschaft: wissenschaftshistorische
Bemerkungen zu Fustel de Coulanges “La cité antique”, in Klio 68, 1986, 287 ss.
[4] C.
Ampolo, La nascita della città, in Storia di Roma. 1. Roma in
Italia, direzione di A. Momigliano e A. Schiavone, Torino 1988, 153.
[5]
Cicerone, De republ. 6.13: 'Sed quo sis Africane alacrior ad tutandam
rem publicam, sic habeto: omnibus qui patriam conservaverint, adiuverint,
auxerint, certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno
fruantur; nihil est enim illi principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem
in terris fiat acceptius, quam concilia coetus que hominum iure sociati, quae
civitates appellantur; harum rectores et conservatores hinc profecti huc
revertuntur'. Macrobio, Sat. 1.8.1: Nihil est enim illi principi
deo, qui omnem mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam
concilia coetus que hominum iure sociati, quae civitates appellantur.
[7]
Svetonio, Augusti vita, 7: cum, quibusdam censentibus Romulum appellari
opportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius
vocaretur, non tantum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque
religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicatur, ab auctu vel
ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: Augusto augurio
postquam inclita condita Roma est.
[8] Fra la sterminata mole di
bibliografia vedi: per gli aspetti politico-sociali, R. Syme, La
rivoluzione romana, trad. it., Torino 1962 (rist. 1974), 442 ss.; C. Parain, Augusto, trad. it., Roma 1979, 113 ss.; M.A. Levi, Augusto e il suo tempo, Milano 1986, 245 ss.; per i riflessi
giuridico-costituzionali, F. De Martino,
Storia della costituzione romana, IV,
2a ed., Napoli 1974, 230 ss.; per la materia propriamente religiosa, J. Bayet, La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it.,
Torino 1959, 185 ss., e K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München
1960, 294 ss.
[9] Tito Livio 1.4.1: Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo
urbis maximique secundum deorum opes imperii principium.
[10] P.
Catalano, Alcuni sviluppi del concetto giuridico di imperium populi
Romani, in Popoli e spazio romano tra
diritto e profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi III], Napoli 1986,
649 ss.
[11] Per il testo seguo l’edizione di H. Le Bonniec, Ovide, Les
fastes, tome II, Bologna 1970. Sulla figura del poeta non è possibile dare
qui referenze bibliografiche complete: cfr., per tutti, F. Stella Maranca, Ius pontificium nelle opere dei
giureconsuli e nei fasti di Ovidio, in Annali
del Seminario giuridico dell’Università di Bari 1, 1927, 3 ss.; R. Düll,
«Ovidius iudex». Rechtshistorische Studien zu Ovids Werken, in Studi in onore di Biondi, I, Milano
1965, 73 ss.; R. Schilling, Ovide
interpréte de la religion romaine, in Revue
des études Latines 46, 1968,
222 ss.; A. W. J. Holleman, Ovid and politics, in Historia 20, 1971, 458 ss.; R. Syme, History in Ovid, Oxford 1978, in part. 21 ss.: «Evidence in the
Fasti»; D. Porte, L’étiologie religieuse dans les ‘Fastes’
d’Ovide, Paris 1985, ivi ampia rassegna bibliografica, 539 ss.
[12] J.
H. Vanggaard, On Parilia, in Temenos
7, 1971, 93 ss.; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario
festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, 128 ss.
[13] P.
Catalano, Contributi allo studio del
diritto augurale, I, Torino 1960, 580 ss.
[15] Fasti
4.809-810: Iam luerat poenas frater
Numitoris, et omne / pastorum gemino sub duce vulgus erat.
[16] Fasti,
4.819-836.
[17] Da sottolineare, ancora una volta,
l’aderenza del poeta alla tradizione sacerdotale dello ius augurium: è noto, infatti, che gli augures publici populi Romani distinguevano tra il pomerio, confine
religioso dell’urbs, e la cinta
muraria della città, che non si identificava con il pomerio, nè era
indispensabile per l’esitenza giuridica dell’urbs. Vedi Varrone, De ling.
Lat. 5.143; Tito Livio 1.44.3-7; Aulo Gellio, Noct. Att. 13.14.1.
[18]
Servio Dan., Georg. 1.21: ‘Dique
deaeque omnes’ post specialem invocationem transit ad generalitatem, ne quod
numen praetereat, more pontificum, (per) quos ritu veteri in omnibus sacris
post speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod fiebat, necesse erat invocari,
generaliter omnia numina invocabantur. Quod
autem dicit “studium quibus arva tueri”, nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris pontificalibus, qui et nomina deorum
et rationes ipsorum nominum
continent, quae etiam Varro dicit. Nam, ut supra diximus,
nomina numinum ex officiis constant imposita, verbi causa ut ab occatione
deus Occator dicatur, a sarritione Sarritor, a stercoratione Sterculinus, a
satione Sator. Seguo la lezione del testo serviano offerta da B. Cardauns: M. Terentius Varro,
Antiquitates rerum divinarum, I. Die Fragmente, Wiesbaden 1976, 64 fragm. 87. L’insigne studioso ritiene, non
senza ragione, che il passo di Servio sia un frammento varroniano tratto dal
XIV libro delle Antiquitates rerum
divinarum: «Man darf also Serv. georg. 1, 21 (fr.87)
mit guter Wahrscheinlichkeit auf RD XIV zurückführen und der Einleitung des
Buches zuweisen, in der Varro auf Indigitamenta
als wichtige - doch sicher nicht einzige - Quelle hinwies. Dass auch die bei
Servius folgenden Ausführungen und vor allem die Zwölfgötterreihe den RD entstammen,
ist möglich, aber ungewiss» [Cit. II. Kommentar, 184]. Brevemente anche F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, 108 s.
[19] Tito Livio, 9.17.10: Horum in
quolibet cum indoles eadem, quae in Alexandro, erat animi ingenii que, tum
disciplina militaris, iam inde ab initiis urbis tradita per manus, in artis
perpetuis praeceptis ordinatae modum venerat.
Tito Livio, peraltro, utilizza anche i termini primordia
e origo: Praef. 1-2: Facturus ne operae pretium sim, si a
primordio urbis res populi Romani perscripserim, nec satis scio nec, si sciam,
dicere ausim, quippe qui cum veterem tum vulgatam esse rem videam, dum novi
semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte
rudem vetustatem superaturos credunt. Praef. 7: Datur haec venia
antiquitati, ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat; et
si cui populo licere oportet consecrare origines suas et ad deos referre
auctores: ea belli gloria est populo Romano, ut, cum suum conditoris que sui
parentem Martem potissimum ferat, tam et hoc gentes humanae patiantur aequo
animo, quam imperium patiuntur. 1.4.1: Sed debebatur, ut
opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii
principium.
Cfr. Giustino, Epitoma hist. 43.1.2: Breviter
igitur initia Romani imperii perstringit, ut nec modum propositi operis excedat
nec utique originem urbis, quae est caput totius orbis, silentio praetermittat.
[20] Quintiliano, Inst. orat.
1.6.12: Quaedam sine dubio conantur eruditi defendere, ut, cum deprensum
est, 'lepus' et 'lupus' similia positione quantum casibus numeris que
dissentiant, ita respondent non esse paria, quia 'lepus' epicoenon sit, 'lupus'
masculinum, quamquam Varro in eo libro, quo initia urbis [Romanae] enarrat,
lupum feminam dicit Ennium Pictoremque Fabium secutus.
[21] Seguo la traduzione di L. Lantella, 'Potissima
pars principium est' (D. 1.2.1), in Studi in onore di C. Sanfilippo,
IV, Milano 1983, 283 s. Sul testo gaiano, vedi anche F. Gallo, La
storia in Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del
giurista, Atti del Convegno Torinese 4-5 maggio 1978 in onore del Prof.
Silvio Romano, Milano 1981, 89 ss.; S.
Morgese, Appunti su Gaio «Ad legem
duodecim tabularum», ibid., 109 ss.
[22] Cfr. Th. Mommsen,
Gaius ein Provinzialjurist (1868), in Id.,
Gesammelte Schriften, II. Juristische Schriften, II, Berlin 1905,
33 n. 15; W. Kalb, Das
Juristenlatein. Versuch einer Charakteristik auf Grundlage der Digesten, 2a
ed., Nürnberg 1888, 65; G. Beseler,
Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, III,: Tübingen
1913, 131; IV, Tübingen 1920, 233; F. Schulz,
Einführung in das Studium der Digesten, Tübingen, 1916, 18; Id., Storia della giurisprudenza
romana, (Oxford
1946), Firenze 1968, 333 s.; F. Pringsheim, Beryt und Bologna, in Festschrift
O. Lenel, Leipzig 1921, 267 s.; E. Albertario,
Sulla dotis datio ante.nuptias (1925), in Id., Studi di diritto romano, Milano 1933, I, 324 n.
6; A. Berger, Some remarks on
D. 1.2.1, and CIL 6.10298, in Iura II, 1951, 102 ss.; C.A. Maschi, Il diritto romano. I. La
prospettiva storica della giurisprudenza classica, Milano (1957)
1966, 132 ss.; A.M. Honoré, Gaius, Oxford 1962, 105 s.; M. Lauria, Jus romanum, I, 1, Napoli 1963,
33; M. Wlassak, Rechtshistorische
Abhandlungen, in Österreichische Akademie der Wissenschaften,
Phil.-hist. Klasse, Sitzungsbericht 248, Wien
1965, 128 ss.; F. Casavola, Gaio
nel suo tempo, in
AA.VV., Gaio nel suo tempo, Napoli
1966, 9 ss.; F. Guizzi, Aspetti
giuridici del sacerdozio romano. Il sacerdozio di Vesta, Napoli 1968, 16 ss.; G.G. Archi, Interpretatio iuris -
interpretatio legis - interpretatio legum, in ZSS, LXXXVII, 1970. 8 n. 8 (= in
Studi F. Santoro-Passarelli, Napoli
1972, VI, 10 n. 8); M. Fuhrmann, Intepretatio.
Notizen zur Wortgeschichte, in
AA.VV., Sympotica F. Wieacker,
Göttingen 1970, 101; D. Nörr,
Divisio und Partitio, Berlin
1972, 49 s.; M. Talamanca, Lo
schema 'genus-species' nelle sistematiche dei giuristi romani, in La
filosofia greca e il diritto romano,
Quad. Lincei 221, II, Roma 1977, 189 n. 539.
[23] S.
Schipani, Principia iuris. Potissima pars principium est. Principi
generali del diritto. Schede sulla formazione di un concetto, in Nozione
formazione e intepretazione del diritto, dall’età romana alle esperienze
moderne. Ricerche dedicate al Professor Filippo Gallo, Napoli 1997, 631 ss.
[24] S.
Schipani, Principia iuris. Potissima pars principium est. Principi
generali del diritto. Schede sulla formazione di un concetto, cit., 649 ss.
[25] L.
Lantella, 'Potissima pars principium est' (D. 1.2.1), cit.,
293: «Orbene, se su
questa frase non vi fossero perplessità di critica testuale si potrebbe
serenamente sostenere ciò che segue. Il testo dice, in sostanza, che occorre
risalire agli inizi della città : ne risulta allora che il correlato di '
principium ' parrebbe identificarsi con la fondazione di Roma e tempi
circostanti (inseriti in un racconto che purtroppo non è pervenuto e non
possiamo certo immaginare, ma che avrà pur sempre utilizzato, analogamente a
Pomponio, i ben noti elementi della tradizione)».
[26] L.
Lantella, 'Potissima pars principium est' (D. 1.2.1), cit.,
294: «Orbene, se il
testo originario fosse così occorrerebbe sostenere questa volta una diversa soluzione:
infatti, come correlato di ' principium ', non
potremmo più pensare genericamente a “ gli inizi della città ", ma
dovremmo invece pensare specificamente a diritto del popolo romano agli inizi
della città ". La differenza può sembrare minima tuttavia, quantomeno
nella formulazione e nel senso, è abbastanza netta ed appare identificabile
così: nel primo caso abbiamo "gli inizi della città di Roma"; nel
secondo caso abbiamo, invece, "gli inizi del diritto romano". La prima formulazione (quella pervenuta)
sembra più liberale in quanto apre il campo alla storia tout court; la seconda
(quella ipotizzata) sembra invece più ristretta in quanto fa riferimento a una
storia settoriale e cioè alla storia giuridica in senso proprio».
[27] D. 1.2.2.1 (Pomponius libro
singulari enchiridii): Et quidem initio civitatis nostrae populus sine
lege certa, sine iure certo primum agere istituit omniaque manu a regibus
gubernabantur.
[28] Per
significati e spettro semantico della parola, cfr. H. Fugier, Recherches
sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 172 ss.; é.
Benveniste, Le vocabulaire des
institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, 265 ss.; H. Wagenvoort, Wesenzüge altrömischer Religion, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York
1972, 348 ss. [ripubblicato col titolo Characteristic
Traits of Ancient Roman Religion, in Id.,
Pietas. Selected Studies in Roman
Religion, Leiden 1980, 223 ss.]; G.
Lieberg, Considerazioni sull'etimologia
e sul significato di Religio, in Rivista
di Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, 34 ss.; R. Muth, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 290 ss.; R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in Id., Rites,
cultes, diex de Rome, Paris 1979, 30 ss.; E.
Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988,
423 ss.
Quanto invece all'antitesi religio/superstitio, vedi il lavoro ormai classico di W. F. Otto, Religio und Superstitio, in Archiv
für Religionswissenschaft 14, 1911, 406 ss.; e il più recente saggio di M. Sachot, Religio/superstitio. Histoire d'une subversion et d'un
retournement, in Revue de
l'Histoire des Religions 208, 1991, 355 ss.
[29] Valgano, al riguardo, le acute
osservazioni di R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto
divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano
46, 1939, 198, per il quale «è certo che nella storia primitiva di Roma domina
il concetto che non solo le principali vicende, ma i principi stessi
dell'organizzazione sociale fossero rispondenti alla volontà degli Dèi».
[30] Tito Livio 5.51.4-5: Equidem, si
nobis cum urbe simul positae traditaeque per manus religiones nullae essent,
tamen tam evidens numen hac tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem
neglegentiam divini cultus exemptam hominibus putem. Intuemini enim horum
deinceps annorum vel secundas res vel adversas; invenietis omnia prospera
evenisse sequentibus deos, adversa spernentibus. Cfr. Tito Livio 1.9.3-4: Urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus
ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem. 1.21.1-2: Ad haec consultanda
procurandaque multitudine omni a vi
et armis conversa, et animi
aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse
rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat, ut fides ac ius
iurandum pro legum ac poenarum
metu civitatem regerent. Et cum
ipsi se homines in regis
velut unici exempli mores formarent, tum finitimi etiam populi, qui antea
castra non urbem positam in medio ad sollicitandam
omnium pacem crediderant, in eam
verecundiam adducti sunt, ut civitatem
totam in cultum versam deorum violare ducerent nefas. 1.55.3-4: Inter principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam
tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium
sacellorum exaugurationes admitterent
aves, in Termini fano non
addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est, non
motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum
sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere. 8.3.10: Hoc demum proelium Samnitium res ita infregit,
ut omnibus conciliis fremerent minime id quidem mirum esse, si impio
bello et contra foedus suscepto, infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent. 28.11.1: In civitate tanto discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum adversorumque causas in deos
verterent, multa prodigia nuntiabantur.
[31] M. Merten,
Fides Romana bei Livius, Diss.
Frankfurt am Main 1965; W. Flurl, Deditio in fidem. Untersuchungen zu Livius
und Polybios, Diss. München 1969, 127 ss.; su fides
e pietas vedi T. J. Moore, Artistry
and Ideology: Livy’s Vocabulary of Virtue, Frankfurt am Main 1989, in part.
35 ss., 56 ss.
[32]
Tito Livio 44.1.9-11: Paucis post diebus
consul contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei perpetrato in fratrem,
cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum veneficia, caedes,
latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum Romanum, direptiones
sociarum urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque invisa essent, sensurum
in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique deos, per quae populus
Romanus ad tantum fastigii venerit. Per una visione complessiva delle
concezioni religiose del sommo annalista romano, sono da consultare G. Stübler, Die Religiosität des Livius, Stuttgart-Berlin 1941; I. Kajanto, God and fate in Livy, Turku 1957; A. Pastorino, Religiosità romana dalle Storie di Tito
Livio, Torino 1961; W. Liebeschuetz,
The Religious position of Livy’s History,
in The Journal of Roman Studies 67,
1967, 45 ss.; D. S. Levene, Religion in Livy, Leiden-New York-Köln
1993; per le formule di preghiera, vedi invece F.
V. Hickson, Roman prayer language:
Livy and the Aeneid of Virgil, Stuttgart 1993.
[33] Già G. Scherillo, Il diritto
pubblico romano in Tito Livio, in Liviana,
Milano 1943, 79 ss., sottolineava, a ragione, la notevole rilevanza dei libri ab urbe condita del grande
annalista, quale fonte privilegiata per la conoscenza della complessa materia
dello ius publicum in età
repubblicana; nello stesso senso, più di recente, C. St. Tomulescu, La valeur juridique de l'histoire de
Tite-Live, in Labeo 21, 1975, 295
ss.
[34] Cfr.,
in tal senso, A. Ferrabino, Urbs
in aeternum condita, Padova 1942; J. Vogt,
Römischer Glaube und römisches Weltreich,
Padova 1943. Per quanto riguarda, invece, più specificamente l’ideologia, vedi
H. Haffter, Rom und römische Ideologie bei Livius, in Gymnasium 71, 1964, 236 ss. [= Id.,
Römische Politik und römische Politiker,
Heidelberg 1967, 74 ss.]; M. Mazza,
Storia e ideologia in Livio. Per
un'analisi storiografica della ‘praefatio’ ai ‘libri ab urbe condita’, Catania 1966, in part. 129
ss.; G. Miles, Maiores, Conditores, and Livy's Perspective of the Past, in Transactions of the American Philological Association 118, 1988,
185 ss.; B. Feichtinger, Ad
maiorem gloriam Romae. Ideologie und Fiktion in der
Historiographie des Livius”, in Latomus
51, 1992, 3 ss.
[35] H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la
langue latine, cit., 207: «En fait, le populus
ne pourrait subsister s’il perdait le milieu sacré qui le nourrit pour ainsi
dire, en quittant l’urbs fondée avec
l’acquiescement des auspices et par un acte inaugural; ou pour exprimer la même
idée à un niveau religieux un peu plus moderne, il ne pourrait conserver la pax deorum,
hors du cadre seul apte à contenir les sacrifices réguliers, par lesquels cette
“paix” se maintient. Telles sont les vérités que lui rappelle Camille, pour
ruiner la folle suggestion des tribuns, d’émigrer en masse vers le site de Véies»;
ma vedi anche la riflessione di C. M.
Ternes, Tantae molis erat…
De la ‘nécessité’ de fonder Rome, vue par quelques écrivains romains du –1er
siècle, in “Condere Urbem”. Actes des
2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg (janvier 1991), Luxembourg
1992, 18 s.
[36]
Varrone, De ling. Lat. 5.143: Oppida condebant in Latio Etrusco ritu
multi, id est iunctis bobus, tauro et vacca, interiore aratro circumagebant
sulcum (hoc faciebant religionis causa die auspicato), ut fossa et muro essent
muniti. Quare et oppida quae prius erant circumducta aratro ab orbe et urvo
urb[s]es[t]; ideo coloniae nostrae omnes in litteris antiquis scribuntur urbis,
quod item conditae ut Roma, et ideo coloniae et urbes conduntur, quod intra
pomerium ponuntur. Tito Livio, 1.44.4-5: Pomerium, verbi vim solam
intuentes, postmoerium interpretantur esse; est autem magis circamoerium,
locus, quem in condendis urbibus quondam Etrusci, qua murum ducturi erant,
certis circa terminis inaugurato consecrabant, ut neque interiore parte aedificia
moenibus continuarentur, quae nunc vulgo etiam coniungunt, et extrinsecus puri
aliquid ab humano cultu pateret soli. Hoc spatium, quod neque habitari neque
arari fas erat, non magis, quod post murum esset, quam quod murus post id,
pomerium Romani appellarunt; et in urbis incremento semper, quantum moenia
processura erant, tantum termini hi consecrati proferebantur. Aulo Gellio, Noct.
Att. 13.14.1: 'Pomerium' quid esset, augures populi Romani, qui libros
de auspiciis scripserunt, istiusmodi sententia definierunt: Pomerium est locus
intra agrum effatum per totius urbis circuitum pone muros regionibus certeis
determinatus, qui facit finem urbani auspicii.
Per il concetto normativo di pomerium rinvio a P. Catalano, Contributi allo studio
del diritto augurale, Torino 1960, 292 ss.; Id.,
Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano, in ANRW,
II.16.1, Berlin-New York 1978, 479 ss.
[37] Sul giurista vedi, tra gli altri, E. Klebs, Aelius, in Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft 1, 1, Stuttgart 1893, 492 s.; H. Bardon, La littérature latine inconnue, I. L'époque républicaine, Paris
1952, 302; II, 1956, 110; R. Orestano,
Gallo C. Elio, in Novissimo Digesto Italiano, VII, Torino
1961, 738; A. Guarino, Esegesi delle fonti del diritto romano
(a cura di L. Labruna), I, Napoli 1968, 145 s.; F.
Bona, Alla ricerca del "De
verborum, quae ad ius civile pertinent, significatione'' di C. Elio Gallo,
in Bullettino dell'Istituto di diritto
romano 90, 1990, 119 ss.; G. Falcone,
Per una datazione del «de verborum quae
ad ius pertinent significatione» di Elio Gallo, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 41, 1991,
225 ss.; F. Sini, A quibus iura
civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo, Torino
(1992) 1995, 58 ss.
[38] Festo, De verb. sign., p. 348
L.: Inter sacrum autem, et sanctum, et religiosum differentias bellissime
refert: sacrum aedificium, consecratum deo; sanctum murum, qui sit circum
oppidum; religiosum sepulcrum, ubi mortuus sepultus aut humatus sit, satis
constare ait; sed ita † portione † quadam, et temporibus eadem videri posse.
[39]
Cicerone, De nat. deor. 3.94: Est enim mihi te cum pro aris et focis
certamen et pro deorum templis atque delubris proque urbis muris, quos vos pontifices
sanctos esse dicitis diligentiusque urbem religione quam ipsis moenibus
cingitis; quae deseri a me, dum quidem spirare potero, nefas iudico.
[40] Festo, De verb. sign., p. 488
L.: sed sancta loca undique ---nt pontifici[s] libri, in
quibus ---que sedem que tescum que --- dedicaverit, ubi eos ac --- propitios
que.
[41] F. Fabbrini, v. 'Res divini iuris', in Novissimo
Digesto Italiano, XV, Torino 1968, 542: «All’accezione di sanctus come
“inaugurato” subentra quella di sanctus = “garantito”: garantito da un
atto sacer, e garantito dagli Dèi. Ciò che è garantito dagli Dèi è
considerato “immutabile”, “solido”, “sicuro”. è
in questa accezione che va ricercato il significato di sanctus dato alle
mura e alle porte fin da età piuttosto antica».
[42] Festo, De verb.
sign., p. 358 L.: Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus
perscribtum est, quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur, qua
sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae
distribuantur, exercitus constituant<ur>, ordinentur, cetera que eiusmodi
ad bellum ac pacem pertinentia.
[43] (Ulpianus libro sexagensimo
octavo ad edictum): Muros autem municipales nec reficere licet sine
principis vel praesidis auctoritate nec aliud eis congiungere vel super ponere.
[44] E. Lübbert, Commentationes
pontificales, Berolini 1859.
[45] D.
1.8.11 (Pomponius libro secondo ex variis lectionibus): Si quis
violaverit muros, capite punitur, sicuti si quis transcendet scalis admotis vel
alia quilibet ratione. Nam cives Romanos alia quam per portas egredi non licet,
cum illud hostile et abominandum sit: nam et Romuli frater Remus occisus
traditur ob id, quod murum trascendere voluit.
[46] D.
49.16.3.17 (Modestinus libro quarto de poenis): Nec non et si vallum
quis transcendat aut per murum castra ingrediatur, capite punitur.
[47] L. Lersch, Antiquitates Vergilianae ad vitam populi Romani
descriptae, Bonnae 1843, 30 ss.
[48] Per la
bibliografia sul poema virgiliano, mi pare utile rinviare a W. Suerbaum, Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie
mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 1, Berlin-New
York 1980, 3 ss. Quanto
alla “divini et humani iuris scientia” di Virgilio, vedi ora F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto
internazionale antico", cit., 17 ss.
[49] G.A.
Mansuelli, v. Città, in Enciclopedia
Virgiliana, I, Roma 1984, 803: «In sostanza la peregrinazione degli Eneadi
eqivale al trasferimento di un nucleo coloniale classico, di cui i responsi
oracolari e l’organizzazione interna fanno appunto una potenziale c(ittà),
anche prima che questa si materializzi nelle strutture costruite, ma, prima che
questo avvenga, di c(ittà) in senso pieno non si può parlare, anche per il
condizionamento di adempimenti rituali. In realtà quindi l’asserzione tucididea
che la c(ittà) sono gli uomini e non le mura, non è accettata da V(irgilio): la
c(ittà) potenziale vive e si muove nella speranza di attualizzarsi. In questa
angolazione si può dire che V(irgilio), oltre che il mondo della colonizzazione
greca, ha tenuto presenti i concetti, le forme e la prassi della colonizzazione
romana».
[50] Interea Aeneas urbem designat aratro / sortiturque domos;
hoc Ilium et haec loca Troiam / esse iubet. Gaudet regno Troianus Acestes /
indicitque forum et patribus dat iura vocatis. / Tum vicina astris Erycino in
vertice sedes / fundatur Veneri Idaliae tumuloque sacerdos / ac lucus late
sacer additur Anchiseo.
[51] Ottima la spiegazione di G.A. Mansuelli, v. Città, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., 805: «Il ribaltamento nell’antichità
ancestrale del rituale di fondazione vale a presentare come originaria questa
prassi romana: in ciò V(irgilio) ha condiviso le opinioni correnti e le ha
accreditate quasi come un dogma, stante la stretta connessione con la sfera
sacrale. A ogni modo viene messa in primo piano, pur se con espressioni
sintetiche, l’interdipendenza stretta fra i preliminari rituali e
l’assolvimento giuridico-sociale».
[52] Cfr. E.
Paratore, Virgilio, Eneide,
III (Libri V-VI), Milano 1979, 191 ss.; G.A.
Mansuelli, v. Città, in Enciclopedia
Virgiliana, I, cit., 805.
[53] En huius, nate, auspiciis illa
incluta Roma / imperium terris, animos aequabit Olympo / septemque una sibi
muro circundabit arces, / felix prole virum. Sulla valenza religiosa del
verso 781, vedi H. Lehr, Religion und Kultus in Vergils Aeneis,
Giessen 1934, 97. Sul significato
più ampio del contesto, vedi invece P.
Catalano, v. Auspicia, in Enciclopedia Virgiliana,
I, cit., 424-425:«Con tutta la forza della sua polivalenza (omen-potestas) la parola a(uspicia) torna in E 6, 781 ss. en huius, nate, auspiciis illa incluta Roma
/ imperium terris, animos aequabit Olimpo / septemque una sibi muro circundabit
arces. L’espressione virgiliana (auspicia
vi indica la potestà romulea e non direttamente i segni augurali interpretati
dal primo rex) non trova perfetta
corrispondenza in quella degli altri autori antichi; il linguaggio dell’Eneide sembra dunque sottolineare maggiormente
la continuità delle potestà: da Romolo, attraverso gli a(uspicia). dei magistrati, fino ad Augusto. D’altra parte, questa
continuità, grazie all’augurium di
Giove, risale alla partenza di Enea da Troia; l’aeternitas di Roma assicurata dai riti augurali di fondazione, cioè
dagli a(uspicia). di Romolo, risale
dunque a Troia».
[54] Aen.
6. 809-812: nosco crinis incanaque menta / regis Romani, primum qui legibus
urbem / fundabit, Curibus parvis et paupere terra / missus in imperium magnum.
Cfr. Tito Livio 1.19.1: [Numa] Qui regno
ita potitus urbem novam, conditam vi et armis, iure eam legibusque ac moribus
de integro condere parat.
[56] Per gli aspetti ideologici della figura
e e del culto della massima dività romana in età tardo-repubblicana e augustea,
vedi C. Koch, Das römische Iuppiter, Frankfurt a. M. 1937 (rist. an. Darmstadt
1968); J.R. Fears, The Cult of Jupiter and Roman Imperial
Ideology, in Aufstieg und Niedergang
der römischen Welt, II.17,1, Berlin-New York 1981, 3 ss.; G. Radke, Iuppiter Optimus Maximus:
dieu libre de toute servitude, in Revue Historique de Droit Français et étranger 64, 1986, 1 ss.
[57] Aen.
1.272-282: Hic iam ter centum totos regnabitur annos / gente sub Hectorea,
donec regina sacerdos / Marte gravis geminam partu dabit Ilia prolem / Inde
lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavortia
condet / moenia Romanosque suo de nomine dicit. / His ego nec metas rerum nec
tempora pono, / imperium sine fine dedi. Quin aspera Iuno / quae mare nunc
terrasque metu caelumque fatigat, / consilia in melius referet mecumque fovebit
/ Romanos rerum dominos gentemque togatam.
[59] Cfr. Servio, Ad Aen. 1.278.
[61] F.
Fabbrini, L’impero di Augusto come ordinamento sovrannazionale,
Milano 1974, 346 ss., ha dedicato un paragrafo alla «tematica di Roma aeterna.
L’imperium sine fine». Già il titolo sottende un’interpretazione in
senso temporale del verso 1.279: «Unico fra gli imperi del mondo (tutti
perituti, come nella profezia danielina già penetrata a Roma) ad essere sine
fine, l’impero di Roma ha avuto dagli Dèi garanzie sufficienti per non essere
intaccato dalla vecchiaia e dalla corruzione» (486).
[62] Anche secondo E. Paratore, Virgilio, Eneide, I
(Libri I-II), Milano 1978, 173, il verso virgiliano costituisce una
«caratteristica formulazione del dogma augusteo dell’eternità del dominio di
Roma»
[63] D.K.
Bracher, Verfall und Fortschritt in Denken der frühen römischen
Kaiserzeit, Wien-Köln-Graz 1987, 333 ss.; lo studioso tedesco, nel suo
lavoro sulle idee di decadenza e progresso nella prima età imperiale, sottolinea
maggiormente la valenza temporale del verso di Virgilio, trattandone nel
contesto di un paragrafo intitolato «Romidee und Ewigkeit», anche se al
riguardo scrive: «Es ist eine überzeugung
von religiöser Kraft, die in Vergils Worten über zeitliche und räumliche
Unendlichkeit römischen Herrschaft Ausdruck gewinnt (Aen. 1, 278 f.)» (335).
[64] J.-L. Pomathios, Le
pouvoir politique et sa représentation dans l’Énéide
de Virgile, Bruxelles 1987, 136.
[66] R.
Turcan, Rome éternelle et les
conceptions gréco-romains de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca, [Da Roma alla Terza Roma”, Studi, I]
Napoli 1983, 16.
[67] A.
Mastino, ‘Orbis’, ‘kosmos’,
‘oikoumene’: aspetti spaziali dell’idea dell’impero universale da Augusto a
Teodosio, in Popoli e spazio romano
tra diritto e profezia, [Da Roma alla Terza Roma, Studi, III] Napoli 1986,
71.
[68] E.
Paratore, Virgilio, Eneide,
III, cit., 345 ss.; cfr. R. Syme, La rivoluzione romana, cit., 465.
[69] Così si spiegano anche i vv. Aen. 1.291-296 della profezia di Iuppiter. Cfr. A. Novara, Poésie virgilienne de la mémoire. Questions sur l’histoire dans énéide 8, Clermont-Ferrand 1986,
13.