N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana
Università di Sassari
«Propter dignitatem hominum»
Riflessioni su D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.)
Il testo qui presentato contiene la relazione, nella
sua stesura originaria (con la sola integrazione di un apparato minimo di fonti
e dottrina), letta nel III Convegno internazionale «Diritto romano privato e pubblico: l’esperienza plurisecolare dello
sviluppo del diritto europeo» (Jaroslavl e Mosca, 25-30 giugno 2003).
Sommario: 1. “Si alii rei homo accedat”. D. 21.1.44 pr. (Paul.
2 ad ed. aed. cur.). – 2. D. 21.l.32 (Gai 2 ad ed. aed. cur.): “si alii rei homo accedat” in Gaio. – 3. Linee di interpretazione giurisprudenziale: da Gaio a paolo. – 4. “Dignitas
hominum” in Sesto Pedio.
Queste mie brevi riflessioni muovono da un frammento di Giulio
Paolo[1],
D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.), in cui il giurista severiano discute il
contenuto della rubrica dell’editto degli edili curuli “si alii rei homo accedat”[2];
rubrica volta a disciplinare tutte quelle compravendite che trasferivano dei servi quali accessori di una res. Il giurista nel frammento aderisce
alla dottrina di Sesto Pedio[3],
il quale giustificava il divieto di accessorietà tra res e homo, voluto dagli
edili curuli al fine di evitare le frodi dei venditori di schiavi, in ragione
della dignitas hominum («propter dignitatem
hominum»).
Le disposizioni in
materia di dichiarazione dei vizi occulti contenute nell’editto degli edili
curuli riguardavano, inizialmente, solo i casi in cui il servus fosse l’oggetto principale di compravendita (vedi i testi
dell’Editto degli edili curuli riportati da Ulpiano in D. 21.1.1.1[4]
e da Gellio, Noct. Att. 4.2.1[5]).
Successivamente, però, gli edili curuli, per porre fine ai numerosi atti di
frode dei venditori di schiavi, introdussero nel loro editto la rubrica “si alii rei homo accedat”, mediante la
quale si estendeva l’obbligo di dichiarare i vizi occulti anche alle
compravendite in cui il servus fosse
stato trasferito in qualità di accessorio di una res.
Tutto ciò emerge chiaramente dalla lettura del frammento di
Paolo:
D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.):
Iustissime aediles noluerunt hominem ei rei quae minoris esset accedere, ne qua
fraus aut edicto aut iure civili fieret: ut ait Pedius, propter dignitatem
hominum: alioquin eandem rationem fuisse et in ceteris rebus: ridiculum namque
esse tunicae fundum accedere. Ceterum hominis venditioni quidvis adicere licet: nam et plerumque plus in
peculio est quam in servo, et nonnumquam vicarius qui accedit pluris est quam
is servus qui venit[6].
Al fine di determinare la valenza del principio “si alii rei homo accedat”, proporrò qui
di seguito l’esegesi della prima parte del frammento (da “Iustissime” fino ad “accedere”).
A parere del giurista, gli edili
iustissime, affinché non si facesse frode “aut edicto aut iure civili”, “non vollero” che il servus potesse accedere ad una res di minor valore. Questa innovazione
degli edili risulta approvata anche da Sesto Pedio, il quale – come riferisce
Paolo – ne dava una motivazione etico-giuridica: ‘propter dignitatem hominum’.
Per parte sua, Paolo aveva già espresso, con la forma avverbiale iustissime (significativamente al
superlativo), una valutazione positiva sulla nuova regola si alii rei homo accedat; mirata, a suo avviso, a porre fine ai
frequenti atti di frode da parte dei venditori di mancipia. Si sanava, così, una precedente situazione di sostanziale
ingiustizia, in quanto prima dell’introduzione della regola doveva essere uso
piuttosto comune aggirare le disposizioni dell’editto edilizio in materia di
dichiarazione dei vizi, creando un rapporto di accessorietà tra una res oggetto della compravendita e il servus vitiosus. In questo modo, il
servo non risultava oggetto principale della vendita, rendendo pressoché
impossibile applicare la normativa edilizia.
Questo “espediente” di certo era diventato ormai usuale nelle
vendite di servi; si trattava di un
fenomeno di grande rilevanza sociale, per tanto gli edili decisero di
intervenire per evitare questi abusi, estendendo il disposto normativo del loro
editto anche ai casi di servi venduti
in qualità di “accessorio”[7].
Tale ampliamento dell’ambito applicativo dell’editto edilizio
venne realizzato attraverso l’affermazione della nuova regola secondo cui, ai
fini della tutela edilizia, era considerato inammissibile un rapporto di
accessorietà tra res e homo. Pertanto, in seguito alla
‘negazione’ di tale rapporto di accessorietà, il servus “accessorio” veniva considerato alla stessa stregua
dell’oggetto principale di vendita, ed era quindi possibile obbligare il
venditore a prestare la dichiarazione dei vizi (o prometterne l’assenza) anche
nei confronti di quel servus.
Gli elementi emersi dalla lettura del frammento di Paolo vanno
sottoposti ad ulteriore verifica sulla base di un testo di gaio[8]
(D. 21.l.32; Gai 2 ad ed. aed.
cur.) relativo al contenuto della
rubrica edilizia “si alii rei homo
accedat”, che analizzerò, brevemente, qui di seguito:
D. 21.1.32 (Gai 2 ad
ed. aed. cur.): Itaque sicut superius
venditor de morbo vitiove et ceteris quae ibi comprehensa sunt praedicere
iubetur, et praeterea in his causis non esse mancipium ut promittat
praecipitur: ita et cum accedat alii rei homo, eadem et praedicere et
promittere compellitur. Quod non solum hoc casu intellegendum est, quo
nominatim adicitur accessurum fundo hominem Stichum, sed etiam si generaliter
omnia mancipia quae in fundo sint accedant venditioni[9].
il frammento di
Gaio, tratto dal secondo libro del commentario all’editto degli edili curuli,
può essere diviso in due parti: nella prima (da “itaque” fino a “compellitur”) il giurista, dopo aver
riferito le regole edilizie in materia di vendita di mancipia, discute il caso del servus
venduto in qualità di accessorio di una res;
nella seconda parte, Gaio fa riferimento a due fattispecie, o per meglio dire
prospetta due ipotesi di applicazione concreta del principio generale già
enunciato nella prima parte del testo.
In questo contesto sarà opportuno analizzare il contenuto della
prima parte del passo.
Nel testo sono menzionate le disposizioni edilizie in materia di
dichiarazione di vizi («Itaque sicut
superius venditor de morbo vitiove et ceteris quae ibi comprehensa sunt
praedicere iubetur, et praeterea in his causis non esse mancipium ut promittat
praecipitur»), alle quali doveva sottostare il venditore nel caso di
vendita di un mancipium. Il giurista
continua con un riferimento all’obbligo di garantire l’assenza di vizi
attraverso la prestazione di una cautio[10];
ed afferma che gli stessi obblighi erano validi anche nel caso in cui un servus fosse venduto in qualità di
accessorio[11]
di altra res; riferendo così una
norma che derogava il principio generale per cui le disposizioni dell’editto
degli edili curuli dovevano essere applicate alle vendite aventi per oggetto
principale un mancipium. Per tanto,
il venditore era obbligato a dichiarare malattie, difetti, vizi e nazionalità
dello schiavo, e quindi sottostare a tutti quegli obblighi previsti dall’editto
edilizio, anche nel caso in cui avesse venduto uno o più servi in qualità di “accessori”[12].
L’enunciazione di tale disposizione nel discorso di Gaio appare
consequenziale alla premessa fatta in apertura di frammento: si susseguono tre
periodi concatenati logicamente. sembra
quasi che il nuovo principio imposto al venditore sia una conseguenza naturale
rispetto a ciò che è stato ordinato dagli edili “superior”[13].
Si noti l’uso di tre verbi diversi, coniugati in forma passiva, per esprimere
ciò che era stato ordinato dagli edili (iubetur
e praecipitur) e ciò che viene
ordinato ex novo al venditore (compellitur) con la nuova rubrica
dell’editto; uso che si contrappone all’utilizzazione costante dei verbi praedicere (che indica il “rendere noto”
i vizi occulti) e promittere (che
allude al “garantire l’assenza dei vizi” tramite la prestazione di una cautio).
In fine, un’ultima constatazione: singolarmente il giurista tace
sulle motivazioni (giuridiche o economiche) che indussero gli edili ad
introdurre nel loro editto questa nuova e rilevante regola giuridica.
Dai frammenti di Gaio e Paolo emergono una serie di differenze
testuali. Mentre Gaio si limitava ad enunciare solo ed esclusivamente il nuovo
principio derivante dalla rubrica edilizia “si
alii rei homo accedat”, proponendo anche due ipotesi di applicazione
concreta; in Paolo traspare invece, con chiarezza, la preoccupazione di
giustificare il contenuto della rubrica edilizia “si alii rei homo accedat” attraverso il ricorso al già rilevato
giudizio di valore espresso con il superlativo iustissime.
Nel frammento di Paolo, inoltre, compaiono altri due elementi che
non si riscontrano nel passo di Gaio: il riferimento al minor valore economico
della res rispetto a quello del servus “accessorio” (hominem ei rei quae minoris esset accedere),
e la menzione della fraus quale
giustificazione del principio “si alii
rei homo accedat”. L’inciso ‘quae
minoris esset’ lascia intendere che la disposizione edilizia trovasse applicazione
solamente nei confronti dei casi di compravendita in cui la res principale avesse minor valore del
servo “accessorio”. Si tratta, dunque, di un’applicazione restrittiva che manca
nel testo di Gaio; dove, infatti, il principio “si alii rei homo accedat” riguarda in generale tutti i rapporti di
accessorietà tra res e homines, a prescindere dal loro valore
economico.
Merita una riflessione il fatto, certo assai strano, che Paolo, per
quanto vissuto in un’epoca successiva rispetto a Gaio, applichi una
interpretazione restrittiva al contenuto della rubrica edittale nel senso di
limitarne fortemente l’applicazione alle fattispecie concrete. Parte della
dottrina ha espresso non pochi dubbi in merito all’autenticità del passo di
Paolo, considerato interpolato proprio nel punto in cui si legge quae minoris esset[14].
Valga al riguardo, la posizione di Giambattista Impallomeni[15],
il quale sembra accettare, implicitamente, l’interpolazione del frammento
paolino, dato che nella sua monografia sull’editto degli edili curuli non
accenna mai al valore della res
oggetto principale di vendita il cui accessorio fosse costituito da uno o più servi.
A mio parere, l’espressione “quae
minoris esset” non può essere considerata frutto di rimaneggiamenti
giustinianei. Riterrei, piuttosto, molto probabile che Paolo, nella prima parte
del frammento facesse riferimento al pensiero espresso da Sesto Pedio[16]
nel suo commentario all’editto degli edili curuli[17].
Tutto ciò è avvalorato dalla logica interna insita nello stesso passo; infatti,
il rapporto logico tra la disposizione edilizia inerente all’accessorietà di un
servo ad una res di minor valore e la
motivazione addotta da Sesto Pedio per giustificarne l’inammissibilità
(mediante il ricorso al principio della “dignitas
hominum”), mi induce a pensare che in
origine gli edili avessero concepito la rubrica “si alii rei homo accedat” per porre fine ai casi di frode evidente,
determinati da alienazioni di un servus
al seguito di una res di valore
economico nettamente inferiore.
Questa disposizione mi sembrerebbe finalizzata soprattutto a
regolare le compravendite in cui il venditore non fosse un mercante di schiavi;
appare del tutto improbabile, infatti, che un venaliciarius potesse vendere un fondo al seguito del quale vi
fossero uno o più schiavi.
Il giurista Pedio, nei suoi libri ad edictum, motivava la disposizione edilizia sulla base dell’aequitas[18]
(caratteristica costante del pensiero del giurista), che scaturiva nel caso
discusso anche dalla constatazione della palese ingiustizia di un tale rapporto
di accessorietà tra una res di minor
valore e un servo. Già gli edili dovevano aver motivato questo divieto in
ragione del minor valore economico della res;
il giurista aggiunge come ulteriore elemento di valutazione la dignitas hominum, ancorata comunque alla economicità del negozio dalla
affermazione che «ridiculum namque esse
tunicae fundum accedere».
A mio avviso la disposizione “si
alii rei homo accedat” venne poi estesa a tutti i rapporti di accessorietà
tra res e homines, a prescindere dal valore dell’oggetto principale di
vendita. Questo mutamento trova conferma nel frammento D. 21.1.32, in cui Gaio
(vissuto in un’epoca successiva rispetto a quella di Sesto Pedio[19]),
non accenna mai al problema del diverso valore economico delle res accessorie.
Lo stesso Paolo mostra di non attribuire alcuna importanza alle
valutazioni di carattere economico nei rapporti di accessorietà; nella parte
finale del frammento d. 21.1.44
pr. afferma, infatti: “ceterum hominis
venditioni quidvis adicere licet: nam et plerumque plus in peculio est quam in
servo, et nonnumquam vicarius qui accedit pluris est quam is servus qui venit”;
parole in cui si potrebbe cogliere – a parere del Cenderelli – perfino «una
riserva di Paolo verso l’opinione di Sesto Pedio»[20].
Il superamento delle problematiche attinenti al valore delle res accessorie viene confermato anche
dal frammento del giurista severiano citato qui di seguito:
D. 18.1.34 pr. (Paul. 33 ad ed.): Si in emptione fundi dictum sit accedere Stichum servum
neque intellegatur, quis ex pluribus accesserit, cum de alio emptor, de alio
venditor senserit, nihilo minus fundi venditionem valere constat: sed Labeo ait
eum Stichum deberi quem venditor intellexerit. Nec refert, quanti sit accessio,
sive plus in ea sit quam in ipsa re cui accedat an minus: plerasque enim res
aliquando propter accessiones emimus, sicuti cum domus propter marmora et
statuas et tabulas pictas ematur[21].
Per quanto il passo non attenga alla rubrica edilizia “si alii rei homo accedat”, tuttavia si
discute di una questione relativa all’errore nell’identificazione del servus accessorio ad un fondo oggetto
principale di vendita. A prescindere dalla soluzione adottata (Paolo ricorre
all’autorevole dottrina di Labeone), mi sembra interessante la considerazione
espressa dal giurista a proposito del valore economico dei beni collegati da un
rapporto di accessorietà («nec refert,
quanti sit accessio, sive plus in ea sit quam in ipsa re cui accedat an minus»),
valore economico che nel pensiero di Paolo non è giuridicamente rilevante.
Per tornare a D. 21.1.44 pr., Paolo menziona anche la fraus[22],
la cui prevenzione viene indicata nel testo come ulteriore giustificazione al
contenuto della rubrica edilizia “si alii
rei homo accedat”: fu l’esigenza di evitare gli atti di frode, all’editto e
allo ius civile, che motivò gli edili
a ritenere inammissibile il rapporto di accessorietà tra res (di minor valore) e homo[23].
Anche le parole “fraus aut
edicto aut iure civili”[24]
hanno suscitato alcune discussioni. Nell’espressione fraus edicto il termine
edictum viene inteso comunemente come “editto degli edili curuli”[25];
per quanto
Un altro problema riguarda poi l’interpretazione dell’espressione
“fraus iure civili”, poiché nel testo
tramandato dalla Vulgata bolognese si
legge “fraus iuri civili”. Per tanto,
seguendo la lezione della littera Florentina, l’espressione “fraus iure civili” dovrebbe essere tradotta come suggerisce il rotondi: «che non si parla qui
veramente di una frode “all’editto o all’jus
civile”, bensì di una frode compiuta
“mediante l’editto o l’j. c.” [edicto aut jure civili, ablativi di
mezzo] a danno di terzi»[26].
Dunque il rotondi ritiene a
ragione che il riferimento nel testo paolino alla fraus debba intendersi come una giustificazione ad una norma
positiva dell’editto[27].
Diversa risulta essere l’interpretazione del passo se si tiene
conto della versione della Vulgata
bolognese, che porta iuri civili, e
non iure civili. Secondo il Fascione la frase in cui compare l’espressione “fraus iuri civili” avrebbe il seguente
significato: «gli edili non vollero che lo schiavo fosse accessione di un bene di
valore minore perché non si commettesse frode all’editto o al diritto civile,
ove l’editto potrebbe essere quello edilizio in tema di actio redhibitoria, e nel senso che l’editto avrebbe corroborato i
principi dello ius civile»[28].
Ritengo che, ai fini dell’applicazione della clausola edilizia “si alii rei homo accedat” alle
fattispecie concrete, non comportasse alcuna differenza di rilievo il fatto che
questa frode fosse stata attuata “aut
edicto aut iure civili”, e cioè “mediante l’editto o lo ius civile” (in questo caso, la
giustificazione al nuovo principio edilizio starebbe a sottolineare che è
proprio la limitazione dell’ambito applicativo delle disposizioni dell’editto
degli edili, ai soli servi oggetto principale di compravendita, che consentiva
di attuare le frodi dei venditores
mediante la vendita del servus in
qualità di accessorio di una res),
oppure se in realtà si dovesse intendere come frode “aut edicto aut iuri civili”, “all’editto o allo ius civile” (in questa ipotesi la frode si attuava attribuendo
al servus qualità di accessorio che
quindi comportava la non applicabilità della disciplina generale stabilita
nell’editto degli edili per le vendite dei mancipia).
Mi pare comunque che in entrambe le ipotesi interpretative si possa scorgere
l’intento che spinse gli edili a concepire nell’editto la rubrica “si alii rei homo accedat”, e cioè quello
di evitare gli atti di frode dei venditori di schiavi[29].
Come si è già detto, nel frammento D. 21.l.44 pr., il giurista
Sesto Pedio giustifica il divieto di accessorietà tra res e homo, voluto dagli
edili curuli al fine di evitare le frodi dei venditori di schiavi, in ragione
della “dignitas hominum” («propter dignitatem
hominum»).
Nonostante la diversa opinione del Beseler[30],
il quale ha ritenuto oggetto di rimaneggiamenti postclassici questa espressione
utilizzata da Pedio, mi pare, tuttavia, ampiamente dimostrabile la genuinità
della locuzione «propter dignitatem
hominum».
Anzitutto, vorrei evidenziare che il ricorso alla dignitas hominum denota il pensiero di un giurista dominato da un forte
senso dell’equità. Come è noto, proprio il costante riferimento all’aequitas caratterizzava la personalità
scientifica di Pedio; questo giurista, infatti, utilizzava abitualmente criteri
di equità per motivare le sue decisioni[31]
e fu il primo[32]
tra i giuristi a fare ricorso, sempre in ragione dell’aequitas, al principio della dignitas
hominum.
Per Giorgio La Pira[33]
in nome di tale principio Sesto Pedio giustificò non solo l’inammissibilità, ai
fini della tutela edilizia, del rapporto di accessorietà tra beni di minor
valore e schiavi, ma anche l’eccezione al divieto per il liberto di citare in
giudizio il patrono[34].
Pertanto, mi pare sostenibile che l’espressione «propter dignitatem hominum» sia da attribuire al commentario
all’editto degli edili curuli di Sesto Pedio, da cui si può ragionevolmente
ipotizzare che Paolo l’avesse tratta.
Per cogliere fino in fondo il senso dell’espressione «propter dignitatem hominum», sarà bene
soffermarsi sul significato del termine homo.
Nelle fonti, homo[35]
presenta un significato polivalente, potendosi utilizzare sia in riferimento a liberi, sia in riferimento a servi[36]. Di questa polivalenza si ha un caso
emblematico in D. 21.1.44 pr.: nel frammento vediamo il termine homo impiegato al singolare per indicare
il servus, mentre utilizzato al
plurale si riferisce al genere umano.
Per quanto attiene al testo di Pedio, sarà bene stabilire se il
giurista utilizzi il vocabolo homo
col semplice significato di uomo oppure di servus;
ed inoltre se l’espressione “dignitatas
hominum” stia ad indicare la dignità degli “uomini” in generale, o quella
dei soli liberi, oppure solamente quella dei servi.
A questo proposito può essere utile riflettere
sull’interpretazione della Glossa:
glossa “Dignitatem” a D. 21.1.44 pr.: “est enim
dignissima creaturarum. Unde Ovidius: pronaque cum spectent animalia caetera
terram. os homini sublime dedit,
coelumque videre iussit et erectos ad sidera tollere vultus. Et Vergilius:
Igneus est illis vigor et coelestis origo”.
Il glossatore non ha dubbi sul significato del termine homo: si tratta della più degna (dignissima) fra tutte le creature – in
senso biblico – , come postula il pensiero cristiano per cui l’uomo è creatura
divina. Di grande interesse anche il richiamo ad ovidio[37]
e a virgilio[38]:
il primo (Met. 1.69-88) utilizzato
per sottolineare la supremazia dell’essere umano su tutti gli altri animali; il
secondo (Aen. 6.730) per evidenziarne
la “coelestis origo”.
Mi sembra
interessante il richiamo alle Metamorfosi[39]
di Ovidio, proprio in quella parte in cui il poeta descrive la creazione
dell’uomo, concepito profondamente diverso da tutti gli altri animali che “si
volgono curvi alla terra” («pronaque cum spectent animalia caetera
terram. os homini sublime
dedit, coelumque videre iussit et erectos ad sidera tollere vultus»).
A partire dall’epoca in cui vive il poeta, e poi soprattutto durante
il I sec. d.C., gli autori latini sono fortemente influenzati dalle dottrine
filosofiche greche. Basti pensare al caso di Seneca[40].
nel pensiero di Seneca si
concepisce l’ideale supremo dell’humanitas
e il dovere del rispetto verso tutti gli uomini compresi ovviamente anche gli
schiavi.
Non appare quindi improbabile che la filosofia stoica abbia
potuto influenzare anche la formazione culturale del giurista Sesto pedio[41],
il quale, per usare le parole dell’Orestano, «rielaborò alcune dottrine
giuridiche con molto acume e indipendenza, animato dal sentimento dell’aequitas e da uno spirito altamente
moderno»[42].
In conclusione, ritengo che l’espressione «propter dignitatem hominum» non debba essere considerata un
rimaneggiamento postcalssico ispirato dalla dottrina cristiana, ma una chiara
espressione del pensiero di matrice stoica che riconosce dignitas anche al servus;
dignitas hominum, nel senso di
“dignità della persona umana”[43]
come peraltro ha già sostenuto Franz Wieacker: «Personenwürde des Sklaven im
stoischen Sinne»[44].
[1] Sulla figura del giurista paolo
si rinvia a C.A. Maschi, La
conclusione della giurisprudenza classica all’età dei Severi. Iulius Paulus,
in ANRW II.15, Berlin-New York 1976,
667 ss., da leggere con la recensione di M. Talamanca,
Per la storia della giurisprudenza romana,
in BIDR 80, 1977, 221 ss. Del
giurista si occupa il più recente saggio di A. Mantello,
Il sogno, la parola, il diritto. Appunti
sulle concezioni giuridiche di Paolo,
in BIDR 94-95, 1991-1992, 349 ss.
Per i frammenti tratti dal commentario di Paolo Ad edictum aedilium curulium, o. Lenel,
Palingenesia iuris civilis, I,
Lipsiae 1889, coll. 1095 s., frr. 832-842. I frammenti superstiti riguardano
sempre il commento all’editto de
mancipiis vendundis e vengono inseriti nei libri 79 (frr. 832-839) e 80
(frr. 840-842) dell’opera di paolo Ad edictum. Cfr. anche Ph.
Huschke - e. Seckel - b. Kübler,
iurisprudentiae
anteiustinianae reliquiae6,
II, Lipsiae 1908, 4 ss.
[2] Nella ricostruzione dell’ordine sistematico dell’editto degli
edili curuli, la rubrica “si alii rei
homo accedat” risulta indicata da O. Lenel, Das
Edictum Perpetuum, Leipzig 1927, 554, come l’ottava dell’editto de mancipiis vendundis; tale
orientamento è stato per altro comunemente e costantemente seguito dalla
dottrina romanistica. Del resto anche F. Glück, Commentario
alle Pandette, XXI, (trad. it. a cura di S. Perozzi e P. Bonfante), Milano
1898, 17, nonostante la diversa sequenza proposta per le rubriche edittali,
aveva ritenuto che “si alii rei homo accedat”
fosse materia dell’undicesima rubrica dell’editto; mentre nella ricostruzione
prospettata da A.F. Rudorff, Edicti perpetui quae reliquia sunt,
Lipsiae 1869, § 310, 259 ss. la rubrica “si
alii rei homo accedat” non aveva trovato spazio fra quelle attribuite dallo
studioso all’editto degli edili curuli.
Sorprendentemente, alcuni anni or sono, la tesi del Rudorff che
nega l’esistenza di tale rubrica è stata ripresa da L. Manna, Actio
redhibitoria e responsabilità per vizi
della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, Milano 1994, 82 ss. Secondo la studiosa milanese «la così detta
rubrica» “si alii rei homo accedat”
sarebbe «frutto di una estensione giurisprudenziale del dettato edittale
intervenuta probabilmente in epoca classica» (p. 83); sostiene infatti
[3] Sul giurista Sesto
Pedio rinvio soprattutto a: C. Ferrini, Sesto
Pedio, in Opere, II, Milano 1929,
39 ss.; M. Schanz - C. Hosius, Geschichte
der römischen Literatur bis zum Gesetzgebungswek des Kaisers Justinian4,
II, München 1927 (rist. 1966), 766; A. Berger,
v. “Pedius”, in PW 19, Stuttgart 1937, coll. 41 s.; G.
Per i frammenti rinvio a o.
Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., coll. 1 ss.; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae
quae supersunt, II, ii,
Lipsiae 1901, 79 ss.
[4] D. 21.1.1.1 (Ulp. 1 ad
ed. aed. cur.): Aiunt aediles: “Qui mancipia vendunt certiores
faciant emptores, quid morbi vitiive cuique sit, quis fugitivus errove sit
noxave solutus non sit: eademque omnia, cum ea mancipia venibunt, palam recte
pronuntianto. Quodsi mancipium adversus ea venisset, sive adversus quod dictum
promissumve fuerit cum veniret, fuisset, quod eius praestari oportere dicetur:
emptori omnibusque ad quos ea res pertinet iudicium dabimus, ut id mancipium
redhibeatur. Si quid autem post venditionem traditionemque deterius emptoris
opera familiae procuratorisve eius factum erit, sive quid ex eo post
venditionem natum adquisitum fuerit, et si quid aliud in venditione ei
accesserit, sive quid ex ea re fructus pervenerit ad emptorem, ut ea omnia
restituat. Item si quas accessiones ipse praestiterit, ut recipiat. Item si quod
mancipium capitalem fraudem admiserit, mortis consciendae sibi causa quid
fecerit, inve harenam depugnandi causa ad bestias intromissus fuerit, ea omnia
in venditione pronuntianto: ex his enim causis iudicium dabimus. Hoc amplius si
quis adversus ea sciens dolo malo vendidisse dicetur, iudicium dabimus”.
[5] Aulo Gellio, Noct. Att. 4.2.1: In edicto aedilium curulium, qua parte de mancipiis vendundis cautum
est, scriptum sic fuit: ‘Titulus servorum singulorum scriptus sit curato ita,
ut intellegi recte possit, quid morbi vitiive cuique sit, quis fugitivus errove
sit noxave solutus non sit’.
[6] Il frammento D. 21.1.44 pr. viene considerarto da o. Lenel,
Palingenesia iuris civilis, cit., in due
diversi luoghi: I, col. 1096, fr. 840; II, col. 7, fr. 50. Vedi anche F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae,
II, ii, cit., 99, fr. 13. Sul passo paolino cfr. G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, Padova 1955, 65, 68; L. Manna, Actio redhibitoria e responsabilità per vizi della cosa
nell’editto de mancipiis vendundis, cit.,
81 n. 22. Si vedano anche G. Rotondi,
Gli atti in frode alla legge,
Torino 1911 (rist. roma 1977),
110 s.; G.
[7] Cfr. G. Impallomeni,
L’editto degli edili curuli, cit., 65
ss.; L. Manna, Actio redhibitoria e responsabilità per vizi della cosa
nell’editto de mancipiis vendundis, cit.
80 ss. Sul concetto di accessorio rinvio a P.
Maddalena, “Accedere”
e “cedere” nelle fonti classiche, cit., 173, il quale scrive che «questo
rapporto di accessorietà di una cosa posta a servizio di un’altra è scolpito in
un [...] passo di Paolo D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.)».
[8] Per una biografia del giurista vedi A.M. Honoré, Gaius. A biography, Oxford 1962; ma
anche G. Diódsi, Gaius,
der Rechtsgelehrte, in ANRW
II.15, Berlin-New York 1976, 605 ss. (ivi, 623 ss.,
accurata bibliografia gaiana di R. Wittmann, alla quale si fa rinvio); F. Casavola, Giuristi
adrianei, cit., 145 ss., 339 ss.; F. Gallo,
La storia in gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del
giurista, Atti del convegno torinese 4-5 maggio
Per quanto attiene al commento di Gaio Ad edictum aedilium curulium liber I e liber II, rinvio ai frammenti superstiti raccolti e ordinati da o. Lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
coll. 235-237, frr. 378-387. Il Lenel ritiene che il commetario all’editto
edilizio dovesse far parte dei libri XXXI e XXXII Ad edictum provinciale di gaio;
in particolare, i frammenti di commento al primo libro dell’editto degli edili
(frr. 378-386) vengono considerati appartenenti al libro 31 Ad edictum provinciale, mentre l’unico
frammento del libro II ad edictum aedilium curulium (fr.
387) si ritiene facesse parte del libro 32 Gai
ad edictum provinciale.
Vedi anche Ph. Huschke - e. Seckel - b. Kübler,
iurisprudentiae,
cit., 113 ss.
[9] o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 236, fr. 387. Sul passo
vedi anche G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., 67;
G. Nicosia, Il testo di Gai 2.15 e la sua integrazione, in Silloge. Scritti 1956-1996 I, Catania 1998, 184; P. Maddalena, “Accedere”
e “cedere” nelle fonti classiche, cit., 173; G. Camodeca, Le
“emptiones” con “stipulatio duplae” dell’archivio Puteolano dei Sulpicii, in Labeo,
33, 1987, 174; A.M. Honorè, The editing of the Digest Titles, cit.,
272 s.; M. Morabito, Esclavage et enseignement du droit: le Institutes
de Gaius, in Index 15, 1987, 51
ss.; L. Manna, Actio redhibitoria e responsabilità per vizi della cosa
nell’editto de mancipiis vendundis, cit.,
80.
[10] Cfr. G. Impallomeni,
L’editto degli edili curuli, cit.,
45: «Più precisamente, il venditore era tenuto soltanto a promettere che lo
schiavo non aveva vizi fisici, non era fugitivus
o erro, o noxa non solutus: tanto è vero, che solo a quei vizi si riferiscono
i passi che riguardano esplicitamente il contenuto della stipulazione».
[11] Sul concetto di res
accessoria si rinvia a: P. Bonfante, Corso di diritto romano, II, i. La
proprietà, Roma 1926, (rist., Milano 1966), 141; G. Grosso, Corso di
diritto romano. Le cose, Torino 1941 (ripubblicato Con una «nota di lettura» di
Filippo Gallo, in Rivista di Diritto
Romano I, 2001, http://www.ledonline.it/rivistadidirittoromano/)
116 ss.; P. Rasi,
Le pertinenze e le cose accessorie,
Padova 1955, 26 ss.; G. Astuti, v. “Cosa”. I. Cosa in senso giuridico [a) Diritto romano e intermedio],
in ED 11, Milano, 1962, 1 ss.; P. Maddalena, “Accedere”
e “cedere” nelle fonti classiche, cit., 172 ss.; G. Diurni, v. "Pertinenze (storia)", in ED 33, Milano 1981, 532 ss.
[12] In questo caso si fa riferimento ad un rapporto di accessorietà
di una cosa posta a servizio di un’altra cosa. Cfr. P. Maddalena, “Accedere”
e “cedere” nelle fonti classiche, cit., 172 s., l’A. ritiene che nelle
fonti vi sia una «lunga serie di testi nei quali accedere è posto in diretta relazione con la res. In questo ambito esso assume fondamentalmente due significati:
in una prima accezione esprime, piuttosto che la crescita della cosa principale
considerata nel suo essere obiettivo, l’aumento di utilità che, com’è nel
moderno concetto di pertinenza, la cosa principale riceve dal rapporto di
subordinazione in cui viene a trovarsi la cosa accessoria posta a suo servizio;
in una seconda serie di testimonianze accedere,
introducendoci nel tema proprio dell’accessione, indica, invece, la crescita
obiettiva della res, crescita che
deriva, come si è accennato, o da un fenomeno organico, o da un congiungimento
materiale, o dalla formazione di una unità economica». Il Maddalena indica come
esempi significativi di rapporto di accessorietà di una cosa posta a servizio
di un’altra, sia D. 21.1.32 (Gai 2 ad ed.
aed. cur.) e sia D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.).
[13] Gaio utilizza il termine superius
che allude chiaramente ai principi enunciati in precedenza dagli edili nelle
altre rubriche dell’editto (si rinvia pertanto ai testi edittali riportati da
Ulpiano, D. 21.1.1.1, e da Gellio, Noct.
Att. 4.2.1) e già commentati dallo stesso Gaio.
[14] L’interpolazione del passo di Paolo viene
segnalata da F. Haymann, Die Haftung des Verkäufers für die
Beschaffenheit der Kaufsache, I, Berlin 1912, 74; G. von Beseler,
beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, III, Tübingen 1913,
52; O. Lenel, Das
Edictum Perpetuum, cit., 564.
[15] Vedi G. Impallomeni,
L’editto degli edili curuli, cit.,
65. Il testo di Paolo (D. 21.1.44 pr.; Paul. 2 ad ed. aed. cur.) viene riportato in due diversi luoghi (65 n. 53 e
68 n. 63) senza che venga avanzato alcun dubbio intorno alla sua genuinità.
Anche L. Fascione, Fraus legi, cit., 166 n. 80, trattando
del problema della frode alla legge nel passo di Paolo, non fa alcun
riferimento alla possibile interpolazione del “quae minoris esset”, limitandosi a sostenere che «gli Edili non
vollero che lo schiavo fosse considerato accessione di un bene di valore
minore», con rinvio all’opera dell’Impallomeni per risolvere «il problema della
accessione a bene di minor valore». Comunque mi sembra evidente che il Fascione
non consideri interpolato l’inciso “quae
minoris esset”.
[16] Paolo dimostra in più luoghi di conoscere ed utilizzare i
commentari ad edictum di Sesto Pedio.
Il giurista severiano cita Pedio 17 volte nei suoi libri ad edictum, una volta nel libro II ad Plautium, nel commentario alla legge Giulia e Papia ed infine
nel libro II ad Vitellium. Cfr. C. Ferrini,
Sesto Pedio, cit., 40, 45, il quale è
del parere che «dal numero notevolmente minore delle citazioni [rispetto a
quelle di Ulpiano] si sarebbe tentati di credere che Paolo avesse ancor minore
conoscenza di Pedio. Ma non si ritiene che un’attenta lettura dei passi che vi
si riferiscono per essere convinti del contrario [...] Paolo cita Pedio anche
in altri lavori, il che dimostra uno studio proprio e una più sicura conoscenza
di questo autore. E, mentre quelle di Ulpiano si riferiscono in grandissima
parte a generalità, definizioni e massime tralatizie, quelle di Paolo
contengono spesso particolari, decisioni e osservazioni». Invece A. Cenderelli, Ricerche su Sesto
Pedio, cit., 393 ss., ritiene che Ulpiano apprezzasse maggiormente Sesto
Pedio e la sua opera rispetto a Paolo, il quale «almeno una volta [D.
4.8.32.20] appare in aperto dissenso con l’interpretazione di Pedio, e comunque
lo cita con competenza ed in modo appropriato, ma senza mai ricorrere a frasi
apertamente elogiative».
[17] Per quanto riguarda la produzione scientifica di Sesto Pedio,
dai frammenti di Ulpiano e di Paolo si apprende che il giurista scrisse
un’opera di commento all’editto del pretore che comprendeva anche un
commentario all’editto degli edili curuli. C. Ferrini,
Sesto Pedio, cit., 44, afferma che
«il commentario pediano si estendeva poi anche all’Editto edilizio; e pare,
anzi, che questa parte fosse trattata con diligenza speciale, giacché ad essa
si riferisce il numero relativamente maggiore di citazioni. Nel titolo 21, 1 è
ben 10 volte menzionato Pedio, e anche la citazione di Ulpiano D. 1,3,13 si
riferisce a questa parte». Argomentando da D. 37.1.6.2, A. Cenderelli, Ricerche su Sesto
Pedio, cit., 393 s. e n. 77, ipotizza che i libri Ad edictum di Sesto Pedio
«comprendevano certamente più di venticinque libri” ed aggiunge che «l’opera
commentava, in maniera analitica, sia l’editto pretorio sia quello degli edili
curuli, come si desume agevolmente dai numerosi riferimenti [...] Non ci è dato
di sapere se l’opera di commento ai due editti fosse stata unica fin
dall’origine, o se si trattasse originariamente di due commentari, che nella
pratica venivano utilizzati insieme e che finirono quindi con l’essere
considerati come un lavoro unico». Sul commenterio Ad Edictum di Sesto Pedio vedi il recente scritto di C. Giachi, Storia dell’editto e struttura del processo in età pre-adrianea.
Un’ipotesi di lavoro, cit., 7 ss.
In D. 12.1.6 Paolo fa esplicito riferimento al libro primo De stipulationibus di Pedio. Questa
citazione paolina ha indotto parte della dottrina a pensare che il giurista
avesse scritto anche un’opera dal titolo De
stipulationibus, autonoma rispetto ai suoi libri Ad edictum. Cfr. o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 8; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae,
II, ii, cit., 81. Vedi anche A. Cenderelli, Ricerche su Sesto
Pedio, cit., 395, il quale, a proposito dei libri de stipulationibus, rileva che «mentre
Ulpiano cita Pedio con precisione, ma in termini tali da far ritenere che ne
conoscesse una sola opera, Paolo, nelle due sole citazioni specifiche ... a noi
note, indica espressamente due opere di diverso titolo: ciò potrebbe far
pensare che Paolo scrivesse avendo sotto mano i due diversi lavori, ed
attingendo ora all’uno, ora all’altro». Invece C. Ferrini, Sesto Pedio,
cit., 42, ritiene che il riferimento ai libri
de stipulationibus stesse ad indicare quella parte particolare del
commentario ad edictum in cui si
trattava in maniera specifica della stipulatio:
«è noto, infatti, come i commentatori, arrivati al titolo “de stipulationibus
praetoriis”, solessero esporre la dottrina generale e completa delle
stipulazioni in un ampio trattato comprendente più libri». Di particolare
interesse l’ipotesi formulata da C. Giachi,
Storia dell’editto e struttura del
processo in età pre-adrianea. Un’ipotesi di lavoro, cit., 2 n. 3, la quale
scrive: «Pur non potendo del tutto escludere la
possibilità che il de stipulationibus
pediano fosse un’opera monografica paragonabile a quella di Venuleio, è forse
più probabile una diversa ricostruzione. Alla luce di tutti i dati considerati,
infatti, ci sembra verosimile che si sia trattato di una serie di libri pediani
di complemento all’editto che, per l’ampiezza di prospettiva con la quale il
tema veniva esaminato, e perché riferibile a un’appendice dell’editto, doveva
apparire come un blocco unico, isolato dal resto dell’ad edictum».
[18] è noto il grande
senso di equità che permeava il pensiero giuridico del giurista Sesto Pedio. A tale
proposito vedi C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 46: «elaborò il
diritto con acume e indipendenza grande, con vivo sentimento dell’aequitas e una sagace modernità di
indirizzo»; G.
[19] La dottrina si è posta il problema di stabilire in quale periodo
sia vissuto il giurista Sesto Pedio. Si possono individuare tre distinti
orientamenti: un primo gruppo di autori ritiene che il giurista sia vissuto
nell’età traianea e che fosse precedente a Giuliano (vedi tra gli altri C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 40 n. 1; G.
[20] A. Cenderelli, Ricerche
su Sesto Pedio, cit., 401 n. 106.
[21] o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 1035, fr. 504.
[22] Sul concetto di fraus
si rinvia a G. Rotondi,
Gli atti in frode alla legge,
cit., 11 ss.; U. Brasiello, v. "Crimina", in NNDI 5,
Torino 1960, 1 ss.; L. Fascione, Fraus legi, cit., 160 ss.; Id., Ancora
sulla fraus legi, cit., 159 ss.
[23] Secondo G. Impallomeni,
L’editto degli edili curuli, cit., 65
n. 53, «non però la dignità dell’uomo, ma la necessità di reprimere possibili frodi
determinò gli edili a statuire la presente norma».
[24] È uno di quei passi nei quali ricorrono le coppie concettuali “vel iure civili vel honorario”; “vel iure civili vel iure praetorio”
utilizzate da paolo. Cfr. A. Mantello, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo, cit., 361.
[25] Sull’interpretazione del passo di Paolo in riferimento agli atti
compiuti in frode alla legge si veda G. Rotondi,
Gli atti in frode alla legge,
cit., 110 s. L’autore così afferma: «che qui la fraus edicto si riferisca
alla norma della redhibitio in quanto
per lo schiavo venduto come accessione non vi sarebbe l’obbligo di praedicere è opinione comune, a datare
dalla Glossa, e io non ne saprei proporre una migliore».
[26] G. Rotondi,
Gli atti in frode alla legge,
cit., 111.
[27] G. Rotondi,
loc. cit.
[29] Il riferimento agli atti di frode dei venditori di mancipia, in merito alle disposizioni
edilizie, risulta anche in Cicerone, de off. 3.17.71: Nec vero in praediis solum ius civile ductum
a natura malitiam fraudemque vindicat, sed etiam in mancipiorum venditione
venditoris fraus omnis excluditur. Qui enim scire debuit de sanitate, de fuga,
de furtis, praestat edicto aedilium. Nel titolo D. 21.1 vi sono alcuni
frammenti in cui l’emanazione dell’editto degli edili viene giustificata
facendo ricorso alla volontà di porre fine alla fallacia dei venditori: D. 21.1.1.2 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.): Causa
huius edicti proponendi est, ut occurratur fallaciis vendentium et emptoribus
succurratur ...; D. 21.1.37 (Ulp. 1 ad
ed. aed. cur.): Praecipiun aediles,
ne veterator pro novicio veneat. Et hoc edictum fallaciis venditorum
occurrit: ubique enim curant aediles, ne emptores a venditoribus
circumveniantur. Nei due passi citati, pur non utilizzando il termine fraus, il giurista Ulpiano evoca
chiaramente comportamenti fraudolenti dei venditori di servi ai danni degli ignari compratori.
[30] G.
von Beseler, beiträge zur Kritik, cit., 152.
[31] Cfr. G.
[32] F.P. Bremer,
Iurisprudentiae Antehadrianae, II, ii, cit., 80: «idem [Pedius] primus de
dignitate ‘hominum’ ait (D. 21,1,44 pr.)».
[33] G.
[34] D. 2.4.10.12 (Ulp. 5 ad ed.):
Praetor ait: “in ius nisi permissu meo ne
quis vocet” permissurus enim est, si famosa actio non sit vel pudorem non
suggilat, qua patronus convenitur vel parentes. Et totum hoc causa cognita
debet facere: nam interdum etiam ex causa famosa, ut Pedius putat, permittere
debet patronum in ius vocare a liberto, si eum gravissaima iniuria adfecit,
flagellis forte cecidit.
[35] Sul significato del termine homo
nelle fonti vedi Brink, v. “homo”, in Thesaurus Linguae Latinae 6, Lipsiae 1940, coll. 2871 ss. Sulla
nozione giuridica di homines e le
nozioni di homo e di persona rinvio a P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, I, Torino 1990, 167 ss.; e a S. Tafaro, Diritto e persona: centralità dell'uomo, in Vrbs - União dos romanistas
brasileiros, Artigos [http://www.vrbs.org/lobrano.htm],
2002.
[36] Nel titolo D. 21.1 vi sono numerose occorrenze in cui il termine
homo viene utilizzato con l’accezione
di servus: D. 21.1.14.10 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), in tema di vitia corporis; D. 21.1.21.3 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), per indicare il servus fugitivus; D. 21.1.23 pr. (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), a proposito della redibizione del servus che fosse stato “deteriorato” nel
corpus e nell’animus dal compratore; D. 21.1.31.5 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), a proposito del servus per il quale sia necessario l’esperimento delle azioni
edilizie da parte di più eredi; D. 21.1.31.6 e D. 21.1.31.11, dove il termine homo viene utilizzato per indicare il servus morto prima che gli eredi o il
compratore avessero potuto intentare le azioni edilizie; D. 21.1.32 (Gai 2 ad ed. aed. cur.), frammento in cui Gaio
discute il principio edilizio si alii rei
homo accedat; D. 21.1.43.9 (Paul. 1 ad
ed. aed. cur.), vendita del servus
sub condicione.
[37] Sul poeta Ovidio si rinvia a M. Schanz - C. Hosius, Geschichte
der römischen Literatur, II, cit., 206 ss., (ivi letteratura precedente).
[38] Per quanto riguarda la biografia e le opere di P. Virgilio Marone
si rinvia a M. Schanz-C. Hosius, Geschichte
der römischen Literatur, II, cit., 31 ss. Sull’opera di Virgilio negli
studi romanistici vedi F. Stella Maranca,
Il diritto romano nell’opera di Virgilio,
in Historia 4, 1930, 577 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale
antico”, Sassari 1991, (ivi accurata bibliografia virgiliana a cui si
rinvia).
[39] Sulle Metamorfosi si vedano M. Schanz - C. Hosius, Geschichte
der römischen Literatur, cit., 235 ss.; L. Castiglioni,
Studi intorno alle fonti e alla
composizione delle Metamorfosi, Pisa 1906; A. Rostagni, Il verbo di
Pitagora, Torino 1924, 248 ss.; A. Menzione,
Ovidio. Le metamorfosi. Sintesi critica e
contributo per una rivalutazione, Torino 1964.
[40] Sul filosofo vedi M. Schanz
- C. Hosius,
Geschichte der römischen Literatur,
II, cit., 679 ss.; C. Marchesi, Seneca, Milano 1942; I. Lana, L. Anneo Seneca, Torino 1965. Sul pensiero giuridico di Seneca vedi
F. Stella Maranca, Seneca
giureconsulto, Lanciano 1926; R. Düll,
Seneca iureconsultus, in ANRW II.15, Berlin-New York 1976, 364
ss. (sul quale vedi le considerazioni critiche di M. Talamanca, Per la
storia della giurisprudenza romana, cit., 195 ss.); A. Mantello, ‘Beneficium’ servile - ‘debitum’ naturale. Sen., de ben. 3.18.1
ss. - D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post. Lab.),
Milano 1979; P. Grimal, Seneca, trad. it., Milano 1992; M. Brutti, Il potere, il suicidio, la virtù. Appunti sulla ‘Consolatio ad Marciam’
e sulla formazione intellettuale di Seneca, in Seminari di storia e di diritto, a cura di A. Calore, Milano 1995,
65 ss.
[41] Per quanto riguarda la formazione culturale di Sesto Pedio si
veda, in particolar modo, C. Ferrini, Sesto
Pedio, cit., 46 s.; R. Orestano,
v. “ Sesto Pedio”, cit., 761; A. Cenderelli, “Ricerche su Sesto Pedio”, cit., 395 ss., il quale giustifica
l’indipendenza del giurista dalle due scuole dei Sabiniani e dei Proculiani
facendo ricorso alla sua formazione culturale, inizialmente milanese, che gli
consentì di acquisire una istruzione giuridica di base, nonché al successivo
approfondimento della propria cultura scientifica, mediante studi autonomi sui
libri dei giuristi. In questo modo il Cenderelli giustifica anche la precisione
delle citazioni tratte dall’opera di Ofilio da parte di Pedio, talmente
meticolose da indurre «a ritenere che egli avesse studiato direttamente il
commentario ad edictum di tale
giurista».
[42] R. Orestano, v. “Sesto Pedio”, cit., 761. Vedi anche , C.
Ferrini, Sesto Pedio,
cit., 46 s.; G.
[43] In questo senso anche G.
[44] F. Wieacker, Amoenitates
Iuventinae, cit., 15.