N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana

 

rosanna ortu

Università di Sassari

 

 

«Propter dignitatem hominum»

Riflessioni su D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.)

 

 

 

Il testo qui presentato contiene la relazione, nella sua stesura originaria (con la sola integrazione di un apparato minimo di fonti e dottrina), letta nel III Convegno internazionale «Diritto romano privato e pubblico: l’esperienza plurisecolare dello sviluppo del diritto europeo» (Jaroslavl e Mosca, 25-30 giugno 2003).

 

 

 

Sommario: 1. “Si alii rei homo accedat”. D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.). – 2. D. 21.l.32 (Gai 2 ad ed. aed. cur.): “si alii rei homo accedat” in Gaio. – 3. Linee di interpretazione giurisprudenziale: da Gaio a paolo. – 4. “Dignitas hominum” in Sesto Pedio.

 

 

 

1. – “Si alii rei homo accedat”. D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.)

 

Queste mie brevi riflessioni muovono da un frammento di Giulio Paolo[1], D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.), in cui il giurista severiano discute il contenuto della rubrica dell’editto degli edili curuli “si alii rei homo accedat[2]; rubrica volta a disciplinare tutte quelle compravendite che trasferivano dei servi quali accessori di una res. Il giurista nel frammento aderisce alla dottrina di Sesto Pedio[3], il quale giustificava il divieto di accessorietà tra res e homo, voluto dagli edili curuli al fine di evitare le frodi dei venditori di schiavi, in ragione della dignitas hominumpropter dignitatem hominum»).

Le disposizioni in materia di dichiarazione dei vizi occulti contenute nell’editto degli edili curuli riguardavano, inizialmente, solo i casi in cui il servus fosse l’oggetto principale di compravendita (vedi i testi dell’Editto degli edili curuli riportati da Ulpiano in D. 21.1.1.1[4] e da Gellio, Noct. Att. 4.2.1[5]). Successivamente, però, gli edili curuli, per porre fine ai numerosi atti di frode dei venditori di schiavi, introdussero nel loro editto la rubrica “si alii rei homo accedat”, mediante la quale si estendeva l’obbligo di dichiarare i vizi occulti anche alle compravendite in cui il servus fosse stato trasferito in qualità di accessorio di una res.

Tutto ciò emerge chiaramente dalla lettura del frammento di Paolo:

 

D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.): Iustissime aediles noluerunt hominem ei rei quae minoris esset accedere, ne qua fraus aut edicto aut iure civili fieret: ut ait Pedius, propter dignitatem hominum: alioquin eandem rationem fuisse et in ceteris rebus: ridiculum namque esse tunicae fundum accedere. Ceterum hominis venditioni quidvis adicere licet: nam et plerumque plus in peculio est quam in servo, et nonnumquam vicarius qui accedit pluris est quam is servus qui venit[6].

 

Al fine di determinare la valenza del principio “si alii rei homo accedat”, proporrò qui di seguito l’esegesi della prima parte del frammento (da “Iustissime” fino ad “accedere”). A parere del giurista, gli edili iustissime, affinché non si facesse frode “aut edicto aut iure civili”, “non vollero” che il servus potesse accedere ad una res di minor valore. Questa innovazione degli edili risulta approvata anche da Sesto Pedio, il quale – come riferisce Paolo – ne dava una motivazione etico-giuridica: ‘propter dignitatem hominum’.

Per parte sua, Paolo aveva già espresso, con la forma avverbiale iustissime (significativamente al superlativo), una valutazione positiva sulla nuova regola si alii rei homo accedat; mirata, a suo avviso, a porre fine ai frequenti atti di frode da parte dei venditori di mancipia. Si sanava, così, una precedente situazione di sostanziale ingiustizia, in quanto prima dell’introduzione della regola doveva essere uso piuttosto comune aggirare le disposizioni dell’editto edilizio in materia di dichiarazione dei vizi, creando un rapporto di accessorietà tra una res oggetto della compravendita e il servus vitiosus. In questo modo, il servo non risultava oggetto principale della vendita, rendendo pressoché impossibile applicare la normativa edilizia.

Questo “espediente” di certo era diventato ormai usuale nelle vendite di servi; si trattava di un fenomeno di grande rilevanza sociale, per tanto gli edili decisero di intervenire per evitare questi abusi, estendendo il disposto normativo del loro editto anche ai casi di servi venduti in qualità di “accessorio”[7].

Tale ampliamento dell’ambito applicativo dell’editto edilizio venne realizzato attraverso l’affermazione della nuova regola secondo cui, ai fini della tutela edilizia, era considerato inammissibile un rapporto di accessorietà tra res e homo. Pertanto, in seguito alla ‘negazione’ di tale rapporto di accessorietà, il servus “accessorio” veniva considerato alla stessa stregua dell’oggetto principale di vendita, ed era quindi possibile obbligare il venditore a prestare la dichiarazione dei vizi (o prometterne l’assenza) anche nei confronti di quel servus.

 

 

2. – D. 21.l.32 (Gai 2 ad ed. aed. cur.): “si alii rei homo accedat” in Gaio

 

Gli elementi emersi dalla lettura del frammento di Paolo vanno sottoposti ad ulteriore verifica sulla base di un testo di gaio[8] (D. 21.l.32; Gai 2 ad ed. aed. cur.) relativo al contenuto della rubrica edilizia “si alii rei homo accedat”, che analizzerò, brevemente, qui di seguito:

 

D. 21.1.32 (Gai 2 ad ed. aed. cur.): Itaque sicut superius venditor de morbo vitiove et ceteris quae ibi comprehensa sunt praedicere iubetur, et praeterea in his causis non esse mancipium ut promittat praecipitur: ita et cum accedat alii rei homo, eadem et praedicere et promittere compellitur. Quod non solum hoc casu intellegendum est, quo nominatim adicitur accessurum fundo hominem Stichum, sed etiam si generaliter omnia mancipia quae in fundo sint accedant venditioni[9].

 

il frammento di Gaio, tratto dal secondo libro del commentario all’editto degli edili curuli, può essere diviso in due parti: nella prima (da “itaque fino a “compellitur”) il giurista, dopo aver riferito le regole edilizie in materia di vendita di mancipia, discute il caso del servus venduto in qualità di accessorio di una res; nella seconda parte, Gaio fa riferimento a due fattispecie, o per meglio dire prospetta due ipotesi di applicazione concreta del principio generale già enunciato nella prima parte del testo.

In questo contesto sarà opportuno analizzare il contenuto della prima parte del passo.

Nel testo sono menzionate le disposizioni edilizie in materia di dichiarazione di vizi («Itaque sicut superius venditor de morbo vitiove et ceteris quae ibi comprehensa sunt praedicere iubetur, et praeterea in his causis non esse mancipium ut promittat praecipitur»), alle quali doveva sottostare il venditore nel caso di vendita di un mancipium. Il giurista continua con un riferimento all’obbligo di garantire l’assenza di vizi attraverso la prestazione di una cautio[10]; ed afferma che gli stessi obblighi erano validi anche nel caso in cui un servus fosse venduto in qualità di accessorio[11] di altra res; riferendo così una norma che derogava il principio generale per cui le disposizioni dell’editto degli edili curuli dovevano essere applicate alle vendite aventi per oggetto principale un mancipium. Per tanto, il venditore era obbligato a dichiarare malattie, difetti, vizi e nazionalità dello schiavo, e quindi sottostare a tutti quegli obblighi previsti dall’editto edilizio, anche nel caso in cui avesse venduto uno o più servi in qualità di “accessori”[12].

L’enunciazione di tale disposizione nel discorso di Gaio appare consequenziale alla premessa fatta in apertura di frammento: si susseguono tre periodi concatenati logicamente. sembra quasi che il nuovo principio imposto al venditore sia una conseguenza naturale rispetto a ciò che è stato ordinato dagli edili “superior[13]. Si noti l’uso di tre verbi diversi, coniugati in forma passiva, per esprimere ciò che era stato ordinato dagli edili (iubetur e praecipitur) e ciò che viene ordinato ex novo al venditore (compellitur) con la nuova rubrica dell’editto; uso che si contrappone all’utilizzazione costante dei verbi praedicere (che indica il “rendere noto” i vizi occulti) e promittere (che allude al “garantire l’assenza dei vizi” tramite la prestazione di una cautio).

In fine, un’ultima constatazione: singolarmente il giurista tace sulle motivazioni (giuridiche o economiche) che indussero gli edili ad introdurre nel loro editto questa nuova e rilevante regola giuridica.

 

 

3. – Linee di interpretazione giurisprudenziale: da Gaio a paolo

 

Dai frammenti di Gaio e Paolo emergono una serie di differenze testuali. Mentre Gaio si limitava ad enunciare solo ed esclusivamente il nuovo principio derivante dalla rubrica edilizia “si alii rei homo accedat”, proponendo anche due ipotesi di applicazione concreta; in Paolo traspare invece, con chiarezza, la preoccupazione di giustificare il contenuto della rubrica edilizia “si alii rei homo accedat” attraverso il ricorso al già rilevato giudizio di valore espresso con il superlativo iustissime.

Nel frammento di Paolo, inoltre, compaiono altri due elementi che non si riscontrano nel passo di Gaio: il riferimento al minor valore economico della res rispetto a quello del servus “accessorio” (hominem ei rei quae minoris esset accedere), e la menzione della fraus quale giustificazione del principio “si alii rei homo accedat”. L’inciso ‘quae minoris esset’ lascia intendere che la disposizione edilizia trovasse applicazione solamente nei confronti dei casi di compravendita in cui la res principale avesse minor valore del servo “accessorio”. Si tratta, dunque, di un’applicazione restrittiva che manca nel testo di Gaio; dove, infatti, il principio “si alii rei homo accedat” riguarda in generale tutti i rapporti di accessorietà tra res e homines, a prescindere dal loro valore economico.

Merita una riflessione il fatto, certo assai strano, che Paolo, per quanto vissuto in un’epoca successiva rispetto a Gaio, applichi una interpretazione restrittiva al contenuto della rubrica edittale nel senso di limitarne fortemente l’applicazione alle fattispecie concrete. Parte della dottrina ha espresso non pochi dubbi in merito all’autenticità del passo di Paolo, considerato interpolato proprio nel punto in cui si legge quae minoris esset[14].

Valga al riguardo, la posizione di Giambattista Impallomeni[15], il quale sembra accettare, implicitamente, l’interpolazione del frammento paolino, dato che nella sua monografia sull’editto degli edili curuli non accenna mai al valore della res oggetto principale di vendita il cui accessorio fosse costituito da uno o più servi.

A mio parere, l’espressione “quae minoris esset” non può essere considerata frutto di rimaneggiamenti giustinianei. Riterrei, piuttosto, molto probabile che Paolo, nella prima parte del frammento facesse riferimento al pensiero espresso da Sesto Pedio[16] nel suo commentario all’editto degli edili curuli[17]. Tutto ciò è avvalorato dalla logica interna insita nello stesso passo; infatti, il rapporto logico tra la disposizione edilizia inerente all’accessorietà di un servo ad una res di minor valore e la motivazione addotta da Sesto Pedio per giustificarne l’inammissibilità (mediante il ricorso al principio della “dignitas hominum”), mi induce a pensare che in origine gli edili avessero concepito la rubrica “si alii rei homo accedat” per porre fine ai casi di frode evidente, determinati da alienazioni di un servus al seguito di una res di valore economico nettamente inferiore.

Questa disposizione mi sembrerebbe finalizzata soprattutto a regolare le compravendite in cui il venditore non fosse un mercante di schiavi; appare del tutto improbabile, infatti, che un venaliciarius potesse vendere un fondo al seguito del quale vi fossero uno o più schiavi.

Il giurista Pedio, nei suoi libri ad edictum, motivava la disposizione edilizia sulla base dell’aequitas[18] (caratteristica costante del pensiero del giurista), che scaturiva nel caso discusso anche dalla constatazione della palese ingiustizia di un tale rapporto di accessorietà tra una res di minor valore e un servo. Già gli edili dovevano aver motivato questo divieto in ragione del minor valore economico della res; il giurista aggiunge come ulteriore elemento di valutazione la dignitas hominum, ancorata comunque alla economicità del negozio dalla affermazione che «ridiculum namque esse tunicae fundum accedere».

A mio avviso la disposizione “si alii rei homo accedat” venne poi estesa a tutti i rapporti di accessorietà tra res e homines, a prescindere dal valore dell’oggetto principale di vendita. Questo mutamento trova conferma nel frammento D. 21.1.32, in cui Gaio (vissuto in un’epoca successiva rispetto a quella di Sesto Pedio[19]), non accenna mai al problema del diverso valore economico delle res accessorie.

Lo stesso Paolo mostra di non attribuire alcuna importanza alle valutazioni di carattere economico nei rapporti di accessorietà; nella parte finale del frammento d. 21.1.44 pr. afferma, infatti: “ceterum hominis venditioni quidvis adicere licet: nam et plerumque plus in peculio est quam in servo, et nonnumquam vicarius qui accedit pluris est quam is servus qui venit”; parole in cui si potrebbe cogliere – a parere del Cenderelli – perfino «una riserva di Paolo verso l’opinione di Sesto Pedio»[20].

Il superamento delle problematiche attinenti al valore delle res accessorie viene confermato anche dal frammento del giurista severiano citato qui di seguito:

 

D. 18.1.34 pr. (Paul. 33 ad ed.): Si in emptione fundi dictum sit accedere Stichum servum neque intellegatur, quis ex pluribus accesserit, cum de alio emptor, de alio venditor senserit, nihilo minus fundi venditionem valere constat: sed Labeo ait eum Stichum deberi quem venditor intellexerit. Nec refert, quanti sit accessio, sive plus in ea sit quam in ipsa re cui accedat an minus: plerasque enim res aliquando propter accessiones emimus, sicuti cum domus propter marmora et statuas et tabulas pictas ematur[21].

 

Per quanto il passo non attenga alla rubrica edilizia “si alii rei homo accedat”, tuttavia si discute di una questione relativa all’errore nell’identificazione del servus accessorio ad un fondo oggetto principale di vendita. A prescindere dalla soluzione adottata (Paolo ricorre all’autorevole dottrina di Labeone), mi sembra interessante la considerazione espressa dal giurista a proposito del valore economico dei beni collegati da un rapporto di accessorietà («nec refert, quanti sit accessio, sive plus in ea sit quam in ipsa re cui accedat an minus»), valore economico che nel pensiero di Paolo non è giuridicamente rilevante.

Per tornare a D. 21.1.44 pr., Paolo menziona anche la fraus[22], la cui prevenzione viene indicata nel testo come ulteriore giustificazione al contenuto della rubrica edilizia “si alii rei homo accedat”: fu l’esigenza di evitare gli atti di frode, all’editto e allo ius civile, che motivò gli edili a ritenere inammissibile il rapporto di accessorietà tra res (di minor valore) e homo[23].

Anche le parole “fraus aut edicto aut iure civili[24] hanno suscitato alcune discussioni. Nell’espressione fraus edicto il termine edictum viene inteso comunemente come “editto degli edili curuli”[25]; per quanto la Glossa a D. 21.l.44 pr. (“aut edicto”) interpreta nel senso di editto del pretore (“edictum ergo praetoris voluit”). Mi pare però assai improbabile che nel frammento si facesse allusione all’editto del pretore, in quanto il giurista commentata la rubrica dell’editto degli edili curuli.

Un altro problema riguarda poi l’interpretazione dell’espressione “fraus iure civili”, poiché nel testo tramandato dalla Vulgata bolognese si legge “fraus iuri civili”. Per tanto, seguendo la lezione della littera Florentina, l’espressione “fraus iure civili” dovrebbe essere tradotta come suggerisce il rotondi: «che non si parla qui veramente di una frode “all’editto o all’jus civile”, bensì di una frode compiuta “mediante l’editto o l’j. c.” [edicto aut jure civili, ablativi di mezzo] a danno di terzi»[26]. Dunque il rotondi ritiene a ragione che il riferimento nel testo paolino alla fraus debba intendersi come una giustificazione ad una norma positiva dell’editto[27].

Diversa risulta essere l’interpretazione del passo se si tiene conto della versione della Vulgata bolognese, che porta iuri civili, e non iure civili. Secondo il Fascione la frase in cui compare l’espressione “fraus iuri civili” avrebbe il seguente significato: «gli edili non vollero che lo schiavo fosse accessione di un bene di valore minore perché non si commettesse frode all’editto o al diritto civile, ove l’editto potrebbe essere quello edilizio in tema di actio redhibitoria, e nel senso che l’editto avrebbe corroborato i principi dello ius civile»[28].

Ritengo che, ai fini dell’applicazione della clausola edilizia “si alii rei homo accedat” alle fattispecie concrete, non comportasse alcuna differenza di rilievo il fatto che questa frode fosse stata attuata “aut edicto aut iure civili”, e cioè “mediante l’editto o lo ius civile” (in questo caso, la giustificazione al nuovo principio edilizio starebbe a sottolineare che è proprio la limitazione dell’ambito applicativo delle disposizioni dell’editto degli edili, ai soli servi oggetto principale di compravendita, che consentiva di attuare le frodi dei venditores mediante la vendita del servus in qualità di accessorio di una res), oppure se in realtà si dovesse intendere come frode “aut edicto aut iuri civili”, “all’editto o allo ius civile” (in questa ipotesi la frode si attuava attribuendo al servus qualità di accessorio che quindi comportava la non applicabilità della disciplina generale stabilita nell’editto degli edili per le vendite dei mancipia). Mi pare comunque che in entrambe le ipotesi interpretative si possa scorgere l’intento che spinse gli edili a concepire nell’editto la rubrica “si alii rei homo accedat”, e cioè quello di evitare gli atti di frode dei venditori di schiavi[29].

 

 

4. – “Dignitas hominum” in Sesto Pedio

 

Come si è già detto, nel frammento D. 21.l.44 pr., il giurista Sesto Pedio giustifica il divieto di accessorietà tra res e homo, voluto dagli edili curuli al fine di evitare le frodi dei venditori di schiavi, in ragione della “dignitas hominum” («propter dignitatem hominum»).

Nonostante la diversa opinione del Beseler[30], il quale ha ritenuto oggetto di rimaneggiamenti postclassici questa espressione utilizzata da Pedio, mi pare, tuttavia, ampiamente dimostrabile la genuinità della locuzione «propter dignitatem hominum».

Anzitutto, vorrei evidenziare che il ricorso alla dignitas hominum denota il pensiero di un giurista dominato da un forte senso dell’equità. Come è noto, proprio il costante riferimento all’aequitas caratterizzava la personalità scientifica di Pedio; questo giurista, infatti, utilizzava abitualmente criteri di equità per motivare le sue decisioni[31] e fu il primo[32] tra i giuristi a fare ricorso, sempre in ragione dell’aequitas, al principio della dignitas hominum.

Per Giorgio La Pira[33] in nome di tale principio Sesto Pedio giustificò non solo l’inammissibilità, ai fini della tutela edilizia, del rapporto di accessorietà tra beni di minor valore e schiavi, ma anche l’eccezione al divieto per il liberto di citare in giudizio il patrono[34]. Pertanto, mi pare sostenibile che l’espressione «propter dignitatem hominum» sia da attribuire al commentario all’editto degli edili curuli di Sesto Pedio, da cui si può ragionevolmente ipotizzare che Paolo l’avesse tratta.

Per cogliere fino in fondo il senso dell’espressione «propter dignitatem hominum», sarà bene soffermarsi sul significato del termine homo.

Nelle fonti, homo[35] presenta un significato polivalente, potendosi utilizzare sia in riferimento a liberi, sia in riferimento a servi[36]. Di questa polivalenza si ha un caso emblematico in D. 21.1.44 pr.: nel frammento vediamo il termine homo impiegato al singolare per indicare il servus, mentre utilizzato al plurale si riferisce al genere umano.

Per quanto attiene al testo di Pedio, sarà bene stabilire se il giurista utilizzi il vocabolo homo col semplice significato di uomo oppure di servus; ed inoltre se l’espressione “dignitatas hominum” stia ad indicare la dignità degli “uomini” in generale, o quella dei soli liberi, oppure solamente quella dei servi.

A questo proposito può essere utile riflettere sull’interpretazione della Glossa:

 

glossa “Dignitatem” a D. 21.1.44 pr.: “est enim dignissima creaturarum. Unde Ovidius: pronaque cum spectent animalia caetera terram. os homini sublime dedit, coelumque videre iussit et erectos ad sidera tollere vultus. Et Vergilius: Igneus est illis vigor et coelestis origo”.

 

Il glossatore non ha dubbi sul significato del termine homo: si tratta della più degna (dignissima) fra tutte le creature – in senso biblico – , come postula il pensiero cristiano per cui l’uomo è creatura divina. Di grande interesse anche il richiamo ad ovidio[37] e a virgilio[38]: il primo (Met. 1.69-88) utilizzato per sottolineare la supremazia dell’essere umano su tutti gli altri animali; il secondo (Aen. 6.730) per evidenziarne la “coelestis origo”.

Mi sembra interessante il richiamo alle Metamorfosi[39] di Ovidio, proprio in quella parte in cui il poeta descrive la creazione dell’uomo, concepito profondamente diverso da tutti gli altri animali che “si volgono curvi alla terra” («pronaque cum spectent animalia caetera terram. os homini sublime dedit, coelumque videre iussit et erectos ad sidera tollere vultus»).

A partire dall’epoca in cui vive il poeta, e poi soprattutto durante il I sec. d.C., gli autori latini sono fortemente influenzati dalle dottrine filosofiche greche. Basti pensare al caso di Seneca[40]. nel pensiero di Seneca si concepisce l’ideale supremo dell’humanitas e il dovere del rispetto verso tutti gli uomini compresi ovviamente anche gli schiavi.

Non appare quindi improbabile che la filosofia stoica abbia potuto influenzare anche la formazione culturale del giurista Sesto pedio[41], il quale, per usare le parole dell’Orestano, «rielaborò alcune dottrine giuridiche con molto acume e indipendenza, animato dal sentimento dell’aequitas e da uno spirito altamente moderno»[42].

In conclusione, ritengo che l’espressione «propter dignitatem hominum» non debba essere considerata un rimaneggiamento postcalssico ispirato dalla dottrina cristiana, ma una chiara espressione del pensiero di matrice stoica che riconosce dignitas anche al servus; dignitas hominum, nel senso di “dignità della persona umana”[43] come peraltro ha già sostenuto Franz Wieacker: «Personenwürde des Sklaven im stoischen Sinne»[44].

 

 

 

 

 



 

[1] Sulla figura del giurista paolo si rinvia a C.A. Maschi, La conclusione della giurisprudenza classica all’età dei Severi. Iulius Paulus, in ANRW II.15, Berlin-New York 1976, 667 ss., da leggere con la recensione di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR 80, 1977, 221 ss. Del giurista si occupa il più recente saggio di A. Mantello, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo, in BIDR 94-95, 1991-1992, 349 ss.

Per i frammenti tratti dal commentario di Paolo Ad edictum aedilium curulium, o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae 1889, coll. 1095 s., frr. 832-842. I frammenti superstiti riguardano sempre il commento all’editto de mancipiis vendundis e vengono inseriti nei libri 79 (frr. 832-839) e 80 (frr. 840-842) dell’opera di paolo Ad edictum. Cfr. anche Ph. Huschke - e. Seckel - b. Kübler, iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae6, II, Lipsiae 1908, 4 ss.

 

[2] Nella ricostruzione dell’ordine sistematico dell’editto degli edili curuli, la rubrica “si alii rei homo accedat” risulta indicata da O. Lenel, Das Edictum Perpetuum, Leipzig 1927, 554, come l’ottava dell’editto de mancipiis vendundis; tale orientamento è stato per altro comunemente e costantemente seguito dalla dottrina romanistica. Del resto anche F. Glück, Commentario alle Pandette, XXI, (trad. it. a cura di S. Perozzi e P. Bonfante), Milano 1898, 17, nonostante la diversa sequenza proposta per le rubriche edittali, aveva ritenuto che “si alii rei homo accedat” fosse materia dell’undicesima rubrica dell’editto; mentre nella ricostruzione prospettata da A.F. Rudorff, Edicti perpetui quae reliquia sunt, Lipsiae 1869, § 310, 259 ss. la rubrica “si alii rei homo accedat” non aveva trovato spazio fra quelle attribuite dallo studioso all’editto degli edili curuli.

Sorprendentemente, alcuni anni or sono, la tesi del Rudorff che nega l’esistenza di tale rubrica è stata ripresa da L. Manna, Actio redhibitoria e responsabilità per vizi della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, Milano 1994, 82 ss. Secondo la studiosa milanese «la così detta rubrica» “si alii rei homo accedat” sarebbe «frutto di una estensione giurisprudenziale del dettato edittale intervenuta probabilmente in epoca classica» (p. 83); sostiene infatti la Manna che il testo edittale non avrebbe contemplato «la nostra clausola» (p. 82) e che nelle fonti «non si menziona [...] né per riferimento indiretto né per parafrasi, alcuna norma autoritativamente introdotta dalla magistratura edilizia» (p. 83). Fermo restando il fatto che non esiste alcun frammento in cui la rubrica edittale risulti citata testualmente, è tuttavia innegabile che paolo in D. 21.l.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.) introduce la clausola “si alii rei homo accedat” con le parole: «Iustissime aediles noluerunt hominem ei rei quae minoris esset accedere». Per tanto mi sembra difficile sostenere, come fa la Manna, che il giurista non si riferisse ad una disposizione contenuta nell’editto degli edili, che forse non citava letteralmente.

 

[3] Sul giurista Sesto Pedio rinvio soprattutto a: C. Ferrini, Sesto Pedio, in Opere, II, Milano 1929, 39 ss.; M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur bis zum Gesetzgebungswek des Kaisers Justinian4, II, München 1927 (rist. 1966), 766; A. Berger, v. “Pedius”, in PW 19, Stuttgart 1937, coll. 41 s.; G. La Pira, La personalità scientifica di Sesto Pedio, in BIDR 17, 1938, 293 ss.; R. Orestano, v. “ Sesto Pedio”, in NNDI 12, Torino 1965, 761 s.; A. Cenderelli, “Ricerche su Sesto Pedio”, in SDHI 44, 1978, 371 ss.; C. Giachi, Per una biografia di Sesto Pedio, in SDHI 62, 1996, 69 ss. (ivi bibliografia completa sulla biografia del giurista). Sul pensiero del giurista vedi inoltre: A. Cenderelli, Una “elegantia” di Sesto Pedio: D. 3.5.5.11-13, in Atti del II Seminario Romanistico Gardesano, Milano 12-14 giugno 1978, Milano 1980, 145 ss.; G. Falcone, D. 1.3.13. Pedio, Ulpiano e la “lex contractus”, in Labeo 43, 1997, 240 ss.; C. Giachi, Storia dell’editto e struttura del processo in età pre-adrianea. Un’ipotesi di lavoro, in Atti del Convegno “Processo civile e processo penale nell’esperienza giuridica del mondo antico”, in memoria di Arnaldo Biscardi, Siena, Certosa di Pontignano, 13-15 dicembre 2001, in Rivista di diritto romano, II, 2002, http://www.ledonline.it/rivistadidirittoromano/attipontignano.html; E. Stolfi, Studi sui«Libri ad edictum» di Pomponio. I. Trasmissione fonti, Napoli 2002, 502 ss.

Per i frammenti rinvio a o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., coll. 1 ss.; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II, ii, Lipsiae 1901, 79 ss.

 

[4] D. 21.1.1.1 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.): Aiunt aediles: “Qui mancipia vendunt certiores faciant emptores, quid morbi vitiive cuique sit, quis fugitivus errove sit noxave solutus non sit: eademque omnia, cum ea mancipia venibunt, palam recte pronuntianto. Quodsi mancipium adversus ea venisset, sive adversus quod dictum promissumve fuerit cum veniret, fuisset, quod eius praestari oportere dicetur: emptori omnibusque ad quos ea res pertinet iudicium dabimus, ut id mancipium redhibeatur. Si quid autem post venditionem traditionemque deterius emptoris opera familiae procuratorisve eius factum erit, sive quid ex eo post venditionem natum adquisitum fuerit, et si quid aliud in venditione ei accesserit, sive quid ex ea re fructus pervenerit ad emptorem, ut ea omnia restituat. Item si quas accessiones ipse praestiterit, ut recipiat. Item si quod mancipium capitalem fraudem admiserit, mortis consciendae sibi causa quid fecerit, inve harenam depugnandi causa ad bestias intromissus fuerit, ea omnia in venditione pronuntianto: ex his enim causis iudicium dabimus. Hoc amplius si quis adversus ea sciens dolo malo vendidisse dicetur, iudicium dabimus”.

 

[5] Aulo Gellio, Noct. Att. 4.2.1: In edicto aedilium curulium, qua parte de mancipiis vendundis cautum est, scriptum sic fuit: ‘Titulus servorum singulorum scriptus sit curato ita, ut intellegi recte possit, quid morbi vitiive cuique sit, quis fugitivus errove sit noxave solutus non sit’.

 

[6] Il frammento D. 21.1.44 pr. viene considerarto da o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, cit., in due diversi luoghi: I, col. 1096, fr. 840; II, col. 7, fr. 50. Vedi anche F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II, ii, cit., 99, fr. 13. Sul passo paolino cfr. G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, Padova 1955, 65, 68; L. Manna, Actio redhibitoria e responsabilità per vizi della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, cit., 81 n. 22. Si vedano anche G. Rotondi, Gli atti in frode alla legge, Torino 1911 (rist. roma 1977), 110 s.; G. La Pira, La personalità scientifica di Sesto Pedio, cit., 325; F. Wieacker, Amoenitates Iuventinae, in Iura 13, 1962, 14 s.; G. Moschetti, eticità della Glossa d’accursio sotto l’aspetto della libertà dell’uomo, in SDHI 35, 1969, 40; P. Maddalena, “Accedere” e “cedere” nelle fonti classiche, in Labeo, 18, 1971, 173; A.M. Honorè, The editing of the Digest Titles, in ZSS 90, 1973, 272 s., 291; L. Fascione, Fraus legi, Milano 1983, 166 n. 80; H. Van De Wouw, Brocardica dunelmensia, in ZSS 108, 1991, 250.

 

[7] Cfr. G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., 65 ss.; L. Manna, Actio redhibitoria e responsabilità per vizi della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, cit. 80 ss. Sul concetto di accessorio rinvio a P. Maddalena, “Accedere” e “cedere” nelle fonti classiche, cit., 173, il quale scrive che «questo rapporto di accessorietà di una cosa posta a servizio di un’altra è scolpito in un [...] passo di Paolo D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.)».

 

[8] Per una biografia del giurista vedi A.M. Honoré, Gaius. A biography, Oxford 1962; ma anche G. Diódsi, Gaius, der Rechtsgelehrte, in ANRW II.15, Berlin-New York 1976, 605 ss. (ivi, 623 ss., accurata bibliografia gaiana di R. Wittmann, alla quale si fa rinvio); F. Casavola, Giuristi adrianei, cit., 145 ss., 339 ss.; F. Gallo, La storia in gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista, Atti del convegno torinese 4-5 maggio 1979 in onore del prof. S. Romano, Milano 1981, 89 ss.; G. Pugliese, Gaio e la formazione del giurista, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista, cit., 1 ss.; R. Quadrato, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii, napoli 1979; Id., La persona in Gaio. Il problema dello schiavo, in Iura 37, 1986, 1 ss.; O. Diliberto, considerazioni intorno al commento di Gaio alle XII tavole, in Index 18, 1990, 403 ss.; F. D’Ippolito, Gaio e le XII Tavole, in Index 20, 1992, 279 ss.; M. Bretone, una mano estranea sul commento di gaio all’editto provinciale, in Mélanges à la mémoire de André Magdelain, Paris 1998, 39 ss.

Per quanto attiene al commento di Gaio Ad edictum aedilium curulium liber I e liber II, rinvio ai frammenti superstiti raccolti e ordinati da o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., coll. 235-237, frr. 378-387. Il Lenel ritiene che il commetario all’editto edilizio dovesse far parte dei libri XXXI e XXXII Ad edictum provinciale di gaio; in particolare, i frammenti di commento al primo libro dell’editto degli edili (frr. 378-386) vengono considerati appartenenti al libro 31 Ad edictum provinciale, mentre l’unico frammento del libro II ad edictum aedilium curulium (fr. 387) si ritiene facesse parte del libro 32 Gai ad edictum provinciale.

Vedi anche Ph. Huschke - e. Seckel - b. Kübler, iurisprudentiae, cit., 113 ss.

 

[9] o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 236, fr. 387. Sul passo vedi anche G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., 67; G. Nicosia, Il testo di Gai 2.15 e la sua integrazione, in Silloge. Scritti 1956-1996 I, Catania 1998, 184; P. Maddalena, “Accedere” e “cedere” nelle fonti classiche, cit., 173; G. Camodeca, Le “emptiones” con “stipulatio duplae” dell’archivio Puteolano dei Sulpicii, in Labeo, 33, 1987, 174; A.M. Honorè, The editing of the Digest Titles, cit., 272 s.; M. Morabito, Esclavage et enseignement du droit: le Institutes de Gaius, in Index 15, 1987, 51 ss.; L. Manna, Actio redhibitoria e responsabilità per vizi della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, cit., 80.

 

[10] Cfr. G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., 45: «Più precisamente, il venditore era tenuto soltanto a promettere che lo schiavo non aveva vizi fisici, non era fugitivus o erro, o noxa non solutus: tanto è vero, che solo a quei vizi si riferiscono i passi che riguardano esplicitamente il contenuto della stipulazione».

 

[11] Sul concetto di res accessoria si rinvia a: P. Bonfante, Corso di diritto romano, II, i. La proprietà, Roma 1926, (rist., Milano 1966), 141; G. Grosso, Corso di diritto romano. Le cose, Torino 1941 (ripubblicato Con una «nota di lettura» di Filippo Gallo, in Rivista di Diritto Romano I, 2001, http://www.ledonline.it/rivistadidirittoromano/) 116 ss.; P. Rasi, Le pertinenze e le cose accessorie, Padova 1955, 26 ss.; G. Astuti, v. “Cosa”. I. Cosa in senso giuridico [a) Diritto romano e intermedio], in ED 11, Milano, 1962, 1 ss.; P. Maddalena, “Accedere” e “cedere” nelle fonti classiche, cit., 172 ss.; G. Diurni, v. "Pertinenze (storia)", in ED 33, Milano 1981, 532 ss.

 

[12] In questo caso si fa riferimento ad un rapporto di accessorietà di una cosa posta a servizio di un’altra cosa. Cfr. P. Maddalena, “Accedere” e “cedere” nelle fonti classiche, cit., 172 s., l’A. ritiene che nelle fonti vi sia una «lunga serie di testi nei quali accedere è posto in diretta relazione con la res. In questo ambito esso assume fondamentalmente due significati: in una prima accezione esprime, piuttosto che la crescita della cosa principale considerata nel suo essere obiettivo, l’aumento di utilità che, com’è nel moderno concetto di pertinenza, la cosa principale riceve dal rapporto di subordinazione in cui viene a trovarsi la cosa accessoria posta a suo servizio; in una seconda serie di testimonianze accedere, introducendoci nel tema proprio dell’accessione, indica, invece, la crescita obiettiva della res, crescita che deriva, come si è accennato, o da un fenomeno organico, o da un congiungimento materiale, o dalla formazione di una unità economica». Il Maddalena indica come esempi significativi di rapporto di accessorietà di una cosa posta a servizio di un’altra, sia D. 21.1.32 (Gai 2 ad ed. aed. cur.) e sia D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.).

 

[13] Gaio utilizza il termine superius che allude chiaramente ai principi enunciati in precedenza dagli edili nelle altre rubriche dell’editto (si rinvia pertanto ai testi edittali riportati da Ulpiano, D. 21.1.1.1, e da Gellio, Noct. Att. 4.2.1) e già commentati dallo stesso Gaio.

 

[14] L’interpolazione del passo di Paolo viene segnalata da F. Haymann, Die Haftung des Verkäufers für die Beschaffenheit der Kaufsache, I, Berlin 1912, 74; G. von Beseler, beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, III, Tübingen 1913, 52; O. Lenel, Das Edictum Perpetuum, cit., 564.

 

[15] Vedi G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., 65. Il testo di Paolo (D. 21.1.44 pr.; Paul. 2 ad ed. aed. cur.) viene riportato in due diversi luoghi (65 n. 53 e 68 n. 63) senza che venga avanzato alcun dubbio intorno alla sua genuinità. Anche L. Fascione, Fraus legi, cit., 166 n. 80, trattando del problema della frode alla legge nel passo di Paolo, non fa alcun riferimento alla possibile interpolazione del “quae minoris esset”, limitandosi a sostenere che «gli Edili non vollero che lo schiavo fosse considerato accessione di un bene di valore minore», con rinvio all’opera dell’Impallomeni per risolvere «il problema della accessione a bene di minor valore». Comunque mi sembra evidente che il Fascione non consideri interpolato l’inciso “quae minoris esset”.

 

[16] Paolo dimostra in più luoghi di conoscere ed utilizzare i commentari ad edictum di Sesto Pedio. Il giurista severiano cita Pedio 17 volte nei suoi libri ad edictum, una volta nel libro II ad Plautium, nel commentario alla legge Giulia e Papia ed infine nel libro II ad Vitellium. Cfr. C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 40, 45, il quale è del parere che «dal numero notevolmente minore delle citazioni [rispetto a quelle di Ulpiano] si sarebbe tentati di credere che Paolo avesse ancor minore conoscenza di Pedio. Ma non si ritiene che un’attenta lettura dei passi che vi si riferiscono per essere convinti del contrario [...] Paolo cita Pedio anche in altri lavori, il che dimostra uno studio proprio e una più sicura conoscenza di questo autore. E, mentre quelle di Ulpiano si riferiscono in grandissima parte a generalità, definizioni e massime tralatizie, quelle di Paolo contengono spesso particolari, decisioni e osservazioni». Invece A. Cenderelli, Ricerche su Sesto Pedio, cit., 393 ss., ritiene che Ulpiano apprezzasse maggiormente Sesto Pedio e la sua opera rispetto a Paolo, il quale «almeno una volta [D. 4.8.32.20] appare in aperto dissenso con l’interpretazione di Pedio, e comunque lo cita con competenza ed in modo appropriato, ma senza mai ricorrere a frasi apertamente elogiative».

 

[17] Per quanto riguarda la produzione scientifica di Sesto Pedio, dai frammenti di Ulpiano e di Paolo si apprende che il giurista scrisse un’opera di commento all’editto del pretore che comprendeva anche un commentario all’editto degli edili curuli. C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 44, afferma che «il commentario pediano si estendeva poi anche all’Editto edilizio; e pare, anzi, che questa parte fosse trattata con diligenza speciale, giacché ad essa si riferisce il numero relativamente maggiore di citazioni. Nel titolo 21, 1 è ben 10 volte menzionato Pedio, e anche la citazione di Ulpiano D. 1,3,13 si riferisce a questa parte». Argomentando da D. 37.1.6.2, A. Cenderelli, Ricerche su Sesto Pedio, cit., 393 s. e n. 77, ipotizza che i libri Ad edictum di Sesto Pedio «comprendevano certamente più di venticinque libri” ed aggiunge che «l’opera commentava, in maniera analitica, sia l’editto pretorio sia quello degli edili curuli, come si desume agevolmente dai numerosi riferimenti [...] Non ci è dato di sapere se l’opera di commento ai due editti fosse stata unica fin dall’origine, o se si trattasse originariamente di due commentari, che nella pratica venivano utilizzati insieme e che finirono quindi con l’essere considerati come un lavoro unico». Sul commenterio Ad Edictum di Sesto Pedio vedi il recente scritto di C. Giachi, Storia dell’editto e struttura del processo in età pre-adrianea. Un’ipotesi di lavoro, cit., 7 ss.

In D. 12.1.6 Paolo fa esplicito riferimento al libro primo De stipulationibus di Pedio. Questa citazione paolina ha indotto parte della dottrina a pensare che il giurista avesse scritto anche un’opera dal titolo De stipulationibus, autonoma rispetto ai suoi libri Ad edictum. Cfr. o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 8; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II, ii, cit., 81. Vedi anche A. Cenderelli, Ricerche su Sesto Pedio, cit., 395, il quale, a proposito dei libri de stipulationibus, rileva che «mentre Ulpiano cita Pedio con precisione, ma in termini tali da far ritenere che ne conoscesse una sola opera, Paolo, nelle due sole citazioni specifiche ... a noi note, indica espressamente due opere di diverso titolo: ciò potrebbe far pensare che Paolo scrivesse avendo sotto mano i due diversi lavori, ed attingendo ora all’uno, ora all’altro». Invece C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 42, ritiene che il riferimento ai libri de stipulationibus stesse ad indicare quella parte particolare del commentario ad edictum in cui si trattava in maniera specifica della stipulatio: «è noto, infatti, come i commentatori, arrivati al titolo “de stipulationibus praetoriis”, solessero esporre la dottrina generale e completa delle stipulazioni in un ampio trattato comprendente più libri». Di particolare interesse l’ipotesi formulata da C. Giachi, Storia dell’editto e struttura del processo in età pre-adrianea. Un’ipotesi di lavoro, cit., 2 n. 3, la quale scrive: «Pur non potendo del tutto escludere la possibilità che il de stipulationibus pediano fosse un’opera monografica paragonabile a quella di Venuleio, è forse più probabile una diversa ricostruzione. Alla luce di tutti i dati considerati, infatti, ci sembra verosimile che si sia trattato di una serie di libri pediani di complemento all’editto che, per l’ampiezza di prospettiva con la quale il tema veniva esaminato, e perché riferibile a un’appendice dell’editto, doveva apparire come un blocco unico, isolato dal resto dell’ad edictum».

 

[18] è noto il grande senso di equità che permeava il pensiero giuridico del giurista Sesto Pedio. A tale proposito vedi C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 46: «elaborò il diritto con acume e indipendenza grande, con vivo sentimento dell’aequitas e una sagace modernità di indirizzo»; G. La Pira, La personalità scientifica di Sesto Pedio, cit., 325 ss., il quale dedica particolare attenzione ai «criteri di equità e di coerenza sistematica ai quali si ispirano alcune decisioni pediane»; R. Orestano, v. “Sesto Pedio”, cit., 761; C. Giachi, Per una biografia di Sesto Pedio, 105, la quale afferma: « […] è sufficiente una lettura appena approfondita dei testi a lui [Pedio] riconducibili per rendersi conto di quanto il nostro giureconsulto fosse attento al rispetto dell’aequum, e quanto questa idea lo ispirasse nell’analisi del testo dell’editto».

 

[19] La dottrina si è posta il problema di stabilire in quale periodo sia vissuto il giurista Sesto Pedio. Si possono individuare tre distinti orientamenti: un primo gruppo di autori ritiene che il giurista sia vissuto nell’età traianea e che fosse precedente a Giuliano (vedi tra gli altri C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 40 n. 1; G. La Pira, La personalità scientifica di Sesto Pedio, cit., 309); altro orientamento invece si esprime per una collocazione più risalente, e cioè, Pedio sarebbe vissuto verso la metà del I sec. d.C. (o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 2 n. 2; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, cit., 633, 695; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II, ii, cit., 79; M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, cit., 766); infine altri studiosi sono dell’idea che il giurista fosse contemporaneo di Salvio Giuliano (P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des Römischen Rechts, Leipzig 1919, 124 e n. 102; L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, 505; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung, cit., 168 s.). In tempi recenti A. Cenderelli, Ricerche su Sesto Pedio, cit., 373 ss., ha nuovamente affrontato il problema della datazione storica di Pedio, lo studioso, avvalendosi di una testimonianza di Valerio Probo e con l’ausilio di indagini prosopografiche e storico-giuridiche, è giunto alla conclusione, da me condivisa, che tale collocazione debba «essere stabilita nella seconda metà del primo secolo d.C.». Da ultima, dello stesso avviso, C. Giachi, Per una biografia di Sesto Pedio, 114, la quale risolve la problematica collocazione temporale del giurista affermando che è possibile «collocare gli anni centrali della sua vita e del suo lavoro al più tardi nella seconda metà del I sec. d.C. ».

 

[20] A. Cenderelli, Ricerche su Sesto Pedio, cit., 401 n. 106.

 

[21] o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 1035, fr. 504.

 

[22] Sul concetto di fraus si rinvia a G. Rotondi, Gli atti in frode alla legge, cit., 11 ss.; U. Brasiello, v. "Crimina", in NNDI 5, Torino 1960, 1 ss.; L. Fascione, Fraus legi, cit., 160 ss.; Id., Ancora sulla fraus legi, cit., 159 ss.

 

[23] Secondo G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit., 65 n. 53, «non però la dignità dell’uomo, ma la necessità di reprimere possibili frodi determinò gli edili a statuire la presente norma».

 

[24] È uno di quei passi nei quali ricorrono le coppie concettuali “vel iure civili vel honorario”; “vel iure civili vel iure praetorio” utilizzate da paolo. Cfr. A. Mantello, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo, cit., 361.

 

[25] Sull’interpretazione del passo di Paolo in riferimento agli atti compiuti in frode alla legge si veda G. Rotondi, Gli atti in frode alla legge, cit., 110 s. L’autore così afferma: «che qui la fraus edicto si riferisca alla norma della redhibitio in quanto per lo schiavo venduto come accessione non vi sarebbe l’obbligo di praedicere è opinione comune, a datare dalla Glossa, e io non ne saprei proporre una migliore».

 

[26] G. Rotondi, Gli atti in frode alla legge, cit., 111.

 

[27] G. Rotondi, loc. cit.

 

[28] L. Fascione, Fraus legi, cit., 166 n. 80.

 

[29] Il riferimento agli atti di frode dei venditori di mancipia, in merito alle disposizioni edilizie, risulta anche in Cicerone, de off. 3.17.71: Nec vero in praediis solum ius civile ductum a natura malitiam fraudemque vindicat, sed etiam in mancipiorum venditione venditoris fraus omnis excluditur. Qui enim scire debuit de sanitate, de fuga, de furtis, praestat edicto aedilium. Nel titolo D. 21.1 vi sono alcuni frammenti in cui l’emanazione dell’editto degli edili viene giustificata facendo ricorso alla volontà di porre fine alla fallacia dei venditori: D. 21.1.1.2 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.): Causa huius edicti proponendi est, ut occurratur fallaciis vendentium et emptoribus succurratur ...; D. 21.1.37 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.): Praecipiun aediles, ne veterator pro novicio veneat. Et hoc edictum fallaciis venditorum occurrit: ubique enim curant aediles, ne emptores a venditoribus circumveniantur. Nei due passi citati, pur non utilizzando il termine fraus, il giurista Ulpiano evoca chiaramente comportamenti fraudolenti dei venditori di servi ai danni degli ignari compratori.

 

[30] G. von Beseler, beiträge zur Kritik, cit., 152.

 

[31] Cfr. G. La Pira, La personalità scientifica di Sesto Pedio, cit., 325 ss., il quale individua nelle decisioni di Sesto Pedio l’applicazione di un triplice canone finalistico in merito all’interpretazione delle norme giuridiche: canone da cui dipendono le decisioni equitative; canone di interpretazione sistematica; canone di interpretazione finalistica. L’A. rileva che buona parte delle decisioni pediane espresse nel commentario all’editto degli edili curuli derivano dall’applicazione di forti ragioni di equità, come «il principio che uno schiavo non può mai essere considerato accessione di una cosa (D. 21.1.44 pr.); [...] la decisione relativa alla responsabilità del compratore - in caso di redhibitio - pei danni cagionati allo schiavo dal suo procurator o dalla sua familia (D. 21.1.25 §4)». Per quanto attiene, in generale, all’applicazione di criteri di equità nelle decisioni pediane vedi C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 46; R. Orestano, v. “Sesto Pedio”, cit., 761; C. Giachi, Per una biografia di Sesto Pedio, cit., 115 n. 141.

 

[32] F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II, ii, cit., 80: «idem [Pedius] primus de dignitate ‘hominum’ ait (D. 21,1,44 pr.)».

 

[33] G. La Pira, La personalità scientifica di Sesto Pedio, cit., 325, il quale afferma: «ragioni di equità - che si possono ricondurre al principio della tutela della dignitas hominum D. 21.1.44 pr. - giustificano alcune eccezioni al divieto per il liberto di chiamare in ius il patrono».

 

[34] D. 2.4.10.12 (Ulp. 5 ad ed.): Praetor ait: “in ius nisi permissu meo ne quis vocet” permissurus enim est, si famosa actio non sit vel pudorem non suggilat, qua patronus convenitur vel parentes. Et totum hoc causa cognita debet facere: nam interdum etiam ex causa famosa, ut Pedius putat, permittere debet patronum in ius vocare a liberto, si eum gravissaima iniuria adfecit, flagellis forte cecidit.

 

[35] Sul significato del termine homo nelle fonti vedi Brink, v. “homo”, in Thesaurus Linguae Latinae 6, Lipsiae 1940, coll. 2871 ss. Sulla nozione giuridica di homines e le nozioni di homo e di persona rinvio a P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, I, Torino 1990, 167 ss.; e a S. Tafaro, Diritto e persona: centralità dell'uomo, in Vrbs - União dos romanistas brasileiros, Artigos [http://www.vrbs.org/lobrano.htm], 2002.

 

[36] Nel titolo D. 21.1 vi sono numerose occorrenze in cui il termine homo viene utilizzato con l’accezione di servus: D. 21.1.14.10 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), in tema di vitia corporis; D. 21.1.21.3 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), per indicare il servus fugitivus; D. 21.1.23 pr. (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), a proposito della redibizione del servus che fosse stato “deteriorato” nel corpus e nell’animus dal compratore; D. 21.1.31.5 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), a proposito del servus per il quale sia necessario l’esperimento delle azioni edilizie da parte di più eredi; D. 21.1.31.6 e D. 21.1.31.11, dove il termine homo viene utilizzato per indicare il servus morto prima che gli eredi o il compratore avessero potuto intentare le azioni edilizie; D. 21.1.32 (Gai 2 ad ed. aed. cur.), frammento in cui Gaio discute il principio edilizio si alii rei homo accedat; D. 21.1.43.9 (Paul. 1 ad ed. aed. cur.), vendita del servus sub condicione.

 

[37] Sul poeta Ovidio si rinvia a M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, cit., 206 ss., (ivi letteratura precedente).

 

[38] Per quanto riguarda la biografia e le opere di P. Virgilio Marone si rinvia a M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, cit., 31 ss. Sull’opera di Virgilio negli studi romanistici vedi F. Stella Maranca, Il diritto romano nell’opera di Virgilio, in Historia 4, 1930, 577 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, (ivi accurata bibliografia virgiliana a cui si rinvia).

 

[39] Sulle Metamorfosi si vedano M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, cit., 235 ss.; L. Castiglioni, Studi intorno alle fonti e alla composizione delle Metamorfosi, Pisa 1906; A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924, 248 ss.; A. Menzione, Ovidio. Le metamorfosi. Sintesi critica e contributo per una rivalutazione, Torino 1964.

 

[40] Sul filosofo vedi M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, cit., 679 ss.; C. Marchesi, Seneca, Milano 1942; I. Lana, L. Anneo Seneca, Torino 1965. Sul pensiero giuridico di Seneca vedi F. Stella Maranca, Seneca giureconsulto, Lanciano 1926; R. Düll, Seneca iureconsultus, in ANRW II.15, Berlin-New York 1976, 364 ss. (sul quale vedi le considerazioni critiche di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, cit., 195 ss.); A. Mantello, ‘Beneficium’ servile - ‘debitum’ naturale. Sen., de ben. 3.18.1 ss. - D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post. Lab.), Milano 1979; P. Grimal, Seneca, trad. it., Milano 1992; M. Brutti, Il potere, il suicidio, la virtù. Appunti sulla ‘Consolatio ad Marciam’ e sulla formazione intellettuale di Seneca, in Seminari di storia e di diritto, a cura di A. Calore, Milano 1995, 65 ss.

 

[41] Per quanto riguarda la formazione culturale di Sesto Pedio si veda, in particolar modo, C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 46 s.; R. Orestano, v. “ Sesto Pedio”, cit., 761; A. Cenderelli, “Ricerche su Sesto Pedio”, cit., 395 ss., il quale giustifica l’indipendenza del giurista dalle due scuole dei Sabiniani e dei Proculiani facendo ricorso alla sua formazione culturale, inizialmente milanese, che gli consentì di acquisire una istruzione giuridica di base, nonché al successivo approfondimento della propria cultura scientifica, mediante studi autonomi sui libri dei giuristi. In questo modo il Cenderelli giustifica anche la precisione delle citazioni tratte dall’opera di Ofilio da parte di Pedio, talmente meticolose da indurre «a ritenere che egli avesse studiato direttamente il commentario ad edictum di tale giurista».

 

[42] R. Orestano, v. “Sesto Pedio”, cit., 761. Vedi anche , C. Ferrini, Sesto Pedio, cit., 46 s.; G. La Pira, La personalità scientifica di Sesto Pedio, cit., 293 ss.; A. Cenderelli, “Ricerche su Sesto Pedio”, cit., 371 ss.

 

[43] In questo senso anche G. La Pira, La personalità scientifica di Sesto Pedio, cit., 325; F. Wieacker, Amoenitates Iuventinae, cit., 14 s. A proposito del servus in quanto “portatore di dignità” vedi S. Tafaro, Diritto e persona: centralità dell'uomo, cit., il quale afferma: «Si scopre, invece, che la loro condizione di 'uomini' penetrò in modo significativo anche nella normativa giuridica e, soprattutto, nelle enunciazioni dei giuristi del Principato, suggerendo soluzioni che oserei definire di 'soggettività' o che comunque, quanto meno, riconoscevano il servus come “un soggetto portatore di una dignità, di un valore in sé, proprio dell'uomo in quanto tale”, con implicazioni profonde sia nel diritto privato che in quello pubblico».

 

[44] F. Wieacker, Amoenitates Iuventinae, cit., 15.