N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana
Inter decreta pontificum
hoc maxime quaeritur...
(Macr., Sat. 3.3.1)
Sommario: 1. L’infrazione di Remo
alla base della prima sanzione. La sanctitas
fra il diritto divino e quello umano. – 2. Sacrum, sanctum e religiosum valgono non in quanto riferibili alle res di per sé, ma in relazione ai loro
rapporti di tipo religioso o giuridico. – 3. Loci religiosi
che sono anche sancti: il caso dell’heroon
del Niger lapis. Leges sacratae inerenti ai luci. – 4. A monte
della definizione dei giuristi classici sta la derivazione di alcuni giuristi
tardo-repubblicani dai libri sacerdotales dei pontefici. – 5. Il locus inauguratus come locus sanctus. In quanto difensore della sanctitas delle mura Romolo esercita una
funzione pontificale. – 6. Il sacrilegium si espia con la punizione
del colpevole senza danno per le mura (su un presunto processo di “desantificazione”). – 7. Il locus sanctus come
“luogo difeso sacralmente”. Gli “ombelichi d’Italia” e il caso della Ampsancti valles. – 8. I tesca
dell’arce capitolina come loca undique sancta e loca augurio
designata nelle definizioni degli
àuguri e dei pontefici. – 9. Alla base della
sanctitas si situa la “sanzione”
fornita da Giove con la folgore. Il caso del giuramento di Latino in Virgilio e
del rito del collegio dei feziali. – 10. Conclusione.
Sic deinde,
quicumque alius transiliet moenia mea
(«Questa sorte avrà chiunque altro oltrepasserà le mie difese»): tali le parole
significative che, secondo Livio[1],
Romolo avrebbe pronunciato dopo la vera e propria esecuzione di Remo, il
fratello che, “con scherno” (ludibrio),
aveva osato saltare oltre i novos muros. Con questo il mito di fondazione,
vale a dire la tradizione annalistica romana, ha inteso ribadire il significato
dell’inviolabilità delle mura stesse e cioè della loro sanctitas, base e fondamento delle future norme giuridiche d’epoca
imperiale codificate nel Digestum[2],
sino a quella disposizione giustinianea per la quale:
muros
sanctos dicimus, quia poena capitis constituta sit in eos qui aliquid in muros
deliquerint[3].
E poco importa che Orazio nell’Epodo VII, risalente al 41 a. C. e
quindi all’epoca della ripresa delle lotte intestine negli ultimi tempi della
repubblica, interpretasse l’episodio come la chiave drammatica e dolorosa delle
vicende a lui contemporanee, dal momento che l’élite dirigente romana (di cui si fanno eco Livio, Ovidio e
Plutarco) sembra permeata dalla consapevolezza che l’uccisione di Remo fosse la
conseguenza inevitabile del suo gesto prevaricatore. Anzi, l’azione di Romolo
riaffermante l’inesorabilità della legge al di là dei legami stessi del sangue,
vale a ribadirne la funzione di legittimo fondatore e ordinatore della città.
Il fatto, poi, che la “sanzione” di cui
rimane vittima Remo sia applicata dallo stesso primo legislatore e non dagli
dèi in prima persona in quanto vendicatori, così come ci si sarebbe aspettati
sulla base dell’antica norma Qui legem
violaverit, sacer esto (cioè «sia escluso dal consorzio degli uomini»),
deriva dal situarsi la sanctitas in
un certo qual modo fra il diritto divino e quello umano (se ancora Gaio e
Giustiniano potranno dire delle sanctae
res: quodammodo divini iuris sunt)[4], ma
in cui alla volontà divina si è, per così dire, aggiunta quella umana[5].
Di conseguenza, ha potuto scrivere P. Catalano che «proprio questo rendeva
possibile, dal punto di vista giuridico, una evoluzione delle norme a difesa
dei luoghi»[6].
Se qui Catalano (sulla scorta del Valeton) si riferisce a “luoghi inaugurati”,
non sarà tuttavia sempre questa – come meglio si vedrà in seguito – la condizione
necessaria della loro “santità”[7].
Nelle definizioni dei giuristi classici
appartengono allo ius divinum le res sacrae, cioè quelle diis superis consecratae, e le res religiosae, quae diis Manibus relictae sunt[8]. Ciò
che è sanctum, invece, proiettandosi
in quell’ambito intermedio fra l'umano e il divino di cui si è detto (e che
quindi bene si presta – lo anticipiamo – al campo applicativo di quel collegio
sacerdotale istituzionalmente preposto all’intermediazione fra dèi e uomini
quale quello dei pontefici)[9], pur
emanando dalla sfera divina, non è di pertinenza di una particolare divinità,
ma est quod ab iniuria hominum defensum
atque munitum est secondo la definizione di Marciano[10].
E così Ulpiano, nel precisare che la sanctio
è quella parte della lex regolante i
rapporti fra questa e l’ordinamento, preciserà che id sanctum est, etsi deo non sit consecratum[11].
In queste definizioni il sanctum non
è tale per una sua qualità intrinseca, ma richiede un’intenzionalità specifica
da parte dell’uomo, volta a determinare una zona intermedia fra le opposte
dimensioni del sacrum e del profanum, è il risultato di
un’operazione: il prodotto della sanctio
come atto del sancire.
Ma se le fonti d’epoca imperiale, parlando
della sanctio e della res sancta, ci hanno in ogni caso messo
in contatto con la dimensione religiosa dell’esperienza umana, non ci sono di molto
aiuto per individuarne una più esatta valenza, perché sono obiettivamente tarde
e prive di reale capacità esplicativa.
Volgendoci quindi all’età repubblicana, sono
di maggiore interesse le enunciazioni dell’antiquario Elio Gallo riportateci
nell’epitome festina del De verborum
significatione di Verrio Flacco. Dopo aver definito ciò che
contraddistingue il sacrum, il religiosum e il sanctum, Elio aggiunge:
... sed ita ratione quadam, et
temporibus eadem videri posse. Siquidem quod sacrum est, idem lege aut instituto
maiorum sanctum esse putant, ut violari id sine poena non possit. Idem
religiosum quoque esse, quoniam sit aliquid, quod ibi homini facere non liceat;
quod si faciat, adversus deorum voluntatem videatur facere. Similiter de muro et
sepulcro debere observari, ut eadem et sacra, et sancta, et religiosa fiant,
sed quomodo quod supra expositum est, cum de sacro diximus[12].
Da cui si rileva che i concetti di sacrum, sanctum e religiosum non
sono riferibili agli oggetti per se stessi, ma al fatto della consacrazione e
dell’intangibilità (rapporti di tipo religioso) e a quello della sanzione (rapporto giuridico). Pertanto una
stessa res può essere “sacra” in
quanto consacrata agli dèi, “santa” in quanto soggetta a sanzione di legge,
“religiosa” in quanto a violarla si offendono gli dèi. Così una res sancta come il murus o religiosa come il
sepulcrum può essere considerata
nella prospettiva del sacrum, del sanctum e del religiosum, che dunque per Elio Gallo possono coincidere. Si
consideri, del resto, l’espressione sancta
nella norma delle XII Tavole interpretata da Cicerone: deorum Manium iura sancta sunto[13], per
la quale le pene previste contro le offese ai sepolcri erano le stesse che
contro le res sanctae.
Per offrire un esempio concreto, un caso di locus sanctus che è anche un locus
religiosus crediamo di poter
indicare, all’interno del Comizio, nell’area sacra del Niger lapis, da identificarsi – secondo l’attenta indagine del
Coarelli[14]
– con quella del cosiddetto Volcanal,
locus funestus in quanto sito della supposta morte di Romolo ma in cui,
proprio per questo motivo, sarebbe stato innalzato un vero e proprio heroon alla sua memoria. L’arcaica lex sacrata
incisa sul noto cippo del secondo quarto del VI secolo a. C. – che altro non
sarà stata che la lex arae riferentesi al vicino altare –
“sancisce” appunto il divieto di profanare il luogo, pena l’esclusione dal
consorzio umano: quoi hon[ke stloqom
violasid] sakros esed[15]. Ma loci sancti, cioè soggetti a sanzione se
profanati (sia pure con la previsione di pene meno gravi) sono anche – a nostro
giudizio – quei luci o boschi sacri a
qualche divinità il cui accesso è interdetto da apposite leges sacratae quali quelle trovate incise su cippi in quel di Spoleto,
in Umbria, ed a Lucera, in Puglia[16], in
conformità, del resto, con quanto recita quel passo dagli Excerpta di Festo riportato da Paolo Diacono: Capitalis lucus, ubi, si quid violatum est, caput violatoris expiatur[17].
Non diversamente da
Elio Gallo, il giureconsulto d’età cesariana Caio Trebazio Testa, autore di un Liber religionum, riferisce essere il sanctum ... interdum idem quod sacrum
idemque quod religiosum, interdum aliud, hoc est nec sacrum nec religiosum est[18].
La categoria del sanctum talora coincide con quella del sacrum e del religosum e talaltra se ne differenzia. E il medesimo uso promiscuo
dei termini traspare dalle definizioni che anche Servio Sulpicio e Masurio
Sabino danno di religio e sanctitas[19] (ma
parrebbe emergere anche dal contesto delle orazioni ciceroniane De domo sua e De haruspicum responso).
L’avere rilevato
questa promiscuità dei termini dimostra che ci troviamo di fronte a una
concezione di base unitaria, indizio di una derivazione anche formale delle
definizioni dei giuristi e degli eruditi tardo repubblicani da documenti
sacerdotali molto più antichi. La tecnica definitoria ricorda infatti da vicino
«il procedimento seguito dai pontefici nella redazione delle liste di
attribuzioni divine che costituivano gli indigitamenta
delle divinità»[20]
e molto opportunamente è stato osservato dal Fiori come «anche il riconoscimento
delle attribuzioni delle divinità» costituisca «un atto giuridico»[21].
Del resto, alcuni
degli eruditi citati prima, come Servio Sulpicio e Trebazio Testa – a tacer
dello stesso Terenzio Varrone (discepoli tutti di Elio Stilone, che alcuni
commentatori moderni identificano con l’Aelius
della glossa sanctum di Festo)[22],
in quanto appartenenti al circolo di Giulio Cesare, pontifex maximus, avevano certamente libero accesso agli archivi
pontificali a scopo di studio[23]. E
una derivazione sostanziale del concetto di sanctum
dalla dottrina sacerdotale è dimostrata non solo da quanto sopra esposto, ma
dall’esplicita affermazione di Macrobio, per il quale l’individuazione esatta
del suo ambito era contemplata in quella sezione dell’archivio dei pontefici
riservata alla «raccolta dei decreta
e responsa dati dal collegio di
propria iniziativa o su richiesta»[24]:
inter decreta pontificum hoc maxime quaeritur, quid sacrum, quid
profanum, quid sanctum, quid religiosum[25],
donde deriva la definizione pontificale di sancti attribuita ai muri ricordata da Cicerone: pro urbis muris, quos vos, pontifices,
sanctos esse dicitis[26]. Un
nesso, dunque, che ci permette di ipotizzare con buon fondamento una diretta
continuità del concetto sin dal periodo più arcaico della realtà
giuridico-religiosa romana.
Proprio sulla base
di tale antica realtà giuridico-religiosa è da tener presente che il sanctum riferito alle mura sottolinea la
loro importante funzione nel ruolo definitorio dell’ordine spaziale romano. Se,
come ha scritto P. Catalano, «il ‘punto dello spazio-tempo’ in cui inizia la vita del populus Romanus Quirites» è contrassegnato dalla volontà di «Iuppiter grazie all’opera del rex augur Romolo, sul colle Palatium e nel giorno dei Palilia: 21 aprile, dies natalis», ne deve derivare che «aspetto spaziale ed aspetto
temporale del sistema giuridico-religioso romano hanno un punto di incontro,
all’origine, nell’azione augurale di Romolo»[27]. In
questo personaggio, infatti, come mi sono espresso in altra sede, si situa «il
cardine fra il passato mitico che si è celato in un suolo ben determinato e
l’avvenire che in esso dovrà manifestarsi»[28].
Ebbene, se già con
l’augusto augurio rivelatosi al fondatore i corpi dei dodici avvoltoi hanno
potuto essere definiti da Ennio sancta
(cedunt de caelo ter quattuor corpora
sancta avium)[29], con
evidente riferimento al segno divino e quindi all’inauguratio romulea, al linguaggio degli àuguri parrebbe dunque
rimandare il regime della sanctitas
dei muri poiché il pomerium era il luogo appositamente
inaugurato affinché vi si potessero costruire le mura, come esplicitamente
indicano le fonti: locus ... qua murum
ducturi erant, dice Livio[30].
Il nesso esistente
fra res inauguratae e res sanctae nel diritto divino non
impedisce peraltro di pensare che il concetto di sanctitas riferito alle mura fosse comune, nei rispettivi ambiti,
sia allo ius augurium sia allo ius pontificium, come implicitamente conferma
lo stesso Valeton, laddove, parlando del violatore delle mura, così si esprime:
«Nam qui id temptasset, non solum fuisset contra auspicia acturus, sed
sacrilegio se obstricturus»; e in nota 1 «Qui murum nondum exauguratum
violabat, faciebat quod Cicero (Verr. 1,18,47) dicit: “templo manus impias ac sacrilegas
afferre”. Id quale esse existimaverint Romani, docet fabula quae ferebatur de
morte Remi»[31].
Infatti, se gli
àuguri avevano il compito di delimitare lo spazio del templum e del pomerium,
era prerogativa dei pontefici circoscrivere e sorvegliare il terreno sacro separato
da quello profano[32] e pertanto
doveva essere di loro pertinenza la codificazione delle leges sacratae prescriventi la “sanzione” per ogni eventuale sacrilegium inerente alle mura.
Romolo è dunque il
re-augure, l’auctor donde si avvia la
realtà del populus Romanus Quirites in virtù delle operazioni inauguratorie verificatesi sopra
e attorno al colle Palatino, ma è anche, nel contempo, il custode del sacro
solco in quanto l’unico autorizzato a “tracciare la via”: egli assume pertanto
una funzione prettamente pontificale nell’atto di proclamare il divieto di
sacrilegio, quindi la sanctitas delle
mura e l’inevitabile punizione di Remo[33].
Quest’ultimo, rifiutando la nuova realtà spaziale romana, è destinato a
rimanere per sempre confinato nel mondo caotico e regressivo della fera sodalitas dei Luperci (cioè nella
“sfera infera” di Faunus-Lupercus)
che ha preceduto l’urbs ed a cui
anche Romolo ha appartenuto prima degli atti solenni legati al dies natalis.
Vi è da precisare
che il sacrilegio di Remo (e quello di qualsiasi altro dopo di lui) viene
espiato con la punizione del colpevole, senza alcun danno per le mura, che
dunque non sono soggette a nessun processo di “desantificazione”, ignoto alle
fonti antiche, come invece ha pensato Andrea Carandini sulla base di un passo
forse mal interpretato di Plutarco[34]. Si
potrebbe anzi dire che l’espiazione della colpa, verificatasi con la morte di
Remo, costituisca un “precedente” – il
“precedente archetipico”- della sanctitas
dei muri e di ogni futura repressione
del tentativo di violarli.
I linguisti, pur
ammettendo una relazione etimologica fra sacrum
e sanctum in virtù della comune
radice *sak-, hanno peraltro
sottolineato il carattere secondario, derivato, di sanctum[35],
bene accordantesi, come abbiamo già rilevato, con la pregnanza squisitamente
giuridica, cioè carica di valori umani, del concetto (il quod ab iniuria hominum defensum atque munitum est di Marciano).
Questo valore di
“difesa” connesso alle mura della città in quanto circuito delimitante uno
spazio sacro volto alla custodia di un mistico centro è in qualche modo connesso
con la nozione del mundus, la fossa
scavata dal fondatore al centro ideale dell’urbs.
Una nozione,
questa, pare, derivata dall’Etrusca
disciplina, seppure non ignota ad altre popolazioni italiche e asiatiche e
su cui non abbiamo in questa sede tempo per soffermarci[36].
In ogni caso, il mundus romuleo circondato dalle mura,
contribuendo «a mettere in evidenza il nesso fra spazio e tempo», poiché «il
‘centro’ religioso dello spazio è anche il punto iniziale della storia del
popolo romano»[37],
non può non essere in relazione con la più ampia nozione di umbilicus Italiae, quel centro mistico
punto di partenza di tutte le “primavere sacre” dei popoli italici che «Varrone
ci dice consistere nel lago di Cotilia nell’agro Reatino, dove esisteva
un’isola fluttuante»[38] e
Dionigi di Alicarnasso riferisce essere un locus
saeptus, in quanto «recinto da palizzate affinché nessuno si accosti»[39].
Servio, riferendosi
a Varrone, afferma che esistevano anche altri “ombelichi d’Italia” e un altro
d’essi era costituito da quella depressione nel terreno con un piccolo lago
dalle esalazioni velenose tra i monti Irpini, consacrato alla dea italica Mefite,
di cui parla Virgilio nel VII canto dell’Eneide
(v. 565), la quale era detta Ampsancti
valles (“la valle di Ansanto”).
Se l’antico nome di
luogo Ampsanctus è veramente da intendere,
come dice Servio, omni parte sanctus,
cioè «difeso sacralmente da ogni parte» (da amb-[“dalle
due parti”] sanctus, concetto
rafforzato dal successivo verso virgiliano: urguet
utrimque latus nemoris, v. 566), tutto ciò darebbe nuova conferma al valore
di sanctus come «circondato da una
difesa, difeso da un limite o da un ostacolo»[40].
Ora, si badi bene,
la medesima espressione: sancta loca
undique[41]
è data da Pompeo Festo (in un passo che non è stato molto approfondito dagli
studiosi) come proveniente dai libri sacerdotales
dei pontefici proprio in relazione a quei tesca
del Campidoglio, cioè a quei loca augurio
designata[42],
la cui pregnante sanctitas era ben
nota agli antichi glossatori della formula rituale degli àuguri operanti
sull’arce capitolina riportata da Varrone[43], ma
da questi non più bene intesa. Per Varrone, infatti, dicuntur tesca soltanto quei loca
quaedam agrestia, quae alicuius dei sunt[44].
Tuttavia, ancora
una volta questo caso ci dimostra come la sanctitas,
nel diritto divino, potesse costituire patrimonio concettuale comune allo ius augurium e a quello pontificium, a seconda della diversa
prospettiva dei collegi sacerdotali che ne custodivano la memoria giuridica[45].
Allo straordinario
valore polisemantico del verbo sancire
applicato alle diverse funzioni e operazioni dei collegi sacerdotali (non solo
di quello degli àuguri e dei pontefici, ma anche di quello dei feziali) ci
rinviano le ultime considerazioni che faremo.
In un passo molto
significativo dell’Eneide questo
verbo ricorre (ed è presente qui soltanto in tutto il poema), col significato
di “ratificare”, nel giuramento di Latino a Enea al momento della concessione
della mano di Lavinia:
audiat haec genitor qui foedera fulmine sanxit[46].
Quindi, la base
della santità di un luogo o di un patto scaturisce, all’origine, dalla
“sanzione” fornita da Giove con la sua folgore. Quella stessa folgore, si badi,
che in Ovidio (in un passo dei Fasti
dedicato al dies natalis di Roma)
balena come promessa e condizione indispensabile per l’innalzamento delle mura:
Ille precabatur,
tonitru dedit omina laevo Iuppiter et laevo fulmina missa polo.
Augurio laeti
faciunt fundamina cives;
et novus exiguo tempore murus erat[47].
E Servio conferma che i foedera divenivano sancta
allorché:
si corruscatio fuerit, confirmantur: vel certe, quia apud maiores
arae non incendebantur, sed ignem divinum precibus eliciebant, qui incendebat
altaria[48].
Un particolare rito
evocatorio che sembra rimandare al quadro sicuramente etrusco dei Libri Fulgurales.
Ma che altro
significava quella pietra di selce tratta dal tempio di Giove Feretrio
sull’arce capitolina[49], con
cui il pater patratus del popolo
romano, reso “santo” dalla zolla di verbena o sagmina (tratta, si dice, da un “luogo santo”, cioè dall’arce)[50]
postagli sul capo dal verbenarius,
“sancisce” nel nome del dio supremo il patto colpendo a morte il maiale
sacrificale (foedus ferire), se non
la rappresentazione della folgore di Giove? Della cui regale maestà lo scettro
recato da un altro feziale è la personificazione sulla terra?[51].
Dextra sceptrum nam forte gerebat, dice Virgilio di re Latino nel brano precedentemente citato
dell’Eneide (v. 206), in cui Iuppiter genitor era invocato a garanzia
del patto:
Unde nunc tenet sceptrum Latinus, non quasi rex, sed quasi pater
patratus,
afferma esplicitamente Servio[52].
Patrandum, id est sanciendum, dice
Livio[53].
Con ciò il nostro
punto di arrivo coincide con quello di partenza. È sanctum ciò che è confermato dalla volontà del dio supremo, cioè è
da lui “sancito”, ma che la volontà degli uomini ha inteso difendere
dall’oltraggio.
Dopo la punizione
di Remo, nelle parole fatte pronunciare a Romolo da Livio i muri diventano moenia, cioè «luoghi difesi dall’oltraggio dei nemici», quasi con
tale espressione si fosse voluta significare la coincidenza spazio-temporale
del recinto primigenio, circondante la comunità dei Quiriti, e del diritto
stesso che ne dovrà costituire l’usbergo.
AUTORI MODERNI ABBREVIATI NELLE NOTE:
BENVENISTE 1976: |
É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. II (Potere, diritto, religione), Torino
1976. |
CATALANO 1960: |
P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale. I, Torino 1960. |
CATALANO 1978: |
P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt, Band II.16.1, Berlin-New York 1978. |
DEL PONTE 1992: |
R. del Ponte, La Religione dei Romani, Milano 1992. |
DEL PONTE 1998: |
R. del Ponte, Dèi e miti italici, Genova 1998. |
FIORI 1996: |
R. Fiori, Homo Sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione
giuridico-religiosa, Napoli 1996. |
SINI 1983: |
F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica. I (Libri e Commentarii), Sassari 1983. |
Ringrazio l’amico e
collaboratore Giovanni V. Sannazzari per il sostanzioso e generoso aiuto
fornitomi per la ricerca del materiale utile alla presente comunicazione.
[2] Si
quis violaverit muros capite punitur (Pomponio, D. 1.8.11); In municipiis quoque muros esse sanctos
Sabinum recte respondisse Cassius refert: prohiberique oportere ne quid in his
immittitur (Marciano, D. 1.8.8.2).
[5] Come in seguito si vedrà meglio, il
significato primordiale del sancire è
in esplicita connessione con la sfera divina.
[7] Come lo stesso Autore riconosce in altra
occasione: «... ciò che era inauguratus
era sanctus; anche se, ovviamente, la
sanctitas non era esclusiva delle
realtà inaugurate» (CATALANO 1978, 477).
[9] Il pontefice massimo è definito da Festo iudex atque arbiter rerum divinarum
humanarumque (Fest. 200 L., s. v. ordo
sacerdotum).
[15] Accetto la ricostruzione (fatta propria da
Coarelli) di P.G. GOIDANICH, L’iscrizione
arcaica del Foro Romano e il suo ambiente archeologico. Suo valore giuridico,
Roma 1943, tenendo però presente che l’integrazione Manibos (=Manibus) prima
di sakros esed non la ritengo affatto
necessaria poiché (come riconosce lo stesso Goidanich – cfr. 460 – sulla scorta
della tradizione giuridico-religiosa) «indicare il nome della divinità nella sacratio non è necessario».
[16] Cfr. C.I.L. I2 366, XI, 4766: Honce loucom ne quis violatod... Seiquis
scies violasid, Iove bovid piaclum datod... (Spoleto) e C.I.L. I2 401, IX,
782: In hoce loucarid stircus ne quis
fundito... sei quis avorsu hac faxit ... (Lucera). Cfr. A.
ERNOUT, Recueil de textes latins
archaïque, Paris 1973, 38-40 e 47-48.
[19] Cfr. Macr., Sat. 3.3.8: Servius Sulpicius religionem esse dictam tradidit, quae propter
sanctitatem remota ac seposita a nobis sit ...; Gell., Noct. Att. 4.9.8: Masurius autem Sabinus in commentariis, quos
de indigenis composuit: “Religiosum”, inquit, “est quod propter sanctitatem
aliquam remotum ac sepositum a nobis est ...”.
[20] FIORI 1996, 34-35. Sugli indigitamenta contenuti nei libri dei pontefici,
cfr. R. DEL PONTE, Aspetti del lessico
pontificale: gli indigitamenta, in Ius
Antiquum - Drevnee Pravo 5, 1999, 154-160, e DEL PONTE 1992, 78-87.
[22] Festo. 420 L. (s. v. sanctum): sanctum ... Aelius (... quod utrumque esse) videatur, e(t sacrum et
religiosum) e FIORI 1996, 27.
[23] Cfr. F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, Firenze 1968, 79-80 e SINI
1983, 97, 123 nt. 39, e, per la “riscoperta” del lessico pontificale nel I sec.
a. C., R. DEL PONTE, Aspetti del lessico
..., cit., 156-157.
[24] G.B. PIGHI, La religione romana, Torino 1967, 42. Vedi anche SINI 1983, 63, 86
e note 132-138. Nei decreta e responsa si concretizzava l’attività del
collegio dei pontefici, di cui guida alle varie funzioni erano invece i commentarii: cfr. F. SINI, Libri e commentarii nella tradizione documentaria dei grandi
collegi sacerdotali romani, in Ius
Antiquum-Drevnee Pravo 5, 1999, 100-101 (nella nt. 105 viene riportato
l’elenco dei passi di Livio in cui è parola di decreta e responsa dei
pontefici e di altri collegi sacerdotali).
[30] Liv. 1.44.3 ss. Vedi
anche Gell., Noct. Att. 13.14.1; Varr., Ling. Lat. 5.143; Varr., cit. in Solin.
1.18; Cato cit. in Serv., ad Aen.,
5.755. Cfr. CATALANO 1978, 480
e CATALANO 1960, 293-294.
[33] Questo nesso è esplicitamente suggerito da
Pomponio nello stesso Digestum
(1.8.11): Si quis violaverit muros,
capite punitur ...: nam et Romuli frater occisus traditur ob id, quod murum
transcendere voluit.
[34] Andrea Carandini (al quale si deve il
grandissimo merito della “riscoperta” e conseguente valorizzazione archeologica
delle mura romulee e un’opera di straordinario valore innovativo come La nascita di Roma, Torino 1997), oltre
a insistere su una supposta insanabile dicotomia fra religiosum e sanctum (e
con lui, sia pure in termini contrapposti, anche Carmine Ampolo), che invece
abbiamo dimostrato in questo intervento non avere (almeno per la più antica
giurisprudenza) alcuna consistenza giuridica, ha ribadito più volte la strana
idea secondo cui il sacrilegio di Remo (e di chiunque altro dopo di lui)
avrebbe comportato la caduta della sanzione implicita nella sanctitas delle mura. Per giunta, questa
supposta “desantificazione” avrebbe presupposto la rasatura al suolo delle mura
stesse: «Bastava qualsiasi modificazione o manomissione delle mura (Digesto 1,8,9,4) a produrre l’effetto,
quale la rasatura al suolo di esse» (A. CARANDINI, Variazioni sul tema di Romolo: ... 5. Perché Romolo uccide Remo, in
AA.VV., Roma. Romolo, Remo e la
fondazione della città, Catalogo della mostra, Roma 2000, 140 e ID., Res sanctae e res religiosae, ivi, 293). Ma Digestum
1.8.9.4 afferma tutt’altra cosa: Muros
autem municipales nec reficere licet sine principis vel praesidis auctoritate
nec aliquid eis coniungere vel superponere. In quanto al passo di Plutarco
(Questioni Romane 27) a cui fa
riferimento Carandini e in cui sarebbe «lo stesso sacrilegio di Remo violatore
delle mura a comportare la caduta della sanzione implicita nella sanctitas», che riporteremo qui nella
nostra traduzione: «in questo modo infatti sembra che anche Romolo uccidesse il
fratello perché cercava di saltare attraverso un luogo inaccessibile e sacro e
di renderlo accessibile e profano». Come si vede, non vi è cenno di “caduta di
sanzione” o di “rasatura di mura”: si fa capire, anzi, che il tentativo di
prevaricazione (quindi di violazione della sanctitas)
di Remo è reso vano dalla pena inflittagli da Romolo, che in tal modo ribadisce
– in pieno accordo con le altre fonti antiche – l’inviolabilità delle mura
stesse.
[40] Cfr. Serv., ad Aen. 7.565 e 563 per gli “ombelichi d’Italia”. Vedi pure
BENVENISTE 1976, 427 e M. ANDREUSSI, s.v. Ansanto,
in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma
1984, 186-188.
[41] Fest. 488 L. (s.v. tesca): sed sancta loca
undique (saepta doce)nt pontifici(s) libri. L’integrazione è suggerita dal
Müller, ma io leggerei, piuttosto che (doce)nt,
(dicu)nt.
[44] Ibidem
7.10. Il lat. tescum, tesca (o tesquum, tesqua) è voce
rara (nei poeti, oltre ad Accio cit. da Varrone, cfr. Horat., Epist. 1.14.19 e Luc., Bell. civ. 6.41, sempre col significato
di luogo deserto e inospitale: ma in Lucano nemorosa
tesqua) e dall’etimologia difficile e discussa. Lo si è confrontato con
l’antico irlandese terc (*ter[s]qo-s): v. An Etymological Dictionary of the Gaelic Language MacBain,
Alexander Gairm Publications, 1982.
[45] Quella degli àuguri potrebbe essere
definita “verticale” e, quella dei pontefici, “orizzontale”, con ciò riferendomi
alla tecnica eminentemente classificatoria e definitoria di quest’ultimo
collegio, di cui si è detto in precedenza.
[46] Verg., Aen. 12.200.
[50] Cfr. Fest. 424 L. e Paul. 425 L. Il nesso
fra sanctum e sagmina è riconosciuto dallo stesso Digestum 1.8.8 pr. (Marciano): Sanctum
autem dictum est a sagminibus: sunt autem sagmina quaedam herbae, quas legati
populi Romani ferre solent, ne quis eos violaret...
[51] Cfr. Serv., ad Aen. 12.206. Le cerimonie dei feziali sono descritte in Liv.
1.24.4-9. Cfr. DEL PONTE 1992, 156-160.