N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana
Università di
Brescia
La “pena” e la “storia”*
Sommario: 1. La pena oggi. – 2. La punizione
dell'omicidio nel diritto arcaico romano – 3. Conclusioni
Avanzare, oggi, una definizione di pena è impresa ardua, come già
avvertiva Nietzsche: «Il concetto di ‘pena’ non presenta più, in realtà, in uno
stato molto tardo della civiltà (per esempio nell'Europa odierna), un unico significato, bensì un'intera
sintesi di ‘significati’; la precedente storia della pena in generale, la
storia della sua utilizzazione ai fini più diversi, finisce per cristallizzarsi
in una sorta di unità, che è difficile a risolversi, difficile ad analizzarsi
e, occorre sottolinearlo, del tutto impossibile
a definirsi»[1].
La visione del filosofo tedesco, di cui non condivido la conclusione
in seguito raggiunta circa il nesso tra la pena e la “cattiva coscienza”, è
acuta nel cogliere la complessità attuale del concetto, non riconducibile ad
un’unica dimensione teorica. Solo l'indagine storica, e in modo particolare
quella storico-giuridica, può dar atto, grazie alla “comparazione diacronica”[2],
dei molteplici significati combinatisi nel corso del tempo, contribuendo a far
comprendere la pena come “istituzione sociale”[3].
Dal punto di vista del diritto la pena è la conseguenza giuridica
di un reato, cioè la sanzione predisposta per la violazione di un precetto
penale[4].
Come tutte le definizioni, anche
questa, per essere inclusiva delle molteplici sfaccettature conseguite nel
corso della storia, è molto ampia ma dice poco sulla natura e le funzioni
sociali della pena.
Approfondire tali aspetti implica una storicizzazione del
concetto, come già intuiva Nuvolone[5]. Per
comodità espositiva, muoviamo, in forma molto schematica, dalla complessa
«impostazione di stampo razionalistico»[6] che
dalla fine del Settecento in poi ha dominato la dottrina occidentale della
pena.
Del ricorso alla pena sono state, così, date molteplici
giustificazioni che possono, a grandi linee, essere riassunte in tre paradigmi[7].
Vi è innanzitutto la teoria retributiva: le sue applicazioni
trovano un comune denominatore nel concetto di pena come castigo afflittivo e
personale. Sarebbe un'esigenza di giustizia a decretare, contro il male generato
dal reato, il male della punizione[8]. Si
possono ricondurre a tale dottrina due concezioni, frutto di speculazioni
filosofiche distanti fra loro. La convinzione kantiana, secondo cui il
colpevole merita a priori di essere punito perché lo impone l'imperativo
categorico della giustizia[9], e
l'idea hegeliana, per cui la pena restaura il diritto negato dall'azione
delittuosa del soggetto[10]. Di
tale teoria, originariamente imperniata sull'idea di vendetta, resta nella
moderna penologia occidentale[11] la
“visione limitata” della “distribuzione” di una pena proporzionata alla gravità
del delitto[12]
e il primato dell'autorità dello Stato.
La seconda classificazione è caratterizzata dal concetto di
‘prevenzione’. La pena viene giustificata come strumento per prevenire i
delitti, evitando così la contrapposizione di un male ad altro male. Sono
principalmente due i tipi di prevenzione: “generale” e “speciale”. Nella
prevenzione “generale”, la punizione del colpevole dovrebbe funzionare come
deterrente verso gli altri consociati: «da un punto di vista psicologico, la
pena, o meglio la minaccia della pena, e l'esempio della sua esecuzione,
esercita necessariamente una funzione intimidatrice, o, come si suol dire, di
prevenzione generale»[13].
Ritroviamo, in tale concezione, influssi di dottrine filosofiche del passato,
di matrice illuminista quella di Beccaria[14] e
quella di Feuerbach «punto di passaggio tra la filosofia del diritto penale del
Settecento e la scienza del diritto penale dell'Ottocento»[15].
Accanto alla prevenzione “generale” esiste, come già premesso, la prevenzione
“speciale”, secondo cui la pena inflitta al reo dovrebbe neutralizzarne la
pericolosità[16].
Collegata a quest'ultimo tipo di “prevenzione”, per l'attenzione
prestata all'autore del reato, è il terzo paradigma dell'emenda, della
correzione, della risocializzazione del reo. Il colpevole deve essere aiutato a
ravvedersi al fine di non commettere più reati[17].
Scopo della sanzione è la rieducazione civile del criminale per riammetterlo
nella collettività. In questo modo si attenua, fin quasi a farlo scomparire,
l'aspetto afflittivo della pena per esaltarne quello correttivo. Tale
concezione, perseguita in modo particolare dai sistemi di Welfare, vede nel reo un deviato da curare, così come nella
criminalità una malattia[18].
L'ordinamento giuridico italiano, come
l'insieme dei sistemi penali europei moderni, è caratterizzato da una visione
sincretica della pena, volta a perseguire l'idea preventiva della “difesa
sociale” con conseguente recupero civile dell'autore del reato, senza
rinunciare allo schema della sanzione penale come retribuzione.
Tale concezione “polifunzionale”, che si evince in modo
differenziato dalle tre fasi di attuazione (minaccia legale, inflizione ed
esecuzione della pena)[19], ha
segnato la nascita del nostro sistema penale[20].
Come scriveva Antolisei, la pena nel codice vigente «è un mixtum compositum, nel quale l'idea dell'emenda del reo ha
un'influenza considerevole accanto al concetto centrale del corrispettivo»[21].
Non v'è dubbio però che, dal dopoguerra, la teoria della “nuova
difesa sociale”, per cui la pena deve perseguire più di ogni altra cosa il
recupero sociale del condannato, è diventato l'indirizzo guida: «punire ha come
obiettivo principale quello di isolare il deviante dal gruppo sociale, di
neutralizzare la sua pericolosità e di riammetterlo nel gruppo solo dopo averlo
‘rieducato’ all'obbedienza e alla disciplina sociale»[22].
Una chiara espressione normativa di questo modo di pensare la difesa sociale è
nell'articolo 27, comma 3, della Costituzione: «Le pene non possono consistere
in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione
del condannato»[23].
Nella prospettiva fissata da questa norma costituzionale sono seguiti specifici
e qualificanti interventi legislativi, tra i quali deve considerarsi centrale
l’ordinamento penitenziario del 1975[24].
Fatti concreti che dimostrano la crisi
possono considerarsi: anzitutto la tendenza della carcerazione a favorire la
recidiva e l’assenza di effettiva rieducazione; in secondo luogo
l'insufficienza delle misure alternative (la pena pecuniaria, la libertà
vigilata) ad abbassare i tassi di criminalità.
L'analisi teorica coglie questa impasse. Si pensi alla
riflessione, fondamentale, di Michel Foucault, per cui la pena sarebbe una
forma di potere in sé, volta al controllo dei consociati attraverso una
“normalizzazione” coatta dei comportamenti, che si conseguirebbe mediante le
tecniche penitenziarie[29].
La concezione illuministica, secondo cui la pena è «uno dei tanti
strumenti che aiutano a edificare una società giusta e a organizzare
istituzioni in grado di migliorare il genere umano»[30],
appare smentita dalla realtà, ogni volta che guardiamo da vicino l'applicazione
pratica delle pene carcerarie.
Il carcere, infatti, se da una parte ha rappresentato senz'altro
l'alternativa più umana alle pene corporali dall'altra non si può dire che
raggiunga l'obiettivo principale che gli era stato affidato di rieducare
l’autore del delitto[31].
Recenti indagini hanno colto costanti caratteriali negative nei soggetti
detenuti: erosione dell'individualità; deculturazione; danni fisici e
psicologici; estrianamento[32].
Inoltre tra i reclusi, sottoposti per lungo tempo al regime di carcere duro, si
registra un'alta percentuale di pazzi e di suicidi[33].
La pena, quindi, mantiene la sua complessità, a cui si aggiunge,
oggi, una crisi profonda: «è la funzione della pena, in altre parole, che
appare in crisi, mentre singole funzioni ad essa tradizionalmente attribuite
sembrano aver esaurito, per così dire, la gamma delle possibili modulazioni del
tema di base»[34].
Affrontare l'intero fenomeno concentrandosi esclusivamente sulla
riforma istituzionale del sistema penale in vigore o su una rinnovata
efficienza, tra l'altro sempre auspicabile, del sistema penitenziario significa
dare risposte parziali di mera “ingegneria istituzionale”[35]
e di “penologia tecnocratica”[36].
Il problema della pena necessita di una riflessione più ampia,
che tenga conto della sfasatura esistente tra la riflessione teorica e la
prassi. Bisogna, cioè, essere coscienti del significato politico-simbolico
della pena, che la rende un'istituzione[37]
collegata ai fattori sociali, politici e culturali di una determinata
organizzazione sociale[38].
Nell’approccio polidimensionale al significato del punire,
accanto agli indispensabili contributi dell'analisi filosofica e sociologica,
un apporto può venire anche dalla ricerca storico-giuridica. La consapevolezza
dello storico di avere sempre a che fare con realtà complesse e di compiere,
per mezzo delle proprie indagini, una relativizzazione dell'oggetto studiato
concorre a ritenere la pena non un mezzo tecnico, legale-amministrativo,
finalizzato al solo trattamento dei criminali, quanto piuttosto il prodotto
complesso di una koinè[39], che
risente «delle incertezze e delle contraddizioni della nostra società»[40].
La comparazione tra vicende storicamente lontane ci aiuta a
leggere in prospettiva i fatti a noi contemporanei[41].
Su questa base, ritengo possa essere utile riflettere sulla pena
nell’esperienza giuridica romana. Si tratta di realtà e regole assai distanti
dai sistemi penali moderni ma che pure hanno in comune almeno due aspetti: il
rapporto tra illecito e sanzione e la funzione della pena nel contesto sociale
in cui l’illecito assume rilevanza e produce effetti.
Oggetto
dell’analisi è la vicenda relativa alla repressione dell'omicidio nella fase arcaica
della storia di Roma, più precisamente dalle origini alla metà del V sec. a.C.
Fu questo un periodo alquanto nebuloso[42]
ma, come si intuisce dalle poche testimonianze dirette e dalle molte indirette[43],
segnato da trasformazioni epocali che caratterizzarono l'intera esperienza
giuridica romana e, in seguito, influenzarono, per i singolari casi della
storia, la formazione dell'intera scienza del diritto europeo-continentale.
Accadde che da una realtà permeata da «un continuum magico-religioso-giuridico»[44],
dove la valutazione giuridica dell'agire dei consociati era strettamente
intrecciata a quella religiosa, si passò ad un sistema di diritto autonomo[45].
Si trattò di un processo lento ma inarrestabile[46], che
ebbe nella formazione della città-stato[47] la
sua causa più rilevante. Tra il VI e il IV secolo a.C.[48],
registriamo la nascita di una nuova ‘razionalità’ del fenomeno giuridico che,
attraverso il «progressivo istituzionalizzarsi del diritto del civis»[49]
esemplarmente rappresentato dalla legislazione decemvirale della metà del V
secolo a.C., rappresentò la cesura decisiva dalla sfera religiosa[50].
L’evoluzione e i mutamenti profondi della fase più antica
influenzarono anche il sistema punitivo, ridimensionando l'espiazione sacrale a
vantaggio della tutela della sicurezza pubblica[51].
L'inizio del controllo, da parte della comunità, della vendetta[52]
del gruppo offeso per l'omicidio di un suo membro si fa risalire già al periodo
regio per iniziativa del re Numa Pompilio.
Dal compendio di Paolo Diacono all'opera di Festo, apprendiamo
che i quaestores pa(r)ricidii[53]
indagavano sui reati colpiti con la pena capitale. Tra questi era annoverato il
parricidio che ai tempi di Numa Pompilio concerneva l'uccisione di qualsiasi
uomo[54];
tant'è che una disposizione di quel re così prescriveva: «Se qualcuno cagiona, intenzionalmente e consapevolmente, la morte
di un uomo libero sia parimenti
ucciso»:
Paul. Fest., “Parrici<di>
quaestores”, 247 L.: Parricidi quaestores appellabantur, qui solebant
creari causa rerum capitalium quaerendarum. Nam parricida non utique is, qui
parentem occidisset, dicebatur, sed qualecumque hominem indemnatum. Ita fuisse
indicat lex Numae Pompili regis his composita verbis: “si qui hominem liberum
dolo sciens morti duit, paricidas esto”.
I dati certi presenti nel testo, utili al nostro ragionamento,
sono due: la figura del reato è quella dell'omicidio volontario, come ricaviamo
dalla puntualizzazione “dolo sciens”[55];
la regolamentazione dell'illecito risale all'epoca regia, come si evince dal
riferimento alla «lex Numae Pompili regis»[56].
Problematica è l'espressione “paricidas
esto”, che tuttavia è possibile interpretare, seguendo la dottrina oggi
prevalente, come l'uccisione del colpevole: la sanzione[57].
Se ne ricava, avvalendoci anche di alcuni recenti contributi, che
l'omicidio volontario di un uomo libero, in epoca regia, era punito con la
messa a morte del colpevole, eseguita dal gruppo offeso[58]
dopo l’accertamento dei quaestores
pa(r)ricidii[59].
L'esecuzione della pena era ora controllata da figure
istituzionali, esterne ai due gruppi cui appartenevano rispettivamente l’autore
dell’offesa e il soggetto aggredito[60]. Il
sistema gentilizio manteneva un ruolo ma ormai all'interno di schemi
prestabiliti dalla comunità cittadina.
La tesi trova conferma, completandosi, nel commento di Servio ad
un verso delle Bucoliche di Virgilio:
Serv. auct., buc. 4.43:
Sane in Numae legibus cautum est, si quis imprudens occidisset hominem, pro
capite occisi agnatis eius in contione offerret arietem[61].
All'epoca del re Numa Pompilio si sarebbe stabilito che chi
avesse ucciso in modo non intenzionale avrebbe dovuto dare, per la composizione
del reato, un ariete al parente prossimo della vittima, davanti al popolo
riunito in assemblea[62].
A differenza del testo precedente, la figura criminosa, qui
contemplata, è quella dell'omicidio involontario (= imprudens)[63].
La sanzione prevista non era la morte del colpevole bensì la
consegna di un capo di bestiame pregiato, come l'ariete[64],
alla famiglia dell'ucciso.
Si muove nella stessa ottica, quasi ad integrare il contenuto del
testo appena citato, un commento di Servio alle Georgiche:
Serv., georg. 3.387:
nam apud maiores homicidii poenam noxius arietis damno luebat: quod in regum
legibus legitur.
E' scritto che, secondo la legislazione regia, il reo doveva
scontare la pena dell'omicidio con la perdita (= damnum) di un ariete.
Si tratta anche in questo caso di omicidio involontario, la qual
cosa è dimostrata dalla presenza dell’ariete. Il verbo luere annovera tra i suoi significati più antichi quello di
“espiare la colpa”[65].
L'animale, quindi, veniva sacrificato al posto dell'autore del
reato, come conferma una breve ma significativa testimonianza di Festo: dare arietem, qui pro se agatur, caedatur[66].
La funzione
di tale pena è dunque complessa.
Se, infatti, per il gruppo dell'offensore si registrava una
perdita economica con la consegna dell'animale, per la famiglia lesa non c'era
guadagno patrimoniale essendo il sacrificio dell'ariete finalizzato a placare
la divinità offesa dal grave atto[67]. Se
volessimo applicare lo schema della visione retributiva della pena risulterebbe
che, a fronte del castigo del reo, la riparazione si realizzava nei confronti
della divinità e non dei parenti della vittima[68]. I
quali però, a ben considerare le modalità dell'esecuzione della pena, non erano
lasciati totalmente insoddisfatti[69],
trovando appagamento sia sul piano sociale, come prova il requisito di
pubblicità imposto per la consegna dell'agnello; sia sul piano psicologico,
come indica il fatto che l'animale, proveniente dal patrimonio del reo, era
consegnato per il sacrificio espiatorio alla famiglia danneggiata[70].
La natura
della sanzione è, quindi, duplice: divina e umana.
La consegna dell'ariete consentiva da una parte di compiere il
sacrificio per placare la divinità offesa e purificare il gruppo ristabilendo
così la pax deorum[71]
turbata dall'illecito, dall'altra di trovare una riparazione sociale alla
famiglia lesa.
Risulta evidente l'importanza che, ancora in epoca regia, aveva
l'aspetto divino nella convivenza della comunità romana: «l’attività umana non
è violentata, ma sostenuta dal soprannaturale»[72]. Si
trattava però di un rapporto ‘pragmatico’ verso la divinità[73],
a conferma che la religione romana di quel periodo fu “una religione sociale”[74],
poco incline all’aspetto individuale e interiore[75].
Grazie, poi, ad un passaggio nel libro XVIII della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio
è possibile conoscere la punizione dell'omicidio nel periodo immediatamente
successivo a quello regio:
Plin., Nat. Hist.
18.12: frugem quidem aratro quaesitam furtim noctu pavisse ac secuisse puberi
XII tabulis capital erat, suspensumque Cereri necari iubebant gravius quam in
homicidio convictum, impubem praetoris arbitratu verberari noxiamve duplionemve
decerni.
Nel testo si legge che le XII Tavole[76]
prescrivevano la pena di morte a chi avesse furtivamente di notte danneggiato
il raccolto altrui[77]. Una
punizione, questa, più dura di quella prevista per l'omicidio, perché eseguita
mediante la suspensio Cereri,
uccisione sacrificale in onore della dea Cerere. Se invece il colpevole era
impubere poteva essere condannato dal pretore-console[78]
ad un certo numero di frustate e al risarcimento del danno arrecato o al doppio[79].
La fattispecie, di cui si discute, è relativa al ladro notturno
di messi. E', però, istruttivo il paragone con l'omicidio, che – come ha
osservato Santalucia[80] –
non è incentrato sulla differenza delle sanzioni bensì sui «modi diversi di
esecuzione della stessa pena». La punizione dell'omicidio volontario resta
quindi, anche nell'alta repubblica, la pena capitale.
La convinzione, poi, che l'omicidio volontario fosse, nel periodo
delle XII Tavole, punito con l'uccisione del colpevole si consolida stabilendo
un parallelo con la sanzione prevista, nello stesso periodo, per l'omicidio
involontario. Il caso particolare di una morte provocata involontariamente
dall'uso di un'arma era contemplato nelle XII Tavole[81]:
XII tab. 8.24a: si
telum manu fugit, magis quam iecit, aries subicitur.
Ancora nelle
XII Tavole l'uccisione, provocata dal dardo sfuggito di mano più che lanciato
con la volontà di colpire, era sanzionata con l'offerta dell'ariete in
sostituzione del colpevole.
La normativa regia sull'omicidio involontario veniva quindi, nella
metà del V sec. a.C., riproposta[82].
Anche se non mancarono significative innovazioni, come nel campo
della irrogazione della pena per l'omicidio volontario.
Se ne ha testimonianza in un episodio[83]
risalente ai tempi della prima repubblica:
Liv. 3.33.9-10: Cum sine provocatione creati essent, defosso
cadavere domi apud L. Sestium, patriciae gentis virum, invento prolatoque in
contionem, in re iuxta manifesta atque atroci C. Iulius decemvir diem Sestio
dixit et accusator ad populum exstitit, cuius rei iudex legitimus erat,
decessitque iure suo, ut demptum de vi magistratus populi libertati adiceret.
Livio, trattando del decemvirato (451-450 a.C.), riferisce
l'atteggiamento tenuto dal decemviro Caio Giulio che, pur avendo l'autorità per
decidere dell'accusa di omicidio nei confronti di Lucio Sestio, patrizio nella
cui casa era stato trovato il corpo di un uomo ucciso, scelse, probabilmente
«per non dare adito a sospetti di abuso»[84], di
abdicare al suo potere straordinario, rimettendo la decisione all'assemblea
popolare[85].
E' rilevante il salto di qualità compiuto dalla partecipazione
cittadina alla persecuzione dell'omicidio; mentre nell'età regia la
collettività si limitava a presenziare in
contione all'esecuzione della pena, nell'alta repubblica è il popolo della civitas, organizzato in assemblea, che
decideva dell'omicidio[86].
Il breve excursus sulla
repressione dell'omicidio volontario e involontario nel periodo arcaico romano,
dalle leges regiae alle XII Tavole,
ha messo in evidenza la natura complessa della pena. Il ricorso alla vendetta,
come unica forma di reazione all’azione delittuosa, subì una progressiva
contrazione con la formazione della città-stato.
Un momento importante di tale processo fu la statuizione di epoca
regia, fatta risalire al re Numa Pompilio, secondo cui l’omicidio volontario di
un uomo libero era punito con l’uccisione del reo da parte del gruppo offeso,
sotto il diretto controllo dei quaestores
pa(r)ricidii, mentre l’omicidio involontario era sanzionato con la consegna
pubblica da parte del colpevole di un ariete alla famiglia lesa, la quale
avrebbe poi sacrificato l’animale alla divinità.
Un ulteriore
significativo cambiamento si verificò con il passaggio dalla monarchia alla
repubblica, quando mutò un dato decisivo nella repressione dell’omicidio, pur
restando invariata la sanzione: il popolo da semplice testimone divenne
giudice.
L'aspetto sacrale della sanzione fu preservato, perché alla pena
era assegnata, tra le altre funzioni, quella di ristabilire la pax deorum, essenziale alla convivenza
della collettività[87].
L'organizzazione cittadina impose la propria autorità sia
attraverso autorizzazioni e controlli dei rimedi tradizionali sia introducendo
una tipizzazione degli atti lesivi[88].
La nascente civitas seppe
combinare i diversi aspetti della pena, pervenendo, anche tramite l'elemento
sacrale, al controllo e al ridimensionamento della vendetta agnatizia. La
riforma della punizione dell'omicidio fu quindi il risultato del nuovo sistema
punitivo cittadino, dove la tutela dell'ordine sociale cresceva di pari passo
con l'imporsi dell'organizzazione politica.
Proviamo ora
a combinare i risultati di tale analisi storica con le considerazioni sul
sistema punitivo occidentale, delineate nella prima parte.
Le forme
della sanzione per l'omicidio nella fase arcaica dell'esperienza romana, pur
costituendo un aspetto molto circoscritto della penalità antica, descrivono in
modo esemplare il passaggio cruciale dall'autotutela alla eterotutela, ponendo quel
sistema punitivo come osservatorio privilegiato per riconsiderare le
definizioni della pena.
Il regime romano della pena per l'omicidio, nel periodo preso in
considerazione, si caratterizza per una molteplicità di fini della sanzione,
funzionale alla fase di transizione che Roma stava attraversando.
La nascita della civitas comportò
una rivoluzione sul piano economico, sociale e politico-istituzionale, che
implicò un diverso modo di intendere i rapporti tra gli individui nei confronti
dell'autorità cittadina come anche della divinità. La città-stato in formazione
avvertì come prioritario il controllo dell'uso della forza e lo fece avocando a
sé permessi, divieti e, in alcuni casi, persino le modalità dell'esecuzione
delle pene. La stessa funzione purificatrice della sanzione fu avvertita come
tutela dell'ordine religioso cittadino: «l'ordigno penalistico pubblico nasce
dalle catarsi collettive»[89].
Le molteplici spinte si tradussero in un controllo della
precedente autotutela di gruppo «individuando i casi in cui era consentito
reagire a un torto uccidendo l'offensore e stabilendo che la reazione poteva
aver luogo solo dopo che colui che aveva commesso il torto era stato condannato
in un pubblico processo»[90].
L'autorità cittadina avanzava, si imponeva, erodendo terreno al
potere dei patres senza tuttavia
cancellarlo. Il nuovo ordinamento fronteggiò la complessità, attuando il
passaggio dalla repressione individuale a quella pubblica, attraverso un
articolato sistema di amministrazione della giustizia criminale[91].
Ne emerge una complessità del fenomeno punitivo.
La pena,
infatti, da una parte si manifesta come un danno a carico dell'autore del
delitto equivalente agli effetti negativi dell'offesa arrecata e articolata in
diverse misure (“principio di necessità” e “principio di proporzionalità” della
pena); dall'altra si traduce in un'afflizione che può non toccare direttamente
il colpevole ma che punta, anche simbolicamente, a cancellare il disvalore del
comportamento criminoso (valore simbolico della pena).
L'indagine
storica, analizzando tali comportamenti, ci aiuta ad individuare il loro peso
specifico nei diversi momenti temporali e spaziali.
La pena si
riduce così ad un mix di retribuzione, di isolamento fine a se stesso del reo,
di misure simboliche tali da renderne difficile una definizione
sostanzialistica. Si rende, invece, possibile l'analisi delle molteplici
componenti, rilevandone e spiegandone i mutamenti: una storia cioè del fenomeno
punitivo. Non c'è mai quindi una nozione o una finalità che valga da sola a
comprendere la natura della pena.
Tale
relativizzazione mette in risalto l'esistenza di meccanismi sociali,
storicamente mutevoli, miranti a circoscrivere e neutralizzare il trauma
sociale, l'allarme e la reazione suscitati dal delitto. La finalità ultima che
si vuole raggiungere è quella di frenare e di riorganizzare la reazione della
vittima e del gruppo offeso.
In ultima analisi la pena non può generare ordine ma porsi come
un valido limite al disordine nell'ambito di un processo che incide sulla
personalità del reo, non riducibile quest'ultima a “mezzo” o “cosa”: «il valore
della persona umana impone una limitazione fondamentale alla qualità ed alla
quantità della pena»[92]. Se
ne ricava l’esigenza di un sistema punitivo aperto ad una coesistenza di
valori, quali la repressione legislativa dei reati, i diritti inalienabili
dell’individuo, la sicurezza della collettività, non riconducibili
esclusivamente all’ideale della sopraffazione.
Posto questo pluralismo, lo storico non può che suggerire in
termini di dover essere la ricerca di limiti all'applicazione personale, alla
compressione della vita umana, irreversibilmente lesivi della vita personale,
che poi nella pratica dovrebbe tradursi nel ricorso alla reclusione come extrema ratio per fronteggiare e
disciplinare la reazione sociale al crimine.
* Il saggio è destinato agli Studi in ricordo di Barbara Bonfiglio di
prossima pubblicazione per i tipi della Giuffrè.
[1] F. Nietzsche, Genealogia della morale (1887), vol. VI,
tom. II, trad. it., Milano 1968, 279 (il corsivo è di Nietzsche).
[2] Cfr. A. Guarino, La rimozione del diritto e l'esperienza
romana, in Labeo 42, 1996, 7-34.
La promozione della comparazione diacronica non è concepita in alternativa alla
“comparazione sincronica”, parimenti importante e complementare negli studi di
diritto, ma nemmeno deve ritenersi il contrario.
[3] Sul significato ampio (tecnico ma anche pratico, astratto ma
anche ancorato alla realtà concreta) che il concetto di 'istituzione' assume
nell'indagine storico-giuridica, vedi R.
Orestano, Ventotto pagine
necessarie (1951), in ‘Diritto’
incontri e scontri, Bologna 1981, 122-126. Sul problema specifico, si fa
propugnatore dell'immagine della pena come "istituzione sociale" D. Garland, Pena e società moderna (1990), trad. it., Milano 1999, infra e sp. 321-338.
[4] Fra i tanti, v. G.
Bettiol-L. Pettoello Mantovani, Diritto
penale, Padova 1986, 779 s.
[5] Il penalista italiano, in uno dei suoi ultimi lavori interamente
dedicato alla pena, così scriveva: «Bisogna distinguere la pena come categoria
'logica' dalla pena come categoria 'storica': chiaramente è da questo
secondo angolo visuale che va studiata la pena nel diritto vigente» (P. Nuvolone, s.v. Pena (dir. pen.), in EdD
32, 1982, 790, le sottolineature sono mie).
[6] Cfr. F. Giunta, Quale giustificazione per la pena? Le
moderne istanze della politica criminale tra crisi dei paradigmi preventivi e
disincanti scientistici, in Politica
del diritto 31, 1, 2000, 267.
[7] Per una più esauriente veduta dei molteplici “scopi” di
prevenzione della pena moderna, cfr. M.
Pavarini, Lo scopo della pena,
in G. Insolera-N. Mazzacuva-M.
Pavarini-M. Zanotti (a cura di), Introduzione
al sistema penale, I, Torino 2002,
321-344.
[8] Cfr. G. Neppi Modona,
s.v. Pena, in Enciclopedia Garzanti,
1979, 756.
[9] La "retribuzione morale" della pena è affrontata da
Kant ne La metafisica dei costumi
(trad. it., Roma-Bari 1964, 164); il filosofo tedesco rivendica il primato
della legge penale sull'utilità della pena: «L'uomo deve essere trovato passibile
di punizione, prima ancora che si possa pensare di ricavare da questa
punizione qualche utilità per lui stesso o per i suoi concittadini»
(sottolineature dell'A.) e, poco più avanti, il famoso esempio: «se un popolo
abitante un'isola si decidesse a separarsi e a disperdersi per tutto il mondo,
l'ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe prima venir
giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta e il sangue
versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione: perché
questo popolo potrebbe allora venir considerato come complice di questa
violazione pubblica della giustizia» (166-167).
[10] Per la "retribuzione giuridica" hegeliana vedi i Lineamenti di filosofia del diritto, trad.
it., Roma-Bari 1965, 90: «Il togliere il delitto in tanto è retribuzione, in
quanto essa secondo il concetto è lesione della lesione e secondo l'esserci il
delitto ha un'estensione determinata, qualitativa e quantitativa, quindi anche
la di lui negazione come esserci ha un'altrettale estensione». L'unità
etico-giuridica della punizione è, infatti, nell'agire razionale del colpevole:
«Poiché nella sua (= del delinquente) azione come azione di un essere razionale
è implicito che essa è qualcosa di universale, che ad opera di essa è stabilita
una legge ch'egli nella sua azione ha riconosciuto per sé, sotto la quale legge
egli dunque può venir sussunto come sotto il suo diritto» (F. Hegel, Lineamenti, cit., 89-90). Sugli aspetti della retribuzione kantiana
ed hegeliana, vedi le osservazioni critiche di M.
Ronco, Il problema della pena.
(Alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena),
Torino 1996, 74-85.
[11] Per un efficace sguardo d’insieme, vedi la raccolta di saggi
curata da L. Eusebi, La funzione della pena: il commiato da Kant
e da Hegel, Milano 1989, spec. 3-136 e in particolare, per la critica alle
teorie della pena di Kant e Hegel, lo scritto di U. Klug, Il commiato da
Kant e da Hegel (1981), trad. A. Bazzoni, 3-9.
[12] Sull'intero argomento per una visione di sintesi, cfr. M.A. Cattaneo, s.v. Pena (filosofia), in EdD
32, 1982, 701-712.
[13] P. Nuvolone, s.v. Pena (dir. pen.), cit., 789, il quale
ribadisce come tale aspetto, che costituisce la «giustificazione pratica» della
pena, sia «ineliminabile dalla teoria della pena».
[14] Il fine della pena per C.
Beccaria, Dei delitti e delle pene,
Milano 1984, consiste nell'impedire «al reo dal fare nuovi danni ai suoi
cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali» (55). Per uno sguardo
d'insieme vedi F. Sgubbi-N. Mazzacuva
(a cura di), Istituzioni di diritto
penale, Bologna 1994, 11-26.
[15] Così M.A. Cattaneo,
Anselm Feuerbach filosofo e giurista
liberale, Milano 1970, 279, per il quale fu Feuerbach ad estrinsecare in
modo definitivo la distinzione «fra 'minaccia' della pena formulata dalla legge
e 'inflizione' ed 'esecuzione' della stessa nel caso concreto» (M.A. Cattaneo, s.v. Pena (filosofia), cit., 705).
[16] Capostipite di tale rappresentazione fu K. Grolmann, Grundsätze
der Criminalrechtswissenchaft (1798), rist. an., Glashütten in Taunus 1970.
Riprende l'idea, rielaborandola in funzione di una migliore individualizzazione
della sanzione, F. von LITZ, La teoria dello scopo nel diritto penale (1905),
trad. it., Milano 1962, su cui vedi breviter,
F. Sgubbi-N. Mazzacuva (a cura
di), Istituzioni di diritto penale,
cit., 49-52.
[17] G. Neppi Modona,
s.v. Pena, cit., 756. Fautore di tale
dottrina fu Karl Roeder (Sul fondamento e
sullo scopo della pena in riguardo alla teoria dell'emenda, in Rivista Penale, 1875, 274 ss.) Per
l'Italia vedi le opere di V. Lanza,
L'umanesimo nel diritto penale,
Palermo, 1906 e Umanesimo e diritto
penale, Catania 1929. Può essere ricondotto nell'alveo di tale concezione
il pensiero di Ugo Spirito (sull'argomento vedi breviter, M.A. Cattaneo,
s.v. Pena (filos.), cit., 706-707).
[18] Per uno sguardo più generale, complessivo della cultura
occidentale, vedi D. Garland, Penal Modernism and Postmodernism, in T.G. Blomberg-S. Cohen (eds.), Punishment and Social Control, New York 1995.
[19] Vedi C. Fiore, Diritto penale, II, Torino 1995,
181-184.
[20] Cfr. G. Vassalli, Funzioni ed insufficienze della pena, in
Rivista italiana di diritto penale,
1961, 296 ss.; P. Nuvolone, s.v. Pena (dir. pen.), cit., 790.
[21] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, part. gen.,
Milano 1947, 367.
[22] D. Zolo, Filosofia della pena e istituzioni
penitenziarie, in Iride 32,
aprile 2001, 50.
[23] Il testo realizza un compromesso tra la concezione della pena
propria della “scuola classica di diritto penale” e quella della “scuola
positiva” (cfr. il dibattito sviluppatosi nell'Assemblea Costituente prima
dell'approvazione del comma e la modifica apportata dal Comitato di redazione, V. Falzone-F. Palermo-F. Cosentino (a
cura di), La Costituzione della repubblica
Italiana illustrata con i lavori preparatori, Milano 1979, 98-99).
[24] Cfr. F.C. Palazzo, La recente legislazione penale, Padova
19853; A.
Presutti, L'effettività della pena
nel contesto della fase esecutiva, in Aa.
Vv., L'effettività della sanzione
penale, Milano 1998.
[25] Si intende per penologia – seguendo Garland – «quella scienza
che si colloca nel contesto delle istituzioni penali, studiandone l’operatività
interna» (D. Garland, Pena e società moderna, cit., 48).
[26] D. Zolo, Filosofia della pena e istituzioni
penitenziarie, cit., 51.
[27] E. Santoro, Carcere e società liberale, Torino 1997,
31.
[28] In Italia ricordiamo in particolare una serie di scritti della
seconda metà degli anni Ottanta, cfr. E.
Dolcini, La "rieducazione del
condannato" tra mito e realtà, in V.
Grevi (a cura di), Diritto dei
detenuti e trattamento penitenziario, Bologna 1981, 55-97; con speciale
attenzione ai problemi della pena criminale nella legislazione italiana fino
agli anni Novanta, vedi la sintesi efficace di G.
Vassalli, La pena in Italia oggi,
in Studi Nuvolone, I, Milano 1991,
619-656; adde L. Eusebi, La pena 'in
crisi'. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia 1990.
[29] M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della
prigione (1975), trad. it., Torino 1976. Oltre all'analisi sistematica
dello studioso francese, possiamo riscontrare un articolato pensiero critico
all’interno del sapere giuridico. Cfr., ad esempio, la ricerca di Luigi
Ferrajoli sul "paradigma garantista", per cui se la rieducazione e la
riabilitazione appaiono obiettivi irrealizzabili sarebbe utile tornare alle
misure punitive, intese come strumenti di
deterrenza del crimine (L. Ferrajoli,
Diritto e ragione. Teoria del garantismo
penale, Bari 1997); oppure le recenti riflessioni di taglio filosofico con
l'invito a considerare la pena come "riparazione" (cfr. F. Cavalla, La pena come riparazione, in F.
Cavalla-F. Todescan (a cura di), Pena
e Riparazione, Padova 2000, 1-109) o liberata dal portato metafisico
attraverso la relativizzazione dei suoi fondamenti (vedi i contributi di D.
Zolo, G. Vattimo, D. Melossi, M. Pavarini, T. Pitch, in Iride, cit., 45-122, in particolare il saggio di Vattimo); o ancora
la presa di coscienza della crisi, in forme variegate, nell’ambito della
scienza penalistica (vedi, ad esempio, sul riemergere di tendenze
neo-retribuzionistiche M. Ronco, Il problema della pena, cit., 107 ss.;
sul perseguimento dell'indirizzo risocializzativo a favore di modelli
sanzionatori alternativi al carcere, cfr. L.
Eusebi, Politica criminale e
riforma del diritto penale, in Democrazia
e Diritto, 2000, 114-156, ivi bibl.; su una razionalità della pena «dotata
di un fondamento più debole», cfr. F.
Giunta, Quale giustificazione per
la pena?, cit., 278-279).
[30] D. Garland, Pena e società moderna, cit., 46.
[31] Per un'analisi recente sulla storia del carcere come
manifestazione dell'ordine politico storicamente determinato, dalla formazione
dello Stato liberale (XVIII-XIX secolo) alla crisi dello Stato del Welfare (XX
secolo), in riferimento alle funzioni della pena, vedi E. Santoro, Carcere e
società liberale, cit. Bibliografia esauriente sulla storia del carcere
moderno in L: Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo
penale, cit., 448 nt. 132.
[32] F. Ceraudo, Principi fondamentali di medicina
penitenziaria, Pisa 1988, 149.
[33] Cfr. Il carcere
trasparente. Primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione,
Associazione Antigone (a cura di), Roma 2000, 228 ss.
[34] L. Eusebi, La pena ‘in crisi’. Il recente dibattito
sulla funzione della pena, cit., 11. Sul fallimento del carcere in funzione
correzionale, vedi da ultimo M. Pavarini,
Il ‘grottesco’ della penologia
contemporranea, in U. Curi-G. Palombarini (a cura di), Il diritto penale minimo, Roma 2003, 256 ss.
[35] E. Santoro, Carcere e società liberale, cit., 100.
[36] Cfr. M. Pavarini, Lo scopo della pena, cit., 340-341.
[37] Come afferma D. Garland,
Pena e società moderna, cit., 59: «la
pena è una precisa successione legale di eventi, ma la sua esistenza e il suo
campo di intervento dipendono da un più vasto contesto di forze e di
circostanze sociali», per comprenderne il senso complessivo – prosegue Garland
– «abbiamo proposto di utilizzare il concetto di istituzione sociale. La
penalità, infatti, non deve essere intesa come un particolare tipo di evento o
di relazione, ma come un'istituzione sociale che, per definizione sottintende
la complessità di struttura e la densità di significato» (326).
[38] Al riguardo resta ancora valida la lezione di Emile Durkheim
sulla funzione della pena come collante sociale (E. Durkheim, La
divisione del lavoro sociale (1893), trad. it., Milano 1996, 126); a cui si
ispira R. Girard, Il capro espiatorio (1982), trad. it.,
Milano 1987.
[39] Per D. Garland, Pena e società moderna, cit., 332, la
pena sarebbe: «espressione del potere esercitato dallo Stato, un'affermazione
di moralità collettiva, un veicolo per rivelare le emozioni, una politica
sociale condizionata dalla sfera economica, un'incarnazione delle sensibilità
condivise e un insieme di simboli che mostrano un ethos culturale e contribuiscono a creare un'identità sociale».
[40] Era la conclusione a cui giungeva un attento studioso italiano
della pena: P. Nuvolone, s.v. Pena (dir. pen.), cit., 817.
[41] E' questo uno degli effetti più fecondi dello studio della
storia. Realizzata, infatti, la tensione tra presente e passato, «questa meta
complica e arricchisce la nostra visione dell'uomo e del mondo; ci aiuta a mettere
in prospettiva la nostra stessa esperienza, liberandola da ogni esclusivismo o
tentazione assolutistica» (come scrive lucidamente M. Bretone, Dieci modi
di vivere il passato, Roma-Bari 1991, 95).
[42] Contro il pessimismo della storiografia dell'inizio del secolo
scorso di poter indagare il periodo delle origini di Roma, utilizzando la
stessa tradizione romana, vedi ora lo studio di A.
Carandini, La nascita di Roma,
Torino 1997, per un quadro di sintesi sp. 491-520.
[43] Le recenti ricerche di archeologia, antropologia e storia
(dell'economia, delle istituzioni politiche, della religione, del diritto,
della lingua) tendono a rivalutare la versione tradizionale elaborata e
tramandata da antiquari e storici di epoche più tarde: Polibio, Varrone,
Cicerone, Dionigi di Alicarnasso, Livio, Valerio Massimo, Plutarco, Plinio il
Vecchio, Gellio.
[44] A. Schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico
romano, Torino 1994, 4. Sull’endiadi ius-fas,
cfr. A. Calore, “Iurare per Iovem lapidem...” alle origini
del giuramento. Aspetti del ‘sacro' nell'esperienza giuridica romana,
Milano 2000, 4 nt. 10.
[45] E' lo ius che si
tecnicizza, acquistando un valore autonomo, in funzione del costituirsi della
città-stato. Un'idea questa ben espressa nel concetto moderno di ‘ordinamento
giuridico’, sconosciuto però alla cultura romana (vedi M. Brutti, s.v. Ordinamento
giuridico (profili storici), in EdD
30, 1980, 654-678). Contrario all’uso di ‘ordinamento giuridico’ per
l’esperienza romana è P. Catalano,
Contributi allo studio del diritto augurale,
Torino 1960 (più diffusamente, Linee del
sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965) che propone forme
concettuali meno attualizzanti, come ad esempio quella di “sistema
giuridico-religioso”.
[46] Cfr. P.
de Francisci, ‘Arcana imperii’, (1947-’48), 3,1, rist., Roma 1970,
167; H. Lévy-Bruhl, Sur la laïcisation du droit à Rome, in RIDA 6, 1951, 83-101.
[47] Incerta, e fonte di un confronto serrato nella storiografia, è
la data di inizio di tale fenomeno. Secondo la cronologia tradizionale di H. Müller Karpe, Zur Stadtwerdung Roms, Heidelberg 1962, la nascita della
città-stato di Roma si collocherebbe nella seconda metà del VII sec. a.C.;
seguendo invece le nuove ipotesi di A.
Carandini, Nascita di Roma,
cit., passim ma sp. 498-499 (a cui
debbono aggiungersi le precisazioni di M.
Bettelli, in A. Carandini, op.
ult. cit., Appendice 2a, 595-598)
la fase della città in formazione inizierebbe dalla metà dell’VIII secolo a.C.
e continuerebbe per tutto il VII secolo a.C. Sull’ideologia che ha guidato la
ricerca storiografica delle ‘origini’ di Roma dall’Ottocento ad oggi, cfr. la
sintesi di L. Capogrossi Colognesi,
Storia delle istituzioni romane arcaiche,
Roma 1978, 13-28.
[48] L’intensificarsi degli scambi commerciali provocò un massiccio
inurbamento che segnò la fine della società aristocratica dei patres (M.
Torelli, Emporia arcaica.
Riflessioni a margine dell’“emporion” di Gravisca, in Atti del Convegno di Ravello (1987), passim); la massiccia urbanizzazione di Roma fu all’origine della
distinzione tra patriziato e plebe, minando l’antico sistema gentilizio (L. Capogrossi Colognesi, Storia delle istituzioni romane arcaiche,
cit., 51 ss. e 194 ss.); la “riforma serviana” (C.
Ampolo, La nascita della città,
in Storia di Roma, 1, Torino 1988, 218-231)
si realizzò nel corso del VI secolo a.C. ai tempi della cosiddetta ‘Roma
etrusca’ (A. Bernardi, La Roma dei re fra storia e leggenda, in
Storia di Roma, I, Torino 1988,
193-200); la lotta tra patrizi e plebei modificò l'organizzazione sociale e politica
del V e IV sec. a.C. (F. Cassola, Lo scontro fra patrizi e plebei e la
formazione della 'nobilitas', in Storia
di Roma, 1, Torino 1988, 451-481); la conoscenza giuridica, monopolio dei
pontefici, cominciò a ‘laicizzarsi’ investendo i nuovi gruppi dirigenti della res publica a partire dalla fine del IV
sec. a.C. (M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari
2001, 112 ss.)
[49] G. Crifò, L'esclusione dalla città. Altri studi
sull’‘exilium’ romano, Perugia 1985, 136.
[50] Sintesi in A. Brelich,
Introduzione alla storia delle religioni
(1965), rist. Roma 1991, 216-218, visione d'insieme in J. North, La religione
repubblicana, in Storia di Roma,
2, I, Torino 1990, 562-576; la scomparsa della dimensione magica dalla sfera
del ‘sacro’ è analizzata rigorosamente da H.
Fugier, Recherches sur
l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, sp. 105.
[51] B. Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale
romana in età regia, in Le délit
religieux dans la cité antique (1978), Rome 1981, 47.
[52] La vendetta esercitata dal gruppo offeso, come punizione
dell'omicidio per il periodo più remoto della storia romana, era già sostenuta
da Th. Mommsen, Römisches
Strafrecht, Leipzig 1899, 614. Vedi ora B. Santalucia, s.v. Omicidio (dir. rom.), in EdD
29, 1979 (= Id., Studi di diritto penale romano, Roma
1994, 107); per i rapporti con il mondo greco cfr. E. Cantarella, Studi
sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano 1976.
[53] Vedi la puntualizzazione di B.
Santalucia, s.v. Omicidio (dir.
rom.), cit., 110: «l’essere tali magistrati designati nelle fonti come quaestores parricidii anziché come
quaestores paricidii (con una sola “r”) deriva verosimilmente da una
confusione fatta da grammatici e dai retori della tarda Repubblica tra
l’arcaico paricidium (vendetta
sacrale esercitata dai parenti dell’ucciso) e il più recente parricidium (uccisione del genitore)».
[54] Cfr. S. Tondo, ‘Leges regiae’ e ‘paricidas’, Firenze
1973, 131-167.
[55] Per le interpretazioni del termine dolus, cfr. S. Tondo, ‘Leges regiae’ e ‘paricidas’, cit., 81
ss., del quale però non si condividono le conclusioni. Anche l’interpretazione
di A. Magdelain, ‘Paricidas’ (1984), ora in ‘Jus, Imperium, Auctoritas’. 'Etudes de
droit romain, Rome 1990, 528-530, per cui «dolo sciens morti duit» significherebbe l’uccisione con inganno,
non si sottrae alla caratteristica dell’intenzionalità. Sull’argomento ancora
alla nt. 63.
[56] A favore dell'alta datazione delle leges regiae, S. Tondo,
‘Leges regiae’ e ‘paricidas’, cit.,
9-86. Pur riconoscendone l'arcaicità del contenuto, colloca la prescrizione
regia successivamente alle XII Tavole C.
Lovisi, Contribution à l'étude de
la peine de mort sous la République romaine (509-149 av. J.C.), Paris 1999,
131, seguendo la singolare motivazione stilistica di A. Magdelain, ‘Paricidas’
(1984), cit., 530.
[57] Cfr. per tutti, B.
Santalucia, s.v. Omicidio (dir.
rom.), cit., 107-109 e Id.,
s.v. Pena criminale (dir. rom.), in EdD, 734 nt. 1. L'espressione, quindi,
indicherebbe la sanzione prescritta dalla legge di Numa e non l'estensione del parricidium (da intendersi come
uccisione di un parente, secondo i sostenitori di questa seconda tesi)
all'assassinio di un uomo libero. Ipotesi interpretativa, questa, che fu
dominante per un certo periodo di tempo (sull'intera questione con riferimenti
puntuali alla dottrina, cfr. B.
Santalucia, Diritto e processo
penale nell'antica Roma, Milano 1998, 16-19).
[58] Cfr. per tutti, con discussione della copiosa letteratura, E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Milano 1991, 323-325, la quale
indaga (326-329) anche sui modi utilizzati dai parenti della vittima per
eseguire la sanzione.
[59] Per un’origine molto risalente (epoca regia) dei quaestores, oltre alla testimonianza
citata nel testo, aggiungi Tac., ann.
11.22.4: Sed quaestores regibus etiam tum
imperantibus instituti sunt, quod lex curiata ostendit ab L. Bruto repetita.
Mansitque consulibus potestas deligendi, donec eum quoque honorem populus
mandaret; e Ulpiano D. 1.13.1pr. (lib.
singul. de off. quaest.): Origo
quaestoribus creandis antiquissima est et paene ante omnes magistratus.
Gracchanus denique Iunius libro septimo de potestatibus etiam ipsum Romulum et
Numam Pompilium binos quaestores habuisse, quos ipsi non sua voce, sed populi
suffragio crearent, refert. Sed sicuti dubium est, an Romulo et Numa
regnantibus quaestor fuerit, ita Tullo Ostilio rege quaestores fuisse certum
est: et sane crebrior qpud veteres opinio est Tullum Hostillium primum in rem
publicam indixisse quaestores. Colloca la magistratura all’inizio della
repubblica su base elettiva del popolo (Tacito parla di scelta consolare fino
al 447 a.C., cfr. M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
Napoli 1982, 14-15) Pomponio D. 1.2.2.23 (lib.
singul. ench.): Et quia, ut diximus,
de capite civis romani iniussu populi non erat lege permissum consulibus ius
dicere, propterea quaestores constituebantur a populo, qui capitalibus rebus
praeessent: hi appellabantur quaestores parricidii, quorum etiam meminit lex
duodecim tabularum (sul punto, con relativa bibliogr., cfr. L. Garofalo, La competenza giudiziaria dei ‘quaestores’ e Pomp. D. 1.2.2.16 e 23
(1985), ora in Appunti sul diritto
criminale nella Roma monarchica e repubblicana, Padova 1973, 71 ss.; Id.,
Il processo edilizio. Contributo allo
studio dei ‘iudicia populi’, Padova 1989, 20-21). Sull'antichità di tali
magistrati (cfr. K. Latte, The Origin of the Roman Quaestorship
[1936], in Kleine Schriften, München
1968, 359 ss.) e sul compito originario di «accertare la volontarietà del fatto
e di sovrintendere all'esercizio della vendetta», vedi B. Santalucia, s.v. Omicidio
(dir. rom.), cit., 110-111; Id.,
Diritto e processo penale nell'antica
Roma, cit., 22 nt. 48; R. Fiori,
‘Homo sacer’. Dinamica
politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996,
386 ss. e 492 s.)
[60] «Nelle società arcaiche la vendetta si presenta come la prima,
naturale forma di reazione contro il torto arrecato all'individuo. L'iniziativa
della persecuzione è lasciata alla stessa vittima o ai suoi familiari …» (B. Santalucia, Dalla vendetta alla pena, in Storia
di Roma, I, Torino 1988, 427); E.
Cantarella, I supplizi capitali in
Grecia e a Roma, cit., 325, giunge alla conclusione che l'autorizzazione
cittadina sottrasse l'uccisione della vittima alla iniziativa familiare e trasformò
i parenti «da vendicatori privati in agenti delegati della civitas».
[61] Seguo la versione del Servio auctus
o Danielino con la variazione, avanzata dallo Scaligero, di contione al posto di cautione o cantione (Josephus Scal. Ad
Fest. s.v. 'subici'). Sull'assetto
del testo, vedi ora C.A. Melis, 'Arietem offerre'. Riflessioni intorno
all'omicidio involontario in età arcaica, in Labeo 34, 1988, 137-141.
[62] In origine il comizio curiato e solo più tardi, nel periodo
delle XII Tavole, il comizio centuriato (cfr. l'efficace argomentazione di B. Santalucia, Dalla vendetta alla pena, cit., 443).
[63] Pur condividendo le preoccupazioni del Melis di rapportare il
termine imprudens al contesto
culturale di una consapevole ripartizione tra 'dolo', 'colpa' e 'imprudenza',
condividiamo le conclusioni dello stesso studioso che se di «responsabilità
oggettiva vera e propria non può parlarsi» nel testo di Servio si parla di un
gesto omicida non intenzionale (C.A.
Melis, ‘Arietem offerre’,
cit., 164-168).
[64] Cfr. S. Tondo, ‘Leges regiae’ e ‘paricidas’, cit.,
99-100 nt. 32 e 102 nt. 38.
[65] “Expier” cfr. Ernout-Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine, Paris 1967, 370. Se ne hanno esempi ancora in epoca storica in Val. Max. 1.7.3, dove
il sacrificio della vita di Publio Decio Mure stornò, nel 340 a.C., il pericolo
Latino da Roma (“ut is capite suo fata
patriae lueret”); in Liv. 10.28.13,
dove la devotio del console Publio
Decio procurò la vittoria ai Romani contro i Sanniti nella battaglia di Sentino
del 295 a.C.; in Gell., N.A. 4.5.2,
dove il verbo indica l’espiazione della contaminazione del fulmine per mezzo di
sacrifici Ob id fulgur piaculis luendum.
[66] Fest., "Subigere
arietem", 476, 18-20 L.: Subigere
arietem, in eodem libro [nel lemma
precedente Festo scrive: Antistius Labeo ait in commentario XV iuris pontifici]
Antistius esse ait dare arietem, qui pro
se agatur, caedatur.
[67] I Romani distinguevano due categorie di crimini: lo scelus inexpiabile e lo scelus expiabile. Nel primo caso la
divinità si riteneva placata con l'immediata messa a morte del reo (deo necari), come nel caso esaminato
dell'omicidio volontario; nel secondo caso invece la divinità poteva essere
placata (= piare) con l'offerta di un
capro espiatorio: il piaculum (per il
conforto dell'etimologia cfr. la v. "pius"
in Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue
latine, cit., 511), come nel caso dell'omicidio involontario. Sulla
funzione "sostitutiva" della vittima sacrificale, vedi ora le analisi
di R. Girard, La violenza e il sacro (1972), trad. it., Milano 1974 e Il capro
espiatorio, cit.
[68] Parte della dottrina, soprattutto tedesca, (vedi per tutti S. Tondo, ‘Leges regiae’ e ‘paricidas’, cit., 89-130) ha visto nella dazione
dell'ariete una vera e propria sanzione pecuniaria a favore della famiglia
della vittima (contra vedi le
critiche di E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma,
cit., 331). E' però innegabile, come già accennato nella nota precedente, la
funzione di "sacrificio sostitutivo" dell'intero atto. Ipotizza una
coesistenza delle due forme C.A. Melis,
'Arietem offerre', cit., 171-175.
[69] E' questo un dato che ricorre anche in altre fasi della
riflessione romana sulla pena. Nel III sec. d.C., ad esempio, il giurista
Callistrato scriveva che l'impiccagione dei briganti doveva effettuarsi negli
stessi luoghi da essi frequentati, non solo con finalità di 'prevenzione
generale' ma anche per ricompensare i parenti delle vittime: D. 48.19.28.15
(Callistratus, libro sexto de cognitionibus) Famosos latrones in his locis, ubi grassati sunt, furca fingendos
compluribus placuit, ut conspectu deterreantur alii ab isdem facinoribus et solacio sit cognatis et adfinibus
interemptorum eodem loco poena reddita, in quo latrones homicidia fecissent
(le sottolineature sono mie). Sul testo, cfr. R.
Bonini, I ‘libri de cognitionibus’
di Callistrato, I, Milano 1964, 104-106, con bibl. a nt. 76. Sull'interesse
dei Romani per la funzione della pena, soprattutto nel periodo del principato
in seguito all'influenza del pensiero filosofico greco, cfr. O. Diliberto, La pena tra filosofia e diritto nelle 'Noctes Atticae' di Aulo Gellio
(1989), in O. Diliberto (a cura
di), Il problema della pena criminale tra
filosofia greca e diritto romano, Napoli 1993, 121-172 (ivi altra bibliografia).
[70] E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma,
cit., 331-332, avanza la tesi che l’uccisione dell’animale fosse portata a
termine dai parenti della vittima. Sul punto sarebbero dirimenti due documenti
testuali se non fossero oltremodo lacunosi: Cinc., off. iuriscons. fr. 3 (Bremer, I,256) e Fest., “Subici ar<ies>” 470, 19-23 L., sui
quali cfr. R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 14 nt. 56.
[71] Sul concetto romano pax
deorum, intesa come conseguenza del "rispetto di regole giuridico-religiose
comuni a soggetti divini e umani e, in qualche misura, sovraordinate rispetto
agli dèi", vedi R. Fiori, ‘Homo sacer’, cit., 101-178 (ivi bibliografia).
[72] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale,
Torino 1960, 166.
[73] S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana,
I, Milano 1981, 294. Un rapporto del tipo do
ut des (cfr. D. Sabbatucci, ‘Sacer’, in Studi e materiali di storia delle religioni, XXIII (1951-'52), 98).
[74] J. Scheid, La religione a Roma, Bari 1983, 8. Significativa
è, dallo stesso angolo di visuale, la conclusione, sempre di Scheid (op. ult. cit., 58), a proposito di uno
dei tratti peculiari della religione romana repubblicana: «Il sacro primeggia
sul politico, lo precede e lo fonda, tracciando la forma in cui il ‘politico’
si dischiude».
[75] Bisognerà attendere la profonda crisi del III secolo a.C., per
vedere emergere questo valore, tipico segno della religione di fede (cfr. J. Scheid, La religione a Roma, cit., 116 e 160).
[76] XII Tab. 8.9 (bibl. in B.
Santalucia, Diritto e processo
penale nell'antica Roma, cit., 58 nt. 43).
[77] Le circostanze del danneggiamento sono indicate con i due verbi pavisse e secuisse. Mentre il secondo non presenta difficoltà interpretative,
riferendosi alla falciatura furtiva del grano (secare = tagliare); il primo può dar adito a due ipotesi: se
riferito a pascere (‘pascolare’)
alluderebbe al gregge portato a pascere di notte in un campo coltivato, se
invece viene ricondotto a pavere
(‘spaventare’) allora alluderebbe al «comportamento di chi danneggiava l’altrui
raccolto ‘spaventandolo’ con canti magici» (E.
Cantarella, I supplizi capitali in
Grecia e a Roma, cit., 213).
[78] Sulla magistratura all’epoca delle XII Tavole, vedi B. Albanese, Il processo privato romano delle ‘legis actiones’, Palermo 1987, 25
nt. 67, 94-95 nt. 317 e, per il testo di Plinio, 128 nt. 439.
[79] Il caso dell’impubere è stato di recente rivendicato da D. Mantovani, Il pretore giudice criminale in età repubblicana (1989), in Athenaeum 68, 1990, 36 nt. 58, come esempio
testuale di amministrazione della giustizia criminale da parte della
magistratura nel periodo delle XII Tavole.
[80] B. Santalucia, Diritto e processo penale nell'antica Roma,
cit., 56 nt. 33.
[81] La regola si ricavato da Cic., top. 64: Nam iacere telum, voluntatis
est, ferire quem nolueris, fortunae. Ex quo aries subicitur ille in vestris
actionibus: "si telum manu fugit, magis quam iecit", dove si
distingue tra gli eventi voluti e non di un atto (adde Cic., Tull. 21.51 e or. 3.39.158).
[82] Parla di «riaffermazione della illiceità» V. Giuffre', La repressione criminale nell’esperienza romana, Napoli 1984, 15.
[83] Analizzato in quest'ottica da B.
Santalucia, s.v. Omicidio, cit., 113 e nt. 18.
[84] Cfr. D. Mantovani, Il pretore giudice criminale in età
repubblicana, cit., 30 nt. 39.
[85] L'episodio è riportato anche da Cicerone (rep. 2.36.61), che lo colloca nel secondo anno del decemvirato (450
a.C.): Qui cum X tabulas summa legum
aequitate prudentiaque conscripsissent, in annum posterum decemviros alios
subrogaverunt, quorum non similiter fides nec iustitia laudata. Quo tamen e
collegio laus est illa eximia C. Iuli, qui hominem nobilem, L. Sestium, cuius
in cubiculo ecfossum esse se praesente corpus mortuum diceret, cum ipse
potestatem summam haberet, quod decemvirum unus sine provocatione esset, vades
tamen poposcit, quod se legem illam praeclaram neglecturum negaret, quae de
capite civis Romani nisi comitiis centuriatis statui vetaret. Ritiene leggendario l’episodio A. Magdelain, De la coercition capitale du magistrat supérieur au tribunal du peuple
(1987), ora in ‘Jus, Imperium,
Auctoritas’. Études de droit romain, Rome 1990, 587;
vedi però L. Garofalo, Ancora sul processo comiziale “de capite
civis” (a proposito di un recente studio) (1988), ora in Id., Appunti
sul diritto criminale nella Roma monarchica e repubblicana, cit., 229 nt.
234, sull’essere «significativo che l’annalistica non sentisse come assurdo
giuridico l’agire apud populum dei
supremi magistrati per la persecuzione di un crimine capitale comune».
[86] «Il popolo, da mero spettatore dell'esecuzione della vendetta,
divenne a poco a poco giudice, e i quaestores
– creati per procedere agli accertamenti necessari a giustificare l'uccisione
del reo – si trasformarono gradualmente in promotori dell'accusa» (B. Santalucia, Dalla vendetta alla pena, cit., 439-440).
[87] Un elemento questo ancora presente all’epoca, nonostante il
processo di "laicizzazione" del diritto innescato dalla formazione
della civitas (vedi sul punto B. Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, cit.,
39-49). La sacralità della punizione è presente anche in altre ipotesi
criminose, come ad esempio quelle colpite dalla 'sacertà' (sull'homo sacer vedi ora R. Fiori, ‘Homo sacer', cit.).
[88] Ne è un esempio la repressione del furto disciplinata dalle XII
Tavole: era autorizzata l'uccisione del reo se sorpreso a rubare di notte (fur nocturnus) o, di giorno, se armato (fur diuturnus qui se telo defendit).
Cfr. R. La Rosa, La repressione del 'furtum' in età arcaica,
Napoli 1990, 57 ss.).
[89] F. Cordero, ‘Criminalia’. Nascita dei sistemi penali,
Roma-Bari 1986, 13.
[90] E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma,
cit., 343.
[91] Determinante la ricerca di D. Mantovani,
Il pretore giudice criminale in età
repubblicana, cit., secondo cui fin dall’alta repubblica, accanto al popolo
riunito in assemblea (comitiatus maximus),
anche il pretore figurava quale giudice di un interesse pubblico.
[92] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo
penale, cit., 393.