Segnaliamo quattro monografie in materia di amministrazione
provinciale, di cui la prima consiste in una speculazione sulle peculiarità
delle provinciae Caesaris: L. Loreto, Il comando militare nelle province procuratorie 30 a.C.-280 d.C.
Dimensione militare e dimensione costituzionale [Pubblicazioni della
Facoltà di Giurisprudenza della Seconda Università di Napoli 12], Napoli,
Jovene, 2000; le ultime tre pongono in particolare l’accento su aspetti
prettamente tributari: M. Genovese, Gli interventi edittali di Verre in materia
di decime sicule [Università di Catania. Pubblicazioni della Facoltà di
Giurisprudenza. Nuova Serie 162], Milano, Giuffrè Editore, 1999; G. D. Merola, Autonomia locale governo imperiale. Fiscalità e amministrazione nelle
province asiane [Pragmateiai.
Collana di studi e testi per la storia economica, sociale e amministrativa del
mondo antico 5], Bari, EDIPUGLIA, 2001; A. M. Demicheli, L’editto XIII di Giustiniano. In tema di amministrazione e fiscalità
dell’Egitto bizantino, Torino, Giappichelli, 2000.
La monografia del Loreto
si apre con Guerra e costituzione
nell’impero romano. Hintze ‘revisited’ e altre riflessioni sul metodo, in
cui si illustra, con diverse riconsiderazioni, la teoria dello storico Otto
Hintze espressa nel suo «fondamentale e tuttora insuperato saggio» del secolo
scorso (Staatsverfassung und
Heeresverfassung, 1906), che individuava nello stato due dimensioni,
interna ed esterna, tra loro interagenti, e cioè il sistema costituzionale e
l’amministrazione militare. L’A. si propone di utilizzare questo modello,
finora mai applicato alla storia antica, per una ricerca sulle province
procuratorie imperiali romane, in quanto «esso risulta non meno denso di
sviluppi; in particolare, tra l’altro, esso consente addirittura di superare
problemi altrimenti aporistici». Il Loreto si propone quindi di procedere ad
una interpretazione storica complessiva della materia in questa duplice
prospettiva. Nel secondo capitolo, Le
province procuratorie. Ricostruzione morfologico-funzionale di una figura
dell’amministrazione imperiale, l’A. si propone l’individuazione della
collocazione geostrategica dei territori provinciali procuratori, e dei loro
caratteri identificativi. A tal fine presenta un quadro generale del rapporto
tra province procuratorie e stanziamenti militari (i cui dati si ritrovano
nella prima appendice, Tavola sinottica
delle province procuratorie). Dall’evenienza statistica emerge come in
generale le guarnigioni delle province in esame non fossero unità legionarie,
ma truppe «ad alta flessibilità logistica, tatticamente non destinate a
sfociare in battaglie campali». Questo dato risulta compatibile con l’analisi
della schematizzazione delle «coordinate geostrategiche e
morfologico-funzionali», da cui appare che la provincia procuratoria fosse un
territorio non completamente pacificato, caratterizzato da una amministrazione
militare transitoria. Infatti, generalmente, in queste zone provinciali si era
in presenza di una «endemica insicurezza militare – tipica dello stato di guerriglia
-, non di minaccia o di stato di guerra in senso proprio e maggiore»,
situazione questa che non richiedeva un intervento di truppe legionarie. Da
ciò, dunque, affiora chiaramente come «denominatore comune» delle province
procuratorie, mai colto dalla dottrina, fosse la dimensione militare: questo
fattore geomilitare, infatti, si traduceva sul piano giuridico costituzionale.
La ricerca, nella prospettiva indicata, continua con lo studio del ‘Procurator Augusti et pro legato’.
Titolatura, costituzione, competenze militari del governatore procuratore,
in cui si rivisita l’ipotesi di O. Hirschfeld (Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diokletian, 2a ed.,
Berlin 1905), secondo il quale il governatore procuratore per il comando delle
legioni necessitava dell’attribuzione del potere prolegatario, eventuale e non
intrinseco alla carica. Con l’apporto di nuovi elementi emergenti da diverse
fonti non considerate dallo studioso tedesco, si afferma che il titolo di
prolegato era «un potere connesso all’ufficio in quanto tale e perciò esclude la necessità di uno specifico
atto di conferimento di competenza da parte dell’imperatore in connessione con
(ciasc)uno specifico invio delle truppe». Attraverso il cambio nella tipologia
delle guarnigioni militari nelle province proconsolari, da truppe ausiliarie a
legionarie, dovute all’assetto geostrategico, si produceva una variazione del
tipo di governo, e quindi, in tale occasione la dimensione costituzionale
acquistava, nel prospettato rapporto interattivo con quella militare, un «ruolo
genetico primario». Nel quarto capitolo si analizza il ‘Procurator Augusti praeses provinciae’. Le sottotipologie della figura
della provincia procuratoria, per comprendere appieno la carica del
governatore procuratorio, le cui funzioni si attribuivano espressamente a
prefetti o a procuratori. Anche questa alternativa nel conferimento dipendeva
dallo stato del territorio provinciale. In tal modo le due figure, prefetti e
procuratori, non costituivano «una rigida successione evolutiva rispetto alla
morfologia amministrativa di un territorio», ma si ponevano tra loro in una
stabile relazione «di dialettica strutturale». In Storia di interazioni. Guerra e costituzione, si conferma l’ipotesi
dell’esistenza di un nesso causale tra la morfologia delle province e la
configurazione costituzionale del governatore, in quanto la geografia militare
e fisica si spiegava in un «processo di specifica differenziazione di figure
costituzionali». Il capitolo conclusivo, Pensare
l’impero, è sede di riflessioni intorno alla ricostruzione effettuata del
ruolo delle province procuratorie, una veste non casuale, la cui «natura
consapevolmente pensata, cioè formalizzata a livello istituzionale …
rappresenta in sé una tessera importante nel mosaico del sistema di governo e
di difesa dell’Impero, e dunque, ricostruttivamente, un elemento di non
secondaria rilevanza a dimostrazione della sua pianificazione centrale».
Il Genovese si occupa del corpus edittale sulle forniture annonarie
di C. Verre, propretore della provincia siciliana, sulla base di una rilettura
di quanto Cicerone affermava nel processo contro il governatore. Nel primo
capitolo si mostra Il sistema di
riscossione delle decime tra normazione ieronica e normazione romana. Qui
sulla base della testimonianza di Cicerone vengono individuati aspetti delle
regole in vigore al tempo di Verre per la riscossione del vectigal ex agris siciliano che si possono ricondurre alla lex Hieronica, la regolamentazione di
Gerone II, re di Siracusa, confluita poi nella lex Rupilia. Innanzitutto, sono da riportare alla normativa
siracusana le caratteristiche del vectigal
ex agris siculo, e dei soggetti onerati. L’onere contributivo era
costituito da una decuma, cioè una contribuzione in natura pari al
decimo del raccolto stagionale. Questa imposta gravava su tutti gli aratores siculi, proprietari e
conduttori. Anche le regole per la riscossione degli appalti della decima sono
riconducibili alla normativa sicula, secondo cui i coltivatori annualmente
dovevano subscribere di fronte ai
magistrati locali: questa registrazione era finalizzata sia ad una
pianificazione dell’esazione, sia ad una adeguata articolazione delle offerte
per l’appalto dei tributi. Le modalità degli appalti rispetto al tempo e al
luogo delle aste di assegnazione non erano stabilite dalla normazione ieronica
e neppure dalla «composita e diacronica normativa romana di recezione». Le
aggiudicazioni delle decime sui cereali venivano messe all’asta a Siracusa dal
governatore, mentre le aste per le decime sugli altri prodotti agricoli erano
attribuite da due questori per i loro rispettivi territori di competenza,
contro il principio generale per cui gli appalti dei vectigalia si dovevano svolgere nell’Urbe. Di matrice sicula erano anche i criteri di ammissione dei
soggetti ammessi alla aggiudicazione degli appalti. Infatti, rispetto al
generale regime romano, l’aggiudicazione delle decime non era riservata ai soli
cittadini romani, ma anche ad appaltatori siculi. Inoltre, si precludeva la
partecipazione alla gara dell’assegnazione alle forti società di pubblicani.
Cicerone testimonia l’esistenza di accordi degli appaltatori con i
rappresentanti locali, ed anche con i singoli aratores, patti che servivano a fissare l’ammontare del cereale da
versare come decima, attraverso l’assunzione di una obbligazione. Questo
principio, probabilmente di origine siracusana, venne mantenuto anche sotto il
governo di Verre, nonostante «i tentati ‘depistaggi’ ciceroniani».
Il secondo capitolo
è dedicato a Le disposizioni contenute
nell’editto ‘de professione’, ed è una analisi di un noto passo delle Verrine (2.2.12.32-13.34) contenuto nel liber ‘de praetura Siciliensi’, che
riguarda l’assetto giurisdizionale della provincia Sicilia, da cui emerge una
normativa autonoma per le controversie che sorgevano tra aratores e decumani, in cui almeno una parte fosse sicula. Cicerone
attacca duramente l’operato di Verre in materia di decime, in particolare nel
terzo liber ‘de frumento’. Secondo l’oratore il propretore, per ottenere
illeciti profitti, avrebbe privilegiato i decumani nella riscossione attraverso
un editto, l’edictum de professione,
che conferiva speciali poteri al magistratus
Siculus per legittimare gli appaltatori ad esigere coattivamente l’imposta
in veste di esecutori. Tuttavia, secondo l’A., al di là dell’accusa
ciceroniana, il magistrato locale non era «affatto ridotto al rango di
burattino alle dipendenze dei decumani». Inoltre, il coltivatore, vittima di
una riscossione superiore al dovuto, poteva ricorrere ad un iudicium in octuplum adversus decumanos,
anche se questo rimedio è considerato dall’oratore frutto di mera propaganda.
Peraltro, esisteva anche un giudizio in
quadruplum che il decumanus poteva
intentare contro l’arator. Oltre a questi
procedimenti, nell’editto era presente una clausola “si uter volet recuperatores dabo”, secondo cui in presenza di
richiesta ex parte, Verre avrebbe
nominato personalmente i recuperatori. Il Genovese, differentemente a quanto
affermato sin ora dalla dottrina, considera questa clausola come una
disposizione di chiusura dell’editto de
professione, un intervento unitario comprensivo dei tre enunciati normativi
in materia. Per ciò, la clausola esplicava la propria portata
giuridico-processuale solo nei iudicia
in octuplum e in quadruplum previsti dall’editto. In tal modo Verre cercava di
ampliare la giurisdizione romana, in quanto presentava l’autorità romana come
tutela alternativa nelle controversie sorte tra Siculi. Dunque, non si può
rinvenire nell’editto una illecita ingerenza, affermata da Cicerone, poiché
Verre «mostrava, anche nelle sue innovazioni, ed indipendentemente da quali
potessero essere le sue concrete intenzioni o presunte velleità depredatorie,
di muoversi più dentro che fuori le linee ispiratrici della politica romana
verso la Sicilia». Nelle cause in cui una parte era romana, con la clausola si
dava la possibilità al cives di
scegliere se sottoporsi ad un giudizio locale o alla giurisdizione romana.
Nel terzo capitolo, Il diverso editto di Verre sulla ‘iugerum
professio’ e correlazione con l’editto sul ‘vadimonium extra forum’, si
studia la norma edittale che regolava la iugerum
professio, la dichiarazione degli aratores
sul numero di iugeri posti alla
semina, e sul tipo di sementi utilizzate, a cui fanno riferimento le Verrine.
Nell’opera ciceroniana si evidenziano alcuni dati testuali che portano a
ritenere la iugerum professio un atto imposto da Verre, che
si sarebbe affiancato alla subscriptio
aratoris sancita dalla lex Hieronica,
ormai «svuotata di ogni sua autonoma portata». L’obbligo ieronico, rimasto in
vigore per motivi demagogici, avrebbe perso la sua funzionalità per una
notevole diminuzione numerica dei piccoli coltivatori, sui quali si basava il
sistema colturale siculo del periodo della legislazione ieronica. L’intervento
di Verre, quindi, appare come una contromisura alla diminuzione degli introiti
tributari legata al calo del numero dei coltivatori, in quanto prendeva piede
una cerealicoltura su larga scala. L’editto, che introduceva la iugerum professio, attribuiva
all’autorità locale il compito di accogliere la dichiarazione, e ciò «avrebbe
fatto assumere all’obbligo stesso un ulteriore crisma di ufficialità e di responsabilità,
ed allo stesso tempo, trattandosi dello stesso organo adibito alla subscriptio, il nuovo istituto sarebbe
meglio apparso quale sostanziale perfezionamento e completamento di quella».
L’editto era corredato di apposito iudicium
de iugerum professione sotto la
giurisdizione inderogabile del propretore. Funzionale al iudicium era un’altra innovazione edittale di Verre, il vadimonium extra forum, secondo cui su
domanda del decumano il coltivatore era tenuto, pena rigide sanzioni in caso di
rifiuto ingiustificato, a prestare una promessa formale di comparizione al
giudizio nel foro scelto dall’attore. Anche l’edictum sul vadimonium extra
forum rispondeva ad esigenze di ottimizzazione amministrativa, in quanto si
impediva che per il giudizio si dovesse attendere il conventus del governatore nel forum
naturale del convenuto. Il capitolo seguente prende in considerazione L’editto ‘ne tollat ex area’, l’editto ‘ante
Kalendas Sextiles’ e la situazione degli ‘aratores’ romani in Sicilia.
Questi editti furono mirati a risolvere il diffondersi in Sicilia del
comportamento ostruzionistico tra gli aratores
Romani, per la maggior parte appartenenti al ceto equestre, nei confronti
della riscossione dei decumani. Con l’editto ‘ne tollat ex area’ si proibiva lo spostamento del frumento in area prima che si concludessero gli
accordi con i decumani, per fissare l’onere retributivo. Si può presumere che
il secondo editto di Verre (ante Kalendas
Sextiles) disponesse il termine ultimo per il trasporto ai porti d’imbarco
del frumentum ex decumis, norma la
cui emanazione venne causata forse «dall’ennesimo atto ostruzionistico in tal
senso denunciato dai decumani». La necessità di simili disposizioni sorgeva
dalla preclusione delle parti precettive dell’editto de professione, in particolare per l’esperimento del iudicium in quadruplum, nei confronti
degli aratores di cittadinanza
romana, i quali «avevano conservato uno status
giuridico privilegiato», per il fatto che nei loro confronti non sussisteva
alcun potere esecutivo-coercitivo del magistrato siculo. Dunque, prima dei due
editti i coltivatori romani non erano costretti da alcuna norma, se non da
«qualche arrogante abuso» dei decumani, a raggiungere l’accordo con gli
appaltatori. Questa situazione emerge chiaramente dall’esame di episodi narrati
da Cicerone che hanno protagonisti aratores
romani vittime di abusi. L’A. procede in seguito alla Ricostruzione dell’evoluzione storica complessiva alla luce di una
realistica valutazione della portata innovativa degli interventi di Verre,
capitolo in cui vengono collocati cronologicamente i provvedimenti del
propretore. Negli editti verrini, alla luce di tutte le evenienze emergenti
dall’indagine, risultano, come innovazioni alla normativa precedente, i poteri
attribuiti al magistratus Siculus nel
procedimento esecutivo, e la facoltà delle parti nei iudicia in octuplum e in
quadruplum di ottenere dal propretore la datio recuperatorum. Nonostante queste innovazioni, il corpus edittale di Verre rimase
all’interno della logica della disciplina ieronica precedente, confermando le
prerogative degli incaricati alla riscossione già assicurate dalla normativa
sicula, di cui il propretore seguì la linea politica.
L’opera della Merola è dedicata all’organizzazione
della provincia d’Asia, una ricerca che, a detta di T. Spagnuolo Vigorita,
curatore della Premessa, porterà «una
nuova luce» alla storia amministrativa e tributaria della regione asiana, e
anche al tema generale della complessiva organizzazione provinciale dell’impero
romano. Nell’Introduzione si ricorda
come alcuni aspetti della struttura provinciale romana siano ancora da
chiarire, e tra questi, in particolare, il rapporto tra l’organizzazione
tributaria e quella amministrativa, strutture che spesso si confondevano tra
loro. L’A. vuole confrontarsi proprio su quest’ultimo profilo, per cui si è
proposta di studiare la regione asiana, di cui l’ampio numero di città autonome
rende «più interessante l’esame del rapporto dialettico tra governi locali e
governo centrale». Il primo capitolo esamina la Storia tributaria e amministrativa della ‘provincia Asia’, la cui
creazione «rappresentò una svolta nella politica estera romana», in quanto Roma
passò all’amministrazione diretta della regione, rispetto alla prassi di
controllare l’Oriente attraverso stretti legami con sovrani-clienti. La diretta
annessione della regione pergamena avvenne grazie al testamento di Attalo III,
morto nel 133 a.C., il quale nominava erede del proprio regno il popolo romano,
che «pur con qualche titubanza accettò l’eredità». Non esistono dubbi
sull’autenticità di questo atto, a cui le fonti accennano, sebbene il gesto del
monarca fosse di difficile interpretazione fin dall’antichità. L’esitazione di
Roma si dimostra anche dal fatto che solo nel 131 intervenne contro la rivolta
ad opera del fratellastro di Attalo, scoppiata immediatamente dopo la morte del
monarca. La provincializzazione del territorio venne avviata nel 129 a.C.,
sebbene non coincidesse con il regno attalide, in quanto alcune zone, specie
quelle con scarsa urbanizzazione, vennero affidate ai monarchi alleati, contro
l’usurpatore. Nello stesso anno venne emanato, secondo la Merola, il senatusconsultum de agro Pergameno, che
incaricava un magistrato di dirimere la contesa sorta tra publicani e i Pergameni. L’autorità romana si pronunciò in favore
di Pergamo, una delle città a cui il testamento attalide concedeva la libertà,
forse goduta in precedenza, e che implicava anche l’immunità tributaria. La
datazione del provvedimento è ancora oggetto di discussione, in quanto una
collocazione cronologica precedente al 123-122 a.C. sembrerebbe incompatibile
con la data della lex Sempronia Asiae,
ascritta a Gaio Gracco, con cui si
introduceva il sistema d’appalto delle imposte dell’Asia, soggetta alla
imposizione della decima. Tuttavia, secondo l’A., riportare il senatoconsulto
al 129 a.C. non stravolgerebbe la cronologia dei fatti, in quanto esistono
esempi in cui le societates publicanorum
sfruttavano i territori anche prima della emanazione di una legge specifica. La
politica romana in Asia sarà influenzata successivamente dalle guerre
mitridatiche, durante le quali si impegnarono «le maggiori personalità del
tempo». In seguito alla pace di Dardano, Silla ripartì la regione asiana in 44
distretti, in quanto una suddivisione più capillare del territorio facilitava
una migliore gestione dei tributi; inoltre, sostituì temporaneamente le città
alle società dei pubblicani nella riscossione delle imposte, per ottenere una
esazione più rapida, poiché la guerra civile richiedeva con urgenza sostanziosi
capitali. Dopo il suicidio di Mitridate, avvenuto nel 63 a.C., Pompeo
procedette alla sistemazione delle nuove acquisizioni; in seguito al nuovo
riassetto le regioni asiane si presentarono divise nelle province Bitinia-Ponto,
Siria e Cilicia, e in diversi regni vassalli «che rappresentavano una sorta di
fascia di protezione». In campo tributario Pompeo mirò a rendere le città
responsabili della gestione e riscossione delle imposte; i pubblicani tuttavia
non furono esclusi, in quanto, secondo una prassi che si stava affermando,
questi invece di trattare con i contribuenti, si accordavano direttamente con i
centri urbani. Il sistema della lex
Sempronia venne trasformato da Cesare nel 48/47 a.C., il quale escluse i
pubblicani, sostituendovi le città, e mise al posto della decima una somma
fissa da consegnare al proconsole, di 1/3 inferiore rispetto alla cifra versata
in precedenza. Durante i conflitti civili l’Asia fu sottoposta a costanti
imposizioni dai vari generali, per cui assunse debiti pubblici, rimessi
successivamente da Ottaviano. Il sistema fiscale cesariano rimase
sostanzialmente immutato nel principato fino alla riforma tributaria
dioclezianea, della quale la Merola mostra «il risvolto, per così dire,
pratico» attraverso l’analisi di documenti epigrafici che riportano
registrazioni catastali dell’Asia, databili tra la fine del III ed inizi del IV
secolo.
I capitoli seguenti si incentrano sulle “strutture” amministrative
in rapporto al sistema tributario. Il ruolo delle città nell’imposizione e
nella riscossione delle imposte viene esaminato in «una duplice prospettiva»,
sia per l’esazione dei tributi da versare nelle casse pubbliche, sia per
l’imposizione di oneri fiscali destinati alle spese civiche. Per quanto attiene
alla prima prospettiva, si ricorda come nell’area orientale fin dalla
repubblica la città si poteva sostituire o affiancare alle societates publicanorum, per mezzo di accordi con i rappresentanti
provinciali dei pubblicani. Attraverso le pactiones
le comunità urbane fissavano l’importo delle imposte e le riscuotevano per
versarlo alle compagnie dei pubblicani. Con l’uso di queste convenzioni,
probabilmente invalso con Pompeo, si ridimensionò il ruolo dei pubblicani in
Oriente, fino alla loro eliminazione da parte di Cesare, il quale introdusse la
riscossione diretta. Questo tipo di esazione che coinvolgeva le strutture
cittadine viene testimoniata, relativamente alle imposte doganali, dal Monumentum Ephesenum. Secondo
l’interpretazione dell’A., questa legge doganale d’Asia stabiliva che in
assenza di personale addetto alla riscossione del portorium, i viaggiatori dovevano dichiarare alla massima autorità
della città più vicina le merci che avevano varcato il confine ai fini della
riscossione della XXXX portus Asiae.
Da questo emerge un rilevante ruolo dei magistrati locali per la registrazione
nei loro uffici delle merci importate e per l’attestazione della regolarità
della dichiarazione. Per quanto riguarda la facoltà delle comunità urbane di
riscuotere imposte a proprio vantaggio, espressione di una autonomia
finanziaria non inevitabilmente connessa allo status giuridico delle città, si procede ad un excursus sui dazi municipali. In età imperiale l’autonomia nella gestione
finanziaria venne notevolmente limitata, e i dazi municipali divennero una
concessione dell’imperatore. Nella tarda antichità essi vennero ulteriormente
ridimensionati attraverso provvedimenti imperiali tesi al controllo e alla
disciplina delle entrate cittadine. Il terzo capitolo, Diocesi-‘conventus’, è un approfondimento della geografia
amministrativa della provincia d’Asia, con un esame della testimonianze
letterarie ed epigrafiche del ruolo dei conventus.
Le fonti non indicano chi introdusse in Oriente il sistema delle diocesi, e
questo silenzio indicherebbe un fenomeno graduale «frutto di un’evoluzione, che
con procedure e tempi differenti si istituzionalizza», per cui col tempo il conventus si allontanò dalla sua
originaria funzione giurisdizionale. In particolare, dal Monumentum Ephesenum emerge che questi distretti, di cui si
conserva l’elenco dei nomi, possedevano compiti giurisdizionali e un certo
ruolo per l’organizzazione tributaria dell’area. Nel capitolo seguente si passa
allo studio delle forme organizzative non urbane presenti nella provincia
d’Asia, Terra regia, demoi e ethne,
in rapporto al sistema tributario. Queste comunità, originarie dall’antico
regno di Pergamo, non organizzate in forme municipali, vennero ripartite dal
governo romano nelle diocesi, e furono gravate dalle imposizioni tributarie
similmente ai centri urbani.
Seguono poi quattro appendici, La
‘lex portus Asiae’; Il contenuto
della ‘lex portus Asiae’; Le stazioni doganali della ‘XXXX portus
Asiae’; Il testo della ‘lex portus
Asiae’, dove si dà ampio spazio alla norma contenuta nell’epigrafe di
Efeso, Monumentum Ephesenum. Il
documento, ritrovato nel 1976 ed edito di recente, nel 1989, riporta la lex portus Asiae, fatta pubblicare da
Nerone nel 62 d.C., la cui parte originale, alla quale furono aggiunte
successive clausole, fu redatta nel 75 a.C.
La ricerca della Demicheli,
incentrata sull’Editto XIII (De urbe
alexandrinorum et aegyptiacis provinciis) emanato da Giustiniano, si
inserisce nel tema più ampio dell’amministrazione periferica giustiniana, di
cui vuole contribuire a enucleare alcuni caratteri, anche se legati a questioni
prettamente peculiari e contingenti dell’Egitto bizantino. L’A. procede con
l’esposizione della tradizione manoscritta del testo, inserito nel Codice
Marciano greco 179, ed edito per la prima volta nel 1558, di cui riporta
l’edizione Schöll-Kroll e la sua traduzione dell’opera in chiusura del libro. A
causa di diverse corruzioni il documento presenta problemi di integrazione e di
datazione. La Demicheli data il provvedimento intorno al 538-539, in quanto lo
considera l’ultimo di numerosi interventi giustinianei volti a ridisegnare la
struttura territoriale e amministrativa dell’area orientale. Infatti, l’Editto
regolamentava l’assetto tributario della diocesi egiziana, la cui situazione
era di particolare gravità, a causa degli alti livelli di disordine, incuria e
corruzione, che impedivano il regolare afflusso delle imposte nelle casse
pubbliche. Per l’esatta comprensione della ratio
della disposizione normativa si procede ad un excursus della storia amministrativa dell’Egitto, a partire dal
dominato. In seguito alle riforme dioclezianee, l’Egitto venne ripartito in
province ricomprese nella diocesi d’Oriente. Si separarono i poteri civili
dalle prerogative militari dei magistrati periferici, e il ruolo della
prefettura venne ridotto alla sola provincia di Aegyptus, mentre il potere militare venne attribuito al dux limitis Aegypti. Nel corso del IV
secolo seguirono altri interventi, quali gli ulteriori frazionamenti
amministrativi del territorio, e l’inserimento delle circoscrizioni nella nuova
diocesi d’Egitto, senza tuttavia che ne rimanesse alterato l’impianto
dioclezianeo. Durante il secolo successivo si ebbero forti segnali di futuri
cambiamenti radicali, perché oltre all’ulteriore aumento del numero delle
province egiziane venne riunito temporaneamente il potere civile con quello
militare, sulla base di specifiche esigenze. Per quanto riguarda l’età
giustinianea, la Notitia apposta a
Nov. 8 del 535, informa come la provincia di Aegyptus venne duplicata, nonostante la costituzione non
riguardasse l’Egitto, in quanto smantellava le diocesi Asiana, Pontica e
d’Oriente, ne emerge un piano generale di riforma del settore orientale, in
cui, da ultimo, si inserisce proprio l’Editto XIII. Infatti questo imponeva la
soppressione della diocesi egiziana, limitava il potere del praefectus augustalis alla sola città di
Alessandria, pur attribuendogli anche il potere militare, che apparteneva in
precedenza al dux limitis Aegypti.
Perciò, la norma dispose l’accorpamento degli organici che in precedenza
afferivano al dux limitis Aegypti e
al praefectus augustalis, e
riorganizzò e ristrutturò gli uffici, nel tentativo di dare funzionalità
all’amministrazione periferica. A fronte di questo nuovo assetto delle cariche,
nell’Editto XIII si fissarono le competenze rispetto alla esazione tributaria e
si accordava la priorità, sulla base della destinazione, a determinate imposte.
Tra queste in primo luogo erano indicate le imposte di grano dirette al
vettovagliamento di Costantinopoli e, in minore misura, di Alessandria. La
precedenza riservata a questi tributi era «da ascrivere, oltre che alla loro
importanza legata al carattere di alimento base rivestito dal grano, anche e
soprattutto al fatto che la loro riscossione fosse il più impegnativo banco di
prova dell’efficienza del nuovo apparato amministrativo». Così, si stabilirono
precise e dettagliate regole per la riscossione e l’invio del grano, operazioni
queste sovraintese per la loro circoscrizione dai nuovi funzionari, titolari di
potere civile e militare. Precise modalità venivano prescritte anche per la
corresponsione di una adeguata retribuzione ai navicularii preposti al trasporto delle derrate annonarie da Alessandria
a Costantinopoli. L’Editto prescriveva anche i criteri per la gestione dei
fondi destinati alle spese locali, atti cioè a coprire il compenso e
l’approvvigionamento delle truppe di stanza, la retribuzione dei governatori, e
le spese dei diversi centri civici. Per rendere operante questa riforma,
nell’Editto Giustiniano stabiliva sanzioni tese a impedirne l’inapplicazione, e
regole per la concessione di alcune pratiche che spesso portavano ad abusi,
come il lógos asylías, facoltà del
governatore nell’ambito delle controversie civili a promettere una immunità
temporanea. Proprio in questo campo, l’Editto estese il lógos ai debitori fiscali, ai quali l’autorità pubblica prometteva
una dilazione del pagamento del dovuto, con lo scopo «di porre sotto controllo
una pratica che rischiava di compromettere gravemente gli interessi del fisco».
I primi due numeri della collana, diretta da F. Costabile, Minima epigraphica et papyrologica
supplementa, per la casa editrice «L’Erma» di Bretschneider, sono dedicati ad
epigrafi attinenti all’amministrazione romana della penisola iberica durante il
principato: F. Costabile-O. Licandro, Tessera Paemeiobrigensis. Un nuovo editto di
Augusto dalla «Transduriana provincia» e l’imperium proconsulare del princeps.
Rendiconto preliminare, Roma 2000; S.
Lazzarini, Lex metallis dicta.
Studi sulla seconda tavola di Vipasca, Roma 2001.
La prima
pubblicazione studia una disposizione augustea datata 14-15 febbraio del 15
a.C., di cui, alla fine del 1999, è stata rinvenuta una copia bronzea nel sito
dell’antica Bergidum (l’attuale
Bierzo), in Ispagna. Nella Prefazione si
sottolinea come l’opera sia un rendiconto preliminare, frutto di «un lavoro di
pochissimi mesi», che non esaurisce i problemi storico-giuridici emergenti
dalla scoperta: tuttavia, la rilevante entità del nuovo documento comporta che
questo venga «subito portato alla conoscenza della comunità scientifica
romanistica internazionale».
Il primo capitolo, Il documento epigrafico, che assieme
al secondo e al quarto è elaborato dal Costabile, offre diverse informazioni sulla nuova
epigrafe riguardanti la notizia della scoperta, lo stile, la morfologia e il
luogo di confezionamento, oltre a proporre il testo e la sua traduzione in
italiano. L’editto, trascritto nel documento, venne redatto a Narbona, in
Gallia, con questo Augusto disponeva, attraverso una «novazione tributaria»,
l’esenzione dai tributi per gli abitanti del castellum di Paemeióbriga ex
gente Susarrorum, rimasti fedeli a Roma, a discapito degli abitanti del castellum degli Allobrigiaecini ex gente Gigurrorum. Il princeps ne inviò copia a Lucio Sestio Quirinale, legato nella Transduriana provincia, fino ad ora
sconosciuta, il quale a sua volta trasmise la copia ai diretti interessati. Il
nostro documento sarebbe la trascrizione della tabella cerata inviata dalla
Gallia, in quanto la scarsa familiarità con la lingua latina attesta una
identità iberica dell’incisore; questa riproduzione probabilmente venne affissa
nel castellum della comunità
gentilizia dei Paemeiobrigenses, beneficiaria della disposizione
augustea.
In I problemi di storia
provinciale romano-iberica, si tracciano alcune linee intorno
all’istituzione, l’assetto territoriale e l’ordinamento «della nuova ed
effimera provincia Transduriana». Per quanto attiene agli abitanti della
provincia, la Tessera Paemeiobrigensis
fa riferimento a «due sottogruppi etnici, o organizzazioni soprafamiliari», gli
Allobrigiaecini e i Paemeiobrigenses, sconosciuti prima della scoperta del documento. I primi
appartenevano ad un gruppo affine ai Brigaecini,
e dovevano essere posti in una distinta zona finitima al luogo del ritrovamento
dell’epigrafe. Il sito non dista da Pombriegro, il cui nome ricorda i Paemeiobrigenses, «al punto che si è
naturalmente indotti a credere si tratti d’una sopravvivenza di quella
toponomastica preromana, ora restituitaci dall’editto augusteo». L’origine di
questa popolazione, tuttavia, resta ancora ignota.
Il documento si inserisce nell’ambito del secondo conflitto
cantabrico, «e, benché risalga alla fase in cui le operazioni dovevano essere
ancora in corso, testimonia già l’esito ineluttabile cui era votata la
resistenza degli Astures e dei Cantabri». In tale contesto storico,
probabilmente intorno al 27 a.C., venne istituita la provincia Transduriana,
per motivi di controllo militare di una regione ricca di risorse minerarie. I
confini di questa provincia autonoma, di cui la Tessera Paemeiobrigensis è l’unica testimonianza, sono rivelati dal
nome: «al di là del fiume Durius (oggi
Duero)». Il governo venne affidato a legati augustei di rango consolare. La
provincia fu soppressa probabilmente intorno al 13 a.C., in occasione del
riordino della penisola iberica, sempre per esigenze squisitamente militari, in
quanto «si valutò che, per il pericolo di estensione dei focolai di rivolta,
nuocesse sottrarre la nuova regione al governo unitario della Tarraconensis». Dal documento epigrafico
emerge anche in dettaglio il sistema contributivo romano nella penisola
iberica. I tributi venivano versati dai castellani alla gens di appartenenza, che a sua volta versava questi all’esattore
provinciale.
Nel capitolo Il proconsolato
del principe e le province, elaborato dal Licandro, si afferma come il
nuovo documento imponga «la revisione di certezze e punti consolidati», in
quanto «vengono meno inveterate convinzioni sulla natura formale delle profonde
innovazioni, attraverso cui Augusto archiviò le istituzioni repubblicane».
Infatti la Tessera Paemeiobrigensis
attesta l’assunzione del titolo di proconsole da parte di Augusto,
contrariamente a coloro che la ritengono una innovazione traianea. Inoltre,
nell’epigrafe emerge che l’imperium
proconsulare venne acquistato dal princeps
attraverso l’assunzione della relativa carica, a fronte di una diffusa
dottrina che afferma l’investitura dei poteri disgiunti dalla magistratura.
Alla luce di questa nuova scoperta, l’A. sostiene la necessità di una rilettura
delle fonti relative all’affermarsi del principato, poiché il nuovo documento è
«una straordinaria occasione per tentare di sciogliere qualche nodo, o proporre
alcuni spunti di riflessione che riaprono un dibattito, partendo da premesse
assai meno incerte rispetto al passato». Secondo il laconico racconto di Dione
Cassio, dopo il 23 a.C. Augusto avrebbe rivestito un imperium proconsulare maius et infinitum, ed un imperium decennale sulle province non
pacificate; da questa affermazione è scaturito un dibattito dottrinale sulla
esistenza di due diversi imperia, a
seconda del tipo di territorio provinciale. Tuttavia, una più attenta lettura
dello storico niceno avrebbe «già potuto offrire seri appigli testuali» per
ipotizzare l’imperium proconsolare
augusteo nelle provinciae non pacatae,
assunzione ora dimostrata dalla Tessera
Paemeiobrigensis, che attesta questo potere per la provincia Transduriana,
dal territorio appunto ancora non pacificato. Dunque, il nuovo documento
epigrafico fornisce «una rappresentazione del sistema di governo territoriale
romano all’indomani del 23 a.C. in cui, accanto alle province pacificate governate
dai proconsules, si collocavano le prouinciae non pacatae governate dal princeps, anch’egli in qualità di proconsul».
Sempre sulla base della testimonianza indistinta di Dione Cassio
la dottrina ha sostenuto il rinnovo del solo imperium sulle province non pacatae.
Il Licandro però, avendo escluso l’esistenza di due tipi di imperia, ritiene che l’oggetto dei
rinnovi sarebbe stato l’imperium
proconsulare, argomentazione avvalorata dal «dato che nel 15 a.C. Augusto
fosse proconsole, ben 8 anni dopo il presunto conferimento vitalizio dell’imperium proconsulare disgiunto dalla
carica». I passi dionei asseriscono il carattere perpetuo del proconsolato
augusteo, in quanto questo fu tenuto ininterrottamente «attraverso rinnovi
continui, volti ad evitare che il princeps
dovesse costantemente deporre e riassumere l’imperium per rispettare la procedura repubblicana», almeno da un
punto di vista formale.
Un’ulteriore questione concerne l’assunzione contemporanea della
carica di console e di proconsole da parte di Augusto, affermata in Cass. Dio
53.17.4. Con la rilettura del brano dioneo attraverso la Tessera Paemeiobrigensis, prova
della carica proconsolare di Augusto, l’A. ritiene di poter affermare che: «a)
il princeps, pur essendo consul, assumeva la carica di proconsul e l’imperium proconsulare
nelle sue province; b) proprio per questo, il princeps fuori dall’Urbe veniva appellato proconsul; c) indubbiamente la carica di consul e quella di proconsul
potevano anche cumularsi».
In seguito, la riflessione si sofferma sul «tralatizio
convincimento dottrinario» per cui, durante il principato augusteo, il governo
territoriale si articolava in province imperiali e senatorie. Il Licandro,
oltre ad affermare «il carattere improprio della denominazione di province
senatorie», in luogo di populi Romani,
ricorda come grazie al nuovo documento epigrafico si possa porre in dubbio la communis opinio. La nuova provincia
Transduriana non era ancora pacata ed era governata da un proconsole: «Dunque
le prouinciae populi Romani erano
governate da proconsules scelti
secondo le procedure ordinarie dal senato. Nelle restanti il princeps, in qualità di proconsul, governava attraverso suoi legati: ed anche ciò nel tradizionale
solco dei principî e degli schemi affermatisi nell’ultimo secolo della respublica».
Oggetto dell’opera del Lazzarini
è un’epigrafe il cui testo in lingua latina, da datare intorno al 117-138,
venne rinvenuto nei primi del ’900, in un’area mineraria del Portogallo. Si
tratta di un regolamento minerario romano, frutto di alcune riforme adrianee,
che viene identificato con la lex
metallis dicta, menzionata nella lex
metalli Vipascensis. Dopo aver illustrato Il documento epigrafico, si riportano l’indicazione delle varie edizioni, e il testo con la traduzione
italiana a fronte. Nel primo capitolo sono delineati i tratti essenziali del
generale contesto della lex metallis
dicta. Per questo, si presenta un quadro del complesso fenomeno minerario
nella Hispania romana, composto da
numerosi elementi interconnessi: «la natura geologica dei luoghi, la loro
posizione geografica, le vicende della politica di espansione romana, la
tecnica mineraria, il regime giuridico, i profili fiscali». L’A. procede poi a
completare la descrizione del quadro generale con l’esposizione del regime dei
giacimenti argentiferi del Laurion, nell’Attica, esempio importante per la
comprensione del fenomeno minerario, i cui «criteri economico-finanziari di
base» possono essere messi a confronto con quelli vipascensi, «purché si eviti
ogni facile, quanto infondata, tentazione di cogliere stringenti analogie o di
trasferire arbitrariamente singole soluzioni giuridiche ad altre epoche e ad
altri ambiti».
Il secondo capitolo mostra i profili tecnico-amministrativi della lex metallis dicta analizzata in ogni
sua parte. Per quanto attiene alla praescriptio,
nella tavola se ne conserva solo la conclusione: Ulpio Aeliano suo salutem. La formula di saluto era rivolta al
destinatario dell’epistula, Ulpius
Aelianus, il quale con tutta probabilità era un liberto imperiale, investito
della carica di procurator metalli
Vipascensis, che durante l’età alto imperiale affiancava in posizione
subordinata il procurator di rango
equestre. Il Lazzarini esclude la tesi secondo la quale il testo della lex metallis dicta provenisse dal procurator a rationibus, «il cui
contributo appare verosimile sia consistito nella sola comunicazione al
competente funzionario periferico delle innovazioni normative disposte da
Adriano», e afferma che il documento proveniva dagli uffici del procurator provinciae Lusitaniae. Dopo
aver dedicato spazio ai funzionari della Hispania
romana, si procede all’analisi dei singoli paragrafi del testo, ponendo in
rilievo l’assetto tributario. Il fisco romano non sfruttava direttamente le
miniere di Vipasca, ma si riservava il controllo e il diritto di partecipare ai
proventi provenienti dalla pluralità di modeste concessioni, attribuite ad
imprenditori, chiamati coloni o occupatores dalla lex metallis dicta. Qui i due sostantivi non sono usati come
sinonimi, nonostante la critica ne abbia avanzato l’identità, ma indicherebbero
due diversi tipi di coltivatori minerari, riconducibili alla categoria generale
indicata nel testo come is qui puteos
aget. Il colonus era un soggetto
la cui attività di sfruttamento minerario si collegava ad un atto proveniente
dal fisco, mentre l’occupator era
colui che coltivava la miniera attraverso l’usurpatio
puteorum, e solo con il riscatto poteva trasformare il rapporto in colonìa.
La seconda legge di Vipasca si inseriva nella politica adrianea tesa a
promuovere uno sfruttamento intensivo dei giacimenti di argento, e a regolare
le ricerche di ulteriori giacimenti attraverso «prospezioni sviluppate dal
condotto di scolo delle acque, al fine di contenere i costi e di accedere a
luoghi altrimenti non raggiungibili senza la realizzazione di complesse opere
di scavo, sproporzionate per un’indagine comunque altamente aleatoria». Così si
contemperava l’interesse per un’attività mineraria costante e l’attenzione per
la ricerca: «Ciò consente di cogliere sempre più compiutamente il senso non
solo giuridico, ma anche economico e tecnologico della ‘lex metallis dicta’».
Tra le recenti pubblicazioni segnaliamo Ager Campanus. Atti del convegno internazionale La storia dell’ager Campanus, i problemi
della limitatio e sua lettura attuale, Real sito di S. Leucio, 8-9 giugno
2001, a cura di G. Franciosi, Napoli, Jovene editore, 2002, opera che, sebbene
circoscritta allo studio del territorio di Capua, offre un quadro dell’amministrazione
nella penisola italica da parte di Roma. Nella Premessa, il curatore sottolinea che il volume è frutto di un
proficuo dibattito e «di un coro a due voci» tra storici del diritto e
archeologi. Per questo motivo la pubblicazione «ha richiesto un accurato e
paziente lavoro organizzativo, anche per la diversità di impostazione tra gli
scritti». La relazione di apertura è di L.
Monaco la quale procede alla Presentazione del P.R.I.N. “Il processo di
privatizzazione dell’‘ager publicus’ e i riflessi della normativa agraria
sull’‘ager Campanus’”, vasto progetto di ricerca interdisciplinare
finanziato dal MURST, in cui si inserisce il convegno in oggetto. Il lavoro è
stato ripartito in tre distinte unità, dalle cui indagini risulta nettamente
«come la proprietà fondiaria, almeno su larga scala, si affermi relativamente
tardi nella storia di Roma». Il controllo dello sfruttamento dell’ager publicus rimase per lungo tempo ai
gruppi gentilizi, e la sua graduale privatizzazione contraddistinse la storia
agraria. Delle tre unità di ricerca una si occupa dell’ager Campanus, dove per lungo tempo non vi fu una grande espansione
della proprietà optimo iure, motivo
per cui l’indagine in materia «costituisce un efficace laboratorio di ricerca
per risposte di portata più ampia». Nella seconda relazione G. Franciosi tratta de I
due misteri dell’‘ager Campanus’. Il primo arcano, emerso dalla lettura del
Corpus Gromaticorum e da alcuni
ritrovamenti archeologici, è rappresentato dall’andamento rovesciato dei
cardini e dei decumani dell’ager Campanus
rispetto agli schemi della disciplina
Etrusca. Tuttavia, la direzione invertita della limitatio era frutto di un adattamento richiesto dalla natura del
suolo, per il regime delle acque nell’agro campano, e rispondeva alla prassi
diffusa degli agrimensori romani di derogare alla disciplina Etrusca per mero pragmatismo. La scoperta del lapis Graccanus avvenuta nel 1854, nei
pressi di S. Angelo in Formis, dà origine al secondo “mistero”, in quanto il
ritrovamento pone in discussione le affermazioni di Cicerone (Cic., de leg. agr. 2.29.81), per il quale l’ager Campanus non fu oggetto di
assegnazioni coloniarie da parte dei Gracchi e di Silla. L’A. non disattende
l’asserzione ciceroniana, ma dimostra come il cippo graccano avesse solo
carattere ricognitivo. Seguono poi cinque relazioni che delineano un spaccato
della storia agraria campana. O. Sacchi, I limiti e le trasformazioni dell’‘ager
Campanus’ fino alla ‘debellatio’ del 211 a.C., oltre a descrivere i limites dell’agro campano, dalla
fondazione di Capua all’avvento del dominio romano, mostra rilevanti aspetti
della trasformazione del territorio in esame. Innanzitutto, l’A. esclude che
l’antico ager Campanus identificasse
la Campania, poiché ancora nel periodo tardo repubblicano questo ager indicava in senso stretto il
territorio di Capua. L’estensione terminologica fu la «conseguenza di
un’astrazione culturale compiuta a posteriori» e che trovò «un senso
storicamente compiuto solo a partire dall’epoca del Principato». Oltre a questa
mutazione terminologia, il territorio di Capua, dalla fondazione della città ad
opera degli Etruschi, subì delle trasformazioni del paesaggio sia attraverso
l’urbanizzazione di influenza greca, sia in seguito alla conquista romana, che
comportò «un’ideologia di appropriazione e organizzazione degli spazi
conquistati, fondata sulla cultura delle colonie e delle centuriazioni». L’assetto dopo il 211 a.C.: le ricognizioni
di Postumio e di Lentulo viene illustrato da A. Manzo, la quale si occupa della sistemazione del
territorio campano dopo la deditio di
Capua. Secondo le fonti (Liv. 26.16; 26.33-34; Cic., de leg. agr. 1.16.19; 2.32.88) l’agro campano divenne ager publicus, con un severo
provvedimento del senato del 210 a.C., per cui si espropriarono i Capuani dai
loro possedimenti. Tuttavia, Roma non perseguì sino in fondo questa dura
politica, economicamente svantaggiosa per l’erario, per cui il senatoconsulto
del 210 si applicò modestamente, per lasciare ai Capuani le terre gravate da
ingenti decime. Per un miglior sfruttamento dell’ager Campanus si procedette a locazioni censorie e vendite
questorie, eppure, questa soluzione di ripartire le terre coltivabili non
produsse gli effetti sperati, in quanto i privati ampliavano i confini delle
loro assegnazioni occupando abusivamente porzioni di ager publicus. Così, il senato inviò nel territorio campano il
console Lucio Postumio Albino nel 173 a.C. con il compito di procedere alla recognitio. Il magistrato portò a
compimento il proprio incarico, ma questo non venne attuato nella pratica, per
cui nel 165 si riaffidò la missione al pretore Publio Cornelio Lentulo, insieme
al compito di redigere la forma agri
Campani. Il lavoro di Lentulo ebbe maggiore fortuna rispetto a quello del
suo predecessore, dato che valse fino all’epoca sillana. Nella Nota minima sui Gracchi e l’‘ager Campanus’,
A. Russo indaga sugli esiti della
politica agraria graccana nel territorio campano. L. Minieri affronta la questione de La ‘rogatio agraria’ di
Servilio Rullo, la proposta del tribuno della plebe del 64 a.C., mai giunta
ad approvazione popolare, che, nell’ambito di una riforma più ampia, destinava
l’ager Campanus alla ripartizione in
lotti e alla istituzione di una colonia. Questa volontà di colonizzare l’agro
campano rappresentava un «elemento di novità» rispetto alla precedente politica
agraria perseguita dal partito dei populares,
in quanto tale ager veniva escluso
dalle colonizzazioni per la sua fertilità, e dunque per gli alti introiti nelle
casse erariali. Proprio per queste elevate riscossioni delle locazioni
censorie, la proposta di Rullo venne fortemente avversata da Cicerone,
espressione dei notevoli interessi dell’aristocrazia senatoria. Nella sua relazione, La
legislazione agraria di Cesare, G. M.
Oliviero procede ad un esame delle frammentarie fonti relative
all’intervento normativo cesariano per l’assegnazione dell’ager Campanus, attraverso cui «può dirsi sostanzialmente conclusa
la lunga e travagliata vicenda delle lotte agrarie repubblicane». Fa seguito il
lavoro di A. De Simone, La Banca Dati: l’archivio delle conoscenze e
le prospettive di ricerca, il quale illustra un progetto, promosso dalla
Facoltà di Giurisprudenza della Seconda Università di Napoli, che si prefigge
di sistematizzare contributi e conoscenze relativi alla centuriazione dell’Italia, e nello specifico della
Campania. Il programma prevede la creazione di un data-base e la costituzione
di una cartografia numerica del territorio campano, di cui l’A. mostra i
vantaggi e le fasi per la realizzazione. In I
catasti della Campania settentrionale: problemi di metodo e di datazione, R. Compatangelo Soussignan ripercorre le
critiche mosse all’opera collettiva dell’équipe
dell’Università di Besançon, Structures
agraires en Italie centro-méridionale, pubblicata nel 1987. L. Capogrossi Colognesi, ‘Pagi’ sanniti e ‘centuriatio’ romana, ricorda come Capua fu «svuotata
della sua stessa fisionomia», dopo la privazione dei diritti politici sancita
da Roma, contrariamente alla tradizionale propensione a favorire le istituzioni
urbane. Capua divenne «un ospizio abitativo dei contadini, destinato a servire
la campagna», e in tal modo si sovvertì la visione tradizionale dei Romani per cui
la campagna era subordinata alla città. In tale contesto, secondo alcune teorie
vi fu una riemersione di arcaiche e autoctone strutture rurali, identificate
con i pagi. Tuttavia, queste posizioni non trovano l’attestazione delle fonti,
secondo le quali, in seguito alla privazione dei diritti politici, nel
territorio di Capua fu organizzato in pagi e vici. Tali figure territoriali
vennero interpretate dalla dottrina tedesca a cavallo tra l’800 e il 900 come
equivalenti, o necessariamente correlate. Queste corrispondenze son state
riprese, senza una ricostruzione adeguata, dagli storici moderni, i quali si
sono serviti «di schemi definitori e di concetti sostanzialmente fuorvianti,
perché falsamente esplicativi». Per questo, l’A. sottolinea come la connessione
tra pagus e vicus sia «un’ipotesi legittima più dei moderni che un’informazione
degli antichi». In realtà, la coesistenza di pagi e di vici si può spiegare con
il fatto che Roma, nell’espandere l’impero, non utilizzò un modello uniforme,
ma fece uso «di forme insediative e di assetti organizzativi … consapevolmente
gestiti».
Le seguenti relazioni di archeologi si sono incentrate sulla
centuriazione e sugli interventi fondiari che emergono dalle evenienze degli
scavi: S. Quilici Gigli, Sulle vie che ricalcano gli antichi assi
centuriali, afferma per l’ager
Campanus l’indipendenza tra viabilità urbana e gli assi della centuriazione
romana; M. De Nardis, Viabilità campana e scritti gromatici,
propone uno studio della rete viaria romana, posta in connessione con la centuriatio, sulla base degli elenchi
tardoantichi delle zone centuriate dell’Italia centromeridionale, in
particolare delle civitates Campaniae,
detti Libri coloniarum o regionum, e degli scritti agrimensori; G. L. Soricelli, Divisioni agrarie romane e occupazione del territorio nella piana
nocerino-sarnese, ricostruisce gli interventi fondiari nell’agro
nocerino-sarnese in età romana. Questi territori, devastati dall’eruzione
vesuviana del 79 d.C., vennero recuperati all’indomani della catastrofe. Con la
Introduzione alle relazioni sugli scavi
in atto, S. De Caro procede ad
una presentazione di quanto compiuto dalle ricerche archeologiche nel
territorio campano. Questi interventi «hanno comportato una serie straordinaria
di scoperte archeologiche la cui valutazione richiederà molti anni perché i
nuovi dati hanno interessato quasi tutte le epoche». I contributi degli
archeologi che fanno seguito alla introduzione si sono incentrati su specifici
territori dell’ager Campanus. E. Laforgia – A. De Filippis riportano i
dati, relativi al periodo classico, dei recenti scavi archeologici, per la
comprensione della Centuriazione a
Gricignano d’Aversa. Ne emerge un utilizzo funzionale dell’area fin da
remota età. Nella sua
comunicazione, Un territorio per due città:
‘Suessula’ e Acerra, D. Giampaola
ha esposto lo stato attuale delle ricerche archeologiche nell’agro acerrano, in
cui erano situati gli antichi centri di Acerra
e Suessula. G. Tagliamonte – F. Miele, L’‘ager Allifanus’, si sono occupati di limitatio romana nel territorio dell’antica Allifae (l’odierna Alife), e del suo impianto urbano. P. Gargiulo ha studiato Il territorio di ‘Liternum’, colonia
romana fondata nel 194 a.C. V. Sampaolo, L’area tra Volturno e Agnena. Quali elementi
per la ‘limitatio’?, analizza i dati archeologici dell’area fra il Volturno
e la Agnena in rapporto ad una possibile centuriazione. Chiude l’opera A. Cernigliaro con Un’“area metropolitana” nel Settecento? La decomposizione del “telaio
feudale” e la rigenerazione civile dell’‘ager Campanus’. Qui si evidenziano
le innovazioni della politica immobiliare dei Borboni, con il recupero del
rapporto città-campagna, in netta contrapposizione con i tradizionali schemi
feudali.